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Esercizi di potere

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Esercizi di potere
Universale Meltemi
21
Copyright © 2006 Meltemi editore srl, Roma
È vietata la riproduzione, anche parziale,
con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,
anche a uso interno o didattico, non autorizzata.
Meltemi editore
via Merulana, 38 - 00185 Roma
tel. 06 4741063 - fax 06 4741407
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www.meltemieditore.it
a cura di
Iain Chambers
Esercizi di potere
Gramsci, Said e il postcoloniale
o
MELTEMI
Indice
p.
7
Il sud, il subalterno e la sfida critica
Iain Chambers
17
Percorsi di subalternità: Gramsci, Said, Spivak
Lidia Curti
27
Umanesimo della convivenza: Edward Said in dialogo
con Antonio Gramsci
Giorgio Baratta
39
Il sud del mondo: pensieri scomodi, percorsi interdisciplinari
Marina De Chiara
49
Dal cosmopolitismo all’ibridazione
Lea Durante
55
Sempre di passaggio
Marie-Hélène Laforest
63
L’ermeneutica della condizione umana
Domenico Jervolino
71
(S)concerto a tre voci. Le trasgressioni musicali di
Edward Said
Serena Guarracino
81
“Suonando al buio”: l'ultimo pensiero di Edward W.
Said
Silvana Carotenuto
89
Edward Said. Teorie in movimento: oltre il cosmopolitismo
Sandra Ponzanesi
101
Non arrivo a mani vuote. Tragitto da sud di Ahdaf Soueif
Marta Cariello
111
L’“umanesimo assoluto” di Gramsci, ovvero il nesso
egemonia-nonviolenza oggi
Pasquale Voza
119
“Dentro i covili del verme”: lettera dal carcere di Secondigliano
Sara Marinelli
131
Bibliografia
137
Gli autori
Il sud, il subalterno e la sfida critica
Iain Chambers
È da vedere come la formula critica di Vincenzo
Cuoco sulle “rivoluzioni passive”, che quando fu
emessa (dopo il tragico esperimento della Repubblica Partenopea del 1799) aveva un valore di avvertimento e avrebbe dovuto creare una morale
nazionale di maggiore energia e di iniziativa rivoluzionaria popolare, si convertì, attraverso il cervello e il panico sociale… in una concezione positiva, in un programma politico e in una morale…
(Gramsci 1975, p. 1220)
Poche parole per presentare questi saggi. Dalla proposta di ripensare in modo radicale la propria storia e
cultura, come già Antonio Gramsci approvando il giudizio dello storico napoletano Vincenzo Cuoco, procede l’impulso critico che coordina i saggi di questo volume1. Frutto di un incontro a Napoli di voci diverse – letterarie, storiche, politiche, interdisciplinari – essi intendono aprire uno spazio interpretativo in grado di ricevere, rielaborare e rilanciare l’eredità critica di Antonio
Gramsci e Edward Said: il primo ormai relegato nell’ombra dall’inerzia della cultura istituzionale, il secondo uno straniero che è riuscito a incidere solamente in
maniera obliqua su tale formazione. Non si tratta di un
lavoro di approfondimento accademico, ma di una raccolta di segnali che registrano l’urgenza critica della situazione italiana attuale. Si tratta di proporre un’opera
leggera, come suggerisce Edmond Jabès in Un Étranger
avec sous le bras un livre de petit format, che potrebbe
servire a indicare delle strade non ancora imboccate,
degli orizzonti ancora da attraversare, nella convinzione che il senso del mondo esiste nell’atto di riconfigurarlo e, dunque, trasformarlo.

IAIN CHAMBERS
Nell’arco del ventesimo secolo, tra gli anni del fascismo
e gli anni attuali della cosiddetta “globalizzazione”, resta
invariato il grande salto effettuato nel pensiero critico occidentale da Antonio Gramsci e poi ri-elaborato da
Edward Said: capire che la lotta politica, culturale e storica non consiste nel rapporto tra la tradizione e la modernità, ma tra la parte subalterna e la parte egemonica del
mondo. Da questo cruciale spostamento delle coordinate
critiche emerge una valutazione radicale del senso dinamico, e perciò aperto e mai conclusivo, della cultura. Nel
riconoscimento della resistenza, della devianza, della deriva, delle alternative e del rifiuto, si individuano dei poteri che cercano di configurare e combattere con tutti i
mezzi possibili il “senso comune”, ovvero egemonico, del
mondo odierno. In questo senso, per riprendere la voce
di Walter Benjamin, i morti continuano a parlare, insistendo in un dialogo con noi in cui la storia non è mai conclusa: essa è sempre ora.
Resta fondamentale in questo panorama l’insistenza di
Gramsci sul primato della cultura nell’elaborazione del
potere, e quindi del potere della cultura nella realizzazione di un blocco storico-sociale. In questa prospettiva i collegamenti meccanici e spesso tortuosi elaborati nel passato tra l’infrastruttura economica e la sovrastruttura politico-culturale si sciolgono, mentre si apre la possibilità
di un’appropriazione critica della “cultura nuova”,
profondamente urbana, e mediaticamente di massa, in cui
le tracce delle culture popolari e del folclore precedente
sopravvivono nel transito della traduzione indotto dalla
cultura stessa. Questa angolazione ci aiuta a capire, con
tutte le sfumature di interpretazioni, magari anche approssimative, perfino “sbagliate”, la presenza costante
dell’opera di Gramsci nella formazione degli studi culturali e postcoloniali negli ultimi trent’anni, soprattutto
quando la questione meridionale viene estesa a una cartografia planetaria. Qui resta centrale, attraverso la con-
IL SUD, IL SUBALTERNO E LA SFIDA CRITICA

tinua rielaborazione dell’eredità di Gramsci, la questione cruciale di come dare forma teorica all’ingiustizia che
attanaglia il sud del mondo, reso oggetto e subalterno dinanzi alla sovranità apparentemente illimitata dell’Occidente (Crehan 2002, p. 3).
La richiesta urgente di un rinnovamento critico dell’attuale cultura italiana che emerge da questa prospettiva è stata raramente recepita (ancora imprigionata nella sua
“rivoluzione passiva”?): la cultura popolare e/o di massa
è rimasta una categoria a parte per una sociologia del settore; il Sud, dentro e fuori Italia, un problema in sé senza
conseguenze cruciali per la cultura nazionale. Solamente
l’aspra critica di Pier Paolo Pasolini resta un’eccezione che
illumina un paesaggio critico dominato dal placido destino di un moribondo storicismo.
I circuiti planetari di produzione e riproduzione, sebbene decisamente economici, sono anche profondamente
culturali e politici nel loro impatto. Questo intreccio che
fornisce una formazione storica, ubicata nel tempo e nel
luogo ormai caratterizzato da una planetarietà agonistica, distrugge le premesse evocate nella distinzione pragmatica e disciplinare tra l’economia politica e le analisi
culturali. Perfino il “mercato” e l’“economia” stessa, che
ormai hanno acquisito il livello di “fatti” metafisici, e
dunque criticamente intoccabili, sono frutto di un discorso specifico, di costruzioni culturali inizialmente articolate dai teorici dell’economia politica liberale nell’Ottocento. Dopo la critica marxiana di quel discorso,
e sulla scia della sfida nietzscheiana, con la sua insistenza che i fatti non sono mai “fatti” ma interpretazioni che
spesso sfuggono a un razionalismo unilaterale, possiamo,
come Gramsci, come Said, toccare il polso di una formazione storico-culturale nei meandri complessi della
sua elaborazione. Nei Quaderni del Carcere, Gramsci insisteva che la storia della cultura è molto più intricata di
quella della filosofia:

IAIN CHAMBERS
Nel senso più immediato e aderente, non si può essere filosofi, cioè avere una concezione del mondo criticamente coerente, senza la consapevolezza della sua storicità, della fase
di sviluppo da essa rappresentata e del fatto che essa è in contraddizione con altre concezioni o con elementi di altre concezioni (Gramsci 1975, pp. 1376-1377).
È questo eccesso, custodito nella densità incerta e opaca del linguaggio stesso, che fornisce una zona di intensità culturale, dove i saperi non-autorizzati irrompono
dentro e fuori delle discipline autorizzate. Nella narrazione storica, nel racconto del passato, si può ben vedere, come insiste Paul Ricœur (1991), che il “senso” non
deriva dai “fatti” nudi e crudi e dagli “eventi” isolati,
bensì è un qualcosa che scaturisce dalla temporaneità
della narrazione, dal racconto del tempo che mi affida una
responsabilità critica.
Da qui emergono quelle contro-culture della modernità
in grado di delineare una cartografia instabile, sofferte e
vissute nella loro eterogenea non-sistematicità, che ci spinge a viaggiare nel mondo con una bussola diversa, dove
“tutto dev’essere messo in questione” (Frantz Fanon), e
dove, ricordando Gramsci, gli esiti storici non sono mai
inevitabili.
In questo spirito diventa auspicabile effettuare un’appropriazione critica di Gramsci stesso per riaprire un dialogo attuale. I concetti di “partito” e di “classe”, che fornivano “concezioni del mondo in quanto essenzialmente
elaborano l’etica e la politica conforme ad esse” (Gramsci 1975, p. 1387), sono stati essenziali nell’elaborazione
gramsciana di cultura. Ormai questa “organicità” è stata
radicalmente trasformata rispetto agli anni Trenta del ventesimo secolo, assorbita e plasmata soprattutto dai poteri
mediatici che elaborano il “mondo” di oggi: partiti e classi non esistono più come blocchi o attori relativamente autonomi. Paradossalmente, l’elaborazione gramsciana di
“cultura”, arricchita dalla riflessione sulla pervasività di po-
IL SUD, IL SUBALTERNO E LA SFIDA CRITICA

teri eterogenei, ha fatto precipitare la separazione tra “politica” (nel senso stretto di poteri istituzionali e organizzativi) e “cultura” (concepita nel senso esteso, antropologico, di “intero sistema di vita”, annunciato negli anni
Cinquanta da Raymond Williams, e anticipato da Gramsci stesso): questi sono i poteri che attraversano i partiti politici e le classi sociali in modo trasversale alla ricerca della propria identità etnica, sessuale, differenziata… Si tratta ormai di una complessità storica frequentemente esplosiva (identità etnica e regionale, spesso suggellata da differenze religiose, che si cimentano in guerre e genocidi) liberata da un’impostazione puramente istituzionale o teleologica. Quello che resiste nella formulazione gramsciana di “cultura” è la centralità dell’esercizio complesso del potere.
Proprio con questa deviazione nella rotta del pensiero
della modernità lo sguardo autorizzato dall’eredità occidentale incontra degli ostacoli, delle macchie sulla retina,
delle ombre nella visione e nel punto di vista. È qui, in questa zona di mescolanza e di traduzioni, che i concetti critici si flettono continuamente per incontrare le esigenze di
esperienze e saperi ubicati in realtà locali. Qui, per esempio, il dibattito sul senso del termine gramsciano “subalterno” scivola, attraverso il tradimento delle traduzioni storiche e culturali, fuori dalla logica strettamente filologica
(e spesso imprigionata in uno storicismo provinciale) per
ritrovarsi sulla via del senso, ovvero il percorso, il sens, che
permette che il viaggio critico riesca a continuare senza la
pretesa unilaterale del possesso; come se fosse una strada
che debba rispecchiare puramente i nostri interessi e desideri. Sebbene questo viaggio sia un viaggio in comune,
inquadrato nel riconoscimento di un destino planetario,
lungo la strada chiamata “mondo” si incontrano diversi
viaggiatori. Qui, alla solita accusa di “relativismo culturale” (spesso figlio della paura di ritrovarsi spaesati in un paesaggio che soffre, e perciò non ospita volentieri, il positi-

IAIN CHAMBERS
vismo unilaterale del “progresso”) bisognerebbe chiedersi “relativa a che cosa?”, all’interno di una costellazione critica che illumina e fa anche ombra sulla complessità differenziata della vita umana, che si dispiega in una perpetua risonanza-dissonanza planetaria. È la condizione che
precede il pensiero, e non il concetto che cerca di afferrarlo,
che fornisce l’universale. Qui i “limiti” imposti dalle discipline appaiono come sindromi di un discorso accademico che spesso pensa di restare neutrale e scientifico rispetto ai drammi del mondo, dimenticando che è proprio
il suo coinvolgimento nelle strutture dei poteri-saperi a
consentire l’illusione di mantenersi “neutrale” e “scientifico” (Said 2004a).
Nel tessuto della cultura, dobbiamo affrontare, con
Gramsci per andare oltre, l’eccesso del linguaggio che
pervade la teoria per spingerla altrove. Parlo di un senso
della poetica (letteraria, musicale, visiva) che rende il modo di vedere le cose (teoria) vulnerabile al rimosso, al corpo segnato dalle diversità storiche, e dunque all’interrogazione dell’alterità. Non dobbiamo dimenticare, sia nel
caso di Edward Said sia nel caso di gran parte degli studi
postcoloniali, che la sfida critica emergeva in primo luogo dalla poetica della letteratura (pensiamo a Toni Morrison, Nuruddin Farah, Mahasweta Devi, Derek Walcott,
Assia Djebar: autori e autrici facilmente reperibili in italiano), e dell’arte visiva e della musica: non sono semplicemente “sintomi” di una realtà nascosta o mascherata; si
tratta di linguaggi (spesso di “origine” e di appartenenza
occidentale: il romanzo, la riproduzione discografica, ormai digitale, della musica) che annunciano la loro ubicazione nel mondo e i loro “diritti a narrarlo”, come direbbe Homi Bhabha.
Nell’erranza del linguaggio – sia critica sia poetica,
sebbene anche qui le distinzioni cominciano a svanire – ci
troviamo a ri-immaginare il pianeta (Gayatri Chakravorty
Spivak) alla luce di tutto ciò che quel mondo stesso con
IL SUD, IL SUBALTERNO E LA SFIDA CRITICA

la sua modernità e il suo “progresso” ha offuscato e rimosso. Nell’accogliere le domande disseminate in una poetica che eccede il senso ereditato di “politica” ci troviamo con una critica che non può concludersi nel desiderio
di lasciare le cose immutate e immutabili. Nella necessaria riconfigurazione abbiamo in mano una bussola che ci
permette di viaggiare sotto il segno dello spaesamento;
quello spaesamento che annuncia la crisi che fornisce la base per l’unica critica possibile. Essere in transito, essere
“sempre nel posto sbagliato”, per ricordare il titolo dell’autobiografia di Edward Said, significa rendere ogni luogo e ogni linguaggio problematico, continuamente esposto alle interrogazioni che arrivano dall’altrove. Il resto è
solamente il conforto della chiacchiera.
In questo viaggio, quel soggetto sovrano che finora ha
inquadrato il mondo moderno da una prospettiva che rispecchia le proprie esigenze e desideri – si pensi al legame inquietante tra la pittura del Quattrocento e il futuro
ritratto di colonialismo e imperialismo – verrà abbandonato. Nella zona di ombre e di incertezza, l’agente globale che pensa di essere ancora in grado di spiegare e inquadrare il mondo, sia come voce singola sia come moltitudine, è stato soppiantato, come ha suggerito recentemente Gayatri Charkravorty Spivak, dal soggetto planetario con la sua vita nuda, esposta, che non trova “casa”
nelle mappe disponibili e perciò esiste senza una base riconoscibile per agire: “i perdenti senza parole e senza segni” (Edmond Jabès). Questo è il punto estremo da cui oggi il significato della subalternità deve partire. Nella notte frammentata della non-identità, dell’anonimo e dell’invisibile, la cultura provoca di nuovo l’occasione politica.
Al posto dell’umanesimo universale con la sua “mitologia bianca”, si potrebbe abbozzare un umanesimo critico, com’è stato auspicato negli scritti recenti di Edward
Said e Paul Gilroy, sebbene si tratti sempre di collocare
questo linguaggio e questa tradizione in una cartografia ra-
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IAIN CHAMBERS
dicalmente sradicata rispetto alle premesse su cui l’umanesimo stesso storicamente e culturalmente poggiava. Tra
l’universalismo della richiesta per la giustizia e l’uguaglianza da una parte, e la realizzazione storico-culturale
dell’umanesimo occidentale e il suo dispositivo di potere
dall’altra, si apre uno squarcio che il secondo non può pretendere di colmare senza fare un altro gesto imperialistico. Qui si toccano i limiti violenti di tale razionalità, quella che Spivak giustamente definisce con il concetto di violenza epistemologica. A questo punto ci si trova sulla soglia di un mondo veramente diverso, sia nel suo senso politico sia nel suo senso ontologico. Si tratta, come dicevano sia Heidegger sia Said, di insistere su un discorso
profondamente mondeggiato dal mondo; cioè insistere “a
pensare ‘mondialmente’” (Gramsci 1975, p. 1317).
In questa ri-apertura dell’archivio dell’Occidente con
le chiavi degli studi postcoloniali e la “filologia critica” praticata da Gramsci e, in seguito, da Foucault, Derrida e
Said, non ci siamo tanto proposti di recuperare le parti rimosse, quanto di riconfigurare la modernità stessa. Se
Edward Said nel suo ultimo libro – Humanism and Democratic Criticism – giustamente insiste sul contributo
islamico alla formazione dell’umanesimo europeo, il nocciolo duro del problema consiste nel fatto che è stato lo
stesso umanesimo a negare tale legame. Comunque la questione non è destinata a risolversi con un semplice ritocco del quadro storico, culturale e politico, aggiungendovi gli elementi dimenticati. Come il femminismo ci ha insegnato, si tratta di riconcepire il discorso nelle sue premesse, magari uscendo anche fuori quadro per ritornare
con una prospettiva diversa, ormai disseminata nella sobrietà di una storiografia riconfigurata da una po-etica
planetaria.
A questo punto penso personalmente che sarebbe anche obbligatorio ritornare alla formazione italiana, e, sulla scia di Gramsci, riascoltare le voci critiche e poetiche che
IL SUD, IL SUBALTERNO E LA SFIDA CRITICA

potrebbero imbarcarsi di nuovo in questo viaggio critico,
con il biglietto degli studi interdisciplinari, timbrato poi
dal postcolonialismo: Pier Paolo Pasolini, Ernesto de Martino, Franco Fortini, ma anche il pensiero femminista delle differenze, l’hip hop declinato in dialetto, i DJ delle
creolitè – tutti quei segni e suoni non riconosciuti della subalternità…
1
Il volume raccoglie i contribuiti a un seminario intitolato “Il sud, Said e
il subalterno: Gramsci ora”, realizzato nell’ambito dei lavori Umanesimo e convivenza. Said in dialogo con Gramsci: un’officina di civili conversazion, svoltisi
presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, il 23 febbraio 2005.
Percorsi di subalternità: Gramsci, Said, Spivak
Lidia Curti
Corpi e scrittura
… un’esperienza personale, un ricordo, legato alla mia
collaborazione a un film su Gramsci commissionato dalla televisione britannica a un gruppo di operatori cinematografici scozzesi, tutti uomini, io e lo storico Tom Nairn tra essi
con la qualifica vaga di consulenti o esperti, non so. Li accompagno nella trasferta a Roma per le riprese nella clinica in cui Gramsci aveva trascorso gli ultimi mesi della sua
vita, in quella che ci dicevano era stata la sua stanza, le infermiere gentili e astratte che avevano forse conosciuto la vecchia suora che lo aveva assistito. Una stanza vuota con un
letto e un crocifisso, le pareti verde pallido... che poi sparì
dal film... il verde pallido, il vuoto, le immagini religiose dovunque (la cappella della clinica era proprio di fronte alla
stanza ma forse chissà quella non era nemmeno la sua stanza)... non si sa molto, all’inizio niente – e poi di fronte alla
nostra insistenza i tentativi di ricordare chi era la suora che
c’era a quell’epoca, si chiama l’infermiera che l’aveva conosciuta prima che morisse... mentre si girava la scena sono andata sul balcone, ricordo un bel giardino abbandonato che
resisteva all’avanzata delle costruzioni eleganti. Era una clinica per ricchi, immagino; 25 stanze e non tutte occupate;
anche se alla fine per mandarci via ci hanno detto che un pa-

LIDIA CURTI
ziente sarebbe presto arrivato; uno strano miscuglio di ignoranza (chi era questo Gramsci e perché si filma il luogo in
cui è morto tanti anni fa) e la preoccupazione di fare qualcosa di inviso al governo o al comune, alle autorità ecclesiastiche e ai proprietari della clinica.
In seguito, in Scozia, durante l’incontro che ci fu in televisione dopo la prima visione del film alla BBC, tutti uomini tranne me – “the men talking about Michelangelo
while the women come and go” (T. S. Eliot) – s’è parlato di
politica nel senso antico, quella che Gramschi (come lo pronunciava il moderatore) aveva tentato di correggere, di alleanze tattiche e strategiche, e così via. Non c’era interesse
per l’intreccio di pubblico e privato, di autobiografia e teoria, di ciò che le donne possono raccogliere dalla sua eredità,
e soprattutto del filo ostinato, del serpente di parole che era
uscito da quella prigione come disperato sostituto dell’azione, della vita, del potere, dei rapporti umani, un flusso di parole sull’incontro tra culture e saperi, ma anche su se stesso, sui figli, sulla cultura popolare (in seguito si sarebbe detto di massa), sul quotidiano.
Nel film, invece, si parlava della sua scrittura ma mai del
suo corpo. Così come in tutti quegli anni erano stati ignorati i suoi sentimenti, la sua fragilità, la sua diversità fisica
che risultava invisibile nelle icone ufficiali presenti nelle sezioni del PCI, passata sotto silenzio fin nella sua scrittura pur
se la preoccupazione per il suo stato di malattia era molto
presente. Una diversità che invece lo isolava tra i suoi compagni nella fotografie scolastiche di gruppo.
Scrivere, ostinatamente scrivere contro le difficoltà della solitudine, della prigionia, della cattiva salute, di un
corpo diverso da quello degli altri, è il filo che mi può portare a operare il collegamento che qui si chiede. Il flusso
di pensiero e scrittura che emerge da una situazione confinante, una condizione limitante accomuna Gramsci almeno in parte a Said, anche lui accerchiato dalla malattia,
PERCORSI DI SUBALTERNITÀ: GRAMSCI, SAID, SPIVAK

negli ultimi dieci anni e più della sua vita, i più fertili della sua scrittura. Ambedue in una condizione di esilio,
Gramsci perché confinato, Said perché espatriato. Quello di Said al confronto sembra un esilio dorato, dove tuttavia era osteggiato su due fronti: il primo tra gli israeliani e gli ebrei d’America, un establishment forte anche tra
gli intellettuali (molti gli attacchi ricevuti quand’era direttore della PMLA, questi aperti e firmati, anonime invece le minacce). È stato necessario un coraggio alto e forte
per parlare a favore della causa palestinese pur in un paese democratico. La seconda ostilità proveniva dalla sua
stessa parte, in particolare i suoi capi, verso cui ha condotto
una battaglia critica che non ha lasciato spazio alla nostalgia che pure provava per la terra da cui era crudelmente
lontano, una divergenza e un isolamento simile a quella che
Gramsci sentì acutamente in prigione, anche tra gli altri
prigionieri politici comunisti.
Di Said ho tuttavia un ricordo allegro, della sua capacità comunicativa, della sua abilità di didatta da cui traspariva la sua passione culturale e politica, durante uno dei
suoi seminari alla Columbia agli inizi degli anni Novanta
in cui accanto agli studenti erano presenti tipi variegati di
persone, mentre di Gramsci ho il ricordo della stanza del
suo ultimo confino e della morte…
La solitudine di Said era legata all’ambiguità della condizione degli esiliati, nato in Palestina da una famiglia cristiana, cresciuto ed educato in Egitto in una scuola inglese, poi diventato professore di studi comparati a Columbia e uno dei più noti intellettuali del mondo anglofono.
In un programma televisivo girato per la BBC nel 1994 egli
parla di sé, partendo dalla sua biografia per presentare un
soggetto difficilmente ascrivibile a un’area precisa (arabo
di denominazione cristiana e di educazione angloamericana) mentre l’appartenenza a un’élite è chiara (il filmino,
il tipo di sport). La voluta inclusione di scene dalla sua famiglia attuale e dalla sua casa di Manhattan mostra tutta-

LIDIA CURTI
via il ritorno alle origini nei nomi arabi delle figlie, nei discorsi in arabo con la moglie; parlando di Robinson Crusoe, definito la prima narrazione imperiale, dice “mi identificavo con Robinson e non con Venerdì” rivelando da un
lato l’influsso del canone inglese (la grande tradizione) su
di lui, e dall’altro l’identificazione con il soggetto individualista borghese che costruisce il proprio destino, mostrando più simpatia per il soggetto coloniale che per l’ambiguo, a metà straniero, Conrad/Marlow; è severo verso
Conrad e Kipling di cui cita la fin troppo famosa poesia
sul colonialismo come “fardello dell’uomo bianco”.
L’importanza del “corpo testuale” in Said, che nel video si evidenzia anche attraverso le molte immagini dall’iconografia imperiale sull’India, è sottolineata in tutti i
suoi libri, da Orientalism a Culture and Imperialism, fino
al recente Humanism and Democratic Criticism, pubblicato postumo, ove ha affermato che “le opere del canone, lungi dall’essere una tavola rigida di regole fisse e di
monumenti che ci opprimono dal passato, rimangono
aperte a combinazioni mutevoli di senso e significato”
(2004a, p. 25). La letteratura per lui è importante in sé,
per la sua apertura a sensi e significati mutevoli, oltre che
per i suoi stretti intrecci con la politica; i testi letterari sia
del canone che dell’anticanone hanno costituito una parte rilevante della sua critica anticoloniale e occupato un
posto privilegiato accanto ai documenti, alla storia, ai
monumenti imperiali. Nello spessore della parola egli ha
letto molte delle sue intuizioni ed elaborazioni politiche
e sociali. Lo stesso peso avranno per Gramsci quelle che
allora venivano denominate sovrastrutture, cultura e culture, sapere e istruzione, modi di vita, abitudini, letture,
ascolti, di grande peso per lui nella lotta politica e rivoluzionaria che pure era il fine mai dimenticato dei suoi
scritti. L’accento sul ruolo determinante della componente culturale nella lotta politica, come strumento essenziale per fare del subalterno un compiuto soggetto
PERCORSI DI SUBALTERNITÀ: GRAMSCI, SAID, SPIVAK

politico, si accompagna alle analisi di come le rappresentazioni della realtà subalterna siano falsificate dalla
cultura dominante, anticipando il lavoro importante svolto più tardi da Foucault e altri sulla realtà come costruzione storica e sociale.
Dal subalterno al colonizzato, dal colonizzato al migrante
Il concetto di subalternità ha attraversato varie fasi e
aspetti nel passaggio dal marxismo ortodosso, che lo vedeva in termini di classe e di coscienza di classe, con riferimento alle lotte della classe operaia tra Otto e Novecento,
a quello di un’epoca diversa, che ha visto la mutazione del
capitalismo industriale dallo sfruttamento diretto della
forza lavoro a uno indiretto e multiforme. Dalla riflessione sulle questioni di classe si è passati alle considerazioni
di razza, etnia e territorio – attraversate da quelle di genere
cui non sempre si era dato rilievo.
All’imperialismo, che era stato corollario indispensabile
di quella prima fase, è subentrato il periodo della decolonizzazione, caratterizzato da un’economia globalizzata e
dalla comunicazione elettronica, e non scevro da sviluppi
neocoloniali. La distinzione tra proletari, colonizzati e migranti non va vista in successione cronologica: si tratta di
condizioni talvolta simultanee, spesso in sovrapposizione,
di cui la subalternità è denominatore comune.
Quella nozione originaria aveva comunque trovato correzioni e adattamenti nel secolo appena trascorso, con –
accanto a Gramsci – Raymond Williams, gli studi culturali, il pensiero della differenza e quello postcoloniale, che
hanno portato in primo piano culture marginali e represse in regimi patriarcali e/o coloniali. In particolare in quest’ultimo caso si è prestata attenzione a culture e letterature minori, diasporiche e ibride, prevalentemente, anche se non solo, extra-occidentali.

