PRIGIONIERI DI GUERRA Il problema dei prigionieri Il trattamento
by user
Comments
Transcript
PRIGIONIERI DI GUERRA Il problema dei prigionieri Il trattamento
PRIGIONIERI DI GUERRA Il problema dei prigionieri Il trattamento dei prigionieri di guerra era regolato dalla Convenzione dell’Aja del 1907 sui diritti dei prigionieri e sui doveri delle nazioni che li avevano in custodia, e prevedeva per i prigionieri lo stesso trattamento dei soldati combattenti della nazione che li deteneva, riguardo al vitto, all’alloggio e alla paga (la decade alla truppa e lo stipendio agli ufficiali). Questo portava ad avere trattamenti diversi secondo la nazione in cui si era prigionieri: ad esempio nell’esercito austriaco erano usate le punizioni corporali ai soldati, e quindi potevano anche essere usate nei confronti dei prigionieri. Il proseguire della guerra con l’aumentato numero di prigionieri mise in crisi tutte le nazioni belligeranti, soprattutto dal 1917 in avanti: ad esempio la Germania all’inizio di quell’anno aveva oltre 1.700.000 prigionieri. L’Austria si trovò a dover gestire in pochi giorni la massa di quasi 300.000 prigionieri italiani catturati a Caporetto, per i quali il trasferimento ai campi di concentramento fu estremamente penoso. La situazione divenne particolarmente grave per l’Austria e Germania quando il blocco navale imposto dagli alleati dell’Intesa riuscì a fermare gran parte dei rifornimenti soprattutto alimentari alle due nazioni: c’era poco da mangiare per la popolazione e per i soldati e ancora meno quindi per i prigionieri. Da lettere di prigionieri in Austria nel 1918 si apprende che pativano la fame, esattamente come i loro guardiani. Le nazioni in guerra, ad eccezione dell’Italia, si preoccuparono a livello statale dei loro prigionieri e tramite le nazioni neutrali, Svizzera soprattutto, riuscirono stabilire dei canali diplomatici per risolvere i problemi più urgenti. Nell’agosto 1914 fu creata a Ginevra un’Agenzia Internazionale della Croce Rossa per le notizie e il soccorso dei prigionieri di guerra. All’inizio i vari governi accettarono che i privati cittadini inviassero pacchi con viveri e vestiario ai loro prigionieri, sempre tramite la Croce Rossa. Nel 1916 iniziò il governo della Francia, seguito poi da quello della Gran Bretagna, a inviare treni di rifornimenti ai prigionieri: i convogli erano scortati da funzionari internazionali, e anche da militari di paesi neutrali, e la distribuzione avveniva da parte delle autorità locali e dei rappresentanti dei prigionieri. In questo modo aiutarono anche i prigionieri di nazioni alleate, come serbi e montenegrini che non avevano più una nazione, essendo occupate dagli austriaci. Nei primi mesi del 1916 si conclusero accordi per lo scambio dei prigionieri malati, gravi e meno gravi, internati in Svizzera e l’anno successivo si arrivò anche a uno scambio vero e proprio di prigionieri. Tutte le nazioni avevano interesse a liberarsi il più possibile di bocche da sfamare. I prigionieri italiani Ancora più incerti dei numeri dei caduti della Grande Guerra sono quelli dei nostri soldati prigionieri degli austriaci e dei tedeschi. La cifra comunemente accettata è di 600.000 uomini, di cui 19.500 ufficiali, la metà dei quali catturata nei pochi giorni della rotta di Caporetto (la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle violazioni dei diritti commessi dai nemici nella sua relazione del 1920 elenca 293.943 soldati prigionieri). Il numero di prigionieri morti fu straordinariamente elevato, oltre 100.000: alcuni dei nostri prigionieri morirono per le ferite riportate in combattimento, ma oltre il 90% morì per malattia, soprattutto per tubercolosi, per fame e per freddo. La causa non fu la particolare ferocia dei guardiani, ma la responsabilità di queste morti si può far facilmente risalire al Comando Supremo italiano, e quindi al Governo che non si oppose alle decisioni di Cadorna. Da notare anche che la percentuale degli ufficiali morti (circa il 2%) era di molto inferiore a quella dei soldati semplici (circa il 12%), e le ragioni saranno chiarite più avanti. L’Italia fu assente da tutti gli accordi sopra descritti, per volere preciso del Comando Supremo che vedeva nei prigionieri solo dei disertori che avevano voluto sottrarsi ai combattimenti. Quella di Cadorna era una vera e propria