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L`identikit del cancro in dieci tratti

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L`identikit del cancro in dieci tratti
L’identikit del cancro
in dieci tratti
Premessa7
Il cancro: cento malattie in una9
1.1 Cancro: una sola parola per tante malattie10
1.2 Il cancro è una malattia del DNA12
1.3 La progressione tumorale: un processo graduale nel tempo 14
1.4 Un panorama genetico complesso16
1.5 Tre processi chiave nella progressione tumorale19
1.6 I tumori: tessuti eterogenei e complessi21
1.7 Un’altra dimensione di eterogeneità: le cellule staminali del cancro 24
1.8 Il cancro: un’evoluzione darwiniana di cellule nell’organismo 28
1.9 Verso terapie sempre più personalizzate32
1.10 Il concetto di rischio e la responsabilità individuale 37
1.11 Prevenzione: un’arma efficace contro il cancro 40
1.12 Comprendere la complessità43
2
L’identikit del cancro in dieci tratti 45
2 Introduzione46
2.1 Proliferare anche senza segnali di crescita49
2.2 Crescere in presenza di segnali di arresto53
2.3 Aggirare la morte cellulare57
2.4 Proliferare in modo illimitato61
2.5 Promuovere l’angiogenesi64
2.6 Migrare e invadere68
2.7 Riprogrammare il metabolismo72
2.8 Sfuggire al sistema immunitario76
2.9 Infiammazione locale 79
2.10 Instabilità genomica81
3
Instabilità genomica84
3.1 L’instabilità genomica: la marcia in più delle cellule tumorali 85
3.2 Come avvengono le mutazioni nel DNA?87
3.3 Instabilità genomica e cancro90
3.4 I checkpoint e il “controllo qualità” del genoma 94
3.5 Come si studia il danno al DNA97
3.6 Mettiti alla prova!100
Proliferare anche senza segnali di crescita 117
4.1 Come si trasmette il segnale di proliferazione118
4.2 Come viene regolata la proliferazione121
4.3 Strategia 1: alterare il ligando124
4.4 Strategia 2: alterare il recettore126
4.5 Strategia 3: alterare la cascata di trasduzione129
4.6 Bloccare la proliferazione: approcci terapeutici mirati 132
4.7 Proliferazione delle cellule tumorali: dove sta andando la ricerca? 136
4.8 Mettiti alla prova!139
4
Approfondimenti156
Un modello…a righe: il pesce zebra per studiare l’angiogenesi
Questione di specificità: l’uso degli anticorpi
Gli interruttori molecolari dei geni: i fattori di trascrizione
La divisione cellulare: un solo fenomeno, molti modi per studiarla Le “ossa” e i “muscoli” delle cellule: citoscheletro e strutture di membrana
Mettere “a fuoco” le cellule in movimento
Quando una cellula invecchia! Il genoma in un centimetro: i microarray e le tecnologie di analisi genica globale
Dal lievito i segreti del ciclo cellulare Lievito: un microscopico alleato per studiare i danni al DNA
Malattie genetiche rare e cancro: due facce della stessa medaglia
Le isoforme di RAS: così simili e così diverse
Endocitosi e trasduzione: due processi intimamente connessi
Come si sviluppa un farmaco Protocolli Sperimentali
5
157
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169
170
172
174
Bibliografia 184
Glossario190
Disclaimer196
6
PREMESSA
Il 4 febbraio scorso, per il quarto anno consecutivo, l’Empire
State Building si è illuminato di blu e arancio, in occasione
del World Cancer Day (http://www.worldcancerday.org).
Il tema dell’edizione di quest’anno è stato sfatare quattro
miti che ruotano attorno a questa malattia: “non c’è bisogno
di parlare del cancro”, “il cancro non ha segni o sintomi”,
“non c’è niente che non possa fare contro il cancro”, “non ho
diritto ad accedere alle cure”.
Ma che cosa sappiamo veramente di questa malattia e delle
sue cause? Che cosa è stato scoperto? Che cosa possiamo
realisticamente aspettarci nei prossimi anni?
Tante sono le domande che ruotano attorno a questa
malattia, tutte complesse, e spesso senza risposta.
Da oltre dieci anni, IFOM dedica tutte le sue attività alla
ricerca di base per rivelare alcune delle cause molecolari
del cancro e allo stesso tempo, tramite il programma
YouScientist, si propone di avvicinare la società, in
particolare la scuola, alle frontiere della ricerca scientifica.
Oggi, con la pubblicazione dell’e-book “L’identikit del cancro
in dieci tratti” vogliamo parlare di cancro e dei più recenti
sviluppi della ricerca, in primo luogo ai docenti che, come
7
gli scienziati, ogni giorno affrontano sfide allo stesso tempo
difficili ed appassionanti, sulle quali poggia il futuro del
nostro Paese.
È una pubblicazione interattiva, multimediale che esplorerà
in dodici capitoli alcune delle scoperte più rilevanti nella
ricerca oncologica, prima tra tutte il concetto che tutte
le cellule tumorali, indipendentemente dal tipo e dalla
complessità, possiedono dieci elementi distintivi, dieci tratti
ben precisi e costanti che le descrivono.
Vi invito a navigare tra queste pagine, a esplorare le gallerie
fotografiche, le illustrazioni, i video filmati per approfondire
e cogliere la complessità del cancro: perché insieme
possiamo contribuire a sfatare falsi miti o errati luoghi
comuni che, ancora oggi, ruotano attorno a questa malattia
e a promuovere la cultura scientifica nella nostra società.
Prof. Marco Foiani
Direttore Scientifico di IFOM
8
1
IL CANCRO
CENTO MALATTIE
IN UNA
“Although we have a much
greater understanding of cancer
biology and genetics, translation
into clinical practice needs to
allow for the cellular complexity
of the disease and its dynamic,
evolutionary characteristics”.
Mel Greaves and Carlo C. Maley,
Nature 2012
9
1.1
Cancro: una sola parola
per tante malattie
La parola “cancro” identifica un insieme di oltre 200 malattie
(http://www.registri-tumori.it/cms/), che colpiscono organi e
tessuti diversi nell’organismo. Sono tutte caratterizzate dalla
crescita incontrollata di cellule “anomale”, capaci di evitare i
normali meccanismi di controllo dell’organismo e di prendere
il sopravvento sulle altre. Queste cellule, fuori controllo,
generano masse che compromettono il funzionamento del
tessuto o dell’organo in cui si trovano, invadono i tessuti
circostanti e, entrando nel flusso sanguigno e linfatico,
si diffondono nell’intero organismo.
L’importanza, anche sociale, di questa malattia
è aumentata negli ultimi decenni: il cancro,
infatti, è una delle prime cause di morte sia
nei paesi sviluppati che in quelli in via di
sviluppo (Jemal et al., 2011). L’incidenza
del cancro nei paesi industrializzati
sta via via aumentando sia per effetto
dell’invecchiamento progressivo della
popolazione, sia a causa di stili di vita e
abitudini che, come vedremo più avanti,
possono favorire la comparsa della malattia.
L’Associazione Italiana Registro Tumori per il
2013 ha stimato 365.000 nuove diagnosi di tumore in
Italia, senza considerare i carcinomi della pelle, che sono
10
1.1 Cancro: una sola parola per tante malattie
di solito conteggiati separatamente per la difficoltà di
compiere una diagnosi certa e per le loro specifiche
caratteristiche. Parliamo quindi di circa mille nuovi
casi al giorno.
Tabella 1.1 I tumori più diffusi in Italia nella popolazione
Tabella 1.2 I tumori più diffusi in Italia divisi per genere
Dal conteggio sono esclusi i carcinomi della pelle (fonte: I numeri del cancro in
Italia, 2013).
Dal conteggio sono esclusi i carcinomi della pelle (fonte: I numeri del cancro in
Italia, 2013).
11
1.2
Il cancro è una malattia
del DNA
Il cancro è una malattia multifattoriale, causata dalla
combinazione di molteplici fattori, sia interni sia esterni.
I primi sono propri dell’organismo in cui il cancro si sviluppa,
come per esempio mutazioni genetiche ereditate dai propri
genitori, determinate caratteristiche ormonali, o ancora,
specifiche reazioni del sistema immunitario che favoriscono una
proliferazione anomala.
I fattori esterni, invece, sono legati sia all’ambiente in cui
viviamo (pensiamo ad esempio alle sostanze chimiche
dannose, alle radiazioni ultraviolette o ancora ad
alcuni tipi di virus), sia al nostro stile di vita (ad
esempio il fumo di sigaretta, un’alimentazione
scorretta, la sedentarietà).
I fattori interni ed esterni provocano la
comparsa di mutazioni del DNA e alterano
l’informazione che la cellula usa per
realizzare correttamente il programma per
cui è stata generata.
Di solito, le nostre cellule sono capaci
di riconoscere in modo efficiente i danni al
DNA e di ripararli. Tuttavia, in alcuni casi - per
esempio con il procedere dell’età oppure quando
si sono ereditate mutazioni nei sistemi di controllo e di
riparazione(paragrafo 3.4) – le strutture di sorveglianza
12
1.2 Cancro: una sola parola per tante malattie
non funzionano correttamente e le cellule accumulano
danni al DNA.
L’informazione genetica viene alterata e, se la
mutazione ha colpito geni chiave per la vita della
cellula, come quelli che regolano la crescita o la morte
cellulare, essa acquista un “vantaggio” rispetto alle
altre cellule che popolano il tessuto.
Per esempio, la cellula mutata può essere in grado
di crescere più velocemente delle altre oppure può
continuare a vivere, quando invece sarebbe stata
destinata all’autodistruzione.
13
1.3
La progressione
tumorale: un processo
graduale nel tempo
I più recenti risultati sperimentali mostrano che un tumore
può impiegare anche decenni per svilupparsi e raggiungere
gli stadi più aggressivi (Vogelstein et al., 2013). La progressione
tumorale, dunque, è un processo graduale, causato dall’accumulo
di mutazioni successive, che di volta in volta permettono alle
cellule pre-neoplastiche di conquistare caratteristiche nuove, di
adattarsi al microambiente, e avanzare lungo la strada che porta
alla formazione del tumore (paragrafo 2.1).
Le prime descrizioni di questo processo nei suoi
dettagli molecolari risalgono al 1990 e riguardano il
tumore al colon-retto (Fearon and Vogelstein, 1990).
Figura 1.1 La progressione tumorale
Il tumore si sviluppa a seguito di successive mutazioni che inducono
le cellule a perdere l’inibizione da contatto (2), ad acquisire la capacità
di degradare la membrana basale (3) e a stimolare il sistema vascolare
per creare nuovi capillari (4) che riforniscono il tumore di ossigeno e
nutrienti.
14
1.3 La progressione tumorale: un processo graduale nel tempo
Gli scienziati scoprirono che le mutazioni avvengono
in geni ben precisi e con un ordine ben definito.
Questa scoperta rappresenta una pietra miliare nella
ricerca oncologica: per la prima volta si dimostra come
la progressione tumorale dipende dall’accumulo di
alterazioni molecolari e genetiche cui corrispondono
precise modificazioni morfologiche del tumore, via via
sempre più aggressive.
15
1.4
Un panorama genetico
complesso
La possibilità di sequenziare l’intero genoma dei tumori con
l’obiettivo di identificare l’insieme dei geni mutati e il tipo di
mutazioni - obiettivo che solo una decina di anni fa sembrava
fantascientifico - oggi è una realtà praticata in moltissimi
laboratori di ricerca in tutto il mondo. Questo è stato possibile
grazie all’avanzamento tecnologico e allo sviluppo di sistemi
informatici capaci di analizzare l’enorme mole di dati ottenuta.
Per fare un paragone, il numero di lettere del genoma
di una persona riempirebbe una pila di libri alta come
l’Empire State Building.
Questo ramo della ricerca oncologica ha
permesso di scoprire la complessità del cancro
dal punto di vista molecolare e del genoma.
La maggior parte delle mutazioni nei
tumori (circa il 95%) sono sostituzioni
di singole basi nel DNA, mentre le
rimanenti sono delezioni o inserzioni o
amplificazioni. Alcuni tipi di tumore, come
il melanoma (tumore della pelle) o il tumore
al polmone, presentano un numero di mutazioni
molto elevato (in oltre 200 geni - Vogelstein et al.,
2013).
16
1.4 Un panorama genetico complesso
Ciò dipende dal fatto che questi tumori sono causati
per lo più da fattori ambientali, rispettivamente i raggi
ultravioletti e il fumo di sigaretta, particolarmente
aggressivi e capaci di danneggiare pesantemente il
DNA.
17
1.4 Un panorama genetico complesso
Figura 1.2 Elettroferogramma del gene BRCA2
In alto compare la sequenza di riferimento normale, in basso quella del DNA di una paziente con familiarità per carcinoma della mammella e dell’ovaio. La freccia
evidenzia una mutazione riscontrata nell’esone 22 del gene BRCA2.
Autore: Cancer Genetic Test Laboratory di Cogentech presso IFOM-IEO Campus
18
1.5
Tre processi chiave
nella progressione
tumorale
Tra tutti i geni che possediamo, quelli che, se mutati,
conferiscono alle cellule un vantaggio in termini proliferativi sono
solo una minima parte. In questo momento gli scienziati stimano
circa 138 geni (Vogelstein et al., 2013). Si tratta di geni coinvolti in
diversi meccanismi molecolari, che controllano sostanzialmente
tre processi cellulari fondamentali:
1. Il destino cellulare. Molte delle mutazioni identificate
nei tumori modificano il delicato equilibrio tra divisione
cellulare e differenziamento, a favore della prima.
Le cellule tumorali continuano a dividersi, anziché
arrestarsi e specializzarsi in una particolare
funzione, come fanno normalmente le cellule
sane del nostro organismo;
2. La sopravvivenza della cellula. Le
cellule tumorali sono in grado di crescere
anche in condizioni in cui le cellule normali
andrebbero incontro a morte, come per
esempio in mancanza di ossigeno o quando
i nutrienti scarseggiano oppure in assenza di
fattori di crescita (capitolo 2);
19
1.5 Tre processi chiave nella progressione tumoral
3. L’integrità del genoma. Le cellule tumorali
tollerano meglio i danni al DNA, provocati sia
da agenti esterni (come i radicali liberi, i raggi
ultravioletti o i farmaci chemioterapici) sia da
fattori interni (come quelli che si generano
durante la replicazione del DNA). Infatti,
spesso le cellule tumorali possiedono mutazioni
nei sistemi che rintracciano e riparano i danni
al DNA. Ciò permette loro di sfuggire ai
meccanismi di auto-distruzione che dovrebbero
innescarsi quando i danni al genoma diventano
eccessivi (capitolo 3), come accade invece nelle
cellule normali.
20
1.6
I tumori: tessuti
eterogenei e complessi
L’osservazione che i tumori sono un tessuto complesso formato
da tanti tipi cellulari era già nota alla fine del 1800, quando i
patologi, osservando al microscopio i primi campioni di tessuto
tumorale, notarono la presenza di cellule anche molto diverse tra
di loro.
Bisogna, però, attendere gli studi di biologia cellulare degli
anni ’70 e ’80 del secolo scorso per associare la diversità
morfologica a quella funzionale, dimostrando che cellule
tumorali prelevate da porzioni differenti dello stesso
tessuto possedevano capacità diversa di dare origine
a tumori quando trasferite in modelli sperimentali.
L’eterogeneità morfologica descritta alla fine
del 1800 e quella funzionale descritta quasi
cento anni più tardi sono due facce della
stessa medaglia: quella della variabilità
genetica.
Negli ultimi anni, l’avanzamento
tecnologico e lo sviluppo di software di
analisi sempre più efficienti hanno reso
più semplice e accessibile (anche in termini
di costi) il sequenziamento dell’intero genoma
tumorale (come nel caso del tumore alla mammella e
al colon-retto).
21
1.6 I tumori: tessuti eterogenei e complessi
I risultati di quest’analisi hanno confermato che
esiste una rilevante variabilità genetica sia tra lo stesso
tumore in persone diverse, sia tra aree differenti
dello stesso tumore, o ancora tra tumore primario e
metastasi nello stesso paziente.
Da qui nasce il concetto di eterogeneità genetica che
può essere definita come:
1. Eterogeneità intra-tumorale: cellule dello
stesso tumore possiedono mutazioni diverse.
Ogni volta che una cellula tumorale si divide,
acquista nuove alterazioni, che la rendono
diversa da quella che l’ha generata. Il numero
di mutazioni che esistono tra due cellule
neoplastiche dello stesso tumore è direttamente
proporzionale al tempo che è trascorso da
quando queste due cellule si sono originate dalla
progenitrice comune, in un processo simile a
quello della deriva genetica. All’interno di uno
stesso tumore, una cellula neoplastica sarà più
simile a una cellula vicina e più diversa a una
cellula lontana, come è stato descritto per i
tumori al pancreas (Yachida et al., 2010).
Figura 1.3 Il tessuto tumorale
All’interno del tumore convivono cellule tumorali, staminali del cancro (CSC),
cellule del sistema immunitario, del sistema vascolare e fibroblasti. La loro
interazione crea un particolare microambiente che contribuisce allo sviluppo del
tumore.
Autore: Cancer Genetic Test Laboratory di Cogentech presso IFOM-IEO Campus
22
1.6 I tumori: tessuti eterogenei e complessi
È evidente allora come i tumori siano variegati dal
punto di vista del patrimonio genetico e come sia
importante conoscere questa complessità per elaborare
una strategia di cura ottimale.
2. Eterogeneità inter-tumorale: la diversità
tra lo stesso tipo di tumore in pazienti diversi. È
ormai assodato, anche nella pratica clinica, come
due pazienti con lo stesso tipo di cancro possono
avere un decorso clinico anche molto differente.
Ognuno di noi, infatti, ha particolarità specifiche,
che riflettono il proprio patrimonio genetico.
Il DNA di ognuno di noi presenta minime (ma
cruciali) differenze, che determinano ad esempio
caratteristiche come il colore dei capelli o degli
occhi, l’altezza o ancora la capacità di assorbire
e metabolizzare un certo tipo di farmaco.
L’eterogeneità che si osserva tra due pazienti è
la principale difficoltà nella creazione di terapie
standard e uniformate. Questa osservazione è
anche alla base dello sviluppo della medicina
personalizzata di cui parleremo in seguito
(paragrafo 1.11).
Un simile livello di eterogeneità si osserva anche
nelle metastasi. All’interno della stessa metastasi, in
un paziente, le cellule tumorali hanno un patrimonio
genetico diverso (eterogeneità intra-metastatica), così
come metastasi tumorali dello stesso paziente hanno
genomi differenti (eterogeneità inter-metastatica).