LIDIA CURTI
Il concetto di subalternità fondato su termini geografici o meglio territoriali aveva già trovato spazio in
Gramsci, che aveva parlato di “terreno comune” ai contadini del Sud e al proletariato del Nord. In Cultura e imperialismo, Said si è soffermato a lungo su “storie che si
incontrano, territori che si sovrappongono”, riferendosi all’inestricabilità della cultura del colonizzatore da
quella del colonizzato. Ha sottolineato l’importanza del
territorio, della geografia della subalternità, la sua spazializzazione nelle vicende coloniali fondate sull’egemonia del potere materiale, ricordando che l’espansione degli imperi è avvenuta sempre su basi territoriali. Sud e
Nord come Oriente e Occidente, che nel già citato programma televisivo egli ricorda come una dualità ispiratagli da Gramsci. In ambedue i casi, concetti non legati
a uno spazio fisso e immoto, ma riferiti a una geografia
del dominio, a una egemonia culturale e linguistica, economica e istituzionale.
L’inclusione di Gramsci del contadino meridionale nella lotta di classe, l’aver posto il subalterno del Sud accanto al proletario del Nord (sostenne di aver capito Marx solo dopo essere stato al Sud), la mano scura accanto a quella bianca, l’individuazione di una trasversalità all’interno
del blocco nazionale, si ritrova in Said nella sua revisione
delle identità nazionali e culturali viste non come essenza
ma come insieme contrappuntistico (i greci avevano bisogno dei barbari, gli inglesi degli africani o indiani, e
questi degli inglesi)1.
Gramsci aveva parlato della visione ideologica del Mezzogiorno visto come arretratezza frenante, così come più
tardi Said parlerà di “orientalismo” e della visione egemonica dell’Occidente nei confronti dell’altro. Gramsci dà
esempi di questa ideologia citando da testi dell’epoca: “Il
mezzogiorno è la palla di piombo che impedisce più rapidi
progressi allo sviluppo civile dell’Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semibarbari o
PERCORSI DI SUBALTERNITÀ: GRAMSCI, SAID, SPIVAK

dei barbari completi” (Gramsci 1991, p. 135), e riferisce
di definizioni dei meridionali come “poltroni incapaci,
criminali, barbari”, appellativi che ricorrono in molti giudizi di viaggiatori e pensatori inglesi nei confronti degli indiani, presenti in molte delle opere citate da Said, e che oggi vengono reiterati nei confronti degli immigrati.
La nozione gramsciana del subalterno in movimento
verso il raggiungimento di una sua egemonia si ritrova in
Said, che ripetutamente sottolinea l’esistenza di una forte
corrente di dissenso radicale e antiautoritario in ogni cultura anche nei periodi più bui dell’egemonia imperiale. Nel
concetto di guerra di posizione e guerra di manovra,
Gramsci riconosceva l’importanza delle aree marginali,
delle componenti interne alle formazioni di classe sia dominanti che subalterne, elementi che diventano fondamentali nel lavoro di Ranajit Guha e di Gayatri Spivak. I
contadini di Gramsci trovano un parallelo nelle organizzazioni delle popolazioni tribali indiane cui guardano i Subaltern Studies.
In quest’ambito va ricordato anche Raymond Williams
che ha individuato accanto all’egemonia nuclei di resistenza, sia residuali che emergenti. Il ruolo dell’intellettuale
nel movimento culturale e politico dei subalterni è il filo
che unisce questi studiosi sia pure con accentuazioni molto diverse. Lo si ritrova nelle parole di Said (2004a, p. 28):
Il nostro mondo intellettuale e culturale non è una semplice trasparente raccolta di discorsi esperti ma piuttosto una
serie disarmonica di notazioni insolute e in fermento, per usare le belle parole di Raymond Williams per descrivere le elaborate articolazioni della cultura che si ramificano all’infinito.
Gli studi subalterni e Gayatri Chakravorty Spivak
Il passaggio dalla lotta di classe alla lotta anti-imperialista, dall’antifascismo all’anticolonialismo, dagli stu-

LIDIA CURTI
di gramsciani a quelli postcoloniali, è comune a Said e
a Spivak, in un percorso consonante e dissonante a tratti. Nel contempo non è possibile ignorare il lavoro dei
Subaltern Studies, un gruppo di studiosi indiani o di origine indiana che si sono ispirati al concetto di subalternità elaborato da Gramsci sin dal loro nome, e di cui Spivak stessa ha fatto parte con alterne vicende. Essi hanno esortato a ripensare la storiografia indiana attraverso la catena sia pur discontinua ed erratica delle rivolte
contadine durante l’occupazione coloniale, insistendo
sulla saldatura tra classi e gruppi sociali eterogenei all’interno di una società composta di strutture disomogenee. Si sono rifatti, in particolare Spivak, alla distinzione gramsciana tra società politica e società civile per
muovere una serrata critica al governo indiano del dopo-indipendenza colpevole di aver proseguito politiche
coloniali di oppressione nei confronti delle popolazioni rurali e tribali, già oggetto di una legge anti-crimine
britannica.
In Critica della ragione postcoloniale, la studiosa bengalese ha sottolineato l’assoluta eterogeneità dello spazio
decolonizzato, la complessa formazione del fronte anticoloniale, e le molte spezzature all’interno della subalternità. Già Guha aveva affermato che all’élite indigena
si contrappone la politica del popolo, e Spivak sottolinea
che l’élite manageriale non è solo bianca. Recentemente,
ella ha sostenuto che la mentalità arcaico/tradizionale –
“residuale” in Williams – si deve trasformare in “agency”,
agentività, vale a dire capacità di azione e di intervento.
Nella subalternità non c’è base riconoscibile di azione,
non ci sono archivi, bagagli culturali o mitologici comuni, c’è quella che si potrebbe definire coscienza negativa
e che va trasformata. La cultura è un processo in mobilità incessante e può trasformare la mentalità arcaica resa residuale in agentività, potere nella sfera pubblica. È
qui che il ruolo dell’intellettuale può diventare cruciale
PERCORSI DI SUBALTERNITÀ: GRAMSCI, SAID, SPIVAK

nell’insegnamento, di cui Spivak stessa si fa esempio con
la sua attività didattica ai due lati estremi dello spettro,
“teacher’s training” in Bengala e di letteratura inglese a
New York, alla Columbia University dove, proprio come
Said, è migrata da tempo.
Corpo testuale e corpo femminile
Il corpo femminile assume preminenza in Spivak.
Anche Said, in Orientalism, aveva descritto la donna
orientalistica, in Flaubert ad esempio, ma tangenzialmente; nel più recente Culture and Imperialism tratta
brevemente del contributo cruciale che i movimenti di
emancipazione femminili e femministi hanno dato alla
lotta per l’indipendenza indiana. Ma è Spivak che ha elaborato la nozione del subalterno soprattutto al femminile, parlando della difficoltà di rappresentare il soggetto
silenziato della donna subalterna.
Nella sua analisi del rito della sati, Spivak aveva mostrato che la subalterna non può parlare, stretta tra le spire della tradizione indù da un lato, che sin dalla mitologia
più antica l’ha posta in condizione subordinata, l’ha sottoposta alla prova del fuoco per dimostrare di essere sacra, e l’imperialismo britannico dall’altro, che ha inteso salvarla dall’uomo di pelle scura dall’alto della sua supposta
missione civilizzatrice.
Anche qui la studiosa ha ripreso da Gramsci, con un’inflessione altamente originale dovuta ai tempi diversi, l’attenzione al campo delle differenze, delle discontinuità,
delle disuguaglianze di sviluppo2. Ella sostituisce la parola planetarietà a globalizzazione, un pianeta che abitiamo
a prestito, che possa includere l’animismo, il pensiero aborigeno, i modi di vita degli adivasi, abitato da creature più
che da esseri globali: “I like human beings as worms and
specs in the universe”, dice citando l’artista e cantante

LIDIA CURTI
americana Laurie Anderson. In questo modo l’alterità rimane indipendente da noi, non definita da noi. Tale concetto richiama l’invito di Gramsci “a pensare mondialmente”, come ricorda Iain Chambers nell’introduzione a
questo volume. Nel suo caso, questo pianeta mondo ci riporta al corpo femminile, alla sua genitalità:
Nel nostro tentativo di tracciare la planetarietà rendendo la
nostra patria (home) unheimlich o perturbante, costruiremo
un’allegoria della lettura dove il sistema discorsivo si sposta
dalla vagina al pianeta come significante del perturbante ….
(Spivak 2003, pp. 93-94).
Nella sua introduzione all’edizione inglese dei racconti di Devi (1995, p. XVI), contraddicendo in parte ciò che
aveva detto in precedenza, Spivak afferma che quando la
subalterna parla per farsi sentire, per rispondere e farsi rispondere, è allora che ha intrapreso il cammino per diventare un’intellettuale organica, ricongiungendo anche
nella terminologia il femminile a Gramsci.
1
In Humanism and Democratic Criticism, egli afferma che “il concetto di
una identità nazionale unificata, coerente, omogenea (…) è soggetta a un forte
ripensamento, e questo cambiamento si riflette in ogni sfera della società e della politica” (Said 2004a, p. 24).
2
Claudia Mancina, pur notando l’assenza della questione femminile in
Gramsci o almeno la sua subordinazione alle priorità sociali, osservava: “La differenza sessuale, e con essa tutti gli elementi della identità della donna, restano
dalla parte del concreto, del corporeo, del quotidiano, escluso per definizione
dalla cittadinanza (…)” (Mancina 1987, p. 182). In questa lontana definizione
possiamo ravvisare un anello tra il pensiero gramsciano, legato al frammentario, al minuto, al concreto, all’unione tra teoria e quotidiano, e una parte del femminismo odierno.
Umanesimo della convivenza: Edward Said in
dialogo con Antonio Gramsci
Giorgio Baratta
Il volume postumo di Said Humanism and Democratic Criticism è audace sotto due aspetti: instaura una tensione dialettica tra due categorie non propriamente affini, umanesimo e democrazia, e tenta una critica radicale
di ogni fondamentalismo alla luce di una metodologia
che potrebbe apparire mille miglia lontana dalla politica:
la filologia.
Gramsci è parimenti audace quando parla di “filologia
vivente” e fonda una relazione organica tra filologia e filosofia della prassi intesa come “la storia stessa nella sua
infinita varietà e molteplicità”, sostenendo altresì:
La filologia è l’espressione metodologica dell’importanza
che i fatti siano accertati e precisati nella loro inconfondibile “individualità” (Gramsci 1975, p. 1429).
Le parole appaiono nell’ottica dei Quaderni come fossero individui viventi, di cui si deve avere considerazione
e rispetto: parole-individui che danno vita, saussurianamente, a quell’organismo collettivo che è la “lingua”. I testi, il cui studio è fondato sulla filologia, hanno origine da
questo organismo vivente, e possono essere avvicinati con
spirito dogmatico e autoritario, ovvero con un approccio
critico e democratico.

GIORGIO BARATTA
Said sottolinea la diffusione dello spirito filologico “in
tutte le maggiori tradizioni culturali, incluse quella occidentale e quella arabo-islamica, che hanno determinato”
la sua propria formazione. Egli ripercorre la nascita della
moderna filologia nelle università arabe dell’Europa meridionale e del Nord-Africa e uno sviluppo similare nella
cultura ebraica d’Andalusia, Nord Africa, Levante e Mesopotamia. I grandi maestri di Said sono Giambattista Vico, di cui esalta “l’eroismo filologico” (Said 2004a, p. 58),
ed Erich Auerbach, il fondatore, sulla base di un’intuizione
di Goethe, della “letteratura universale”, alla cui metodologia è connaturata la “mescolanza di stili”, la pluralità
degli approcci. Dopo Auerbach non è più possibile, dice
Said, uno “sguardo fisso” né sui testi, né sulle cose (p. 117).
La filologia, stante la sua etimologia, implica “l’amore delle parole”, che sono “portatrici di realtà: una realtà nascosta, ingannevole, resistente, e difficile. La scienza della lettura, in altri termini, è primaria per una conoscenza
umanistica” (p. 58).
In che cosa consiste questa che Said chiama anche
“prassi umanistica”, così strettamente impregnata di spirito “laico” e “mondano”, e ancorata a un approccio realistico e filologico ai testi e alla vita?
A Said non sfuggono certo problematica e ambivalenze della tradizione umanistica, a cominciare da quella “eurocentrica” e da quello che egli chiama “umanesimo americano”. Sa bene che l’umanesimo ha assunto tante e contraddittorie forme. C’è o ci può essere, secondo lui, un umanesimo “critico” e “democratico”, come c’è e ci può essere un umanesimo puramente “liberale”, o uno “teologico”
e persino un umanesimo “militare”. Said sottolinea come
si sia sviluppato in Europa e fuori dell’Europa, sotto le bandiere dell’umanesimo, un “nazionalismo diffuso e protettivo col rischio di tendenze xenofobe” (p. 37).
Anche Gramsci, che pure auspicava il profilarsi di un
“neo-umanesimo” laico e democratico, è consapevole del-
UMANESIMO DELLA CONVIVENZA

la contraddittorietà di questa tradizione, a causa di ragioni storiche ben precise. Nella ricostruzione gramsciana
l’umanesimo, come si è storicamente affermato in particolare nell’Italia rinascimentale della seconda metà del
Quattrocento e nel Cinquecento, in forme paludate e aristocratiche, è figlio della sconfitta del primo Rinascimento in età comunale, che aveva un carattere “popolare” e
“dialettale”, non “‘nazionale’ ma di classe”, portatore di
“elementi embrionali di una nuova cultura” (Gramsci
1975, pp. 787 sg.). Il fatto è che il primo Rinascimento ha
posto le basi secondo Gramsci di un diverso umanesimo
– di cui sarà massimo rappresentante Niccolò Machiavelli – tendente a una sintesi tra (nuova) alta cultura e senso
comune, foriera di uno sviluppo nazionale-popolare e statale dell’Italia moderna, che mai si realizzerà, nonostante
l’unificazione sia pur tardiva del paese, e la cui assenza è
premessa essenziale per l’avvento del fascismo.
Si può sostenere che il gramsciano neoumanesimo, solidale col saidiano umanesimo critico e democratico, sia
espressione del progetto di “nuova cultura” abbozzato
nel primo Rinascimento (sulla quale pagine stupende scrisse Paolo Volponi) e poi rovesciato o stravolto nell’epoca
della fioritura del Rinascimento, secondo un processo la
cui tipologia sarà quella delle “rivoluzioni passive” che tanto peso hanno nell’analisi storica gramsciana.
Alla domanda: perché insistere oggi sulla questione
dell’umanesimo? La risposta deve essere articolata. In
primo luogo, l’umanesimo è espressione significativa e
pregnante dell’ambivalenza profonda di tutta la storia e
la cultura d’Europa, la cui vocazione cosmopolitica è divisa tra universalismo e colonialismo. In secondo luogo,
nel pensiero di Gramsci, la questione dell’umanesimo fa
tutt’uno con ciò che egli chiama “la domanda prima e
principale della filosofia” e cioè: “che cos’è l’uomo?”
(pp. 1343 sgg.): un “uomo” di una visione non antropocentrica, intimamente differenziato nella sua struttura, e

GIORGIO BARATTA
organicamente connesso con l’animalità e la natura tutta. Infine, da Gramsci come da Said, proviene un appello appassionato e razionale a individuare tutte le vie possibili affinché l’umanità realizzi e valorizzi “la collaborazione di tutti i popoli” (p. 1470).
Umanesimo – come naturalismo, o idealismo, materialismo ecc. – ha il difetto di sostantivizzare il proprio concetto-tema, in questo caso l’uomo. Quando Gramsci si
chiede “che cos’è l’uomo?”, immediatamente la domanda sull’essere si modifica in una sul divenire: “che cosa
l’uomo può diventare?”. L’ontologia si traduce in morale,
la filosofia in politica, il sostantivo in verbo. Non si tratta
del kantiano primato della ragion pratica sulla ragion pura – una competizione tutta giocata in casa della ragione
– bensì, sulla via aperta da Marx fin dalle Tesi su Feuerbach,
della rinuncia radicale e definitiva della filosofia alla pretesa di auto-fondazione del discorso teorico, sotto l’ombrello-garanzia di Dio o del Cogito: dialettica di teoria e
prassi, insomma, che significa relazionalità tra “interpretazione” e “trasformazione” del mondo (con la tentazione ricorrente di un’accezione unilateralmente pragmatica
o pragmatista della relazione medesima).
Lo spettro che minaccia ogni umanesimo laico o materialista è la tradizione antropocentrica. Impero di Michael
Hardt e Antonio Negri, al di là di insostenibili curvature
irrazionalistiche ha, tra altri meriti, quello di aver rivendicato, con Foucault e Althusser, la prospettiva – che ha
il suo nome in Spinoza – di un “umanesimo antiumanista
(o postumano)” (Hardt, Negri 2000, pp. 97 sgg.).
È possibile, è opportuno l’umanesimo dopo “la morte
dell’Uomo”?
Si apre qui la necessità di un dialogo o contrappunto
tra la filosofia europea di Gramsci – del suo corpo a corpo con l’idealismo di Hegel e di Croce, che appare come
apoteosi e insieme come tomba della tradizione umanistica a partire dai Greci – e pensieri altri che hanno ori-
UMANESIMO DELLA CONVIVENZA

gine e si sviluppano in molteplici modalità nel “mondo
grande e terribile”. Gramsci stesso ha avviato questo dialogo – sta qui la sua grande energia che straripa dall’orizzonte marxiano e leniniano – aprendo la questione della lotta egemonica tra Europa e America, tra filosofia della prassi e pragmatismo. Egli ha così cominciato a riflettere in termini scientifici e politici su quel monstrum dalle mille facce, che tuttora insegue e persegue la storia del
mondo nel passaggio “da un secolo all’altro”, che si chiama americanismo.
C’è però un’altra America o una “nostra America”,
per usare l’espressione affascinante di Martí, che travalica i confini del Nord America e corre verso l’America
latina – con quel “gigante parallelo” agli Stati Uniti che
è il Brasile (come lo chiama Caetano Veloso) – o verso altri continenti e territori, come l’Oriente e Medio Oriente di Said.
Potremmo definire quello auspicato da Gramsci un
umanesimo internazionale o internazionalista. È un altro
modo per denominare ciò che abbiamo chiamato umanesimo della convivenza e che Said chiama umanesimo critico o democratico. Può sembrare, e in parte certamente è,
un ripiego l’orizzonte umanista rispetto alle finalità rivoluzionarie, alla trasformazione comunista del mondo, propugnate dallo stesso movimento da cui Gramsci proviene.
La logica del discorso di Gramsci, tuttavia, è tale da costruire un’argomentazione rigorosa a dimostrazione della
continuità tra necessità del comunismo (ieri) e della convivenza (oggi).
I Quaderni del carcere disegnano uno scenario nel quale la prospettiva di una rivoluzione comunista mondiale –
nel cui orizzonte pensava e agiva il giovane Gramsci ancora pochi anni prima di finire in carcere – appare tuttora iscritta nelle necessità della storia, e tuttavia rinviata di
dieci, cento o mille anni, non si sa. L’epoca che egli vive è
contrassegnata dalla persistente anche se minata costru-

GIORGIO BARATTA
zione del socialismo in un solo paese, ma soprattutto dall’egemonia internazionale dell’America e dell’americanismo, che insieme costituiscono la “novità” strutturale e culturale del modo di produzione capitalistico.
Egemonia dell’America e dell’americanismo implica e
comporta la sostituzione sic et simpliciter dell’attualità della rivoluzione passiva all’attualità della rivoluzione socialista o comunista. “Rivoluzione passiva” è quel processo
per cui, nell’ambito della dialettica storica, la tesi (espressione del blocco storico dominante) si dimostra capace di
neutralizzare, incorporare, assorbire, insomma sfiancare
l’antitesi (espressione delle forze miranti a costituire un
blocco storico alternativo a quello dominante). In una tale situazione non la negazione espressa dall’antitesi diventa foriera di una nuova sintesi, bensì l’affermazione stessa
espressa dalla tesi. Gramsci definisce la rivoluzione passiva una “rivoluzione-restaurazione”.
Quel che conta sono i caratteri evidenti, empiricamente
constatabili, con i quali si può descrivere la rivoluzione passiva. Ne elenco due: trasformismo e novismo. “Trasformismo” rappresenta brutalmente lo stillicidio delle energie sociali e politiche alternative, cioè l’annullamento tendenziale dell’antitesi, che mantiene sì tratti e colori a essa
congeniali, ma che nella sostanza si avvicina sempre più alla realtà della tesi. “Novismo” significa che la conservazione dello stato di cose esistente si presenta sempre più
con i caratteri di ciò che è moderno (trasformazioni produttive e comunicazioni di massa, su cui già Gramsci rifletteva), nuovo (le cosiddette riforme), rivoluzionario
(tecnologie).
Gramsci è una vittima del fascismo, cioè della forma di
potere più apertamente autoritaria e violenta assunta dal
capitalismo. Egli analizza con acutezza la superiorità, sia
economica che politica, nella stessa logica del capitalismo,
del liberalismo sul fascismo. Nella terminologia gramsciana si potrebbe semplificare la questione dicendo che
UMANESIMO DELLA CONVIVENZA

il fascismo tende ad annullare le condizioni della lotta egemonica (ove si disputano senza vincoli autoritari i fondamenti della coesione sociale e del consenso), mentre il liberalismo è tenuto, anche se in molti casi per così dire a
malincuore, a mantenere e difendere almeno formalmente queste condizioni.
C’è una qualità fortemente problematica che Gramsci
coglie nell’esercizio del liberalismo in una fase storica contrassegnata dalla rivoluzione passiva. Si tratta del fatto
che questo tipo di rivoluzione è passivo proprio dal lato
delle masse, cioè della moltitudine sociale ove prosperano o dovrebbero prosperare le energie attive dell’antitesi
(o dell’alternativa). La rivoluzione-restaurazione domina
ed egemonizza le masse dall’alto, le ingabbia attraverso
processi attraverso i quali bisogni, urgenze, desideri ricevono una soddisfazione finta o mistificata.
Il fatto è che, in senso strutturale (usiamo qui “struttura” in un’accezione ampia che ricomprende le cosiddette
sovrastrutture), le ragioni reali, storicamente determinate,
dell’antitesi non sono affatto venute meno: sono solo sospese, congelate, incapsulate. I processi che abbiamo chiamato mistificatori aumentano vertiginosamente e corrompono la formazione della personalità.
La rivoluzione passiva – a ciò conduce l’argomentazione gramsciana – è fondamentalmente antidemocratica,
se assumiamo la democrazia in un’accezione che molto si
avvicina alla nozione di lotta egemonica, vale a dire: possibilità di esplicazione, a livello sia di individui che di
gruppi sociali, della propria soggettività pensante, in termini culturali e politici.
Gramsci si lascia sfuggire l’espressione “i disastri della democrazia”: intende i pericoli che incombono sulla democrazia parlamentare e liberale nell’epoca delle rivoluzioni passive. La manifestazione più devastante della rivoluzione passiva è la banalizzazione estrema cui poco a
poco giunge la nozione stessa di democrazia. Al trasfor-

GIORGIO BARATTA
mismo sociale si affianca quello culturale e civile. La passività delle masse – che è connaturata alla rivoluzione passiva – apre la strada a degenerazioni ideologiche come autoritarismo e razzismo, che finiscono col convivere tranquillamente con un quadro istituzionale liberale.
“Che fare?”. Si tenga presente che l’effetto più deprimente della rivoluzione passiva lo subisce quella che
Gramsci chiama la “tendenza di sinistra”, cioè la realtà
stessa di una cultura o di una intellettualità di sinistra. Diciamo che Gramsci si è rimboccato le maniche e ha cominciato (visto che ne aveva il tempo, in carcere) a ridisegnare pazientemente i valori, e cioè insieme i valori della
società civile e del movimento operaio e socialista. Si tratta non di valori astratti, bensì tali da essere espressione della stessa radicalità politica che aveva determinato, in un
quadro storico diverso, l’affermarsi del comunismo (che
nasce come trasformazione del senso comune).
Il valore primo è la democrazia che Gramsci tematizza e persegue attraverso la concezione, centrale nel suo sistema di pensiero, di egemonia e lotta egemonica. Democrazia implica convivenza, è in fondo la convivenza
stessa degli umani che ha acquisito una valenza politica e
sociale. L’enorme difficoltà di assicurare forme e regole
efficienti e stabili al quadro democratico obbedisce alla
necessità di stabilire realisticamente le modalità di una
convivenza pacifica tra umani, che sono diversi e diversamente attivi.
Il principio della democrazia (e della convivenza) è la
distinzione. Il principio della rivoluzione (e del conflitto)
è la contraddizione. Dai due principi discendono due logiche che variamente si combinano o si alternano, si intrecciano o si integrano nella dinamica sociale: egemonia
e dialettica. Ogni forma di totalitarismo (o di fondamentalismo) punta a una sintesi dialettica deprivata di egemonia e lotta egemonica. Ci può essere una dialettica senza egemonia, ma non un’egemonia senza dialettica (che è
UMANESIMO DELLA CONVIVENZA

l’illusione della socialdemocrazia e del pacifismo generico o astratto).
La dinamica della lotta attraversa sia la democrazia
che la rivoluzione ma in forme diverse (lotta pacifica la prima, lotta generale la seconda, che include realtà e possibilità della forza e della violenza).
L’umanità, come e ancor più che ai tempi prima di
Marx, poi di Gramsci, vive una realtà sociale antagonistica. Siamo in presenza di una pericolosissima evoluzione dei rapporti di forza e dei conflitti sociali in termini non solo di violenza ma di crudeltà. Il mondo è
sempre più unificato dai bisogni e dalla dinamica del capitale, è sempre più diviso in classi sociali che (come aveva cominciato a indagare Gramsci attraverso la “questione meridionale”) tendono a fondersi con divisioni
territoriali di diversa, a volte anche enorme ampiezza.
C’è ancora e sempre più bisogno di un’analisi dialettica
economica nel senso di Marx ma anche di un’analisi dialettica territoriale nel senso di Gramsci. Questi ha affiancato a quella dialettica l’analisi egemonica perché lo
sviluppo della dicotomia sociale e culturale, che egli
chiama “Oriente e Occidente” – e che comporta l’approfondimento di altre specifiche dicotomie, come quella, nel contesto dell’Occidente, tra Europa e America –
richiedeva tale tipo di analisi, quale complemento indispensabile di quello dialettico.
L’umanesimo della convivenza non è che un’ideologia,
che si contrappone alle ideologie oggi egemoni, che corrono tutte all’insegna del fondamentalismo.
L’intuizione grande di Said, nel solco tracciato da
Gramsci, è la necessità di assegnare priorità ideologica e
culturale alla ricomposizione teorica e pratica della democrazia, quale unica praxis in grado di opporre resistenza ai flussi giganteschi di fatti e di idee propugnati dagli
opposti fondamentalismi, forieri di violenza, di guerra e di
terrorismo.