ossessione per le diserzioni, e respinse tutte le sollecitazioni ad assumere un diverso atteggiamento verso i prigionieri, sollecitazioni che però non arrivarono dal Governo, che era sostanzialmente d’accordo con il Comando Supremo. Al fine di impedire le diserzioni si arrivò a diffondere false descrizioni sul trattamento dei prigionieri in Austria per convincere i soldati quanto meglio e “più salutare” fosse restare in trincea, e addirittura si arrivò a sostenere che i pacchi inviati erano requisiti dalla popolazione. L’Austria protestò, tramite i canali diplomatici, per la falsità delle notizie e minacciò anche di respingere gli aiuti. Il Comando Supremo, cioè Cadorna, spinse anche perché il governo bloccasse gli invii privati ai prigionieri e le sottoscrizioni a loro favore. La grande massa di prigionieri a Caporetto fu considerata da Cadorna una “diserzione collettiva” e sicuramente avrebbe ancora più bloccato gli aiuti ai prigionieri, se non fosse stato fortunatamente rimosso dal Comando Supremo. Un gruppo di prigionieri angeresi a Mauthausen nel 1916, ancora sembra in buone condizioni fisiche Già dal 1916 il Governo era chiaramente informato sulla situazione dei nostri prigionieri, ed era anche evidente che l’Austria stesse già soffrendo del blocco e che non fosse effettivamente in grado di assicurare un livello decente di sostentamento ai prigionieri, quando non era nemmeno in grado di assicurarlo ai propri soldati. Le rinnovate sollecitazioni internazionali non ebbero alcun effetto, e lo Stato si rifiutò di provvedere all’invio di aiuti, per il costo economico che la cosa avrebbe comportato, perché gli aiuti sarebbero stati sottratti dalla popolazione austriaca e perché la Convenzione dell’Aja prevedeva che l’onere del mantenimento spettasse all’Austria. Motivazioni di un incredibile cinismo e ipocrisia da parte del nostro governo. Assente lo Stato, restava solo l’aiuto dei privati. Nella prima fase della guerra furono le famiglie e le associazioni private a inviare pacchi con viveri e vestiario e anche soldi si prigionieri. Cartolina del Comitato milanese “Pro Umanità” per l’invio di pane ai prigionieri Le mogli e le madri dei soldati di famiglie contadine non sempre erano nelle condizioni economiche di poter aiutare i loro congiunti, quasi tutti soldati semplici, mentre le famiglie degli ufficiali, quasi tutti di estrazione borghese, potevano con maggior facilità inviare aiuti e anche denaro. Il Governo sospese anche i sussidi alle famiglie dei soldati sospettati di diserzione, rendendo ancora più difficile la situazione economica di molte famiglie, e proibì anche l’invio di aiuti ai soldati considerati disertori. In alcuni campi, soprattutto tedeschi, gli ufficiali erano anche liberi sulla parola di muoversi nei paesi vicini al campo, e potevano quindi comprare ciò che necessitava, finché vi fu qualcosa da comprare. Nel complesso il trattamento nei campi ufficiali fu sempre migliore rispetto a quello dei campi per la truppa, anche perché gli ufficiali di tutte le nazioni mantennero sempre rapporti abbastanza cordiali con i pari grado prigionieri. Gli ufficiali erano esentati da qualunque tipo di lavoro, e i loro campi erano sempre separati da quelli dei soldati semplici. I soldati erano invece obbligati a lavori, nei campi o nelle varie opere pubbliche: nel 1915 e nel 1916 molti furono mandati a lavorare nelle fattorie agricole austriache, dove mancavano gli uomini, e per questi il trattamento fu certamente migliore, fino a quando, alla fine del 1917, la situazione alimentare non peggiorò per tutti, abitanti compresi. Uno dei compiti della Commissione della Croce Rossa italiana fu anche quello di curare la corrispondenza da e per i campi di prigionia. Le cartoline erano il solo mezzo di comunicazione, essendo vietate le lettere, ed erano sottoposte a censura nel campo di partenza, consegnate alla Croce Rossa che provvedeva a inoltrarle agli uffici di censura del paese del prigioniero, e finalmente inviate ai destinatari. Cartoline inviate a un prigioniero angerese a Mauthausen Nel giugno del 1915 era stata costituita presso il Ministero della Guerra una “Commissione prigionieri” che ebbe pochissimi fondi a disposizione e che si occupò inizialmente anche della corrispondenza e della censura di lettere e le cartoline. Questa incombenza passò