La fine della Grande Guerra, tra onori e pensioni negate agli eredi
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La fine della Grande Guerra, tra onori e pensioni negate agli eredi
«Vengo con queste due righe per farvi sapere» MERATE (cca) Ultima settimana per visitare la mostra allestita nella sala civica Fratelli Cernuschi di via Lombardia che, nel centesimo anniversario dell’entrata dell’Italia nel primo conflitto mondiale, racconta la «grande guerra» da un prospettiva molto meratese. Questi gli orari di apertura: martedì dalle 9 alle 12; ve- nerdì dalle 20.30 alle 22.30; sabato dalle 15 alle 18.30; domenica dalle 10.30 alle 12 e dalle 15 alle 18.30. © RIPRODUZIONE RISERVATA Merate 14 MARTEDÌ 26 MAGGIO 2015 Giornale di Merate PRIMA GUERRA MONDIALE La misera sorte di chi non tornò dal fronte e di chi a casa ne non ebbe più notizia La fine della Grande Guerra, tra onori e pensioni negate agli eredi dei poveri soldati morti di stenti MERATE (ces) «Siamo molto dolenti di dovervi comunicare tale triste notizia. Il giorno 17 mentre compiva il suo dovere portando l’acqua al battaglione cadeva il vostro nipote Luigi…». Così i compaesani compagni d’arme comunicavano alla famiglia la notizia della morte di Luigi Pere go, avvenuta nel settembre 1916. Nei primi due anni di guerra fu possibile ricevere la comunicazione del ferimento o della morte di un proprio caro d i re tt a m ente dai commilitoni che si facevano carico di dare alla famiglia la notizia della disgrazia, accompagnandola con parole di consolazione. La lettera poteva precedere anche di molti giorni la comunicazione ufficiale da parte dell’Esercito. Successivamente, queste comunicazioni private e personali vennero scoraggiate, la comunicazione poteva avvenire solamente in modo formale attraverso l’Ufficio Notizie di Bologna. Abbiamo una testimonianza di ciò dalla lettera, esposta in mostra, di richiesta di informazioni sulla sorte del soldato Paolo Decio inoltrata direttamente al Comando del 25° Corpo d’Armata dal Deputato Antonio Baslini, a cui il Capitano Medico risponde: «Non si è comunicato direttamente alla famiglia la triste notizia, perché disposizioni vigenti non lo permettono, dovendosi ciò fare a mezzo dell’Ufficio Notizie di Bologna». Questo Ufficio fu creato su iniziativa di alcune nobildonne bolognesi nel giugno 1915, e rimase attivo fino al 1919, con l’intento di facilitare le comunicazioni sui soldati al fronte, tra il Ministero della Guerra e le famiglie dei militari, grazie alla capillarità della rete, circa 8.400 uffici in tutta Italia, e l’aiuto fornito, nella ricerca di notizie ed informazioni, da parte di cappellani militari, donne visitatrici e madrine di guerra. La regola prevedeva che la notizia del decesso fosse comunicata direttamente al sindaco del paese d’origine del soldato e che a lui spettasse di darne c o mu n i caz i one alla famiglia. Solo in una fase successiva, anche molto tempo dopo, sarebbe arrivata la comu nicazio ne ufficiale del Ministero della Guerra. Tale documento era atteso con grande ansia dalle famiglie, perché conteneva l’informazione, importantissima, se il soldato era morto in combattimento. Requisito imprescindibile per avere diritto alla pensione privilegiata in «modo certo e in tempi rapidi». Il Ministero per l’Assistenza Militare e le Pensioni di Guerra autorizzò le Delegazioni Provinciali del Tesoro al pagamento della cosiddetta pensione di guerra privilegiata, riconosciuta sia ai reduci feriti o malati per cause di guerra, sia agli eredi del caduto. La pensione diretta fu concessa a nome del reduce invalido, mentre in caso di morte, quella indiretta venne riconosciuta alla moglie, se sposato, ai figli, se minorenni, o al padre se il soldato era celibe. In questo caso si doveva dimostrare che il giovane caduto era il principale sostegno del genitore, perché o cieco, o ultracinquantenne o assolutamente incapace di guadagnarsi da vivere. I soldati morti in prigionia subirono un trattamento discriminatorio da parte del Comando Supremo. Le pensioni di guerra venivano ricono- sciute alle