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1 IL FONDO DI CREDITO DIRETTO (DIRECT LENDING FUND
IL FONDO DI CREDITO DIRETTO (DIRECT LENDING FUND) MASSIMO BIASIN e MAURIZIO SCIUTO1 Sommario: Premessa ― SEZIONE I – PROFILI GIURIDICI ― 1.Il fondo di credito fra normativa vigente e previgente. ― 2. La nuova normativa secondaria. Quale tipo di fondo per il credito diretto? ― 2.1 Ammissibilità di un FIA di credito diretto, puro o misto ― 2.2.- Focalizzazione della presente analisi sui fondi comuni di investimento ― 2.3 La natura chiusa del fondo di credito ― 2.4 Fondi di credito non riservati ― 2.5 Fondi di credito riservati ― 3. Specificità del FIA di credito diretto rispetto ad altri “nuovi” veicoli di credito diretto alternativo a quello bancario ― 3.1 Gli altri veicoli di credito diretto “alternativo” ― 3.2. Società assicurative e SACE ― 3.3 Società di cartolarizzazione ― 3.4 Specificità del fondo di credito diretto ― 3.5. Interferenze con le attività riservate a banche e intermediari ex art. 106 t.u.b. ― 4. L’operatività del fondo di credito diretto ― 4.1 Le forme tecniche dell’attività di finanziamento del Fia: applicabilità della disciplina sulla trasparenza bancaria e tendenziale assimilazione delle fattispecie. ― 4.2. Compiti del depositario ― 5. Scarti disciplinari e vantaggi competitivi del fondo di credito diretto (soprattutto se riservato) ― 6. I fondi di “minibond” (profili normativi) ― SEZIONE II – PROFILI ECONOMICI ― 7. Fondi di credito e fondi di minibond in una prospettiva economica ― 8. Elementi di differenziazione tra fondi di credito e di minibond ― 9. Archetipo operativo dei fondi di credito e implicazioni regolamentari ― 10. Profili di costo e rendimento dell’investimento in crediti ― 11. Fattori di criticità potenziale associati all’operatività e regolamentazione dei credit funds ― 12. Cooperazione con banche o intermediari finanziari (cd. servicing)? ― 12.1 Profili economici ― 12.2 Profili normativi: «esternalizzazione» delle funzioni e possibili conflitti di interesse ― 13. Altri possibili conflitti di interessi Premessa ― È noto come la propensione del legislatore italiano a favorire l’ampliamento dei canali di finanziamento non bancario alle imprese sia in atto, su larga scala, almeno a partire dalla riforma organica del diritto delle società di capitali del 2003, essendo poi proseguita, in un contesto di sempre più acuta stretta del credito bancario, attraverso la previsione di nuovi strumenti di finanziamento ― pur sempre cartolarizzato ― come quello dei cd. minibond. Una tale propensione ha marcato però un salto qualitativo nel momento in cui si è espansa verso un ambito, come quello dell’erogazione diretta del credito, tradizionalmente oggetto di riserva a favore di banche o di altri intermediari finanziari regolati dal Testo Unico Bancario 2. Così introducendo (non importa ora se l’animo del legislatore fosse ispirato da 1 Sebbene frutto di riflessione comune, i paragrafi da 1 a 6 nonché 12 e 12.2 sono attribuibili a Maurizio Sciuto, i paragrafi da 7 a 11 e 12.1 a Massimo Biasin. La Premessa e il paragrafo 13 sono stati condivisi dagli autori. Lo scritto è destinato ad un volume di Assogestioni dal titolo Profili evolutivi della disciplina sulla gestione collettiva del risparmio, a cura di R. D’Apice, di prossima pubblicazione. 2 D. lgs. 1° settembre 1993, n. 385, Testo Unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, e d’ora in avanti citato come: “t.u.b.”. 1 una visione di ampio respiro o spinto soltanto dall’emergenza economica a concedere maggiori spazi al cd. «shadow banking») un elemento di possibile riconfigurazione sistematica dell’ordinamento finanziario. E comunque ponendo, sin d’ora, l’esigenza di alcuni coordinamenti applicativi. In particolare, i fondi di credito diretto (nella terminologia anglosassone: direct lending funds, o credit funds in senso stretto) e di minibond (insieme ai primi indicati, più genericamente, come credit funds in senso lato) descrivono una forma di finanza non bancaria ammessa di recente nel nostro ordinamento (la prima) ovvero novellata negli ultimi anni (la seconda), funzionale allo sviluppo di operatori specializzati capaci di affiancare l’intermediazione tradizionale, in primis bancaria, nell’offerta di capitale, variamente declinato, alle imprese e alle piccole e medie imprese (PMI), più specificatamente. In tale contesto, il presente capitolo propone una disamina sia giuridica che economica delle caratteristiche istituzionali e operative di investimento del fondo di credito diretto – anche in rapporto ai profili differenziali e innovativi rispetto al più tradizionale fondo di minibond – funzionale a delinearne i principali elementi di favore, ma anche di criticità. In particolare, l’analisi si concentra sui fondi di credito diretto in ragione dei tratti maggiormente innovativi che li caratterizzano e del potenziale ruolo che essi potrebbero svolgere nel contesto industriale italiano, contraddistinto dal peso delle piccole e medie imprese per le quali l’offerta di strumenti di debito cartolari, quali i minibond, anche se più semplici e meno strutturati rispetto alle forme obbligazionarie tradizionali, potrebbe comunque risultare eccessivamente sofisticata e costosa. SEZIONE I – PROFILI GIURIDICI 1 — Il fondo di credito fra normativa vigente e previgente. L’art. 22, comma 5°, del d.l. 91/20143, ha modificato l’art. 1, comma 1°, lett. k), t.u.f. 4 , introducendo una nuova definizione degli Organismi di D.l. 24 giugno 2014, n. 91 (cd. decreto sviluppo), convertito con modifiche dalla l. 11 agosto 2014, n. 116. 3 2 tInvestimento Collettivo (Oicr), descrivendoli come «organismi…. il cui patrimonio è (…) investito in strumenti finanziari (…), crediti, inclusi quelli erogati a valere sul patrimonio dell’Oicr, partecipazioni o altri beni mobili o immobili». Il d.l. 14 febbraio 2016, n. 18 5 , ha integrato poi tale definizione precisando che i crediti così erogati potranno esserlo solo “a favore di soggetti diversi dai consumatori”; e introducendo un nuovo “Capo IIquinquies” rubricato “Oicr di credito”, comprendente gli artt. da 46-bis a 46-quater t.u.f., il primo dei quali – rubricato “Erogazione diretta di credito da parte di FIA italiani” – ribadisce che “I FIA italiani possono investire in crediti, a valere sul proprio patrimonio, a favore di soggetti diversi da consumatori, nel rispetto delle norme del presente decreto e delle relative disposizioni attuative adottate ai sensi degli articoli 6, comma 1, e 39”. La possibilità, così sancita per legge, che un Oicr possa impiegare il proprio patrimonio erogando credito diretto, e non solo rilevando crediti preesistenti, rappresenta un significativo progresso (già auspicato negli ultimi anni a fronte di un sempre più preoccupante fenomeno di credit crunch 6 ) rispetto ad un quadro normativo previgente che, se non altro 4 D. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (d’ora in avanti citato come: “t.u.f.”), ampiamente modificato, oltre che dal decreto menzionato alla nota precedente, altresì dal d. lgs. 4 marzo 2014, n. 44, attuativo (ma in realtà soltanto dopo l’emanazione, avvenuta nel 2015 con ampio ritardo rispetto ai termini previsti dalla direttiva comunitaria, della normativa regolamentare ricordata nelle note seguenti) della «Direttiva 2011/61/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2011 sui gestori di fondi di investimento alternativi, che modifica le direttive 2003/41/CE e 2009/65/CE e i regolamenti (CE) n. 1060/2009 e (UE) n. 1095/2010», e cioè della direttiva europea cd. «Aimfd» in materia di gestori («Gefia») di cd. fondi di investimento alternativi («Fia») al cui novero, come si ricorderà appresso, vanno ricondotti i fondi di credito diretto di cui ci si occupa in queste pagine. 5Dal titolo “Misure urgenti concernenti la riforma delle banche di credito cooperativo, la garanzia sulla cartolarizzazione delle sofferenze, il regime fiscale relativo alle procedure di crisi e la gestione collettiva del risparmio” e pubblicato in G. Uff. n. 37 del 15 febbraio 2016: decreto intervenuto proprio mentre si stava per licenziare il presente contributo, e del quale s’è quindi potuto tener conto, in questa sede, nei limiti di quanto possibile ad una primissima valutazione. 6 Almeno dal 2013 in Italia si registrava un clima generalmente favorevole alla creazione di “fondi di credito” che consentissero l’allentamento del credit crunch attraverso la disintermediazione del credito bancario (anche se in tal caso pare pensarsi prevalentemente all’esemplare dei fondi di «minibond»): ciò emergeva non solo a livello mediatico e di enti esponenziali del mondo imprenditoriale (v. ampiamente le prime tre pagine de Il Sole 24 Ore dell’11 agosto 2013, pp. 1 – 3; più di recente, invece, per l’interesse destato dal nuovo contesto normativo che si andava delineando, v. l’articolo Credit funds. Cercasi capitali, su «Italia Oggi», 7 aprile 2014), ma anche da parte della stessa Banca d’Italia (PANETTA, Il Credito e il Finanziamento alle Imprese, intervento al convegno Reload banking. La Banca del domani per un nuovo sviluppo dell’Italia, Roma 21 giugno 2013 (scaricabile dal sito della Banca d’Italia) o del suo ex direttore generale all’epoca divenuto Ministro dell’Economia e delle Finanze (v. intervento di SACCOMANNI al Ministero dell’Economia e delle Finanze, Dipartimento del Tesoro, Roma, 16 luglio 2013, Credit crunch. Credit funds, pubblicato sul sito web del Ministero: «A fronte di una possibile, significativa diminuzione dei finanziamenti bancari, le esigenze di credito dell’economia dovranno essere soddisfatte da altri attori, soprattutto investitori istituzionali, e da nuove forme di intermediazione finanziaria, di cui sono un esempio i credit funds, ovvero quei fondi che erogano credito trasformando scadenze, 3 stando alla sua concreta applicazione, veniva correntemente interpretato come incompatibile con la medesima possibilità7: così dando luogo ad un dislivello normativo fortemente anticompetitivo rispetto ad altri ordinamenti ove una tale possibilità viene da tempo ritenuta fuori discussione e praticata8. rischi, liquidità. I credit funds, relativamente poco diffusi in Europa, intermediano circa l’80 per cento del credito alle imprese e alle famiglie negli Stati Uniti. Si tratta di intermediari la cui operatività rientra nello shadow banking, di cui generalmente si temono i rischi sistemici prodotti al di fuori del perimetro della regolamentazione. In un momento in cui il credito bancario è in significativa e prolungata contrazione, il ruolo del sistema bancario ombra potrebbe tuttavia rivelarsi di supporto al rilancio dell’economia. Una transizione simile richiederà equilibrati interventi sul perimetro e la qualità della regolazione, che tuttavia non ostacolino la transizione verso un ruolo crescente dell’intermediazione non bancaria all’economia; ne rappresenta un esempio la nuova normativa sulle operazioni con “parti correlate”, che regola in maniera più trasparente i rapporti tra banche e partner privilegiati, quali potrebbero essere appunto i “credit funds” ». Dalle cronache giornalistiche («Il Sole 24 Ore» del 15 luglio 2013, Tutti pazzi per i “fondi di debito”, i finanziamenti alternativi per le PMI) in particolare, risultava che già prima della novella del 2014 la stessa Banca d’Italia avesse autorizzato la commercializzazione in Italia di quote di un direct lending fund (Tenax Credit Opportunity Fund), il cui «schema di funzionamento», allora, deve congetturarsi fosse stato giudicato dall’Autorità di Vigilanza come «compatibile» con il diritto italiano secondo quanto prescriveva l’art. 42, comma 5°, t.u.f. (versione allora vigente). 7 La dottrina, e ancor prima lo stesso legislatore (storico), dubitava infatti che un fondo di crediti (peraltro precostituiti) potesse trovare attuazione, in Italia, al di là dell’ambito delle operazioni di cartolarizzazione: e v. infatti, MAIMERI, Prime osservazioni sul disegno di legge in tema di cartolarizzazione dei crediti (AC 5058), in questa Rivista, 1999, I, 236 ss.; M. LA TORRE, La cartolarizzazione dei crediti, in Banc., 2000, 45.; F. DI CIOMMO, I soggetti che svolgono operazioni di cartolarizzazione, in La legge sulla cartolarizzazione dei crediti, a cura di R. Pardolesi, Milano, 1999, 67; G. GENTILE, L’applicazione della legge sulla cartolarizzazione ai fondi comuni di credito, in questa Rivista, 755, affermando ad esempio che ritenendo che il fondo di crediti «non possa che riguardare l’oggetto della cartolarizzazione e non possa che riguardare tipologicamente i medesimi beni cui fa riferimento la l. 130/1999»; sulla novità del fondo di crediti previsto dalla l. 130/99 nel quadro della disciplina dei fondi comuni, e sui conseguenti problemi di compatibilità, v. Marco MAUGERI, Il fondo di crediti, ne La disciplina delle gestioni patrimoniali, Quaderno Assogestioni, Roma, 2000, 337 ss., a p. 341 - 342. Sul dibattito, v. poi, più di recente, PICARDI, Il “fondo comune di crediti” nel sistema della separazione patrimoniale, in questa Rivista, 2008, I, 76 ss., spec. p. 78. Lo stesso legislatore, ancor prima, nei lavori preparatori della predetta legge (Relazione al disegno di legge n. 5058A) sulla cartolarizzazione aveva affermato che una previsione ad hoc per il fondo di crediti si giustificasse proprio sulla base del fatto che in Italia, nonostante le previsioni del t.u.f., non potesse “in realtà” operare un fondo che investisse solo in crediti. V. in proposito LA LICATA, Commento all’art. 7, comma 1°, lettera b). La cartolarizzazione e i fondi comuni di investimento, in La cartolarizzazione. Commento alla legge n. 130/99, a cura di P. Ferro - Luzzi e Pisanti, Milano, 2005, 477 ss. 8 Nel panorama non solo statunitense (si pensi, solo a mo’ di esempio al RSF - Social Investment Fund, inc., con sede a San Francisco, che investe totalitariamente il proprio patrimonio in prestiti diretti ad imprese, profit e non-profit, operanti nel settore alimentare, dell’educazione, dell’arte, e dello sviluppo sostenibile), ma anche europeo, erano già noti ed operanti fondi di “direct lending”, che propongono quale oggetto del loro investimento prestiti (loans) rilevati da terzi oppure, ed indifferentemente, direttamente da essi generati. Si potevano già in allora menzionare, fra molti altri, il Blue Bay Direct Lending Fund, di promanazione statunitense ma stabilito nel Regno Unito (e con un fondo “feeder” stabilito in Lussemburgo); o il Senior European Loan Fund, stabilito come fondo alternativo in Lussemburgo che, oltre ad acquistare, eroga anche nuovi finanziamenti (immobiliari) in partnership con banche; o il Lfp Opportunity Loans, operante anche sul mercato primario del credito e stabilito in Lussemburgo; o il già citato Tenax Credit Opportunity Fund, di diritto irlandese (http://www.tenaxcapital.eu/strategies/tenax-credit-opportunities-fund/investment-strategy): «We 4 Per la verità, che il quadro normativo previgente fosse davvero incompatibile con la possibilità di un fondo di credito diretto avrebbe potuto, già prima della novella del 2014, ritenersi un’affermazione opinabile se non preconcetta, dal momento che, in effetti, alcun divieto espresso si rintracciava nel medesimo quadro normativo, risultando questo così articolato: – – – la legge (art. 4, comma 1°, lett. k, t.u.f., precedente versione) consentiva che un Oicr potesse «investire in crediti», seppure senza specificare se questi potessero derivare da un’erogazione diretta o meno; la normativa secondaria di riferimento (d.m. 228/1999, art. 4, lett d), prevedeva la possibilità di investire in «crediti e titoli rappresentativi di crediti» (con una distinzione che, nel primo termine, risultava escludere quantomeno la necessità di una cartolarizzazione) per i fondi chiusi (art. 12); ed inoltre che se il fondo era riservato, valevano limiti agli investimenti diversi da quelli stabiliti in via generale dalle norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio emanate dalla Banca d’Italia (qui appresso: «Istruzioni di Vigilanza»9); d’altra parte, tali Istruzioni: ~ in via generale (Tit. V, cap. III, sez. II, §§ 2 e 6.6) consentivano che potessero essere concessi prestiti: seppure nelle sole «forme previste in materia di operazioni a termine su strumenti finanziari» e ai soli fini di una «efficiente gestione del portafoglio»10,; ~ specificavano tuttavia che un siffatto limite sulla concessione dei prestiti non operasse per i fondi chiusi (Tit. V, cap. III, sez. V, § 2); seppure in questo caso prevedendo (§ 6.3 della predetta sez. V) che la possibilità di concedere prestiti venisse comunque mantenuta entro limiti ristretti (operazioni a termine su strumenti finanziari; funzionali o complementari all’acquisto o alla invest in existing loans and bonds that we buy from existing lenders, and we make new loans on a primary basis, either bilaterally, or as part of a lending group». 