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Appunti Madame Bovary
1 Genesi del bovarismo. Madame Bovary di Gustave Flaubert L’ossessione dello stile e lo stile “Una buona frase di prosa deve essere, al pari di un buon verso, impossibile da cambiare e altrettanto ritmata e sonora”: così scrive Flaubert in una lettera all’amante Louise Colet il 22 luglio 1852. La frase rispecchia bene l’ossessione flaubertiana per la forma, che tormenterà senza tregua l’autore di Madame Bovary, romanzo con il quale egli intendeva sbarazzarsi del romanticismo che aveva impregnato la sua narrativa precedente e che era stato recisamente criticato dai suoi più fidi amici letterati. Flaubert iniziò il romanzo la sera del 19 settembre 1851 e lo ultimò il 30 aprile 1856. “Lo stile è tutto!”: a questa persuasione si attenne – prefiggendosi di dimostrarne la veridicità – quando abbandono temi sentimentali e moduli espressivi romantici per scrivere una storia che per se stessa, sul piano tematico-contenutistico, era “vilaine”, volgarotta, priva di ogni attrattiva spirituale. Quattro anni, sette mesi, e undici giorni: questa l’ampiezza del tempo impiegato dallo scrittore per portare a termine il lavoro in maniera soddisfacente. Diciamo soddisfacente, perché l’ossessione per lo stile e la musicalità era tale che Flaubert passava anche ore per correggere una sola frase, rifacendo spesso da capo interi brani. Sappiamo che quando scriveva aveva davanti due fogli, su uno dei quali buttava giù una prima stesura senza badare troppo alla forma, e lasciando invece che le idee prendessero corpo liberamente sulla pagina; poi procedeva alla minuziosa correzione parola per parola da cui prendeva forma il brano che copiava sul secondo foglio; infine leggeva ad alta voce quanto aveva scritto, per sentire se ogni frase “suonasse bene”. In questa ultima fase Flaubert si applicava a capire se il lavoro era o non era soddisfacente e il più delle volte trovava nuovi errori e stonature, tali che lo obbligavano anche a rifare tutto da capo. Tutto questo lavoro avveniva nello studio della sua casa a Croisset, dove viveva una vita appartata e quasi monacale insieme alla madre e alla nipote Caroline: cominciava a scrivere verso sera per poi continuare fino a notte inoltrata, mentre la luce che si affacciava sulla Senna serviva da faro per le barche lungo il fiume. Solo alla domenica la routine si interrompeva, allorché gli faceva visita l’amico Louis Bouilhet, anche lui scrittore, con cui correggeva quel che aveva elaborato durante la settimana. Per Flaubert la scrittura veniva prima di tutto, prima anche dell’amore, come si evince dalle lettere che scambiava regolarmente con l’amante Louise Colet; ed era tanto importante che se ne distaccava controvoglia, e soltanto quando la tensione nervosa raggiungeva il limite. Flaubert infatti si immergeva tanto nel suo lavoro da patirne spesso fisicamente, soprattutto nei quadri maggiormente drammatici, come ad esempio la morte di Emma, durante la stesura della quale l’autore confessò di aver sofferto di dolori atroci, quasi come se egli stesso avesse ingerito dell’arsenico: disturbi che oggi noi definiremmo di origine psicosomatica. Quando voleva prendersi una pausa dalla sua Bovary, Flaubert si recava a Parigi per brevi visite ad amici e conoscenti, talvolta concedendosi un po’ di tempo, sempre limitato, da trascorrere con Louise Colet, l’amante con la quale aveva un rapporto fatto più che altro fatto di lettere quasi quotidiane, rapporto che si deteriorerà progressivamente nel corso degli anni. Queste lettere, di cui ci restano solo le risposte di Flaubert mentre quelle di Louise furono bruciate, sono una testimonianza importantissima per capire la fatica di Flaubert nello scrivere un romanzo dall’argomento “banale e borghese”. Ma come arrivò a decidere di scrivere? Secondo un aneddoto di incerta verità Madame Bovary trarrebbe origine da una vicenda di cronaca, la storia di Delphine Delamare, che si sarebbe suicidata dopo aver fatto parlare molto di sé e delle sue avventure extraconiugali in tutta Rouen. Sarebbe stato l’amico Louis Bouilhet ad attirare su quella vicenda l’attenzione di GF. Che la testimonianza sia vera o meno, certo è che da quel suggerimento, fatto all’indomani della lettura agli amici della Tentazione di Sant’Antonio, nel settembre 1849, opera narrativa dagli amici inesorabilmente bocciata per il suo sentimentalismo romantico, come si è ricordato sopra, trascorse diverso tempo prima che l’autore si decidesse a un così radicale cambiamento tematico, passando alla tanto odiata materia comune e borghese. Infatti, per quanto un argomento potesse affascinarlo, Flaubert rifletteva molto attentamente prima di risolversi a scriverne. Così sarà per ogni suo lavoro e a maggior ragione per la Bovary, il cui argomento, come confesserà più e più volte, suscitava in lui repulsione e disgusto. Il creatore di Emma odiava tutto ciò che era borghese, dove per borghese intendeva più una soggettiva condizione mentale e visione del mondo che non uno status economico e professionale: