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Identità e abbigliamento

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Identità e abbigliamento
La finestra sulla mente
Identità e abbigliamento
di Gaia Vicenzi
Psicologa Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale
William James, famoso psicologo di fine
‘800, così scriveva: “Il vecchio detto che la
persona è composta di tre parti, il corpo,
l’anima e i vestiti, è molto più che un modo
di dire. Ci siamo così appropriati dei nostri
vestiti e ci identifichiamo così fortemente
con essi che ci sono poche persone le quali,
chiesto di scegliere tra l'avere un bel corpo
ricoperto di vesti perennemente squallide
e sporche e l’avere una brutta forma e imperfetta sempre perfettamente vestita, non
esiterebbero un attimo prima di dare una
risposta decisiva.” (Principles of Pshychology, vol 1, 1890, p.292).
Innanzitutto, occorre specificare che, par-
lando di vestiti, si fa un generale riferimento
al look, ovvero l’insieme delle modificazioni
e/o degli accessori usati da una persona
nel comunicare con il proprio corpo agli altri (vestiti, accessori, cosmetici, acconciatura, tatoo…)
La ricerca ha dimostrato come il vestito
influenzi in modo sostanziale il comportamento umano, attraverso due componenti.
La prima è relativa al fatto che il modo in cui
ci abbigliamo incide sul nostro umore ed è
ben documentato come le persone esprimano il proprio stato d’animo ed il proprio
sé attraverso gli abiti.
La seconda è relativa al fatto che il modo in
cui siamo vestiti influenza i comportamenti
di chi interagisce con noi.
Per quanto riguarda la prima componente,
la maggioranza della gente vede gli abiti
più spesso come una fonte di emozioni positive, quando questi aiutano a rimandare
un’immagine gradevole del sé (sia quando
enfatizzano certi aspetti del corpo che piacciono sia quando camuffano aspetti del
corpo che sono considerati come difetti).
Già nel 1959, in un ospedale della California, partiva un programma di intervento su
un gruppo di donne depresse e caratterizzate da un’autostima molto bassa. Tale
progetto di Fashion Terapia poneva le sue
basi sull’assunto che, attraverso la cura del
look, si sarebbe potuto migliorare la condizione psicologica delle pazienti e i risultati
ne hanno dimostrato l’efficacia.
Indipendentemente dall’esperienza dell’acquisto di un abito, l’indossare qualcosa in
cui ci sentiamo non solo a nostro agio ma
anche gradevoli, determina in modo importante il nostro senso di sicurezze e, quindi,
il modo in cui interagiamo con gli altri.
In un esperimento condotto da Adam e
Galinsky, diverse persone ottenevano risultati migliori in compiti di performance
quando indossavano un camice medico
rispetto a quando non lo indossavano,
quasi che la percezione di un maggiore
status aumentasse effettivamente la propria competenza.
La seconda componente, ovvero il modo
in cui la nostra immagine a livello di look
influenza il comportamento altrui, è ben
documentata da una serie di studi che dimostrano come la prima impressione che
diamo agli altri ne determina in modo sostanziale le reazioni.
Per esempio, nell’ambito scolastico è dimostrato come gli insegnanti stimino l’intelligenza degli alunni, a partire dai primi
contatti con gli stessi, in base al modo in
cui sono abbigliati e lo stesso accade negli alunni che stimano la professionalità
dei docenti in base al loro modo di vestirsi.
Quando un professore parte dal presupposto che un allievo sia intelligente, è molto
più probabile che vada a confermare questa sua assunzione, recuperando sempre
più informazioni per sostenerla e, quindi,
convincendosi in modo progressivo della
veridicità dell’ipotesi iniziale.
Inoltre, in diversi contesti lavorativi, l’abbigliamento mostrato dalle persone ne definisce la percezione di competenza da parte
degli altri e ne stabilisce anche il grado di
affidabilità con cui gli altri li percepiscono.
In sintesi, dato l’assoluto collegamento fra
identità e vestiti, è importante non sottostimare l’importanza dei secondi nell’ausilio di una percezione positiva di sé, senza
identificare nel solo look l’essenza del proprio essere ma, di contro, senza banalizzare
la sua portata.
NOVEMBRE • DICEMBRE 2013
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