23
1.7
Un’altra dimensione di
eterogeneità:
le cellule staminali del
cancro
Le scoperte scientifiche dell’ultimo decennio ci hanno fatto
comprendere che i tumori sono tessuti complessi, caratterizzati
da un alto grado di diversità (paragrafo 1.6). La variabilità
genetica rispecchia quella funzionale: al loro interno esistono,
infatti, aree con livelli differenti di crescita, di vascolarizzazione
e di aggressività, intesa come capacità di penetrare nei tessuti
circostanti.
La complessità intra-tumorale può essere in parte
spiegata dalla recente scoperta che nei tessuti
tumorali, come in quelli normali, sono presenti
cellule staminali tumorali (CSC). Queste cellule,
identificate per la prima volta a cavallo del
nuovo millennio nei tumori del sangue, sono
state isolate in seguito anche in molti altri
tumori solidi, come quello della mammella
o del pancreas (Cho and Clarke, 2008).
Quali caratteristiche hanno? E che ruolo
svolgono?
Si chiamano così perché il loro profilo
molecolare è molto simile a quello delle cellule
staminali “sane”: molti dei geni che sono “accesi”
o “spenti” nelle staminali normali, lo sono anche in
quelle tumorali, spesso però in maniera anomala.
24
1.7 Un’altra dimensione di eterogeneità: le cellule staminali del cancro
Come le cellule staminali normali, anche quelle
tumorali hanno un ritmo proliferativo basso e sono in
grado di auto-rigenerarsi.
Quando si dividono, lo fanno in modo asimmetrico,
dando origine a due cellule figlie con destini molto
diversi: una che si mantiene in uno stato di quiescenza
proliferativa, l’altra che va incontro a un vero e
proprio processo di espansione tramite successive
divisioni.
Le cellule prodotte in questo modo poi si
differenziano, contribuendo così a creare quella
complessità che abbiamo descritto prima
(paragrafo 1.6).
Le cellule staminali del cancro, invece,
contribuiscono a sostenere la crescita del tumore
tramite due processi:
1. L’auto-rigenerazione, che permette di creare
altre cellule staminali tumorali e di mantenere nel
tessuto una riserva di CSC;
2. Il differenziamento, che consente loro di
trasformarsi in cellule con precise caratteristiche
capaci di svolgere specifiche funzioni, creando
così quell’eterogeneità del tessuto tumorale
descritto in precedenza.
Figura 1.4 Divisione delle cellule staminali
Quando si duplica, la cellula staminale genera due cellule figlie: una mantiene le
caratteristiche di staminalità (1), l’altra (2) va incontro a differenziamento.
25
1.7 Un’altra dimensione di eterogeneità: le cellule staminali del cancro
Come si formano le cellule staminali tumorali?
Le origini non sono ancora del tutto note e
potrebbero anche variare secondo il tipo di tumore.
Per esempio in alcuni tumori, mutazioni a carico
delle cellule staminali normali, potrebbero alterarne
le funzioni e trasformarle in CSC. In altri, invece,
cellule non ancora completamente differenziate
potrebbero accumulare mutazioni oncogeniche,
che le porterebbero ad assumere caratteristiche di
staminalità.
Rimane ancora da capire se all’interno dello stesso
tumore possano esistere sotto-gruppi diversi di cellule
staminali tumorali, che si evolvono e si modificano
man mano che il tumore procede lungo il processo di
trasformazione tumorale, contribuendo ad alimentare
l’eterogeneità intra-tumorale.
La scoperta delle cellule staminali tumorali ha
importanti conseguenze anche dal punto di vista
terapeutico. In primo luogo, le CSC, proprio per la
loro scarsa capacità di proliferare, sono molto più
resistenti ai farmaci utilizzati durante la chemioterapia
(Singh and Settleman, 2010), che tipicamente colpiscono
cellule in attiva fase di divisione. Non solo, la presenza
di cellule staminali del cancro potrebbe spiegare
Figura 1.5 Origine delle cellule staminali del cancro (CSC)
Le CSC potrebbero derivare dall’accumulo di mutazioni in cellule parzialmente
differenziate (1) oppure da alterazioni in cellule staminali normali (2). Le
CSC si duplicano creando altre CSC (3) e progenitori (4) che differenziandosi
contribuiscono alla complessità del tessuto tumorale.
26
1.7 Un’altra dimensione di eterogeneità: le cellule staminali del cancro
anche la cosiddetta “dormienza”, un fenomeno in
base al quale un tumore o una cellula tumorale si può
mantenere in uno stato silente, di quiescenza, per
manifestarsi dopo, anche a distanza di decenni dalla
rimozione chirurgica del tumore primario.
Ne consegue che ogni trattamento antitumorale
per essere efficace dovrebbe avere come bersaglio
proprio la CSC o la capacità di una cellula tumorale di
riacquisire caratteri di staminalità. Questa sfida è resa
particolarmente difficile perché il numero di cellule
staminali in una massa tumorale è limitato e difficile da
studiare, anche perché mancano marcatori molecolari
in grado di identificare in modo univoco l’insieme delle
cellule staminali tumorali.
27
1.8
Il cancro: un’evoluzione
darwiniana
di cellule
nell’organismo
Il primo scienziato a considerare la progressione tumorale
come un processo governato dalle stesse leggi dell’evoluzione
darwiniana fu Peter Nowell nel lontano 1976 (Nowell, 1976).
Nell’articolo pubblicato sulla rivista scientifica Science, Nowell
propone che la progressione tumorale è un processo guidato
dall’acquisizione successiva di mutazioni genetiche, selezionate
proprio per la loro capacità di dare un vantaggio proliferativo
nel microambiente tumorale, in un meccanismo simile
all’evoluzione delle specie.
La teoria dell’evoluzione di Darwin si basa
sostanzialmente su due principi:
1. La variabilità genetica, creata per lo
più dalle mutazioni al DNA. Le mutazioni
generano nuove varianti nei geni, che
possono dare un vantaggio (o uno
svantaggio o essere neutre) all’organismo
che le possiede;
2. La selezione naturale, cioè quel
processo che permette agli organismi con le
migliori caratteristiche (la cosiddetta “fitness”)
di sopravvivere in un particolare ambiente.
Questo concetto, pionieristicamente proposto da
Nowell, è stato avvalorato da numerosi studi nell’ultimo
28
1.8 Il cancro: un’evoluzione darwiniana di cellule nell’organismo
decennio. I meccanismi dell’evoluzione darwiniana
sono gli stessi che governano la progressione tumorale:
le cellule pre-tumorali accumulano alterazioni nel
proprio genoma, che fanno nascere tante sottopopolazioni di cellule con un patrimonio genetico
leggermente diverso tra di loro e dalle cellule normali
da cui si sono originate. Se le mutazioni avvengono
in geni che regolano processi cruciali come il destino
cellulare, la sopravvivenza della cellula o l’integrità
del genoma (paragrafo 1.5), allora nascono nuove
varianti che mostrano un vantaggio rispetto alle cellule
normali. Ad esempio, i nuovi cloni possono dividersi
più velocemente rispetto alle cellule normali oppure
essere in grado di vivere anche in condizioni critiche,
come la scarsità di ossigeno. Le sotto-popolazioni di
cloni pre-tumorali continuano a mutare e a essere
selezionate dal microambiente, in un processo
adattativo, dove va avanti il clone (o i cloni) di cellule
che si adeguano meglio alle condizioni ambientali.
Il lungo periodo che di solito intercorre tra la nascita
dei primi cloni di cellule tumorali e la manifestazione
evidente della malattia, riflette proprio il tempo
necessario perché le cellule tumorali trovino, seguendo
un processo totalmente casuale, le combinazioni che si
Figura 1.6 L’evoluzione darwiniana del cancro
A differenza delle cellule normali (A), le cellule tumorali (B) sono caratterizzate
da instabilità genomica, che le rende più eterogenee. Mutando rapidamente il loro
genoma riescono ad adattarsi più facilmente al microambiente e a sopravvivere
alle diverse barriere selettive.
29
1.8 Il cancro: un’evoluzione darwiniana di cellule nell’organismo
adattano meglio al microambiente del tessuto nel quale
si trovano.
L’interazione tra le cellule tumorali e l’ambiente
è reciproca. Le cellule neoplastiche interagiscono
con esso e lo modificano attivamente, ad esempio:
rimodellandolo e creando delle nicchie specializzate in
cui le condizioni sono ideali per sostenere la propria
crescita; o ancora, reclutando e corrompendo le cellule
“sane” circostanti, perché le aiutino ad attuare i propri
programmi (Hanahan and Coussens, 2012).
Il microambiente tumorale non è un sistema chiuso
e statico, ma piuttosto un ecosistema in continua
evoluzione, influenzato da fattori locali, come la
concentrazione di certi ormoni o la presenza di
nutrienti, e da fattori esterni, legati per esempio
all’ambiente e allo stile di vita dell’individuo.
L’esposizione ad agenti che alterano il DNA, come il
fumo di sigaretta o la luce ultravioletta, la presenza
di infezioni virali, gli effetti a lungo termine dello
stile alimentare o dei livelli di attività fisica, sono tutti
elementi che influenzano parametri fisiologici: dalla
concentrazione di alcuni ormoni, alla quantità di
glucosio che circola nel sangue, alla presenza o meno
di un’infiammazione.
Tutto ciò concorre a rimodellare continuamente
il microambiente tumorale. Si tratta dunque di un
processo progressivo e dinamico, dove le cellule
tumorali influenzano il microambiente e dove
quest’ultimo opera una selezione dei cloni più adatti
alla sopravvivenza (Greaves and Maley, 2012).
Le stesse terapie cui si sottopongono i pazienti affetti
da tumore, come la chemioterapia o la radioterapia,
alterano in maniera drammatica l’ecosistema tumorale.
I farmaci e le radiazioni ionizzanti, di fatto, eliminano
le cellule tumorali, perché bloccano la loro capacità
di dividersi e proliferare. La morte massiccia dei cloni
tumorali, che fino a quel momento erano cresciuti
perché possedevano le caratteristiche genetiche
adeguate per quel microambiente, modifica a sua volta
il sistema.
Ed è la stessa terapia a creare una nuova pressione
selettiva, cioè un nuovo microambiente.
La conseguenza è che altre sotto-popolazioni
tumorali, fino ad allora rimaste quiescenti perché prive
di un profilo genetico adeguato per quell’ambiente
o mantenutesi in uno stato di quiescenza, come nel
caso di cellule staminali, ora, cambiate le condizioni,
possono emergere e ripopolare il tumore.
30
1.8 Il cancro: un’evoluzione darwiniana di cellule nell’organismo
Il fenomeno è stato descritto dal punto di vista
molecolare per alcuni tumori, tra cui alcuni tipi di
cancro del colon-retto (Diaz et al., 2012) e del polmone
(Postel-Vinay and Ashworth, 2012). Questa scoperta
recentissima spiegherebbe il perché in alcuni casi la
malattia può ripresentarsi a distanza di tempo dal
trattamento farmacologico, che in un primo momento
si era dimostrato efficace.
Conoscere il profilo genetico dei tumori è dunque
importantissimo, perché consente di adeguare di volta
in volta la terapia farmacologica alle caratteristiche
specifiche del microambiente tumorale, identificando
e colpendo più meccanismi contemporaneamente, così
da impedire ai cloni quiescenti di emergere.
31
1.9
Verso terapie sempre
più personalizzate
La possibilità di sequenziare in tempi brevi l’intero genoma di
un particolare tipo di tumore nelle varie fasi della sua evoluzione,
insieme all’avanzamento delle discipline che ci permettono di
analizzare queste informazioni, come la bioinformatica e la
biologia computazionale, ha permesso agli scienziati di scoprire
molte informazioni rilevanti. Conosciamo, ad esempio, i geni più
frequentemente alterati, le mutazioni più ricorrenti all’interno di
un gene, gli effetti, di alcune di queste modificazioni sui
meccanismi molecolari che regolano la cellula.
La strada verso la completa conoscenza molecolare
dei tumori è ancora lunga, ma già ora possiamo
prevedere dove ci porterà e quali saranno i suoi
effetti sia nella diagnosi sia nella cura dei
pazienti. La fotografia molecolare di un
tumore ci permette, infatti, di apprendere
quali meccanismi sono alterati e di
disegnare delle terapie specifiche capaci
di colpire solo le cellule che possiedono
queste alterazioni (i bersagli molecolari),
diminuendo anche eventuali effetti collaterali
sulle cellule sane.
È questa la rivoluzione cui stiamo assistendo: da
una medicina one size fits all (un’unica cura per tutti)
a una visione personalizzata e specifica in cui la terapia è
32
1.9 Verso terapie sempre più personalizzate
tracciata sul profilo molecolare del singolo tumore nel
singolo paziente.
La medicina personalizzata sviluppa trattamenti
terapeutici basati sulle caratteristiche di ogni paziente,
che riceve la combinazione giusta di farmaci (in
base al proprio profilo genetico e a quello della
sua malattia), nella dose appropriata e al momento
adeguato.
Gli obiettivi? Massimizzare le potenzialità di cura,
minimizzare la tossicità dei trattamenti e soprattutto
individuare i pazienti che saranno in grado di
beneficiare della terapia.
L’osservazione che pazienti diversi rispondono in
modo diverso allo stesso farmaco, anche quando esso
è somministrato nello stesso dosaggio, per curare la
medesima patologia, è un fenomeno già noto da tempo.
È qualcosa che ognuno di noi ha sperimentato in
prima persona: quante volte un certo principio attivo
utile a eliminare il mal di testa in una persona, su di
noi non ha alcun effetto?
Per svolgere la propria funzione, infatti, un farmaco
deve essere assorbito, distribuito nel sito di azione,
deve interagire con il suo specifico bersaglio, essere
metabolizzato dall’organismo e infine eliminato.
La quantità di farmaco attiva in un individuo
dipende, quindi, da processi come il suo assorbimento,
la sua distribuzione, il suo metabolismo e la sua
escrezione. Tutti questi fenomeni sono specifici per
ogni persona proprio come lo è il suo patrimonio
genetico. Se confrontassimo il DNA di due esseri
umani, scopriremmo che è simile per il 99.7%: il
restante 0.3% è differente da persona a persona e
spiega la nostra unicità.
Nei pazienti affetti da tumore, la situazione è
ulteriormente complicata dal fatto che anche il tumore
ha un proprio specifico patrimonio genetico che, come
abbiamo visto nei paragrafi precendenti (paragrafo
1.8), è diverso da quello dell’individuo in cui insorge e
soprattutto soggetto a rapide e continue modificazioni.
Diventa quindi importante analizzare il genoma
del paziente e quello del tumore per riconoscere
la presenza di “segnali” che ci comunicano queste
caratteristiche.
Per farlo, la medicina personalizzata si avvale
dell’uso di marcatori molecolari (o biomarkers), che
possono essere di tre tipi:
33
1.9 Verso terapie sempre più personalizzate
1. Predittivi: consentono di predire se un
paziente risponderà o no a una certa terapia.
I marcatori predittivi aiutano gli oncologi a
scegliere il farmaco (o sue combinazioni) più
adeguato. Ad esempio, si è visto che pazienti
con tumore al seno, caratterizzato dal punto di
vista molecolare dalla presenza di più copie del
gene ERBB2, beneficiano del trattamento con
anticorpi (Herceptin) che attaccano la proteina
codificata dal gene ERBB2 e ne bloccano
l’azione. Lo stesso trattamento non è efficace
in persone con tumore privo della mutazione.
Oppure, pazienti affetti da melanoma (tumore
della pelle), con mutazioni che attivano il gene
BRAF possono essere trattati con farmaci che
bloccano l’attività della proteina corrispondente.
ERBB2 e BRAF sono solo alcuni esempi delle
decine di geni e proteine che possono diventare
il bersaglio d’azione di farmaci mirati, i farmaci
molecolari.
Tabella 1.3 Alcuni esempi di biomarcatori predittivi utilizzati nella
pratica clinica
34
1.9 Verso terapie sempre più personalizzate
2. Prognostici: permettono di predire
l’andamento naturale della malattia e stimare se
quel particolare tipo di tumore avrà un decorso
favorevole. Per esempio, analizzando il profilo
molecolare di tumori alla mammella, gli scienziati
hanno scoperto che è possibile stimare come
si evolverà la malattia, analizzando il grado
di accensione di un gruppo limitato di geni.
Esistono specifici test, come il Mammaprint,
che analizza 70 geni, o OncotypeDx, che ne
valuta solo 22 , per predire con accuratezza se la
malattia in quella paziente avrà un andamento
positivo oppure no.
Questa informazione è importantissima per la
scelta della terapia, che deve essere allo stesso
tempo la più efficace possibile e con minori effetti
collaterali. Le pazienti a prognosi negativa,
dopo la rimozione chirurgica del tumore, sono
indirizzate verso la chemio e la radioterapia. Le
altre, invece, sono curate solo chirurgicamente,
poiché hanno un tumore poco aggressivo, che
non richiede altre terapie. In questo modo,
chemio e radioterapia sono somministrate solo
alle pazienti che ne hanno realmente bisogno,
mentre a tutte le altre si evitano inutili radiazioni
o trattamenti farmacologi che comportano, pur
sempre, effetti collaterali non trascurabili.
Tabella 1.4 Alcuni esempi di biomarcatori prognostici utilizzati nella
pratica clinica
35
1.9 Verso terapie sempre più personalizzate
3. Di controllo: permettono di seguire
l’andamento della terapia e di tenere sotto
controllo l’eventuale ricomparsa del tumore,
prima che sia visibile tramite immagini
radiologiche o clinicamente. È il caso dell’analisi
dei livelli della proteina BCR-ABL1 nei bambini
con leucemia mieloide cronica. Gli scienziati
hanno osservato che è possibile prevedere
l’eventuale ricorrenza della malattia, analizzando
dal punto di vista molecolare la presenza di
specifici riarrangiamenti cromosomici nei
campioni tumorali (Van Dogen et al., 1998).
Permette, innanzitutto di offrire la migliore cura
possibile a ciascuno, oltre che di ottimizzare la spesa
sanitaria, riducendo i costi di terapie inutili. Riuscire
a contenere i costi e a impiegarli in modo sempre più
efficiente è una delle sfide della medicina del futuro,
vista anche la sempre maggiore diffusione dei tumori.
I marcatori molecolari, dunque, si usano in diversi
momenti: dalla fase iniziale della diagnosi (servono,
infatti, anche per confermare la presenza del tumore
quando i sintomi non sono ancora evidenti), alla scelta
della migliore terapia, al monitoraggio dell’efficacia del
trattamento.