poi direttamente al Comando Supremo, con lo scopo preciso di individuare i disertori. Questo controllo provocava sovente intasamenti con la giacenza di centinaia di migliaia di documenti, tardando così l’invio magari per mesi. Per tutto il resto, la Commissione prigionieri ministeriale fu inefficace e tutti i compiti passarono alla Croce Rossa, che provvedeva tramite i vari comitati locali agli invii ai prigionieri ma, senza un’organizzazione statale, sovente si verificarono ingorghi e migliaia di pacchi di viveri deperirono o arrivarono ai destinatari in condizioni tali da essere inutilizzabili. Vi era anche un controllo sui pacchi, che non dovevano contenere merci o oggetti che avrebbero potuto aiutare l’Austria: ad esempio vigeva il divieto assoluto di inviare scarpe, perché considerate un “prodotto strategico” di cui potevano servirsi gli austriaci, con il risultato che i nostri prigionieri dovettero affrontare gli inverni senza calzature, utilizzando stracci e quanto altro riuscivano a procurarsi. Gran Bretagna e Francia inviavano regolarmente scarpe ai loro prigionieri. La Commissione italiana della Croce Rossa, senza l’aiuto statale, si manteneva soprattutto con l’aiuto dei privati, in denaro e con lavoro non retribuito, ma i fondi a disposizione per i prigionieri non furono mai molto elevati. Sorsero anche tantissime organizzazioni locali, associazioni e comitati per l’aiuto ai prigionieri, sovente molto volonterose, ma non sempre ugualmente efficienti. Privati e associazioni potevano anche fare abbonamenti per il pane mediante versamenti alla Croce Rossa che faceva poi pervenire il pane ai prigionieri, e alcuni Comitati si specializzarono nel preparare pane e gallette da inviare, anche se sovente furono bloccati dalle mancate assegnazioni di farina da parte delle agenzie governative. Cartolina inviata dal Comitato di Azione Civile di Angera a un prigioniero, avvisandolo che è stato attivato da un privato un abbonamento al pane che dovrebbe arrivare due volte la settimana, e prega di confermare che l’arrivo sia regolare. Angera 12 ottobre 1916 Lo Stato, sollecitato anche dalle richieste delle altre nazioni, iniziò timidamente e contro voglia, a organizzare treni di gallette da inviare ai prigionieri, solo nel mese di agosto del 1918, quando la guerra stava ormai per finire, e quando la tragedia dei prigionieri si era in gran parte consumata. Per quanto riguarda il vestiario, il governo italiano fu irremovibile, perché era compito della nazione che custodiva i prigionieri provvedere agli indumenti. I prigionieri varesini Non è possibile sapere quanti siano stati i varesini prigionieri, solo sappiamo quanti sono i morti in prigionia: 1915 1916 1917 1918 1919 prigionieri morti 10 28 67 421 4 A questi vanno aggiunti i 26 dichiarati “scomparsi in prigionia in data sconosciuta” per un totale quindi di 556 morti in prigionia, la maggior parte nel 1918, causa il gran numero di prigionieri catturati dopo Caporetto e le condizioni di vita nei campi di prigionia diventate drammatiche nell’ultimo anno di guerra, quando il blocco navale fu molto efficace e generò una grave crisi alimentare in Germania e Austria e di conseguenza ai prigionieri italiani, che poterono sopravvivere solo grazie agli aiuti dei privati e delle famiglie. Quasi tutti i prigionieri varesini sono morti per malattia, i caduti per ferite riportate prima della cattura si possono contare sulle dita di una mano. Gli ultimi quattro prigionieri morti nel gennaio del 1919: o non erano in grado di allontanarsi dal campo o erano ricoverato in qualche ospedale. Come tutti i prigionieri italiani, i soldati varesini morirono soprattutto per le conseguenze della denutrizione e poi per il freddo, che fu particolarmente acuto nell’invero del 1917. Morirono per tubercolosi, dissenteria, polmonite, fame, tifo e per il congelamento di arti, che andavano poi in cancrena senza possibilità di interventi. In molte zone i prigionieri furono anche adibiti a lavori pesanti, anche in inverno, coperti solo di stracci. Una vera tragedia, raccontata anche da prigionieri di altre nazioni, che meglio sopportavano le difficoltà della prigionia grazie agli aiuti organizzati che ricevevano. Il rimpatrio Alla fine di ottobre i nostri prigionieri cominciarono ad avere notizia della sconfitta austriaca, e dal tre novembre i