un borghese è un “filisteo”, cioè una persona che crede solo in valori convenzionali e la cui unica preoccupazione sono gli aspetti materiali della vita. Non solo, il suo odio era così radicato da costituire una vera e propria fobia del borghese che gli suscitava addirittura “nausea e schifo”. Ciò non impedirà all’io lirico di creare, per il suo romanzo, diverse figurine borghesi gentili, sempre impiegate per ruoli relativamente modesti, e mai vagheggiate dalla voce narrante (con una sola eccezione, quella di Justin, parente povero e impiegato del farmacista) quali la moglie del farmacista e la proprietaria della locanda. Flaubert si documentò con grande scrupolo per rendere credibile e verosimile ciò che doveva scrivere: per questo motivo chiese al fratello indicazioni sull’avvelenamento da arsenico, ebbe colloqui con un avvocato e un notaio a Rouen, che lo istruirono su cambiali, sequestri e messe all’asta; assistette, nel villaggio di Darnétal, ad un’assemblea di coltivatori che gli servì per scrivere il brano sui comizi agricoli. Insomma: esplorò a 360° l’ambiente da lui tanto detestato. L’ossessione documentaria non raggiunge nella Bovary i livelli del futuro Salammbô, ma è comunque un indice importante della necessità dello scrittore di essere quanto più possibile veritiero. La scrittura di Madame Bovary richiese dunque molte e lunghe sofferenze a Flaubert, che tuttavia, a lavoro ultimato, se ne sentì soddisfatto. Per questo motivo accettò il suggerimento di Maxime du Camp, amico e direttore della rivista Revue de Paris, di pubblicare il romanzo in sei puntate proprio sul suo periodico: questo è importante, perché Flaubert – così egli asseriva -- non scriveva con l’intenzione di divulgare al pubblico, e, anzi, nutriva una malcelato disprezzo nei confronti del cosiddetto “Parnaso” parigino, ricco di scrittori mediocri i cui unici interessi erano la fama e la ricchezza, a discapito della buona letteratura. Flaubert si sentiva profondamente diverso, non soltanto perché viveva appartato, lontano dal clamore della capitale e dalla sua vita politica, per cui nutriva scarso interesse, ma anche perché la sua vera ambizione, lungi dal ricercare onori, era quella di occuparsi di letteratura in modo serio: scrivere senza chiedere nulla a nessuno. La prima puntata uscì il 1° ottobre 1856 e subito iniziarono i problemi: la censura sotto Napoleone III era piuttosto rigida e la rivista era già malvista per essere troppo liberale. I direttori, preoccupati, cercano di limitare i danni proponendo di scorciare alcuni passi del romanzo, soprattutto quelli che più avrebbero potuto destare scalpore, ma Flaubert andò in collera alla sola idea che venissemodificata anche una sola parola, frutto delle sue lunghe sofferenze. Nondimeno, dopo lunghe insistenze, accettò di operare alcune piccole modifiche. La puntata apparsa sul numero di dicembre recò diversi tagli non autorizzati che produssero nell’autore una collera e uno sdegno tali da costringere i direttori a inserire una sua nota in cui esprimeva tutta la sua frustrazione: “… dichiaro pertanto di non assumermi la responsabilità delle righe che seguono. Il lettore è pregato di vedervi dei semplici frammenti e non un insieme.” Nel frattempo all’orizzonte si profilò un intervento del tribunale correttivo. Flaubert ne fu sbalordito, ma non si perse d’animo. Anzi, raddoppiò in ostinazione e il suo orgoglio raggiunse l’apice: decise di far pubblicare la sua Bovary in volume e firmò un contratto editoriale con Michel Levy. Il romanzo nel frattempo incontrava un discreto successo e ottenne molti pareri positivi, anche autorevoli. Diversi letterati e non, tra cui il tanto da lui criticato Lamartine, si unirono in difesa del romanzo contro la censura, e si sussurrava che l’imperatrice in persona esprimesse apprezzamento nei confronti dell’opera e del suo autore. Rassicurato da questo, Flaubert si illuse che non ci sarebbe stato nessun processo, finché il 15 gennaio 1857 fu informato che avrebbe dovuto presenziare a udienze davanti al tribunale correttivo; la prima si tenne il 29 gennaio. Ancora una volta Flaubert fu sconvolto da quella che a lui sembrava una messinscena che mascherava trame politiche, di cui il suo romanzo sarebbe una sorta di capro espiatorio. Al processo, l’accusa, nella persona di Ernest Pinard, si concentrò su quella che venne definita più volte “poesia dell’adulterio”: il romanzo sarebbe stato immorale e scandaloso, perché permeato di un erotismo nocivo ai lettori, e in particolare al pubblico femminile. I brani estratti, sempre secondo l’accusa, costituirebbero solo un minimo esempio. Le parti più criticate furono l’episodio del fiacre e quello dell’estrema unzione di Emma. L’accusa è dunque di licenziosità. L’avvocato Senard accingendosi al suo lungo discorso difensivo, in primo luogo sottolineò la profonda moralità del romanzo (la protagonista viene da ultimo punita per i suoi “peccati”), e in secondo luogo passò ad esaminare i brani incriminati uno ad uno. Per quanto riguarda il brano del fiacre asserì che nulla