9 Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio dell’8 maggio 2012, come aggiornato dal Regolamento dell’8 maggio 2013. 10 Cfr. la Nota di chiarimenti (Nota di chiarimenti della Banca d’Italia sul Regolamento della gestione collettiva del risparmio del 16 luglio 2015, reperibile su https://www.bancaditalia.it/compiti/vigilanza/normativa/archivionorme/regolamenti/20120508/Nota_chiarimenti.pdf), chiarendo – con precisazione che si direbbe estensibile anche al quadro normativo previgente – “che tutti i fondi, anche diversi dai fondi di credito, possono effettuare operazioni a termine su strumenti finanziari (ad es., pronti contro termine) dalle quali originino posizioni creditorie per il fondo” (seppure “nei limiti di quanto previsto nella Sez. II, par. 6.5 in materia di tecniche di gestione efficiente del portafoglio”). 5 ~ detenzione da parte del fondo di partecipazioni; di leasing immobiliare, per i fondi immobiliari), ferme restando «le riserve di attività previste per le banche e per gli intermediari finanziari»; specificavano però anche (Tit. V, cap. III, sez. VI, § 2) che, qualora si trattasse di fondi chiusi riservati, fra le «deroghe ai limiti alla concentrazione dei rischi» previste per fondi chiusi, potessero operare «limiti diversi» rispetto a quelli previsti per i fondi chiusi tout court in materia di «concessione di prestiti» (§ 6.3 sopra cit.). Nella normativa italiana non constava, insomma, alcun divieto espresso. Anzi: già da prima della novella del 2014 ricordata nell’incipit, particolarmente significativa risultava la normativa comunitaria — in questo caso di diretta applicazione all’interno dell’ordinamento italiano (seppure, in pratica, condizionata dall’emanazione di una normativa secondaria di esecuzione) — posta dai Regolamenti UE n. 345 e n. 356 del 17 aprile 2013 (tuttora in vigore, naturalmente): il primo relativo ai fondi europei «per il venture capital» (cd. «EuVeCa»), il secondo relativo ai fondi europei «per l’imprenditoria sociale» (cd. «EuSEF»). Limitandosi ora alle previsioni del primo (poiché del tutto conformi, per quanto ora interessa, a quelle del secondo), viene in esse considerato, innanzitutto, come sia opportuno — seppure «ad integrazione» degli investimenti effettuati dal fondo in «strumenti (finanziari) rappresentativi di equity o quasi-equity» — «consentire prestiti garantiti e non garantiti quali, a esempio, finanziamenti ponte, concessi dal fondo per il venture capital qualificato a un'impresa di portafoglio ammissibile» (così considerando n. 16). Più in particolare, nella sua parte prescrittiva (art. 3, lett. e, ii), il Regolamento n. 345/2013 stabilisce che fra gli «investimenti ammissibili» sono senz’altro compresi i «prestiti garantiti e non garantiti concessi dal fondo per il venture capital qualificato a un'impresa di portafoglio ammissibile nella quale il fondo per il venture capital qualificato detiene già investimenti ammissibili, a condizione che non oltre il 30% dell’ammontare complessivo dei conferimenti di capitale e del capitale sottoscritto non richiamato del fondo per il venture capital qualificato, sia utilizzato per tali prestiti». V’è da dire, peraltro, che già prima della novella del 2014 sarebbe stata forse fuorviante una valutazione del predetto Regolamento sui fondi per il 6 venture capital (e di quello sull’imprenditoria sociale) che portasse a considerarlo, restrittivamente, come una normativa d’eccezione, caratterizzata dal ricorso a strumenti «atipici» altrimenti inammissibili per altri fondi (almeno se riservati), o comunque ammissibili nei soli limiti indicati da tale regolamento. Al contrario — e come emerge nitidamente dagli stessi Considerando che motivano l’intervento del legislatore comunitario — lo scopo dichiarato del Regolamento è semplicemente quello di «connotare», definendone contorni e limiti operativi, quei fondi di investimento riservati che intendano «fregiarsi» della denominazione «EuVECA» (European Venture Capital), sottoponendosi allora, nell’ambito del più ampio genus dei fondi alternativi (inferiori a certe soglie dimensionali), ad una normativa ad hoc, omogenea in tutta l’area UE, al dichiarato scopo di favorirne un vero e proprio mercato comune (cfr. in particolare i Considerando nn. 2, 4, 10 e 11 del Reg. cit.). Può quindi ritenersi, alla luce di questa prima ricognizione, come in realtà già prima del 2014 (ma poi ancora in seguito, e similmente, con il più recente Regolamento sui cd. «Eltif» 11 ), emergesse — per diritto direttamente applicabile in Italia, seppure non nell’interpretazione corrente e nella prassi applicativa della normativa nazionale — un concetto di «investimento» comprensivo (anche) di un’erogazione diretta di credito; e non solo, quindi, limitato all’acquisto di un preesistente prodotto finanziario, o comunque al subentro in una situazione giuridica precostituita fra terzi. 11 Si tratta, come noto, dei «Fondi di investimento europei a lungo termine» («European long-term investment funds», cd. Eltif) previsti – ma dopo oramai che i Fia di credito diretto erano stati definitivamente legittimati anche all’interno del nostro ordinamento – dal «Regolamento comunitario n. 760/2015/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2015 relativo ai fondi di investimento europei a lungo termine». Gli Eltif sono a tutti gli effetti Fia, di cui anzi si prevede espressamente che rappresentino una species (cfr. art. 3 par. 2: «solo i FIA UE possono presentare domanda di autorizzazione ed essere autorizzati [sic] come ELTIF») autorizzata a certe condizioni ad assumere la denominazione di Eltif ed allora destinataria di una normativa uniforme aggiuntiva; anche in questo caso (come per gli EuVeCa e gli EuSEF) ai fini di una migliore «riconoscibilità» del tipo di fondo e di una maggiore omogeneità dell’offerta sul mercato. Essi sono caratterizzati dall’essere rivolti a fornire finanziamenti di lunga durata a progetti infrastrutturali di varia natura, a società non quotate ovvero a piccole e medie imprese quotate che emettono strumenti rappresentativi di equity o strumenti di debito per i quali non esiste un «acquirente facilmente identificabile», e diretti a generare proventi periodici e preservare la regolarità dei flussi di cassa, mantenendo un portafoglio diversificato di attività di investimento. In tale prospettiva, anch’essi possono concedere credito diretto, ma solo (anche in questo caso al pari degli EuVeCa e gli EuSEF) a favore di «un'impresa di portafoglio ammissibile», e «con una scadenza non superiore al ciclo di vita dell'Eltif» (art. 10, Reg. cit.). 7 Concetto, questo, comunque ad oggi ribadito ― o se si preferisce finalmente affermato al di là d’ogni dubbio ― dal «nuovo» art. 1, comma 1°, lett. k, t.u.f. 2 - La nuova normativa secondaria. Quale tipo di fondo per il credito diretto? 2.1 - Ammissibilità di un FIA di credito diretto, puro o misto. Alle norme contenute nella normativa primaria sopra ricordata, ha fatto seguito un coerente aggiornamento della normativa secondaria di settore. In particolare, con d.m. 30/201512, il Ministero dell’economia e delle finanze (qui appresso: «Mef») ha emanato (in luogo del precedente d.m. 228/1999, e quindi con la stessa centrale rilevanza per il settore della gestione collettiva del risparmio) il nuovo regolamento attuativo dell’articolo 39 del t.u.f., «concernente la determinazione dei criteri generali cui devono uniformarsi gli Oicr italiani» (qui appresso: «regolamento Mef»). Il quale regolamento, per quanto qui interessa, ha previsto che «il patrimonio dell’OICR può essere investito in una o più delle categorie dei seguenti beni: (…) e) crediti e titoli rappresentativi di crediti, ivi inclusi i crediti erogati a valere sul patrimonio dell’Oicr» (art. 4, lett. e). Ne risulta così confermata, anche a livello di normativa secondaria, la possibilità di un FIA di credito diretto: - - sia “puro”: che cioè “origini” direttamente credito, mediante un’attività del suo gestore (o degli intermediari del cui ausilio questo si avvalga) che converta la iniziale dotazione patrimoniale del fondo in situazioni giuridiche di credito destinate a realizzare gli asset previsti dal suo regolamento; sia “misto”: che cioè affianchi alla modalità di «investimento» appena indicata, anche un’operatività sul «mercato secondario», acquistando crediti già precostituiti (o, come si dice, già «originati») in capo a terzi, rendendosene cessionario secondo la disciplina di diritto comune (art. 12 D. m. n. 30 del 5 marzo 2015 n. 30, del Ministro dell’Economia e delle Finanze, intitolato «Regolamento attuativo dell’articolo 39 del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (t.u.f.) concernente la determinazione dei criteri generali cui devono uniformarsi gli Organismi di investimento collettivo del risparmio (Oicr) italiani». 8 1260 e ss., Cod. civ.) o, eventualmente, secondo quella in materia di cartolarizzazione, nelle forme e nei limiti da essa prevista (cd. «subparticipation», prevista dall’art. 7, l. 130/1999). Ciò con un significativo ampliamento, all’evidenza, della stessa nozione (e relativa riserva di legge) di attività di gestione collettiva del risparmio13. 2.2 - Focalizzazione della presente analisi sui fondi comuni di investimento. Naturalmente, e come noto, secondo l’attuale normativa 14 nella nozione di Oicr — e se “alternativi”, come ora interessa, di Fia — possono rientrare sia i fondi comuni di investimento, che le Sicav, che le Sicaf (queste ultime in ogni caso Fia). Con l’ovvia differenza15, peraltro, che mentre per le Sicav e le Sicaf ad essere investito è il patrimonio della stessa società, che dunque assume anche la qualità di gestore (nel caso di Fia: «Gefia») dello stesso patrimonio nell’interesse degli investitori – azionisti, per i fondi comuni di investimento il ruolo di gestore è invece assunto da una società di gestione del risparmio (qui appresso: «Sgr»), dotata di propria soggettività a differenza del fondo che non ne ha. Essa quindi (come meglio si tornerà a vedere più avanti circa l’operatività del fondo di credito diretto) è l’unico soggetto a poter assumere la veste formale di controparte contrattuale con i terzi per impegnare le attività del fondo; seppure poi questo, pur formalmente imputabile, nelle sue componenti sia attive che passive, alla stessa Sgr, resti da essa autonomo, e cioè posto a garanzia esclusiva dei crediti sorti in ragione dell’attività di investimento del fondo stesso, e non delle altre obbligazioni della Sgr. In ragione di questa formale, ma poi anche operativamente significativa, differenza strutturale dei fondi rispetto a Sicav e Sicaf (come anche suol dirsi, a struttura «contrattuale» i primi, «societaria» i secondi), per non dover eccessivamente articolare il discorso si farà riferimento, qui Su un tale ampliamento in generale (vuol dirsi cioè anche oltre l’ambito del credito diretto considerato in queste pagine), anche in rapporto alla correlativa erosione delle forme di investimento esercitabili in regime di diritto comune, v. l’ampia analisi di SANDRELLI, Raccolta di capitali e attività di investimento. Note sulla nozione di “organismo di investimento collettivo del risparmio” a seguito della direttiva sui fondi alternativi, in Riv. soc., 2015, 387 ss., e in particolare p. 391, nt. 11. 14 Art. 1, comma 1°, lett. m-ter) t.u.f.; nonché Reg. Mef 30/2015, cit., art. 1, comma 1°, lett. m). 15 Art. 1, comma 1°, lett. p), q), q-bis) t.u.f. 13 9 di seguito, ai soli FIA che assumano la forma di «fondi comuni di investimento», per brevità indicati «Fondi di credito diretto». Fermo restando comunque che, pur al di là di una tale semplificazione discorsiva, i profili appresso trattati varranno ― allo stesso modo ovvero mutatis mutandis ― anche per gli altri Fia a struttura «societaria». 2.3 - La natura chiusa del fondo di credito Il sopra citato regolamento Mef, dopo aver ammesso in generale la possibilità che un Oicr investa anche, fra gli altri possibili «beni», in quello rappresentato da «crediti, anche erogati direttamente»: - - precisa poi che in tale «bene» (cioè crediti, anche erogati direttamente) possano investire solamente gli Oicr di investimento alternativo («Fia») chiusi. Esso esclude infatti sia gli OICVM «armonizzati» (art. 7, comma 1°) che i Fia aperti (art. 8); e soprattutto prevede espressamente (art. 10, comma 1°) che: «sono istituiti in forma chiusa i Fia italiani il cui patrimonio è investito, nel rispetto dei limiti e dei criteri stabiliti dalla Banca d’Italia, ai sensi dell’art. 6, comma 1°, lett. c, del t.u.f.., nei beni previsti dall’articolo 4, comma 1, lettere d), e), e f) (…)»; non specifica tuttavia se tale Fia, oltre ad essere necessariamente chiuso, debba, altresì, essere anche riservato (cioè destinato ad essere sottoscritto, tendenzialmente, solo da «investitori professionali»: art. 14, comma 1°) oppure anche non riservato. 2.4 - Fondi di credito non riservati. Che tuttavia si possa trattare anche di fondo chiuso non riservato ad investitori professionali, al di là di un’assenza di divieti espressi nel regolamento Mef, risulta espressamente previsto (oltre che, nella normativa comunitaria, per i Fia autorizzati come Eltif16) dalle «nuove» Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia17. V. supra, nt. 11. Provvedimento della Banca d’Italia del 19 gennaio 2015, recante il Regolamento sulla gestione collettiva del risparmio, e sostitutivo di quello previgente, sopra ricordato alla nt. 9. 16 17 10 Tali Istruzioni, infatti, nello stabilire i «divieti e le norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio» (tit. V, cap. III), espressamente concedono, per i fondi non riservati (sez. V, § 1, lett. e) che il loro patrimonio possa essere investito anche in «crediti erogati a valere sul patrimonio dell’Oicr». Con il limite, peraltro (sez. V, § 5), che ove non si tratti di Fia istituito per realizzare operazioni di cartolarizzazione, allora «l’investimento in crediti verso una stessa controparte non può eccedere il 10 per cento del totale delle attività del fondo»; né può trattarsi di crediti «con durata superiore a quella del fondo». Essi inoltre (sez. V, § 6.3), sempre nello svolgimento dell’attività di investimento in crediti, «possono utilizzare strumenti finanziari derivati esclusivamente per finalità di copertura» e possono «assumere finanziamenti entro il limite massimo del 30 per cento del valore complessivo netto del fondo» e, comunque, solo «con banche, intermediari finanziari ex art. 106 t.u.b. o altri soggetti abilitati all’erogazione di crediti». 2.5 - Fondi di credito riservati. Ben più ampio, invece, il margine di operatività per i Fia chiusi riservati, i quali secondo il regolamento Mef (art. 14) restano del tutto sottratti: (i) sia all’approvazione del loro regolamento da parte della Banca d’Italia; (ii) sia alle norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio stabilite dalla Banca d’Italia per i FIA non riservati (salvo i profili di coincidenza con la disciplina di questi ultimi in virtù di espressi rinvii, qui appresso riferiti). Quanto ai fondi riservati, dunque, le Istruzioni della Banca d’Italia (tit. V, cap. III, sez. VI, § 1), solo si limitano a prevedere che il relativo regolamento possa prevedere l’utilizzo di una leva finanziaria, ma non oltre il limite di 1,5, e in tal caso indicando i mezzi attraverso i quali generarla e le sue fonti di finanziamento; indicando altresì ogni altra interconnessione o relazione con altre istituzioni finanziarie che potrebbero comportare un rischio sistemico, nonché la necessità di limitare l’esposizione a una singola controparte. 