La possibilità di stratificare, cioè suddividere, i
pazienti in funzione del rischio di sviluppare un certo
tipo di tumore o della loro risposta a una terapia o
della probabilità di sviluppare una recidiva, ha delle
implicazioni sociali ed economiche rilevanti.
36
1.10
Il concetto di rischio
e la responsabilità
individuale
L’incidenza del cancro è in continuo aumento: ogni giorno
in Italia sono diagnosticati circa 1.000 nuovi casi di tumore (I
Numeri del cancro in Italia, 2013). Questo sia perché la vita media
si sta progressivamente allungando (e il cancro è una malattia
legata all’età), sia perché abbiamo modificato il nostro stile di
vita, adottando comportamenti che possono favorire l’insorgere
della malattia. A tutto questo si aggiunge, inoltre, una maggiore
capacità rispetto al passato di riconoscere i tumori, che
ci porta oggi a compiere molte più diagnosi di qualche
anno fa.
Il fatto che i tumori siano causati sia da fattori
genetici sia da fattori ambientali è noto da
tempo (paragrafo 1.2), come pure che
determinati comportamenti siano correlati
a una maggiore possibilità di ammalarsi.
Ad esempio: l’incremento dei tumori al
polmone nella popolazione femminile, che
si sta registrando negli ultimi anni è legato
all’aumento del numero di fumatrici.
All’inizio degli anni Ottanta fu redatto il
primo elenco, scientificamente dimostrato, dei
principali fattori di rischio legati allo stile di vita e
all’ambiente.
37
1.10 Il concetto di rischio e la responsabilità individuale
Il lavoro, pubblicato da due epidemiologi (Doll and
Peto, 1981), individua una dozzina di fattori e prova a
dare per alcuni una stima numerica di quanti tumori
possano essere causati (o evitati) da quell’elemento
specifico.
Oggi, dopo trent’anni di studi epidemiologici e
statistici, sappiamo che il nostro comportamento e le
nostre abitudini possono ridurre o aumentare il rischio
di ammalarsi di tumore.
Per esempio smettere di fumare riduce il rischio di
contrarre il tumore al polmone (Kenfield et al., 2008),
oppure l’assunzione di aspirina per lunghi intervalli di
tempo aiuta a prevenire il tumore al colon (Rothwell et
al., 2010).
Il rischio di ammalarsi di cancro varia anche in
funzione delle condizioni socio-economiche. Questo
emerge sia da studi condotti su gruppi di persone
che hanno cambiato il proprio stile di vita, migrando
in aree geografiche diverse, sia esaminando come si
evolve il rischio di cancro nei paesi in via di sviluppo.
Ad esempio, l’incidenza del cancro alla mammella è
sensibilmente aumentata in Paesi, come la Corea, che
hanno conosciuto una rapida industrializzazione negli
ultimi anni.
Tutto questo ci fa capire come l’incidenza di
un determinato tipo di tumore dipenda, oltre
che dal patrimonio genetico di una persona, da
variabili ambientali, sociali, economiche, e legate ai
comportamenti individuali.
38
1.10 Il concetto di rischio e la responsabilità individuale
Tabella 1.5 Quota di tumori attribuibili ai vari fattori di rischio
Tratta dallo studio del National Cancer Institute: PQD® Cancer Prevention
Overview (disponibile integralmente al sito http://cancer.gov/cancertopics/pdq/
prevention/overview/HealthProfessional).
39
1.11
Prevenzione: un’arma
efficace contro il
cancro
Negli ultimi anni si è passati da un approccio unicamente
legato alla diagnosi e cura della malattia a una visione proattiva,
in cui la prevenzione gioca un ruolo importante. È possibile fare
prevenzione a diversi livelli: curando lo stile di vita (prevenzione
primaria), sottoponendosi a regolari controlli medici specifici in
base al proprio rischio (prevenzione secondaria) e, anche quando
è insorta la malattia, possiamo controllarne l’evoluzione tramite
la cosiddetta prevenzione terziaria.
Prevenzione primaria
Lo scopo della prevenzione primaria è quello
di ridurre l’insorgenza dei tumori, adottando
una serie di comportamenti che - è
scientificamente dimostrato - ci permettono
di ridurre il rischio di contrarre la malattia.
Esempi di prevenzione primaria sono:
smettere di fumare, evitare di esporsi al
sole nelle ore centrali della giornata quando
i raggi ultravioletti possono danneggiare il
DNA delle cellule e proteggere la propria
pelle con filtri solari adeguati, fare regolare
attività fisica, o ancora curare l’alimentazione.
Un altro esempio, forse meno noto, di prevenzione
primaria è quello di vaccinarsi contro alcuni tipi di virus
40
1.11 Prevenzione: un’arma efficace contro il cancro
(come il virus dell’epatite B o il papilloma virus)
che aumentano il rischio di sviluppare tumori
(rispettivamente del fegato e della cervice uterina).
Numerose associazioni, come l’Associazione Italiana
per la Ricerca sul Cancro (http://www.airc.it) e la
Lega Italiana per la lotta contro i tumori (http://
www.legatumori.it) si occupano da anni di informare
in modo semplice e chiaro la popolazione circa i
comportamenti corretti e quelli da evitare.
della prevenzione secondaria si inseriscono, inoltre,
alcuni programmi di screening, promossi dal
Sistema Sanitario Nazionale, dove gruppi specifici di
popolazione sono invitati a sottoporsi gratuitamente
a determinati esami. È il caso della mammografia,
utile per diagnosticare il tumore alla mammella, a
cui le donne tra i 50 e i 69 anni possono sottoporsi
gratuitamente ogni due anni. Oppure del Pap-test, che
permette di individuare i tumori della cervice uterina,
che può essere realizzato gratuitamente ogni tre anni
dalle donne nella fascia d’età tra i 25 e i 65 anni.
Le modalità di realizzazione delle campagne di
screening e il grado di adesione variano da Regione
a Regione e il tipo di screening (genere e fascia d’età
delle persone invitate, tipologia di esame, frequenza
dello stesso) dipende ovviamente dal tipo di tumore
che si vuole andare a diagnosticare.
Prevenzione secondaria
Se la prevenzione primaria si pone come obiettivo
quello di ridurre la probabilità di sviluppare la
malattia, la prevenzione secondaria si prefigge,
invece, quello di scoprire il tumore in fasi sempre
più precoci. Sulla base delle evidenze scientifiche
ottenute negli anni, abbiamo un quadro sempre più
chiaro e delineato di quali esami, nelle varie fasce
d’età, consentono di individuare precocemente un
tumore. Diventa allora importantissimo eseguire
questi test, per scoprire il tumore quando è ancora
localizzato in un organo, non ha formato metastasi
e dunque può essere rimosso chirurgicamente e/o
trattato con farmaci in modo efficace. All’interno
Prevenzione terziaria
Anche quando il tumore è stato diagnosticato, è
possibile fare prevenzione. Si parla in questo caso di
prevenzione terziaria, che ha come obiettivi prevenire
complicanze associate alla cura, diminuire il rischio di
recidive e migliorare la qualità della vita del paziente.
41
1.11 Prevenzione: un’arma efficace contro il cancro
Fare prevenzione terziaria significa, dunque, proporre
l’approccio terapeutico migliore per quel paziente
con quella specifica malattia, migliorare i programmi
di sorveglianza in modo da diagnosticare eventuali
ricadute con l’obiettivo di aumentare la sopravvivenza
dei malati oncologici.
42
1.12
Comprendere la
complessità
Abbiamo dunque compreso come il cancro sia una malattia
complessa ed eterogenea, dalla variabilità delle cellule che
lo compongono al genoma delle cellule tumorali, dalle sue
manifestazioni cliniche alle risposte dei singoli pazienti ai
trattamenti terapeutici.
Una complessità che richiede sempre più studi approfonditi
a diversi livelli. La ricerca di base svolge un ruolo prioritario e
insostituibile.
Apponendo nuova conoscenza permette di
comprendere sempre meglio i meccanismi
molecolari alla base della formazione e della
progressione neoplastica, di svelare tutti gli
attori in gioco e di fornire quel substrato
di conoscenze sviluppabili in seguito
dalla ricerca farmacologica (farmaci e/o
test diagnostici), dalla ricerca clinica
(per l’applicazione di nuovi marcatori
molecolari) e da quella epidemiologica (per
l’individuazione di piani di monitoraggio
della malattia).
Proprio grazie alla ricerca di base, negli ultimi
dieci anni, sono stati fatti enormi progressi nella
comprensione del cancro.
43
1.12 Comprendere la complessità
Uno fra tutti, quello su cui questa pubblicazione si
focalizza, il cogliere che la variabilità e la complessità
del cancro, possono essere ricondotte a dieci tratti che
descrivono le caratteristiche, finora conosciute, di tutte
le cellule tumorali.
Si tratta dei cosiddetti hallmarks of cancer che
vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo.
44
2
L’IDENTIKIT DEL
CANCRO IN DIECI
TRATTI
“We foresee cancer research
developing into a logical
science, where the complexities
of the disease, described in
the laboratory and clinic, will
become understandable in
terms of a small number of
underlying principles”
D. Hanahan e R. A. Weinberg,
Cell 2011
45
PROLIFERARE
ANCHE SENZA
SEGNALI DI
CRESCITA
CRESCERE IN
PRESENZA DI
SEGNALI DI
ARRESTO
SFUGGIRE AL
SISTEMA
IMMUNITARIO
RIPROGRAMMARE
IL METABOLISMO
PROLIFERARE
IN MODO
ILLIMITATO
AGGIRARE LA
MORTE CELLULARE
INSTABILITÀ
GENOMICA
INFIAMMAZIONE
LOCALE
PROMUOVERE
L'ANGIOGENESI
Introduzione
Negli ultimi quarant’anni la ricerca sul cancro ha fatto
passi da gigante nella comprensione della genesi e della
progressione tumorale. Per esempio, abbiamo capito che
il cancro è una malattia eterogenea, esistendo più di
200 forme tumorali differenti nell’uomo (www.
cancerresearchuk.org); inoltre, abbiamo appreso
che è una malattia genetica che insorge a causa
dell’accumulo di mutazioni nel DNA delle
cellule e che il processo di trasformazione
neoplastica è un fenomeno articolato in
diversi passaggi successivi.
Scienziati di tutto il mondo hanno
evidenziato la complessità e soprattutto
la variabilità del cancro dal punto di
vista genetico, morfologico, istologico ma
anche dal punto di vista del suo decorso
prognostico.
Come approfondito nel capitolo 1, questo
come gli stessi trattamenti terapeutici possono
avere efficacia diversa e variabile a seconda non
solo del tipo di tumore, ma anche del genoma del
paziente, che può rispondere più o meno efficacemente
a un certo tipo di cura, aprendo la strada verso una
medicina personalizzata.
MIGRARE E
INVADERE
46
Introduzione
A fronte di tanta variabilità, siamo in grado di
identificare dei tratti distintivi presenti in tutti i
tumori?
È possibile classificare la molteplicità dei dati che
gli scienziati ogni giorno producono in un numero
limitato di meccanismi comuni a tutte le cellule
tumorali?
Queste sono le domande che, alle soglie del XXI
secolo, si sono posti due scienziati impegnati da anni
nella ricerca sul cancro.
Si tratta di Douglas Hanahan e di Robert Weinberg
che nel 2000, per primi, hanno introdotto un concetto
destinato a diventare uno dei paradigmi nella ricerca
sul cancro: tutte le cellule tumorali possiedono un
insieme di tratti distintivi che le caratterizzano, i
cosidetti hallmarks of cancer (Hanahan and Weinberg, 2010
e Hanahan and Weinberg, 2011).
Douglas Hanahan (Seattle, 1951)
è direttore del Swiss Institute for
Experimental Cancer Research (ISREC) di
Losanna, dove studia le interazioni tra tumore
e microambiente. Tra i suoi numerosi contributi
alla scienza, si ricorda la messa a punto di
protocolli di trasformazione di E.coli con DNA
ricombinante.
Robert A. Weinberg (Pittsburgh, 1942)
dirige un gruppo di ricerca al Whitehead
Institute for Biochemical Research, di cui
è uno dei fondatori, presso il Massachussets
Institute of Technology (MIT) di Cambridge.
Weinberg identificò il primo oncogene (Ras)
e il primo oncosoppressore (Rb). Ora studia
i meccanismi di migrazione cellulare e
metastasi.
47
Introduzione
Un insieme definito e costante di capacità che
le cellule tumorali in un modo o nell’altro devono
acquisire perché siano in grado di dar origine a un
tumore.
I tratti distintivi sono le capacità di:
proliferare in modo indipendente dai fattori di
crescita;
Le cellule tumorali raggiungono queste capacità
in un tempo relativamente breve, se pensiamo che
un tumore può svilupparsi nell’arco di una decina
d’anni (http://www.cancerresearchuk.org/). In
questo percorso sono agevolate da due processi, che
“spianano” loro la strada.
Si tratta dell’instabilità genomica (capitolo 3) e
della possibilità di sfruttare l’infiammazione locale.
Instabilità genomica e infiammazione locale sono di
fatto gli strumenti attraverso i quali le cellule tumorali
accumulano alterazioni e costituiscono altri due tratti
distintivi.
1. essere insensibili ai fattori che bloccano la
crescita cellulare;
2. aggirare i meccanismi di morte cellulare
programmata (o apoptosi);
3. proliferare in maniera illimitata;
4. costruire un proprio sistema vascolare (o
angiogenesi);
5. invadere i tessuti circostanti e colonizzare
organi a distanza (o metastasi);
6. modificare il metabolismo energetico della
cellula;
7. sfuggire alla risposta immunitaria.
48
2.1
Proliferare anche senza
segnali
di crescita
Le cellule del nostro organismo si trovano in continuo
equilibrio tra segnali proliferativi, che le stimolano a crescere, e
segnali anti-proliferativi che le bloccano (paragrafo 2.2). Questo
equilibrio è regolato con grande precisione e, se da una parte
consente di rinnovare le cellule vecchie o danneggiate, dall’altra
permette di evitare che la proliferazione prenda il sopravvento,
alterando il tessuto stesso e la sua funzione.
Ogni cellula riceve milioni di segnali sia dal suo interno
sia dall’ambiente in cui si trova, ed è in grado di tradurli in
una risposta precisa, come per esempio dividersi (paragrafo
2.4), muoversi (paragrafo 2.6) o persino auto-distruggersi
(paragrafo 2.3). Sulla membrana cellulare sono presenti
delle vere e proprie “antenne”, i recettori capaci di captare
questi segnali e di ri-trasmetterli all’interno della cellula.
I segnali possono essere fattori di crescita liberamente
circolanti o piccole molecole che fanno parte della
matrice extra-cellulare di un tessuto oppure molecole
coinvolte nell’adesione cellula-cellula (box 2.4). Quando il
recettore si lega al suo segnale specifico, il ligando, si attiva
e dà il via a una serie di eventi precisi, la cosiddetta cascata
del segnale, che coinvolgono in successione diverse molecole.
Esse trasmettono il segnale fino al nucleo, dove è elaborata
una risposta: in questo caso l’accensione del gruppo di geni che
indicano alla cellula di dividersi.
49
2.1 Proliferare anche senza segnali di crescita
Una delle caratteristiche che accomuna le cellule
tumorali, la prima a essere stata identificata dagli
scienziati, è la capacità di dividersi indipendentemente
dalla presenza di segnali proliferativi. È proprio
questa peculiarità, unitamente all’abilità di proliferare
in modo illimitato (paragrafo 2.4), che permette alle
cellule tumorali di creare delle masse macroscopiche in
tempi brevi.
Esse usano diverse strategie per diventare autosufficienti dai fattori di crescita, vale a dire per
proliferare indipendentemente da ciò che l’ambiente
esterno indica di fare, tra cui:
1. Produrre i propri segnali di crescita. Le
cellule tumorali possono creare autonomamente
i fattori di crescita di cui hanno bisogno
per proliferare. È il caso, per esempio, dei
glioblastomi (un tipo di tumore del cervello) che
sono in grado di produrre il PDGF (fattore di
crescita derivato dalle piastrine), necessario per il
loro sostentamento (Jeggins et al., 1997);
2. Aumentare la quantità di recettori sulla
membrana cellulare. Questo consente alle
cellule tumorali di attivare risposte importanti
anche con concentrazioni minime di fattore di
Figura 2.1 L’attivazione di un recettore tirosin-chinasico
Il ligando lega la parte extra-cellulare del recettore, causando la sua
dimerizzazione e la sua fosforilazione, cioè l’aggiunta di gruppi fosfato (stelle)
nella coda intra-cellulare.
50
2.1 Proliferare anche senza segnali di crescita
crescita, come accade, per esempio, in alcuni tipi
di carcinoma dello stomaco o della mammella
(Yarden and Ulrich, 1988);
che innescano la divisione cellulare;
6. Stimolare le cellule normali del
microambiente che circonda il tumore nascente a
produrre i fattori di crescita di cui ha bisogno
per proliferare (Bhowmick et al., 2004). La ricerca
sul cancro degli ultimi anni ha evidenziato che
le cellule sane che circondano il tumore hanno
un ruolo attivo nei meccanismi di formazione,
crescita e disseminazione del cancro (capitolo 1).
3. Modificare la struttura del recettore,
rendendolo attivo anche in assenza del fattore
di crescita. In questo modo le cellule tumorali
si comportano come se fossero costantemente
esposte a segnali di proliferazione;
4. Alterare i componenti che trasmettono il
segnale dal recettore al nucleo della cellula,
facendo in modo che siano sempre attivi. Si tratta
di una strategia analoga a quella descritta sopra,
ma che in questo caso coinvolge le molecole che
trasmettono il segnale dal recettore attivato al
nucleo. Uno dei più importanti “trasmettitori” è
la proteina RAS, alterata nel 40% dei melanomi
umani (Davies and Samuels, 2010);
Se molti degli attori coinvolti nelle diverse cascate
mitogeniche che si sviluppano dai recettori di
membrana sono stati scoperti, ancora molto rimane
da comprendere circa i meccanismi di rilascio e di
controllo dei fattori di crescita da parte delle cellule
sane circostanti. Questa sfida è ancora aperta ed è
complicata dalle difficoltà di studiare il microambiente
tumorale senza perturbarlo e dalla presenza di
numerosi fattori in grado di alterare la biodisponibilità
di questi segnali.