loro famiglie solamente se si poteva provare che la morte era stata causata dalle ferite di guerra e non dalle conseguenze delle dura prigionia. In questo caso lo Stato ne concedeva solamente i due terzi. Ben si comprende l’assoluta necessità di avere precise informazioni sulla sorte dei soldati, anche in funzione dell’ottenimento delle pensioni di guerra, perché la scomparsa di tante giovani vite aveva lasciato situazioni di gravissima indigenza: vedove, orfani e anziani non autosufficienti. Lo Stato, che dopo la fine della guerra, si trovava in una situazione economica disastrosa, cercò in ogni modo di protrarre nel tempo la concessione delle pensioni di guerra, con esiti a volte dav- vero sconcertanti, come nel caso di Angelo Brigatti, narrato nella mostra. A questi problemi, per migliaia di famiglie si aggiungeva il dolore di non conoscere nemmeno il luogo di sepoltura del loro caro. Si seppellirono i morti dove la terra lo permise. A guerra finita iniziò la lenta riesumazione delle salme per dar loro degna sepoltura in adeguati sacrari e cimiteri militari, ma molti di loro rimasero ignoti. Nel solo Sacrario di Redipuglia, il più grande monumento dedicato ai caduti in Italia, furono seppelliti circa 40.000 caduti conosciuti e 60.000 ignoti. Tra di essi riposa Luigi Perego, uno dei protagonisti della nostra storia. Naretta Corradini © RIPRODUZIONE RISERVATA CADUTI AL FRONTE A sinistra, il soldato meratese Paolo Decio; a destra, gruppo di commilitoni di Francesco Della Grisa; sotto i funerali dello stesso militare DECESSI E CONGEDI A sinistra, la comunicazione del decesso del tenente Francesco della Grisa con l’indicazione della tomba; sopra il foglio di congedo illimitato concesso al caporale Natale Ravasi LA DURISSIMA SORTE DEI PRIGIONIERI ITALIANI Abbandonati senza aiuti alla fame e al freddo CARTOLINA DAL CAMPO DI LANGENSALZA inviata dal prigioniero Giorgio Mandelli al padre,a Sabbioncello MERATE (ces) Giorgio Mandelli di Sabbioncello, il 3 settembre 1918, scriveva al padre Antonio una cartolina per accusare ricevuta del pacco ricevuto tramite la Croce Rossa e spedito al campo di prigionia di Langensalza: «Cari Genitori io mi trovo in buona salute come spero di voi. Vi saluto vostro figlio Giorgio». Saranno le sue ultime parole, il 19 dicembre verrà notificata la sua morte per bronchite, avvenuta al campo di Laz Ohdruf a poco più di un mese dalla firma dell’armistizio. Lasciò quattro figli in tenera età e una moglie che morì qualche mese dopo. Nel 1907 venne stipulata la Convenzione Internazionale dell’Aja su leggi ed usi della guerra terrestre e l’articolo 7 recitava: «Il Governo, in potere del quale si trovano i prigionieri di guerra, è incaricato del loro mantenimento. In mancanza di intesa speciale tra i belligeranti, i prigionieri di guerra saranno trattati per il nutrimento, alloggio e vestiario, come le truppe del Governo che li avrà in cura». Ma i governi che avevano in cura i prigionieri italiani, gli Austro-Ungarici e i Germanici, stretti a loro volta dalla morsa dell’embargo imposto da Inglesi e Francesi, erano ormai allo stremo e i loro eserciti costretti alla fame. Così la sorte dei prigionieri italiani fu durissima e la politica del Governo italiano nei loro confronti drastica. Non vennero organizzati soccorsi adeguati, nella convinzione che le notizie sulla fame patita in prigionia avrebbero scoraggiato le diserzioni. Furono addirittura proibiti e ostacolati gli aiuti umanitari, a differenza dei prigionieri francesi ed inglesi che ricevevano regolarmente pacchi alimentari ed indumenti tramite la Croce Rossa. Risultato: i nostri soldati furono costretti a sopravvivere al freddo intenso, nell’abbandono, cibandosi di pochissime calorie, qualche zuppa di patate o di cavolo, farina mescolata con scorie di ghiande o di paglia rape e caffè d’orzo. I soldati italiani catturati fra il 1915 e il 1918 furono all’incirca 600.000, di cui 300.000 fatti prigionieri durante la Rotta di Ca- poretto. Essi furono distribuiti in diversi campi di prigionia, in Austria, Germania, Ungheria. Molti finirono