11 Inoltre, come per i FIA non riservati, anche per i FIA riservati che investano in crediti l’esposizione verso una stessa controparte non può eccedere il 10% del totale delle attività del fondo18. Il che, del resto, ancor prima che un puntuale vincolo promanante dall’autorità di regolamentazione secondaria (vincolo che in materia di fondi riservati avrebbe anche potuto non esservi) si direbbe costituire comunque, al di là di una percentuale di concentrazione più o meno predeterminata, un elemento tipologicamente necessario della stessa nozione di gestione collettiva del risparmio, quale attività orientata alla diversificazione e al frazionamento del rischio che qualunque «politica di investimento» di un Oicr dovrebbe osservare. 3 - Specificità del FIA di credito diretto rispetto ad altri “nuovi” veicoli di credito diretto alternativo a quello bancario 3.1 - Gli altri veicoli di credito diretto “alternativo” La figura del Fia (al suo interno ulteriormente articolata) di credito diretto non è la sola novità che il già ricordato art. 22 del d.l. 91/2014 ha introdotto nell’ambito del più ampio disegno ― ricordato in premessa ― di ampliare l’ambito del finanziamento non bancario alle piccole e medie imprese. La norma citata ha infatti previsto, oltre alla possibilità di Fia di credito diretto, anche la possibilità di concessione di finanziamenti diretti erogati da società assicurative e società di cartolarizzazione, secondo una disciplina i cui connotati salienti meritano, in questa sede, d’essere richiamati soprattutto per mettere in risalto alcune delle sopradette esigenze di coordinamento con l’ordinamento bancario che non sempre, invece, vengono risolte allo stesso modo per i Fia. Non rientrano invece nella nozione di fondo di credito né, più in generale, meritano di essere considerati quali veicoli di credito diretto, 18 Cfr. Istruzioni di Vigilanza, Tit. V, cap. III, sez. V, § 5; mentre ulteriori limiti di carattere generale per tutti i “fondi che investono in crediti” (previsto al § 6.3) consistono (i) nel poter utilizzare strumenti finanziari derivati solamente per finalità di copertura e (ii) nel poter assumere finanziamenti entro il limite massimo del 30% del valore complessivo netto del fondo, soltanto da banche, intermediari finanziari ex art. 106 t.u.b. o altri soggetti abilitati all’erogazione di crediti. 12 quei Fia che possono concedere credito solo strumentalmente alla propria, diversa, politica di investimento; e così: (i) né i Fia chiusi mobiliari che concedono prestiti unicamente funzionali o complementari all’acquisto o alla detenzione da parte del fondo di partecipazioni; (ii) né i Fia immobiliari che concedono beni in locazione con facoltà di acquisto per il locatario (leasing); (iii) né, più in generale, può ritenersi attività riservata ai soli fondi di credito la concessione di prestiti attraverso operazioni a termine su strumenti finanziari (ad es., pronti contro termine), da ritenersi possibile per qualunque fondo che effettui operazioni a termine su strumenti finanziari, dalle quali potranno quindi originare posizioni creditorie per il fondo (nei limiti peraltro di quanto consentito in materia di tecniche di gestione efficiente del portafoglio)19. 3.2 - Società assicurative e SACE Quanto alle società assicurative (e SACE), l’art. 22 del predetto decreto: ha introdotto un nuovo comma 2 bis dell’art. 114 t.u.b. secondo cui non configura esercizio nei confronti del pubblico l'attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma, diversa dal rilascio di garanzie, effettuata esclusivamente nei confronti di soggetti diversi dalle persone fisiche e dalle microimprese … da parte di imprese di assicurazione italiane e di Sace (sempre che entro i limiti stabiliti dal d. lgs. 7 settembre 2005, n. 209, cd. Codice delle assicurazioni private, e dalle relative disposizioni attuative emanate dall’Ivass); ha prescritto che esse, se svolgano tale attività di concessione di finanziamenti, debbano inviare alla Banca d'Italia … le segnalazioni periodiche nonché ogni altro dato e documento richiesto, partecipando altresì alla centrale dei rischi della Banca d'Italia, la quale può a sua volta stabilire che a ciò si assolva per il tramite di banche e intermediari finanziari iscritti all’albo di cui all’'articolo 106 t.u.b.; ha inoltre previsto (integrando il comma 2°, dell'art. 38 del cit. Codice delle assicurazioni private) che l’Ivass stabilisca condizioni e limiti operativi dei predetti finanziamenti secondo i seguenti criteri: - - - Cfr. rispettivamente, le Istruzioni di vigilanza, Tit. V, cap. III, sez. V, § 6.3, nt. 52 (per i e ii); nonché, la Nota di chiarimenti della Banca d’Italia sul Regolamento della gestione collettiva del risparmio del luglio 2015 (citata. alla nota 10), sez. V (per quanto riguarda iii). 19 13 a) i prenditori dei finanziamenti siano individuati da una banca o da un intermediario finanziario ex art. 106 t.u.b.; b) la banca o l’'intermediario finanziario di cui alla lettera a) trattenga un interesse economico nell'operazione pari ad almeno il 5% del finanziamento concesso, trasferibile anche a un’altra banca o intermediario finanziario, fino alla scadenza dell’operazione; c) il sistema dei controlli interni e gestione dei rischi dell’impresa sia adeguato e consenta di comprendere appieno i rischi, in particolare di credito, connessi a tale categoria di attivi; d) l’impresa sia dotata di un adeguato livello di patrimonializzazione; e) l’esercizio autonomo dell'attività di individuazione dei prenditori da parte dell'assicuratore, in deroga ai criteri di cui alle lettere a) e b), è sottoposto ad autorizzazione dell’Ivass, la quale, peraltro, ha poi consentito una tale modalità in via generale, seppure a certe condizioni20; f) in ogni caso, opera un limite complessivo massimo per cui i finanziamenti ora in discorso non possono eccedere il 5% delle cd. riserve tecniche da coprire21. 3.3 – Società di cartolarizzazione Disciplina per diversi aspetti analoga riguarda poi le società di cartolarizzazione dei crediti, rispetto alle quali viene infatti prevista 22 la possibilità di «concedere finanziamenti nei confronti di soggetti diversi dalle persone fisiche e dalle microimprese (…)» nel rispetto delle seguenti condizioni: a) i prenditori dei finanziamenti siano individuati da una banca o da un intermediario finanziario ex art. 106 t.u.b.; L’opzione di non avvalersi dell’ausilio di banche o intermediari finanziari dovrà infatti essere prevista da un analitico piano degli investimenti della società assicurativa e richiederà una previa specifica autorizzazione dell’Ivass (così infatti dispone il Provvedimento Ivass n. 22 del 21 ottobre 2014, modificativo del Reg. Isvap n. 36 del 31 gennaio 2011, introducendovi in particolare un nuovo art. 8 bis). 21 Artt. 17, par. A2.2; nonché 21 e 27 del Reg. Isvap sopra citato. 22 Dal nuovo comma 1 ter dell’art. 1 della l. 130/1999, anch’esso introdotto dall’art. 22 del d.l. 91/2014. 20 14 b) i titoli emessi dalle stesse per finanziare l'erogazione dei finanziamenti siano destinati ad investitori qualificati, come definiti ai sensi dell’art. 100 del t.u.f.; c) la banca o l’intermediario finanziario di cui alla lettera a) trattenga un significativo interesse economico nell'operazione. 3.4 - Specificità del fondo di credito diretto. Dal complessivo quadro regolamentare così tracciato, possono trarsi alcuni spunti per riflettere sulla singolarità del fondo di credito diretto all’interno del più ampio scenario dei nuovi veicoli di credito diretto alternativo a quello bancario. i) Può osservarsi innanzitutto, sul piano soggettivo, che per l’erogazione di credito da parte dei fondi prevede un’ampia tipologia di destinatari, restandone soltanto esclusi i consumatori. ii) Anche sul piano oggettivo, cioè del credito erogato, emerge un forte scarto rispetto alle società assicurative, per le quali l’attività di finanziamento diretto è destinata ad assumere un ruolo del tutto marginale, essendo la loro attività principale – evidentemente – ben altra: i finanziamenti da esse concessi, infatti, non possono eccedere il 5% delle riserve tecniche; e del resto l’impegno in questo settore resta espressamente condizionato al riscontro del possesso di specifici requisiti organizzativi e patrimoniali aggiuntivi rispetto a quelli richiesti in via generale. Per i Fia, invece, l’erogazione di credito diretto potrebbe costituire l’attività principale, se non esclusiva, anche in assenza di particolari presidi sull’organizzazione del Fia, almeno quando riservato. iii) Tanto per le società assicurative che per le società di cartolarizzazione, ma non per i Fia, emerge poi un necessario (o almeno naturale, considerata la possibilità di deroga da parte dell’Ivass, per le società di assicurazioni) collegamento operativo con banche o intermediari finanziari: l’attività di individuazione dei prenditori di credito – attività piuttosto articolata che, come si vedrà, rappresenta forse il profilo centrale dell’operatività del fondo sul versante dell’impiego – deve tendenzialmente essere delegata ad una banca o ad un intermediario finanziario ex art. 106 t.u.b.. Non così, invece, per i fondi di credito diretto: per i quali 15 l’approvvigionamento di un’attività di servicing resa da banche o altri intermediari finanziari, anche per quanto riguarda la stessa attività di riscossione23, dipenderà da una scelta della Sgr (v. amplius, § 12). Due profili comuni con l’attività bancaria - assai rilevanti anche sul piano sistematico, nel senso di una tendenziale assimilazione dell’operatività del fondo di credito diretto con quella tipicamente bancaria – sono poi i seguenti. Innanzitutto, l’art. 46-quater, t.u.f. 24 , sancisce che l’erogazione di credito diretto da parte dei Fia italiani (ma anche UE che intendano operare in Italia: art. 46-ter ss., t.u.f.) andrà soggetta alla generale disciplina sulla trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti prevista per le banche e gli altri intermediari finanziari (esclusa la parte sul credito al consumo, non potendo i consumatori essere destinatari, come sopra ricordato, del credito erogato dai Fia). Del che peraltro si dirà ancora, appresso (§ 4), riflettendo sul modello e le condizioni di operatività del fondo di credito diretto. Un secondo profilo comune riguarda poi la necessità di inviare alla Banca d’Italia, in relazione ai crediti concessi, le segnalazioni periodiche e di partecipare alla centrale dei rischi, anche per il tramite di banche e intermediari finanziari ex art. 106 t.u.b.. Questo significa che non si crea una zona franca per gli affidati, rispetto al monitoraggio dell’esposizione debitoria realizzato mediante la centrale dei rischi; e che l’erogazione di credito diretto, seppure alternativo a quello bancario, viene comunque percepita, su questo terreno, come ad esso omogenea. Emergendo così una convergenza iv) Il modello di fondo di credito qui analizzato, proprio in quanto previsto come capace di gestire in autonomia tutta la vita del credito, dalla sua erogazione all’incasso, postula quindi la possibilità— sia in termini materiali (come apparato organizzativo) che formali (come legittimazione giuridica) — ed anzi la “normalità”, dell’ipotesi in cui il fondo si occupi anche di quella fase necessaria della vicenda creditizia che la conclude con la riscossione. Senza pertanto che possano estendersi al nuovo modello generale quei limiti valevoli per quel particolare, e per certi aspetti antesignano, modello di fondo di crediti previsto in materia di cartolarizzazione dei crediti, per il quale invece l’attività di riscossione era necessariamente da demandarsi ad una banca o ad un intermediario finanziario (art. 2, comma 3°, lett. c), e comma 6°, l. 130/1999: e sul punto v. più diffusamente MAUGERI, Il fondo di crediti, (nt. 7), 344. 24 Di recente introdotto dal sopra citato (nt. 5) d.l. 18/2016 e che prevede: «(1) Ai crediti erogati in Italia da parte di FIA italiani e FIA UE, a valere sul proprio patrimonio, si applicano le disposizioni sulla trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti di cui al Titolo VI, Capi I e III, con esclusione dell'articolo 128‐bis, e le disposizioni sulle sanzioni amministrative di cui al Titolo VIII, Capi V e VI, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, fermo restando quanto previsto dall'articolo 23, comma 4 del presente decreto. (2) Al rispetto degli obblighi previsti dalle disposizioni indicate al comma 1 è tenuto il gestore del FIA». 23 16 normativa che evidenzia l’interferenza fra i due settori, manifestata anche dal coinvolgimento operativo di banche ed intermediari finanziari incaricati di curare le segnalazioni. Un’ulteriore interferenza con l’attività propriamente bancaria – se non una vera e propria sovrapposizione anch’essa sistematicamente meritevole di grande attenzione – emerge poi sul profilo della raccolta. La questione appare forse trascurabile per le società di assicurazione, ove l’attività di raccolta è rivolta a soggetti (gli assicurati) individuabili in ragione del tipo di attività principale prestata, la quale è a sua volta destinataria di un autonomo sistema di vigilanza prudenziale rispetto al quale il rischio derivante dall’attività, sussidiaria, di erogazione diretta del credito, assume un ruolo certamente marginale, anche in ragione del suo contenimento a livello complessivo massimo: così da non richiedere ulteriori e particolari presidi a tutela dei destinatari dell’attività di raccolta. Quanto invece alle società di cartolarizzazione, emerge una netta limitazione soggettiva nello svolgimento dell’attività di raccolta: essendo questa, come sopra ricordato, limitata soltanto ad investitori qualificati (unici destinatari dei titoli emessi per finanziare l’erogazione dei finanziamenti). Limiti analoghi a questi ultimi, del resto, valgono per i Fondi comunitari per il EuVeCa e EUSEF sopra ricordati: rispetto ai quali – al di là della loro rilevanza marginale25 e del fatto che la componente di rischio legata all’impiego in attività di credito diretto è limitata al 30% massimo del patrimonio del fondo – anche sul versante della raccolta viene imposto che le rispettive quote possano essere commercializzate, tendenzialmente, solo presso investitori professionali26. I fondi di credito diretto, invece, possono anche essere, come visto, non riservati: con la possibilità quindi di rivolgere l’attività di raccolta anche verso investitori non qualificati, cd. clientela retail. v) Sia per il settore, relativamente di «nicchia», nel quale investono; sia per poter essere solamente Fia «sottosoglia», cioè con attività gestite inferiori alla soglia fissata dall'articolo 3, paragrafo 2, lettera b, Dir. 2011/61/UE. 26 Ovvero presso chi chieda di essere così trattato secondo la direttiva Mifid; ovvero verso investitori non professionali, ma solamente se ed in quanto si «qualifichino» impegnandosi ad investire almeno € 100.000 e dichiarando d’essere consapevoli dei rischi connessi all’investimento (cfr., per i Fondi EuVeCa, l’art. 6 del già citato Reg. 345/2013). 25 17 Destinazione, questa, che anzi si cerca di propiziare in particolar modo27 quando si tratti dei già ricordati Eltif28. 3.5.– Interferenze con le attività riservate a banche e intermediari ex art. 106 t.u.b. Benché possa azzardarsi una previsione secondo cui i Fia di credito diretto saranno, nella pratica, per lo più se non esclusivamente riservati29, resta comunque il dato per cui la possibilità appena considerata (sub v) rende profilabile, oltre a un’esigenza di tutela del pubblico risparmio (come rilevante ai sensi degli artt. 94 ss., t.u.f.) eventualmente 30 coinvolto31, anche una possibile sovrapposizione con la riserva dell’attività bancaria) come definita dall’art. 10 t.u.b. Per entrambe, in effetti, si dà la possibilità che «l’esercizio del credito» (secondo forme tecniche, peraltro, verosimilmente analoghe a quelle tipiche utilizzate dalle banche, secondo quanto si osserverà al § seguente) venga finanziato da una «raccolta» presso investitori al dettaglio, e così suscettibile di essere considerata effettuata «presso il pubblico»32. 27 Seppur con molte cautele aggiuntive rispetto a quelle previste per gli altri Fia non riservati, e volte ad assicurare, in particolar modo, l’adeguatezza e la consapevolezza dell’investimento, in quanto ancorato ad una prospettiva di lunga durata: v. soprattutto gli artt. 28 – 31 del Reg. Eltif, sopra citato alla nt. 11. 