GIORGIO BARATTA
Gramsci scriveva nell’Italia afflitta dal fascismo, Said
con lo sguardo rivolto alla Palestina tormentata dal sionismo. Per entrambi la battaglia egemonico-democratica è
questione di vita o di morte. Se il fascismo tende a chiudere consapevolmente e violentemente gli spazi e i tempi
dell’esercizio della democrazia e della lotta egemonica,
nel sionismo attuale, come insisteva Said, si verifica una
perfida complementarità tra democrazia formale in Israele e totalitarismo reale nei territori occupati.
Sia Gramsci che Said propugnano la battaglia democratica in primo luogo tra le file dei propri movimenti. Il
fondamentalismo ha invaso e in parte occupato la cultura del movimento comunista, come, più tardi, di quello palestinese. Non ci può e non ci sarà un umanesimo della
convivenza nel mondo se esso non si realizza pienamente
nel campo sociale e culturale che dovrebbe promuoverlo.
Sia Gramsci che Said sono rimasti isolati all’interno dei rispettivi movimenti. Gramsci scrisse in una lettera: “Ogni
sardo è un’isola nell’isola”. Credo che non gli fosse estranea la metafora di un’isola comunista.
Nella prefazione al racconto dei suoi due viaggi in Palestina fatti da Said oramai malato, nel ricordare la serena
e volitiva dignità che dalla sua figura emanava, scrive Tzvetan Todorov:
In un conflitto che dura da diverse generazioni, Said non presenta una soluzione che potrebbe essere miracolosamente
sottoscritta dalle due parti. Fa di meno e di più: invece di cullarci nella speranza, ci offre un volto, il suo, quello di un individuo che soffre e prova compassione, che ride e che piange. Il volto umano è un fragile baluardo contro la guerra; tuttavia lo è: dei più preziosi (Said 1998, p. 10).
L’umanesimo della convivenza dà voce a un’immagine,
quella che l’artista Patrizio Esposito ci offre a ricordo di
Shatila, Beirut – per Said. L’immagine, tratta da Shatila, Beirut di Esposito, non mostra volti, ma gambe e piedi, in con-
UMANESIMO DELLA CONVIVENZA

trappunto con cibo. Chi ama Caravaggio sa che cosa può
rappresentare l’espressività di un corpo obliquo.
C’è tuttavia, per riprendere il discorso di Todorov, una
peculiare e insostituibile “necessità dei volti” che, proprio quale “fragile baluardo contro la guerra”, ha dato il
nome a un progetto che Patrizio Esposito ha già da diversi
anni ideato insieme con Mario Martone e Fabrizia Ramondino, nel solco tracciato dallo straordinario archivio
fotografico di volti di soldati nemici e dei loro familiari, costituito dal Fronte Polisario di Sharawi.
Necessità dei volti e Shatila, Beirut sono due espressioni, affini e complementari, che documentano la verità di
un frammento filosofico di Bertolt Brecht scritto a proposito di un modo di “confezionare immagini” quali modi di apprendimento e proposte di comportamento. Conclude Brecht: “Fare una immagine come questa significa
amare” (Baratta 2000, p. 295).
Il sud del mondo: pensieri scomodi, percorsi
interdisciplinari
Marina De Chiara
Edward Said, come Antonio Gramsci, è stato un pensatore scomodo. L’impianto filosofico e teorico dell’Occidente è stato spesso, negli ultimi decenni, scosso dalle
riflessioni di pensatori scomodi, che ci hanno condotto in
territori minati, zone turbolente, per rivelare scenari esistenziali e culturali non familiari all’occidentale medio, né
familiari agli schermi dell’Europa e alla sua egemonia nel
mondo. Si è trattato spesso di pensatori che hanno attraversato circostanze storiche tragiche e cariche di difficoltà, o scenari culturali multipli, che interrompono la
continuità della consuetudine, il filo conduttore dell’abitare in un luogo sicuro. Spesso figli di due culture, costretti a divenire, per motivi diversi, pensatori esuli; tutti, comunque, alle prese con l’umanesimo come idea principe dell’Occidente e del suo ordine: Jacques Derrida,
franco-algerino come Hélène Cixous; Julia Kristeva, franco-bulgara; Slavoj Žižek, di origine slovena; Homi Bhabha
e Gayatri Spivak, indiani trapiantati negli Stati Uniti; e,
ovviamente, Edward Said, con la sua vicenda d’esilio dalla Palestina. Se la riflessione filosofica post-strutturalista
e decostruzionista ha risentito enormemente di quel preciso momento storico che è stata la guerra d’indipendenza d’Algeria, che ha direttamente o indirettamente
coinvolto personaggi come Sartre, Althusser, Derrida,

MARINA DE CHIARA
Lyotard, Cixous, Fanon (Young 1990, p. 1), per la vicenda esistenziale e filosofica di Edward Said è stato il conflitto israelo-palestinese a rivestire un ruolo assolutamente
centrale. Quello scenario che doveva essere stato così familiare a Edward Said, palestinese che ha vissuto esule negli Stati Uniti fino alla morte, è emerso in tutta la sua tragica evidenza dal documentario di Marco Pasquini su Sabra e Chatila1. Nel documentario di Pasquini gli insediamenti si sono mostrati al nostro occhio con tutta la dirompenza di qualcosa che, dalle nostre città e dalle nostre
case sicure, dagli schermi televisivi dei nostri luoghi al riparo, ignoriamo profondamente: Sabra e Chatila si sono
concretizzate, violentemente, in visioni e parole di vite
spezzate, negli insediamenti folli come labirinti senza via
di scampo, senza vie di fuga, senza futuro e, dunque, senza speranza. Sono immagini che generalmente non ci pervengono, scenari mai visti sui nostri schermi, e che hanno spesso solo una fugace vita nell’immaterialità di due
nomi, appunto Sabra e Chatila. La giornalista de «il manifesto» Giuliana Sgrena, mentre era nelle mani dei suoi
rapitori in Iraq, richiedeva di far vedere altre immagini
dell’Iraq, territorio devastato, catturato solo da immagini mai trasmesse. Invece, le immagini di cui disponiamo
in questa enorme proliferazione del visuale, attraverso
tutti gli schermi a nostra disposizione, dalla televisione al
cinema, dalla rete informatica ai telefonini, e così via, sono spesso asservite a un unico modo di raccontare il mondo (Mirzoeff 1999).
Questo modo che taglia fuori tanta parte del mondo,
tante scene possibili, che restano nel silenzio e nel buio,
talvolta viene interrotto, per aprire appunto a scenari inaspettati, che ci colgono di sorpresa, e dinanzi ai quali spesso non abbiamo le parole adatte. E forse non abbiamo le
parole adatte, poiché, in fondo, la nostra complicità con
un certo ordine del mondo affonda molto più profondamente di quanto non pensiamo.
IL SUD DEL MONDO: PENSIERI SCOMODI...

Mi sembra allora utile ricordare l’insistenza di Edward
Said sulla funzione del lavoro intellettuale, che dovrebbe
sempre anteporre la critica alla solidarietà, poiché essere
solidali a tutti i costi, come avviene spesso per i movimenti politici o per le ideologie, può significare “la fine
stessa della critica”; anche quando il momento della battaglia esige di schierarsi chiaramente da un lato e non dall’altro, dovrebbe comunque esserci quella coscienza critica, assolutamente necessaria se sono in ballo questioni vitali, e vite stesse, per cui lottare (Said 1984, p. 28).
La critica, il dissenso, la messa in discussione dello stato delle cose e della consuetudine che permettono al discorso egemone di passare sempre come unica possibilità
dello stare al mondo, questo, per Said, è il compito dell’intellettuale, a costo di passare per un traditore. E in
questo forse consiste l’incontro primario del pensiero di
Gramsci con quello di Edward Said.
Il pensiero di Gramsci ha esercitato, con la sua dialettica tra egemone e subalterno, un profondo effetto rinnovatore sulla cultura italiana, dalla filosofia alla storiografia, alla critica e teoria letteraria, ma sorprendentemente,
il suo pensiero continua oggi a esercitare una funzione di
rinnovamento anche in discipline quali gli studi comparati
e l’americanistica, come dimostra il pensiero di Gayatri
Chakravorty Spivak.
Se il nome di Said è legato fortemente alla riflessione
teorica postcoloniale, va ricordato che il termine postcoloniale non indica un post di natura temporale, che segnalerebbe storicamente la fine della colonizzazione e l’inizio del processo di decolonizzazione; in realtà, il termine post-coloniale si riferisce a un’interpretazione della
cultura moderna e contemporanea che tenga presente la
centralità assoluta e la portata globale del fenomeno del
colonialismo, dalla fine del Cinquecento fino ai nostri
giorni. Said ha sottolineato la complicità che esiste tra cultura e imperialismo: all’espansione e al progetto colonia-

MARINA DE CHIARA
le e imperiale è corrisposto, infatti, sempre il consenso di
un sistema culturale che ha giustificato questo progetto,
attraverso tutti i linguaggi disponibili, anche quelli non immediatamente riconoscibili come complici dell’ideologia
imperialistica (Said 1993).
Nella forza dirompente degli Studi Subalterni, Spivak
riconosce il contributo del pensiero europeo strutturalista
post-nietzscheiano (Roland Barthes, Michel Foucault, e,
in parte, anche Claude Lévi-Strauss), poiché gli strutturalisti hanno interrogato l’umanesimo mettendo a nudo il
suo eroe, ossia il soggetto sovrano come autore, soggetto
dell’autorità, della legittimità, del potere. Gli Studi Subalterni, per Gayatri Spivak, sin dalla loro proposta iniziale, attraverso la riflessione di Ranajit Guha, in effetti, nel
loro interrogarsi sulla possibilità di un soggetto subalterno,
che sia voce, cioè, degli oppressi all’interno dei sistemi socioculturali egemonici, esplorano proprio la complicità
del progetto umanistico europeo (e del soggetto della storia umanistica) con l’imperialismo (Spivak 1987, p. 202).
In questa interrogazione critica dell’intero impianto
umanistico si colloca la natura stessa della “responsabilità”
di cui parla Spivak, come compito filosofico: responsabilità etica. Si tratta dell’istanza etica di fare spazio discorsivo per l’altro, creare lo spazio affinché l’altro possa esistere, possa manifestarsi, possa rispondere. Etica, dunque,
soprattutto come richiamo alla relazionalità, alla possibilità che esista un relazionarsi reciproco (Landry, MacLean,
a cura, 1996).
Questo appello alla responsabilità etica sembra auspicare, come chiedeva Gramsci, l’inizio di una “nuova cultura”, cioè una “nuova vita morale, che non può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita,
fino a che essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà, e quindi mondo intimamente connaturato
con gli ‘artisti possibili’ e con le ‘opere possibili’” (cit. in
Romano, a cura, 1973, p. 114).
IL SUD DEL MONDO: PENSIERI SCOMODI...

E questo significa rivedere anche le relazioni tra le discipline, riorientando i loro percorsi, per cercare un dialogo proficuo tra di esse. Spivak chiede, per esempio, alla letteratura, e alle storie raccontate dalla scrittura letteraria, di aiutare a colmare i buchi, le omissioni, i silenzi e
le dimenticanze della storia. Usare la letteratura per forzare le ragioni della storia significa infatti ridare ritmo e respiro a una storia fatta di cancellazioni. Nello svolgimento del proprio ruolo, lo storico e il letterato devono interrompersi l’un l’altro, criticamente, spiega Spivak (1987),
poiché entrambi, come ha già ampiamente mostrato Michel Foucault, hanno a che fare con materiale di tipo innanzitutto linguistico.
È qui che si colloca anche l’importante differenza che
Spivak pone tra gruppi marginalizzati e gruppi subalterni: marginale, insiste Spivak, non significa necessariamente
subalterno, e subalterno non è solo un’altra parola per designare l’oppresso. Il termine “subalterno”, che nel senso
originario gramsciano indicava il proletario, che non riesce a far sentire la sua voce, in quanto è strutturalmente
situato al di fuori della narrativa borghese-capitalistica, nel
recupero postcoloniale del termine, come mostra la lettura di Spivak, indica invece tutto ciò che ha accesso limitato, o nullo, all’imperialismo culturale. La classe operaia,
in tal senso, è certamente oppressa, ma non subalterna (de
Kock 1992, pp. 29-47).
L’insistenza sul subalterno in Spivak sembra allora rimandare da vicino a ciò che Gramsci intravedeva come
il margine della discorsività sociale capitalista: “Un determinato momento storico-sociale non è mai omogeneo”, scriveva Gramsci, “anzi, è ricco di contraddizioni”.
Se in un dato momento storico-sociale una certa attività
fondamentale della vita predomina sulle altre, continua
Gramsci, questa attività predominante finisce per rappresentare questo momento. Ma, chiede Gramsci, che fare delle altre attività, degli altri elementi: “Non sono
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MARINA DE CHIARA
‘rappresentativi’ anche questi?” (cit. in Romano, a cura,
1973, p. 116).
Questa rappresentatività inespressa mi sembra il nucleo stesso delle domande poste da Spivak. È un concetto
che sembra ripresentarsi anche nelle parole di Rey Chow,
quando parla, per esempio, di intraducibilità del Terzo
Mondo nel linguaggio del Primo Mondo. Chow spiega
che l’intraducibilità delle esperienze dal Terzo Mondo al
Primo Mondo è dovuta al fatto che il nativo non può semplicemente “parlare”, ma deve anche fornire la giustificazione al proprio parlare, una giustifica che è stata distrutta nell’incontro con l’imperialista (Chow 1993, p.
38). Il silenzio del nativo spiega più di ogni altra evidenza
il passato di oppressione imperialista subita, un passato
che non è più testimoniabile in “evidenza attiva” nel presente, ma che è tuttavia già rovinosamente accaduto.
Forse, allora, la traducibilità diviene una parola molto più
preziosa nei suoi rimandi, poiché non riguarda solo la delicata relazione tra sistemi culturali e linguistici diversi,
e sistemi del sapere diversi, ma l’intima riflessione sulla
modernità come complesso e intricatissimo gioco di inclusioni ed esclusioni dallo spazio e dal tempo della ragione occidentale. La traducibilità ci conduce, dunque,
inevitabilmente, a una riflessione sull’ordine voluto per
sistemare il mondo, e forse sugli ordini che potrebbero
essere possibili.
Se la traduzione precedentemente si inquadrava come
fenomeno di interesse prevalentemente linguistico, la proposta degli studi subalterni, degli studi culturali e degli studi postcoloniali ha invece prospettato la traduzione entro
dinamiche molto più complesse, che mettono in luce la
stretta relazione che esiste tra il processo di traduzione e
quello di colonizzazione.
Come per le immagini, che è l’idea da cui eravamo
partiti, pensando alle immagini mai trasmesse e mai viste,
ossia escluse dal campo visuale dell’Occidente e della sua
IL SUD DEL MONDO: PENSIERI SCOMODI...

tranquillità opulenta, anche per i testi si è verificato l’asservimento a un’unica disposizione eurocentrica dell’ordine delle cose. Per secoli, la traduzione dei testi, per
esempio, è stata un processo a senso unico, basato sulla
convinzione della supremazia della cultura europea egemone, per la quale i testi tradotti divenivano merci di consumo, e non parte di un reciproco processo di scambio.
Le norme europee si sono imposte sulla produzione letteraria, assicurando che solo certi testi venissero tradotti,
e garantendo alla traduzione verso le lingue europee (ossia verso il sistema linguistico e culturale dominante) una
funzione che perpetuerebbe, in molti sensi, il processo di
colonizzazione.
L’idea di un ordine gerarchico tra i due testi, copia e originale, coincide in effetti anche con il periodo iniziale dell’espansione coloniale, quando l’Europa si è venuta a configurare come l’originale, il punto di partenza, e le colonie come mere copie, o traduzioni dell’Europa.
Si tratta di conflitti ben documentati, in quest’ultimo
cinquantennio, nella produzione letteraria, e culturale in
genere, sia europea che extraeuropea, di autori spesso etichettati come postcoloniali, che sanno esprimersi bene in
una lingua acquisita nel paese europeo in cui sono immigrati, ma provengono (non sempre per diretta esperienza,
ma magari solo per famiglia) da altri scenari culturali e linguistici; questa nuova produzione letteraria e culturale, attraverso linguaggi spesso misti, o arricchiti di accenti e parole che indicano altre provenienze, ritrae per l’appunto
moderni scenari di mescolanza e ibridazione culturale, di
comunanza forzata, di ricerca di linguaggi appropriati e di
modi per preservare la propria tradizione in territori stranieri, o un senso della propria identità, per non soccombere alle pressioni della nuova cultura, spesso vissuta come una prigione. L’inglese, in questo senso, è divenuto l’espressione di un’egemonia che ha proseguito la vecchia
espansione coloniale attraverso altri canali e modi. De-
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MARINA DE CHIARA
scrivendo la predominanza dell’inglese come forma di
neocolonialismo linguistico, Salman Rushdie sottolinea
che l’inglese non è oggi la lingua mondiale solo in seguito
alla colonizzazione britannica impostasi su un quarto del
globo terrestre, ma anche per effetto della supremazia degli Stati Uniti negli affari mondiali. Non resta altro, per i
paesi e le genti che hanno subito in un modo o nell’altro
la colonizzazione inglese e statunitense, che ritagliarsi per
se stessi ampi territori all’interno dell’inglese stesso, lingua
che fortunatamente è enormemente vasta e flessibile. Inoltre, continua Rushdie (1991, p. 78), dell’ottimo lavoro
continua a prodursi in India, in molte lingue che non sono certo l’inglese, ma nessuno al di fuori dell’India se ne
occupa, lasciando che tutto l’interesse si concentri invece
solo sulle produzioni di autori e artisti indo-inglesi.
Questa forma di neocolonialismo di cui parla Rushdie
è la stessa tendenza rivelata sia dagli American Studies che
dagli studi comparati, discipline strettamente accomunate tra loro, per la condivisa ricerca di una tradizione nazionalistica su modello europeo. In questi ambiti disciplinari, infatti, è tuttora in opera l’originario impulso coloniale, come è ben spiegato in un recente saggio sullo stato attuale dell’americanistica (Izzo, Mariani, a cura, 2004).
Per contrastare l’impulso irrefrenabile del dominante di
appropriarsi dell’emergente, contrastare cioè l’imperante
impulso coloniale in opera anche nell’organizzazione delle
discipline e del sapere, e nel tentativo di dislocare la centralità disciplinare rappresentata dagli studiosi occidentali,
Gayatri Spivak (2003, p. 118) suggerisce che la fine dell’impulso coloniale possa anche cominciare dal dare nuova
prominenza a lingue non europee. Questo, per Spivak, può
essere un utile esercizio di dislocamento, di spaesamento,
che non deriva dal comparare la propria lingua e cultura con
altre lingue e culture, ma proprio dallo spazio culturale che
si pensa di abitare, e di possedere. Trasformare la nostra casa in qualcosa di perturbante nel senso freudiano di unheim-
IL SUD DEL MONDO: PENSIERI SCOMODI...

lich, ma non nel senso di pauroso, inquietante, bensì nel senso di trasformare ciò che è familiare, domestico, in qualcosa che non ci è più familiare (p. 93).
Oggi, per esempio, eccellenti voci teoriche interrogano l’idea stessa di americanità e identità nazionale, a partire da prospettive molto più ampie e complicate, rispetto alla facile retorica dell’identificazione nazionalistica tra
territorio/lingua/razza, rivolgendo, per esempio, l’attenzione alla dimensione atlantica della schiavitù forzata e alla complicata relazione schiavo-padrone (Paul Gilroy,
Fernández Retamar); agli eventi diasporici e migratori delle ex colonie verso le madrepatrie, e al loro impatto sull’idea di nazione come tessuto omogeneo e unificato (Homi Bhabha; Benedict Anderson; Iain Chambers); alle culture come spazi di frontiera e di coesistenza di voci e tradizioni plurali (Gloria Anzaldúa); alla dimensione transnazionale e transatlantica delle politiche culturali ed economiche degli Stati Uniti (José Saldívar).
In queste prospettive si comprende, allora, la domanda posta da Spivak su da dove e verso cosa si traduce, una
domanda che passa ancora una volta attraverso la riflessione
sulla relazione tra il testo cosiddetto originale, la fonte, e la
sua traduzione, la cosiddetta copia, aprendo, con gli studi
postcoloniali, nuovi scenari all’interno delle scelte organizzative e selettive dei vari ambiti culturali e didattici.
Questo ripensamento critico punta implicitamente anche
al riconoscimento di un’impronta fortemente eurocentrica negli studi comparati, nati, come ricorda Spivak (2003,
p. 34), con l’arrivo negli Stati Uniti di moltissimi intellettuali europei in fuga dai regimi totalitari in Europa.
Sulla base di questo riconoscimento bisognerebbe cominciare a considerare, nell’ambito della letteratura, anche le lingue e le culture del cosiddetto sud del mondo, ossia quelle extraeuropee o non statunitensi, allontanandosi dunque, “dall’anglofonia, lusofonia, teutofonia, francofonia, ecc.” (p. 35).
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MARINA DE CHIARA
Spivak propone allora di confrontarsi con l’idea della
“planetarietà”, per sottolineare la necessità di valicare i
confini della nazionalità e dell’eurocentrismo, che definiscono incontrastati l’ambito della cultura come spazio in
cui l’eurocentrismo delle letterature di lingua europea riflette e ripropone se stesso infinitamente. Questa “planetarietà” indica, come annuncia il titolo di Spivak, la “morte di una disciplina”, ossia la fine del dominio incontrastato
del modello eurocentrico negli studi comparati e nell’americanistica, ambiti entrambi segnati irrimediabilmente
da motivazioni di tipo politico ed economico, così come
la guerra fredda si è rivelata determinante per i cosiddetti studi di area (pp. 28-47). L’idea della “planetarietà” impone infatti l’idea di “un’esperienza dell’impossibile”, e costringe a porsi una sola semplicissima, vera, domanda:
“quanti siamo?” (p. 119). Di fronte a questo interrogativo, suggerisce Spivak, finalmente l’erigersi dell’Europa (e
dell’Occidente) a origine culturale assoluta, e trascendentale, improvvisamente si rivela in tutta la sua inconsistenza, e comincia a indietreggiare per lasciare spazio, come già auspicava Gramsci, e, con lui, Said, alle voci dell’altro.
1
Nel videodiario, che ha per protagonisti dei rifugiati palestinesi in Libano, Pasquini racconta il suo viaggio a Beirut nel dicembre 2004, in occasione
della commemorazione del massacro di Sabra e Chatila. Il videodiario è stato
mostrato il 22 febbraio 2005, nella prima giornata del convegno Umanesimo della convivenza. Said in dialogo con Gramsci, svoltosi all’Istituto di Studi Filosofici di Napoli.
Dal cosmopolitismo all’ibridazione
Lea Durante
È in un quadro storico ben preciso che Gramsci avvia
la sua riflessione e la sua ridefinizione vera e propria del
concetto di cosmopolitismo. L’indagine parte da molto
lontano per ricercare i termini di un’identità intellettuale
che ancora nell’oggi rivela le tracce del suo antico stigma:
in un viaggio a ritroso nel tempo, infatti, dal Risorgimento al Rinascimento, dall’Umanesimo al Medioevo, Gramsci giunge fino all’Impero Romano per rintracciare l’origine dell’elemento più distintivo e contraddittorio della
cultura italiana, l’universalismo cosmopolita, e per porlo
in frizione con le istanze “nazionali” altrettanto tipicamente distintive di quella cultura.
Una malattia difficile da estirpare e perfino da diagnosticare, il cosmopolitismo, se si pensa che nella concretezza della storia nazionale, mentre rappresentava l’elemento di debolezza del legame tra i colti e i subalterni,
tra i dirigenti e i diretti, tra intellettuali e popolo, per usare le parole del tempo, esso si poneva invece come fattore di promozione, di primato, come qualità fondativa della presunta grandezza italiana, tutta racchiusa, però, nell’empireo della grande letteratura, della grande filosofia,
del pensiero grande1.
Il cosmopolitismo, cioè, è per Gramsci una sorta di ambizione extraterritoriale che, attraverso alcuni ceti, l’Italia ha
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LEA DURANTE
coltivato patologicamente nel suo seno a causa delle due
grandi istituzioni universalistiche di cui è stata sede geografica: l’Impero Romano prima, e la Chiesa cattolica poi. È
chiaro che in Italia una così impegnativa allocazione, e così
prolungata nel tempo, per giunta, non poteva non deviare,
non distorcere, rispetto a ciò che accadeva nel resto dell’Europa, la formazione di uno spirito nazionale “sano”,
quale Machiavelli aveva riscontrato – e sulla sua scorta riscontra Gramsci – in paesi come la Spagna o la Francia. Nella “sanità” dello spirito nazionale è inclusa per Gramsci la
capacità degli intellettuali di farsi portatori e interpreti di un
bisogno di trasformazione e di progresso di classe: una capacità che infatti è del tutto mancata a quella cerchia di eletti che in Italia hanno vissuto la condizione intellettuale prima all’ombra delle corti e poi nella blindatura di una fantomatica autonomia dell’estetico.
A questo punto si impone una domanda, un dubbio
che è, se non altro, l’esigenza di un approfondimento tematico: se cioè l’esistenza di uno spirito nazionale storicamente e socialmente fondato, “sano”, come un po’ sbrigativamente lo chiama, sia per Gramsci in una connessione
stretta con la storia coloniale dei grandi paesi europei; se
quindi l’ideologia coloniale sia da considerare come una
propaggine diretta dello spirito nazionale, come una sua
espansione, anche in considerazione del fatto che, di converso, la politica coloniale italiana, cioè della nazione più
tradizionalmente universalistica, risulta incerta e stentata.
Certo, la storia ci insegna che il colonialismo è figlio del
nazionalismo, ma in questo caso lo spirito nazionale di cui
parla Gramsci è cosa diversa dal nazionalismo. Varrebbe
la pena, su quest’ultimo punto, rileggere anche le considerazioni che Marx fa a proposito del rapporto tra evoluzione della civiltà borghese europea e colonialismo, ma
mi pare che rispetto a Marx Gramsci affacci un’ipotesi di
“spirito nazionale sano” non solo più nettamente distinta dal nazionalismo, ma anche capace di includere al suo
DAL COSMOPOLITISMO ALL’IBRIDAZIONE

interno le istanze e l’ideologia – seppure informale e magmatica – dei ceti subalterni.
È proprio al punto dell’intersezione tra la critica storica e la progettualità politica che Gramsci introduce il concetto di nazionale-popolare, uno dei più fortunati e fraintesi nella cultura, negli studi sociali e nelle letture politiche italiane e non italiane del pensatore sardo. Un concetto
che, lungi dall’incarnare una delle tante versioni del populismo, come è in parte apparso per lungo tempo, si connette a una visione della cultura come livello alto e raffinato, ma al tempo stesso socialmente e storicamente fondato di produzione del pensiero e della prassi2. Il nazionale-popolare si pone a un certo punto della riflessione carceraria come l’ordine di grandezza entro il quale è possibile agire una forma matura di internazionalismo: un consapevole approccio al concetto di Stato, che non sia né mitizzato come eterno né vilipeso come occasionale, ma inteso nella sua processualità storica reale contrassegnata dalle dimensioni sociale, politica e culturale riconoscibili come tali sia dai ceti che vogliono salvaguardarne la conservazione, sia da quelli che intendono sovvertirne l’ordine.
Gramsci, dunque, avverte nel cosmopolitismo il rischio di un’atopia solo apparente, di un internazionalismo
non proteso alla realizzazione di relazioni tra le culture,
quanto piuttosto l’equivoco terreno per la realizzazione di
rapporti di forze occultati: esso, cioè, di fatto, consiste
nell’attrazione verso la realtà geo-politica egemonica, e in
questo senso è da conoscere ed evitare. È l’elemento culturale di questo potere calamitante. Come il cosmopolitismo, anche l’universalismo ha un centro, un dove. Può essere utile leggere a questo proposito un famoso passo di
Gramsci:
Egemonia della cultura occidentale su tutta la cultura mondiale. Ammesso anche che altre culture abbiano avuto importanza e significato nel processo di unificazione “gerarchica” della civiltà mondiale (e certamente ciò è da ammet-
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LEA DURANTE
tere senz’altro), esse hanno avuto valore universale in quanto sono diventate elementi costitutivi della cultura europea,
la sola storicamente e concretamente universale, in quanto
cioè hanno contribuito al processo del pensiero europeo e
sono state da esso assimilate (Gramsci 1975, p. 1825).
All’illusione che un processo di unificazione culturale
comporti, nelle condizioni presenti, la partecipazione paritetica delle diverse componenti, Gramsci mostra chiaramente di non credere. Spiega che anche questo, naturalmente, è un problema di rapporti di forze, e che assume portata universale quella cultura prevalente, egemonica, in grado di inglobare e sussumere le altre, concedendo loro una partecipazione subalterna, perfino apparente, in certi casi, alla definizione dell’indirizzo teorico e
pratico della civiltà.
A questo proposito emblematica appare oggi, ma già
da una quindicina di anni, la battaglia per il canone, come si sa e come Said in tanti scritti ci racconta con un piglio di avvertito sarcasmo, combattuta senza esclusione
di colpi in Nord America e in modo meno aspro e probabilmente con una posta in gioco diversa in Europa e
in Italia3.
Penso, per esempio, al trattamento che Harold Bloom,
nel suo famoso e iperselettivo cenacolo di grandi spiriti che
è il Canone Occidentale, riserva a uno scrittore come Luis
Borges. Deve includerlo, è chiaro, pena una verosimile accusa di incompetenza, se non altro perché l’opera di Borges continua a lavorare, a “ibridare” scritture occidentali
di varie latitudini. Cerca, cerca, Bloom (1996, pp. 412-418)
trova la soluzione:
La nonna materna di Borges era inglese, la biblioteca di suo
padre era ampia e vi prevaleva la letteratura inglese. (…) la
sua cultura letteraria per quanto universale restò inglese e
nord americana nella sua più profonda sensibilità (…). La
sua posizione nel Canone Occidentale, qualora si affermi,
DAL COSMOPOLITISMO ALL’IBRIDAZIONE

non sarà meno sicura di quella di Kafka e di Beckett. Tra tutti gli autori latino-americani del nostro secolo, egli è il più
universale.
Segue un apparentamento a Freud, Proust e Joyce,
tanto per aggiungere credenziali. Bloom, cioè, precostituisce le condizioni di una sussunzione di Borges nel paradigma culturale nord-atlantico per poter esprimere apprezzamenti positivi su di lui, e nello stesso tempo afferma che quel paradigma è universale.
Torno su Gramsci solo per dire che la sua comprensione di questi meccanismi, la sua capacità di disvelarli, con
gli strumenti del suo tempo, è certo un elemento di indubbio interesse per il presente nel campo degli studi di
cui ci stiamo occupando. Ma Gramsci è un autore che, non
dobbiamo dimenticarlo, guardava alla cultura nella sua dimensione eminentemente politica, un autore che tendeva
a una trasformazione integrale della società. In questo
senso, se la figura di Gramsci è quella di un pensatore che
pone al centro dei suoi problemi la possibilità di una riforma intellettuale e morale radicale – la rivoluzione, per intenderci, sebbene nella sua forma contemporanea, orfana
di palazzi d’Inverno – allora dobbiamo anche sapere che
Gramsci avrebbe rifiutato qualsiasi forma di multiculturalismo orizzontale, propria di certe punte dei cultural
studies, che pure proficuamente lo assumono tra i propri
riferimenti.
La nozione saidiana di ibridazione, accanto a quella altrettanto fertile di contrappunto, rappresenta un serio
tentativo di guardare alla questione dell’incontro tra popoli e culture senza la retorica dell’universalismo multiculturalista, ma invece tenendo saldamente presente la
problematica nazionale, quella nazionalista e il contesto
egemonico della globalizzazione. Said lavora in questo
senso (e dico lavora perché il suo pensiero ancora lavora
tenacemente dopo di lui) per una decostruzione del con-