5. Modificare il tipo di recettori presenti sulla
membrana cellulare, favorendo la presenza
di recettori capaci di trasmettere segnali di
crescita. In questo modo, ampliando il repertorio
di “antenne” in grado di captare segnali
proliferativi, aumenta anche la varietà di segnali
51
2.1 Proliferare anche senza segnali di crescita
La Videopillola
Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Proliferazione
indipendente dai segnali di crescita” sul canale video di IFOM
52
2.2
Crescere in presenza di
segnali di arresto
La crescita delle cellule nel nostro organismo è un processo
regolato in maniera molto accurata e dipende dalla presenza
di segnali proliferativi, che stimolano la crescita (paragrafo
2.1), e segnali anti-proliferativi che la bloccano. La capacità
di dividersi indipendentemente dai fattori di crescita non è
sufficiente a garantire la formazione di un tumore. Infatti, nel
confrontare le caratteristiche comuni a tutte le cellule tumorali,
gli scienziati hanno scoperto che esse devono possedere anche
un’altra proprietà: l’abilità di aggirare i sistemi regolativi che, nel
corso dell’evoluzione, le cellule hanno sviluppato per impedire
un’eccessiva proliferazione e per garantire così il corretto
funzionamento e l’organizzazione strutturale del tessuto cui
appartengono.
I segnali che contrastano la crescita cellulare sono
costituiti sia da molecole solubili che insolubili. In
entrambi i casi si tratta di fattori che, legandosi a specifici
recettori sulla membrana della cellula “da bloccare”,
innescano cascate di segnali paragonabili alle cascate
che controllano i meccanismi proliferativi. Mentre i fattori
insolubili sono molecole legate alla matrice extracellulare o
alla superficie delle cellule vicine, quelli solubili sono liberi
di spostarsi negli spazi cellula-cellula e dunque di esercitare il
proprio effetto con un raggio d’azione più ampio.
53
2.2 Crescere in presenza di segnali d’arresto
I segnali anti-proliferativi agiscono principalmente
sul ciclo cellulare in due modi (box 2.1):
che li integrano, li smistano e li indirizzano verso il
nucleo.
Qui viene elaborata una risposta “trascrizionale”,
come l’accensione o lo spegnimento di gruppi di
geni che controllano l’uscita dal ciclo cellulare o
l’esecuzione di programmi di differenziamento, di
senescenza o di apoptosi.
1. Facendo entrare la cellula in uno stadio
particolare del ciclo cellulare, la cosiddetta fase
G0, in cui essa è quiescente e non può dividersi.
Si tratta di una condizione reversibile: se le
circostanze nell’ambiente lo consentiranno, la
cellula potrà nuovamente rientrare nel ciclo
cellulare e completarlo, dividendosi. In altri
casi, invece, avvierà i programmi di apoptosi
(paragrafo 2.3) o di senescenza (paragrafo 2.4);
Box 2.1 - Il Ciclo Cellulare
2. Portando la cellula alla condizione
irreversibile di differenziamento terminale.
In questo stadio le cellule non possono più
dividersi e semplicemente continuano a vivere,
svolgendo la funzione specifica per cui sono state
programmate. Si tratta di una fase comune alla
maggior parte delle cellule del nostro organismo
che sono differenziate, come per esempio i
neuroni, gli epatociti o le cellule muscolari.
Il ciclo cellulare è il periodo compreso tra
una divisione cellulare e la successiva ed è
caratterizzato da una sequenza ben definita di fasi:
fase
G1:
crescita
e
produzione
delle
strutture
cellulari necessarie per vivere, tra cui gli organelli;
fase
S:
duplicazione
del
DNA;
fase
G2:
preparazione
alla
divisione
cellulare;
fase
M:
divisione
cellulare,
seguita
poi
dalla
divisione
del
citoplasma
(citodieresi),
al
termine
della
quale
sono
generate
due
cellule
figlie.
Da G1 le cellule possono entrare in G0 in cui sono vitali ma
quiescenti, cioè non proliferano. È una fase reversibile: le
cellule possono tornare in G1 e riprendere a proliferare.
Il passaggio da una fase all’altra è controllato con
precisione in specifici punti di controllo (i checkpoint).
I circuiti molecolari che regolano la risposta antiproliferativa sono numerosi e molto articolati: si
avvalgono di diversi recettori di membrana per
captare i segnali, di complessi molecolari intracellulari
54
2.2 Crescere in presenza di segnali d’arresto
Due attori cruciali di questi circuiti sono le proteine
Rb (retinoblastoma) e p53. Mentre Rb integra i
segnali anti-proliferativi provenienti principalmente
dall’ambiente circostante, p53 capta i segnali di stress
o di malfunzionamento all’interno della cellula e si
attiva per esempio se i danni al DNA sono eccessivi
oppure se i livelli di glucosio e di altri metaboliti sono
insufficienti alla crescita. Mutazioni in queste due
proteine chiave, o in quelle dei circuiti che dirigono, si
ripercuotono sulla capacità della cellula di rispondere
efficacemente a segnali di allarme.
In una cellula normale, se le condizioni di crescita
non sono ottimali, il circuito diretto da p53 si attiva,
bloccando il ciclo cellulare oppure eseguendo
programmi di senescenza o addirittura di apoptosi. Se
p53 non funziona correttamente, i medesimi segnali
di stress non saranno adeguatamente percepiti dalla
cellula, che continuerà a dividersi e utilizzerà strategie
diverse per aggirare gli ostacoli e per continuare
a crescere, ad esempio modificando il proprio
metabolismo energetico (paragrafo 2.7).
È importante sottolineare che i circuiti molecolari
che sopprimono la crescita cellulare sono spesso
funzionalmente ridondanti (esistono circuiti paralleli
ma distinti per l’esecuzione di una stessa funzione) ed
integrati (alcuni elementi di un circuito interagiscono
e sono in grado di influenzare l’attività di membri
dell’altro). Il livello di conoscenza molecolare di questa
rete di segnali è ancora incompleto, ma rappresenta
una delle sfide ineludibili per comprendere i
meccanismi alla base dello sviluppo di una cellula
tumorale.
Figura 2.2 I checkpoint del ciclo cellulare
In ogni fase del ciclo cellulare esistono dei punti di controllo specifici (segnali rossi
di STOP), in cui la cellula verifica che tutto stia procedendo correttamente. Nel
disegno sono indicati i principali checkpoint.
55
2.2 Crescere in presenza di segnali d’arresto
La Videopillola
Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Insensibilità ai
fattori che bloccano la crescita cellulare” sul canale video di IFOM
56
2.3
Aggirare la
morte cellulare
Le prime evidenze sperimentali che portarono gli scienziati a
ritenere la morte cellulare programmata (o apoptosi) una delle
barriere naturali che le cellule oppongono allo sviluppo dei
tumori risalgono agli inizi degli anni ’70, quando si osservarono,
per la prima volta, massicci fenomeni apoptotici in cellule in forte
crescita (Kerr et al., 1972).
Questo fenomeno fu interpretato come un’estrema difesa
messa in campo dalle cellule che attivavano la morte cellulare
per salvaguardarsi dalla possibilità di diventare tumorali.
L’apoptosi permette, infatti, di eliminare da un certo tessuto le
cellule vecchie, danneggiate o che non seguono correttamente
il programma per cui sono state create. Si tratta di un
fenomeno biologico molto importante che interviene nella
regolazione dell’omeostasi dell’organismo e in processi
come lo sviluppo embrionale o la difesa contro i patogeni
(Adams and Cory, 2007).
L’apoptosi può essere indotta da diversi stress
fisiologici che la cellula rileva al suo interno (come estesi
danni al DNA, bassi livelli di ossigeno, insufficienza dei
segnali proliferativi o eccessiva attivazione di alcuni circuiti
molecolari rispetto ad altri) oppure all’esterno (ad esempio la
progressiva perdita di contatti cellula-cellula o cellula-matrice
o ancora la variazione dell’equilibrio tra fattori pro-apoptotici e
proliferativi nell’ambiente circostante a favore dei primi).
57
2.3 Aggirare la morte cellulare
Ma in che cosa consiste dal punto di vista
molecolare l’apoptosi e come si realizza? I segnali
di stress sono captati da specifici “sensori” capaci
di raccogliere sia i segnali esterni che interni e di
convogliarli verso gli “effettori”, i quali eseguono il
programma di morte cellulare in una serie di passaggi
ben definiti.
Le membrane esterne dei mitocondri sono distrutte,
la proteina citocromo C viene rilasciata e attiva
in serie diverse proteasi, le caspasi, che con la loro
attività proteolitica degradano le strutture cellulari. I
cromosomi e il nucleo vengono frammentati e la cellula
collassa in una serie di vescicole, tutto questo in un
lasso di tempo relativamente breve che va dai trenta
ai centoventi minuti, seguendo un copione preciso e
costante. In seguito i detriti cellulari sono fagocitati
dalle cellule circostanti e tipicamente spariscono
nell’arco di 24 ore (Saraste and Pulkki, 2000).
Per le cellule tumorali, caratterizzate da ritmi
proliferativi molto alti e dall’attivazione preferenziale
di alcune cascate molecolari (come quelle che
sostengono la crescita), l’apoptosi rappresenta
senz’altro uno degli scogli da superare, insieme ad
altre forme di morte cellulare come l’autofagia (box
Figura 2.3 I corpi apoptotici
Immagine al microscopio confocale di nuclei di cellule di osteosarcoma umano.
In verde, la proteina istonica di fusione H2B-GFP localizza nei nuclei. La freccia
indica la frammentazione di un nucleo nei corpi apoptotici.
Autore: Imaging Unit IFOM
58
2.3 Aggirare la morte cellulare
2.2), per sopravvivere e proliferare.
Le strategie usate per aggirare l’apoptosi sono molto
varie e consistono per esempio in:
Box 2.2 - L’autofagia
L’autofagia permette alla cellula di degradare aggregati
proteici e organelli (ad es. ribosomi e mitocondri) non più
funzionanti o danneggiati. Durante il processo, gli organelli
sono avvolti da membrane e condotti ai lisosomi, dove sono
distrutti. I cataboliti prodotti possono essere impiegati per
costruire nuove strutture cellulari o per generare energia. Essa
opera a livelli bassi e costanti nella cellula, ma può essere
stimolata in caso di stress (ad es. la mancanza di nutrienti).
1. Mutare i sensori della cascata apoptotica,
così da impedire alla cellula di rilevare la
presenza di un segnale pro-apoptotico. Uno
degli esempi più significativi riguarda la proteina
p53 (paragrafo 2.2), che segnala la presenza di
danni al DNA, oltre che varie altre anormalità
come l’iper-attivazione delle vie proliferative o
la mancanza di ossigeno. Non sorprende allora,
visto il ruolo di questa proteina in processi
cellulari di importanza vitale, apprendere che
p53 risulta mutata in più del 50% dei tumori
umani (Harris, 1996);
Lo studio di questi circuiti molecolari è rilevante
oltre che per avere un quadro sempre più dettagliato
del fenomeno, anche per le potenziali applicazioni
terapeutiche. Infatti, molti dei farmaci utilizzati nella
chemioterapia sono agenti citotossici, ossia sostanze
che stimolano la morte cellulare.
Un tumore che riesce a trovare una strategia per
eludere la morte cellulare è un tumore in grado di
resistere a questi farmaci.
2. Aumentare l’espressione di fattori che
inibiscono l’apoptosi o che promuovono la
sopravvivenza;
3. Ridurre l’espressione dei fattori che
stimolano l’apoptosi.
59
2.3 Aggirare la morte cellulare
Tutto ciò è supportato da sempre maggiori
evidenze sperimentali che dimostrano come neoplasie
particolarmente aggressive o resistenti alle terapie
sono proprio quelle che riescono a mantenere bassi
i livelli di apoptosi tra le proprie cellule (Adams and
Cory, 2007).
Il lavoro degli scienziati nei prossimi anni dovrà
sempre più focalizzarsi su questi temi, per identificare
nuove molecole capaci di ri-attivare la naturale
capacità delle cellule di auto-difendersi.
La Videopillola
Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Evitare la
morte cellulare programmata” sul canale video di IFOM
60
2.4
Proliferare in modo
illimitato
I tre hallmarks che abbiamo incontrato finora, ossia la
capacità di crescere anche in assenza di segnali proliferativi
(paragrafo 2.1), l’insensibilità ai fattori che inibiscono la crescita
cellulare (paragrafo 2.2) e l’abilità di aggirare la morte cellulare
programmata (paragrafo 2.3) permettono alla cellula di sfuggire
ai meccanismi che regolano in modo preciso e controllato la sua
crescita. Ci si potrebbe aspettare che da soli questi tre tratti siano
sufficienti per consentire a una cellula di replicarsi all’infinito,
dando vita a un tumore nelle sue fasi iniziali.
In realtà la ricerca degli ultimi trent’anni ha fatto emergere
come il potenziale replicativo delle cellule eucariotiche sia
limitato (Hayflick, 1997). Infatti, le cellule di mammifero in
coltura sono in grado di dividersi per un numero definito
di volte (circa 60-70) dopodiché entrano in una fase di
“quiescenza” (la senescenza cellulare) dove seppure siano
ancora vitali, non si replicano più. La senescenza può
essere aggirata mutando proteine coinvolte nell’apoptosi,
come per esempio la proteina p53 (paragrafo 2.3).
La rimozione di questo blocco è temporanea e consente
alle cellule di proliferare per altri cicli, finché esse
sperimentano un nuovo arresto, la cosiddetta “crisi”. La
maggior parte delle cellule in crisi va incontro ad apoptosi e
solo pochissime (circa una su 10 milioni) conseguono ulteriori
mutazioni che le portano a dividersi senza limite.
61
2.4 Proliferare in modo illimitato
Le cellule uscite dallo stadio di crisi hanno
raggiunto la capacità di dividersi in maniera illimitata,
acquisendo il fenotipo “immortale”, che accomuna
tutte le cellule tumorali.
Che cosa indica alle cellule il numero di divisioni
ancora possibili? E quali sono i meccanismi molecolari
che, se mutati, consentono alle cellule di diventare
“immortali”?
I “contatori molecolari” della cellula sono i telomeri,
le estremità dei cromosomi. Ogni volta che una
cellula si divide, alla fine dei cromosomi viene perso
progressivamente un tratto di DNA dai 50 ai 100
nucleotidi. Dopo ogni ciclo di replicazione, la cellula
ripara i propri telomeri, allungando i cromosomi con
nuove sequenze di DNA, grazie all’azione di una
proteina specifica, la telomerasi.
Con il passare del tempo, i telomeri vengono riparati
in modo meno efficiente, si accorciano e diventano
sempre meno capaci di proteggere le estremità dei
cromosomi che così sono più soggette a fenomeni
degenerativi (come per esempio la fusione con altre
estremità cromosomiche).
Figura 2.4 I telomeri
FISH (Fluorescent In Situ Hybridization) di cromosomi di cellule di mammifero.
Tramite specifiche sonde a fluorescenza è possibile evidenziare i telomeri (in
giallo). In blu i cromosomi colorati con il DAPI.
Autore: Prakash Hande, Department of Physiology National University of
Singapore
62
2.4 Proliferare in modo illimitato
Ancora una volta il raggiungimento del fenotipo
tumorale è un meccanismo complesso, che tramite
passaggi sequenziali scanditi dall’accumulo di
successive mutazioni, permette a una cellula tra
tante di acquisire una nuova caratteristica, che la
avvantaggia rispetto alle altre, aumentandone il
potenziale proliferativo.
La sopravvivenza della cellula è compromessa e
si innesca il programma di senescenza (Harley et al.,
1990).
La senescenza è un’estrema barriera che la cellula
oppone all’accorciamento progressivo dei telomeri che
avviene dopo ogni divisione.
È come se la cellula proteggesse l’integrità
del proprio DNA, impendendo altre divisioni
cellulari, che potrebbero generare cellule figlie con
un’informazione genetica alterata.
Come fanno le cellule tumorali a evadere questo
controllo?
Una delle strategie più diffuse nei tumori è di
mantenere alti i livelli di telomerasi, come succede in
moltissimi casi: i dati sperimentali indicano che l’85%
- 90% delle linee cellulari tumorali umane esprime
elevati tassi di telomerasi (Shay and Bacchetti, 1997).
Un’altra possibilità è di ricorrere alla ricombinazione
non omologa, un meccanismo che le cellule normali
utilizzano per riparare il DNA e che invece quelle
tumorali sfruttano a proprio vantaggio per favorire
gli scambi extra-cromosomiali, allungando così le
estremità dei cromosomi.
La Videopillola
Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Proliferare in
maniera illimitata” sul canale video di IFOM
63
2.5
Promuovere
l’angiogenesi
Come i tessuti sani, anche quelli tumorali hanno bisogno
di ossigeno e nutrienti per crescere, così come di un sistema
che consenta loro di espellere l’anidride carbonica e i rifiuti
metabolici che via via producono. Nei tessuti sani questo viene
realizzato dal sistema vascolare, che con la sua rete intricata
di vasi e capillari è in grado di raggiungere tutte le cellule
dell’organismo. Si stima, infatti, che ogni cellula abbia nell’arco
di circa 100μm un capillare sanguigno a sua disposizione (Alberts
et al., Molecular Biology of the Cell, 2000) (box 2.3).
Il processo che porta alla creazione di nuovi vasi, l’angiogenesi,
è regolato con grande precisione: generalmente è molto
attivo durante lo sviluppo embrionale e post-natale, per
accompagnare e sostenere la crescita dell’organismo.
Nell’adulto, invece, l’angiogenesi è per lo più quiescente:
viene attivata in modo temporaneo e solo in momenti
specifici, come ad esempio quando è necessario
ricostruire i vasi lesionati dopo un trauma oppure
durante il ciclo mestruale quando l’endometrio deve essere
rigenerato.
Le ricerche sviluppate negli ultimi trent’anni, dapprima
da Folkman e poi da molti altri scienziati in tutto il mondo,
hanno identificato nell’angiogenesi uno degli otto tratti distintivi
che caratterizzano tutte le cellule (e i tessuti) tumorali (Folkman,
1997). Durante la progressione neoplastica, a un certo punto
64
2.5 Promuovere l’angiogenesi
del percorso che le porterà a formare un tumore
vero e proprio, le cellule tumorali spingono il sistema
vascolare quiescente a creare nuovi capillari. Il
grado di vascolarizzazione che si ottiene da questa
stimolazione è variabile. Infatti, alcuni tumori, come
per esempio l’adenocarcinoma duttale del pancreas,
sono poco vascolarizzati, altri invece sono più ricchi
di vasi (è il caso del carcinoma renale). Ciò che
accomuna la vascolarizzazione nei tumori, e che allo
stesso tempo la differenzia da quella dei tessuti sani, è
la sua architettura (Nagy et al., 2010).