28 Chiaro invece che nel caso di fondi riservati la raccolta effettuata solamente (o almeno tendenzialmente: v. infra) presso investitori professionali fa sì che «il fondo comune cessi di essere per definizione un prodotto finanziario rivolto al pubblico … spezzandosi il legame tra il fondo e la natura “pubblica” dell’investimento» (F. ANNUNZIATA, Gestione collettiva del risparmio e nuove tipologie di fondi comuni di investimento, in Riv. soc., 2000, 350 ss., p. 367, e più ampiamente p. 365 ss.). Ed eventualmente operanti come fondi di fondi, cioè fondi specializzati partecipati da altri fondi: il che consentirebbe loro, forse, un costo della raccolta non troppo superiore a quello delle banche, così riducendo un differenziale competitivo derivante dal naturale afflusso, per le banche, del risparmio di soggetti non professionali. 30 In effetti – almeno a voler valorizzare un dato letterale che pure, per la verità, non parrebbe di per sé concludente - la nozione di gestione collettiva del risparmio, compresa quella «alternativa», presuppone soltanto una raccolta operata presso una «pluralità di investitori» (art. 1, comma 1°, lett. k), t.u.f.) e non necessariamente presso il «pubblico» (al quale invece v’era un riferimento, ora espunto, nella legislazione previgente in materia di Sicav), almeno per come inteso nella disciplina dell’intermediazione finanziaria agli artt. 94 ss. t.u.f. (anche se non invece in quella prevista dal t.u.b. in materia di banche e intermediari finanziari, alla quale piuttosto la disciplina della gestione collettiva del risparmio deve ritenersi allineata: cfr. G. SANDRELLI, Raccolta di capitali e attività di investimento, (nt. 13), p. 397 ss., spec. nt. 28 e 34, ove anche ulteriori riferimenti). 31 Tutela assicurata dall’apposita disciplina del t.u.f. e relativa normazione secondaria (v. in particolare il Reg. emittenti della Consob n. 11971/1998, come appositamente modificato in punto di commercializzazione delle quote di Fia dalla delibera Consob n. 19094 dell’8 gennaio 2015), a parte quanto specificamente previsto per gli Eltif (v. nt. 27). 32 Cfr. nt. 30. 29 18 Resta, tuttavia, la fondamentale differenza per cui la raccolta operata collocando le quote del fondo di credito diretto presso il pubblico non viene effettuata con la promessa di (e l’affidamento su) una incondizionata restituzione (non dando luogo quindi a «moneta bancaria» (come meglio descritto infra, al § 9); bensì nella prospettiva di una gestione conforme ad una politica di investimento predeterminata e condivisa dal risparmiatore: insomma, in una consapevole assunzione di rischio 33 (collegato all’eventualità dell’insolvenza degli affidati) che, proprio in quanto si tratta di capitale di rischio, non solleva le particolari esigenze di tutela che giustificano la disciplina prudenziale dell’attività bancaria, e la relativa riserva di legge. Né, quanto alle sovrapposizioni con l’attività degli intermediari ex art. 106 t.u.b. – che secondo la stessa disposizione sono destinatari di una riserva per l’esercizio dell’attività di «concessione di finanziamenti nei confronti del pubblico» – viene ripetuto, per i Fia (e nemmeno per le società di cartolarizzazione) ciò che invece viene precisato per le società assicurative, e cioè che per esse l'attività di concessione di finanziamenti non configura «esercizio nei confronti del pubblico». In effetti, non può escludersi che i finanziamenti erogati dai Fia di credito diretto siano rivolti al pubblico (seppure esclusi i consumatori) 34, se si assume la definizione che di «esercizio del credito nei confronti del pubblico» fornisce il recente d.m 53/2015 del Mef35, secondo cui «l’attività di concessione di finanziamenti si considera esercitata nei confronti del pubblico qualora sia svolta nei confronti di terzi con carattere di professionalità»: il che certo risponderebbe all’attività di gestione collettiva svolta un Fia di credito diretto. 4- L’operatività del fondo di credito diretto 33 Per quanto, certo, si tratti pur sempre di rischio diversificato e perciò attutito; ma appunto, in questi termini, esistente e assunto consapevolmente (così che non si condividerebbe alla lettera quanto autorevolmente affermato, con riferimento alle Sicav, da P. MARCHETTI, Appunti sulle SICAV, in Riv. soc., 1992, 731 ss.) secondo cui il «conferimento non avviene con una primaria connotazione di investimento consapevole in un’attività imprenditoriale a rischio, quanto come forma di affidamento di risparmio inconsapevole per una gestione tecnica capace di minimizzarne il rischio») ed allora marcando una differenza qualitativa rispetto al risparmio affidato dal depositante alla banca. 34 Un rapido cenno in questo senso in SANDRELLI, Raccolta di capitali e attività di investimento, (nt. 13), p. 415, nt. 75. 35 D.m. del Ministro dell’economia e delle finanze del 2 aprile 2015, n. 53, «Regolamento recante norme in materia di intermediari finanziari in attuazione degli articoli 106, comma 3, 112, comma 3, e 114 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, nonché dell’articolo 7 - ter , comma 1 -bis , della legge 30 aprile 1999, n. 130». 19 4.1 - Le forme tecniche dell’attività di finanziamento del Fia: applicabilità della disciplina sulla trasparenza bancaria e tendenziale assimilazione delle fattispecie. Un’analisi dell’operatività dei fondi di credito diretto sul versante degli impieghi, deve confrontarsi innanzitutto con la tematica delle possibili forme tecniche dell’erogazione, considerate nei loro profili contrattuali soggettivi ed oggettivi. Quanto ai termini soggettivi del contratto di finanziamento, nel caso di un fondo comune di investimento si tratterà – in ciò peraltro non essendovi differenza rispetto ad ogni altro possibile oggetto di investimento da parte di un fondo – di contratti formalmente intercorrenti fra la controparte (nel caso di specie: l’affidato, che come previsto dal recente e già sopra menzionato art. 46-bis t.u.f., dovrà essere un soggetto diverso da un consumatore) e la Sgr gestore (“Gefia”). Il fondo, difatti, non ha soggettività giuridica, sicché – come anche rilevato dalla Corte di Cassazione36 – dal punto di vista dell’imputazione di tutte le situazioni giuridiche soggettive attive e passive, non potrà che essere la Sgr la titolare e la contraente. Diversamente, è ovvio, varrebbe invece per una Sicav o una Sicaf, persone giuridiche che impegnano direttamente il proprio patrimonio.Ed è proprio perciò che, correttamente, la legge utilizza l’espressione di “crediti erogati a valere sul patrimonio dell’OICR”. Il che ovviamente non toglie ― come del resto è a dirsi per qualunque altro tipo di “investimento” del fondo ― che in virtù del principio della separazione patrimoniale (art. 36, comma 6°, t.u.f.), l’imputazione degli effetti patrimoniali di una tale operatività, così come la destinazione patrimoniale dei proventi che ne riverranno, saranno da riferirsi esclusivamente al compendio rappresentato dal fondo: impegnando cioè soltanto quest’ultimo, quale patrimonio separato da quello della SGR “contraente” e sottratto alle pretese dei creditori di questa37. I creditori della SGR non potranno quindi aggredire il fondo medesimo, mentre questo resta destinato esclusivamente a rimborsare i creditori del fondo (recte: creditori della SGR per ragioni inerenti alla realizzazione della Cass. 15 luglio 2010, n. 16605; e v. già, sui termini del problema, R. LENER, Commento alla l. 23 marzo 1983, n. 77, sub art. 3, in Le nuove leggi civili commentate, 1985, 398 ss., nonché P. FERRO LUZZI, Commento all’art. 2, comma 2°, in La cartolarizzazione. Commento alla legge n. 130/99, a cura di P. Ferro Luzzi e Pisanti, Milano, 2005, 261; nonché poi molti altri fra cui, più di recente, A. PAOLINI, Fondi comuni immobiliari, S.g.r. e trascrizione, in Riv. dir. comm., 2013, 233 ss., ove ulteriori riferimenti. 37 PICARDI, Il “fondo comune di crediti” nel sistema della separazione patrimoniale, (nt. 7), 76 ss. 36 20 politica di investimento del fondo, e quindi legittimati ad agire solo su tale patrimonio separato) e, in seconda battuta, le quote dei partecipanti: così che è su questi che grava, in via residuale, il rischio di inadempimento rispetto ai crediti erogati a valere sul patrimonio del fondo. Sul piano oggettivo, e cioè quanto al possibile regolamento contrattuale dell’operazione di credito, questione più ampia – con l’emersione ancora una volta di possibili profili di interferenza con la tipica attività riservata a banche e intermediari finanziari ex art. 106 T.u.b. – riguarda invece la possibilità che l’attività di investimento in «crediti erogati a valere sul patrimonio del fondo» debba limitarsi (anche in considerazione della possibilità di disinvestimento e quindi di cessione delle posizioni, eventualmente anche in fase di liquidazione) a semplici schemi contrattuali di «prestito puro», sostanzialmente riconducibili al mutuo; ovvero possa comprendere, e se sì fino a che punto, anche contratti di credito più articolati come alcuni di quelli praticati da banche o altri intermediari finanziari ex art. 106, t.u.b.. Potrebbe allora riproporsi, in primo luogo, la vexata quaestio (qui solo evocata) circa la possibilità, o meno, che soggetti diversi da banche autorizzate possano concludere, in veste di concedente, alcuno dei tipici “contratti bancari” (art. 1834 ss., cod. civ.). E ci si potrebbe poi chiedere, in secondo luogo, se l’estensione dell’attività di erogazione di credito consentita ai Fia, possa specificarsi attingendo al già citato d.m. Mef 53/2015 e in particolare alla definizione che esso fornisce di «attività di concessione di finanziamenti sotto qualsiasi forma» ai sensi dell’art. 106, comma 1°, t.u.b.. Definizione secondo cui una tale attività è da intendersi come «concessione di crediti, ivi compreso il rilascio di garanzie sostitutive del credito e di impegni di firma», e allora comprendente anche, «tra l’altro, ogni tipo di finanziamento erogato nella forma di locazione finanziaria, acquisto di crediti a titolo oneroso, credito ai consumatori ex art. 121 t.u.b., credito ipotecario, prestito su pegno, rilascio di fideiussioni, avallo, apertura di credito documentaria, accettazione, girata, impegno a concedere credito, nonché ogni altra forma di rilascio di garanzie e di impegni di firma». Al di là di questo, ci si potrebbe infine chiedere se la varietà non solo delle forme contrattuali utilizzate, ma anche le differenze dei destinatari del credito e del loro “merito” — insomma le differenze qualitative dei crediti erogati dalla Sgr in funzione della loro tipologia, rischiosità e 21 redditività — possano incidere sulla, o trovare rappresentazione all’interno della struttura del fondo, anche nella prospettiva della diversa rischiosità dell’investimento affrontato dai sottoscrittori delle quote. Esclusa la possibilità di variare la tipologia delle quote (sul modello delle categorie azionarie, e in particolari quelle correlate ex art. 2354 c.c., cd. tracking shares) resterebbe la possibilità di articolare in più comparti il fondo38, con correlativa possibilità di offerta differenziata delle quote a tipologie di investitori dal diverso profilo, ed eventualmente connotate da diverso regime in termini commissionali, che rifletta i diversi costi di istruttoria o le diverse prospettive di rimborso e redditività. In ogni caso, un generale ed assai significativo indice nel senso della tendenziale equivalenza delle forme tecniche impiegabili dal gestore nell’erogazione di credito a valere sul fondo, con tutte quelle usualmente utilizzate dalle banche – insomma di una tendenziale equivalenza sul piano della (o delle) fattispecie – deriva dalla espressa equivalenza sul piano della disciplina (testualmente istituita, come sopra ricordato, dal nuovo art. 46quater, t.u.f.), sancendo che una siffatta attività di erogazione andrà soggetta alla generale disciplina sulla trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti con i clienti prevista per le banche e gli altri intermediari finanziari. 4.1 - Compiti del depositario Quale che sia la forma tecnica utilizzata per l’erogazione di credito diretto (non cartolarizzato) a valere sul patrimonio del fondo, certo è che la natura giuridica dell’oggetto di un tale tipo di «investimento» comporta un peculiare, e per certi aspetti inedito, atteggiarsi del ruolo e dei compiti del depositario (tendenzialmente una banca o una Sim) che il regolamento di ciascun fondo dovrà designare (artt. 37 e 47, t.u.f.). Ciò perché il compito del depositario, normalmente individuato nell’obbligo di «custodire» (fisicamente o mediante le scritturazioni contabili tipiche degli strumenti dematerializzati) «gli strumenti finanziari 38 Ex art. 36, comma 4°, t.u.f. E analogamente varrebbe se il Fia assumesse veste di Sicav o Sicaf, in relazione alle diverse categorie di azioni che in tal caso potrebbero emettersi, ma pur sempre con riferimento a diversi comparti del medesimo Fia (art. 35 quater, comma 6°, lett. c, e 35 quinquies, comma 5°, lett. c, t.u.f.). La prospettiva era stata già evidenziata, con riferimento al fondo di crediti ex l. 130/1999, da MAUGERI, Il fondo di crediti, (nt. 7), 352 ss. 22 ad esso affidati» (art. 48, t.u.f.) ― difficilmente si attaglia ad asset consistenti in una mera posizione contrattuale, non cartolarizzata, che registri un credito erogato a valere sul fondo. Al riguardo merita forse fare riferimento agli altri possibili contenuti dei «compiti del depositario» previsti dal cit. art. 48 t.u.f., e consistenti come noto nella «verifica della proprietà» (nonché nella «tenuta delle registrazioni degli altri beni») ed eventualmente nella «detenzione delle disponibilità liquide» del fondo. In questo senso, la prescrizione ― anche per come poi specificata dalle Istruzioni della Banca d’Italia 39 ― dovrebbe concretarsi nella verifica dell’attuale titolarità dei contratti di credito anche sulla base della detenzione e della verifica della documentazione contrattuale relativa al rapporto sottostante 40 , nonché delle istruzioni e delle informazioni pertinenti ricevute dal gestore e, per suo tramite, da terzi. Inoltre, sotto il profilo della detenzione delle disponibilità liquide, mano a mano che i finanziamenti concessi vengano restituiti, sarebbe profilabile ― ad instar di quanto ad esempio previsto per i servicer delle società di cartolarizzazione (art. 3, comma 2 bis, l. 130/1999) ― l’apertura di «conti correnti segregati» presso il depositario, sui quali accreditare le somme via via restituite dai debitori o comunque ogni altra somma di spettanza del fondo, compresa la dotazione iniziale del fondo. 5 - Scarti disciplinari e vantaggi competitivi del fondo di credito diretto (soprattutto se riservato) 39 Regolamento sulla Gestione Collettiva del Risparmio della Banca d’Italia, Tit. VIII, cap. III, sez. III: «per i beni diversi da quelli che possono essere detenuti in custodia secondo le precedenti disposizioni, il depositario verifica la proprietà da parte dell’Oicr di tali attività, sulla base delle informazioni e dei documenti forniti dal gestore e, se disponibili, sulla base di evidenze e riscontri esterni, e conserva un registro aggiornato di tali beni»; rinviandosi poi, per le funzioni di verifica sui beni pertinenti (e quindi anche del loro valore corrente al fine della valutazione delle quote del fondo) all’art. 90 del Reg. 231/2013/UE (regolamento comunitario delegato attuativo della già citata direttiva «Aimfd» 2011/61/UE), secondo il quale il depositario deve ricevere dal Gefia (e, tramite questo, dai terzi) tutte le istruzioni e le pertinenti informazioni concernenti le attività del Fia, in modo da poter procedere all’attività di verifica o riconciliazione di sua spettanza. 40 V. già, indagando il ruolo della banca depositaria rispetto ai fondi di credito ex l. 130/99, MAUGERI, Il fondo di crediti, (nt. 7), 344, evidenziandone il servizio di cassa e di custodia dei beni, da concretizzarsi (in tal caso facendo leva sul disposto generale dell’art. 1262, comma 2°, c.c.) nella custodia dei documenti probatori (originali e copia) dei crediti acquisiti dal fondo. 