LEA DURANTE
cetto tradizionale di identità, e lo fa a partire da una
profonda conoscenza e perfino comprensione dei meccanismi dell’identità geoculturale. Credo che il dialogo tra
Gramsci e Said, che Said aveva fortemente voluto e che vale assolutamente la pena di far proseguire, abbia ancora
molto da dirci, anche in termini di differenze. Ma c’è una
qualità politica che Gramsci, a mio avviso, avrebbe riconosciuto immediatamente a una proposta come quella del
critico palestinese, anche al di là delle dichiarazioni di autonomia, delle proclamazioni di indipendenza intellettuale che egli ha sempre fatto rispetto alla politica: la dimensione fondamentalmente, intrinsecamente di “classe”, sebbene tra virgolette, dell’utopia realistica di Said.
1
I Quaderni del carcere sono largamente attraversati da riflessioni su questo ordine di problemi. Per questa ragione mi è difficile qui suggerire singoli passi. Vale certamente la pena, però, di leggere per intero il Quaderno sul Risorgimento Italiano, il Quaderno 19, in cui Gramsci ripropone molte riflessioni precedenti in forma più elaborata e le integra con altre nuove.
2
Per un approfondimento del concetto di nazionale-popolare mi permetto di rinviare al mio Nazionale-popolare, in AA.VV. 2004.
3
Sulla fondamentale distinzione tra le ragioni nordamericane (accademiche e anche sociali) e quelle europee e italiane (più culturalistiche) che hanno
agito e in parte ancora agiscono nel dibattito sul canone si veda Ferroni 1998.
Sempre di passaggio
Marie-Hélène Laforest
Una vita segnata dalla militanza politica per un uomo
che durante tutti gli anni della sua formazione non si era
mai avvicinato alla politica, un uomo le cui riflessioni critiche sulla cultura e sulla letteratura troppo spesso sono
state guardate con la lente della politica. Questo è
Edward Said. Un critico che ci ha lasciato un’eredità
culturale significativa, talvolta offuscata o fraintesa a causa delle sue prese di posizioni a favore della lotta politica dei palestinesi. Per questa ragione ha avuto, a differenza di altri suoi contemporanei, molti sostenitori, ma
anche detrattori, che giudicavano le scelte del militante
e non il lavoro dello studioso.
Ovviamente non si può considerare l’impegno politico di Said come qualcosa a sé – per lui nessun campo dell’esperienza è fuori dal politico. Tuttavia, non si può neppure guardare alla sua opera critica come a un’opera ideologica. Alle sue idee sulla letteratura sono state assegnate
ragioni politiche, mentre i suoi detrattori, alcuni dei quali dichiaratamente favorevole alla causa israeliana, si sono
rifiutati di prendere atto delle loro ragioni. È il caso di Justus Reid Weiner che su «Commentary» del settembre
1999 diede dell’imbroglione e del bugiardo a Said per
aver scritto sulla «London Review of Books» dell’anno prima che la sua famiglia si era trasformata in “rifugiati do-

MARIE-HÉLÈNE LAFOREST
po il 1948”, con l’unico scopo di screditare Said e dimostrare che non era palestinese. Oppure, (ultimo nell’elenco dei detrattori), il famoso avvocato Alan Dershowitz, che
l’8 febbraio 2005, ossia dopo la sua morte, ha accusato
Edward Said di aver portato “l’estremismo politico” all’interno della Columbia University dove aveva svolto la
sua carriera universitaria.
In Sempre nel posto sbagliato (Out of Place, 1999) Said
non scrive della sua figura pubblica, ma offre uno squarcio sull’uomo che, dopo il primo ciclo di chemioterapia nel
1991, decide di consegnare le sue memorie alla storia. Il
volume è pubblicato proprio quando il genere del memoir ha una fortuna straordinaria negli Stati Uniti e quando si scopre che moltissimi come lui hanno vissuto a cavallo fra più culture, sono cresciuti con nomi inglesi e cognomi che hanno i suoni di altre lingue e sono, infine, approdati negli Stati Uniti. Anche costoro, come Said, hanno avvertito quel senso di urgenza che porta a raccontare
la propria vita. Nel caso di Said è la lontananza dal suo popolo (nonché la morte di entrambi i genitori) che gli fa credere che la memoria collettiva diventa flebile quando appartiene ai popoli cosiddetti altri e quando nessuno veglia
su di lei e gli fa temere che del variegato mondo mediorientale, con il suo “assortimento di minoranze levantine”
conosciuto e perduto, possa non rimanere traccia.
Sempre nel posto sbagliato inizia con un paradosso apparente: Said dichiara che lui, palestinese, ha incominciato a scrivere il libro mentre si trova, convalescente, presso l’ospedale ebreo di Long Island. Il paradosso è apparente poiché la sua posizione su quella che dovrebbe essere la soluzione della questione palestinese (posizione
che lo aveva portato a opporsi agli accordi di Oslo) è che
i due popoli debbano vivere insieme sullo stesso territorio. In ogni caso, è all’insegna del paradosso e della discontinuità che si sviluppa gran parte delle sue teorie; paradosso e discontinuità – determinati dalla sua visione
SEMPRE DI PASSAGGIO

“dal margine” – che trovano un evidente riscontro in alcuni dei dettagli che egli fornisce sulla sua vita. Così come è un paradosso l’aver scritto un libro fondamentale per
la critica postcoloniale, Orientalism, basandosi sui testi
europei della sua formazione e trascurando la produzione degli autori postcoloniali. Un tratto eurocentrico che
è lo stesso Said a riconoscere nella postfazione all’edizione di Orientalism del 1994 quando scrive: “il mio lavoro
è stato giustamente visto come eurocentrico nella scelta dei
testi” (Said 1994, p. 339).
Said indica la guerra dei Sei giorni come punto di svolta della sua vita, fino a quel momento trascorsa all’ombra
della sua famiglia. Nel 1967 egli è professore di Letteratura comparata alla Columbia University e si rende conto
immediatamente non solo del sostegno totale per Israele
nell’ambiente in cui si muove, ma anche che, come arabo,
è condannato senza appello, identificato in tutto e per
tutto con la causa palestinese e guardato con sospetto. A
quel punto prende coscienza della sua identità multiforme. L’identità di chi è nato in Palestina quasi per caso (nel
1935 i genitori vivevano al Cairo sotto il Mandato Britannico ma la madre si era trasferita a Gerusalemme, dove viveva la sua famiglia, per partorire), è cresciuto nelle scuole europee del Cairo, ha frequentato il Victoria College (la
Eton del Medio Oriente) e poi le più prestigiose università americane (Princeton e Harvard) e da anni vive e lavora negli Stati Uniti, paese di cui possiede la cittadinanza. A quel punto Said si convince che la sua identità fluida richiede una definizione e diventa palestinese. Sceglie
di essere parte di un popolo senza terra che (come lui
stesso dice) le classi abbienti – di cui fa parte la sua famiglia – abbandonarono al loro destino nel 1948. Così teorizzerà più tardi, forse ricordando questa scelta, che l’identità culturale è un atto di volontà politica.
Dopo la guerra dei Sei giorni, cambia anche il suo lavoro di studioso e di critico. Said si rende conto che la let-

MARIE-HÉLÈNE LAFOREST
teratura non può essere distaccata dal mondo nel quale è
prodotta e che come la questione della Palestina è nata da
una particolare congiuntura politica non distinguibile dalla storia dell’imperialismo europeo, così la letteratura prodotta all’epoca degli imperi non può essere considerata al
di fuori di questo contesto. Torna, quindi, alla produzione degli studiosi europei del diciannovesimo secolo e la rilegge con occhi nuovi. La sua conclusione è che quella letteratura è stata modellata sulle esigenze ideologiche e politiche dell’impero, intrise della superiorità culturale e razziale europea. Teorizza il concetto di “worldliness” per indicare che un testo dipende dalle sue circostanze, dalla materialità della sua origine e dalla sua ricezione: “Il punto è
che i testi hanno modi di esistere che, anche nelle forme
più rarefatte, sono sempre impigliati in circostanza, tempo, luogo, società…” (Said 1991, p. 35).
Egli ancora i testi al loro contesto sociale e storico, privandoli di colpo della loro neutralità, e prende posizione
contro ciò che vede come gli eccessi del post-strutturalismo, ossia la totale autosufficienza del testo, insistendo sui
vincoli che la sua contestualizzazione impone all’interpretazione.
Un testo è prodotto da esseri umani che fanno parte di un
mondo culturale, sociale e politico. La stesura di un testo è
un atto culturale e non può essere distaccato dai rapporti di
potere che l’hanno prodotto. Tuttavia il testo non si riferisce semplicemente al mondo esterno – come accade nel realismo classico – in quanto prodotto da una situazione specifica, vi sono limiti alla sua interpretazione (p. 35).
Non si può non vedere in questa chiave di lettura del
testo anche il riflesso di una condizione esistenziale. Anche Said, infatti, è costantemente “situato”, innanzitutto
dagli altri. Fra gli episodi chiave che egli ricorda della sua
infanzia vi è l’incontro con un inglese che, nelle vicinanze
del Club di Gezira di cui il padre è membro, lo invita ad
SEMPRE DI PASSAGGIO

allontanarsi. La frase: “Gli arabi non possono stare qui e
tu sei un arabo!” lo lascia interdetto, ma a casa non trova
risposta alla sua richiesta di chiarimento. La sua famiglia
è da tempo slegata da concetti “sicuri” quali origine, terra natia, cittadinanza. Convive con lo statuto ambiguo del
padre, Wadie Ibrahim Said, nato in Palestina da famiglia
palestinese ma protestante, residente al Cairo da molti anni, cittadino americano grazie al servizio prestato nell’esercito USA in Europa durante la prima guerra mondiale
che si è ribattezzato William A. Said.
Edward invece, è a disagio con il suo nome inglese abbinato a un cognome arabo. Cristiano anglicano in un
mondo musulmano. Residente in Egitto con un passaporto statunitense. Unico figlio maschio in una grande
famiglia estesa però dispersa in tutto il Medio Oriente,
con quattro sorelle più giovani da proteggere, ma senza
alcuna voglia di assumere questo ruolo come il padre invece vorrebbe. Unico non-inglese nelle attività sportive
a scuola e nei club in Egitto. Unico arabo al liceo di
“Mount Hermon” nel Massachusetts dove il padre lo
manda a finire gli studi nel 1951. Palestinese ricco che
negli anni della sua formazione vive in un mondo che
ignora il dramma della sua gente – la Palestina è ricordata a voce alta solo dalla zia Nabiha. Infine, innamorato della madre (alla quale scrive tutti i giorni) che,
però, occupa lo spazio che altre donne dovrebbero avere nella sua vita.
Ha attraversato la vita con un senso di disagio fisico,
ma soprattutto interiore, disagio che è diventato parte del
sé che con fatica ha costruito. Ed è questo sentimento forte che sottostà alle sue memorie, che probabilmente ci sarebbero giunte in una forma leggermente diversa se egli
avesse avuto più tempo per combattere con il suo editore, la cui mano si sente nell’incipit – tipico di molti libri
di memoria di quegli anni – ma soprattutto nel finale, dove sembra che un’altra mano, nello stile dei libri di me-

MARIE-HÉLÈNE LAFOREST
morie, abbia avuto il compito di riassumere gli avvenimenti, i sentimenti e le emozioni, già descritti dall’autore:
A volte mi sembra di essere un ammasso di correnti in flusso continuo. Preferisco quest’immagine all’idea di un Io
solido, di un’identità fissa alla quale, pure, la gente attribuisce tanta importanza. Queste correnti, come i temi della nostra vita, ci attraversano fluide durante le ore di veglia
e, nei momenti di grazia, non hanno bisogno di essere né riconciliate né armonizzate. Sono un po’ eccentriche, forse,
e fuori posto, ma almeno sono mobili, formano di continuo
strane combinazioni, si muovono di continuo nello spazio,
nel tempo, non necessariamente avanti, a volte si scontrano, in contrappunto ma senza un unico tema centrale (Said
1999, pp. 307-308).
Said si adagia nella marginalità ed è questo tratto che
lo porta a discostarsi senza esitazioni dalle posizioni degli
intellettuali francesi post-strutturalisti, soprattutto Foucault, che avevano ispirato i suoi precedenti lavori. Non
ha paura di rimanere solo nella difesa di posizioni controverse. Rifiuta l’idea che la realtà sia totalmente costruita
dal linguaggio. Per lui il mondo dei sensi e le contingenze storiche sono reali e benché le esperienze siano incorporate nel linguaggio e, quindi, nel testo, non rimandano
continuamente a significati ulteriori come avviene per
Derrida. Egli si allontana, quindi, dalla nozione di différance, come rimando continuo del significato. Piuttosto,
si ispira a Ricœur, che sostiene che la parola è “situata”.
Ricoeur assume che la realtà casuale sia simmetricamente e
esclusivamente proprietà della parola o della situazione comunicativa o di ciò che uno scrittore avrebbe detto se non
avesse scelto invece di scrivere (Said 1991, p. 34).
In questo modo Said abolisce la barriera che separa il
parlato dallo scritto e estende anche al testo scritto la qualità di essere localizzato, “situato”. Per lui, i testi sono nel
SEMPRE DI PASSAGGIO

mondo, rappresentano il mondo e possono intervenire
nel mondo. Per cui, dopo aver preso anche da Foucault
la nozione di “discorso”, si allontana da lui1. A differenza
del filosofo francese, privilegia il testo letterario; critica,
inoltre, la sua concezione di “strutture repressive” che
non contempla alcuna volontà di dominio da parte del potere egemonico, volontà che Said, invece, attribuisce all’impero. Critica Foucault anche per l’assenza nella sua visione di pratiche contro-discorsive e per l’impossibilità di
operare politicamente; una posizione inaccettabile dal momento che i popoli colonizzati – ai quali egli ritiene di appartenere – sono impegnati proprio nel contestare le rappresentazioni di sé prodotte da un potere egemonico.
Il concetto di egemonia preso da Gramsci è illustrato
con molteplici esempi in Cultura e imperialismo (1993), così come parte da Gramsci e della sua distinzione fra intellettuali tradizionali e organici la sua analisi sul ruolo pubblico dell’intellettuale oggi. Come l’intellettuale organico
gramsciano, l’intellettuale di Said deve lavorare per cambiare il mondo, ma senza appartenere a nessun partito, anzi cercando di confrontarsi sempre con il potere e con tutto ciò che è ortodosso o dogmatico. Pur professandosi
marxista, Said si distacca quindi dal marxismo ortodosso
su alcuni punti. Lo fa, per esempio, usando una frase di
Marx come epigrafe a Orientalismo (“Non possono rappresentarsi; devono essere rappresentati”) con la quale,
pur riconoscendo l’enorme valore dell’analisi che Marx fa
dell’ascesa di Luigi Bonaparte, vuole mettere in rilievo la
forza delle idee e il loro peso determinante, spesso superiore a quello delle forze economiche, a differenza di quanto vorrebbero i marxisti ortodossi.
Quanto alle sue idee, la loro forza perdura. Esse occupano una posizione rilevante nel pensiero critico contemporaneo, fanno parte della sua vita pubblica, della
quale, però, egli non scrive in Sempre nel posto sbagliato,
che si ferma al 1962. Di questa vita pubblica Said ha de-

MARIE-HÉLÈNE LAFOREST
ciso di narrare solo una parte e alcuni frammenti, mentre
di quella privata racconta di come, in seguito alla costituzione dello Stato di Israele, i beni della sua famiglia furono venduti all’asta; dei numerosi parenti con cui passava le vacanze in Libano fino all’età di 21 anni e che ora
sono dispersi per l’intero Medio Oriente e negli Stati
Uniti; della madre perennemente bloccata alle frontiere
perchè non aveva mai posseduto un passaporto ma solo
fogli e permessi speciali e che morì di tumore negli Stati
Uniti dove non aveva mai voluto vivere quei sette anni che
erano necessari per ottenere la cittadinanza americana
che avevano i figli e il marito; di sé, infine, che aveva vissuto 37 anni negli Stati Uniti e, tuttavia, a New York si
sentiva ancora di passaggio:
Nessuna esperienza, a mio avviso caratterizza la mia vita (ed
è altrettanto dolorosa e paradossalmente altrettanto desiderata) meglio dei numerosi cambiamenti di nazione, città, residenza, lingua, ambiente che mi hanno tenuto in movimento in tutto questo tempo (Said 1999, p. 217).
1
Anche se, secondo Bhabha, Said ha misinterpretato la nozione di “discorso” di Foucault dal momento che nei suoi testi fa una distinzione fra essenza
e apparenza, ideologia e scienza che, in Foucault, invece, non sono scissi (Bhabha
1994, p. 72).
L’ermeneutica della condizione umana
Domenico Jervolino
Vorrei innanzitutto dichiarare qual è il punto di vista
a partire dal quale intervengo: io mi colloco in uno snodo
fra fenomenologia, ermeneutica, marxismo critico e filosofia della liberazione, che a me piace chiamare ermeneutica della prassi o ermeneutica della condizione umana, alla scuola di Paul Ricœur, che è scomparso recentemente e la cui presenza non posso certamente fare a meno di evocare mentre sto scrivendo.
Che cosa lega questa mia prospettiva ad autori come
Said e Gramsci? Io dedicherò questo intervento soprattutto a Said, lasciando sullo sfondo, ma come vedremo,
non assente, il riferimento a Gramsci. Permettetemi, per
sviluppare il mio discorso, di partire ancora una volta da
Ricœur, di cui in questi giorni sto per ripubblicare sulla rivista «Alternative», che io dirigo, un testo poco noto, inedito in francese nella sua integralità, che io stesso avevo
proposto al pubblico italiano nel 1990 nelle pagine di
Marx centouno. Si tratta di un importante intervento sul
tema “L’interrogazione a ritroso e la riduzione delle idealità nella Crisi di Husserl e nell’Ideologia tedesca di Marx”.
In questo saggio il filosofo francese propone di leggere l’Ideologia tedesca di Marx ed Engels – e quindi l’intera problematica dell’ideologia – con le lenti della Rückfrage, vale a dire di quella “interrogazione a ritroso” che Husserl

DOMENICO JERVOLINO
usa nella Crisi per risalire dalle costruzioni ideali della
scienza al mondo della vita. Le espressioni ideali, simboliche e quindi le ideologie, le “sovrastrutture” hanno il loro fondamento, la loro genealogia nella praxis, la quale tuttavia è sempre già strutturata simbolicamente. Tornare a
un mondo della vita concepito come l’originario, incorrotto e incontaminato dalle successive costruzioni ideali,
dai prodotti della cultura e della storia, sarebbe un puro
mito; così come non esiste la possibilità di un approccio
alla prassi che non sia mediato da linguaggi, culture e
ideologie, che non vanno considerate quindi come delle superfetazioni delle quali sia possibile liberarci, in una sorta di visione vergine e immediata delle cose.
Ricœur propone di distinguere la relazione “ontologica” di dipendenza delle scienze dal mondo della vita
dalla relazione “epistemologica” di “contrasto” fra scienza e vita (cioè, in altri termini, dalla pretesa di validità
propria all’idea di scienza in quanto tale). Se è dunque
possibile “derivare” le idealità, nel senso che esse si riferiscono al mondo reale e trovano la loro origine in esso, non è possibile derivare la loro esigenza di validità.
Viviamo in un mondo che precede ogni questione di validità, ma a sua volta la questione della validità – potremmo dire la sua quaestio iuris – precede tutti i nostri
sforzi di dar senso alle situazioni in cui ci troviamo. Dal
momento in cui ci troviamo a pensare, scopriamo che viviamo già dentro “mondi” di rappresentazioni, di idealità, di norme e grazie a loro. Facendo interagire la lettura di Husserl con quella di Marx, Ricœur – anche rispetto alla tematica marxiana delle ideologie – distingue
due aspetti. Da una parte, abbiamo la tesi ontologica per
cui ogni idealità si riferisce in ultima analisi alla praxis di
“individui determinati che si trovano in relazioni determinate tra di loro”: esistono non le idealità o le rappresentazioni ma gli individui concreti in carne e ossa (che
sono a loro volta il fondamento reale delle entità collet-
L’ERMENEUTICA DELLA CONDIZIONE UMANA

tive come le classi o le nazioni); dall’altra, la tesi del necessario strutturarsi simbolico della praxis. La vita si esprime sempre in un linguaggio, in rappresentazioni che
hanno una loro autonoma validità. Tesi quest’ultima “epistemologica”, ma anche più che epistemologica, dato
che qui non si parla – come in Husserl – delle sole costruzioni ideali delle quali consiste la scienza, ma del
“linguaggio della vita reale”, in tutta la sua ricchezza e
complessità. L’autonomia della dimensione epistemologica viene ampliata nell’autonomia della dimensione
“poetica”, in altri termini nell’affermazione del necessario e irriducibile intrecciarsi di logos e praxis, di discorso e azione. Bisogna distinguere, allora, e qui mi pare il
nucleo forte del discorso ricœuriano, un senso di “ideologia” che è più fondamentale di quello negativo e corrente di “distorsione ideologica” della realtà. Proprio
perché la praxis è sempre strutturata simbolicamente, è
certamente sempre possibile, sempre presente con tutte
le sue insidie il rischio della distorsione, ma la strutturazione simbolica in quanto tale non è di per sé distorcente. Anzi, ogni comunità umana ha bisogno di ideologia
come elemento di identità. E qui si potrebbe continuare ricordando il ruolo fondamentale nell’ermeneutica
ricœuriana del racconto nella costruzione dell’identità
narrativa degli individui così come delle comunità.
Mi pare che queste considerazioni possano costituire
lo sfondo adeguato per valutare in tutta la loro portata le
riflessioni che Said, giovandosi anche di una lettura
profonda di Gramsci, svolge sul concetto di “cultura”, in
modo particolare nell’opera matura Cultura e imperialismo. Egli riesce a mantenere un equilibrio ammirevole e
una rara profondità nelle sue analisi. La critica che decostruisce le formazioni ideologiche, come è avvenuto nel caso dell’“orientalismo”, mostrandone le radici storiche e politiche e i nessi col potere imperiale, non ostacola, ma anzi favorisce la capacità di perseguire da parte del nostro au-

DOMENICO JERVOLINO
tore quello che io chiamerei un universalismo plurale, rispettoso delle differenze, che non rinuncia a trovare nelle diverse culture e costruzioni culturali una misura comune di umanità. Quella misura comune che si fonda nel
riferimento alla vita e alla prassi, propria a quel “vivente
provvisto di logos” che è l’essere umano. L’elemento critico è evidentemente fondamentale, anche ai fini dell’istituzione del nuovo campo di ricerca degli studi postcoloniali. E ad esso è connesso necessariamente l’esercizio del
“sospetto” ermeneutico, che svela i concreti rapporti di dominio che si nascondono sotto la maschera di costruzioni
culturali o letterarie, le quali sono così costrette a rivelare
il loro senso ideologico.
“Cultura”, scrive Said, significa un complesso di pratiche che include le arti della descrizione, della comunicazione e della rappresentazione, pratiche che godono di
una relativa autonomia dalle sfere dell’economia del sociale
e della politica, e che spesso assumono la forma di oggetti estetici finalizzati a quel piacere che appunto denominiamo estetico. Ma quello che sfugge o si cela sotto il manto di tale autonomia è il nesso storico fra cultura e dominio. Nesso che si realizza nel tempo e nello spazio. Ad
esempio, se si considera il romanzo, oggetto estetico per
eccellenza nel periodo studiato dal nostro autore (l’Ottocento e il Novecento), diventa decisivo poter studiare il
nesso fra questa attività letteraria e l’espansione coloniale
di nazioni come la Francia e l’Inghilterra.
È un nesso complesso che, sottoposto all’analisi, presenta diverse sfaccettature. Premesso che col termine “imperialismo” il nostro autore intende “la pratica, la teoria
e gli atteggiamenti di un centro metropolitano dominante che governa un territorio lontano” (Said 1993, p. 35),
la narrativa e le narrazioni entrano nel cuore stesso di
quella che si può considerare la “battaglia principale dell’imperialismo” che concerne il possesso, il controllo, la
messa a frutto della terra.
L’ERMENEUTICA DELLA CONDIZIONE UMANA

Quando si è trattato di stabilire a chi appartenesse originariamente un determinato territorio, chi avrebbe saputo riconquistarlo e chi avesse il diritto di insediarvisi e di lavorare, chi dovesse continuare a farlo fruttare e chi avrebbe
avuto deciderne il futuro – tutto questo è stato analizzato,
contestato e persino, in un certo periodo, deciso dalla narrativa (p. 9).
E citando un eminente critico, che un’opportuna nota dell’edizione italiana rivela essere Homi Bhabha, Said
aggiunge che le nazioni stesse sono narrazioni. Subito
dopo, a sottolineare la complessità del concetto di cultura, continua:
Il potere di narrare o di impedire ad altre narrative di formarsi o di emergere, è cruciale per la cultura e per l’imperialismo, e costituisce uno dei principali legami fra l’uno e
l’altro. Inoltre non dobbiamo dimenticare che le grandiose
narrazioni di emancipazione e di edificazione spinsero intere popolazioni del mondo colonizzato a sollevarsi e a rovesciare il dominio imperiale; e che nel corso di tale processo, non pochi europei e americani furono infiammati da
quelle storie e dai loro protagonisti, e combatterono anch’essi per una nuova narrativa, di eguaglianza e di solidarietà umana (ib.).
Questo ultimo accenno alla solidarietà che, anche grazie al ruolo del racconto, si stabilisce fra un certo numero di lettori della metropoli e le lotte di liberazione dei popoli colonizzati, ci aiuta a passare a un secondo concetto
di cultura, presente nella stessa pagina di Said, quello cioè
di una cultura liberata dai suoi vincoli col dominio.
In secondo luogo, e in modo quasi impercettibile, la cultura è un concetto generale che racchiude in sé un fattore di
perfezionamento e di innalzamento; in altri termini, è il serbatoio di tutto ciò che di buono una determinata società ha
compreso e pensato, come ebbe a dire Matthew Arnold in-

DOMENICO JERVOLINO
torno al 1860. Egli era convinto che la cultura attenuasse, se
non addirittura neutralizzasse, le devastazioni prodotte dalla civiltà urbana moderna, aggressiva, mercantile e abbrutente (ib.).
A me pare di poter leggere questo duplice concetto di
cultura in parallelo colla distinzione ricœuriana fra la dipendenza ontologica delle costruzioni ideali dal mondo
della vita e la relazione di “contrasto” fra la dimensione
ideale e simbolica e la vita stessa.
Certo sarebbe vano nella concretezza storica cercare
una cultura “pura”, che si libri al di sopra del tempo e dello spazio. Nel concreto la cultura è sempre pura e impura nello stesso tempo. La ricerca della perfezione coesiste
con le impurità dei rapporti di potere, col disprezzo dell’umanità che si avverte come altra e che si presume inferiore, con l’esaltazione della propria identità e boria nazionale o imperiale.
Per questo io introdurrei l’aggettivo “utopico” per caratterizzare l’idea di una cultura liberata dal dominio, nel
senso della blochiana “utopia concreta”. L’esercizio concreto della critica, la stessa produzione letteraria e il lavoro di lettura vanno visti piuttosto come una lotta per liberare la cultura, che è il teatro, il campo di battaglia di
tale lotta. I due termini presenti nel titolo Cultura e imperialismo vanno visti allora come due poli di una tensione,
di un conflitto. Oppure per evocare un termine caro al nostro autore, che è anche fine conoscitore della musica e critico musicale, come momenti di una dialettica “contrappuntistica”. Si noti ancora una volta la vicinanza fra la
“relazione di contrasto” di Ricœur e il “contrappunto” di
Said.
Resta però il fatto che Said, che più di altri ha saputo
condurre questa lotta e ha saputo mostrare in modo eloquente ed efficace la ferita aperta nella tradizione umanistica occidentale dell’etnocentrismo e dell’appropriazione
dell’altro, è anche colui che sa farci intravedere l’orizzon-
L’ERMENEUTICA DELLA CONDIZIONE UMANA

te utopico di una riconciliazione possibile. Qui vale la pena di richiamare alcune penetranti notazioni di Joseph
Buttigieg nella sua prefazione all’edizione italiana di Cultura e imperialismo. Edward Said, afferma Buttigieg, lungi dall’alimentare un conflitto fra le civiltà, persegue “la visione di una cultura-mondo nella quale l’eterogeneità venga arricchita attraverso il potere della creatività umana, e
sia salvaguardata dalla narrazione di storie reciprocamente sovrapposte, che neghino le strategie di divisione della
politica identitaria” (Buttigieg 1998, p. XX). L’attenzione
di Said alla letteratura di resistenza contro tutte le forme
di dominio è motivata dal fatto che solo nell’assenza di dominio diventa possibile una prospettiva di riconciliazione,
un nuovo umanesimo che non escluda le culture altre, ma
le assuma come risorse per una cultura-mondo da edificare. Questo nesso fra speranza e riconciliazione rende
prezioso non solo agli occhi del mio amico Buttigieg, ma
anche ai miei l’opera di Said e mi pare conforti il mio tentativo di una lettura incrociata con un’ermeneutica di stile ricœuriano.
È ancora Buttigieg che insiste sull’importanza della
concezione laica, “secolare”, della storia sviluppata da
Said come presupposto di tale prospettiva imperniata sul
nesso fra speranza e riconciliazione. Non è certamente un
caso che le pagine che l’autore dedica a “Impero e interpretazione secolare” siano anche quelle in cui ritorna in
campo un riferimento all’eredità gramsciana (cfr. Said
1993, pp. 69-86, in part. 74-76). In fondo si tratta di capire in quale modo siano state in passato costruite le egemonie dei diversi imperi e di reinterpretare questa storia e
gli autori e i testi che a essa appartengono avendo di mira una diversa prospettiva, che si sostituisca alle egemonie
imperiali, che è quella di una storia comune dell’umanità,
una storia comune agli antichi dominatori e agli antichi dominati nella quale i territori si sovrappongono e le narrazioni si intrecciano. Nell’ermeneutica saidiana della con-