viera di scandaloso, dal momento che si parlava soltanto di una carrozza che andava su e giù per le vie di Rouen, mentre ciò che avveniva all’interno era totalmente taciuto; a proposito dell’episodio dell’estrema unzione, invece, l’avvocato rivelò che esso era una pura trasposizione in francese del testo latino del Rituale, un manuale religioso. In realtà non sono le singole parole o le singole descrizioni ad essere in qualche modo licenziose, ma è l’insieme stesso a suscitare allusioni che a quel tempo venivano percepite come oltraggiose. Ad ogni modo, il processo si concluse con la piena assoluzione del suo autore. Si può affermare con certezza che proprio il processo, che aveva destato scandalo e messo in moto tutto il bel mondo parigino, fu all’origine dello straordinario successo che il romanzo ebbe subito dopo: infatti quando uscì in volume nell’aprile di quello stesso anno, in breve fu necessaria una ristampa che fece salire il numero di copie a ben quindicimila. Flaubert uscì comunque prostrato e nauseato da tutta quella vicenda, quasi rimpiangendo di essersi affacciato al pubblico, e decidendo pertanto di ritirarsi nuovamente alla vita tranquilla e senza scosse della sua casa a Croisset, dove il suo rinvigorito odio borghese lo avrebbe portato, di lì a qualche tempo, ad un nuovo salto tematico: gli antichi paesaggi della Cartagine di Salammbô. Emma Bovary: il peccato della cattiva letteratura Quello che verrà poi definito bovarismo, secondo espressioni felici di Jules de Gaultier, è al tempo stesso il desiderio di credersi diversi da ciò che si è e l’incapacità di vivere e godere di ciò che concretamente si ha. Chi, come Emma, è tormentato da questa sensibilità morbosa si rifugia in fantasie sbagliate; il suo contatto con la realtà è viziato alla radice; alla realtà, che la disgusta, questo tipo di donna contrappone dei fantasmi inattingibili. Ogni volta che arriva in qualche modo ad avere ciò che bramava, subito cerca qualcos’altro, perché la cosa tangibile non coincide con l’idea che ella ne aveva avuta; non è altrettanto elevata. Il bovarismo è giudicato oggi come uno stato psicologico di profonda insoddisfazione verso la propria realtà, che spinge la donna a rifugiarsi in fantasie più o meno romanzesche, e a desiderare di essere altro da sé. Le donne à la bovary sono creature che si sentono imprigionate in un matrimonio che ostacola le loro ambizioni di successo: sono sposate a uomini mediocri di solito più vecchi di diversi anni, o quantomeno privi di ogni attrattiva esteriore, i quali non possono e in ogni caso non riescono a dare alla moglie la vita di lusso, di piaceri, di successi mondani e di passione che questa desidera. La donna à la bovary si dedica qualche volta (sulle orme di Emma) all’accumulo di alcuni oggetti feticcio assunti come simbolo della realtà a cui ella aspira, specie a un lusso voluttuoso e inaccessibile. Fin dal tempo in cui Charles la corteggia ella mostra abilità di seduzione, e attitudine alla doppiezza; ma questi tratti sono in lei ancora acerbi ed ella si comporta qui più in maniera istintiva che premeditata. Di contro Emma, negli anni del suo matrimonio sarà sempre, come la voce narrante alla morte di lei porrà in risalto, superficiale, mentitrice, egoista. Emma, nutritasi e quasi intossicatasi negli anni della educazione in collegio presso le suore di cattiva letteratura cavalleresca e amorosa, immagina e idoleggia situazioni ed esperienze, lontanissime dalla normale esperienza concreta di ogni uomo. Ella si immerge in un vortice di fantasticherie, tanto meravigliose quanto illusorie: “avrebbe voluto vivere in qualche antico maniero, come quelle castellane dal lungo corsetto che sotto le ogive trilobate passavano i giorni con il gomito sul davanzale e il mento nella mano a guardare se dal fondo della campagna spuntasse un cavallo nero”. Ogni esperienza propria sarà in un modo o nell’altro per lei una delusione. Quando Emma si sposa, crede che all’orizzonte si profilino la felicità e l’amore: dopotutto nella sua casa si annoia e pensa che sposando Charles potrà elevarsi di condizione sociale e ottenere la ricchezza tanto bramata. Verrà presto delusa, e la sua delusione è prima ancora sessuale: non solo non si innamora del marito come aveva sperato, ma lo trova un amante insoddisfacente. Ciò che progressivamente le rende la vita con lui intollerabile è la prevedibilità: di Charles dice che “le sue espansioni si erano fatte regolari, ed era a ora fissa che la stringeva a sé. Un’abitudine come tante altre, un dolce contemplato dalla lista, dopo la monotonia della cena”. Dopo verrà la mediocrità del marito, la cui conversazione è definita “piatta come un marciapiede” e soprattutto il fatto che egli la creda felice. E’ la cecità del marito di fronte alla sua infelicità a far crescere in lei il rancore, ed è un fatto che ella non gli perdonerà mai, tanto che quando si getterà nelle sue relazioni adultere lo farà senza rimpianto, quasi pensando che egli se lo sia meritato. Emma inoltre non è esente da un gusto tutto suo per l’esotismo, e