23 Il quadro normativo sopra tratteggiato evidenzia notevoli scarti disciplinari, e conseguenti vantaggi competitivi, dei fondi di credito diretto rispetto agli altri veicoli di credito «alternativo» a quello bancario. Ma significativi scarti disciplinari e conseguenti vantaggi competitivi possono individuarsi anche rispetto allo stesso credito bancario, per il quale una possibile sovrapposizione sostanziale può scorgersi nell’operatività di un fondo di credito diretto non riservato (considerato che esso, oltre ad esercitare il credito nei confronti del pubblico – esclusi i consumatori - può altresì svolgere la raccolta presso investitori al dettaglio). Ciò, per limitarsi al profilo forse più significativo, è a dirsi soprattutto in relazione all’assenza, per i fondi di credito non riservati, di un vincolo prudenziale come quello posto dalla disciplina del patrimonio di vigilanza bancario; e nonostante, certo, anche tali fondi siano a loro volta destinatari di una propria, ma ben diversa, disciplina prudenziale di contenimento e frazionamento del rischio, oltre che – come sopra visto – di norme volte comunque a garantire l’adeguatezza e la consapevolezza degli investimenti attraverso cui si opera l’attività di raccolta presso il pubblico (i.e., la commercializzazione delle quote del fondo). La massima divaricazione rispetto al quadro normativo riferibile al credito erogato da intermediari bancari o finanziari ex art. 106 t.u.b., può però registrarsi per i fondi di credito diretto riservati; i quali, anche in ragione di ciò, è prevedibile che potranno attestarsi, nella prassi, quale modello prevalente rispetto agli altri veicoli di credito «alternativo». Per i fondi riservati, difatti, non solo non operano – in ciò similmente a quelli non riservati – i limiti derivanti dalla disciplina del patrimonio di vigilanza bancario. Ma, più in generale, i fondi riservati (e in ciò invece diversamente da quelli non riservati, godendo allora di ben maggiori spazi di autonomia operativa e di economie rispetto ai cd. costi di compliance) come già accennato restano del tutto sottratti (cfr. art. 14, d.m. Mef 30/2015): (i) sia all’approvazione del loro regolamento da parte della Banca d’Italia; (ii) sia dalle norme prudenziali di contenimento e frazionamento del rischio stabilite dalla Banca d’Italia per i FIA non riservati. Gli unici vincoli di autonomia operativa restano allora quelli, piuttosto blandi, sopra ricordati in punto di (eventuale) leva finanziaria, e di 24 necessità di limitare l’esposizione verso una stessa controparte affidata nella misura massima del 10% delle attività del fondo41. Certo, ciò non toglie che penetranti regole organizzative (e di vigilanza) investano a monte - secondo l’impronta generale della direttiva Aimfd – i gestori (Gefia); e che comunque la divaricazione disciplinare rispetto all’operatività bancaria ben possa trovare giustificazione, in generale, nella diversa prospettiva di rischio del sottoscrittore delle quote del fondo rispetto al depositante presso una banca, nonché, più in particolare, in ragione del fatto che i fondi riservati, nella loro attività di raccolta, non si rivolgono al pubblico, ma solo ad investitori qualificati 42: così potendosi escludere una piena sovrapponibilità con l’attività bancaria e la connessa esigenza di tutelare il pubblico risparmio. Ma è pur vero – anche se forse meno evidente – che come sopra ricordato neppure è da escludersi (e da sottovalutarsi) che, a parte altri investitori professionali (si pensi al ruolo dei fondi pensione in altre economie dove i fondi di credito già sono diffusi), anche una o più banche potrebbero valutare di sottoscrivere o acquistare quote del fondo: così investendovi parte del proprio attivo, raccolto presso il pubblico, per destinarlo ad un’erogazione di credito in regime svincolato dagli usuali vincoli prudenziali che altrimenti condizionerebbero una loro erogazione diretta. 6 - I fondi di “minibond” (profili normativi). Alla luce di quanto sinora considerato sulle caratteristiche dei fondi di credito diretto, possono ora evidenziarsene le similitudini funzionali, ma anche il più dirompente impatto sul sistema e le ben maggiori potenzialità operative, rispetto al precedente normativo per certi aspetti più prossimo: quello dei cd. fondi di minibond. Quanto a questi ultimi, per la verità, si dovrebbe riconoscere – dal punto di vista della struttura e della politica di investimento – l’assenza di significativi elementi di originalità rispetto a qualsiasi altro fondo comune di investimento, se non per la loro propensione (anch’essa però comune a 41 Regolamento sulla Gestione Collettiva del Risparmio della Banca d’Italia, Tit. V, cap. III, sez. VI, § 1. Ovvero non qualificati ma che, come sopra visto, comunque si «qualifichino», di fatto, per acquistare quote o azioni del Fia per un importo complessivo di almeno cinquecentomila euro (art. 14, comma 2°, d.m. 30/2015). 42 25 molti altri fondi di investimento) ad investire, esclusivamente o principalmente, in titoli di debito emessi da società: con la sola particolarità, tuttavia, che nel caso di specie si tratterebbe di quei particolari titoli di debito gergalmente detti «minibond», e più precisamente ascrivibili alla categoria normativa delle cambiali finanziarie che possono essere emesse ai sensi della l. 43/199443. Dando ora per nota ed assunta (non essendo l’oggetto di queste riflessioni) la portata di tale disciplina ― dunque la natura e le caratteristiche giuridiche delle cambiali finanziarie dal punto di vista cartolare, e le condizioni per procedere alla loro emissione (considerata come una raccolta del risparmio ai sensi dell’art. 11, t.u.b.) ― ciò che soprattutto in questa sede merita ricordare è che esse possono venire emesse e girate esclusivamente in favore di investitori professionali, essendo spesso, anche per ciò, quotate in uno specifico segmento del mercato di borsa destinato solo ad investitori professionali (in particolare, l’ExtraMot Pro gestito da Borsa italiana). Investitori professionali fra i quali potranno certamente esservi (Sgr, investendo il patrimonio dei propri) fondi comuni di investimento, a loro volta aperti, chiusi, riservati o non; benché poi ― ancora una volta guardando al id quod plerumque accidit ― nella prassi prevalga nettamente la forma del fondo chiuso riservato (al pari di quanto sopra si è pronosticato per i fondi di credito diretto). Da un punto di vista normativo ― almeno nella prospettiva della gestione collettiva del risparmio ― non emergono insomma significative differenze fra un «fondo di minibond» e un qualsiasi altro fondo comune di investimento. Vero è piuttosto ― nella prospettiva, stavolta, del finanziamento non bancario ― che i fondi di minibond, nella misura in cui si alimentino impegnando la relativa liquidità iniziale nella sottoscrizione di cambiali finanziarie emesse da una società, realizzano anch’essi, similmente ai fondi di credito sopra esaminati, una forma di finanziamento diretto, non bancario, alle imprese (tanto che anch’essi sono talora designati, più genericamente44, come «fondi di credito»). 43 L. 13 gennaio 1994, n. 43, come modificata dall’art. 32, commi 5 e ss., del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. l. 7 agosto 2012, n. 134. 44 O, giornalisticamente, anche «fondi di debito»: v. ad es. «Il Sole 24 Ore» del 21 luglio 2013, 5, Fondi di debito per battere il credit crunch; «Il Sole 24 Ore» del 15 luglio 2013, Tutti pazzi per i “fondi di 26 Con la doppia differenza, tuttavia, il finanziamento tramite minibond: (i) innanzitutto — da un punto di vista operativo e sostanziale — incontra restrizioni che per i fondi di credito diretto in senso stretto non operano: potendo, soggettivamente, rivolgersi solo ad alcuni tipi di destinatari; ed essendo ammissibile, oggettivamente, soltanto in quanto risultino adempiuti alcuni requisiti, non proprio banali per la verità, ai quali la legittimità dell’emissione è condizionata; (ii) e poi ― dal punto di vista giuridico, ma con rilevanza certamente non solo formale ― dà luogo pur sempre ad una forma di credito bensì diretto, ma pur sempre “cartolarizzato”. Il fondo di minibond, cioè, pur effettuando certamente un finanziamento diretto, nel rendersi primo prenditore delle cambiali finanziarie di nuova emissione (e quindi operando sulla base di valutazioni economiche non diverse da chi eroghi credito diretto), si trova comunque a gestire assests rappresentati da strumenti finanziari, i quali: potranno essere «custoditi» da un depositario; restano destinati alla circolazione, spesso godendo, come si ricordava (il già cennato segmento ExtraMot Pro), di un mercato relativamente fluido; e potendo contare (per legge) già al momento dell’emissione su alcune «garanzie» di solvibilità assicurate da uno sponsor esterno, che condivide in parte il rischio. Si tratta quindi di assets ben diversi da quelli, tipici del fondo di credito diretto «puro», rappresentati mere posizioni contrattuali di credito, connotate da ben maggiore illiquidità e per lo più destinate ― verosimilmente, o almeno fisiologicamente ― ad essere gestite e liquidate, alla scadenza, dallo stesso fondo che ha erogato il credito. SEZIONE II – PROFILI ECONOMICI 7 - Fondi di credito e fondi di minibond in una prospettiva economica. L’avvio dei primi fondi di minibond, giusta novella (nel 2012) della disciplina delle cambiali finanziarie e la recentissima introduzione nel nostro ordinamento dei fondi di credito completano – sebbene con finalità debito”, i finanziamenti alternativi per le PMI; «Il Sole 24 Ore» del 23 luglio 2013, 37, Il fondo minibond dedicato alle imprese fa tappa a Roma. 27 e declinazioni diverse meglio descritte oltre – la gamma di strumenti finanziari, i.e. di capitale di debito, a disposizione delle (piccole e medie) imprese, potenzialmente capace – nel tempo e per determinati settori di prenditori – di attenuare le criticità della struttura finanziaria delle PMI domestiche e di mitigare gli effetti della loro dipendenza dal credito bancario45. L’elevato grado di indebitamento, pari al 43,9%, delle imprese italiane 46 , risulta infatti fortemente sbilanciato, anche in un confronto sovranazionale (37,7% a livello di principali paesi dell’Eurozona), a favore dei finanziamenti bancari che rappresentano quasi due terzi (63,9%) dei complessivi debiti finanziari47. La debolezza è particolarmente accentuata nel caso di imprese di piccola e media dimensione per le quali, diversamente dal caso delle maggiori società, l’apporto della componente obbligazionaria è assolutamente trascurabile. Un irrigidimento nella disponibilità di credito ovvero fenomeni di credit crunch e credit rationing, come nel corso della recente crisi economica, si traduce in una minore capacità di investimento e in una maggiore volatilità della redditività aziendale, con conseguente innalzamento del profilo di rischio e perdita di valore, a parità di altre condizioni, rispetto a imprese capaci di diversificare le fonti finanziarie48. La riuscita dei fondi di minibond e dei credit funds, in particolare, a motivo della natura di attività finanziarie non cartolari (i.e. contratti di credito) che caratterizzano l’operatività di questi ultimi, nell’ampliare, diversificandola, composizione della struttura finanziaria delle (piccole e medie) imprese è tuttavia funzione della loro capacità di riuscire a mobilizzare, almeno in larga misura, risorse finanziarie diverse e aggiuntive rispetto a quelle di matrice bancaria, che provengano cioè da investitori – si immagina istituzionali (vedi sopra), quali ad esempio fondazioni, casse e fondi di previdenza nonché le stesse compagnie assicurative che preferissero affidare in gestione delegata la concessione di credito – diversi dalle banche, traducendosi altrimenti i fondi di credito e A. DE SOCIO - P. FINALDI RUSSO, The Debt of Italian Non Financial Firms: An International Comparison, Banca d'Italia, Occasional Papers, 308, February 2016. 46 Dato a settembre 2014. La leva finanziaria è misurata dal rapporto tra i debiti finanziari e la somma degli stessi con il patrimonio: cfr. BANCA D’ITALIA, Rapporto sulla stabilità finanziaria, 1, aprile 2015, 17, e dati per grafici. 47 BANCA D’ITALIA, Relazione annuale, maggio 2015, 55-56. 48 G. GRANDE - G. GUAZZAROTTI, Il finanziamento degli investimenti a lungo termine: iniziative in corso e principali linee di intervento, in Questioni di Economia e Finanza, 238, settembre 2014, 8 ss. 45 28 di minibond in una doppia intermediazione di fondi. Nell’esperienza estera, soprattutto l’investimento in credit funds viene infatti apprezzato dai loro sottoscrittori per il contributo che esso fornisce in termini di diversificazione del portafoglio in attività altrimenti non direttamente acquisibili (crediti a imprese di piccola e media dimensione), sebbene altamente correlate, ma meno che perfettamente, con il comparto obbligazionario lato sensu. Nella misura in cui la provvista dei fondi (di credito) fosse di provenienza bancaria (anche via leverage presso banche), si assisterebbe altresì a creazione di moneta nell’ambito del fractional reserve banking49. In questo senso, l’operatività dei fondi di credito – il ragionamento vale infatti probabilmente meno per i minibond – va visto quale ideale completamento, e non quale fattore di mera concorrenza, dell’intermediazione bancaria tradizionale che rimane e rimarrà certamente dominante, ma potendo in questa logica e con le dovute cautele, come meglio descritto oltre, presentarsi quale occasione di integrazione e collaborazione sinergica tra banche e intermediari specializzati in finanziamenti alle imprese, anche in termini di selezione e monitoraggio delle opportunità di investimento. L’introduzione nell’ordinamento comunitario dei fondi di minibond e dei credit funds, in particolare, è questione in ogni caso delicata e complessa, in quanto immette nel sistema finanziario intermediari la cui operatività rientra, secondo l’interpretazione fornita dal Financial Stability Board, nello shadow banking, intendendosi per esso l’erogazione di finanziamenti con trasformazione della liquidità e delle scadenze, e correlati rischi, al di fuori del sistema bancario 50 e richiede pertanto un’attenta ponderazione dei potenziali rischi sistemici scaturenti e, al contempo, del positivo contributo che l’intermediazione non bancaria può offrire all’economia reale in termini di addizionale provvista di credito51. Senza volere proporre in questa sede una disamina di tali questioni, i principali fattori di attenzione investono: (i) la tutela degli investitori (a nostro modo di vedere, di rilevanza logica peraltro minore qualora 49 CENTRAL BANK OF IRELAND, Loan Origination by Investment Funds, Discussion Paper, July 2013, 50 CENTRAL BANK OF IRELAND, Loan Origination by Investment Funds, Discussion Paper, July 2013, 21. 14. ALTERNATIVE INVESTMENT MANAGEMENT ASSOCIATION, The role of Credit Hedge Funds in the Financial System: Asset Managers, Not Shadow Banks, Research Committee, March 2012, 33 e ss. 51 29 l’operatività dei fondi risultasse orientata a favore degli investitori istituzionali); (ii) la competizione regolamentare tra veicoli e circuiti di intermediazione finanziaria alternativi; (iii) i rischi micro e macroprudenziali e le implicazioni di politica monetaria scaturenti dalla loro operatività. 