guardiani se ne andarono, lasciando i campi incustoditi. In alcune località i prigionieri, poterono così sciamare intorno ai campi e saccheggiare, insieme alla popolazione locale, i depositi viveri lasciati incustoditi. Gli italiani poterono anche usufruire degli aiuti inviati ai prigionieri francesi e inglesi inutilizzati, perché i destinatari erano già partiti. In altre località invece non vi era nulla intorno ai campi, e per i prigionieri la situazione peggiorò, mancando anche la misera organizzazione dei campi. Molti prigionieri partirono verso l’Italia non appena si aprirono i campi, e dovettero attraversare paesi in pieno disordine, anche in rivoluzione, e per molti fu un viaggio senza arrivo. Altri attesero che fossero organizzati i rimpatri tramite treni, soprattutto dalla Germania, alla quale il governo italiano aveva chiesto di scaglionare i rientri. A complicare la situazione fu ancora l’azione intempestiva del governo, che proibì l’invio di pacchi ai prigionieri dopo la firma dell’armistizio, e portò allo scioglimento dei Comitati della Croce Rossa e di ogni forma di assistenza privata. Dalla Germania gli arrivi furono bene o male abbastanza organizzati e nell’attesa del rimpatrio, i nostri prigionieri avevano avuto modo di nutrirsi con le migliaia di pacchi destinati a inglesi e francesi che erano ormai partiti. Ben diverso e caotico fu il rientro dall’Austria soprattutto nel mese di novembre, quando una fiumana di ex-prigionieri si avviò verso le nostre frontiere, partendo dai campi più vicini all’Italia. Molto ritardato fu il rientro di quelli che erano prigionieri in Galizia, Polonia, Ungheria, Ucraina e Bulgaria: alcuni tornarono dopo mesi o addirittura un anno e più. Pochi non rientrarono affatto, o perché avevano trovato una buona sistemazione o si erano sposati; altri, i veri disertori, per paura di subire condanne dopo il rientro. Una volta rimpatriati, le traversie dei prigionieri non erano terminate, perché da parte delle autorità erano sempre considerati sospetti disertori. Era una mentalità tipica della nostra “casta militare” che aveva radici lontane. Ad esempio la battaglia di Adua in Etiopia nel 1896 e le vicende dei prigionieri, furono un’anticipazione di quanto avvenne poi nella Grande Guerra, sia pure in proporzioni molto più piccole. Il generale Baratieri comandante del Corpo di Spedizione italiano in Eritrea, nel primo telegramma al Governo dopo la sconfitta indicò i soldati semplici come causa della battaglia persa, per difendere l’operato dei comandanti, che in realtà erano i primi e unici colpevoli, Baratieri in testa, per la dissennata conduzione della battaglia. Per i prigionieri, poco meno di 2000 uomini, vi furono solo aiuti privati sufficienti per gli ufficiali e i soldati che erano concentrati ad Addis Abeba, del tutto carenti per la gran parte dei soldati spostati in varie zone dell’Etiopia. Per fortuna, il trattamento riservato dagli etiopi agli italiani prigionieri fu mediamente buono, ottimo in molti casi per quelli che si trovavano ad Addis Abeba. Appena giunti a Massaua dall’Etiopia cominciarono a essere accolti con freddezza, se non con astio. Peggio ancora a Napoli, dove furono fatti sbarcare di notte e portati subito in caserme, per subire lunghi interrogatori, minacciati di processi e invitati a non avere contatti con giornalisti e non parlare della battaglia di Adua. In aggiunta fu loro dimezzato il soldo per il periodo di prigionia. Il Comando Supremo non cambiò atteggiamento alla fine del 1918 e nel 1919, considerando i prigionieri che arrivavano in massa dall’Austria come i responsabili della rotta di Caporetto. I rientranti erano anche considerati dei potenziali sovversivi, essendo naturalmente poco ben disposti verso un governo che nulla aveva fatto per loro, avendo avuto modo di confrontare le loro condizioni con quelle dei prigionieri francesi e inglesi. Addirittura fin dai primi mesi del 1918 Diaz si era fatto promotore di una proposta per trasferite in Libia tutti i prigionieri che rientravano, o in altra colonia, Eritrea o Somalia. Del resto Cadorna non era stato da meno quando nel 1916 aveva proposto l’internamento in Libia dei pacifisti italiani, soprattutto socialisti. Il governo non si dimostrò contrario, ma poi fortunatamente il progetto fu abbandonato. L’arrivo in massa dei prigionieri