I vasi presenti nei tumori sono frequentemente
distorti, eccessivamente ramificati e lassi rispetto
alla controparte sana. Questo provoca, di
conseguenza, maggiori micro-emorragie, una ridotta
capacità del sistema vascolare di frapporsi come
barriera alla disseminazione di cellule tumorali, e
un’alterata capacità delle molecole chemioterapiche
di raggiungere efficacemente il tumore, come
vedremo in maniera più diffusa nel capitolo dedicato
all’angiogenesi.
Quando accade tutto questo? E soprattutto,
quali meccanismi utilizzano le cellule tumorali per
promuovere l’angiogenesi?
Box 2.3 - Il sistema vascolare
È formato da una serie di vasi (arterie, vene e
capillari) dentro i quali si muove il sangue, spinto dalla
forza propulsiva del cuore. Una delle sue peculiarità è il
cosiddetto “letto capillare”, cioè la fitta rete di capillari
che collega il circuito venoso con quello arterioso, dove
si realizzano gli scambi gassosi. L’ossigeno si muove
dal lato arterioso del letto all’interno delle cellule, mentre
l’anidride carbonica dalle cellule al lato venoso del
letto, ossigenando i tessuti ed eliminando degli scarti.
Nell’uomo, i capillari hanno una superficie di circa 7.000
mq e l’intero sistema vascolare è lungo 100.000 km
(fonte:www.fondazioneitalianacuorecircolazione.it).
Se all’inizio gli scienziati ritenevano che l’attivazione
dell’angiogenesi fosse importante solo per sostenere la
crescita nelle fasi tardive della progressione tumorale,
quando ormai il tumore ha una massa macroscopica,
l’analisi istologica di lesioni pre-tumorali non ancora
invasive (come nel caso di alcune displasie e di diversi
tipi di carcinomi umani) ha evidenziato già segnali
di attivazione dell’angiogenesi (Raica et al., 2009),
suggerendo l’importanza di questo processo anche
nelle fasi iniziali della formazione di un tumore.
65
2.5 Promuovere l’angiogenesi
Tra le strategie utilizzate per ri-attivare la
vascolarizzazione ci sono:
1. La modificazione dell’equilibrio tra fattori
che promuovono e inibiscono l’angiogenesi.
Generalmente nei tessuti la formazione di
nuovi vasi sanguigni è mantenuta bassa, o
nulla, tramite il bilanciamento tra fattori antie pro-angiogenici, a favore dei primi. In molti
tumori, invece, l’equilibrio viene stravolto
nella direzione opposta (Volpert et al., 1997), per
esempio aumentando l’espressione dei fattori
che favoriscono l’angiogenesi (come il VEGF,
il fattore di crescita dell’endotelio vascolare) o
riducendo i livelli di molecole che la frenano (è il
caso della trombospondina o del β-interferone);
Figura 2.5 La rete vascolare
In A, immunofluorescenza di un campione di intestino tenue. In rosso, la proteina
VE-caderina che si trova nelle cellule endoteliali. In B, ricostruzione artificiale
della rete vascolare dell’immagine A, che evidenzia arterie (in rosso), vene (in blu)
e vasi linfatici (in verde).
Autore: Fabrizio Orsenigo, ricercatore IFOM.
2. La variazione della bio-disponibilità dei
fattori che attivano o bloccano l’angiogenesi,
tramite una diversa regolazione delle proteasi che
li modificano. Le proteasi sono enzimi capaci di
degradare le proteine, e di cambiare la quantità
di questi fattori o il loro livello di attività.
66
2.5 Promuovere l’angiogenesi
Diverse linee di ricerca nel mondo si focalizzano
sull’angiogenesi tumorale e sono orientate sia a
comprendere appieno questo fenomeno, identificando
i fattori coinvolti e i contributi dei singoli attori (tra
cui le cellule del micro-ambiente, come sempre di
più sta emergendo - paragrafo 2.7), sia a individuare
molecole capaci di bloccare la formazione di nuovi vasi
per “affamare” il tumore.
La Videopillola
Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Promuovere
l’angiogenesi” sul canale video di IFOM
67
2.6
Migrare
e invadere
La capacità delle cellule cancerogene di spostarsi dal sito
originario e diffondersi in altri tessuti, formando tumori
secondari, le metastasi, è al centro della ricerca oncologica.
La maggior parte dei decessi per tumore, infatti, è causata
dal collasso degli organi interessati da metastasi, più che da
conseguenze dirette del tumore primario (Jemal et al., 2011).
Le metastasi sono il risultato dell’acquisizione da parte
delle cellule tumorali di tre capacità distinte ma correlate: la
migrazione attraverso i tessuti, l’invasione nel sistema linfatico e
circolatorio e la capacità di attecchire e proliferare in un tessuto
diverso (box 2.4).
L’intero processo è articolato in una serie di eventi
sequenziali che coincidono con altrettante alterazioni
molecolari e cellulari del tumore. Per questo si parla
di “cascata dell’invasione e metastasi” (Valastyan and
Weinberg, 2011). Si identificano:
1. Invasione locale: le cellule iniziano a migrare
all’interno del tessuto di origine;
2. Ingresso nei vasi: le cellule attraversano la parete dei
vasi linfatici e sanguigni, entrando nel lume;
3. Uscita dai vasi: le cellule escono dal flusso circolatorio,
riattraversando la parete dei vasi e penetrano nei tessuti di
organi distanti dal tumore primario;
68
2.6 Migrare e invadere
Le cellule, per migrare attraverso lo spazio
tridimensionale dei tessuti, possono utilizzare diverse
strutture con caratteristiche morfologiche specifiche,
ottenute riorganizzando l’architettura del citoscheletro
e della membrana.
Ne esistono 5 tipologie: circular ruffles, lamellipodi,
fillopodi, podosomi e adesioni focali.
Esistono diversi meccanismi molecolari con cui le
cellule tumorali, particolarmente di origine epiteliale,
attivano la cascata di invasione e metastasi.
Uno dei più importanti è l’attivazione di un
complesso programma di regolazione molecolare
definito transizione epiteliale-mesenchimale o EMT
(da Epithelial - Mesenchymal Transition).
L’EMT avviene normalmente nei processi fisiologici
in cui è richiesta un’aumentata proliferazione cellulare
e capacità di migrazione, come lo sviluppo embrionale
e la guarigione delle ferite.
Le cellule tumorali dunque, come nel caso della
riprogrammazione del metabolismo (paragrafo 2.7) e
della resistenza all’apoptosi (paragrafo 2.3), sfruttano
un meccanismo fisiologico a proprio vantaggio e lo
“accendono” in condizioni non fisiologiche.
4. Micro-colonizzazione: le cellule formano
piccoli noduli neoplastici e proliferano nel tessuto
di arrivo;
5. Colonizzazione: le cellule formano una massa
metastatica di dimensioni macroscopiche.
Lo stadio della colonizzazione metastatica si può
verificare anche molto tempo dopo quello della microcolonizzazione: le cellule tumorali inizialmente sono
poco adattate al nuovo tessuto nel quale sono migrate,
e possono restare in una fase “dormiente” mentre
evolvono nuove strategie di sopravvivenza al nuovo
ambiente (capitolo 1).
Box 2.4 - Le differenze tra sistema linfatico e circolatorio
I circoli sanguigni e linfatici sono sistemi vascolari
che distribuiscono ossigeno e nutrienti ai tessuti,
rimuovono i prodotti metabolici e permettono la
migrazione a grandi distanze delle cellule, ad esempio
quelle immunitarie. Il sistema circolatorio è chiuso,
dotato di forza propulsiva da parte del cuore ed
è l’unico che trasporta ossigeno tramite i globuli
rossi. Il sistema linfatico è invece monodirezionale,
aperto (confluisce nella vena succlavia) e senza forza
propulsiva. Sfrutta la forza idrostatica e osmotica
intorno ai capillari, drenando i liquidi in eccesso dai
tessuti. Svolge un ruolo importante nello sviluppo
della risposta immunitaria a livello dei linfonodi.
69
2.6 Migrare e invadere
Durante l’attivazione dell’EMT, le cellule acquistano
specifici tratti funzionali alla migrazione:
• Perdita delle giunzioni aderenti tra cellule
adiacenti;
• Conversione da una forma poligonale tipica delle
cellule epiteliali a una forma allungata, tipica dei
fibroblasti;
• Rilascio di enzimi litici, come le metallo-proteasi,
che degradano la matrice extracellulare creando
spazio alla cellula per muoversi nel tessuto;
• Aumentata motilità e maggiore resistenza
all’apoptosi.
Un’altra modalità di migrazione delle cellule
tumorali è la cosiddetta invasione collettiva: noduli di
cellule cancerogene si spostano “in massa” nei tessuti
adiacenti come per esempio nei carcinomi a cellule
squamose (Friedl and Wolf, 2008), aumentando la loro
propensione a disseminare sia a livello locale che in
organi distanti.
Meno caratterizzata è la modalità di migrazione
ameboide: singole cellule cancerogene si muovono,
sgusciando negli interstizi della matrice extracellulare,
senza degradarla come invece avviene nella
migrazione EMT.
Come si muove una cellula?
Video realizzato al microscopio a contrasto di fase (A) e al microscopio a
fluorescenza (B) di un fibroblasto embrionale murino, che esprime la proteina
di fusione VASP-GFP. In B, VASP-GFP si trova al fronte di migrazione, dove crea
piccoli accumuli che precedono la formazione dei filopodi.
Autore: Andrea Disanza, ricercatore IFOM
Riparare le ferite
Video realizzato al microscopio a contrasto di fase che mostra i risultati di un
wound-healing assay. Dopo aver prodotto un taglio sulla superficie di una piastra
interamente coperta da cellule, si segue la riparazione della ferita e si misurano
vari parametri di migrazione. Autore: Chiara Malinverno, ricercatrice IFOM
70
2.6 Migrare e invadere
Le cellule tumorali possono adottare anche un’altra
strategia per favorire la propria motilità: emettono
sostanze chemio-attrattive per le cellule del sistema
immunitario, come i macrofagi (paragrafo 2.9).
Questi ultimi sono cellule migranti che
fisiologicamente rilasciano nei tessuti enzimi litici,
degradando la matrice extracellulare e favorendo
nello stesso tempo anche la migrazione delle cellule
cancerogene.
È un esempio di come le cellule tumorali
acquisiscono un vantaggio proliferativo non solo
sfruttando programmi molecolari già esistenti, ma
anche “piegando” al proprio volere cellule sane del
microambiente tumorale (capitolo 1).
L’identificazione e la comprensione approfondita
delle “firme metastatiche”, ovvero delle reti di geni e di
programmi molecolari che sostengono la migrazione
e l’invasione, rappresenta quindi un’importante sfida
della ricerca oncologica dei prossimi anni.
La capacità delle cellule tumorali di adottare diverse
strategie di invasione, adattandole al microambiente, è
alla base della plasticità della migrazione tumorale.
Questo fenomeno ha importanti implicazioni
terapeutiche poiché consente a una cellula tumorale
di cambiare modalità di movimento in presenza di
farmaci anti-metastatici, diventando resistente a
trattamenti con singoli chemioterapici.
La Videopillola
Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Promuovere la
migrazione e l’invasione dei tessuti” sul canale video di IFOM
71
2.7
Riprogrammare il
metabolismo
L’incontrollata e sostenuta proliferazione cellulare è uno
degli hallmark principali che caratterizza pressoché tutti i tipi
di cancro. Per alimentare la crescita, le cellule neoplastiche
devono adeguare il loro metabolismo in base alle nuove esigenze
energetiche.
In un tessuto sano, le cellule utilizzano due programmi
metabolici a seconda della disponibilità di ossigeno. In condizioni
aerobiche (ossia in presenza di ossigeno) la cellula demolisce il
glucosio in due passaggi: nel citoplasma, mediante la glicolisi,
genera piruvato che nei mitocondri viene poi completamente
ossidato ad anidride carbonica, consumando ossigeno e
producendo grandi quantità di ATP, la molecola che veicola
l’energia per tutti i processi cellulari.
In carenza o assenza di ossigeno (anaerobiosi), come
avviene ad esempio nelle cellule muscolari sotto sforzo,
l’ossidazione mitocondriale non avviene e il piruvato,
prodotto dalla glicolisi, è parzialmente ossidato in lattato.
Questo processo genera meno ATP, ma può avvenire anche
in assenza di ossigeno.
Le cellule tumorali, invece, riprogrammano il loro
metabolismo verso l’utilizzo della sola glicolisi anche in
presenza di ossigeno, tramite la cosiddetta “glicolisi aerobica” o
“effetto Warburg” (Warburg, 1956).
72
2.7 Riprogrammare il metabolismo
Perché una cellula che prolifera di più e più
velocemente utilizza il metabolismo glicolitico che
garantisce una produzione energetica inferiore (box
2.5)?
L’apparente contraddizione in realtà svela un
meccanismo che favorisce la proliferazione tumorale.
La glicolisi, anche se meno efficiente dal punto di
vista energetico, fornisce un numero maggiore e più
variegato di intermedi metabolici, cioè molecole che
possono essere impiegate per produrre acidi nucleici,
proteine e gli organelli necessari per la crescita
cellulare.
Per sostenere una maggiore glicolisi, le cellule
tumorali espongono sulla loro membrana un maggior
numero di recettori per il glucosio rispetto alle cellule
sane, in modo da aumentarne l’incorporazione.
Il maggior consumo di glucosio è il principio alla
base delle tecniche diagnostiche come la PET (box
2.6) per l’identificazione di masse tumorali.
Figura 2.6 Il metabolismo energetico nelle cellule tumorali
Lo schema mostra le differenti vie metaboliche utilizzate da cellule normali
e tumorali, evidenziando per queste ultime il concetto di complementarietà
metabolica.
73
2.7 Riprogrammare il metabolismo
Box 2.5 - Resa energetica glicolisi e ossidazione mitocondriale
Box 2.6 - PET
La glicolisi converte il glucosio in due molecole di
piruvato attraverso dieci reazioni, con una produzione
netta di due molecole di ATP per ogni molecola di
glucosio. In presenza di ossigeno, i due piruvati entrano
nei mitocondri, dove vengono completamente ossidati a
CO2 attraverso il ciclo di Krebs e tramite la fosforilazione
ossidativa. Complessivamente, con la respirazione
mitocondriale si generano 36 molecole ATP per ogni
molecola di glucosio, a differenza delle due prodotte
con la sola glicolisi in condizioni anaerobiche.
La tomografia a emissione di positroni, PET (Positron
Emission Tomography) è una tecnica diagnostica che
individua i tumori sfruttando l’effetto Warburg. Il paziente
assume una molecola radioattiva, il 18-fluoro-desossiglucosio, che è incorporato maggiormente dalle
cellule tumorali. La PET identifica la massa tumorale
rivelando una maggiore radioattività, indicativa di un
maggior tasso di consumo metabolico di glucosio.
È ormai assodato che il tumore è un tessuto
complesso, contenente diversi tipi di cellule tumorali
e non-tumorali che interagiscono fra loro e con
l’ambiente attraverso complesse relazioni (capitolo 1):
dal punto di vista del metabolismo, è possibile
identificare in molti tumori due sotto-popolazioni di
cellule.
Da una parte, cellule tumorali che impiegano il
metabolismo glicolitico aerobico e rilasciano all’esterno
lattato come prodotto di scarto.
Dall’altra, cellule che incorporano il lattato
e lo utilizzano per produrre energia attraverso
l’ossidazione mitocondriale.
Si realizza così una relazione di complementarietà
metabolica favorevole alla proliferazione globale del
tessuto cancerogeno.
Questa complementarietà si trova anche in situazioni
fisiologiche, come nel caso delle cellule muscolari che
sotto sforzo generano lattato, “smaltito” dai fibroblasti
circostanti che lo usano come fonte energetica.
Come per i meccanismi alla base della proliferazione
(paragrafo 2.1) e della resistenza all’apoptosi
(paragrafo 2.3) anche nella riprogrammazione
genetica che determina il cambio di metabolismo
energetico le cellule tumorali non inventano
meccanismi molecolari ex novo ma sfruttano a proprio
74
2.7 Riprogrammare il metabolismo
vantaggio vie fisiologiche già esistenti. Tuttavia i
meccanismi molecolari non sono ancora del tutto
compresi.
Per questo, la riprogrammazione metabolica è
considerata come “hallmark emergente” e le ricerche
nei prossimi anni aiuteranno a comprenderne i
dettagli nei diversi tipi di tumore e come applicare
le conoscenze alla diagnosi e alla cura nella pratica
clinica.
La Videopillola
Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola
“Riprogrammare il metabolismo energetico” sul canale video di IFOM
75
2.8
Sfuggire
al sistema immunitario
Il sistema immunitario è la principale arma di difesa
dell’organismo. È costituito da numerosi sotto-tipi cellulari
altamente specializzati, e si divide in due rami: l’immunità innata
e quella adattativa.
La prima rappresenta un’immediata linea di difesa
relativamente meno specifica e comprende, tra le altre, cellule
fagocitarie e cellule natural killer.
La seconda è mediata da linfociti T e linfociti B che producono
anticorpi specifici.
È ormai assodato che le cellule del sistema immunitario non
solo eliminano i patogeni esterni come virus e batteri, ma
sono implicate anche nel controllare l’omeostasi dei tessuti,
eliminando le cellule apoptotiche (paragrafo 2.3) e le
cellule “anomale”, come quelle tumorali.
In particolare, il sistema immunitario è efficiente
nel contrastare ed eliminare tumori di origine virale
come il tumore alla cervice uterina causato dal virus
del papilloma umano (HPV) (box 2.7). I virus stimolano
la proliferazione delle cellule per sostenere la loro stessa
replicazione, favorendo l’insorgenza di cellule cancerogene.
Il sistema immunitario riconosce ed elimina le cellule infettate,
rimuovendo sul nascere anche eventuali cellule tumorali
incipienti.
76
2.8 Sfuggire al sistema immunitario
Box 2.7 - HPV e vaccini
Il virus del papilloma umano, HPV (Human
Papilloma Virus) è la principale causa di insorgenza del
tumore alla cervice. HPV si trasmette per via sessuale
e infetta le cellule epiteliali della mucosa uterina. Il
virus può rimanere silente per molto tempo prima di
stimolare la trasformazione neoplastica. Degli oltre 100
ceppi di HPV solo alcuni sono cancerogeni: HPV-16 e
HPV-18 da soli causano il 70% dei tumori alla cervice
HPV-positivi. La prevenzione di questa forma tumorale
si avvale di due armi: il Pap-test, che identifica lesioni
pre-cancerogene della cervice, e la vaccinazione
contro HPV-16 e 18, che previene l’infezione virale.