8 – Elementi di differenziazione tra fondi di credito e di minibond. In termini tassonomici, l’elemento fondamentale che distingue l’azione delle banche rispetto all’offerta di credito proposta da fondi di minibond o di credit funds, e che giova essere ricordato in questa sede, è la natura di intermediari di tipo asset transformer dei primi e di asset broker dei secondi. Come noto, le banche propongono attività finanziarie (crediti, cosiddette primary securities) caratterizzate da tagli dimensionali e di durata plasmate sulle esigenze dei prenditori di fondi (soggetti in disavanzo, tipicamente di matrice imprenditoriale) e connotate, anche per effetto dell’impegno da parte dell’intermediario di capitale proprio, da un profilo di rischio maggiore rispetto alle passività emesse (depositi ovvero secondary securities), offerte ai datori di fondi (soggetti in avanzo, risparmiatori). Le passività tipicamente bancarie hanno natura monetaria, sono cioè accettate quale mezzo di pagamento, e si connotano per l’obbligo di rimborso a vista al valore nominale e a semplice richiesta; il loro rendimento è di conseguenza basso. Nell’attuare la trasformazione dimensionale e delle scadenze, gli intermediari asset transformer si accollano direttamente: (i) i costi informativi ovvero di transazione associati alla selezione, al monitoraggio e all’enforcement dei prenditori di credito, nonché, tra l’altro, (ii) i rischi di prezzo ovvero di variazione del valore degli impieghi, ivi incluso il rischio di credito, e (iii) di liquidità, intendendosi per esso il rischio di scarto tra il teorico valore di mercato e l’effettivo prezzo di cessione dell’attività finanziaria, questo ultimo funzione delle condizioni del mercato secondario. La differenza tra tassi attivi (comprensivi di eventuali commissioni), praticati sugli impieghi (crediti), e passivi, sulla raccolta (depositi), rappresenta, in prima battuta, il costo dell’intermediazione e il profitto lordo della banca sullo specifico flusso di fondi intermediato. Di contro, come noto, gli asset broker – tipicamente i fondi comuni di investimento, variamente classificabili a livello regolamentare – non 30 attuano detta trasformazione qualitativa tra attività e passività e limitano la propria opera all’offerta di servizi di portafoglio, intendendosi per essi le attività connesse alla selezione e al monitoraggio degli investimenti (azioni, obbligazioni, crediti, ecc.) in cui allocare le risorse finanziarie (i.e. il patrimonio del fondo) raccolte presso gli investitori, senza accollo diretto dei rischi di prezzo (anche di credito) e di liquidità che permangono in capo agli investitori stessi. I servizi prestati trovano remunerazione in termini commissionali che rappresentano, in prima approssimazione, il costo dell’intermediazione; lo scambio tra soggetti prenditori e datori di fondi può pertanto fondamentalmente classificarsi, in termini sostanziali, nell’ambito del circuito finanziario diretto. La convenienza degli investitori a ricorrere ai servizi degli intermediari asset broker risiede, quindi, nell’abbattimento dei costi informativi ovvero di transazione sopra predetti (al pari, questo, delle banche) per effetto delle economie di scala e di specializzazione associate alla loro ripartizione su grandi volumi di patrimonio gestito. Sotto il profilo dell’innovazione finanziaria, la questione di maggiore interesse in questa sede attiene peraltro all’elemento di fondamentale differenziazione operativa tra fondi di minibond e fondi di credito che è rintracciabile nell’attività oggetto di investimento. Infatti, mentre i fondi di minibond allocano, in qualità di investitori professionali, il patrimonio raccolto in strumenti cartolari, più precisamente in titoli di debito nella forma di cambiali finanziarie definendo, pertanto, una semplice declinazione su tagli minori di schemi obbligazionari, i fondi di credito investono, come indica già il nome, in contratti di finanziamento (i.e. crediti), cioè in attività finanziarie non cartolari. In questi termini, come già accennato (par. 6), i fondi di minibond non descrivono un fenomeno di reale innovazione finanziaria, ma, al massimo, di novità di prodotto qualora si voglia interpretare come tale il rilancio delle cambiali finanziarie. Viceversa, l’introduzione dei credit funds integra la disponibilità di credito “ordinario” per le imprese in modelli contrattuali astrattamente identici a quelli dell’operatività bancaria e potenzialmente declinabili in forme diverse, ma sempre preservando la loro caratteristica fondamentale di contratti bilaterali ritagliati sulle specifiche esigenze, in termini di durata e rendimento, del prenditore. In termini meramente economici, i dubbi normativi (par. 04.1) circa la 31 possibilità per i fondi di credito di concludere, in veste di concedenti, “contratti di finanziamento sotto qualsiasi forma” appare fuori discussione qualora si ammetta la loro natura di contratti di credito, trattandosi di una mera declinazione operativa (ovviamente con riflessi sui correlati profili di rischio) dello stesso archetipo di attività finanziaria. È di immediata evidenza come la concessione di credito in forma non cartolare da parte dei credit funds, da un lato, li avvicini e li sovrapponga – in termini di prodotto, ma non di modello di intermediazione sottostante, questo ultimo completamente diverso e che rappresenta la vera novità – all’azione delle banche, dato che entrambi gli intermediari offrono contratti di credito (cfr. par. 4.1) e, dall’altro lato, ampli a dismisura la platea di potenziali prenditori, anche di piccola e media dimensione (che rappresentano l’ossatura dell’imprenditoria domestica), per i quali ultimi – di contro – forme di credito cartolare, sebbene semplificate nelle loro caratteristiche e modalità di emissione, quali i minibond, rappresentano attività già eccessivamente sofisticate e complesse e, quindi, di difficile accessibilità effettiva. In questo senso, nella misura in cui il patrimonio dei credit funds ovvero il relativo funding fosse, come accennato, di provenienza non bancaria, ma venisse raccolto presso investitori (istituzionali) di matrice diversa (fondazioni, fondi pensione, ecc.), andrebbe a implementare i volumi di credito disponibile all’economia reale. È pertanto su questa novità che si concentra la disamina che segue concentrando, in particolare, l’analisi su tre principali questioni: archetipo operativo; costo dei finanziamenti per i prenditori e rendimento atteso per i partecipanti ai fondi di credito; implicazioni e fattori di criticità potenziale associati all’operatività dei credit funds. 9 – Archetipo operativo dei fondi di credito e implicazioni regolamentari. Come visto, per fondi di credito si intendono organismi di investimento collettivo del risparmio, organizzati in forma chiusa che investono il patrimonio raccolto in crediti sia di nuova erogazione, cioè di mercato primario, sia già esistenti, ovvero di mercato secondario. Di nuovo, il vero elemento di novità regolamentare risiede, stante una marcata sovrapposizione del processo valutativo e gestionale che deve caratterizzare, sotto il profilo logico, entrambe le fattispecie operative (i.e. 32 credit funds e fondi di minibond), nella concessione diretta di finanziamenti, a motivo del fatto che l’acquisto di crediti già erogati era, sebbene con le dovute limitazioni e cautele, già parzialmente ammesso dalla disciplina prudenziale. Il credito potrebbe potenzialmente essere erogato nelle diverse forme tecniche, ma è plausibile ritenere, anche sulla base dell’esperienza estera e comunitaria52, che l’operatività di tali intermediari si orienti tipicamente verso affidamenti a medio-lungo termine (da qui anche l’aspettativa di durata estesa degli stessi fondi) funzionali al sostegno degli investimenti dell’economia reale, investimenti tipicamente caratterizzati da impegni finanziari di elevato importo unitario ed estesa durata temporale per il loro rientro, e con un limitato coinvolgimento nel finanziamento del capitale circolante. In una visione ideale, l’approccio dovrebbe pertanto essere orientato a valutare il rischio di credito in termini di sostenibilità finanziaria dei progetti imprenditoriali da finanziare, e conseguente capacità di rimborso prospettica, sulla base dei flussi di cassa attesi e non delle garanzie prestabili dal prenditore a mitigazione della perdita attesa (i.e. cash-flow vs. asset-based lending). In questa visione i fondi (i.e. i relativi gestori) sono chiamati ad una attenta valutazione del merito di credito dei richiedenti fondi, esattamente al pari delle banche, la quale valutazione si traduce nell’attività di: (i) selezione e risk assessment; (ii) pricing e (iii) monitoring degli affidamenti nonché di (iv) servizio ed enforcement dei relativi contratti. Dette fasi di attività, sebbene comuni anche all’investimento in crediti nel secondario, risultano se possibile ancora più penetranti in sede di origination. In quanto puri operatori creditizi, gli impieghi concessi sono oggetto di segnalazione obbligatoria alla Centrale rischi al fine di assicurare una compiuta rilevazione della posizione finanziaria complessiva degli affidati. In questo senso, la gestione dell’investimento in crediti richiede al gestore di dotarsi di specifiche competenze in tema di valutazione del merito creditizio al fine di riuscire a gestire responsabilmente l’intero processo di affidamento, andando in buona sostanza a replicare al proprio interno l’expertise dell’ufficio fidi di una banca. Ciò presuppone – quale potenziale criticità nel contesto domestico – significativi investimenti per 52 COMMISSIONE EUROPEA, Il finanziamento a lungo termine dell’economia europea, Libro Verde, Aprile 2013. 33 dotarsi della relativa struttura organizzativa, delle necessarie risorse professionali e di un adeguato sistema di controlli interni per la rilevazione, misurazione e gestione dei rischi, in linea tra l’altro con le raccomandazioni del Comitato di Basilea in tema di sound credit risk assessment and valuation for loans e la disciplina prudenziale in materia di gestione collettiva del risparmio53. I gestori dotati di dette competenze potrebbero peraltro non risultare al momento particolarmente numerosi nel panorama delle SGR italiane, fatta eccezione per i gestori di fondi di minibond, i quali già dovrebbero disporre di capacità di analisi del merito creditizio in larga misura sovrapponibili a quelle richieste per la valutazione di richiedenti finanziamenti di nuova erogazione. Ne consegue la possibile esigenza, meglio discussa nel par. 8, di una cooperazione con intermediari bancari o finanziari per la gestione di una o più delle fasi ovvero attività di servicing, sopra richiamate, funzionali all’erogazione di credito. Sulla base di quanto esposto, gli elementi qualificanti l’archetipo operativo dei credit funds impegnati nella concessione diretta di credito possono essere riassunti in primis nella loro già richiamata natura di intermediari di tipo asset broker. In quanto tali, essi prestano un’attività di puro servizio, senza accollo diretto del rischio di prezzo ovvero di credito nonché di liquidità, associati al portafoglio di attività gestite, che permangono in capo ai partecipanti al fondo. Da detti rischi derivano altresì, come meglio descritto oltre, le stesse aspettative di rendimento degli investitori. In secundis, i fondi di credito realizzano una separazione della funzione creditizia da quella monetaria, la quale confusione è invece tipica degli intermediari bancari, le cui passività (depositi) collocate presso il pubblico hanno durata infinitesimale e assolvono i requisiti di moneta. Di contro, i credit funds raccolgono presso gli investitori il proprio patrimonio a titolo di capitale di rischio, al pari di qualsiasi altro fondo comune di investimento, al fine, ed è questo l’unico elemento differenziale rispetto alle altre tipologie di organismi di investimento collettivo del risparmio, del suo impiego in crediti. L’assenza di raccolta di risparmio presso il pubblico e di natura monetaria del passivo di bilancio dei fondi di credito (non essendo BASEL COMMITTEE ON BANKING SUPERVISION, Sound Credit Risk Assessment and Valuation for loans, Bank for International Settlements, June 2006. 53 34 banche) mitiga l’esigenza di una penetrante disciplina e vigilanza prudenziale, soprattutto in termini di dotazione patrimoniale del veicolo, funzionale ad assicurare le condizioni minime di stabilità degli intermediari che sono il prerequisito del mantenimento della fiducia del pubblico nella moneta bancaria. In termini operativi, ciò significa il venir meno, sotto il profilo logico, dell’esigenza di: (i) requisiti patrimoniali (microprudenziali), tipici dell’intermediazione bancaria tradizionale (i.e. Basilea 3, CRD IV, ecc.), intesi a garantire una disponibilità minima di capitale capace di assorbire i rischi, in primis di credito, insiti nell’attività al fine di tutelare i depositanti nonché (ii) di buffer di liquidità (si pensi, in prospettiva, ai requisiti di copertura della liquidità di breve (Liquidity Coverage Ratio) e lungo termine (Net Stable Funding Ratio)54, con le relative implicazioni in termini di costi di compliance e di struttura amministrativa. La disciplina prudenziale applicabile dovrebbe pertanto essere limitata al rispetto di condizioni minime di sana e prudente gestione del fondo, nella sua veste di intermediario asset broker. Il terzo elemento di interesse deriva dalle specificità associate all’archetipo dei contratti di mutuo in cui è investito il patrimonio dei fondi di credito. La prima peculiarità attiene alla natura, già brevemente richiamata, di attività tailor-made dei contratti; diversamente da forme di credito cartolare, ivi inclusi come visto i minibond, ogni impiego è infatti ritagliato sulle esigenze specifiche in termini di taglio dimensionale, durata, forma tecnica e modalità di rimborso del singolo prenditore. Questa individualità consente altresì una maggiore flessibilità contrattuale nel corso dell’affidamento nell’ipotesi in cui risultasse necessario rinegoziare la posizione in considerazione delle vicende del debitore. Inoltre, lo scambio di dati e notizie, in sede sia di screening iniziale sia di monitoring successivo, funzionale all’abbattimento delle asimmetrie informative tra datore e prenditore di fondi è di tipo privato e bilaterale; ciò significa che l’informazione che il richiedente credito veicola al fondo rimane riservata e circoscritta alle controparti negoziali e non viene diffusa all’esterno ovvero al mercato. Da un lato, tale circostanza determina potenziali minori costi informativi e di trasparenza – soprattutto per affidamenti di importo BANCA D’ITALIA, Disposizioni di vigilanza per le banche, Circolare n. 285 del 17 dicembre 2013, 11° Aggiornamento del 21 luglio 2015. Relativamente agli indici di leva finanziaria si veda oltre. 54 35 relativamente contenuto, sia iniziali sia periodici, rispetto al ricorso diretto al mercato dei capitali (anche in forma di minibond) – per effetto della modalità informale di scambio dei dati e delle notizie, non rappresentati in prospetti informativi (ancorché semplificati) e non soggetti a obblighi di certificazione, nonché della circostanza che il soggetto affidante dovrebbe già disporre, in virtù delle economie di specializzazione acquisite sul complessivo portafoglio crediti erogato, di un patrimonio di conoscenza settoriale del richiedente l’affidamento capace di ridurre, sempre rispetto all’informazione di mercato, la quantità potenziale di dati e notizie da richiedere 55 . La stessa comunicazione al pubblico della decisione di concessione del credito, anche se non conoscibile nelle condizioni economiche di dettaglio, genera esternalità positive a favore del soggetto affidato in termini di “segnale” al mercato circa l’affidabilità dello stesso. Dall’altro lato, la circostanza che lo scambio di informazioni rimanga circoscritto al fondo di credito erogante l’affidamento e non divenga quindi, come nel caso di strumenti di debito cartolare, di natura pubblica, può rappresentare un vantaggio potenziale per talune categorie di prenditori – si pensi ad esempio a imprese innovative ad alto tasso di investimento in spese di ricerca e sviluppo – non interessate a comunicare al mercato dati e notizie riservate che potrebbero avvantaggiare eventuali concorrenti56. Di contro, le caratteristiche di bilateralità ed elevata specificità dei contratti di credito rendono altamente illiquide dette attività di investimento e limitano, per definizione, la loro negoziabilità nel mercato secondario, ma rappresentano al contempo, come meglio descritto nel paragrafo che segue, fattori di incertezza che devono trovare adeguata remunerazione in termini di premio al rischio. 10 – Profili di costo e rendimento dell’investimento in crediti. L’attività di servizio prestata dal soggetto gestore del fondo nell’impiego professionale del patrimonio raccolto trova remunerazione in termini di commissioni di gestione, sia fisse sia eventualmente di overperformance rispetto a soglie di rendimento prefissate in coerenza con 55 S. SHARPE, Asymmetric Information, Bank Lending and Implicit Contracts, A stylized Model of Customer Relationships, in Journal of Finance, 45 (4), 1990. 