provenienti dall’Austria colse del tutto impreparato il governo e rientrando in Italia le sofferenze dei prigionieri non migliorarono dovendo attraversare zone devastate dalla guerra, e magari subire insulti per essere “i vinti di Caporetto”. Le autorità militari allestirono centri di raccolta frettolosamente, dove gli ex-prigionieri ritrovavano condizioni simili a quelle della prigionia, con una scatoletta di carne e poche gallette al giorno come vitto. I centri di raccolta dovevano servire per gli interrogatori fatti da speciali unità inquirenti e da tribunali militari, soprattutto per i soldati catturati a Caporetto. L’opinione pubblica premette sul Governo che cercò di ottenere dalle autorità militari un’attenuazione delle misure restrittive, senza molto successo: alla fine di novembre diverse centinaia di migliaia di uomini erano internate nei campi, dall’Emilia alla Puglia. Infine, con il peggiorare della situazione politica nel paese, le campagne giornalistiche e l’aumentare delle proteste degli internati, il governo riuscì a imporre alle autorità militari un’accelerazione nelle procedure di inchiesta sui prigionieri. A metà gennaio finalmente iniziò l’esodo dai campi, e i soldati, perché ancora tali erano, inviati in licenza: molti dovettero poi tornare ai reparti d’origine, e inviati anche in zone dove ancora vi erano truppe italiane, come la Macedonia e l’Albania. I successivi avvenimenti, i problemi del riconoscimento delle indennità e l’amnistia che interrompeva la quasi totalità dei procedimenti in corso, esulano da questo scritto, e a conclusione della vicenda prigionieri, ricordiamo solo che il risentimento degli ex-prigionieri era anche dovuto all’ingiustizia di vedersi inquisiti, mentre i generali responsabili della rotta di Caporetto non solo non avevano subito conseguenze, ma anche avuto promozioni, come nel caso del generale Badoglio, la cui nefasta presenza per la storia italiana si prolungherà fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Evidentemente la censura austriaca aveva ben altro da fare che controllare le lettere fra prigionieri dei diversi campi. Nonostante tutto, nei campi si cercò anche di svolgere attività di vario tipo, come rappresentazioni teatrali, conferenze, cicli di lettura e attività sportive, come testimonia questa tessera proveniente da Mauthausen: Testimonianze angeresi Diversi documenti sono stati conservati dalla famiglia del soldato Pierino Maffioli di Angera, classe 1895, preso prigioniero il 16 maggio 1916 e internato a Mauthausen, dove poi fu addetto all’Ufficio Postale del campo. In una lettera scritta al Maffioli il 20 maggio 1917 da un altro campo di concentramento (Sittconga?), Carlo Crenna, altro angerese prigioniero, fra le varie notizie descrive le sue condizioni di vita, che trascriviamo senza correggere gli errori: Tu mi dici sulle tue cartoline di farti sapere come la passo ma se sapesti sono trascorsi ormai 20 mesi di prigionia, ma ti dico la verità o Pierino che non lo credevo così di aver fatta questa vita. Da mangiare mi danno, stai attento: la mattina caffè (ci ha il nome di caffè) a mezzogiorno una tazza di brodo, (lo chiamano) con una mezza tazza di orzo, alla sera poi di nuovo caffè. Poi riguardo al pane danno due pani di un chilo luno in 6 uomini. Dillo tu ormai Pierino come si può campare la vita con questo cibo, il pane nero, agro, se non ci fosse qualche pacco di pane che arriva d’Italia. Riguardo il dormire poi, bisogna vedere, in un locale sporco umido proprio come le bestie. Riguardo al lavoro come sai lavoro del mio mestiere in costruzioni di ponti sulla ferrovia e qualche piccolo palazzo per qualche ufficiale e trattati malissimo, le sentinelle sempre colle baionette come se accompagnano detenuti alle galere, insomma cose incredibili, altro che umanità, adoperano tutti i mezzi inumani e perfino legano al palo, ma per mia fortuna ò sempre agito bene, perché il regolamento so cosa dice, ma non dice neanche di legare un povero giovane come il Cristo in croce dopo di essere innocente. Se qualcuno di noi marcasse visita, e non è riconosciuto stai attento che cosa capita nel 20° secolo del mondo: per quel giorno non ci danno, ne pane, ne quel poco rancio, e perfino ci levano quelle 2 sigarette che danno giornalmente, figurati cosa bisogna vedere in questa nazione. 12/2015