Tuttavia, più dell’80% dei tumori umani sono
di origine non virale. Le cellule immunitarie sono
in grado di agire come barriera anche contro la
formazione e la progressione di questi tumori?
Studi epidemiologici e condotti su modelli
sperimentali dimostrano che la presenza di un alto
numero di linfociti T citotossici o natural killer nei
tumori al colon o alle ovaie è associata a una prognosi
migliore (Pagès et al, 2010). Questo suggerisce che le
cellule immunitarie svolgano un attivo ruolo di difesa
contro la proliferazione di cellule atipiche come le
cellule neoplastiche.
Figura 2.7 HPV (Human Papilloma Virus)
L’immagine mostra l’aspetto tridimensionale del papilloma virus.
77
2.8 Sfuggire al sistema immunitario
Di contro, i tumori più aggressivi sono i tumori
che riescono ad eludere i meccanismi di sorveglianza
messi normalmente in atto dal sistema immunitario, ad
esempio producendo fattori immuno-soppressivi come
la molecola TGF-β (Schreiber et al, 2010).
I meccanismi molecolari di immuno-evasione sono
però ancora in buona parte sconosciuti.
Il ruolo del sistema immunitario nella tumorigenesi è
bivalente. Infatti, le cellule immunitarie rilasciano nei
tessuti una serie di fattori pro-infiammatori che sono
normalmente utili a svolgere le loro funzioni, come
richiamare altre cellule coinvolte nell’eliminazione di
patogeni e detriti cellulari, o stimolare la riparazione
dei tessuti in caso di danno (come nella guarigione
da ferite). Tuttavia, la presenza prolungata di questi
segnali nel tessuto, e in particolare in prossimità di un
tessuto tumorale, può alla lunga favorire e sostenere la
proliferazione cellulare.
Quindi, se da un lato il sistema immunitario
contrasta l’insorgenza dei tumori, dall’altro
le infiltrazioni nel tessuto tumorale di cellule
immunitarie, come macrofagi e neutrofili,
contribuiscono a creare uno stato di infiammazione
cronica che promuove l’insorgere nelle cellule degli
altri hallmark tipici del cancro, come una sostenuta
proliferazione, angiogenesi e migrazione (paragrafo
2.9).
Come per la riprogrammazione energetica
(paragrafo 2.7), la capacità di immuno-evasione delle
cellule tumorali è considerata un “hallmark emergente”:
le ricerche dei prossimi anni chiariranno in modo
più dettagliato il suo ruolo e se sia a tutti gli effetti
una caratteristica comune e condivisa dalle cellule
tumorali.
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Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Sfuggire al
sistema immunitario” sul canale video di IFOM
78
2.9
Infiammazione locale
È ormai accertato che le masse tumorali contengono non solo le
cellule cancerogene, ma anche altri tipi cellulari sani, richiamati
all’interno del tessuto tumorale. Ogni lesione neoplastica mostra,
tra le altre, infiltrazioni di cellule del sistema immunitario, sia del
ramo innato che adattativo (paragrafo 2.8), a cui è associato uno
stato più o meno sostenuto di infiammazione (Pagès et al., 2010).
L’infiammazione è una risposta fisiologica di difesa dei tessuti,
conseguente a un danno fisico, chimico o biologico, col duplice
obiettivo di rimuovere la causa iniziale e avviare il processo
riparativo. Coinvolge diversi tipi cellulari ma è principalmente
guidata dalle cellule dell’immunità innata che orchestrano vari
processi finalizzati a rigenerare nuovo tessuto al posto di
quello danneggiato, formando anche nuovi vasi sanguigni
e sostenendo la proliferazione cellulare (Grivennikov et al.,
2010) (box 2.8).
È facile quindi comprendere come uno stato
di infiammazione cronica e prolungata nel tempo
contribuisca all’instaurarsi dei diversi hallmark del cancro,
approvvigionando il microambiente tumorale con molecole
che ne sostengono la proliferazione tra cui:
1. Fattori di crescita (paragrafo 2.1);
2. Molecole che bloccano la morte cellulare programmata
(paragrafo 2.3);
79
2.9 Infiammazione locale
3. Fattori pro-angiogenici (paragrafo 2.5);
Box 2.8 - L’infiammazione
L’infiammazione coinvolge molteplici tipi cellulari,
ma è guidata principalmente da cellule dell’immunità
innata. I patogeni o i detriti, rilasciati a seguito di
un danno, richiamano neutrofili e macrofagi, che
migrano dai vasi sanguigni e linfatici al tessuto
danneggiato. I vasi si dilatano e diventano più
permeabili, causando edema e rossore. Le cellule
fagocitarie a loro volta producono mediatori chimici
che ne richiamano altre e che stimolano l’angiogenesi
e la divisione delle cellule connettivali come i
fibroblasti, per ricostruire il tessuto danneggiato.
4. Enzimi che modificano la matrice
extracellulare favorendo la migrazione delle
cellule tumorali;
5. Segnali che facilitano l’insorgenza di
meccanismi pro-cancerogeni come la transizione
epiteliale-mesenchimale (EMT) (paragrafo 2.6).
Inoltre, le cellule infiammatorie del sistema
immunitario generano nel microambiente tumorale
molecole chimiche altamente ossidanti, come i radicali
liberi, che possono danneggiare il DNA, contribuendo
alla sua instabilità genomica (paragrafo 2.10) e
accelerare l’evoluzione genetica del tumore verso stadi
maligni.
L’infiammazione nel suo complesso, insieme
all’instabilità genomica, è considerata, quindi, un
agente che promuove l’acquisizione dei tratti distintivi
delle cellule tumorali.
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Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola
“Infiammazione” sul canale video di IFOM
80
2.10
Instabilità genomica
Come fanno le cellule tumorali ad acquisire via via i dieci
tratti distintivi che abbiamo approfondito e a diventare tumori
conclamati?
Sappiamo che alla base dell’evoluzione biologica, che consente
a un organismo o a una cellula di conquistare un nuovo fenotipo,
cioè un’abilità inedita, ci sono le mutazioni del DNA.
È l’insorgenza di mutazioni (box 2.9), infatti, che, modificando
il patrimonio genetico di una cellula (o di un organismo),
consente di creare delle varianti capaci di adattarsi in modo più
efficiente all’ambiente e di ottenere un vantaggio rispetto a tutte
le altre che non possiedono quella caratteristica specifica
(capitolo 1).
Se da una parte la presenza di mutazioni crea quella
variabilità genetica su cui opera la selezione naturale,
dall’altra questo processo è piuttosto raro. Esso avviene,
infatti, con una frequenza molto bassa: circa 1 mutazione
spontanea ogni 1 - 100 milioni di nucleotidi (Salk et al.,
2008).
Numeri che non giustificano la frequenza con cui i tumori
si verificano nella popolazione (box 2.10).
Questa apparente contraddizione si spiega col fatto che le
cellule tumorali possiedono in realtà una maggiore capacità di
mutare il proprio patrimonio genetico, rispetto alle cellule sane.
81
2.10 Instabilità genomica
Box 2.9 - Mutazioni del DNA
Una mutazione è una variazione accidentale
o indotta nella sequenza delle basi del DNA,
stabile e tramandabile alle generazioni successive.
Esistono varie tipologie di mutazioni, che modificano
l’informazione
genetica
in
diversa
misura.
• Mutazioni puntiformi: interessano uno o pochi
nucleotidi (fino a 50), ma possono causare
cambiamenti significativi in uno (o più) prodotti proteici.
• Riarrangiamenti cromosomici: sono causati dallo
spostamento fisico di grosse porzioni di DNA da un sito
cromosomico a un altro e causano le mutazioni più estese.
Figura 2.8: Cariotipo ottenuto con SKY (Spectral Karyotiping)
Un caso di leucemia linfoblastica acuta analizzato tramite SKY per cercare
riarrangiamenti cromosomici. Ogni cromosoma è colorato in modo diverso. Si
notano: un’amplificazione del cromosoma 1, una triplicazione del cromosoma 9,
una delezione di tutto il cromosoma 11, una traslocazione tra i cromosomi 1 e 19 e
una traslocazione tra il cromosoma 10 e il 21.
Autore: Idoya Lahortiga, Laboratory for the Molecular Biology of Leukemia,
KULeuven, Belgium.
Ogni singola mutazione, infatti, altera l’informazione
genetica e potrebbe compromettere la vita stessa della
cellula o il programma che essa deve svolgere nel
tessuto in cui si trova.
Diverse molecole e vie biochimiche controllano
l’integrità del genoma, segnalando ogni eventuale
alterazione e stimolando il processo di riparazione
della lesione, prima che essa si propaghi alle cellule
figlie.
Addirittura, nella peggiore delle ipotesi, esse attivano
la morte cellulare programmata (paragrafo 2.3), autodistruggendo la cellula, nel caso in cui le mutazioni
La maggiore “mutagenicità” del DNA delle
cellule tumorali è chiamata instabilità genomica e
rappresenta, insieme all’infiammazione (paragrafo 2.9)
una delle condizioni che favoriscono l’insorgenza degli
hallmark da parte delle cellule tumorali.
Nel corso dell’evoluzione, le cellule hanno elaborato
diversi meccanismi per tenere sotto controllo e
ridurre al minimo l’insorgenza di mutazioni al DNA.
82
2.10 Instabilità genomica
siano troppo estese e non riparabili.
Diventa chiaro, allora, come l’instabilità genomica,
che si ottiene alterando questi “guardiani molecolari”,
consenta alle cellule neoplastiche di aumentare
la frequenza con cui le mutazioni si verificano e
garantisca quella variabilità genetica necessaria per
elaborare nuove strategie di proliferazione, di evasione
dall’apoptosi o di migrazione.
Box 2.10 - Frequenza di tumori nella popolazione italiana
Secondo i dati dell’Associazione Italiana Registro
Tumori (AIRTUM) del 2013, in Italia ogni anno vengono
diagnosticati 366.000 nuovi casi di tumore. Il cancro
più frequente è quello del colon retto (14%), seguito
dal tumore della mammella (13%), della prostata
(11%, solo negli uomini) e del polmone (11%). Sono
esclusi dalle statistiche i carcinomi cutanei, a causa
delle difficoltà di distinguere con sicurezza le forme
aggressive da quelle benigne. Tuttavia, aumentano
anche le probabilità di sopravvivenza: 61% per le donne
e 52% per gli uomini a cinque anni dalla diagnosi.
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Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Instabilità
genomica” sul canale video di IFOM
83
3
L’INSTABILITÀ
GENOMICA
“Genetic instability makes the
tumour itself a population under
change; a huge collection of
coexisting subclones, each
with the potential for future
changes in the face of selective
pressure”
Cahill et al.,
Trends Cell. Biol. 1999
84
3.1
L’instabilità genomica:
la marcia in più delle
cellule tumorali
L’instabilità genomica è una proprietà che facilita l’acquisizione
dei vari tratti distintivi del cancro (paragrafo 2.10). In che
cosa consiste e da cosa è generata? Quali sono i meccanismi
molecolari coinvolti nel mantenimento della stabilità del genoma,
e come sono alterati nel cancro?
Figura 3.1 L’instabilità genomica
Fattori esogeni ed endogeni causano danni al DNA che, se non sono riparati,
contribuiscono all’instabilità genomica. Nelle cellule pre-neolastiche l’instabilità genomica
conferisce un vantaggio selettivo: aumentando la variabilità genetica della popolazione
permette alle cellule di acquisire i tratti distintivi del cancro.
85
3.1 L’instabilità genomica: la marcia in più delle cellule tumorali
Nelle cellule pre-neoplastiche, l’aumentata instabilità
genomica genera diverse sottopopolazioni con profili
genetici diversi. La sottopopolazione meglio adattata
alle alterate condizioni ambientali ha un vantaggio
selettivo, espandendosi e proliferando.
La maggiore instabilità genomica consente alle
cellule pre-neoplastiche di accumulare ulteriori
mutazioni e di progredire verso la tumorigenesi,
acquisendo man mano i tratti distintivi del cancro.
L’instabilità genomica è la tendenza del DNA ad
accumulare alterazioni che possono riguardare sia la
sequenza di nucleotidi sia il numero o la struttura dei
cromosomi (il cosiddetto cariotipo).
È causata dall’accumulo di danni al DNA di varia
origine e natura, che non riescono ad essere riparati,
innescando un ciclo vizioso che rende la cellula
danneggiata progressivamente sempre più suscettibile
all’acquisizione di ulteriori modificazioni. Ma in
che modo questo favorisce l’acquisizione degli altri
hallmark e conferisce un vantaggio proliferativo alle
cellule tumorali?
L’oncogenesi è un processo darwiniano in cui cellule
tumorali mutano e si evolvono in un microambiente al
quale devono continuamente adattarsi (capitolo 1). In
cellule normali, il tasso di instabilità genomica è basso
e la popolazione di cellule è geneticamente omogenea.
Quando il microambiente cambia, per esempio per
azione del sistema immunitario, o quando si verificano
fluttuazioni nei nutrienti o nella disponibilità di
ossigeno, le cellule non possiedono quella variabilità
genetica che permette loro di adattarsi al nuovo
ambiente e quindi smettono di crescere o addirittura
attivano programmi di morte cellulare.
86
3.2
Come avvengono le
mutazioni nel DNA?
Il DNA è una molecola relativamente stabile, sia grazie alla sua
struttura a doppia elica sia per il suo alto grado di organizzazione
nella cromatina nel nucleo delle cellule. Tuttavia agenti di
diversa natura, i mutageni, possono intaccarne l’integrità e/o
indurre mutazioni. Si tratta di:
• mutageni fisici, come radiazioni elettromagnetiche
non ionizzanti a bassa energia (UV) e le radiazioni
ionizzanti ad alta energia (raggi x e raggi γ). I raggi
UV causano la formazione di legami covalenti tra
timine adiacenti sullo stesso filamento del DNA, i
cosiddetti dimeri di timina, che distorcono la doppia
elica, ostacolando la corretta replicazione del DNA e
l’espressione genica. Le radiazioni ionizzanti spezzano
invece i legami fosfodiesterici del DNA causando
rotture a singolo e a doppio filamento. Queste ultime
sono particolarmente pericolose in quanto, se non
riparate, possono portare a perdita o “scambi” di intere
porzioni di cromosomi;
• mutageni chimici, che si classificano sulla base del
loro meccanismo di azione in agenti intercalanti,
analoghi di basi e agenti che modificano chimicamente
il DNA (box 3.1). Non sempre i mutageni chimici
sono sostanze esterne: talvolta sono prodotte dallo
87
3.2 Come avvengono le mutazioni nel DNA?
stesso metabolismo cellulare, come nel caso
dei radicali liberi e di varie specie reattive
dell’ossigeno (come lo ione -OH), capaci di
danneggiare il DNA;
• mutageni biologici, come virus e trasposoni.
I virus inseriscono il loro genoma all’interno
di quello della cellula infettata e sfruttano i
meccanismi molecolari della cellula per replicarsi.
In questo modo, modificano l’organizzazione
dei cromosomi, alterano l’espressione genica e i
meccanismi di regolazione, favorendo l’insorgenza
di mutazioni. I trasposoni sono sequenze di DNA
in grado di spostarsi in diverse posizioni del
genoma tramite ricombinazione. L’inserimento dei
trasposoni in certi punti del genoma, come per i
virus, può causare mutazioni. Inoltre, durante la
replicazione del DNA, si creano rotture al doppio
filamento di DNA che se non riparate in tempo,
facilitano ricombinazioni anomale: il processo
di trasposizione è, infatti, una delle cause della
duplicazione cromosomica (http://www.sci.sdsu.
edu/cos/index.php).
Box 3.1 - Agenti mutageni chimici
I mutageni chimici danneggiano il DNA in modi
diversi. Gli agenti intercalanti hanno una struttura ad
anello e si inseriscono tra le basi del DNA: al successivo
ciclo di replicazione causano l’inserzione di una
coppia di nucleotidi. Un esempio è il benzo[α]pirene,
contenuto nel fumo di sigaretta. Gli analoghi delle
basi, come il 5-bromo-uracile, hanno una struttura
simile alle basi azotate; sono incorporati nel DNA e
determinano un appaiamento scorretto, causando
mutazioni puntiformi. Appaiamenti scorretti avvengono
anche quando il DNA è modificato chimicamente. Gli
agenti deaminanti, come l’acido nitroso, causano
perdita di un gruppo amminico; gli alchilanti, come
i gas mostarda, aggiungono gruppi alchilici e gli
idrossilanti, come l’idrossialanina, gruppi -OH.
88
3.2 Come avvengono le mutazioni nel DNA?
Un’altra fonte di mutazioni risiede negli stessi
processi molecolari che coinvolgono il DNA, come
la replicazione. Si tratta di un meccanismo molto
complesso eseguito da decine di proteine, che aprono
la doppia elica e sintetizzano nuovi filamenti. Durante
questo processo possono verificarsi degli errori: le
mutazioni spontanee.
La loro frequenza varia da un nucleotide mutato per
milione fino a uno su 100 milioni, a seconda del tipo
cellulare. Una frequenza apparentemente bassa ma
che, se non contrastata, porterebbe nel giro di poche
replicazioni all’accumulo di molte alterazioni.
La maggior parte delle mutazioni spontanee viene
subito identificata e rimossa da due meccanismi
molecolari, i checkpoint e le vie di riparo del DNA.
Errori o difetti in questi processi aumentano la
frequenza con cui le mutazioni vengono propagate e
determinano instabilità genomica.
89
3.3
Instabilità genomica e
cancro
L’instabilità genomica nell’oncogenesi è stata osservata già oltre
100 anni fa (von Hansemann, 1890): oggi è chiaro che tutti i tumori
contengono alterazioni genetiche, da minime variazioni nella
sequenza del DNA a importanti modifiche come traslocazioni,
perdita o acquisizione di cromosomi. Spesso queste mutazioni
si trovano nei geni coinvolti nel riparo del DNA, in oncogeni o
anche nei geni coinvolti nella corretta separazione e distribuzione
dei cromosomi nelle cellule figlie durante la mitosi (Cahill et al.,
1998).
Nei tumori, esistono due tipi principali di instabilità genomica:
l’instabilità cromosomica o CIN (Chromosomal INstability), la
più diffusa nella maggior parte delle neoplasie, e l’instabilità
da microsatellite o MIN (Microsatellite INstability). In
alcuni tumori, come quelli del colon-retto, si riscontra
anche un terzo tipo di instabilità caratterizzato da un’alta
frequenza di mutazioni puntiformi (Al-Tassan et al., 2002).