56 S. BHATTACHARYA - G. CHIESA, Proprietary Information, Financial Intermediation and Research Incentives, in Journal of Financial Intermediation, 4, 1995, 328 - 357. 36 benchmark coerenti in termini di profilo di rischio-rendimento, dipendenti dalla complessità operativa, a sua volta funzione del comparto di attività in cui investe57. Dette commissioni rappresentano il compenso per l’amministrazione del fondo in quanto tale e sono quindi idealmente funzionali a coprire i costi di struttura, sia amministrativi sia di personale, ivi inclusi gli oneri del sistema dei controlli interni, del soggetto gestore nonché a riconoscere allo stesso un adeguato profitto per l’attività di impresa. Sulla base dell’attuale prassi generale di mercato dei fondi, sebbene la questione non risulti ancora codificata in dettaglio in termini regolamentari e, necessariamente, a motivo della novità del prodotto, nell’esperienza operativa dei credit funds, i costi di screening e monitoring dei singoli affidamenti andati a buon fine ovvero erogati - con esclusione quindi degli oneri generali di studio di mercato e di analisi di asset allocation strategica così come delle valutazioni di affidamento rigettate (cosiddetti abortion cost) – potranno, invece, essere addossati al fondo, in quanto direttamente attinenti al processo di investimento, ed eventualmente ribaltati sugli affidati in sede di pricing degli impieghi. Saranno altresì a carico del fondo le normali spese accessorie, quali i costi della banca depositaria nonché di revisione e di pubblicità regolamentare, tipiche dei fondi comuni di investimento. La redditività del portafoglio prestiti (determinata dagli interessi attivi e fee accessorie applicati ai prenditori decurtati dalle rettifiche di valore, analitiche e collettive, per effetto della manifestazione del rischio di credito in rapporto al volume di attività gestite), al netto di dette commissioni di gestione e dei costi operativi di cui sopra, costituisce pertanto il rendimento del fondo di spettanza dei sottoscrittori. Il costo del credito per i potenziali prenditori può quindi, in prima battuta, ipotizzarsi in linea con quello di prestiti obbligazionari (quotati in mercati organizzati, quali anche i minibond) di imprese con profilo di rischio ovvero rating comparabile, maggiorato di una componente di premio al rischio per effetto della predetta illiquidità dei prestiti (funzione crescente, questa ultima, tra l’altro del loro grado di specificità). Il pricing del credito dovrebbe altresì considerare – idealmente in forma di Nell’esperienza estera, riferita tuttavia a fondi speculativi, le commissioni di gestione sono di frequente comprese tra l’1% e il 2%. In Italia, anche per effetto dell’attuale contesto economico e del minore grado di sviluppo e, quindi, di specializzazione del mercato, esse sono attese minori. 57 37 specifiche commissioni – anche i costi informativi di selezione e monitoraggio della posizione. A motivo degli elementi sopra richiamati, il costo marginale: (i) di finanziamenti di mercato piuttosto (ii) che erogati da credit funds (iii) ovvero da banche, risulta necessariamente diverso, in termini comparativi, per l’impresa emittente/richiedente i fondi. (i) Nel caso di copertura del fabbisogno finanziario tramite raccolta di mercato (i.e. obbligazionaria, anche in forma di minibond), qualora accessibile, l’emittente i titoli sostiene un costo per interessi (cedolari) nonché oneri commissionali, iniziali e ricorrenti, relativi all’organizzazione e al servicing dell’emissione, questi ultimi funzionali a comunicare ai potenziali investitori dati e notizie, di matrice pubblica, sull’impresa emittente, al fine di ridurre le asimmetrie informative sia ex ante sia ex post (i.e. rispettivamente sulla qualità del progetto da finanziare ovvero sull’esito dello stesso una volta realizzato) tra datore e prenditore di fondi nonché il rischio di selezione avversa in capo all’investitore. Più in dettaglio, gli oneri per interessi considerano una componente di remunerazione per l’investimento in attività prive di rischio e una componente di premio al rischio che riflette, a parità di altre condizioni, tra l’altro il rischio di credito dell’emittente. La somma degli oneri da interesse e commissionali determina l’onere complessivo. (ii) Nel caso di ricorso a finanziamenti erogati da fondi di credito, l’affidato sostiene, analogamente all’ipotesi di mercato diretto, un onere per interessi e, idealmente, il ribaltamento in forma di commissioni accessorie degli oneri di screening nonché di successivo servicing e monitoring della posizione sostenuti dal fondo. Questi ultimi potrebbero, a motivo delle ragioni descritte nei precedenti paragrafi, essere marginalmente inferiori agli oneri di organizzazione e servicing di un’emissione di mercato. Il solo tasso di interesse risulterà di contro complessivamente più elevato rispetto al collocamento di titoli di debito per effetto della minore liquidabilità dell’impiego che si traduce in un premio al rischio di liquidità. (iii) Il costo complessivo del ricorso a un mutuo erogato da un fondo di credito è altresì stimabile come marginalmente conveniente rispetto al credito bancario (che rappresenta la vera modalità di finanziamento alternativo in termini di forma tecnica di impiego) in virtù della già richiamata separazione, in capo al credit fund, della funzione creditizia 38 rispetto a quella monetaria, la qual cosa determina un abbattimento dei costi di compliance regolamentare, compresi lato sensu nei costi di struttura dell’intermediario e, quindi, distinti, sotto il profilo logico, dai costi di screening e monitoring direttamente inerenti alla posizione di credito. Questo per effetto del venir meno della necessità della complessa (e costosa) disciplina prudenziale di matrice bancaria (i.e. requisiti patrimoniali a fronte del rischio di credito e vincoli di liquidità inter alias), limitandosi la regolamentazione a quella dettata in materia di gestione collettiva del risparmio (più leggera proprio perché non vi è una componente fiduciaria del pubblico nella moneta bancaria da tutelare). Per quanto attiene, invece, al costo per interessi nonché agli oneri di screening e monitoring non vi è di contro motivo per ipotizzare, sotto il profilo logico, una differenza operativa tra banche e fondi di credito. 11 – Fattori di criticità potenziale associati all’operatività e regolamentazione dei credit funds. Le caratteristiche operative dei fondi di credito e il loro ideale orientamento verso forme di investimento di medio-lungo termine basate sulla valutazione dei flussi di cassa attesi appaiono coerenti con la scelta del modello di fondo chiuso adottata dal legislatore. La natura chiusa risulta allineata alla tendenziale illiquidità degli impieghi in crediti ed elimina, rispetto alla forma aperta, il rischio di un mismatching tra durata potenziale del passivo e dell’attivo patrimoniale venendo per definizione meno la possibilità di riscatto a favore dei sottoscrittori (fatta salva, ovviamente, ma è altra cosa, la possibilità di rimborsi parziali della quota da parte del fondo, ad esempio all’avvicinarsi del termine di durata mano a mano che rientrano le posizioni di credito ovvero avanza il loro piano di ammortamento). Ciò implica altresì l’inutilità dei già citati presidi di liquidità in capo al fondo nonché il rischio di fire sales ovvero di vendite forzose di attività per effetto di richieste di rimborso della quota da parte dei sottoscrittori da fronteggiare con la rapida dismissione degli impieghi. Questo ultimo aspetto allontana, infine, una possibile prociclicità nella disponibilità di credito, con potenziale impatto sistemico, riconducibile a un’elevata offerta di finanziamenti in periodi economici espansivi a fronte di una potenziale contrazione degli impieghi in fasi recessive dell’economia a causa di 39 deflussi di patrimonio generati da domande di riscatto dei partecipanti al fondo in contesti economici avversi che si traducono in analoghe richieste di revoca in capo alle imprese affidate58. La scelta normativa del fondo chiuso circoscrive altresì la necessità di una stringente disciplina prudenziale che si traduce, in termini sostanziali e come visto nella prima parte del lavoro, in limiti di concentrazione funzionali a garantire una diversificazione dimensionale minima del portafoglio crediti (intesa come riduzione della varianza della dimensione del singolo affidamento rispetto all’importo medio) e coerenti con una generale logica di sana e prudente gestione. Invece, la stessa disciplina non interviene, correttamente a parere di chi scrive, sulla dimensione geografica e settoriale degli impieghi non essendo i fondi vincolati a diversificare gli investimenti per settore merceologico o area territoriale dei prenditori. Tale impostazione risulta infatti coerente con la ricerca di economie di scala e di specializzazione in capo al gestore del fondo, chiamato a specializzarsi nell’impiego in (pochi) comparti economici; la diversificazione settoriale e geografica può essere conseguita direttamente a livello di partecipanti attraverso l’investimento in più fondi di credito caratterizzati da diversi segmenti di specializzazione. Di contro, risulta potenzialmente criticabile, sempre a parere degli estensori delle presenti note, la scelta del legislatore di: (i) consentire il ricorso alla leva finanziaria; (ii) di vietare, per i soli fondi di credito non riservati, la concessione di finanziamenti di durata superiore a quella del fondo. Per quanto attiene al leverage, l’indebitamento, da un lato, innalza infatti la volatilità della redditività e, quindi, del profilo di rischio dell’investimento in quote di fondi di credito e, dall’altro lato, può generare fenomeni di moltiplicazione del credito nella misura in cui il relativo funding avviene, direttamente o indirettamente, presso intermediari bancari, con correlate implicazioni sistemiche. Tale fenomeno sebbene appaia ovviamente più marcato per i fondi di credito riservati, i quali possono avvalersi di una leva finanziaria più ampia a cui è verosimile attendersi faranno ricorso almeno in parte, è astrattamente ipotizzabile anche per i fondi non riservati destinati a un pubblico più ampio. Per questi ultimi, l’incentivo al leverage è altresì funzione della CENTRAL BANK OF IRELAND, Consultation on Implementation of Alternative Investment Fund Managers Directive, Consultation Paper 60, 2012, 5 ss. 58 40 struttura commissionale prescelta e del relativo aggregato di riferimento (gross asset vs. net asset value) individuato per il calcolo delle commissioni di gestione59. Con riferimento al secondo punto di attenzione, limitato ai fondi chiusi non riservati, il vincolo di scadenza tra durata degli affidamenti e del fondo – si immagina necessariamente riferito alla durata residua dello stesso, dato che altrimenti la norma si svuoterebbe di significato – appare di difficile condivisione. Se è intuibile la volontà del legislatore di introdurre una coerenza tra la vita residua del fondo e rientro degli affidamenti al fine di assicurare la provvista necessaria per il rimborso delle quote in un’ottica di ordinata liquidazione del fondo, detta previsione non appare però del tutto coerente con le esigenze di mercato e può, di contro, paradossalmente andare a ledere l’efficacia operativa del fondo, a scapito dello stesso interesse dei quotisti che la norma intende tutelare. Infatti, il matching di scadenze costringerebbe il fondo alternativamente a orientare il reinvestimento delle disponibilità derivanti dal rientro dei prestiti giunti a scadenza (anticipata rispetto alla durata del fondo) in impieghi a durata via via minore in coerenza con la progressiva riduzione della vita residua dello stesso veicolo di investimento (che possono però richiedere skill di investimento diverse da quelle necessarie all’investimento a durata superiore) oppure a sospendere il reinvestimento e a destinare i rientri al rimborso anticipato delle quote oppure, ancora, a tarare la ricerca delle opportunità di affidamento iniziali su durate pressoché identiche alla durata del fondo. Più in dettaglio, immaginando l’erogazione di mutui con normali piani di ammortamento, quindi non bullet, il vincolo predetto pone il problema del periodico reinvestimento dei flussi rinvenienti dalle rate in scadenza. Di nuovo, essi andrebbero destinati al rimborso anticipato parziale delle quote o al reimpiego in crediti di durata decrescente, in coerenza con la contrazione della scadenza residua del fondo. In questo senso è ragionevole ipotizzare che il vincolo di durata potrebbe indurre gli operatori a orientare la durata del fondo verso scadenze particolarmente estese (ad esempio 20 – 30 anni, con durata massima pari a 50 anni) al fine di consentire, anche nel caso di un’operatività orientata al medio-lungo termine, una certa capacità di M. BIASIN - A.G. QUARANTA, Fondi immobiliari e commissioni di gestione ex GAV o NAV. Effetti sulla performance, in Banca Impresa Società, Vol. 2, 2012. 59 41 rigiro del portafoglio impieghi. Del pari, è immaginabile che una volta affermatisi i primi fondi di credito, possano ulteriormente svilupparsi fondi di investimento, se vogliamo di secondo livello e in parte già esistenti, specializzati nell’acquisizione di crediti nel mercato secondario. Nell’ipotesi di un rafforzamento di tale segmento di mercato, il vincolo di matching delle scadenze potrebbe gradualmente perdere di significato operativo, dato che i fondi potrebbero pianificare per tempo la (graduale) cessione dei crediti residui in portafoglio in una sorta di ideale mix tra parziali rimborsi anticipati di quote e dismissioni dell’attivo. 12 - Cooperazione con banche o intermediari finanziari (cd. servicing)? Si è sopra ricordato che per l’attività di erogazione diretta di crediti, le compagnie assicurative o società di cartolarizzazione devono avvalersi della collaborazione di una banca o di un intermediario finanziario ex art. 106 t.u.b.: non solo per le segnalazioni periodiche alla Banca d’Italia e la partecipazione alla centrale dei rischi (ciò che viene imposto anche ai fondi di credito diretto), ma anche, se non soprattutto, per quanto concerne l’attività di individuazione dei prenditori dei finanziamenti; disponendosi altresì che la banca o l’intermediario coinvolto «trattenga un interesse economico nell’operazione» pari ad almeno il 5% del finanziamento, fino alla sua scadenza. Ciò, evidentemente, al fine di gestire il conflitto di interesse latente tra soggetto preposto alla selezione ed eventuale monitoraggio degli affidati (il quale presta, pertanto, un’attività di mero servizio) e soggetto erogante l’affidamento (il quale, di contro, sostiene il rischio di prezzo e di liquidità connesso all’impiego in crediti), ricercando la compartecipazione all’investimento (anche se per una percentuale molto ridotta in termini regolamentari) e, pertanto, un allineamento degli interessi coinvolti. Sotto il profilo logico, la stessa opportunità di collaborazione si potrebbe altresì profilare anche per i credit funds che nella propria attività di concessione di finanziamento potrebbero valutare il ricorso all’attività di servicing (selezione dei soggetti da affidare; valutazione del merito di credito e del rischio nonché pricing dell’operazione; monitoraggio della posizione; attività di incasso; gestione degli eventuali contenziosi derivanti dal contratto sottostante) prestata da banche o altri intermediari finanziari. 42 Detta possibilità di collaborazione tra banche e fondi di credito, fonte di potenziali ricavi commissionali per il service provider e di sicuro interesse, almeno iniziale, per i credit funds a motivo della capacità delle banche, soprattutto locali, di intercettare la domanda di credito sul territorio in virtù della rete di filiali di cui l’intermediario dispone, pone evidentemente problemi di ordine economico e regolamentare alla luce dei molteplici conflitti di interesse e di rischio di comportamenti opportunistici intrinseci a qualsiasi rapporto mandatario tra principal e agent e funzione del tipo e dell’ampiezza dei servizi delegati ovvero esternalizzati. 