questo emergerà chiaramente quando fantasticherà sulla fuga col primo amante, Rodolphe Boulanger, immaginando gondole, amache e vestiti di seta: “lei si destava in ben altri sogni. Il galoppo dei quattro cavalli da otto giorni la portava verso un paese nuovo da cui non sarebbero mai più tornati. […] sovente, dall’alto di una montagna, scorgevano all’improvviso qualche città splendente di cupole, ponti, velieri, distese di aranceti, cattedrali di candido marmo con nidi di cicogne fra le guglie. […] Sarebbero andati in gondola, si sarebbero dondolati su un’amaca”). Per Emma la vita deve essere come un romanzo d’amore e l’amore stesso deve presentarsi seguendo tutti i cliché letterari: quando Rodolphe si burla del marito, Emma si turba, non come ingenuamente si potrebbe pensare, perché le pare ingiusto prendersela col povero Charles, colpevole solo di essere un sempliciotto devoto fin quasi alla stupidità, ma perché la situazione, il “triangolo”, avrebbe dovuto avere pathos teatrale, Rodolphe avrebbe dovuto temere l’ira e la vendetta del marito offeso (“le sarebbe piaciuto trovare in lui [Rodolphe] più serietà e magari più senso del dramma”). Del pari, la donna cederà a Léon quando questi saprà comportarsi e parlare nel modo giusto. Ella stessa si adegua alle sue letture usando un tono da melodramma quando per esempio cerca di respingere Léon dicendo: “no, amico mio. Sono troppo vecchia… siete troppo giovane… dimenticatemi! Altre vi ameranno… le amerete”; parole che suonano quanto mai surreali se si pensa che tra loro due non dovevano correre poi molti anni di differenza. L’adulterio non è la maggiore infrazione di Emma alla immagine corrente della famiglia e della posizione della donna ella famiglia: in un certo senso si può comprendere come una donna non innamorata del marito, cerchi l’amore altrove. Ciò che non può non épater le bourgeois è la assoluta freddezza della donna nei confronti della figlia, che a tratti si manifesta come piena ostilità. Le prove che Emma è una pessima madre sono numerose, a partire dal luogo e dalla donna a cui viene affidata a balia appena nata, alla fretta con cui Emma vuole andarsene non appena Berthe le macchia il vestito, allo spintone contro il mobile e alla subitanea sconfessione della propria responsabilità presso il marito: basterebbe questo, ma la cosiddetta ciliegina sulla torta, è la sua affermazione “proprio strano che sia così brutta!”. Perfino sul letto di morte non avrà che un lungo e intenso sguardo per sua figlia, che oltretutto ne sarà spaventata: nessun affetto, nemmeno alla fine. Emma in realtà voleva un maschio, che l’avrebbe riscattata dalla sua condizione di donna. Quella di essere un uomo è un’altra delle fantasticherie di Emma, ma stavolta ben radicata nel suo intimo: è consapevole che essere donna nel sua realtà significa non essere liberi, ed ella vuole naturalmente libertà e indipendenza. Questa sua frustrazione non si esplicita però in un programma ben definito, ma è piuttosto una lotta istintiva che trova sfogo in diversi modi provocatori e allusivi al mondo maschile. Il più importante di questi modi è quello di utilizzare oggetti da uomo: il già menzionato monocolo di tartaruga, il cappello nella gita a cavallo con Rodoplphe, la sigaretta, il gilet, l’acconciatura. Quando andrà al ballo in maschera con Léon si travestirà nientemeno che con abiti maschili; quando penserà alla libertà di Rodolphe, si rivolgerà alla sua possibilità di viaggiare in contrade lontane ed esotiche. Essere uomo è essere liberi, non solo di avere avventure, ma anche di sognare e fantasticare. Emma possiede molte caratteristiche maschili: è una persona forte e dominante, sotto tutti quegli strati di apparente femminilità, e nel matrimonio sarà lei a comandare fin dall’inizio, così come terrà lei le redini del rapporto con Léon, il quale invece saprà solo farsene trascinare. Con il primo amante, Rodolphe, aveva prevalso il suo desiderio di sottomissione, ed egli che ne era stato ben consapevole, l’aveva sfruttata come aveva voluto (“ne fece qualcosa di docile e di corrotto, la condizionò a una specie di ebete disponibilità tutta ammirazione per lui, tutta voluttà per sé stessa, una beatitudine che la intorpidiva”); con il secondo amante invece metterà ben in pratica ciò che ha appreso dalla sua prima esperienza e sarà lei a comandare Léon, e non viceversa (“era lui [Léon] la sua amante, e non viceversa. […] Dove mai aveva imparato quella corruzione, quasi immateriale tanto era profonda e dissimulata?”). Emma che desidera costantemente essere qualcos’altro ha forte la tendenza a recitare; e di recite nell’arco della sua vita ne inscena parecchie, a cominciare da quella della ragazza intrisa di religiosità in convento, così convincente che le suore già immaginano la sua vocazione, salvo poi restare deluse. Successivamente, alla morte della madre si immerge nella malinconia e in tristi considerazioni sulla vita, tanto da far accorrere père Rouault preoccupato al convento. Tuttavia Emma ha un attaccamento solo superficiale per ogni cosa a cui si