DOMENICO JERVOLINO
dizione storica degli umani l’attenzione per lo spazio si coniuga, infatti, con quella per il tempo.
Tale visione mi pare confermata e arricchita anche dall’ultimo libro lasciatoci in eredità da questo grande letterato e studioso di letteratura che ha saputo essere fino in
fondo un esule palestinese e un cittadino del mondo. Mi
riferisco a Humanism and Democratic Criticism. In questo
libro nato da una serie di splendide lectures date alla Columbia University dove viene riconosciuto, tra l’altro, un
grande spazio alla lezione vichiana, emerge con forza il ruolo della cultura umanistica per il mondo grande e terribile – per citare un’espressione gramsciana – che è il mondo d’oggi, nel quale ci è stato dato vivere, nell’epoca della globalizzazione. Vorrei concludere questo breve intervento con una citazione da questo libro:
Io credo che l’umanesimo sia quel modo, forse quella consapevolezza che ci permette di offrire quella forma di analisi definitiva, quell’antinomia o opposizione tra lo spazio delle parole e le loro diverse origini ed elaborazioni nello spazio sociale e fisico, dal testo alla realtà di siti di appropriazione e resistenza, alla trasmissione, alla lettura e all’interpretazione, dal privato al pubblico, dal silenzio all’illustrazione e all’espressione, e di nuovo al testo, nell’incontro con
il nostro stesso silenzio, con la nostra stessa mortalità – e tutto questo accade nel mondo, nella vita e nella storia e nelle
speranze di ogni giorno, alla ricerca di conoscenza e giustizia, e forse anche di liberazione (Said 2004a, p. 83).
(S)concerto a tre voci. Le trasgressioni musicali
di Edward Said
Serena Guarracino
L’idea di questo breve contributo è di esplorare il dialogo che le voci di Said e Gramsci intrecciano sul tema del
linguaggio musicale, invocandone però, insieme e in contrappunto a esse, una terza che irrompa nell’universo a
tratti monocorde di queste due voci maschili per rivelarne altri riecheggiamenti, altri dialoghi. Questo sarà purtroppo possibile solo nei termini di una presenza/assenza
fantasmatica, quella della voce di Oum Kalthoum che ha
riecheggiato, forse per la prima volta, nelle sale dell’Istituto di Studi Filosofici, chiudendo idealmente questo percorso musicale che divaga da Said a Gramsci e di nuovo
a Said, in un’eco continua che impedisce ogni possibile linearità1.
D’altronde, è già nei termini della scrittura e della personalità di Edward Said che il linguaggio musicale assume una posizione eccentrica e trasgressiva. La musica è infatti allo stesso tempo parte delle sue argomentazioni eppure linguaggio “altro” con cui non può che confrontarsi all’infinito, in un continuo dialogo che si articola secondo
le modalità del contrappunto. E questo non perché la musica sia in qualche modo un’alternativa alla cultura, di cui
invece condivide la posizione a sostegno dell’egemonia; ma
perché allo stesso tempo essa è in grado di porsi in contrappunto rispetto a essa, e di far emergere nella struttu-

SERENA GUARRACINO
ra sinfonica della produzione culturale inquadrata nelle dinamiche egemoniche uno (s)concerto che sbilancia le armonie dell’ideologia.
Said era un pianista dilettante di buon livello, e ha
scritto di musica classica in più luoghi della sua produzione, fino all’ultimo Paralleli e paradossi. Ma si può andare più indietro, alla lettura dell’Aida verdiana in Cultura e imperialismo, o a un altro testo ancora, dal titolo Musical Elaborations, che, pur potendo essere considerato
marginale rispetto ai “grandi classici” saidiani, intreccia in
maniera interessante il Said critico-musicista e le riflessioni
di Gramsci sulla funzione sociale dell’arte, e della musica
in particolare. Musical Elaborations è la raccolta delle tre
Wellek Library Lectures in Critical Theory, tenute da Said
nel 1989 presso l’Università della California. È la prima
volta che Said parla e scrive la propria passione per la
musica classica, e l’importanza che essa ha avuto nella sua
formazione intellettuale. In contrasto con il pregiudizio comune secondo cui la musica sarebbe una disciplina astratta, Said offre le sue “elaborazioni musicali” come una riflessione sul modo in cui la musica classica partecipa alla
differenziazione dello spazio sociale:
In quest’ottica può essere opportuno considerare la musica
classica occidentale come uno dei prodotti del lavoro intellettuale che Gramsci analizzò come parte costituente di quella che egli stesso denominò l’“elaborazione” della società civile (Said 1991, p. 70)2.
Da questo punto di vista, gli stessi musicisti fanno parte della “classe intellettuale” così come definita da Gramsci, anche se possono essere visti come un distinto sottogruppo, data l’alta specializzazione che la cultura musicale richiede (a partire dal sapere “leggere” la musica).
In questo senso, la funzione dell’intellettuale-musicista
è principalmente quella di contribuire al mantenimento
della società civile:
(S)CONCERTO A TRE VOCI

Oggi il loro contributo è il mantenimento della società civile, a cui offrono un’identità retorica, sociale, e melodica attraverso composizioni, esecuzioni, ed interpretazioni musicali, e sì, anche attraverso una forma di professionalità che
allontana ed in un certo senso trasfigura la musica in un ambito di apparente idealità (pp. 70-71).
Pensiamo alla risonanza pubblica e alla funzione sociale
di eventi come il concerto di Capodanno dei Wiener Philarmoniker, o l’apertura della Scala: anche nella società attuale, che sembra così lontana, per la cultura musicale
che produce, dal repertorio proposto in queste occasioni,
questi eventi sono in grado di creare una socialità mediatica che supera i confini del gruppo ristretto di privilegiati che effettivamente assiste a queste esibizioni. Il suo status “elevato” permette di considerare la produzione musicale al di fuori dei processi di elaborazione della società
civile, che si dipanano quindi in modo inespresso o, come
scrive la musicologa Susan McClary, “an-estetico” (McClary 1989, p. XIV).
Il debito di queste riflessioni di Said nei confronti di
Gramsci emerge già dal titolo del testo, decisamente gramsciano. L’“elaborazione” degli intellettuali da parte della
società civile infatti interseca, per Gramsci, la realtà sociale
al lavoro della cultura:
Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una
funzione essenziale nel mondo della produzione economica,
si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali
che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria
funzione non solo in campo economico, ma anche in quello sociale e politico (...) (Gramsci 1975, p. 1513).
E più oltre:
Si formano così storicamente delle categorie specializzate per
l’esercizio della funzione intellettuale, si formano in con-

SERENA GUARRACINO
nessione con tutti i gruppi sociali ma specialmente in connessione coi gruppi sociali più importanti e subiscono elaborazioni più estese e complesse in connessione col gruppo
sociale dominante (pp. 1516-1517).
Ritorna qui il termine adottato da Said, elaborazioni
(non a caso anche qui al plurale), solo questa volta in senso inverso, non elaborazione della società civile da parte della cultura, come utilizzato da Said in Musical Elaborations,
bensì come elaborazione della classe intellettuale da parte
della società civile, o meglio da parte del gruppo sociale dominante. In questo senso, Gramsci pone infatti gli intellettuali in completa dipendenza dalle strutture del potere. Più
oltre si legge ancora: “Gli intellettuali sono i ‘commessi’ del
gruppo dominante per l’esercizio delle funzioni subalterne
dell’egemonia sociale e del governo politico” (p. 1519).
Ammetto di trovare perturbante l’idea dell’intellettuale come soggetto subalterno, o per lo meno soggetto sociale dalla funzione subalterna, che emerge da queste righe. Quest’idea si pone a sua volta in contrappunto con
l’idea di soggetto subalterno di derivazione gramsciana alla base dei subaltern studies. La voce dell’intellettuale, ai
margini e dai margini dell’egemonia e della modernità, assume infatti da questo punto d’udito una carica a sua volta trasgressiva, una trasgressione che Gramsci stesso, con
la sua definizione dell’intellettuale come “commesso” dell’egemonia, sembra negargli. Spivak in Can the Subaltern
Speak? sottolinea l’interesse che gli scritti gramsciani sollevano nei confronti del ruolo dell’intellettuale nel movimento culturale e politico del soggetto subalterno all’interno e verso l’egemonia (Spivak 1988).
Tuttavia, ciò che manca a Gramsci, e per certi versi anche a Said, è la percezione di un doppio movimento di
“violenza epistemologica” che costruisce la soggettività
femminile come soggetto subalterno, creando una struttura gerarchica anche all’interno delle stesse classi subalterne (p. 280). Di conseguenza, è il corpo femminile a in-
(S)CONCERTO A TRE VOCI

carnare l’epitome della subalternità, e insieme a sfidarne
le idealizzazioni utopistiche. Per Spivak c’è infatti sempre
il rischio di uno slittamento tra l’atto di rendere visibile il
meccanismo, la struttura di perfezione sinfonica che regge l’episteme occidentale, e un movimento che renda vocale l’individuo, che dia voce non alla subalternità come
condizione, ma al soggetto subalterno (p. 285).
La tensione tra sguardo e ascolto, tra occhio e orecchio,
è d’altronde tema comune della modernità e di quelle voci dal margine che con essa si confrontano. Si tratta di un
binarismo con marcate caratteristiche di genere, in cui
l’espressione vocale è legata culturalmente al paradigma
del femminile, come scrive Adriana Cavarero:
femminilizzato per principio, l’aspetto vocalico della parola e, tanto più, il canto compaiono come elementi antagonisti di una sfera razionale maschile che si incentra, invece, sull’elemento semantico. Per dirla con una formula: la donna
canta, l’uomo pensa (Cavarero 2003, p. 12).
Questa contrapposizione riemergerà in chiusura, dove
l’uomo sarà l’intellettuale Said, e la donna che canta la diva della musica araba Oum Kalthoum. Questo contrappunto è però anche ciò che sfida e decostruisce un binarismo basato sugli stessi paradigmi di genere che impongono il silenzio alla subalterna di Spivak, e che cerca di dare ascolto alla trasgressività della voce e del canto, in grado di migrare tra le stagnazioni della cultura. Si tratta di
dare ascolto a quella trasgressione che lo stesso Said in Musical Elaborations attribuisce all’espressione musicale, un
“elemento trasgressivo” che emerge nella sua
abilità nomade di diventare parte di formazioni sociali differenti, e di variare le proprie articolazioni e la propria retorica a seconda delle occasioni e del pubblico, e quindi
delle relazioni di genere sessuale e di potere che la pongono
in essere (Said 1991, p. 70).

SERENA GUARRACINO
Questa trasgressione trova nella scrittura di Said
un’incarnazione proprio nella voce e nell’interpretazione musicale di Oum Kalthoum. La traduzione di questa
voce tra culture e panorami culturali ha effetti interessanti sul modo di ascoltarla da parte del giovane Said,
così come sul ricordo che di questa stessa voce conserva l’adulto, e intellettuale, Said. Considerata nel panorama della musica araba, infatti, Kalthoum potrebbe
difficilmente emergere come voce subalterna. La cantante è stata per la maggior parte della sua carriera la voce principale della canzone araba classica; non solo, ma
le sue vicende si sono spesso intrecciate con le vicissitudini politiche dell’Egitto, suo paese d’origine (e dove
Said è cresciuto), dagli ultimi anni sotto l’impero britannico fino agli anni della decolonizzazione e del governo Nasser. Nei momenti in cui il paese era politicamente diviso, la voce di Oum Kalthoum ha fornito un
humus culturale in cui la popolazione poteva ritrovarsi,
è stata la voce di quella “patria” politicamente ancora
violentemente frammentata, come si legge nella biografia romanzata di Selim Nassib, dal titolo evocativo Ti ho
amata per la tua voce (Nassib 1994).
Nelle elaborazioni musicali di Said via Gramsci, al contrario, Kalthoum emerge appunto come la voce subalterna, ma anche come la voce dell’intellettuale (lo stesso
Said) che nell’eco di una voce femminile trova l’espressione
della propria marginalità, della propria subalternità, come
luogo di agency poetica e politica. La musica, in questo
contesto, recupera la propria dimensione performativa,
che coinvolge tanto le pratiche esecutive quanto l’elaborazione della società civile. Si tratta di un aspetto dell’espressione musicale che Said mutua dallo stesso Gramsci,
e dalle sue riflessioni sul ruolo della musica nella società
italiana. Anche Gramsci non esita a sottolineare quella
che ancora possiamo definire la componente anestetica
della produzione musicale, in grado di diffondere model-
(S)CONCERTO A TRE VOCI

li comportamentali che egli definisce “un senso libresco e
non nativo della vita” (Gramsci 1975, p. 969). Questo
senso “libresco”, però, proprio a causa della peculiarità
della produzione culturale italiana, si diffonde non tanto
attraverso i libri, quanto attraverso “altri strumenti di diffusione della cultura e delle idee”, tra cui la musica occupa un ruolo fondamentale:
I romanzi d’appendice e da sottoscala (tutta la letteratura
sdolcinata, melliflua, piagnolosa) prestano eroi ed eroine; ma
il melodramma è il più pestifero, perché le parole musicate
si ricordano di più e formano come delle matrici in cui il pensiero prende una forma nel suo fluire (ib.).
L’intuizione di Gramsci, che Said farà propria in Musical Elaborations, è che l’espressione musicale favorisce
tuttavia anche una forma di re-interpretazione in senso
performativo del prodotto culturale da parte delle classi subalterne. Proseguendo infatti le sue note sulla “concezione melodrammatica della vita”, Gramsci sottolinea che non si tratta di essere vittime di una falsa coscienza, bensì di una modalità espressiva di cui le classi subalterne si appropriano: “D’altronde il sarcasmo è
troppo corrosivo. Bisogna ricordare che si tratta non di
uno snob dilettantesco, ma di qualcosa profondamente
sentita e vissuta” (p. 970).
È questa forse la posizione che più avvicina Gramsci al
Said di Musical Elaborations. La portata emozionale dell’esperienza musicale, infatti, non fa parte esclusivamente della socialità, ma apre canali di comunicazione inaspettati tra l’elaborazione della società civile e l’esperienza individuale (Said 1991, p. X). Allo stesso modo, la prospettiva che Said assume nelle sue riflessioni sul ruolo della musica nella società occidentale rivela allo stesso tempo una prospettiva dichiaratamente eurocentrica, e l’impossibilità di ascoltare da questo punto d’udito senza percepire l’interferenza delle altre voci e delle altre storie che

SERENA GUARRACINO
l’Occidente ha tentato di mettere a tacere all’interno di
quel sistema di organizzazione, tonale come sociale, denominato musica classica occidentale.
È da questa prospettiva che la musica si rivela, da una
parte, complice delle strutture di potere attraverso cui
l’Occidente e i suoi “altri” si relazionano all’interno di
un’economia culturale (post)coloniale. Dall’altra, la musica rivela però anche la sua capacità di trasgredire, di operare come significante fluido in grado di aver voce anche
al di fuori delle istituzioni che la producono. Accettare l’esistenza di un’entità relativamente distinta denominata
“musica classica occidentale”, infatti, non preclude, e anzi richiede, l’esposizione della sua incoerenza di fondo, e
la presa di coscienza del fatto che la sua struttura sinfonica è costruita in continuo contrappunto con stili musicali
che Said stesso non riesce a definire se non in negativo, come “musica non-occidentale, non-classica” (p. XVI).
Questa musica non occidentale e non classica è incarnata proprio dalla performance di Oum Kalthoum.
la diva della canzone araba classica, che diventa per Said
l’eco della propria voce “dal margine”, della propria
subalternità sia come non-occidentale che come intellettuale. La voce di Kalthoum oscilla tra un’alterità incommensurabile e straniera e l’identità araba che l’educazione occidentale ha in qualche modo soffocato. Ciò
che Said evidenzia sono infatti aspetti dell’esecuzione di
Kalthoum dal punto d’udito di un presente che in quella memoria sente riecheggiare una propria possibile
“identità araba”; e la negoziazione tra le diverse anime
dell’identità culturale e musicale di Said avviene sul corpo della cantante in bilico tra due voci, due testi dello
stesso Said, ancora una volta in dialogo prima di tutto
con se stesso, con le diverse anime della propria posizione nel mondo, e con la propria sensazione di essere,
come nel titolo della sua autobiografia, sempre “Out of
place”, “Sempre nel posto sbagliato”.
(S)CONCERTO A TRE VOCI

L’esecuzione di Kalthoum appare anche in Sempre nel
posto sbagliato, dove però ciò che emerge è il senso di
estraneità, nonché la noia che lo spettacolo di Kalthoum
provoca nel giovane Said (Said 2000, p. 114). Al contrario, in Musical Elaborations Said scrive:
La prima esecuzione musicale a cui ho assistito da ragazzo
(verso la metà degli anni Quaranta) fu un concerto di Oum
Kalthoum, già allora esponente di spicco della canzone araba classica. Fu un’esperienza che trovai sconcertante, interminabile, e tuttavia indimenticabile (Said 1991, p. 98).
La voce di Kalthoum ha l’impatto di un momento originario; allo stesso tempo, è un punto di partenza eccentrico, la cui anti-struttura in costante digressione contrasta con il metodo di organizzazione dei suoni della musica occidentale, eppure in qualche modo la rievoca e la richiama. È una voce in grado di mettere insieme l’identità
divisa di Said:
e siccome la mia educazione di stampo occidentale, nella musica così come a scuola, mi votava ad un’etica di produttività
e di superamento degli ostacoli, l’arte di Oum Kalthoum perse d’importanza per me. Ma naturalmente si nascose appena sotto la superficie della mia coscienza finché, di recente,
(...) l’ho ritrovata, e sono stato in grado di associare il suo linguaggio musicale con alcune caratteristiche della musica
classica occidentale (ib.).
Non so se anche il lettore, che rimando alla voce di
Kalthoum in un movimento inevitabilmente differito, sarà
in grado di ritrovare non solo la voce straniera e subalterna, ma anche una gramsciana “concezione melodrammatica della vita” iscritta in questo discorso musicale, che dal
sud del nostro Sud riecheggia di modalità espressive che
partecipano all’elaborazione della nostra socialità così come della nostra soggettività emozionale più intima. Una

SERENA GUARRACINO
volta percepita, questa voce mette in scena una familiarità
perturbante nell’espressione di un’identità fluida che trasgredisce i confini delle culture e delle coscienze, e che si
scopre essere sempre, costantemente, in contrappunto,
come la stessa voce di Kalthoum in dialogo con la musica
che l’accompagna, con Said, e forse, attraverso i mari, i
tempi e le culture, con lo stesso Gramsci.
1
Il brano proposto durante la giornata di studi che ha ospitato questo intervento è una breve sezione di Inta Omri, interpretata da Oum Kalthoum nel
1965, con liriche di Ahmed Shafik e musica di Mohamed Abdel Wehab.
2
Musical Elaborations non è ancora stato tradotto in italiano. La traduzione di questa e delle successive citazioni dal testo è mia.
“Suonando al buio”: l’ultimo pensiero di Edward
W. Said
Silvana Carotenuto
…io parlo della conoscenza stessa, ovvero del
contenuto delle diverse conoscenze disseminate all’interno di una società specifica, che
impregna questa società e costituisce la base
dell’educazione, delle teorie, delle pratiche.
Michael Foucault1
Vorrei presentarvi, brevemente, tre saggi o interventi
pubblici che appartengono nella modernità contemporanea alla cultura di lingua inglese, cercando di far risuonare gli intrecci (musicali o meno) delle “illuminazioni” che
essi possono donare al tempo presente2.
Il primo testo è Playing in the Dark del premio Nobel per la Letteratura Toni Morrison (1992) – è a questo saggio che si dedica il mio titolo più che alla passione musicale di Edward W. Said (rispetto a cui pur vorrei ricordare la recente traduzione, bellissima, dei dialoghi dello studioso con Daniel Barenboim – Barenboim, Said 2003)3.
Il saggio di Morrison è importante in quanto, all’interno
della cultura afro-americana, gioca fruttuose risonanze
con il pensiero di Said in termini non di “Orientalismo”
ma di “Africanismo”. Per la scrittrice, ella stessa afroamericana, l’africanismo è quella presenza-assenza oscura, evasa, esclusa dall’ambito della visibilità, che costruisce la letteratura americana proprio come risposta alla sua
esistenza significante, inquietante e inquietata. È un’omissione voluta che, lasciando segni e tracce nel senso
stesso dell’americanità, si dà come espediente di demonizzazione e reificazione di quella alterità che ha permesso alla letteratura, e con essa, alla nazione e alla cultura na-

SILVANA CAROTENUTO
zionale, di costruirsi, storicizzarsi, ipostatizzarsi, per rendersi infine senza tempo, a-storica, naturalizzata.
È un discorso vicino al mondo teorico affrontato da
Said in Orientalismo (Said 1978)4; lo diventa ancor di più
se si pensa che il “buio” di cui parla Morrison può essere
letto come l’oscuro della psiche umana nell’ultimo saggio
di E. Said, Freud and the Non-European, una lecture al
Freud Museum di Londra introdotta da Christopher Bollas e con una risposta di Jacqueline Rose (Said 2003).
Questo testo, in particolare, segna un ritorno dello studioso all’inizio della sua carriera, quando in Beginnings
fornì una magnifica lettura di L’interpretazione dei sogni di
Sigmund Freud, ma, soprattutto, costituisce la riprova
che, per Said, l’interesse più vivo era, è stato e rimarrà la
lettura di quelle “figure la cui scrittura viaggia attraverso
i confini temporali, culturali e ideologici in modi imprevisti, emergendo come parte di un nuovo ensemble insieme con la storia successiva e l’arte susseguente” (p. 24)5.
Importante è in tale senso comprendere in quale modo
questa scrittura venga ulteriormente “attualizzata e animata da enfasi ed inflessioni di cui lo scrittore è ovviamente
inconsapevole, ma che pur la sua scrittura permette” (p.
25), sottolineando le dinamiche storiche che, spesso sorprendentemente, possono “drammatizzare le latenze in
una figura o forma precedente che improvvisamente illuminano il presente” (ib.) e trasformano “l’ingiustizia in
dotta protesta” (Bollas 2003, p. 3)6. Così Said ritorna a
Freud, inizialmente notando che:
(…) Il suo mondo non era stato ancora toccato dalla globalizzazione o dal viaggio rapido o decolonizzazione che stavano per rendere disponibili all’Europa metropolitana molte culture precedentemente sconosciute o represse (p. 16)7.
Said vuole sottolineare la predilezione di Freud per il
mondo greco-romano-ebraico, insieme alla dimenticanza
– sconcertante per chi come lui abbia avuto così a cuore
“SUONANDO AL BUIO”

le alterità interne alla psiche – nei confronti di chiunque
non appartenga alla cultura occidentale, se non per le culture “primitive” non-europee interpellate negli studi – etnografici – sulla religione. Pure, le culture “sconosciute o
represse” tornano, proprio come il “ritorno del represso”
in due testi dedicati uno alla civiltà arcaica, l’altro alla religione: Totem e tabù, e soprattutto quella “parabola politica dei nostri tempi”, come lo definisce Jacqueline Rose (Rose 2003, p. 65), che è Mosè e il monoteismo.
Secondo Said, questo testo, centrale a una vera “politica” della psicoanalisi per l’analisi serratissima del concetto di identità, scritto alla fine della carriera di Freud
in modo episodico, frammentario e non-finito (elementi cari al pensatore, come si può leggere nell’intenso Said
2003), dimostra quanto Freud professasse una visione
dell’identità ebraica complessa, diasporica, ibridizzata da
presenze non-ebraiche e non-occidentali (p. 44). La lettura freudiana così intima di Mosè, fondatore del giudaismo ma allo stesso tempo di origini egiziane, l’appartenenza-non/appartenenza al popolo che lo sceglie
come padre, la moltitudine di razze e popoli che costituiscono la geografia relativa alla patria del monoteismo, la derivazione di Jahveh dall’arabo, il giudaismo
stesso iniziato nel reame del monoteismo egiziano e nonebraico, l’apertura dell’identità ebraica nei confronti del
suo sfondo diasporico, i complessi livelli del passato che
Freud indaga, archeologicamente, al fine di “accomodare” gli antecedenti e i contemporanei dell’identità
ebraica – sono gli elementi, insieme a molti altri, che permettono a Said addirittura di indicare la superfluità della congiunzione del titolo: non più “Freud e il non-europeo” ma “Freud, il non-europeo”. Lui, ateo pur nell’essenza quanto mai ebreo, rappresentante di un mondo diviso tra orgoglio e disprezzo della propria identità,
padre di un cosmopolitismo internazionale, in difficile
relazione con la sua comunità, impossibilitato a fornire

SILVANA CAROTENUTO
una visione dell’identità unica e monolitica, originaria e
statica, ma, diversamente, sempre originariamente toccata dalla diversità, dalla ferità secolare senza redenzione o riconciliazione.
Questo è il nucleo della lettura di Said. Ovviamente, il
sottotesto è la guerra arabo-palestinese, lo Stato bi-nazionale, in particolare il rapporto tra Israele e la Palestina, inteso come confronto e compartecipazione tra due identità
entrambe rotte – broken, dice il testo – che potrebbero, come è nella politica di impegno culturale e culturalista sempre radicalmente auspicata dall’autore, condividere le proprie identità frantumate nella frantumazione stessa dell’identità, e quindi originare una vera e propria “politica della vita diasporica” (cfr. Said 1998).
Diversa è la preoccupazione fornita dalla risposta, presente nel volumetto di cui vi parlo, di Jacqueline Rose la
quale, da una prospettiva post-moderna, nota che, in
realtà, il trauma della frantumazione dell’identità può essere esso stesso traumatico per l’umanità intera, e condurre
alle attuali forme di fondamentalismo, alle chiusure e alle
posizioni di intransigenza che il nostro tempo sta ben conoscendo (Rose 2003, pp. 63-79)8. Qui l’interpretazione
ritorna di nuovo a Freud e alla nozione per cui l’omicidio,
la violenza, il trauma sono costitutivi del legame sociale,
il cui destino è nella ripetizione della violenza stessa – il testo centrale a questa visione è, ovviamente, Il disagio della civiltà.
Il mio breve intervento non vuole né può prendere
posizione su questa questione delicatissima; può però condurre la discussione verso un terzo testo, in particolare Le
tre ghinee di Virginia Woolf (1938), in un ritorno all’idea
iniziale di “giocare al buio”, entrando cioè nel buio della
guerra (la seconda guerra mondiale, ma anche quella attuale, mascherata da tutti gli orientalismi possibili), dove
far emergere un rimosso che, proprio come vorrebbe Said,
illumini inaspettatamente il presente (come fare a preve-
“SUONANDO AL BUIO”

nire la guerra, fermarla, rendere meno possente il suo orrifico appello?).
Anche per Woolf, che scrive pressappoco nello stesso
periodo di Freud, il mondo non era stato ancora toccato
dalla globalizzazione; anche nelle sue scritture il non-europeo è assente; diversamente, però, da Freud, per Woolf
la frantumazione dell’identità si è fatta dichiaratamente
produttiva, come nota Luisa Muraro nell’introduzione al
saggio woolfiano (Muraro 2004, pp. 5-14). Ecco che, nella dispersione, nelle trame larghe delle mancanze di uno
stile discontinuo – Woolf lo chiamava “un balbettio senza senso” – nasce spettralmente una presenza inquietante e allo stesso tempo liberatoria, altra e non-europea, egiziana: uno schiavo faraonico compare a illuminare la prostituzione (è l’impegno femminista della scrittura woolfiana) della cultura, radice di ogni impotenza nei confronti della guerra…
Vorrei trascrivere il passo, e lasciare a voi udire la musica risonante della sua illuminazione, questa volta puntuale, del nostro presente:
Ecco alcuni dei modi attivi in cui Lei, come scrittrice della
Sua lingua, può tradurre in pratica le Sue idee (…). L’astensione, naturalmente. Non abbonarsi a giornali che incoraggiano la schiavitù intellettuale, non assistere a conferenze che prostituiscono la cultura; si è convenuto infatti che
scrivere per ordine di altre cose che non si vorrebbero scrivere equivale a essere schiavi, e mescolare la cultura con il
fascino personale o con la pubblicità equivale a prostituire
la cultura. Con queste misure attive e passive Lei farà quanto è in Suo potere fare per spezzare il cerchio, il circolo vizioso, il girotondo intorno alla pianta velenosa della prostituzione intellettuale. Spezzato che sia il cerchio, gli schiavi
fuggiranno. Chi può dubitare che gli scrittori, gustata una
volta la possibilità di scrivere ciò che gli piace scrivere, non
lo trovino tanto più piacevole da rifiutare di scrivere a qualunque condizione? Che i lettori, gustata una volta la possibilità di leggere ciò che agli scrittori è piaciuto scrivere, non