Tumori CIN possiedono estesi cambiamenti nel
cariotipo: le cellule mostrano diversi gradi di aneuploidia,
con perdita o acquisizione di cromosomi, fusioni di bracci di
cromosomi diversi, amplificazioni, delezioni, traslocazioni o
inversioni.
I tumori MIN, invece, mostrano sempre un cariotipo normale
(Aaltonen et al., 1993).
90
3.3 Instabilità genomica e cancro
Che cosa determina l’instabilità genomica? Nei
tumori ereditari, la presenza di instabilità è spesso
associata a mutazioni in geni coinvolti nel riparo del
danno al DNA. Il malfunzionamento dei meccanismi
di riparo rende il DNA più suscettibile ad accumulare
danni, aumentando la frequenza di mutazioni in un
circuito che si autoalimenta e che provoca in ultima
analisi una maggiore instabilità genomica.
Nei tumori sporadici (non a base ereditaria), che
rappresentano la maggior parte dei tumori umani,
l’instabilità genomica è spesso dovuta alla presenza
di un gene “mutatore” oppure all’aumentato stress
associato al processo replicativo.
Nel primo caso, è la presenza di geni mutati in
cellule pre-neoplastiche che causa un aumento del
tasso di insorgenza di mutazioni spontanee, che a loro
volta stimolano l’acquisizione di ulteriori danni. Un
caso esemplare è quello dei tumori ereditari, in cui le
mutazioni trasmissibili da una generazione all’altra
sono spesso a carico di geni coinvolti nel riparo del
DNA.
Nel secondo caso, molto comune nei tumori
non ereditari, l’instabilità può essere conseguenza
dell’aumentata e incontrollata frequenza di divisione
Figura 3.2 Tumori CIN e MIN
Nell’illustrazione sono rappresentati i due tipi principali di instabilità genomica:
l’instabilità cromosomica (CIN) che causa ampie alterazioni del cariotipo e
l’instabilità da microsatellite (MIN) con un cariotipo normale.
91
3.3 Instabilità genomica e cancro
cellulare, causata per esempio da mutazioni che
attivano oncogeni (come Ras). L’iper-proliferazione
mette a dura prova le strutture necessarie per la
replicazione del DNA, causando rotture del doppio
filamento e facilitando riarrangiamenti anomali
(Halazonetis et al., 2008). Un esempio di questa
situazione, detta anche “stress replicativo” è mostrata
nella Figura 3.3.
Recentemente, gli scienziati hanno scoperto un
terzo meccanismo che può contribuire alla genesi
dell’instabilità genomica: l’alterazione dei telomeri.
I telomeri sono le estremità dei cromosomi
(paragrafo 2.4): regolano il numero di divisioni e la
senescenza cellulare e sono essenziali per proteggere
la struttura del cromosoma. Quando la funzione dei
telomeri è compromessa, essi diventano oggetto dei
processi di riparo del DNA, tra cui la ricombinazione
non omologa (box 3.2). Questo può causare fusioni e
riarrangiamenti tra le estremità di cromosomi diversi,
modificando il cariotipo e favorendo la progressione
neoplastica. Anche l’alterazione dei telomeri è
spesso associata a mutazioni nei geni coinvolti nel
metabolismo del DNA, nei meccanismi di riparo e di
ricombinazione (Feldser et al., 2003).
Box 3.2 - La ricombinazione non omologa
La ricombinazione non omologa, NHEJ (NonHomologous End Joining) è una della vie cellulari
di riparo del danno al DNA e in particolare delle
lesioni a doppio filamento. Le estremità dei filamenti
possono essere legate anche in assenza di sequenze
di DNA omologhe che ne guidino il processo. È un
meccanismo molto importante, ad esempio, nella
maturazione dei linfociti: attraverso la NHEJ si crea
la grande varietà di anticorpi specifici. Quando
non controllato, la NHEJ può unire pezzi di DNA di
cromosomi diversi per esempio a livello dei telomeri.
92
3.3 Instabilità genomica e cancro
Figura 3.3 Stress replicativo
Immagini della replicazione del DNA ottenute tramite microscopia elettronica
a trasmissione. In A, una normale forca di replicazione il DNA parentale (P) è
copiato in due molecole identiche (R) e si nota una tipica “giunzione a tre”. In B,
un riarrangiamento del DNA durante la replicazione porta alla formazione di
un quarto frammento (freccia) in cui si evidenzia l’aspetto anomalo a “zampa di
gallina”. Queste particolari strutture sono un segnale di stress replicativo.
Autore: Ralph Zellweger. Laboratorio diretto da Massimo Lopes, Istituto di Ricerca
Molecolare sul Cancro, Università di Zurigo
93
3.4
I checkpoint e il
“controllo qualità” del
genoma
I checkpoint sono meccanismi molecolari di controllo del
ciclo cellulare (box 2.1) che permettono di procedere alla
fase successiva solo se quella precedente è stata completata
correttamente. Strettamente connessi con i checkpoint del ciclo
cellulare, o intrinseci, e con i quali condividono in buona parte
vie biochimiche e proteine coinvolte, vi sono i checkpoint di
risposta al danno al DNA, o estrinseci.
Questi ultimi rilevano la presenza di un danno, ad esempio una
rottura del doppio filamento del DNA, e agiscono arrestando la
progressione del ciclo cellulare per permettere il riparo del DNA.
I checkpoint del danno al DNA, sono anche in grado di
innescare il processo di morte cellulare programmata o di
senescenza (paragrafo 2.4) quando i danni al DNA sono
troppo estesi e non possono essere riparati.
Questi meccanismi sono di fatto messi in atto per
salvaguardare l’integrità genomica e non sorprende che
proteine coinvolte nei checkpoint siano frequentemente
mutate nei tumori. Mutazioni in queste stesse proteine
inoltre sono la causa molecolare di alcune malattie genetiche
rare, chiamate sindromi da instabilità genomica.
I pazienti affetti da queste malattie hanno spesso un rischio
molto maggiore di sviluppare tumori; le proteine dei checkpoint
e del riparo del danno al DNA costituiscono quindi un legame
molecolare, a prima vista insospettabile, tra alcune malattie rare e
94
3.4 I checkpoint e il “controllo qualità” del genoma
suscettibilità al cancro.
Quali sono i meccanismi biologici che regolano il
checkpoint del danno al DNA?
I primi attori che entrano in gioco sono dei veri e
propri “sensori”(come ad esempio la proteina NBS1
nel caso di danni al DNA a doppio filamento), che si
legano al DNA nel punto in cui è stato danneggiato.
I sensori a loro volta assemblano complessi proteici
che funzionano da “trasduttori”, come le chinasi ATM
e ATR, attivando a cascata una serie di “effettori”, con
l’aiuto di proteine “mediatrici”.
Due importanti target di ATM e ATR, sono le
chinasi Chk1 e Chk2, che a loro volta agiscono
modulando l’attività dell’oncosoppressore per
antonomasia, p53 (che può essere direttamente
controllato anche da ATM). p53 è un proteina chiave
che orchestra una serie di risposte parallele.
Da un lato blocca la progressione del ciclo cellulare,
stimolando la produzione di regolatori negativi del
ciclo, e dall’altro attiva le vie di riparo del DNA.
Figura 3.4 Il checkpoint da danno al DNA
A seguito di un danno al DNA la cellula attiva una cascata di trasduzione del
segnale per trasferire il messaggio dai sensori agli effettori. Alcune delle proteine
che intervengono nel processo sono evidenziate a lato.
95
3.4 I checkpoint e il “controllo qualità” del genoma
Tutte le vie effettrici agiscono retroattivamente sul
checkpoint: se il danno è stato riparato, il checkpoint
viene “spento” e la cellula può proseguire nel suo
ciclo. Se il danno non è stato riparato, il checkpoint
persiste e, in certi casi, conduce alla morte cellulare
programmata.
Negli ultimi vent’anni gli scienziati hanno scoperto
un altro livello di complessità nei meccanismi di
regolazione dell’instabilità genomica: le alterazioni
epigenetiche. Si tratta di modificazioni chimiche della
cromatina che non cambiano la sequenza di basi del
DNA ma che sono cruciali nel mantenere la corretta
architettura dei cromosomi e nel regolare l’espressione
genica e sono implicate attivamente nei meccanismi
di riparo del DNA (Dinant et al., 2008). Lo studio
delle alterazioni epigenetiche nell’instabilità genomica
rappresenta un campo in fervida espansione della
ricerca oncologica dei prossimi anni.
Figura 3.5 La risposta al danno al DNA
Immagine al microscopio confocale di nuclei di fibroblasti murini trattati
con radiazioni ionizzanti (B) e non trattati (A). In rosso fosfo-ATM evidenzia
l’attivazione di ATM dopo danno al DNA, in blu sono colorati i nuclei con il DAPI.
Autore: Ubaldo Gioia, ricercatore IFOM.
In caso di danno prolungato e irreversibile, p53
innesca la senescenza o addirittura l’apoptosi. p53
è dunque al crocevia di importanti vie biochimiche
che mantengono e preservano la stabilità genetica
della cellula; per questo ruolo p53 è denominata
“il guardiano del genoma” ed è il più efficace
oncosoppressore. Non sorprende, quindi, che in più
del 50% dei tumori umani p53 sia mutato e inattivato
(Harris et al., 1996).
96
3.5
Come si studia il danno
al DNA
Gli scienziati utilizzano diversi approcci sperimentali per
studiare questo complesso fenomeno. Tra quelli più utilizzati ci
sono:
• Il Comet assay
Questo saggio si usa per visualizzare e quantificare perdita di
porzioni di cromosomi (Azqueta and Collins, 2013). I nuclei cellulari
isolati e interi vengono fatti migrare in un campo elettroforetico.
Se il DNA è integro, il nucleo si sposta come una sfera compatta;
se sono presenti frammenti o porzioni di cromosomi liberi, essi
migrano più velocemente formando una “coda” intorno al nucleo.
La lunghezza e l’intensità della cometa sono proporzionali
all’entità del danno al DNA.
3.6 Comet assay
Un esempio di comet assay realizzato in fibroblasti umani, non trattati (A) e
trattati con radiazioni ionizzanti (B). Il nucleo della cellula trattata (B) forma una
coda, dovuta alla frammentazione del materiale genetico.
Autore: Aurora Cerutti, ricercatrice IFOM
97
3.5 Come si studia il danno al DNA
• Il microarray
Analisi molecolari a larga scala di tutto il genoma,
come nel caso dei microarray (Kirby et al., 2007).
Si tratta di microchip di pochi centimetri su cui
vengono depositate tutte le sequenze del genoma di
un organismo e con i quali è possibile identificare
e quantificare mutazioni, sia puntiformi che
cromosomiche presenti nel proprio campione.
• L’elettroforesi in due dimensioni (2D-gel
electrophoresis)
Figura 3.5 La risposta al danno al DNA
Immagine al microscopio confocale di nuclei di fibroblasti murini trattati
con radiazioni ionizzanti (B) e non trattati (A). In rosso fosfo-ATM evidenzia
l’attivazione di ATM dopo danno al DNA, in blu sono colorati i nuclei con il DAPI.
Autore: Ubaldo Gioia, ricercatore IFOM.
Molecole di DNA, cariche negativamente, sono
fatte migrare su un gel di agarosio tramite due campi
elettrici perpendicolari (Lao et al., 2013).
Le molecole si muovono e si distribuiscono nello
spazio bidimensionale secondo la loro conformazione,
che a sua volta dipende dalle strutture tridimensionali
dell’elica del DNA. Questa tecnica è utilizzata per
identificare riarrangiamenti e strutture anomale nelle
molecole di DNA.
Figura 3.7 Microarray
L’immagine rappresenta il profilo di espressione dei geni all’interno di cellule
eucariotiche di mammifero. Nel riquadro: l’ingrandimento mostra come la diversa
luminosità corrisponda a un differente livello di espressione genica. In blu i geni
spenti e in rosso quelli accesi.
Autore: Microarray Unit IFOM.
98
3.5 Come si studia il danno al DNA
Grazie a questa proprietà si possono facilmente
ottenere mutanti, singoli o multipli, nelle proteine dei
checkpoint e del riparo al DNA e si possono indagare a
fondo i meccanismi nei quali sono coinvolti.
• Microscopia elettronica
Microscopia elettronica, che tramite l’utilizzo
di fasci di elettroni che colpiscono il campione da
analizzare, consente di studiare strutture nell’ordine
di pochi nanometri (un miliardesimo di metro). Si può
così visualizzare la struttura del DNA con estremo
dettaglio, evidenziando anomalie come forche, bolle e
riarrangiamenti (Lopes, 2009).
Le metodologie appena descritte possono essere
applicate per studiare il danno al DNA in cellule di
qualunque origine; ad esempio, linee cellulari umane
in coltura, come le HeLa, ma anche di organismi
modello come il verme Caenorhabditis elegans e
soprattutto il lievito Saccharomyces cerevisiae, che
rappresenta l’organismo di elezione per studiare il
ciclo cellulare e la risposta al danno al DNA.
I checkpoint e le vie di riparo del DNA sono infatti
così essenziali per la vita della cellula da essere rimasti
sostanzialmente invariati durante l’evoluzione, anche
negli eucarioti più semplici come il lievito.
Questo organismo presenta molteplici vantaggi, tra
cui un ciclo cellulare molto veloce e la possibilità di
crescere come organismo aploide.
99
3.6
Mettiti alla prova!
In questo paragrafo, puoi ripercorrere i principali temi
affrontati nel capitolo 3 e mettere alla prova le tue conoscenze
tramite domande specifiche e interattive (nella versione per
i-pad). Non solo, se vuoi sperimentare in prima persona alcuni
dei fenomeni descritti, sono disponibili diversi protocolli
sperimentali da realizzare facilmente a casa o a scuola,
utilizzando gli stessi metodi e modelli sperimentali dei ricercatori,
dal lievito Saccharomyces cerevisiae alla radice di cipolla (Allium
cepa).
100
3.6 Mettiti alla prova!
101
3.6 Mettiti alla prova!
102
3.6 Mettiti alla prova!
103
3.6 Mettiti alla prova!
104
3.6 Mettiti alla prova!
105
3.6 Mettiti alla prova!
106
3.6 Mettiti alla prova!
107
3.6 Mettiti alla prova!
Risposte:
1: D
2: C
3: B
4: B
5: C
6: B
7: B
8: C
9: D
10: C
11: C
12: D
13: D
14: C
15: A
108
3.6 Mettiti alla prova!
109
3.6 Mettiti alla prova!
110
3.6 Mettiti alla prova!
111
3.6 Mettiti alla prova!
112
3.6 Mettiti alla prova!
A
B
C
D
113
A
B
C
D
3.6 Mettiti alla prova!
A
B
C
D
114
A
B
C
D
3.6 Mettiti alla prova!
A
B
C
D
115
A
B
C
D
3.6 Mettiti alla prova!
Risposte:
1: D
2: A
3: A
4: C
5: D
6: B
9: C
10: B
11: B
12: A
13: C
14: D
15: C
116
7:
8:
4
PROLIFERARE
ANCHE SENZA
SEGNALI DI
CRESCITA
“The appreciation of the nearuniversal role that receptor
tyrosin kinases (RTKs) have
in human cancer has cast a
spotlight on this important class
of mitogenic receptors and has
effected an explosion of interest
in RTKs as therapeutic targets”
Casaletto e McClatchey, 2012
117
4.1
Come si trasmette
il segnale di
proliferazione?
La proliferazione di cellule all’interno di un tessuto è un
processo finemente regolato, che dipende dall’integrazione
di diversi segnali provenienti dall’ambiente extracellulare
(paragrafo 2.1). Ciò assicura che la divisione avvenga solo in
caso di effettiva necessità, ad esempio per rimpiazzare delle
cellule vecchie o a seguito di una ferita. Uno degli eventi che
attivano la proliferazione è il legame tra fattori di crescita e
recettori di membrana. Da qui il segnale si trasmette a staffetta
fino al nucleo attraverso modificazioni biochimiche che
coinvolgono una varietà di enzimi e secondi messaggeri.
Figura 4.1 Un esempio di proliferazione cellulare
Galleria fotografica di cellule epiteliali umane (HeLa) in coltura. Il primo giorno sono
state depositate in piastra circa 500.000 cellule e la loro proliferazione è stata seguita
per 5 giorni.
118
4.1 Come si trasmette il segnale di proliferazione?
Molte delle proteine coinvolte nella trasmissione
del segnale sono note da decine di anni, ma solo
recentemente sono stati scoperti alcuni dei meccanismi
molecolari che regolano la loro attività, come pure il
ruolo che svolgono in altri processi quali migrazione e
differenziamento (Lemmon and Schlessinger, 2010; Witsch
et al., 2010).
Una volta innescata la cascata, la cellula è anche
in grado di spegnerla prontamente: ciò è importante
sia per smorzare il segnale, evitando l’attivazione in
risposta a minime fluttuazioni della concentrazione
di ligando, sia per scongiurare la sovrastimolazione
del sistema, un evento particolarmente pericoloso che
porta la cellula a crescere in modo incontrollato.
Uno dei protagonisti della trasmissione del segnale
è RAS, un vero e proprio interruttore molecolare
in grado accendersi per il passaggio del segnale
e di spegnersi rapidamente bloccando il flusso di
informazioni biochimiche. Quando RAS si attiva,
nella cellula parte una vera e propria cascata di eventi
enzimatici che amplificano il segnale e inducono
la trascrizione di nuovi geni che promuovono la
proliferazione cellulare (Roberts and Der, 2007; Morrison,
2012). I componenti della cascata a valle di RAS sono
chinasi, enzimi che utilizzano ATP per trasferire
un gruppo fosfato ai rispettivi bersagli molecolari.
La fosforilazione è quindi il segnale biochimico che
attiva ciascuno di questi enzimi e che permette la
trasmissione a staffetta del segnale di proliferazione.
(Roberts and Der, 2007; Morrison, 2012).
Come viene spento il segnale? Tutto ruota attorno
al legame ligando-recettore che, direttamente o
indirettamente, innesca anche una serie di processi,
che portano all’arresto del segnale. Questo fenomeno
è detto feedback negativo. Il primo processo, che si
verifica pochi minuti dopo l’attivazione del recettore,
è la defosforilazione, ovvero la rimozione dei gruppi
fosfato dal recettore e dagli altri componenti della
cascata. Nei minuti successivi entra in gioco un altro
processo, l’endocitosi, che permette di internalizzare
i recettori attivati, eliminandoli dalla membrana
cellulare e favorendone la successiva degradazione.