dedica, talché si stanca presto anche delle proprie recite. La voce narrate stessa afferma che le continuava solo per abitudine. Tornata a casa col padre si immerge nel nuovo ruolo della ragazza da marito, pudica, ingenua remissiva e obbediente, fin quando sposandosi troverà soddisfazione nel ruolo della padrona di casa, ruolo che oltretutto rispolvererà quando deciderà di non cedere all’amore per Léon; a questo unirà anche la recita della buona madre e della moglie affettuosa e premurosa: “dichiarava di adorare i bambini, sua consolazione, sua gioia, sua follia, e accompagnava le carezze con effusioni di lirismo che a gente diversa dai paesani di Yonville avrebbero ricordato la Sachette di Notre-Dame de Paris”. Tuttavia anche qui la voce narrante mette in guardia, rivelando che, mentre fuori appariva gentile e caritatevole, in realtà, dentro la donna “traboccava di bramosie, di rabbia, di odio”. Emma aspirerà anche a diventare santa, sarà per breve tempo una nuora passiva e ubbidiente e sognerà di essere la moglie di un uomo di successo quando incoraggerà Charles ad operare il giovane Hyppolite; salvo poi naturalmente ricevere l’ennesima tale delusione che la porterà al disprezzo totale e definitivo del marito. Nondimeno, naturalmente, il ruolo che meglio le si confà, è quello della donna adultera, dove la passione amorosa si intreccia e si confonde con il fascino del denaro e del lusso: Emma infatti quando ama, spende, comprando oggetti di vario tipo, con cui si circonda e con cui circonda i suoi amanti, indebitandosi sempre più col merciaio Lheureux fino all’amaro epilogo. Emma si avvelena non per amore, ma per mancanza del prosaico denaro, nel momento in cui si scontra con una realtà così grande da esserne definitivamente schiacciata. Se fino a quel momento era riuscita a fuggirla e negarla, nascondendosi nelle spese folli e nelle sue fantasticherie la realtà alla fine le presenta il conto: l’esito non può che essere una nuova negazione, che questa volta vede l’unica via di fuga nella morte. Anche nel suicidio Emma fa un grosso errore di valutazione: crede che l’arsenico agirà velocemente, ma si sbaglia, poiché la sua agonia è lunga e terribile, e si può avanzare l’idea che questa fine la punisca non tanto per gli sbagli commessi in vita, come il tradimento, ma proprio per la sua incapacità di aderire e valutare correttamente la realtà: la morte tra orribili sofferenze è l’ultima disillusione, in una vita di illusioni. Emma Bovary, repetita iuvant, è un personaggio inventato, ma Flaubert, con forte sensibilità realistica e pre-naturalistica, modella il suo mondo fittizio basandosi sull’esperienza, sulla vita vissuta e documentabile. Si è scritto sopra che molteplici sono gli spunti reali rintracciabili nel romanzo, spunti che hanno contribuito alla stesura di esso e alla creazione della protagonista, sempre che di eroina si possa parlare in questo caso. Il primo e più importante è il caso di Delphine Delamare: la sua storia, e quella di suo marito, ricalcano quasi perfettamente lo scheletro del romanzo, soprattutto per quanto riguarda la vita di Charles: Eugène Delamare studiò medicina, si installò a Ry, vicino a Rouen, dove sposò una donna più anziana che morì in breve tempo; si risposò poi con Delphine che era figlia di agiati fattori, e da cui ebbe una figlia; morì infine pochi anni dopo la morte della seconda moglie. Di Delphine invece non si sa molto, se non che dovette scandalizzare la gente di Ry con le sue stravaganze e i suoi amori illeciti: un primo con un fattore danaroso, che può far benissimo pensare a Rodolphe Boulanger, e un secondo con un sostituto notaio, che ricorda da vicino Léon Dupuis. Un altro dramma che può essere servito a Flaubert è il cosiddetto “Affaire Loursel”, in cui un uomo venne processato con l’accusa di omicidio della moglie per poter sposare la donna amata, certa Esther de Bovery, in cui è lampante la somiglianza del nome con quello della protagonista Emma. Il dramma finanziario ripercorrerebbe poi quasi nel dettaglio quello dei Mémoires de Madame Ludovica, che altro non è che la storia di Louise d’Arcet, moglie dello scultore James Pradier fino a quando la scoperta dei numerosi amanti di lei e la rovina finanziaria da lei provocata non lo convinsero a chiedere la separazione. Vi sono poi le memorie della vedova Lafarge, incarcerata per aver avvelenato il marito, dove si riscontrano lo stesso disadattamento alla vita e la stessa insoddisfazione di Emma. Nel dicembre 1837 Flaubert aveva poi portato a termine il Conte philosophique, ispirato ad un fatto di cronaca, da cui avrebbe ripreso per la sua Emma Bovary il modo in cui Rodolphe abbandona l’amante (una lettera), l’idea del suicidio per avvelenamento, e il carattere forte della protagonista. IL MARITO Charles non brilla certo per intelligenza o arguzia, di certo però fin dall’inizio appare più che ovvio che nel futuro marito di Emma, oltre ad una buona dose di goffaggine, regna incontrastata la timidezza, mista ad una notevole ignoranza: è la stessa voce narrante infatti a dire che i