a Mauthausen e Theresenstadt. Oltre alla testimonianza di Giorgio Mandelli che morì a Laz Ohrdruf (documentata nella mostra) è visibile l’elenco di 65 prigionieri cui il Comitato di Merate inviava pane tramite la Croce Rossa. Tra di essi, al n°50, compare Angelo Sala, figlio di Giovanni, che morì il 15 marzo 1918 per polmonite a Sigmundsherberg, in Austria. Questo campo, inizialmente costruito per i prigionieri russi, divenne nel 1916 luogo di prigionia per i soli soldati italiani. Dopo la disfatta di Caporetto arrivò a contenere molto più dei 40.000 uomini per cui era stato progettato. Le condizioni di vita divennero terribili e tra novembre 1917 e maggio 1918 morirono 334 prigionieri per malattia e per fame. Ma in questo caso sul certificato di morte si parlava di «odem», cioè edema, perché ufficialmente la morte per fame non era contemplata. © RIPRODUZIONE RISERVATA Ultime lettere Lettera del 7 giugno 1916 scritta dal Tenente Medico: «Chiarissimo Signore faccio incarico del Sig. Comandante la 2° Compagnia, compio il doloroso dovere di annunziarle la morte dell’Alpino Fumagalli Paolo di Pagnano, voglia ella partecipare alla famiglia del decesso la triste notizia. Il Fumagalli cadde ieri mattina eroicamente in uno scontro di avanposti, colpito da proiettile di fucile nella regione addominale. Fu tosto raccolto e medicato, ma la ferita gravissima con la necessità del trasporto attraverso luoghi asprissimi e impervi non dava purtroppo luogo a speranze. Il ferito si spense in piena lucidità di mente e senza sofferenze dopo due ore». (Dr. Carlo Alzocca Tenente Medico). Il soldato Panzeri Massimo, classe 1897, scrive una delle sue ultime lettere dalla zona di guerra ai famigliari il 31 agosto 1917, ne segue un’altra ricevuta a Merate il 28 ottobre1917. Egli scrive di appartenere alla 54° Compagnia Presidiaria. «Carissimi genitori, vengo con questa mia lettera onde per darvi un consiglio del mio buon stato di salute. Io fin ora mi trovo in buona e perfetta salute. E come spero sempre al simile di voi Padre e Madre fratello e sorella parenti e cugini tutti indistintamente. Cara Mamma vi fo sapere che vio scritto il giorno 27 e vio messo delle parole per via del fratello. E’ lo stesso giorno ho ricevuto la vostra lettera con la quale parlava un po’ del mio fratello. Io per conto mio ve lo dico di cuore, non ci scrivo, che se non i scrive lui. Quando mi scrive lui ci scrivo. Perché che sono molto arrabiato che dopo la mia licenza ciò scritto 2 volte, e lui non mi ha fatto nessuna risposta (...). Però voi non pensateci per questo che se ho la grazzia di venire a casa una altra volta ne parleremo, Voi state allegri non pensate a me, e ne di lui che se Dio mi vuol bene, ma darà la grazzia di rittornare ancora alle nostre beate case sani e salvi, Adio vi saluto di cuore vostro figlio». Il 25 settembre 1918 il Sindaco di Merate invia un telegramma al Reggimento di Fanteria a cui Panzeri dovrebbe appartenere per conoscere «quale sorte sia toccata al militare», non ricevendo i familiari da molto tempo sue notizie. Il 3 ottobre 1918 il Comandante del 54° Reggimento Fanteria risponde al Sindaco che Panzeri non risulta appartenere al Corpo. Una seconda ricerca riparte quando l’Esercito chiede ai Carabinieri di Merate conferma dell’ultimo indirizzo da cui scrisse il soldato. Ma le ricerche non danno risultato: «Egli risulta sconosciuto ai reparti dipendenti né figura tra i prigionieri». Infine la pietà di un cappellano militare, scrivendo da un Ufficio Notizie di Alessandria, il 29 aprile 1919 porta un po’ di chiarezza: «Questo Comando non è in grado di dare informazioni circa la posizione del militare, perché trattandosi di militare che appartenne a questo reggimento in epoca anteriore al fatto d’armi di Caporetto non si hanno del militare stesso tracce, essendo in detto fatto d’armi andato smarrito, per cause di forza maggiore, quasi tutto il carteggio reggimentale». Tutto ciò per ottenere la dichiarazione di irreperibilità e poter dare avvio alle pratiche di richiesta della pensione di guerra in favore dei genitori.