SILVANA CAROTENUTO
lo trovino tanto più nutriente di ciò che viene scritto per denaro da rifiutarsi di ingoiare più a lungo stantii surrogati? Gli
schiavi condannati a ammucchiare parole su parole per produrre libri, parole su parole per produrre articoli, come gli
antichi schiavi ammucchiavano pietre su pietre per costruire le piramidi, scrolleranno le catene dai polsi, smetteranno
l’odiosa fatica. E la “cultura”, quel groviglio amorfo, fasciato d’insincerità che emette mezze verità da pavide labbra, che
addolcisce o diluisce il suo messaggio con qualunque zucchero o acqua serva a gonfiare la fama dello scrittore o il borsellino del suo padrone, riacquisterà forma e tornerà ad essere (…) libera. Mentre oggi, Signora, al solo udirne il nome, tra le esalazioni maleodoranti di fogli stantii, ad ascoltare la conferenza di un signore obbligato ogni mercoledì,
ogni domenica a parlare in pubblico o a scrivere di Milton,
di Keats, mentre in giardino il lillà scuote i rami, libero, e i
gabbiani volteggiano e s’impennano, e suggeriscono con la
loro libera risata che un pesce vecchio meglio sarebbe gettarlo in pasto a loro. Questa è la supplica che Le rivolgiamo,
gentile Signora, e queste le ragioni della nostra insistenza.
Non si limiti a firmare questo manifesto in favore della cultura e della liberta di pensiero. Si sforzi, almeno, di tradurre in pratica la sua promessa (pp. 135-136).
Se “il gioco nel buio” – africanismo/orientalismo – riporta Said all’interno dell’oscurità della psiche di colui il
quale meglio ha interpretato la questione dell’identità, se
questa problematica si dilania tra l’appello a una nuova
condivisione – la prima responsabilità che è la risposta –
e il timore che la caduta della sua importanza per l’umanità possa fomentare ancor più l’irrigidimento delle sue ossessioni, nella divisione stessa è possibile oggi leggere –
contrappuntisticamente – un altro frammento letterario
della modernità, seguendone il gioco dissacratore-ironico
che, tutto femminile, libera il mondo dell’intellettualità dalla sottomissione culturale e, alla luce di un passato archeologico allo stesso tempo attualissimo, decide radicalmente di “dire la verità al potere”.
“SUONANDO AL BUIO”

1
Della natura umana. Invariante biologico e potere politico pubblica in traduzione italiana, il dialogo, avvenuto nel 1971, tra il filosofo francese e Chomsky (Chomsky, Foucault 1994). L’influenza di Foucault sul pensiero di Said necessiterebbe grande spazio d’analisi; Noam Chomsky, dal canto suo, appare nell’opera di Said, insieme a Bertrand Russell e William A. Williams, in quanto intellettuale radicale determinante nella politica americana degli anni Sessanta, e
quindi importante nella formazione giovanile del critico palestinese (Said 1975,
p. 378).
2
La parola “illuminazione” è di risonanza benjaminiana, a introdurre un
discorso che affronta l’opera di E. W. Said come un coinvolgimento nei valori
delle rovine della storia che possano aiutare a comprendere meglio le nostre attuali civiltà “immature e spesso crudeli” (Bové 2000, p. 2).
3
Lo scambio, intensissimo, tra il direttore d’orchestra e il critico, insieme
all’esperimento laboratoriale del “Divano occidentale-orientale” sembrano realizzare ciò che Said aveva invocato sotto il segno dell’“utopia”: “con utopico intendiamo mondano, possibile, ottenibile, conoscibile” (Said 1999). Vedi anche
Quattrocchi 2004.
4
Per la presenza ispiratrice di Said nella rilettura contemporanea della letteratura, cultura e politica americana, cfr. Spivak 2000 e Arac 2000.
5
Secondo Bové 2000, sin da Beginnings, Said “si è coinvolto nella riformulazione delle forme delle narrative dominanti della modernità, le loro formetemporali e strutture lineari filiative insieme ai loro contenuti ingannevoli e violenti, i loro racconti della supremazia europea, dell’impossibilità… di immaginare un mondo senza impero”, p. 3.
6
Cfr. Said 1995. Per l’influsso sui media americani, vedi Rashid 2000.
7
La parola è usata nel senso indicato dallo stesso autore: “ciò che ritorno
significa per me è ritornare a se stessi; cioè, un ritorno alla storia, così da poter
comprendere ciò che è successo esattamente, perché è successo, chi siamo noi”
(Rose 2000, p. 27).
8
Si segua il dialogo intensissimo tra il critico e la psicoanalista, femminista
ed ebrea, già in Rose 2000.
Edward Said. Teorie in movimento: oltre il
cosmopolitismo
Sandra Ponzanesi
Dotato di una forte personalità carismatica, Said va
annoverato tra i maggiori pensatori del ventesimo secolo.
La sua scomparsa nel settembre del 2003, in parte annunciata, ha lasciato un grande vuoto intellettuale, politico e umano. Oltre che brillante accademico, e appassionato fautore della causa palestinese, Said era infatti anche
una celebrità televisiva e un virtuoso musicista. Il conforto della sua educazione coloniale in Egitto prima e prestigiosa vita accademica americana dopo si è sempre alternato all’instabilità di una vita all’insegna dell’esilio, della lotta politica e della malattia. Il suo pensiero di impronta umanistica, nonostante alcuni sprazzi poststrutturalisti, si caratterizza per la forte natura comparatistica
che ha portato a sfidare tradizionali confini disciplinari,
storici e territoriali.
Non credo ci sia un articolo più esemplare di Traveling
Theory (traducibile come Teorie in movimento) per esprimere l’eredità intellettuale di Said (Vico, Auerbach, Gramsci, Foucault) e la sua posizione critica. Apparso originariamente nel «Raritan Quarterly» (1982), questo articolo
è stato successivamente incluso nel volume The World, The
Text and The Critic (1984) ed è diventato una specie di articolo “cult”, spesso ristampato in varie antologie, e ampiamente citato e adattato sia nel campo letterario che

SANDRA PONZANESI
politico. La risonanza di questo articolo nei discorsi critici contemporanei, come il postcolonialismo, permette di
riflettere sulla desiderabilità e sull’idoneità del pensiero occidentale per esprimere posizioni culturali e politiche altre, come la resistenza e la sovversione anti-coloniale. Serve inoltre a focalizzare l’attenzione sulla necessità di radicalizzazione di alcune teorie del pensiero occidentale allo
scopo di evitare forme di dogmatismo e totalitarismo.
Il discorso sulle teorie in movimento, sia nel tempo che
nello spazio, offre importanti punti di confluenza con il
soggetto cosmopolita indicato da Said con il termine
“mondialità” (worldliness). Fa riferimento a forme discorsive fortemente basate sulla realtà materiale, alla necessità di leggere ogni testo come parte di un più grande
contesto storico, politico e ideologico, all’incitazione a
rompere con i ghetti disciplinari ed evitare il culto del
professionalismo che trasforma gli studiosi in specialisti
miopi e provinciali. La “mondialità” e l’internazionalismo
sono necessari non solo per sprovincializzare il pensiero
ma anche per comprendere i grandi contesti globali che
sono alla radice di tanti eventi locali. In senso più ampio
fa riferimento al bisogno di un’umanità universale che sia
fermamente radicata in un’appartenenza territoriale. Letterarietà e universalità formano quindi in Said una specie
di binomio esplosivo in continua tensione: scrittura come
forma di appartenenza, ma anche scrittura come forma di
violenza. L’ultimo punto fa riferimento al sapere occidentale costruito per dominare e sostenere le pratiche imperialiste (cfr. Said 1993). Gli archivi delle grandi università
occidentali sono basati su una forma di acquisizione del
sapere orientalistica, che mira a inventare e appropriare le
culture altre (cfr. Said 1978). Studiare questo tipo di archivi significa partecipare alla politica di dominio. Con
questa visione Said è diventato il motore intellettuale e politico degli studi postcoloniali che propongono una continua interrogazione dei cosiddetti testi della cultura oc-
EDWARD SAID. TEORIE IN MOVIMENTO

cidentale, alla ricerca non solo degli spazi e delle voci soppressi ma anche di quella “worldliness” (mondialità) dettata da nuove posizioni di lettura e intertestualità1.
Teorie in movimento I
In Traveling Theory Said osserva come le teorie viaggino
da un posto all’altro e da un momento storico all’altro, e
analizza le conseguenze di tale transizioni. Utilizzando come esempio la teoria della reificazione del critico marxista György Lukács, Said argomenta che le teorie si sviluppano come risposta a precisi momenti storici e a specifiche ragioni sociali. Una volta che le teorie si muovono
dal loro punto di origine il potere e la ribellione a loro connesse svanisce a causa del processo di addomesticazione,
astoricizzazione e assimilazione (spesso al modello accademico predominante e ortodosso della cultura di arrivo).
Dodici anni dopo Said ritorna sulla sua posizione (Traveling Theory Reconsidered, Teorie in movimento II) e avanza un’altra possibilità: che una teoria in movimento può
anche essere reinterpretata, e quindi rinvigorita, da una
nuova situazione geografica e politica. Said fa riferimento a Frantz Fanon e Adorno, entrambi influenzati dal pensiero di Lukács.
Come per gli esseri umani e le scuole di pensiero, le idee e
le teorie si spostano – da persona a persona, da situazione a
situazione, da un periodo all’altro. La vita culturale ed intellettuale si nutre di, e viene sostenuta da, questa circolazione di idee. Sia che prenda la forma di influenza riconosciuta o inconscia, prestito creativo o pura appropriazione,
il movimento delle idee e delle teorie da un posto all’altro è
sia un fatto di vita che un utile favoreggiamento dell’attività
intellettuale. Bisogna però precisare il tipo di movimenti
possibili in modo da chiedersi se attraverso lo spostamento
da un posto all’altro e da un periodo all’altro, una determi-

SANDRA PONZANESI
nata teoria o idea acquisisce o perde forza, e se una teoria di
un certo periodo storico e cultura nazionale diventa del tutto diversa da un altro periodo o situazione (...). Questi movimenti in un nuovo ambiente non avvengono mai senza
ostacoli. Riguardano necessariamente processi di rappresentazione e istituzionalizzazione diversi da quelli del punto di origine. Ciò complica il resoconto del trapianto, trasferimento, circolazione e commercio delle teorie e delle
idee (Said 2001, pp. 195-196).
Said ricorre a György Lukács per spiegare l’origine
della sua propria teoria. Il testo di Lukács, Storia e Coscienza di Classe (1923) è diventato celebre per l’uso del
concetto di reificazione, “un fato universale che affligge
tutti gli aspetti della vita in un’epoca dominata da prodotti
e feticismo” (p. 199). Secondo Lukács il capitalismo ha trasformato ogni essere umano in un prodotto, in un oggetto alienato e disconesso, da qui la teoria della separazione radicale tra soggetto e oggetto. Il tempo perde la sua
qualità fluida e diventa delimitato, quantificabile; in breve, diventa spazio. In queste condizioni il tempo diventa
astratto e misurabile e il soggetto del lavoro diventa allo
stesso modo razionalmente frammentato e oggettificato.
La disintegrazione meccanica distrugge in breve tempo il
legame tra individuo e comunità, che era ancora presente
con la produzione organica, rendendo il soggetto sempre
più divorziato dalla realtà della vita industriale moderna.
Secondo Lukács il proletariato rappresenta l’antitesi teorica al capitalismo e diventa per il critico ungherese la figura per sfidare la reificazione:
la mente che afferma il suo potere sulla pura materia, la coscienza che reclama il suo diritto teorico di postulare un
mondo migliore al di fuori di quello costituito da semplici
oggetti. E poiché la coscienza di classe deriva da lavoratori
che lavorano e che sono coscienti di sé stessi in quanto tali,
la teoria non deve mai perdere contatto con le sue origini nella politica, società ed economia (Said 2001, p. 202).
EDWARD SAID. TEORIE IN MOVIMENTO

La maggiore preoccupazione di Said consiste nel temere
che le teorie sradicate dal loro contesto storico e geografico si possano facilmente trasformare in dogmi all’interno
di un nuovo contesto. Appropriate da scuole e istituzioni,
esse assumono facilmente lo stato di autorità all’interno del
gruppo dominante. Said illustra la sua tesi analizzando come l’applicazione delle teorie rivoluzionarie di Lukács in
un altro contesto storico e territoriale – attraverso Lucien
Goldman in Francia e Raymond Williams a Cambridge –
abbia perso parte della sua forza sovversiva.
Anche se devono essere distinte da dogmi culturali più
pesanti come il razzismo e il nazionalismo, le teorie in
movimento diventano insidiose. La loro origine di avversità, opposizione e radicalismo appiattisce la coscienza
critica, ancora convinta del carattere insorgente, radicale
e sovversivo di queste teorie. Paradossalmente, invece,
una volta che le teorie in movimento acquisiscono l’autorità e il prestigio del tempo, diventano ortodosse e dogmatiche.
Teorie in movimento II
Nel 1994 Said rivisita la sua teoria in Teorie in movimento II (Traveling Theory Reconsidered) pubblicato nel
volume Reflections on Exile (2001, Riflessioni sull’esilio),
convenendo che una teoria in movimento può diventare
sì addomesticata e assimilata ma anche più violenta e rivoluzionaria di quanto non fosse in origine.
Ma cosa succederebbe se alcuni dei lettori di Lukács, completamente influenzati dalla sua descrizione dell’impasse
soggetto-oggetto, non accettassero lo sviluppo conciliatorio
della sua teoria, ed invece, la rifiutassero deliberatamente,
programmaticamente e senza intransigenza? Non sarebbe
questo un modo alternativo per la teoria di muoversi, di andare oltre la sua formulazione originaria, ed anziché diven-
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SANDRA PONZANESI
tare addomesticata come concesso da Lukács con il suo desiderio di tregua e risoluzione, si riaccendesse, per così dire, riasserendo e riaffermando la sua inerente tensione interna
spostandosi in un altro sito?” (Said 2001, p. 438).
Said ricorre ad Adorno e Fanon come modelli di
pensatori resistenti. Philosophie Der neuen Muzik (1948;
Filosofia della musica moderna, 1959) è un ottimo esempio di come le teorie in movimento diventino più dure
e più recalcitranti. Said spiega che Adorno sarebbe inconcepibile senza la grandezza filosofica offerta da Storia e coscienza di classe, ma sarebbe anche impensabile
senza la resistenza opposta al trionfalismo e alla riconciliazione implicita in Lukács. Per Lukács la tensione tra
oggetto-soggetto, frammentazione e dispersione, si consuma nella forma narrativa. Per Adorno la musica moderna deve rappresentare il rigetto totale della sintesi e
della società. Con il suo rifiuto della tonalità, e rigetto
di ogni compromesso tra estetica e commercio, Schoenberg rappresenta per Adorno la figura eroica. La teoria
dodecafonica, o della dissonanza, riafferma l’impossibilità della sintesi. Secondo Adorno la totalità deve essere distrutta perché corrisponde “al sistema chiuso ed
esclusivo della società mercantile”, musica che si offre
al commercio, consumismo e amministrazione (Said
2001, p. 441).
L’altro caso portato avanti da Said nella sua revisione
è Frantz Fanon e Les damnés de la terre (1961, Dannati della terra), sull’oppressione coloniale e l’insorgenza del nazionalismo algerino. L’importanza di Fanon consiste nell’aver trasportato la dialettica soggetto-oggetto oltre i confini europei:
L’intero progetto di Fanon consiste prima di tutto nell’illuminare e poi animare la separazione tra colonizzatore e colonizzato (soggetto e oggetto) in modo da portare alla luce
tutto ciò che è falso, brutale e storicamente determinato per
EDWARD SAID. TEORIE IN MOVIMENTO
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poi stimolare l’azione, e portare allo smantellamento del colonialismo stesso (Said 2001, p. 446).
Per Fanon l’unico antidoto contro la crudeltà del colonialismo è la violenza. Alla logica del colonialismo i nativi devono opporre la stessa implacabile contro-logica. Secondo Fanon non ci può essere liberazione senza violenza. Quindi, a differenza di Lukács, Fanon non crede che
la dialettica oggetto-soggetto possa essere consumata, sintetizzata e trascesa. Per Fanon l’unica soluzione a questa
antitesi è la violenza, poiché nessuna riconciliazione è possibile: “la violenza del regime coloniale e la contro-violenza
dei nativi si bilanciano e si danno risposta con una straordinaria reciproca omogeneità” (Fanon 1961, p. 88).
Il nazionalismo diventa un processo necessario ma non
sufficiente per la liberazione, e viene visto come una specie di malattia temporanea da superare. In questo Fanon
si differenzia da Lukács, sempre secondo Said, poiché
l’opposizione al colonialismo è solo uno stadio iniziale.
L’avvento del nazionalismo sarà sempre imbricato con la
dialettica del colonialismo. Fanon spiega come la nuova
classe dirigente continuerà a perpetrare le violenze del
colonialismo anziché garantire la vera indipendenza. Fanon prende da Lukács l’insoddifazione con la risoluzione
che emerge verso la fine del saggio Class and Consciousness.
Said giunge quindi alla sua nuova conclusione in Teorie in
movimento II:
Lo scopo della teoria è il movimento, l’andare sempre oltre
i propri limiti, emigrare, rimanere in un certo senso in esilio. Adorno e Fanon esemplificano questa profonda irrequietezza nel modo in cui rifiutano la soluzione offerta alla
dialettica Hegeliana, stabilizzata in risoluzione da Lukács –
o il Lukács che sembra parlare per la conscienza di classe come qualcosa che deve essere guadagnato, posseduto e trattenuto. C’era ovviamente anche l’altro Lukács preferito dai
suoi due brillanti rilettori, il teorico della dissonanza per-
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SANDRA PONZANESI
manente nell’interpretazione di Adorno, ed il critico del nazionalismo reattivo, adottato parzialmente da Fanon per
l’Algeria coloniale (Said 2001, p. 451).
Con questa dimostrazione Said vuole rendere l’idea
della dispersione geografica dei concetti teorici. Quando
Adorno usa Lukács per comprendere il posto di Schoenberg all’interno della musica contemporanea, o quando Fanon drammatizza lo scontro coloniale nella lingua della
dialettica europea di soggetto-oggetto, li consideriamo
non semplici fautori di Lukács ma critici che “muovono”
il pensiero di Lukács da una sfera, o situazione storica e
geografica, all’altra. Questi movimenti suggeriscono la
possibilità di attivare le teorie in diversi siti, posti e situazioni, evitando facili universalismi o generalizzazioni. Non
si può parlare in questo caso di prestito o trasposizione ma
di affiliazione, che consiste nel desiderio di scoprire dove
è andata una teoria e come durante il viaggio la sua sostanza si sia rinvigorita e riaccesa.
Oltre il cosmopolitismo
In un certo senso, le teorie in movimento auspicate da
Said sono molto simili al concetto del soggetto nomade di
Gilles Deleuze che spesso appare in associazione con il
pensiero post-strutturalista. La principale proposizione ontologica derivante da questo paradigma intellettuale consiste nell’idea di un soggetto de-centrato, fluido, frammentato
e provvisorio che quindi interroga e scardina la nozione della formazione unitaria di un soggetto omogeneo e universale. Si riferisce all’opposizione al potere centrale più che a
un concetto letterale di viaggio o movimento territoriale.
Questa forma di nomadismo sembra una versione postmoderna del concetto modernistico di cosmopolitismo
(worldliness) usato da Said, che rimane in tensione tra
EDWARD SAID. TEORIE IN MOVIMENTO
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l’universale e il particolare, tra l’idea di un umanesimo che
esiste al di là dei confini e delle transizioni storiche, e il bisogno di destabilizzare e risituare ogni concetto e teoria nel
suo contesto storico e geografico. Per Said il cosmopolitismo è una forma di esilio; non soltanto una concezione
esistenziale ma anche una posizione intellettuale per definire il particolare nel globale. Per Said è possibile pensare, immaginare e analizzare come se si fosse in esilio senza esserlo fisicamente. In questo contesto la condizione
dell’esilio diventa una metafora, e non solamente una condizione materiale, per esprimere la posizione al di fuori delle istituzioni e contro le attitudini intellettuali dominanti
e i discorsi che preservano e perpetuano lo status quo. L’esperienza dell’esilio consiste nel rimanere “al di fuori della norma, non sistemato, non aggregato e resistente (...).
L’intellettuale in esilio non risponde alla logica convenzionale ma all’audacia della sfida e alla rappresentazione
del cambiamento, del muoversi oltre, del mai restare fermi” (Said 2001, p. 46).
Questa ultima nota sembra un monito contro la tentazione del rilassamento intellettuale. L’atteggiamento di
costante consapevolezza rappresenta una forma di continua tensione. Adorno viene indicato come modello di esilio poiché la sua esperienza viene rappresentata in termini di tensione senza tregua. Neanche la scrittura può diventare una forma di residenza o di accomodamento. Questo coincide con la pratica intellettuale di Said che consiste appunto nel costante attraversamento dei confini, nel
grande interventismo dell’attività transdisciplinare, nella
costante consapevolezza della situazione politica, metodologica, sociale e storica in cui l’intellettuale si muove e
lavora. L’impegno politico e metodologico è necessario per
lo smantellamento dei sistemi di dominio, che devono essere combattuti collettivamente, usando nel linguaggio di
Gramsci la guerra di posizione, la guerra di manovra, la
guerra di assedio.
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SANDRA PONZANESI
Vivere in esilio sembra aver esemplificato per Said il
modo migliore di praticare le teorie in movimento, applicando la ricerca personale a quella accademica, impegnandosi non solo ad andare oltre i confini e le categorie
ma anche nel riposizionamento della politica di rappresentazione del sé. È per questa ragione che per Said storia, letteratura e geografia sono sempre inestricabilmente
legate. Nel suo saggio, History, Literature and Geography
(Storia, Letteratura e Geografia) inserito nel volume Riflessioni sull’esilio subito dopo il suo Traveling Theory Reconsidered, Said riconosce ad Antonio Gramsci il grande
merito di avergli indicato le grandi connessioni tra territorio e coscienza umana:
Vorrei presentare il caso di Gramsci come colui che ha creato nel suo lavoro una comprensione essenzialmente geografica e territoriale della storia e società umana, anche se come Lukács è irrefutabilmente attaccato alla nozione della dissonanza come elemento centrale della coscienza moderna
(...). Molto più di Lukács [Gramsci] era politico nel senso
pratico, considerando la politica come una gara contro la storia, sia attuale che passata, che deve essere vinta, combattuta, controllata, tenuta, persa, guadagnata (Said 2001, p. 464).
La contraddizione del pensiero critico di Said consiste
nel sostenere la nozione di un umanesimo universale contro il bisogno di difendere la specificità culturale. La sua
nozione di “worldliness” (mondialità, cosmopolitismo) è
di per sé molto complessa, e riflette l’approccio contrappuntistico applicato da Said alla lettura dei testi letterari
per esprimere sia la bellezza dei grandi testi canonici occidentali che la loro implicazione in forme di potere non
eque, e per estensione sia l’esilio che la territorialità, sia il
pensiero umanistico che il suo smantellamento2. La metafora musicale del contrappunto permette di esprimere
lo stato di tensione: quel che di permanente, contraddittorio e in tensione dialettica è presente nella società e al-
EDWARD SAID. TEORIE IN MOVIMENTO

l’interno del sé sradicato e interrotto. Questa idea di irriducibilità connota la definizione di “worldliness” (mondialità), un modo di essere nel mondo, un intellettuale
impegnato che teorizza la pratica dell’oltrepassare i confini, sia territoriali che disciplinari e ontologici, mentre lotta per il riconoscimento dello Stato della Palestina, un intellettuale che apprezza e protegge il canone occidentale,
e la cultural high brow europea come tragitto verso il riconoscimento delle scritture e dei mondi altri.
Seguendo le varie definizioni di cosmopolitismo, discrepante (Clifford), multiplo (Robbins), minoritario
(Bhabha), critico (Mignolo) possiamo considerare la nozione di “worldliness” di Said come la pratica di nomadizzare se stesso e come l’attività intellettuale che pone l’accento esilico sulla nostra visione del mondo contemporaneo, nello spazio e nel tempo, e perciò in una tensione che
richiede l’oltre di quella irriducibile tensione che Said tanto ammirava in Adorno e Fanon. La filosofia delle teorie
in movimento non era quindi per Said una semplice posa
radicale ma uno stile di vita, rischioso, contraddittorio e
perennemente in movimento.
1
Si veda al riguardo la sofisticata critica decostruzionista di Gayatri Spivak
(Spivak 2003, pp 3-32); ma anche Burton 2006.
2
Con critica contrappuntistica Said fa riferimento alla cultura europea che
deve essere interpretata tenendo presente la sua relazione geografica e spaziale con
l’impero ma anche in contrapposizione alle opere che i colonizzatori stessi hanno prodotto in risposta alla dominazione coloniale. Si veda al riguardo Said 1993.
Non arrivo a mani vuote. Tragitto da sud di
Ahdaf Soueif
Marta Cariello
Nel 1992 esce in Inghilterra In the Eye of the Sun, il primo romanzo della scrittrice egiziana Ahdaf Soueif. Soueif
nasce in Egitto ma conduce la sua esistenza a metà tra
mondo arabo e mondo europeo, scegliendo di scrivere in
inglese e spostandosi continuamente tra le sponde del mare che divide e unisce il continente africano e l’Europa. Come tanti altri scrittori che si muovono “a cavallo” tra più
lingue e più culture, Ahdaf Soueif tesse a ogni passaggio
la tela intricata attraverso cui i due continenti si guardano e si toccano.
Come l’autrice, anche la protagonista di In the Eye of
the Sun è sospinta da un movimento continuo tra Egitto
e Inghilterra; si trova a vivere in un vero e proprio stato
di traduzione, divenendo portatrice di quel segno rinviato a infinita differenza che la mescolanza, la migrazione,
l’essere sempre altro e altrove producono. A proposito del
romanzo di Soueif e della sua umanissima protagonista
Asya, Edward Said (2002, p. 409) scrive:
In the Eye of the Sun si può definire un romanzo arabo in inglese? La risposta è sì, e non solo perché l’eroina, la sua famiglia, gli amici e lo sfondo su cui si svolgono le azioni sono arabi. Attraverso il ritratto di Asya, tracciato sempre con
sottili giochi di luci ed ombre, Soueif riesce nel tentativo di