suoi genitori lo avevano mandato in collegio il più tardi possibile, e che aveva ricevuto i primi rudimenti di latino dal parroco del suo paese; fatto che spiega bene perché fatichi tanto nell’apprendimento. Charles è un ragazzo mite e impacciato che il padre vede ben presto come una causa persa e che quindi “abbandona” alle soffocanti cure della madre, che invece riversa sul figlio tutte le frustrazioni e le vanità disilluse della sua vita. La signora Bovary immagina un futuro di successo e ricchezza, tanto che arriva a stabilire lei cosa egli dovrà fare della sua vita: gli studi in medicina prima, e il primo matrimonio poi. È ella a spronarlo negli studi quando egli viene bocciato la prima volta, ed è sempre ella che si preoccupa di mettere fuori gioco gli altri pretendenti della vedova Héloïse. Che Charles non sia proprio stupido lo si può intuire molto presto, quando il narratore confessa che negli studi si manteneva nei posti medi; inoltre ha una buona memoria. A questo punto in un lettore attento può sorgere il dubbio che il personaggio possa essere ben più capace di quanto non faccia apparire: ottiene perfino una menzione onorevole in storia naturale, e quando per la seconda volta tenta gli esami li passa con buoni voti. Come potrebbe uno stupido ottenere dei risultati così buoni? È ipotizzabile che Charles sia in realtà una persona tanto umile da non credere di avere effettivamente le capacità di primeggiare, e che per questo si limiti a fare quanto serve per non essere tra gli ultimi e per accontentare la madre. Forse Charles desidera in realtà respirare un po’ di libertà dai condizionamenti della madre, nonostante le voglia bene e la rispetti. Pertanto, non stupisce che rimanga deluso dal primo matrimonio: “aveva visto profilarsi per lui una condizione migliore, s’immaginava più libero, arbitro della propria persona e del proprio denaro. Ma fu sua moglie a comandare; lui, davanti a tutti, fu costretto a dire questo, non dire quello, mangiar di magro ogni venerdì, vestire come voleva lei, e assillare, per ordine suo, i pazienti che non pagavano. Lei gli apriva la posta, ne spiava i movimenti”. Si era visto per la prima volta in vita sua arbitro di sé stesso, e invece si ritrova con una donna che lo tiranneggia come e peggio della madre e che addirittura origlia le sue visite alle pazienti. Non bastava che già sua moglie fosse vecchia e brutta, doveva anche essere bisbetica! Nonostante questo, Charles la difende quando si scopre che in realtà non è poi così ricca, e quando muore, fa riflessioni malinconiche su di lei, che dopotutto lo aveva amato: questo perché in realtà egli è profondamente buono, e questa sua bontà emergerà ancora più chiaramente nei sacrifici che farà per far contenta Emma (come abbandonare Tostes dove stava acquisendo una posizione, o firmare la ben nota procura). Charles Bovary, a differenza di Rodolphe Boulanger, Léon Dupuis ed Emma, è un personaggio che stupisce e sorprende in quanto il suo comportamento è per un lettore attuale privo di logica: infatti che Emma sia insoddisfatta e che non lo ami è tanto palese che perfino a un lettore ingenuo pare inverosimile egli possa sentirsi perfettamente felice e appagato. I tradimenti di lei sono sotto gli occhi di Charles, ma questi in un certo senso spinge egli stesso la moglie tra le braccia dei due amanti: è lui a convincere la moglie ad andare a cavallo con Rodolphe, ed è sempre lui a insistere perché ella si fermi a Rouen con Léon. Sembra davvero non accorgersi delle relazioni adulterine intrecciate da Emma. Non par lecito dire che non “voglia” accorgersene. Perfino tempo dopo il suicidio della moglie, quando scopre le prove inconfutabili degli adulteri di lei Charles Bovary non ha reazione attiva alcuna; anzi, quando incontra Rodolphe gli dice addirittura “non vi serbo rancore… è colpa della fatalità”. In verità, vedere quel che era sotto i suoi occhi, ammetterle l’infedeltà di Emma avrebbe in qualche modo comportato la perdita della persona dorata, pensiero per lui più insopportabile del sapere di non essere amato. Si può ipotizzare che Charles si sentisse così felice anche perché riteneva di non meritarsi una moglie tanto bella, che tutti gli invidiavano: si sentiva lusingato di una tale fortuna. Ciò bastava a renderlo perfettamente felice, anche se non era ricambiato. A Charles era sufficiente che Emma fosse lì sotto il suo stesso tetto, gli bastava amarla, e la amava tanto da sacrificarle ogni cosa, perfino la sua dignità di uomo. Ciò spiega in parte anche perché, inconsciamente, si comportasse in maniera da deludere ripetutamente le aspettative riposte da Emma su di lui. Inoltre il suo amore, sebbene sia profondo e totale, non possiede quella passionalità travolgente da romanzo che Emma desiderava: il suo amore era fatto di piccole premure e gesti affettuosi, il che non poteva appagare la moglie; ma amare diversamente non era nella sua natura. Charles è effettivamente un mediocre, mite, gentile e premuroso che sia. Quando, infine, apre il cassetto di sua moglie con dentro le lettere di