12.1 – Profili economici Sotto il profilo economico, in termini semplificati, l’intervento di intermediari bancari partner potrebbe astrattamente: (i) limitarsi ad un’attività di mera segnalazione di opportunità di investimento; ovvero (ii) tradursi anche in un’effettiva selezione (ed, eventualmente) successivo monitoraggio delle posizioni da affidare ovvero affidate e servicing degli impieghi. Nella prima ipotesi, il fondo potrebbe riconoscere alla banca una semplice client fee per l’individuazione del richiedente il credito, eventualmente anche nell’ambito di operazioni in pool, mantenendo presso di sé la decisione circa l’affidamento. Il pagamento della commissione, necessariamente di entità contenuta, dovrebbe idealmente avvenire al perfezionamento dell’operazione al fine di incentivare la banca a veicolare domande meritevoli di affidamento. Si osservi, tuttavia, che in questa articolazione di base, l’istruttoria di fido, e correlata valutazione del merito di credito, è di esclusiva spettanza del fondo che è necessariamente richiesto di dotarsi delle competenze organizzative e professionali così come dei sistemi di controllo interni adeguati a presidiare e gestire i relativi rischi, in primis di credito, sopra citati. Nella seconda ipotesi, l’attività del service provider sarebbe di portata più ampia e andrebbe ad abbracciare – stante la necessaria e obbligatoria verifica dell’operato dell’outsourcer da parte del fondo, meglio descritta oltre, che dovrebbe quindi comunque disporre di competenze creditizie al fine di riuscire a condurre detta validazione (così come anche imposto, ad esempio, alle compagnie assicurative) – l’intera o, almeno, larga parte 43 dell’attività di affidamento, in termini di selezione e valutazione dei richiedenti fondi nonché di pricing e di monitoring degli impieghi. I conflitti di interesse che scaturiscono da detta architettura operativa richiedono necessariamente dei presidi capaci di mitigarli. Una prima soluzione, tra le molteplici ipotizzabili, sarebbe individuabile nella previsione, da formulare anche nello stesso regolamento del fondo e nell’accordo di partnership con la banca, di un obbligatorio co-investimento, idealmente paritetico, da parte dell’intermediario bancario proponente l’affidamento ovvero che ne abbia curato la selezione e valutazione. Si tratterebbe, in buona sostanza, di organizzare prestiti in pool con la banca proponente, questa ultima in qualità di soggetto capofila e responsabile della gestione della posizione. Ciò, evidentemente, al fine di perseguire un allineamento di interessi tra i soggetti coinvolti e circoscrivere il rischio di una credit origination slegata dalla partecipazione all’impiego. Le stesse fee da riconoscere alla banca partner per l’attività di servicing dovrebbero essere parametrate all’andamento degli impieghi dalla stessa «intermediati» ovvero «valutati». La decisione finale di impiego andrebbe in ogni caso trattenuta in capo alla società di gestione del fondo a motivo del fatto che una esternalizzazione integrale della decisione di investimento a favore della banca partner svuoterebbe di fatto di contenuto – a prescindere dalle considerazioni regolamentari, anche nell’ambito della nuova normativa sulle operazioni con «parti correlate»60, che seguono – il ruolo del gestore (in tal caso non più «organismo di investimento»), trasformando il rapporto in una sorta di semplice «conto segregato» amministrato esternamente da un soggetto, la banca, terzo rispetto alla Sgr. Le decisioni di investimento della società di gestione potrebbero altresì transitare per un comitato crediti, interno alla stessa, chiamato a esprimere pareri non vincolanti propedeutici alla decisione di affidamento di spettanza dell’organo amministrativo della Sgr. Qualora la società di gestione intrattenesse rapporti con più intermediari bancari partner, nulla vieta che allo stesso comitato partecipino anche rappresentanti di questi ultimi, ovviamente prevedendo l’esclusione del diritto di voto per il rappresentante della banca proponente l’affidamento; detta previsione 60 F. SACCOMANNI, Credit Crunch. Credit Funds, (nt. 6). 44 potrebbe contribuire a un monitoraggio e a una reciproca disciplina degli intermediari bancari partner. 12.2 – Profili normativi: «esternalizzazione» delle funzioni e possibili conflitti di interesse. Se si considera la centralità, nell’attività imprenditoriale, della fase di selezione degli affidati per un fondo che dell’erogazione del credito faccia la sua politica di investimento esclusiva o principale, dovrà anche riconoscersi che l’affidamento di una tale funzione ad intermediari bancari (nei termini di servicing sopra descritti) attrarrà la disciplina dettata in materia di «delega di funzioni», o «esternalizzazione» delle «funzioni operative essenziali o importanti o di servizi» da parte dei gestori di Oicr. Disciplina dettata, come noto, dalla Direttiva 2011/61/UE (Aimfd, art. 20) e in via più analitica dal Reg. 231/2013/UE (art. 75 ss.) nonché, ad essi conformemente, dagli artt. 50 ss. del «Regolamento congiunto Banca d’Italia – Consob ex art. 6, comma 2 bis, t.u.f.» (art. 19 ss.) 61 al fine di mitigare i rischi inevitabilmente derivanti dall’investitura di un terzo nello svolgimento di funzioni e scelte, talora anche discrezionali, che dovrebbero in principio competere al gestore ed anzi condizionare il buon esito della sua attività. Fra gli appena evocati rischi della “esternalizzazione”, uno – del tutto peculiare del tipo di operatività ora considerata, e da tenere in particolare considerazione – è proprio quello che può scaturire dal coinvolgimento di banche o di intermediari finanziari ex art. 106 t.u.b. nell’attività di concessione del credito. Anche in questa prospettiva emerge la sostanziale sovrapponibilità del credito non bancario a quello bancario (o svolto dagli intermediari ex art. 106 t.u.b.) e allora il rischio di un ampio fronte di possibili conflitti fra gli interessi del gestore del fondo e dei suoi partecipanti, da un lato, e gli 61 «Regolamento in materia di organizzazione e procedure degli intermediari che prestano servizi di investimento o di gestione collettiva del risparmio», adottato con provvedimento congiunto Banca d’Italia - Consob del 29 ottobre 2007, già conformemente alla cd. Direttiva Mifid I di secondo livello Dir. 2006/73/CE (e sulla cui disciplina della esternalizzazione dei servizi di investimento v. già Marco MAUGERI, Esternalizzazione di funzioni aziendali e “integrità” organizzativa delle imprese di investimento, in questa Rivista, 2010, I, 439 ss., da cui qui si cita, nonché sul volume Assogestioni, “L’attuazione della MIFID in Italia”, a cura di R. D’Apice, Bologna, 2010, 371; F. ANNUNZIATA, La disciplina del mercato mobiliare7, 2014, Torino, 158), come poi dalle medesime Autorità aggiornato con provvedimento del 19 gennaio 2015. 45 interessi degli intermediari bancari o finanziari che, operando istituzionalmente nel medesimo settore, si troveranno a gestire soggetti che sono, o potrebbero essere, propri clienti. Si ricordi ancora, a questo riguardo, come non operi, nel caso dei fondi di credito, la cautela prevista per società assicurative o di cartolarizzazione, secondo cui la banca o l’intermediario finanziario coinvolto debba «trattenere un interesse economico nell'operazione» nella misura di almeno il 5% del finanziamento, fino alla sua scadenza; il che, pur senza precludere ogni conflitto di interessi, quantomeno contribuisce sensibilmente ad attenuarne il rischio, creando una necessaria area di convergenza di interessi. Certo, la normativa di settore non trascura il problema. Essa prescrive infatti che il ricorso all’esternalizzazione di funzioni operative essenziali o importanti, o di qualsiasi attività o servizio di investimento: (i) non solo non debba tradursi in una totale abdicazione del gestore rispetto alle scelte di chi abbia ricevuto la delega di funzioni 62 , dovendo il primo sempre rimanere in possesso delle competenze necessarie (ad esempio, prevedendo quantomeno l’istituzione di un apposito ufficio interno – si dica un “comitato crediti” - che comunque vigili e presidi l’erogazione “delegata”) a comprendere e a controllare le scelte dell’incaricato 63 , e restandone comunque responsabile64; Cfr. MAUGERI, Esternalizzazione di funzioni aziendali e “integrità” organizzativa delle imprese di investimento, (nt. 61), 451. 63 V. in particolare l’art. 21 del sopra citato Reg. Congiunto Banca d’Italia – Consob, nonché le Istruzioni di Vigilanza, Tit. V, cap. III, sez. I, § 4, ove in via generale si prescrive che nella definizione del sistema di gestione dei rischi di qualunque Oicr, per la valutazione del merito di credito delle relative attività, “la Sgr non si affida esclusivamente o meccanicamente ai rating emessi da agenzie di rating, assicurando che siano condotte adeguate e autonome analisi interne. In tale ambito, definisce e applica un adeguato processo di gestione del credito, articolato nel modo seguente: misurazione e diversificazione del rischio; istruttoria; erogazione; controllo andamentale; classificazione delle posizioni di rischio e relativi criteri; interventi in caso di anomalia; valutazione e gestione delle posizioni deteriorate”. 62 64 Cfr. M. MAUGERI, Esternalizzazione, (nt. 61), 453 ss. Può essere utile a questo riguardo ricordare quanto espressamente previsto dal sopra citato art. 21 del Regolamento Congiunto (“Gli intermediari che esternalizzano funzioni operative essenziali o importanti, o qualsiasi servizio o attività di investimento, restano pienamente responsabili del rispetto di tutti gli obblighi previsti in materia di servizi o attività di investimento e osservano le condizioni seguenti, assicurando in particolare che: a) l’esternalizzazione non determini la delega della responsabilità da parte degli organi aziendali; b) non siano alterati il rapporto e gli obblighi dell’intermediario nei confronti della sua clientela (…)”, o, analogamente, dal § 25b (Auslagerung von Aktivitäten und Prozessen), Abs. 2, della Kreditwesengesetz – KWG (“Die Auslagerung darf nicht zu einer Übertragung der Verantwortung der Geschäftsleiter an das 46 (ii) ma, anche al di là di ciò, richiede che la delega della gestione del portafoglio o della gestione del rischio non possa comunque essere conferita: né, in nessun caso, al depositario; né «a qualsiasi altro soggetto i cui interessi potrebbero confliggere con quelli del gestore, degli Oicr o dei clienti», anche se poi, in questo secondo caso, si concede una significativa deroga, e cioè che la delega possa aver luogo se il soggetto delegato «abbia separato, sotto il profilo funzionale e gerarchico, lo svolgimento della funzione di gestione del portafoglio o di gestione del rischio dagli altri compiti potenzialmente configgenti, e i potenziali conflitti di interesse siano stati opportunamente identificati, gestiti, monitorati e comunicati ai clienti». Col che, in definitiva, l’esistenza di un latente conflitto di interessi ― seppure da prevenire mediante procedure interne di «chinese walls», e comunque da identificare e “gestire” ― viene considerata possibile. Del resto, una neutralizzazione di possibili conflitti di interessi potrebbe essere perseguita sul piano negoziale: nulla impedendo che nella stessa convenzione di servicing il gestore imponga, come prima proposto, una regola di necessaria compartecipazione nel rischio da parte dell’intermediario incaricato, eventualmente prevedendo una concessione di credito diretto in pool. Ma è evidente che, quando così non fosse, e le occasioni di conflitto di interesse (allora rilevanti anche sul versante della disciplina che regola la prestazione di servizi di investimento da parte dell’intermediario bancario o finanziario) potrebbero divenire molteplici. Si pensi così, solo per fare alcuni esempi, alla remunerazione da pattuirsi con le banche che prestino attività di servicing, per ogni finanziamento concesso; o all’eventualità in cui un’impresa, già indebitata verso una banca, ottenga credito da parte del fondo grazie all’intermediazione della stessa banca (seppure attraverso «funzioni aziendali» diverse ed autonome da quelle che abbiano già erogato il credito bancario), mettendosi così in condizione di rientrare dalla sua esposizione pregressa verso la medesima banca; ovvero al caso in cui una banca, che eroghi un finanziamento in pool con il fondo, si trovi in Auslagerungsunternehmen führen. Das Institut bleibt bei einer Auslagerung für die Einhaltung der vom Institut zu beachtenden gesetzlichen Bestimmungen verantwortlich”). 47 condizione di ottenere dal cliente condizioni contrattuali migliori proprio in considerazione della componente di finanziamento proveniente dal fondo, ma “procurata” dalla banca stessa. 13 – Altri possibili conflitti di interessi D’altra parte, anche a prescindere da un coinvolgimento di intermediari bancari o finanziari nella fase di erogazione del credito, potrebbero emergere ulteriori conflitti di interessi (di simile natura, seppure riferibili a rapporto di diversa natura). Si pensi così alle ipotesi in cui tali una banca assuma la qualità di partecipante al fondo, ovvero di socio di riferimento della Sgr, se non l’una e l’altra. In queste circostanze, gli scenari di possibile conflitto si moltiplicherebbero a dismisura, con rischi – si ricordi ora, senza entrare nel dettaglio – presidiati da una pluralità di normative che, seppur di diverso rango e tenore, risultano tutte, complessivamente, orientate non tanto a proibire qualunque attività capace di generare conflitti di interesse, quanto piuttosto a «governarla»: consentendola, cioè, a condizione che il relativo rischio venga scongiurato o comunque, in concreto, neutralizzato65. 65 Vengono in questione innanzitutto le norme che si occupano del momento deliberativo (sia consiliare che assembleare) in cui le varie società coinvolte (la stessa Sgr, o le banche partecipanti, o quelle partecipanti al fondo di credito) si trovino a poter influenzare la predisposizione dei rapporti attraverso i quali troverà attuazione l’operatività del fondo secondo il modello delineato. E così le deliberazioni aventi ad oggetto: la stessa istituzione del fondo; l’approvazione del suo regolamento da parte dei partecipanti; la sottoscrizione delle quote del fondo da parte delle banche partecipanti alla Sgr; la stipulazione fra la Sgr e le banche ad essa partecipanti dei contratti con i quali la prima conferisca alle seconde l’attività di servicing, etc. Tali deliberazioni potrebbero allora essere sottoposte, ricorrendone i presupposti, alla disciplina prevista dalle norme codicistiche e regolamentari in materia di «interessi degli amministratori» (art. 2391, cod. civ.), di conflitto di interessi dei soci (art. 2373, cod. civ.) o di «operazioni con parti correlate» (art. 2391 bis, c.c.; Reg. Consob 17721/2010; Istruzioni di Vigilanza della Banca d’Italia, Tit. V – Cap. 5). Centrale, poi, con riferimento alla gestione dei possibili rischi di conflitti di interessi, è il già citato Reg. 231/2013/UE (artt. 30 ss., con riferimento all’obbligo del Gefia di rilevare ogni possibile conflitto di interessi, adottando poi un’efficace «politica di gestione» degli eventuali conflitti attraverso misure idonee a prevenirli, gestirli e monitorarli); nonché il già citato Reg. Congiunto Banca d’Italia – Consob nella parte (Titolo V, artt. 45 ss.) in cui si occupa dei possibili «conflitti di interessi che potrebbero sorgere tra le SGR … gli OICR, tra i clienti di tali società e gli OICR o tra i diversi OICR gestiti». E ciò soprattutto in ragione dell’eventuale coinvolgimento di “soggetti rilevanti”, fra i quali vanno soprattutto ricordati i “soci” della Sgr, «in ragione dell’entità delle partecipazioni detenute». Si tratta comunque, anche in questo ambito, di possibili conflitti di interesse che vengono contemplati non già quale impedimento a priori di qualunque operatività; ma soltanto quale fattore di rischio da «identificare» e da «gestire» (…) «tramite idonee misure organizzative in modo da evitare che tali conflitti 48 MASSIMO BIASIN Prof. Ord. di Economia degli Intermediari Finanziari nell’Università di Macerata MAURIZIO SCIUTO Prof. Ord. di Diritto Commerciale nell’Università di Macerata. possano ledere gravemente uno o più OICR gestiti» e sulla base di una efficace «politica di gestione» (Reg. Congiunto Banca d’Italia – Consob, cit., art. 46). 49