MARTA CARIELLO
rifinire uno stile che risulta del tutto anfibio; vale a dire, non
la diligente traduzione di un originale arabo, ma uno stile inequivocabilmente autentico, caparbio, idiomatico, e, senza
dubbio, arabo. A momenti ornato, telegrafico, allusivo, quasi comicamente spedito, barbaro, doloroso, lirico, sbilenco,
e agile, questo inglese è riconducibile solo e unicamente ad
Asya: decisamente non un simbolo o un’allegoria della donna araba, ma una sensibilità egiziana nel mezzo di un Occidente cui non appartiene completamente, una figura rifinita in ogni sua sfaccettatura nella scrittura, per quanto impossibilmente situata.
Nel mezzo di un tortuoso percorso emotivo, una vera
e propria “educazione sentimentale” sullo sfondo dei suoi
alquanto noiosi studi post-laurea, Asya si trova a Londra,
davanti al Tamigi. Dopo aver stilato un piccolo elenco
delle cose che Londra, l’Inghilterra e il mondo anglofono
in generale le hanno offerto, Asya dichiara, tuttavia, di non
arrivare a mani vuote:
Non potete scrollarvi di dosso la responsabilità della mia esistenza, né del mio essere qui, oggi – sulla sponda del vostro
fiume. Ma non sono venuta solo a prendere, non arrivo a mani vuote: porto poesia immensa come la vostra, ma in un’altra lingua, porto occhi neri e pelle dorata e capelli ricci, porto l’Islam e Luxor e Alessandria e liuti e tamburi e palme da
dattero e tappeti di seta e sole e incenso e modi voluttuosi…
(Soueif 1992, p. 512).
Queste parole raccontano lo scambio insito in ogni
migrazione, ciò che ogni migrante, qualsiasi sia il motivo
che lo spinga a migrare, porta con sé: il suo bagaglio umano, culturale e anche fisico, corporeo, somatico: pelle
iscritta, lingua di altre storie, quella “differenza culturale”
che, scrive Homi Bhabha, “come forma d’intervento partecipa di una logica supplementare della secondarietà simile alle strategie del discorso della minoranza” (Bhabha
1990, p. 500). Ciò che il migrante, lo straniero, “l’altro”
NON ARRIVO A MANI VUOTE

porta con sé è la supplementarietà della propria prospettiva, il luogo da cui enuncia la propria esistenza: luogo non
statico, ma partecipe anch’esso del moto migratorio. E
infatti Bhabha sottolinea quanto sia destabilizzante per la
narrazione univoca e unitaria dell’Occidente la posizione,
il luogo da cui e in cui si articola la differenza culturale,
un punto di partenza supplementare che dunque moltiplica i punti di vista:
[L]’analisi della differenza culturale contribuisce a trasformare lo scenario stesso della manifestazione, e non si limita
a turbare le ragioni della discriminazione. Essa cambia la posizione di enunciazione e le relazioni cui ci si riferisce al suo
interno – non soltanto ciò che è detto ma il luogo da cui è
detto, non solo la logica della manifestazione ma il topos
stesso dell’enunciazione. L’obiettivo della differenza culturale è di ri-articolare la somma di conoscenze dalla prospettiva della singolarità significante dell’“altro” che resiste alla
totalizzazione – la ripetizione che non si trasforma nell’identico, la carenza originaria che dà luogo a strategie politiche e discorsive in cui l’aggiungere-a non significa sommare,
ma serve a turbare il calcolo del potere e della conoscenza
producendo altri spazi di significazione subalterna (ib.).
Nelle parole di Bhabha riecheggia la singolarità che
Said richiama per descrivere Asya, il suo linguaggio, la sua
irriducibile differenza. Bhabha introduce, però, anche la
nozione di movimento, o meglio di prospettiva in movimento, portata dal migrante con sé e su di sé, sul proprio
corpo in rotta verso approdi di speranza, novità, delusioni, dispersioni: il tragitto da un sud metafora di povertà e
dipendenza; tragitto da sud di un’idea, di un edificio culturale e di un corpo errante. L’idea è che il tragitto non finisca, sia perpetuo, sia una condizione d’essere. L’edificio
culturale è quello che si snoda nelle architetture del femminile, del femminismo, del maschilismo, del sessismo:
l’articolazione e la costruzione culturale dei generi. Il cor-

MARTA CARIELLO
po errante è quello della migrante, incarnato in questo caso da una scrittrice egiziana che sceglie di scrivere in inglese, come Ahdaf Soueif.
Molto più di un punto cardinale o di un’indicazione
geografica, il concetto di “Sud” è un luogo della mente,
dell’immaginario collettivo, occidentale e non, che si estende e pervade fisicamente tutto il globo ormai. La separazione tra nord e sud – intesa evidentemente come distinzione tra “ricchi” e “poveri” del mondo – esiste nelle funzioni sociali e politiche che la ricchezza e la povertà producono, esiste nella categorizzazione culturale funzionale alla legittimazione identitaria di chi nel mondo detiene
più potere finanziario. La separazione verticale del mondo, però, non esiste e non regge dal punto di vista fisico:
essa stessa, infatti, ha innescato un movimento di masse che
migrano e disseminano “il sud” in giro per il mondo. Si dovrebbe parlare, in questo caso, non tanto di “tragitto da
sud,” ma di “tragitto del sud”.
Insita nella spaccatura verticale della società capitalistica globale, la nozione gramsciana di subalterno si fa anch’essa meno collocabile, in una nuova distribuzione concettuale e territoriale. Subalternità transnazionale, economica e culturale ma, anch’essa, messa in movimento, in un
tragitto che viene dal sud e porta il sud dentro di sé.
La partenza, dunque, è dalla messa in prospettiva, dalla relativizzazione, mai troppo ovvia, della ricchezza, che
non esiste senza la povertà; il nord non esiste senza il sud,
“io” non esisto senza “l’altro”. Enfasi sul territorio, il sito
specifico e l’assetto geografico che, scrive Said, è alla base degli studi sulla questione meridionale di Gramsci:
Un esplicito modello geografico ci è offerto dal saggio di
Gramsci Alcuni temi della quistione meridionale. Assai poco letto e studiato, è l’unico studio di analisi politica e culturale scritto da Gramsci (sebbene non lo abbia mai terminato); l’autore cerca di dare una risposta ai suoi compagni
che gli hanno posto l’interrogativo, drammatico sia per l’a-
NON ARRIVO A MANI VUOTE

zione che per il pensiero, su come pensare, intendere e studiare l’Italia meridionale, visto che la sua disgregazione sociale la faceva apparire incomprensibile eppure paradossalmente fondamentale per una comprensione del nord. La
brillante analisi di Gramsci va oltre il significato tattico che
aveva tale questione per la politica italiana nel 1926, dal momento che costituisce il culmine della sua attività giornalistica
fino a quel momento e d’altra parte prelude ai Quaderni nei
quali, a differenza del suo grande contemporaneo Luckás,
egli mette a fuoco le fondamenta territoriali, spaziali e geografiche della vita sociale (Said 1993, p. 74).
La tensione bidirezionale che affiora lungo il confine
tra gli spazi del benessere e quelli della penuria costituisce il moto caratteristico di quest’epoca di mondializzazione. In una direzione, si spinge ciò che Gramsci individua come egemonia – l’imperialismo culturale saidiano –,
quel movimento penetrante che, come Gramsci aveva descritto perfettamente, “istruisce” attraverso apparati culturali il subalterno; in direzione opposta, le classi subalterne, proprio a causa delle condizioni economiche a servizio delle quali l’egemonia culturale funziona, si spostano in massa e “invadono”, destabilizzano, disturbano la
cultura egemone. Il sistema economico mondiale attuale,
dunque, vacilla nella sua stessa funzionalità: l’economia
non è unilateralmente tesa a un benessere sempre maggiore
(per chi la predica): la stessa parola, lo stesso sistema, significa contemporaneamente ricchezza e povertà, vita e
morte, tranquillità e turbamento. La destabilizzazione prodotta dalla presenza del subalterno sul territorio occidentale è proprio questa: essa porta con sé l’innegabile evidenza fisica del fatto che la povertà non è un effetto collaterale dell’economia mondiale, ma piuttosto parte integrante di essa; il lemma “economia” diventa costellazione
incontrollabile di singolarità irriducibili.
Said stesso, come si è visto, spiega come il modello
geografico e territoriale dell’analisi politico-culturale di

MARTA CARIELLO
Gramsci sia leggibile tenendo in mente non solo lo specifico storico e locale della questione meridionale italiana,
ma più in generale guardando all’interrelazione dei territori e delle mappe economiche e geografiche dell’umano.
Nello studio delle espressioni culturali umane risultano
dunque fondamentali i territori, i terreni, i punti della
geografia da cui esse provengono e quelli con cui si sovrappongono, l’inscindibilità della cultura imperiale dalle mappe dell’impero, e insieme l’inseparabilità dei diversi pezzi che compongono le mappe stesse:
Il problema è quindi come collegare il sud, la cui povertà e
la cui vasta manodopera disoccupata sono fortemente esposte alle politiche economiche e ai poteri del settentrione,
con un nord che a sua volta in realtà dipende dal sud (Said
1993, pp. 74-75).
La messa in prospettiva, del nord dipendente dal sud
e viceversa, è fondamentale nella lettura dei rapporti globali odierni e della cultura che circola, continuamente in
migrazione. Il sud migra, diventa nozione relativa, e difatti
non appare più fermo – paradosso del punto cardinale in
movimento – ma pervasivo e continuamente ridistribuito:
modello geografico in cui i punti cardinali si muovono,
spingendosi a vicenda nel ribadire la loro interdipendenza. La spinta reciproca dei punti cardinali, vasi comunicanti della cultura globale, si gioca tutta su quei “territori sovrapposti” di cui scrive proprio Said: luoghi in cui il
potere sovrano di nominare e legittimare la letteratura
dell’umano, oggi, sono interrogati dalla parola che viene
dal sud (Said 1993).
Si ritorna, dunque, alla parola – la parola scritta in
questo caso: tutta una costellazione di parole e narrazioni che, di fatto, mettono in movimento il sud, e di conseguenza il nord. Bussando alla porta e infiltrandosi in modo pervasivo, marcando, quasi, tutta la dimora della letteratura dei paesi colonizzatori, si scrive un tragitto del sud
NON ARRIVO A MANI VUOTE

che chiama, domanda e interrompe la grande narrativa occidentale, l’idea che l’Europa ha del sud e soprattutto di
se stessa – ciò che Said ribadisce, citando Denys Hay, come “idea d’Europa” (Hay 1957; Said 1978, p. 7), e che si
trova a essere, oggi, di estrema attualità.
Ahdaf Soueif, nel suo romanzo, ci ha detto: “non arrivo a mani vuote”. La ascoltiamo attraversare frontiere tra
nord e sud e tradurre corpi che si trovano a migrare, posati nell’interstizio tra lingue e culture. Può essere luogo
di negoziazione identitaria, il tragitto del corpo postcoloniale. Esso è tradotto, trans-dotto, portato al di là. Così, il
corpo di Asya, la succitata protagonista di In the Eye of the
Sun, si trova a negoziare la propria identità di genere e di
etnia nel percorso che attraversa il Mediterraneo e tutta
l’Europa, fino all’Inghilterra, ripercorrendo a ritroso la rotta della colonizzazione inglese, percorrendo un tragitto da
sud. La protagonista del romanzo si trova a portare addosso la propria pelle come manto di sensualità, che si impregna dei dettami del proprio paese, l’Egitto, e degli imperativi culturali dell’orientalizzazione inglese. Resta nel
mezzo, desiderando, gemendo e toccando la propria corporeità in un erotismo della traduzione, dove la lingua suscita il desiderio del movimento, ma anche il dubbio della comunicazione.
Quando Asya, verso la fine del romanzo, torna al Cairo per insegnare letteratura inglese all’università dopo un
lungo soggiorno in Inghilterra, si trova davanti una studentessa, velata, che non parla, perché, come in qualche
raro caso accade, estende alla voce il dettame religioso di
celare le parti potenzialmente provocanti del proprio corpo (dette “awra”)1. Dinanzi a lei, Asya si sente messa sorprendentemente in prospettiva, sotto occhi a lei familiari
e distanti allo stesso tempo. Ciò che Asya conosce come
semplice gesto comunicativo – parlare dal podio della cattedra – diventa un inaspettato spettacolo pornografico
vocale; ciò che questa donna porta nel suo bagaglio di mi-
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MARTA CARIELLO
grante la spinge ad abitare un luogo dalla prospettiva del
tutto mobile:
La voce della donna è awra. Certo, lo aveva sempre saputo
in via teorica, ma non aveva mai incontrato qualcuno che ne
fosse la prova vivente. Quindi, stando a questa ragazza – e
alle altre che la pensavano così – lei stava dando una sorta
di spettacolo pornografico dal podio della cattedra, un’attrazione aperta a tutti. (…) Se avessero saputo – se avessero
guardato dalla finestra della sua casa in Inghilterra e avessero
visto un uomo biondo, dagli occhi azzurri, inginocchiato, davanti alle sue gambe… (Soueif 1992, p. 754).
Il corpo di Asya è corpo di donna araba, così tanto
menzionato oggi, preso a pretesto di tanti altri sottotesti
culturali, politici ed economici, e Asya stessa getta interrogativi su principi che sembrano saldi nel loro progressismo inappellabile. Così, ad esempio, quando in un punto del romanzo si discute di poligamia, Soueif problematizza il discorso attraverso le parole della sua protagonista:
“Non dico che ‘credo’ nella poligamia, dico solo che è un dato di fatto” (…) “Se è la norma, dovremmo iniziare ad accettare il fatto che lo sia e non guardare coloro che fanno parte di questa norma con superiorità. Poi, se vogliamo, possiamo cercare di capire perché è la norma, quali sono le circostanze in cui è divenuta tale, come continui ad esserlo…”
(Soueif 1992, p. 401).
Sulla complessità delle questioni di genere in rapporto al colonialismo, la studiosa Judith E. Tucker scrive:
[L’] intrecciarsi dei discorsi di genere e di quelli anti-imperialisti nel mondo arabo ha una lunga storia. I poteri coloniali ed imperiali europei che sono intervenuti nel mondo
arabo nel diciannovesimo secolo e all’inizio del ventesimo
hanno spesso sostenuto che l’emancipazione delle donne
fosse una questione di particolare interesse per loro – non-
NON ARRIVO A MANI VUOTE

ché una giustificazione – per il loro intervento e il loro dominio (Tucker 1993, p. X).
Nei discorsi anti-imperialisti, l’autodeterminazione, la
ricerca dell’autenticità culturale e la distinzione tra il “loro” e il “noi” affondano le radici in usi e tradizioni per cui,
ad esempio, il “culto della domesticità” della donna e del
suo corpo può assumere un’importanza cruciale come
simbolo e strumento di resistenza (Tucker 1993). Migrano, e compiono il tragitto da sud, dunque, anche gli edifici culturali del femminile, quello del patriarcato, e del
femminismo. Il femminismo dei paesi ex colonizzati porta con sé tutta la specificità storica di aver sempre dovuto dialogare con il movimento di resistenza e la lotta anticolonialista. Racconta, pertanto, questo femminismo (o
questi femminismi), un tragitto che non può essere trasposto nel contesto occidentale, piuttosto anch’esso, nella traduzione culturale operata da scrittrici come Ahdaf
Soueif, irrompe e interroga il percorso su cui si muove.
La traiettoria su cui si spostano il concetto di sud e la
costruzione culturale dei generi è la stessa percorsa dal corpo migrante postcoloniale. La definizione, come da dizionario, della parola “traiettoria” ci racconta che essa è
la “linea percorsa da un corpo grave scagliato con forza”
(Pianigiani 1993): corpo postcoloniale gettato nella traduzione, lungo il percorso che da sud ritorna ancora altrove.
1
La radice araba “awra” include, nelle sue diverse forme verbali e nominali, un insieme complesso di significati tra cui “essere guercio, perdere un occhio; danneggiare; prestare, concedere; prendere a prestito; usare in senso metaforico (una parola), fingere; difettosità, manchevolezza; punto debole, genitali; imperfezione, mancanza” (Vocabolario Arabo-Italiano, 1966). Cfr. la Surah
al-Nur ayah 31 del Corano, sovente citata, nelle discussioni sul velo e in generale sui precetti coranici in materia di abbigliamento). Per un’osservazione sulla complessità del significato di tale termine, cfr. Ahmed 1992, p. 116.
L’“umanesimo assoluto” di Gramsci, ovvero il
nesso egemonia-nonviolenza oggi
Pasquale Voza
I. Vorrei partire da un passo assai stimolante di una lettera di Gramsci, del 6 marzo 1933, indirizzata alla cognata Tania, in cui il “prigioniero” parla della sua vita carceraria e di ciò che essa potrebbe produrre su di lui:
(…) immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno. Prima del naufragio, come è naturale, nessuno dei futuri naufraghi pensava di diventare … naufrago e quindi tanto meno pensava di essere condotto a commettere gli atti che
dei naufraghi, in certe condizioni, possono commettere, per
esempio, l’atto di diventare … antropofaghi. Ognuno di costoro, se interrogato a freddo cosa avrebbe fatto nell’alternativa di morire o diventare cannibale, avrebbe risposto,
con la massima buona fede, che, data l’alternativa, avrebbe
certamente scelto di morire. Avviene il naufragio, il rifugio
nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati
i viveri, l’idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale. Ma in realtà si tratta
delle stesse persone? Tra i due momenti, quello in cui l’alternativa si presentava come una pura ipotesi teorica e quella in cui l’alternativa si presenta in tutta la forza dell’immediata necessità, è avvenuto un processo di trasformazione
“molecolare” per quanto rapido, nel quale le persone di pri-
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PASQUALE VOZA
ma non sono più le persone di poi e non si può dire, altro
che dal punto di vista dello stato civile e della legge (che sono, d’altronde punti di vista rispettabili e che hanno la loro
importanza) che si tratti delle stesse persone. Ebbene, come
ti ho detto, un simile mutamento sta avvenendo in me (cannibalismo a parte) (Gramsci 1965, pp. 757-758).
A me pare che, se pur è vero che Gramsci qui parla del
potere carcerario, non del potere tout court, si possa estendere la sua nozione di “processo di trasformazione molecolare” per indagare, a livello individuale e collettivo, gli
effetti di quel prometeismo (in un certo senso, di quel potere) della politica, che è stato un tratto costitutivo di tanta parte della politica del Novecento, anche delle tradizioni
e culture della sinistra.
D’altro canto, nei Quaderni, la riflessione gramsciana
sul ruolo della soggettività (“come nasce il movimento
storico sulla base della struttura”) implica sempre una critica serrata del concetto di “uomo in generale” e di “natura umana”. Gramsci afferma che nel marxismo (in quel
marxismo che egli andava ridefinendo e sviluppando) i
concetti di “uomo in generale” e di “natura umana”, intesa come immanente in ogni uomo, sono rifiutati alla radice in quanto intrinsecamente dogmatici. Ciò vuol dire
che il vero umanesimo, o, come egli lo chiama, l’“umanesimo assoluto” (absolutus, sciolto cioè da ogni vincolo o legame metafisico e/o idealistico) si può raggiungere solo rinunciando a ogni filosofia dell’uomo, come a ogni concezione idealistica della storia, a cui, non a caso, egli contrappone la sua nozione critica di storicismo assoluto o integrale: “La filosofia della praxis è lo “storicismo” assoluto,
la mondanizzazione e terrestrità assoluta del pensiero, un
umanesimo assoluto della storia. In questa linea è da scavare il filone della nuova concezione del mondo” (Gramsci 1975, p. 1437).
Ora, il prometeismo della politica si dà quando la politica, anche la politica rivoluzionaria, viene concepita non
L’“UMANESIMO ASSOLUTO” DI GRAMSCI
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come teoria del movimento e della trasformazione sociale, ma come teoria della conquista e della gestione del potere: questo poi ha contribuito a determinare anche, insieme a molti altri fattori, il carattere e la curvatura statalista (la “statolatria”, per usare l’espressione gramsciana)
di gran parte delle tradizioni comuniste del Novecento.
Una politica così intesa è intrinsecamente (potenzialmente ma intrinsecamente) violenta (anche a prescindere
dall’uso di strumenti di repressione e di oppressione): è
violenta nel senso giacobino-autoritario del termine ed è
capace di produrre trasformazioni molecolari in coloro che
la vivono o la subiscono. Un primato della politica (una parola, una formula, così cara a tanta tradizione comunista)
che spesso è diventato autonomia, molto mimetica nei
confronti dell’autonomia borghese della politica. Il primato che si converte nell’autonomia: il confine si è rivelato, storicamente parlando, assai labile. Qui, dentro questa
dimensione, può accadere che i mezzi vengano continuamente mangiati dal fine, che ogni mezzo si ritenga in fondo lecito o indifferente rispetto a un fine, assunto autonomamente e giacobinamente come preminente e assoluto. A tale riguardo, si può pensare (sia pure di passaggio)
alla complessa questione della cosiddetta “transizione” al
socialismo, connessa con il dramma della costruzione del
socialismo in un paese solo, emerso subito dopo l’ottobre
del ’17. Come è stato osservato, si è trattato di una singolare “transizione di secondo grado”, vale a dire una transizione al socialismo, che a sua volta doveva rappresentare, poi, un’ulteriore ma, al tempo stesso, profondamente diversa, transizione al comunismo (Mordenti 2003, p. 79).
Micidiale logica dei due tempi, in cui il primo tempo non
solo non prepara l’altro, ma può anche essere il suo contrario.
II. Oggi si propongono in forme nuove una critica del
primato, storicamente dato, novecentesco, della politica e
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PASQUALE VOZA
insieme l’attualità della nonviolenza, proprio come ri-definizione e ri-fondazione della medesima politica. La peculiare “invisibilità” e insieme la dura pervasività del potere del capitalismo globalizzato, la drammatica solitudine del “dolore sociale”, la ferocia inedita della guerra infinita, la spirale spietata guerra-terrorismo: dall’insieme di
questi aspetti discende una necessità, insieme etica e politica, di dire no, anche sul piano teorico, a ogni teoria e a
ogni pratica (perdente) di “attacco al cuore” di poteri e di
istituzioni e a ogni simmetrica teoria di contro-potere. Già
Gramsci, negli anni Trenta, interrogandosi sul perché era
fallita la rivoluzione in Occidente, attraverso la coppia
euristica Oriente-Occidente, aveva elaborato la sua nozione di egemonia come asse portante di una nuova “scienza della politica”. Egli aveva parlato di “robusta catena di
fortezze e casematte”, di “superstrutture complesse”, soprattutto di “blocco storico” (“in cui appunto le forze
materiali sono il contenuto e le ideologie la forma, distinzione di forma e contenuto meramente didascalica”): tutti elementi creativi di un marxismo che si proponeva strenuamente di pervenire all’“identificazione di storia e politica”, contro ogni riassorbimento idealistico ed economicistico, di definire un primato-socializzazione della politica non in assenza, ma in presenza di un’“antitesi vigorosa”, e dunque un primato-socializzazione della politica
come terreno pratico-teorico della critica e della lotta, per
ciò stesso non chiuso in una separatezza o autonomia
“professionale” e insieme capace di contaminare e interrogare la rete degli specialismi e del sapere.
Alcuni altri aspetti – credo – vanno tenuti presenti.
Uno si riferisce a quella che si suole chiamare la crisi dello Stato-nazione, ma che più propriamente è da intendersi come mutamento di alcuni ruoli e alcune funzioni
importanti degli Stati nazionali, per cui essi, generalmente, vengono piegati o si piegano (la distinzione è rilevante sul piano analitico) alla supremazia del mercato
L’“UMANESIMO ASSOLUTO” DI GRAMSCI

e delle imprese, i quali tendono a diventare i principali
regolatori della vita sociale complessiva. Anche ciò finisce col comportare il problema di una ri-definizione della politica sulla base di nessi nuovi e inediti tra nazionale e internazionale.
Un altro aspetto riguarda quella che si può chiamare la
scissione tra il sociale e il politico, che in altro modo è stata definita l’americanizzazione della società. Questa scissione è la vera forma, appunto, di un nuovo americanismo,
che può produrre un particolare conformismo di massa,
una passivizzazione di massa e, al tempo stesso, può inchiodare a un antagonismo meramente difensivo e/o ribellistico. Ma, in connessione e in alternativa a questo
aspetto, è da tener presente il cosiddetto movimento noglobal o altermondialista, che, in senso generalissimo, ha
condotto un’operazione radicalmente destabilizzante (per
certi versi simile a quella del Sessantotto). Esso è consistito
innanzitutto nell’aprire varchi critici e nel decostruire l’invisibilità del potere, nel far tornare finalmente a sospettare che la storia non si era naturalizzata e che, dunque, questa egemonia neo-liberista aveva dei nomi, dei cognomi,
tutta una trama di nessi da scoprire, e da snidare, e poteva essere messa in crisi, anche attraverso un ripensamento profondo delle forme della politica.
III. Si potrebbe dire che la nonviolenza sia un modo diverso, forse necessariamente diverso (non soltanto, ovviamente, sul piano lessicale), di fissare in questo tempo storico il problema dell’egemonia, il problema, cioè, della costruzione di un’egemonia alternativa attraverso la critica
pratica del capitalismo globalizzato, condotta da soggetti
politici, da movimenti e da altre soggettività anche inedite o in costruzione. Non si tratta di affermare che “nonviolenza” ed “egemonia” siano la stessa cosa, bensì che l’una (la nonviolenza) sta dentro l’altra; se separiamo i due
momenti, finiamo col ridurre il problema della nonvio-
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PASQUALE VOZA
lenza al solo problema, peraltro importantissimo, delle
cosiddette “forme di lotta”. Qui entra in causa un altro
punto teorico. Si tratta di riuscire a mantenere salda la critica di una concezione che possiamo chiamare sostitutiva
del potere, secondo la quale il potere lo “si prende”, sostituendo, appunto, il ceto politico-dirigente, il ceto al posto di comando. Per usare una formula, si potrebbe dire
invece, schematicamente che il potere non si prende. Esso si distrugge, si decostruisce socialmente e politicamente: è l’unico modo di produrre egemonia e di governare,
al di fuori di una logica di dominio e di separazione.
Per altro verso, si rende necessario oggi un confronto
critico con quelle prospettive teorico-culturali, che, movendo dalla crisi della forma-politica novecentesca, tendono a elaborare delle prospettive di segno utopico e/o
delle idee-limite, delle idee regolative, spesso tuttavia assolutizzandole come soluzioni o come progetti politici tout
court. Si pensi, ad esempio, al volume di Marco Revelli La
politica perduta, o a quello di John Holloway Cambiare il
mondo senza prendere il potere. Partendo da Hannah
Arendt, che, nel pieno degli anni Cinquanta, rifletteva
sulla distruttività assoluta della bomba atomica e sulla
conseguente strategia politica basata sulla deterrenza nucleare e auspicava il ritorno della politica al suo significato originario di costruttività, cioè come entità che nasce tra,
infra gli uomini e che si afferma come relazione, Revelli elabora una prospettiva im-mediata di lavoro politico dal
basso, al di là dei partiti e della militanza politica in quanto tale. Egli addita decine, forse centinaia di migliaia di
donne e di uomini che, per così dire, sono al lavoro negli
interstizi del disordine globalizzato per “riannodare i nodi, ricucire le lacerazioni, elaborare il male”. Li vede nei
più vari luoghi del mondo, a Banjaluka come a Baghdad,
o in Terra Santa, come nel fetore delle periferie africane,
nel cuore di Kabul come nelle banlieux di Parigi, negli slum
di New York o di Londra, tra le macerie di Grozny, nella
L’“UMANESIMO ASSOLUTO” DI GRAMSCI
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polvere di Mogadiscio. Queste donne e questi uomini,
operando negli interstizi della violenza e del dominio, “riparano dal basso” i danni che i flussi sradicanti e alienanti dell’economia e della politica, del mercato e dello Stato, producono di continuo (Revelli 2003, pp. 135-136)..
Ecco, da un lato, Revelli ci dice con efficacia che quel
dolore sociale che l’egemonia del capitalismo globalizzato, per lungo tempo, era stata capace di dividere, frammentare, rendere muto e invisibile, ora emerge, si fa visibile, si fa attivo; dall’altro, di fatto, tende a dare per risolto o a eludere quello che è il problema all’ordine del giorno, la costruzione inedita di una nuova soggettività politica, di una nuova forma-politica.
Su un altro versante, Holloway riprende a suo modo e
ritraduce l’idea zapatista “siamo persone comuni e pertanto ribelli”. Per lo studioso dublinese la prospettiva della “rottura del circolo della dominazione” è fornita da
quello che egli chiama “il movimento del poter fare”, “la
lotta per emancipare il potenziale umano”: una sorta di ribellione e insieme di creatività, che esiste, deve esistere,
“come ma anche contro – e – oltre il lavoro alienato”
(Holloway 2004, p. 206). Il grido-contro e il movimento del
poter fare sono i due assi inestricabilmente connessi di
una possibile rivoluzione post-novecentesca. Nella riflessione di Holloway sono evidenti le tracce del pensiero
utopico di Bloch, ma anche, al di là dei contrasti polemici, le suggestioni delle teorie di Negri, in connessione con
un pensiero post-moderno, in cui – come è stato osservato – ritorna in campo, in forme nuove, “l’antropologia
hobbesiana dell’eccesso pulsionale dell’individuo desiderante e l’ontologia spinoziana del perseverare in esse suo”
(Barcellona 2001, p. 127).
Sicché, per questa via, Holloway propone, oltre l’aforisma zapatista (preguntando caminar), di agire contro la
politica come organizzazione, contrapponendole l’insorgenza di eventi, di lampi, da vivere come “festival dei non
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PASQUALE VOZA
subordinati”, “carnevale degli oppressi”, “esplosione del
principio di piacere”, “intimazione del nunc stans”: in
un’idea di comunismo come conquista di un momento di
rottura del continuum della storia, tra Benjamin e Bloch.
IV. Politica perduta, politica al tramonto, lavoro dal
basso, antagonismo creativo, lavoro interstiziale: nell’era
del “turbo-capitalismo” e del biopotere, io credo che dovremmo dare cittadinanza anche al grande interrogativo
teorico che Gramsci formulava nel cuore degli anni Trenta: “come nasce il movimento storico sulla base della struttura”. Ciò forse potrebbe aiutarci a evitare il rischio di slittamenti utopici e/o assoluti.
In certo senso, anche il rigore della critica materialistica della Ginestra leopardiana nei confronti del prometeismo e dell’antropocentrismo del suo tempo ci può parlare, a suo modo, oggi, soprattutto per la sua radicale problematicità, per la radicale assenza di ogni im-mediatezza
alternativa: “E tu, lenta ginestra, / che di selve odorate /
queste campagne dispogliate adorni, / anche tu presto alla crudel possanza / soccomberai del sotterraneo foco, /
[…]. ma più saggia, ma tanto / meno inferma dell’uom,
quanto le frali / tue stirpi non credesti / o dal fato o da te
fatte immortali”.
“Dentro i covili del verme”: lettera dal carcere di
Secondigliano1
Sara Marinelli
Queste riflessioni meritano l’appellativo di esuli, perché esulano dalla trama principale che anima questo volume, e perché di una condizione di esilio e isolamento vogliono fare da testimoni. Provengono dall’urgenza personale di testimoniare di uno stato di subalternità, e di sudditanza, molto vicino a Gramsci, e al quale Gramsci è stato assoggettato, che è lo stato carcerario; e dall’urgenza di
parlare accanto a un particolare “genere umano”, quello
dei reclusi: un’eccezionale umanità con la quale Gramsci
ha convissuto, e la cui convivenza corpo a corpo ha marchiato la natura carnale e molecolare del suo umanesimo.
E forse anche del suo comunismo.
Il comunismo di Gramsci è attraversato dalla volontà
e dalla coscienza di scoprire e approfondire quell’elemento che egli ha “in comune” con tutti gli umani di tutti i tempi e di tutti gli spazi, nonostante le differenze e le
eterogeneità. “Comunismo significa per lui il processo di
unificazione del genere umano: un processo che è iscritto
in quella catena di organismi nei quali l’individuo è entrato
ed entra a far parte, ‘dai più semplici ai più complessi’”.
“Esso ha il suo terreno di coltura nella consapevolezza della contemporanea disuguaglianza e comunanza degli individui” (Baratta 2003, pp. 116-117, passim). Tale consapevolezza, o sentimento, diviene estrema quando si varca
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SARA MARINELLI
la soglia di un carcere. E non è da escludere che la ricerca, o forse l’idealizzazione, di Gramsci di quell’elemento
comune a individui, gruppi, nazioni, che potrebbe diventare un positivo e potente “fattore di coesione”, sia anche
scaturita dal suo coatto convivere con gli strati popolari.
Gli intelletti, le forze, i corpi della “ganga popolare” reclusa non potevano certo forgiare “il metallo di una nuova classe”, ma potevano essere convogliati in un progetto
di integrità sociale, e non di deliberata disgregazione e
abiezione.
Durante i lunghi anni della sua prigionia Gramsci ha
modo di conoscere dal di dentro chi sono i segregati delle galere: un’umanità reietta sottoproletaria e subalterna,
per lo più costituita da gruppi sociali che non hanno
avuto un periodo di sviluppo culturale e morale proprio
e indipendente, emarginati dallo Stato e dalla società civile, e nei cui confronti la classe dirigente e gli intellettuali avevano delle responsabilità di dialogo e di acculturazione.
La vita in carcere, soprattutto nei primi anni, è occasione delle “impressioni più strane e più eccezionali della [sua] vita”; gli si rivela “tutto un mondo sotterraneo,
complicatissimo, con una vita propria di sentimenti, di
punti di vista, di punti d’onore, con gerarchie ferree e formidabili” (Gramsci 1947, pp. 44-45)2. Nel mondo sotterraneo “tutto ciò che di elementare sopravvive nell’uomo
moderno rigalleggia irresistibilmente: queste molecole polverizzate si raggruppano secondo principi che corrispondono a ciò che di essenziale esiste ancora negli strati popolari più sommersi” (p. 14). Nelle lettere dal carcere
Gramsci dipinge l’affresco di un’umanità fisica, carnale, distinta in diverse tipologie “antropologiche-geografiche”
prima ignorate, a lui “che del Mezzogiorno fisicamente conoscev[a] solo la Sardegna” (p. 44). Come scrive dal confino di Ustica in una lettera del 1926: “Quattro divisioni
fondamentali esistono: i settentrionali, i centrali, i meri-
“DENTRO I COVILI DEL VERME”