Léon e Rodolphe, è perché ha deciso di avere la prova di qualcosa che in realtà già sapeva. Il narratore: realtà oggettiva e duplicità Salutato generalmente come il primo romanzo verista, al tramonto di un romanticismo che lo stesso Flaubert ritiene ormai stanco e svilito, Madame Bovary si caratterizza per la sua impersonalità. In Mimesis Auerbach parla a tal proposito di serietà obiettiva, definendo in tal modo una narrazione che povera di commenti diretti del narratore, lascia che siano le cose e gli eventi stessi nel loro mostrarsi attraverso la mediazione linguistica ad auto-interpretarsi. In questo modo Flaubert si distanzia da ciò che racconta e dai suoi personaggi, raggiungendo a suo dire l’obiettivo di fare un libro autosufficiente in sé, che si regga solo sul linguaggio. Nel brano che Auerbach porta ad esempio, il narratore si limita infatti a tradurre in una forma linguistica quelle che sono le emozioni e la disperazione crescente di Emma, là dove Emma, che certamente prova queste sensazioni ma è incapace di autoanalisi e autocritica, non si sarebbe espressa in questo modo: “era soprattutto all’ora dei pasti che sentiva di non farcela più, in quella saletta del pianterreno, con la stufa che fumava, la porta che strideva, i muri che trasudavano, il pavimento umido. Tutta l’amarezza dell’esistenza le veniva scodellata davanti, sul piatto, e con il vapore del bollito le salivano dal fondo dell’anima altre zaffate di squallore”. Flaubert cerca di ricreare una realtà quanto più possibile oggettiva (per quanto sia possibile in una realtà che è comunque una creazione fittizia per definizione) e lascia che siano le cose stesse a rivelare la loro essenza di verità. In questo modo il giudizio negativo che emerge in merito ad Emma Bovary, viene espresso in maniera indiretta, raccontando ciò che succede senza tralasciare alcun dettaglio e senza bisogno di interventi diretti. Il narratore segue la sua protagonista celato nell’ombra, quasi fosse una telecamera che riprende inesorabilmente e implacabilmente la sua vita, non solo esteriore, ma anche e soprattutto interiore: è infatti specialmente nel contrasto tra come appare all’esterno e cosa in realtà pensa o prova che ci si rende conto della mediocrità e della doppiezza del personaggio. Non c’è indulgenza nell’occhio freddo che segue Emma Bovary nei suoi tradimenti, nelle sue bugie, nel suo progressivo indebitamento, nei suoi maltrattamenti verso la figlia, nelle sue fantasticherie. Anche per quanto riguarda le letture e i sogni da romanzo sentimentale di Emma, Flaubert non dice direttamente che sono il suo vero peccato, ma si limita a farne un elenco, in cui buona e cattiva letteratura si mescolano a fantasie illusorie e irrealizzabili formando un mucchio che nel contrasto con l’effettiva realtà mostra tutta la sua vuotaggine e superficialità: c’erano amori a bizzeffe, amanti, innamorate, dame perseguitate che svenivano in padiglioni romiti, […] foreste tenebrose, turbamenti nel cuore, giuramenti, lacrime e baci. Per sei mesi, a quindici anni, Emma si sporcò le dita con quella polvere da vecchio gabinetto di lettura. Con Walter Scott, più tardi, s’invaghì di cose storiche, sognò forzieri, corpi di guardia e menestrelli. […] Fu allora che ebbe il culto di Maria Stuarda, e Giovanna d’Arco, Eloisa, Agnès Sorel, […] si stagliavano per lei simili a comete sull’immensità tenebrosa della storia dove qua e là spiccavano anche, ma più dissimulati nell’ombra e senza alcun rapporto tra di loro, san Luigi e la quercia, Baiardo agonizzante […] e sempre il ricordo dei piatti dipinti con i fasti del Re Sole . È più che altro nel finale che si ha la sensazione di una vera e propria persecuzione di Emma da parte del suo narratore: la sua caduta e la sua fine sono seguite e riportate nel dettaglio in un climax crescente che non le risparmia nulla, nemmeno lo scempio dopo la morte: il lettore la vede supplicare Lheureux, recarsi a Rouen da Léon, da Guillaum, da Binet, da Rodolphe, in un alternarsi di disperazione, speranza e rabbia, in cui il narratore si mostra in un unico lapidario commento: “si tradiva, si perdeva”. L’agonia di Emma tra l’altro non è lunga solo per lei, ma ci pare esserlo per lo stesso lettore: “fu presa da una nausea così subitanea che fece appena in tempo ad afferrare il fazzoletto sotto il guanciale” ; “cominciarono i gemiti, deboli sulle prime”; “sopravvennero le convulsioni”; “aveva il corpo ricoperto di chiazze nerastre”; “prese a emettere orribili urla”. Quelle riportate sono solo alcune delle fasi della sofferenza di Emma che dura per pagine e pagine in un orrore crescente. Quando Emma infine muore sembra davvero che sia finita (e lo si potrebbe anche sperare), però non è così, perché il narratore non permette di immaginarla finalmente in pace, dicendo che “l’angolo della bocca, rimasta aperta, le formava una specie di buco nero sulla parte inferiore del viso”. Subito dopo inoltre aggiunge: “gli occhi cominciavano ad affondare in un pallore vischioso, come se dei ragni vi avessero tessuto sopra un’impalpabile