dionali (con la Sicilia) e i sardi” (p. 14). Leggendo tali lettere prende corpo il ritratto di una geografia dell’Italia carceraria che non costituisce una geografia a parte, ma si fa
contrappunto del quadro politico-sociale di quel tempo.
Il mondo sotterraneo carcerario è un microcosmo, “una
simbolica quanto reale contrazione dello spazio e del tempo, della storia e della geografia italiane, e anche del mondo” (Baratta 2003, p. 30), dove collimano e collidono tutte le questioni di fuori: prima fra tutte la questione meridionale all’epoca di Gramsci, e quella post-coloniale nei
nostri giorni.
Edward Said, estendendo la metodologia geopolitica
di Gramsci che collega l’analisi sociale alle questioni spaziali e territoriali, ha mostrato in Cultura e imperialismo
come le particolarità locali, regionali, nazionali siano parte di un orizzonte ampio, che “ogni storia particolare è inserita nel quadro della storia mondiale” (Said 1998). Nel
suo studio sull’imperialismo britannico come categoria
geografica e territoriale, per Said i territori delle colonie
lontane si sovrappongono a quelli vicini, e le storie coloniali della periferia imperiale si intrecciano a quelle del
cuore metropolitano, ponendo in dialogo i mondi subalterni con quelli del potere. Seguendo tali suggestioni, nelle mie magre meditazioni sull’universo carcerario vorrei
evocare delle assonanze tra terre apparentemente discoste, ma contigue, soffermandomi su quella regione invisibile, e tuttavia dalle frontiere così marcate, che è il carcere. Il carcere è uno dei luoghi di subalternità forzata, periferia e margine di una società civile, ma dove altrettanto si rispecchia la storia, come il riflesso di una deriva, di
una risacca che inghiottisce i detriti, le scorie di tutto ciò
che è “gettato”.
In Sorvegliare e punire, Michel Foucault ha condotto
analisi illuminanti sulla stretta relazione tra la nascita della prigione e la formazione del mondo moderno, dimostrando che l’apparato carcerario è una tecnologia di sor-
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SARA MARINELLI
veglianza e disciplina sociale che ha molte affinità con altre “tecnologie” che organizzano la convivenza umana. Ma
non bisogna trascurare che nella grammatica di ogni storia e scrittura nazionale, nella formazione dello Stato-nazione, e nelle grandi narrative del colonialismo, sono inscritte le galere. Un esempio fra tanti è fornito dalla storia del colonialismo inglese: le colonie penali delle terre
d’oltreoceano, dalla prima colonia americana – la Virginia
– a Botany Bay (Sidney) in Australia, sono state le costole da cui si è generata la massiccia ossatura dell’organismo
coloniale. Il progetto coloniale di conquista ed edificazione
delle terre assoggettate ha inizialmente asservito, accanto
agli schiavi africani, i deportati, i forzati e tutti i tipi di criminali e criminalizzati, indesiderati e incontrollabili nei
luoghi di reclusione in patria3. E anche nel risorgimento
italiano la nascente idea di patria nazionale ha avuto il suo
contrappunto nella storia compiuta nelle galere, battezzate
poi patriae galere per consacrare ufficialmente il sacrificio
di uomini e di idee alla nazione.
Tuttavia, si parla saltuariamente di questo “cuore di
tenebra” che pulsa dentro la società civile, se non quando qualche scandalo clamoroso trapela dalle mura di cinta e diventa caso per alcune settimane. Eppure, il grado
di civiltà e di “progresso” di un paese si misura anche
sulle sue galere, soprattutto quando in uno scenario
contemporaneo che inneggia alla modernità e alla democrazia persistono Stati nel mondo dotati di regimi repressivi e incarceranti che attentano alla vita dei loro cittadini (si pensi alla pena di morte) o ne opprimono le libertà fondamentali e le opinioni politiche, come era accaduto a Gramsci sotto il regime fascista. In Italia “una
volta, in tempi di redenzione nazionale o sociale, si diceva che la storia di un paese è scritta sui muri delle sue
galere (…). Ci fu una stagione, a cominciare dal 1968,
in cui l’universo oscurato delle carceri e la società esterna (…) trovarono un contatto e uno scambio reciproco”
“DENTRO I COVILI DEL VERME”

(Sofri 1993, p. 129). Ma da allora le prigioni sono rimaste e restano sostanzialmente dei luoghi invisibili, e da
cui in molti non ne escono vivi – come Gramsci.
In uno dei suoi lunghissimi ed estenuanti viaggi di traduzione da Ustica a Milano, Gramsci attraversa l’intera penisola italiana da un carcere all’altro (Palermo, Napoli,
Caianello, Isernia, Sulmona, Castellamare Adriatico, Ancona, Bologna, Milano). Nella lettera del 12 febbraio del
1927, a proposito dell’esperienza della “traduzione”, scrive (Gramsci 1947, p. 27)4:
Vi voglio dare una impressione d’insieme della traduzione.
Immaginate che da Palermo a Milano si snodi un immenso verme, che si compone e si decompone continuamente,
lasciando in ogni carcere una parte dei suoi anelli, ricostituendone dei nuovi, vibrando a destra e a sinistra delle
formazioni e incorporandosi le estrazioni di ritorno. Questo verme ha dei covili, in ogni carcere, che si chiamano
transiti, dove si rimane dai due agli otto giorni, e che accumulano, raggrumandole, la sozzura e la miseria delle generazioni.
Da Ustica a Milano a Turi, da sud a nord e poi di nuovo a sud: nella descrizione dei suoi viaggi di traduzione e
delle sue permanenze in diversi penitenziari italiani riecheggiano le parole di un altro recluso dei nostri giorni che,
come Gramsci, spedisce lettere e commenti sul mondo di
dentro e di fuori. Adriano Sofri scrive (1999, p. 77):
[Si] potrebbe documentare l’esistenza di due Italie penitenziarie, una fino a Roma, l’altra a sud di Roma. Fra le galere
di queste due Italie c’è un abisso: quelle fino a Roma sono penose discariche umane in cui qualche persona di buona volontà si aggira per soccorrere i detenuti, quelle a Sud hanno
altre strutture materiali, altre leggi, altri gesti e linguaggi dominati dalla brutalità… C’è, nelle galere, una divisione infernale in gironi: 41 bis, ammassi di nordafricani, reparti di
tossici, e via risalendo, fino a più normali gabbie da zoo. E
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SARA MARINELLI
c’è inferno e inferno: quello della Campania, della Calabria,
della Sicilia, guarda all’altro come a un giardino pubblico.
La casa penale di Secondigliano è parte dell’inferno
campano. Il penitenziario, preannunciato nella sua architettura infame e imponente da quella precaria e fatiscente delle “vele” issate del quartiere Scampia, si staglia
ieratico ai confini di questa terra contesa e ferita, quasi a
segnare la frontiera del quartiere, oltre la quale non c’è
nulla, soltanto il megacampo dove si sono insediati i rom
indesiderati nel quartiere. Costruito alla fine degli anni
Settanta, Scampia è diventato rapidamente destinazione,
e destino, dei flussi migratori interni alla città di Napoli,
delle diaspore di ceti operai ed ex operai espulsi da altre
zone gestite da un ceto medio bramoso di conquistarsi fette della città, e a causa del terremoto del 1980 che ha svuotato parte del centro storico. In breve tempo questa area
è stata colonizzata dai clan camorristici, che l’hanno trasformata in una enorme sacca di rifiuti senza fondo di cui
doversi sbarazzare, eppure necessaria. Tale mondo tenuto alla periferia maneggia un contro-potere che attenta al
cuore della legge, delle istituzioni governative, della società civile e politica, non soltanto attraverso la criminalità organizzata, ma con un imperante stile di vita votato
alla violenza e all’illegalità, un modus vivendi divenuto status quo. Tuttavia, Secondigliano tenta suo malgrado di resistere alla sua unica iscrizione nella storia tra le pagine
della camorra e per il suo essere limite e varco in una geografia carceraria.
Attraversando alcune zone del quartiere, prestando
attenzione alla toponomastica delle sue strade, non si
può non notare che Secondigliano ha dedicato i suoi lunghi viali principali ai caduti della resistenza, e probabilmente non soltanto per onorare la memoria del passato, ma quasi a incitare i suoi cittadini del presente a
“resistere” a certi regimi egemonici nella città. Questa
“DENTRO I COVILI DEL VERME”
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politica di “sconfinamento” dalla propria cultura e dalla propria storia registrata nella toponomastica della cittadina si esprime anche nello sconfinamento ideale dalla propria geografia attraverso l’operazione di gemellaggio tra Secondigliano e Baku, la capitale dell’Azerbaigian. Nel mezzo del quadrivio antistante al carcere,
il piazzale che porta il nome di piazza Baku in onore al
gemellaggio con la città sul Mar Caspio, rimanda, seppure per brevi istanti, a un altro luogo, a un altro immaginario, diverso, eppure affine. Come Baku è solcata
da conflitti tra diverse minoranze etniche, Secondigliano è sotto l’assedio di bande e clan rivali; Baku città da
ricostruire dopo le guerre, Secondigliano città alla deriva nei giorni di guerra. Storie che si intrecciano in territori che si “corrispondono”.
Secondigliano non è un’isola penale o una specie di colonia di e per deportati, ma parte di un arcipelago sociale nel mare italiano e del Sud; un lembo di una cartografia antropologico-sociale ben disegnata nei tracciati statistici forniti dal Ministero della Giustizia relativi all’identità, o meglio identikit, della “popolazione” che appartiene al “continente” della detenzione: la popolazione
detenuta. L’intrigato reticolo statistico redatto dal Ministero può leggersi come una mappa geopolitica sintomatica di una delle questioni poste in primo piano da Gramsci, la questione meridionale, e di quella emersa e accentuata negli ultimi decenni, come la questione post-coloniale, con i suoi lasciti di razzismo, xenofobia, migrazioni, diaspore, divari tra nord e sud del mondo, Oriente e
Occidente.
Ci sono più di ottantamila detenuti nei 205 istituti penali sparsi in tutta Italia. I due terzi della popolazione
detenuta proviene dal Meridione: campani, siciliani, pugliesi, calabresi costituiscono più del 60 per cento5. Del
restante numero, quasi il 40 per cento è formato da immigrati e stranieri. Le stime attinenti alla detenzione dei
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SARA MARINELLI
cittadini stranieri sono indicative di un certo contesto
politico-sociale italiano, e al contempo di una condizione determinata dalle diaspore del capitale globale che
colpisce i soggetti più deboli, esclusi da certi circuiti
produttivi: la percentuale più elevata di detenuti stranieri
proviene dal Marocco, seguita immediatamente dall’Albania, dalla Romania, dall’ex Iugoslavia e dal Sud
America. Da siffatto quadro statistico si intuiscono molte problematiche interconnesse, e tra queste appare evidente che coloro che finiscono nel paese della detenzione con maggiore probabilità e frequenza sono i soggetti provenienti dal Sud italiano (napoletani, siciliani,
calabresi, pugliesi), e da altri Sud del mondo (diversi
paesi del Sud America e l’Africa), gli “orientali” del Maghreb (marocchini, tunisini, algerini) assieme agli orientali dell’Est Europa (albanesi, rumeni, ex-jugoslavi); e
che la punibilità dei reati è associata soprattutto a certe
dinamiche di classe e alla discriminazione razziale di
certi gruppi etnici6.
Emerge, in altre parole, il profilo di un sistema penale fortemente marcato da pregiudizi razziali e di classe tesi a discriminare e a criminalizzare in misura maggiore alcune etnie, e talvolta a fare dell’etnia stessa un crimine. Esso indica che le mille questioni meridionali della società italiana, e della società globale, sono esaltate
anch’esse dal carcere, e vi si ripercuotono. E non soltanto perché esiste un notevole divario fra le galere del
Nord e quelle del Sud per le condizioni materiali, culturali e civili, ma perché i luoghi di pena sono dei gironi infernali dove vengono gettati tutti “i dannati della terra”: meridionali, orientali, disoccupati, analfabeti, extracomunitari, clandestini, reietti, emarginati, insomma
i rifiuti inaccettabili nel sociale, esclusi da certi sistemi
produttivi ed educativi, che hanno avuto come alternativa o l’emigrazione o la criminalità. La prigione, come
osserva l’attivista Angela Davis, “funziona ideologica-
“DENTRO I COVILI DEL VERME”
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mente come un contenitore astratto nel quale viene depositato ciò che è indesiderato, esimendo noi tutti dalla responsabilità di essere seriamente coinvolti nei problemi della nostra società, specialmente quelli prodotti
dal razzismo, e dal capitale globale” (Davis 2003).
Sulla scia degli insegnamenti e anche dei moniti di
Gramsci lanciati dalla terra della reclusione a non “esimerci” da certe responsabilità culturali, e dei suoi appelli
rivolti agli intellettuali di instaurare un dialogo con le
classi subalterne attraverso una pratica di educazione di
“un popolo a venire”, il pensiero di Said si è costantemente interrogato sul ruolo e la funzione educativa dell’intellettuale nella società. Tra questi due esempi di progettualità e prassi politiche vorrei situare la provocazione, o forse l’utopia, di questo breve intervento. Se secondo l’ordinamento penitenziario, lo scopo dell’istituzione carceraria è quello di rieducare il soggetto detenuto
affinché ritorni alle condizioni della convivenza sociale
e civile (Legge 26 luglio 1975, Capitolo 2), l’educazione
culturale “dentro”, come “fuori”, diviene il cardine di un
auspicabile discorso di cambiamento e di inserimento di
soggetti emarginati in una società civile. Parafrasando alcune considerazioni di Said dedicate all’università come
luogo della politica, come un paese non da governare, ma
come un territorio nel quale viaggiare, voglio audacemente adattare questo pensiero al carcere. Il carcere può
essere considerato un campo da attraversare, dove compiere dei viaggi non allo scopo di redimere “i criminali”,
ma di redimere il carcere stesso dalla condizione di isolamento improduttivo, dalla coazione all’inutilità, dall’abiezione culturale, da cui provengono i suoi abitanti,
e ai quali inesorabilmente li condanna. Del resto, coltivando l’utopia di immaginare un mondo che sia capace
di creare dialogo tra poteri egemonici e poteri subalterni, senza classi, senza ingiustizia, senza violenza, sembrerebbe legittimo pensare che nella “miserabilità” e

SARA MARINELLI
nella “sozzura” delle galere può sbocciare una vita nuova – come accadeva alle rose di Gramsci coltivate nel carcere di Turi.
Con questo alito di idealismo utopico, legittimato da riflessioni che ho voluto definire “esuli” e che dunque approdano in terre di fortuna, o di u-topia, potremmo ripensare alle parole di Gramsci sulle galere e corredare la
sua immagine del “verme che si snoda per l’Italia” di un
altro significato. Il verme, questo essere minuscolo, questa molecola capace di autoriprodursi, è parte essenziale
di un ciclo vitale, nutrimento per un terreno fecondo,
pronto da coltivare. Dentro i covili del verme si raccoglie,
oltre alla sozzura, il germe di una possibile nuova vita che
nasce mentre un’altra marcisce.
1
Vorrei dedicare questo saggio a metà tra l’analisi e l’utopia, scritto durante
un periodo d’insegnamento al Centro Penitenziario di Secondigliano, ai detenuti del suddetto carcere, e a coloro che a diverso titolo – insegnanti, volontari, operatori sociali – varcano i cancelli delle carceri per diffondere una pratica
di impegno civile.
2
Nella stessa lettera Gramsci scrive un commento molto stimolante per la mia
breve indagine sull’universo carcerario: “Ecco, vedi; un altro oggetto di analisi molto interessante: il regolamento carcerario e la psicologia che matura su di esso da
una parte, e sul contatto coi carcerati, dall’altra, tra il personale di custodia. Io credevo che due capolavori concentrassero l’esperienza millenaria degli uomini nel
campo dell’organizzazione di massa: il manuale del caporale e il catechismo cattolico. Mi sono persuaso che occorre aggiungere il regolamento carcerario che racchiude dei veri e propri tesori di introspezione psicologica” (p. 46).
3
Nel Seicento l’utilizzo dei deportati da parte della Virginia Company e
la East Indian Company in Virginia ha fatto da esperimento pilota per molte
altre colonie inglesi. In pochi anni la Virginia Company aveva mandato circa
seimila “criminali” a lavorare oltreoceano. In tale contesto non bisogna dimenticare che le leggi ad hoc del Criminal Act avevano trasformato in criminali i ceti meno abbienti, i contadini che non potevano pagare le tasse, e altri
emarginati.
4
“Traduzioni” e “transiti”, termini e concetti chiave negli studi postcoloniali, assumono un tono assolutamente grottesco nella terminologia carceraria.
Come si legge nel capitolo 354 della Legge 26 luglio 1975 del regolamento penitenziario: “Sono traduzioni tutte le attività di accompagnamento coattivo, da
un luogo ad un altro, di soggetti detenuti, internati, fermati, arrestati o comunque in condizione di restrizione della libertà personale”.
“DENTRO I COVILI DEL VERME”

5
Dei 205 istituti di pena in Italia, ce ne sono ben 26 in Sicilia, 17 in Campania, 11 in Calabria e in Puglia. Nel rapporto tra numero di carceri ed estensione territoriale, le carceri del Meridione sono le più densamente popolate. Il
numero di detenuti provenienti dalla Campania è in assoluto quello più alto (quasi 9.000); seguono immediatamente Sicilia, Puglia e Calabria. Nel carcere di Secondigliano convivono circa 1.300 detenuti per una capienza di 900 posti. Si veda il sito http//: www.giustizia.it/statistiche.
6
Sono più di trentamila i detenuti stranieri in Italia. Da questa cifra sono
esclusi gli stranieri presenti nei cosiddetti centri di permanenza temporanea e
di detenzione in attesa di essere espulsi.
Bibliografia
Nel testo, l’anno che accompagna i rinvii bibliografici secondo il sistema autore-data è sempre quello dell’edizione in lingua originale, mentre i rimandi ai numeri di pagina si riferiscono sempre alla traduzione italiana, qualora negli estremi bibliografici qui sotto riportati vi si faccia esplicito riferimento.
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Gli autori
Giorgio Baratta, dell’Università di Urbino, presidente
della International Gramsci Society-Italia e del Network
interuniversitario “Immaginare l’Europa”, è autore di saggi su Leonardo e il Rinascimento, Hölderlin, Marx, Sartre, Said. Su Gramsci, oltre ad aver scritto o curato alcuni libri, ha realizzato un film e un dialogo teatrale.
Marta Cariello, dottore in ricerca in Letterature, culture
e storie dei paesi anglofoni presso l’Università di Napoli,
“L’Orientale”, si occupa di letteratura postcoloniale, con
particolare riferimento alla costruzione culturale del corpo femminile in autrici arabe di lingua inglese, e al concetto di traduzione culturale.
Silvana Carotenuto insegna Letteratura inglese all’Università di Napoli, “L’Orientale”. I suo interessi di ricerca
sono la decostruzione e la critica femminista. Ha pubblicato anche sul teatro d’avanguardia modernista, ed è attualmente impegnata nella stesura del libro Il velo di Cleopatra. Configurazioni etniche contemporanee.
Iain Chambers insegna Studi culturali e postcoloniali
presso l’Università di Napoli, “L’Orientale”, dove dirige
il Centro Studi Postcoloniali. Autore di Paesaggi migra-
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GLI AUTORI
tori. Cultura e identità nell’epoca postcoloniale (2003),
Ritmi urbani (2003) e Sulla soglia del mondo. L’altrove dell’Occidente (2003), sta preparando uno studio sul Mediterraneo.
Lidia Curti è docente di Letteratura inglese all’Università
degli Studi di Napoli, “L’Orientale”, dirige il programma
di ricerca in Letterature, culture e storie dei paesi anglofoni, e fa parte della redazione di «Anglistica, Feminist Review» e «New Formations». È autrice di Female Stories, Female Bodies (1998) e co-curatrice di The Postcolonial Question (1996; trad. it. 1997) e di La nuova Shahrazad (2004). Ha in preparazione un volume sulla scrittura
femminile nella (post)colonialità.
Marina De Chiara insegna Letteratura inglese all’Università degli Studi di Napoli, “L’Orientale”. È autrice di Percorsi nell’oblio. Poetiche postcoloniali di creolizzazione
(1997), La traccia dell’altra. Scrittura, identità e miti del femminile (2001), Oltre la gabbia (2005).
Lea Durante insegna Storia della critica e della storiografia letteraria nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bari. Si interessa prevalentemente di narrativa
contemporanea. Si occupa di Gramsci ed è attiva nell’ambito della International Gramsci Society-Italia (IGS
Italia) e del Centro interuniversitario di ricerca per gli
studi gramsciani.
Serena Guarracino ha di recente conseguito il dottorato
di ricerca in Letterature, culture e storie dei paesi anglofoni presso l’Università di Napoli, “L’Orientale”, con
una tesi dal titolo Aver voce. Migrazioni dell’opera lirica nelle culture di lingua inglese. I suoi ambiti di ricerca vanno
dagli studi culturali e postcoloniali agli studi di genere, dal
teatro shakespeareano alla musica classica.
GLI AUTORI
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Domenico Jervolino, nato a Sorrento nel 1946, discepolo di Pietro Piovani e di Paul Ricœur, è professore di Ermeneutica e filosofia del linguaggio all’Università di Napoli, Federico II. È autore dei volumi: Il cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur (1993), Logica del concreto ed ermeneutica della vita morale (1994), Ricoeur. L’amore difficile (1995), Le parole della prassi. Saggi di ermeneutica (1996), Ricoeur. Une herméneutique de
la condition humaine (2002), Introduzione a Ricoeur (2003).
Marie-Hélène Laforest, scrittrice e studiosa di letterature postcoloniali, è professore associato presso l’Università
degli Studi di Napoli, “L’Orientale”. Le sue ricerche vertono sulla scrittura femminile e sulle problematiche dell’interculturalità e dell’ibridità identitaria. Fra le sue pubblicazioni più recenti si segnalano Diasporic Encounters.
Remapping the Caribean (2000), “Homelands”, in Edwidge Danticat, a cura, The Butterfly’s Way (2001), “Ages of
a Woman. Jamaica Kincaid’s My Brother”, in MaComére
(vol. 6, 2004), Foreign Shores (2004).
Sara Marinelli è ricercatrice in Sociologia dei processi culturali presso l’Università di Napoli, “L’Orientale”. È autrice di Corpografie femminili (2004). Ha tradotto Ai margini dell’antropologia (2004) di James Clifford.
Sandra Ponzanesi è docente di Studi di genere e teorie
postcoloniali all’Università di Utrecht, Paesi Bassi. I
suoi campi di ricerca includono la scrittura femminile
della diaspora, le teorie femministe transnazionali e il cinema mondiale. Tra le recenti pubblicazioni vanno annoverate: Paradoxes of Postcolonial Culture. Contemporary Women Writers of the Indian and Afro-Italian Diaspora (2004) e Migrant Cartographies. New Cultural and
Literary Spaces in Postcolonial Europe (2005) curato con
Daniela Merolla.
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GLI AUTORI
Pasquale Voza è ordinario di Letteratura italiana nell’Università di Bari. Ha pubblicato volumi su Tozzi, Mazzini,
Cattaneo, Tenca, il romanzo italiano tra le due guerre, Moravia, le culture del Sessantotto, Pasolini e la sua fortuna
critica. Inoltre, egli è direttore del Centro interuniversitario di ricerca per gli studi gramsciani e componente del direttivo della International Gramsci Society-Italia.
Stampato per conto della casa editrice Meltemi
nel mese di febbraio 2006
presso Arti Grafiche La Moderna, Roma
Impaginazione: www.studio-agostini.com
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