tela”. Quando poi la signora Lefrançois e mamma Bovary si curvano per metterle la coroncina e le devono sollevare il capo “dalla bocca le fuoriuscì, come un vomito, un fiotto di liquido nero”. L’ultimo definitivo affronto avviene quando Charles che vuole conservare una ciocca dei suoi capelli, le scalfisce la pelle delle tempie con le forbici, e poi Félicité, tagliando a caso qua e là a caso, le lascia delle chiazze bianche in quella bella capigliatura nera. In tutta questa nuda e cruda descrizione, nella sua ossessione per i dettagli sembra quasi che il narratore provi gusto nell’infierire sulla sua protagonista. Si è detto che la scrittura di Flaubert è impersonale. Tuttavia sebbene il narratore si tenga ben nascosto, a volte, in punti chiave, si mostra con considerazioni rapide ed incisive. A volte si tratta solo di una parola all’interno di una frase ( “…la consolava un po’ del sacrificio che credeva di fare”), altre volte sono vere proprie pause in cui il narratore prende direttamente la parola: [Per Emma la vita deve essere come un romanzo d’amore e l’amore stesso deve presentarsi seguendo tutti i cliché letterari]: quando Rodolphe si burla del marito, Emma si turba, non come ingenuamente si potrebbe pensare, perché le pare ingiusto prendersela col povero Charles, colpevole solo di essere un sempliciotto devoto fin quasi alla stupidità, ma perché la situazione mancava di pathos teatrale (“le sarebbe piaciuto trovare in lui [Rodolphe] più serietà e magari più senso del dramma”); a proposito della noia di Rodolphe nell’ascoltare le convenzionali frasi d’amore che Emma gli rivolge la voce narrante commenta: “come se la pienezza dell’anima talvolta non traboccasse attraverso le metafore più vuote perché nessuno, mai, riesce a dare l’esatta misura di ciò che pensa, di ciò che soffre, della necessità che lo incalza, e la parola umana è come un paiolo fesso su cui andiamo battendo melodie da far ballare gli orsi mentre vorremmo intenerire le stelle”. Quando Léon non si presenta all’appuntamento perché trattenuto da Homais, ed Emma dopo una sfuriata finalmente si calma, si sottolinea che “le critiche che rivolgiamo alle persone amate ce ne allontanano sempre un po’”; e si aggiunge che “non bisogna toccare gli idoli: la doratura può restarci sulle dita”. Un altro intervento avviene allorché Emma si reca da Rodolphe chiedendogli tremila franchi, e lui le risponde seccato di non averli: “una richiesta pecuniaria, infatti, fra tutte le burrasche che colpiscono l’amore, è la più fredda e la più sconvolgente”. Da ultimo, al sopraggiungere di Bournisien al capezzale di Emma per l’estrema unzione “in puntuale coerenza con i suoi principi, Homais paragonò i preti a corvi attratti dall’odore dei morti”. Vi sono momenti della narrazione in cui la presenza del narratore non è propriamente esplicita, ma comunque si avverte che è egli lui che sta parlando. Un esempio significativo è costituito dalla scena dell’estrema unzione, giocato sul contrasto tra i gesti della benedizione del prete sulle parti del corpo corrotte di Emma: “prima di tutto gli occhi, tanto vogliosi un tempo di ogni pompa terrena…poi la bocca, che aveva saputo aprirsi alla menzogna, gemere d’orgoglio e gridare di lussuria..infine la pianta dei piedi, così rapidi un tempo a correre verso l’appagamento dei suoi desideri…” Un altro modo ancora in cui il narratore ci mostra la sua presenza avviene allorché alcuni fatti vengono taciuti per raccontarne altri: esemplare a tal proposito è la scena del fiacre, dove ciò che accade all’interno della carrozza tra Léon ed Emma è taciuto e lasciato all’immaginazione del lettore, mentre viene narrato ciò che avviene all’esterno, ossia, il lungo e interminabile giro che il cocchiere è costretto a fare suo malgrado per le vie di Rouen: ciò che l’occhio del narratore mostra, e che tra l’altro costituisce la comicità dell’intero episodio, è solo questa vettura con le tende chiuse che va su e giù sparendo e riapparendo sotto l’occhio allibito degli abitanti della città. Il discorso indiretto libero, non è una innovazione di Flaubert, come erroneamente si sente dire, ma è stato adoperato da Flaubert, per prima, massicciamente: la distanza tra narratore e personaggio si fa così sottile da annullarsi quasi, il punto di vista attraverso cui è filtrato il racconto è quello dei diversi personaggi. All’interno della narrazione compaiono diverse espressioni in corsivo: esclusi i nomi delle riviste e le scritture fonetiche come Charbovari, queste vanno considerate come espressioni di una comunità, quella borghese, in cui vivono i personaggi del romanzo, coniate sui suoi pregiudizi e luoghi comuni. Di seguito alcuni esempi: “del resto se è furbo e ci sa fare, un uomo trova sempre la sua brava sistemazione…”; “le trovava una certa prosopopea data la loro condizione; legna zucchero e candele fondevano come neve al sole nemmeno fossero dei marchesi …”; “Homais parlava … stava illustrando alla bella compagnia l’importanza futura di quello stabilimento…” ; “dichiarò che la cosa avrebbe potuto dare nell’occhio”.