Circa quaranta minuti dopo l’attivazione del recettore
interviene l’attenuazione, un meccanismo lento
di spegnimento del segnale. Gli attenuatori sono
proteine la cui espressione è stimolata dalla cascata
119
4.1 Come si trasmette il segnale di proliferazione?
di trasduzione del segnale e possono agire a diversi
livelli, ad esempio riducendo l’attività di alcune chinasi
(Lemmon and Schlessinger, 2010).
Rita Levi-Montalcini, cancro e fattori di crescita
La scoperta di una correlazione tra cancro e fattori di crescita risale agli anni ’50, quando la Montalcini lavorava
nel laboratorio di Viktor Hamburger a St. Louis. Alla fine degli anni ’40 Elmer Bueker, uno studente di dottorato nel
laboratorio di Hamburger scopre che l’innesto di cellule tumorali di sarcoma murino a livello dei gangli di un embrione
pollo provoca una crescita sorprendente delle fibre nervose dirette verso la massa tumorale (Bueker, 1948). Insieme
al collega Stanley Cohen, la Montalcini porta avanti le ricerche di Bueker spinta dall’interesse verso questo misterioso
fattore in grado di stimolare la crescita dei neuroni. Nel 1954 riescono a isolare la molecola: la chiamano Nerve Growth
Factor (NGF), il primo fattore di crescita a essere identificato, una pietra miliare nella storia della biologia. La scoperta,
riconosciuta anche con il Nobel nel 1986, ha aperto la strada agli innumerevoli studi che negli anni a seguire hanno
investigato le interazioni tra cancro e fattori di crescita.
120
4.2
Come viene regolata
la proliferazione?
Gli organismi multicellulari utilizzano una varietà di
meccanismi per modulare finemente la proliferazione cellulare in
base alle esigenze specifiche dei tessuti. Un caso esemplare che
ricapitola molti di questi meccanismi è la regolazione del segnale
di proliferazione trasmesso dal recettore per l’EGF (Epidermal
Growth Factor Receptor, EGFR). EGFR è un recettore tirosinchinasico appartenente alla famiglia delle proteine recettoriali
ERBB. Quando è presente il suo ligando, EGFR si attiva e
accende una cascata di trasduzione del segnale che induce
la cellula a dividersi e migrare. È coinvolto nello sviluppo di
moltissimi tumori, come il cancro al polmone, il cancro al seno
e il glioblastoma ed è bersaglio di terapie antitumorali mirate
già in uso nella pratica clinica (paragrafo 4.6) (Hynes and
MacDonald, 2009; Zhang et al., 2007).
121
4.2 Come viene regolata la proliferazione?
In cellule normali gli elementi che controllano
l’attivazione di un recettore di membrana sono due:
1. La quantità di fattore di crescita a cui una
cellula è esposta, che dipende dalla velocità di
sintesi del ligando, dalla sua maturazione e dal
trasporto. Come molti altri fattori di crescita,
i ligandi dei recettori ErbB sono sintetizzati
sotto forma di precursori inattivi: inizialmente
sono proteine transmembrana, poi attivate da
specifiche proteasi, proteine che tagliano i
precursori liberando nell’ambiente il ligando.
Quest’ultimo può stimolare i recettori della
cellula stessa, di cellule vicine o anche molto
lontane, nel caso in cui venga rilasciato nel
flusso sanguigno e linfatico. Queste tre modalità
di stimolazione sono dette rispettivamente
autocrina, paracrina ed endocrina. Alcuni fattori
di crescita, come EGF, possono agire attraverso
tutti e tre i meccanismi, altri invece prediligono
una modalità rispetto alle altre (Singh and Harris,
2005).
Figura 4.2 Le proteine ERBB e i loro ligandi
La famiglia ERBB è costituita da quattro recettori: EGFR (ERBB1), ERBB2, ERBB3 e
ERBB4. I ligandi identificati per ogni recettore sono riportati in figura nel pannello
A. L’unico recettore per il quale non è stato individuato alcun ligando è ERBB2.
In B, è illustrata la dimerizzazione tra due proteine ERBB. In C, l’attivazione
della cascata di trasduzione del segnale. A differenza degli altri membri della
famiglia, ERBB3 possiede un dominio tirosin-chinasico inattivo. EGF, Epidermal
Growth Factor; TGF-α, Transforming Growth Factor α; AR, amphiregulin; BTC,
betacellulin; HB-EGF, Heparin-Binding Growth Factor; EPR, epiregulin, NGR,
neuregulin.
122
4.2 Come viene regolata la proliferazione?
Il legame del ligando modifica la struttura
del recettore che passa alla conformazione
aperta. Solo così il complesso EGF-EGFR può
formare dimeri attivi che avviano la cascata di
trasduzione del segnale (Schlessinger 2002, Zhang
et al., 2006). Maggiore è il numero di recettori in
superficie e più alta sarà la probabilità che due
recettori che hanno legato l’EGF si incontrino e,
formando dimeri, attivino la cascata a valle.
Figura 4.2 Il recettore del fattore di crescita epidermale (EGFR)
Immunofluorescenza di cellule epiteliali umane (HeLa) in cui EGFR è stato
colorato in verde e osservato al microscopio ottico. La proteina si accumula a
livello della membrana plasmatica.
2. Il numero di recettori presenti sulla
superficie della cellula. Nel caso di EGFR
questo è un punto fondamentale nella
regolazione dell’attivazione.
In assenza di EGF, infatti, i recettori presenti
sulla membrana hanno una particolare struttura,
detta conformazione chiusa, che li rende incapaci
di catturare il ligando e di attivare la cascata di
trasduzione del segnale.
Durante la progressione tumorale le cellule
acquisiscono la capacità di evadere i meccanismi
che controllano la trasmissione del segnale di
proliferazione. Come ci riescono? Da diversi studi si è
visto che le cellule tumorali possono attuare strategie
che agiscono a livello del ligando (paragrafo 4.3),
del recettore (paragrafo 4.4) e/o delle proteine della
cascata (paragrafo 4.5) (Witsch et al., 2010).
123
4.3
Strategia 1:
alterare il ligando
Una delle strategie delle cellule tumorali per acquisire
l’indipendenza dai segnali di crescita è l’attivazione di un
circuito di stimolazione autocrina, attraverso la produzione
contemporanea di un fattore di crescita e del suo recettore.
In questo modo la cellula non ha più bisogno che l’organismo
fornisca i segnali che sostengono la crescita perché essa stessa
diventa capace di produrli. Alcune cellule tumorali, come quelle
di certi tipi di tumore al seno, producono sia EGFR sia i suoi
ligandi, come HB-EGF e TGF-α. Il risultato è un circuito
che si autoalimenta, in cui l’attivazione di EGFR accende una
cascata intracellulare che a sua volta induce l’espressione
HB-EGF e TGF-α. Queste molecole vengono rilasciate nel
microambiente e si legano ai recettori di superficie della
cellula che li ha prodotti attivando una nuova cascata del
segnale (Schulze et al., 2001).
In alcune cellule tumorali questo circuito autocrino
viene realizzato anche agendo sulla maturazione del
ligando: alterando l’espressione delle proteasi che tagliano
i precursori dei fattori di crescita, le cellule tumorali si
assicurano il continuo rilascio nell’ambiente dei ligandi
necessari a sostenere la loro crescita.
In altri casi i segnali che sostengono la crescita del tumore
sono rilasciati dalle cellule non tumorali vicine, come i fibroblasti,
le cellule endoteliali e del sistema immunitario che instaurano
124
4.3 Strategia 1: alterare il ligando
con il tumore un dialogo indispensabile per la sua
sopravvivenza.
aggressiva responsabile di molte morti (9000 decessi
l’anno solo in Italia, I numeri del cancro in Italia 2013).
Nei pazienti di mCRPC le cellule tumorali rilasciano
alcuni mediatori che stimolano lo stroma a creare
un microambiente “accogliente” per il tumore. Le
cellule dello stroma rispondono quindi producendo
decine fattori di crescita, tra cui IGF-1, EGF e molti
altri, che promuovono la proliferazione del tumore.
Attraverso questo circuito le cellule tumorali e quelle
dello stroma co-evolvono fino a giungere alla metastasi
(Sluka and Davis, 2013).
Box 4.1 - TGF-α e EGFR, l’accoppiata vincente
Figura 4.4 Tumore alla prostata
tessuto prostatico umano normale (A) e tumorale (B) colorati con ematossilinaeosina. L’ematossilina evidenzia i nuclei e la membrana plasmatica in viola,
l’eosina colora in rosa il citoplasma. Le immagini dei campioni sono state acquisite
al microscopio ottico con il Sistema Digitale Aperio Scanscope.
Autore: Giovanna Jodice, Molecular Pathology Unit, Molecular Medicine for Care
Program, Istituto Europeo di Oncologia.
Questo meccanismo caratterizza ad esempio il
carcinoma metastatico della prostata (mCRPC,
metastatic Castration-Resistant Prostate Cancer),
una forma di cancro alla prostata particolarmente
125
Uno dei fattori di crescita meglio caratterizzato
per il suo ruolo nel processo di tumorigenesi è TGF-α,
un ligando di EGFR. In molti i carcinomi TGF-α è
espresso insieme a EGFR e, soprattutto nel cancro
al polmone, all’ovario e al colon, questo correla
con una prognosi negativa. Nel carcinoma della
prostata l’espressione di TGF-α sembra modificarsi al
progredire della malattia: nelle fasi iniziali del tumore
è espresso principalmente dalle cellule dello stroma,
mentre negli stadi più avanzati sono le cellule stesse del
tumore a produrlo e processarlo (Scher et al., 1995).
4.4
Strategia 2:
alterare il recettore
I recettori dei fattori di crescita sono proteine di membrana
dotate di una porzione extracellulare che comunica con
l’esterno attraverso il legame con i ligandi, di una parte
transmembrana e di un dominio intracellulare capace attivare
la cascata di trasduzione. Nei recettori tirosin-chinasici la
trasmissione del segnale avviene attraverso il trasferimento di
un gruppo fosfato sulle tirosine dei loro substrati. La prima
evidenza che un recettore tirosin-chinasico poteva indurre
trasformazione neoplastica risale a trent’anni fa: è il 1984 e su
Nature viene pubblicata la scoperta della corrispondenza tra il
prodotto del gene v-erbB, un oncogene proveniente dal virus
dell’eritroblastosi aviaria, e una forma di EGFR priva del
dominio extracellulare. La particolarità di questo recettore
tronco è che, mancando la porzione che comunica con
l’esterno, il dominio tirosin-chinasico intracellulare
non è più soggetto a controllo da parte del ligando e di
conseguenza risulta sempre attivo (Downward et al., 1984).
Le alterazioni dei recettori tirosin-chinasici sono molto
comuni nei tumori e sono principalmente causate da due
diversi meccanismi: sovraespressione e mutazioni attivanti.
La sovraespressione può essere dovuta a un’aumentata
produzione della proteina oppure dall’amplificazione della
porzione di cromosoma su cui si trova il gene.
126
4.4 Strategia 2: alterare il recettore
Box 4.2 - ErbB2, gli eterodimeri e il tumore al seno
ErbB2 è l’unico recettore della famiglia ErbB
per il quale non è stato identificato alcun ligando.
Per attivare la cascata di traduzione del segnale
ErbB2 deve interagire con altri membri della famiglia
formando degli eterodimeri. Una volta internalizzati,
gli eterodimeri di ErbB2 non entrano nella via
degradativa ma, al contrario, tornano in superficie
e continuano a segnalare anche dai compartimenti
intracellulari. Nei pazienti che sovraesprimono
ErbB2, quindi, la cascata che trasmette il segnale di
proliferazione è sempre accesa (Harari and Yarden,
2000) e sostiene attivamente la crescita del tumore.
Nel tumore al seno ad esempio l’amplificazione del
gene erbB2 è frequente, riscontrabile nel 25% circa di
tutti i casi, e correla con una minore sopravvivenza
dei pazienti e un’incidenza più alta di recidive e di
metastasi.
Mutazioni attivanti sono state identificate invece nel
glioblastoma, un tumore del cervello molto aggressivo.
Nel 35% dei casi, infatti, i pazienti presentano
amplificazioni e mutazioni del gene EGFR con
conseguente sovraespressione della forma mutata e
di quella normale. La mutazione più comune trovata
nel glioblastoma è la variante III di EGFR (EGFR
vIII), che manca di una porzione nella regione
extracellulare.
Figura 4.5 Glioblastoma
Immagine al microscopio di glioblastoma (A) e tessuto nervoso normale (B)
provenienti dallo stesso paziente. I tessuti sono trattati con ematossilina-eosina.
Il tessuto tumorale è caratterizzato dalla perdita dell’architettura e dalla presenza
di un maggior numero di cellule.
Autore: Giovanna Jodice, Molecular Pathology Unit, Molecular Medicine for Care
Program, Istituto Europeo di Oncologia.
127
4.4 Strategia 2: alterare il recettore
Questa mutazione conferisce al recettore una
bassa ma costante attività tirosin-chinasica, che non
dipende più dalla presenza del suo ligando. In queste
condizioni il recettore mutato è permanentemente
in uno stato “acceso” e può trasmettere un segnale
continuo di proliferazione, pur non attivando
efficacemente i processi di degradazione e
spegnimento (Grandal et al., 2007). Lo stesso
meccanismo sembra verificarsi nel cancro al polmone:
in questo caso le mutazioni riscontrate in EGFR
sono completamente diverse, perché localizzate nella
porzione intracellulare, ma l’effetto è analogo. Anche
qui la mutazione provoca l’attivazione basale del
recettore, adeguata a stimolare debolmente la cascata
di segnalazione a valle ma insufficiente a reclutare
le proteine che indirizzano il recettore verso la via
degradativa.
Figura 4.6 EGFR vIII
La mutazione EGFR vIII, riscontrata spesso nel glioblastoma, produce un recettore
tronco privo del dominio che lega il ligando. La dimerizzazione tra recettori
mutanti induce una debole ma costante attivazione indipendente dalla presenza
dei segnali di crescita.
128
4.5
Strategia 3:
alterare la cascata
di trasduzione
Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come le cellule tumorali
possono crescere anche in assenza di segnali di crescita alterando
la quantità di ligando disponibile (paragrafo 4.3) o modificando
il recettore (paragrafo 4.4). Quali altre strategie mettono in atto
per sfuggire ai controlli sulla proliferazione? In oltre un terzo
di tutti i tumori a essere mutate sono le proteine della cascata
di trasduzione (Forbes et al., 2011; Forbes et al., 2014): rendendole
sempre attive, le cellule tumorali mantengono le cascate di
proliferazione accese indipendentemente dalla presenza dei
segnali di crescita.
La prima mutazione a carico di un trasduttore è stata
identificata all’inizio degli anni ’80. In quel periodo erano
stati appena scoperti gli oncogeni, cioè geni in grado di
indurre la formazione di un tumore. Se ne conoscevano
circa una decina e uno di questi era ras: omologo di
un gene proveniente da un virus di sarcoma murino,
era stato isolato da cellule T24 di carcinoma umano
della vescica. Nella cellula RAS funziona da interruttore
molecolare, accendendosi in risposta agli stimoli esterni e
spegnendosi successivamente per bloccare la trasmissione
(paragrafo 4.1). Nel 1982 due gruppi di ricercatori del
Massachusetts Institute of Technology e del National Institute of
Health, guidati rispettivamente da Robert Weinberg e Mariano
Barbacid, scoprirono una mutazione che rendeva la proteina
129
4.5 Strategia 3: alterare la cascata di trasduzione
RAS permanentemente accesa (Reddy et al., 1982; Tabin
et al., 1982). Tale mutazione, che coinvolge l’aminoacido
in posizione 12, è stata poi ritrovata con alta frequenza
anche in svariati tumori, come il cancro al polmone
(box 4.3)e al pancreas.
Altri attori cruciali sono RAF, mutata nel 40% di
tutti i melanomi, AKT, PI3K e PTEN, tutte proteine
che intervengono nella cascata di trasmissione del
segnale di proliferazione o in grado di conferire
resistenza a morte cellulare, un processo fisiologico
essenziale per mantenere l’omeostasi di un tessuto ed
eliminare cellule alterate. Un elenco completo delle
mutazioni associate a un particolare tipo di cancro
può essere ottenuto esplorando database pubblici
come quello del Sanger Center che registra e aggiorna
periodicamente una banca dati globale di tutte le
mutazioni ad oggi individuate nei tumori (http://
sanger.ac.uk/cosmic).
Figura 4.7 Mutazioni G12C di RAS
Il grafico rappresenta il numero totale di tumori depositati nel database COSMIC
(Catalogue Of Somatic Mutations In Cancer) nei quali è stata riscontrata la
mutazione G12C nel gene ras. I dati si riferiscono al V71 release e sono della
Genome Research Limited.
130
4.5 Strategia 3: alterare la cascata di trasduzione
Box 4.3 - Quando il fumo fa la differenza
Il 16% dei carcinomi al polmone non a piccole cellule
(Non-Small Cell Lung Carcinoma, NSCLC) presenta mutazioni
di Ras nella glicina in posizione 12. Le due mutazioni più
diffuse sono G12C e G12V, in cui la glicina è sostituita dalla
cisteina o dalla valina: esse sono attribuibili al consumo di
tabacco, che può indurre la modificazione della guanina del
codone 12 in citosina o in timina (Ahrendt et al., 2001). Alcune
molecole presenti nel fumo di sigaretta, come il benzopirene
e le nitrosamine, formano dei complessi con il DNA che, se
non riparati, provocano queste specifiche mutazioni (Pfeifer
et al., 2002). Nei pazienti di NSCLC che non fumano le
mutazioni G12C e G12V sono rarissime (Riely et al., 2008).
Studi condotti in modelli animali hanno dimostrato che esiste
una relazione di causa-effetto tra queste due mutazioni di
Ras e l’insorgenza del cancro al polmone (Singh et al., 2010).
131
4.6
Bloccare la
proliferazione: approcci
terapeutici mirati
La comprensione sempre più dettagliata delle lesioni molecolari
specifiche delle cellule tumorali ha permesso lo sviluppo di
terapie “mirate”, che hanno come bersaglio le proteine coinvolte
nella crescita del tumore e dalle quale il tumore dipende. Questi
nuovi approcci terapeutici vanno nella direzione di una medicina
sempre più personalizzata (paragrafo 1.9), dato che agiscono in
modo specifico solo sui pazienti il cui tumore possiede il bersaglio
verso cui è stato disegnato il farmaco.
Quali sono i vantaggi di queste terapie? Colpendo solo
le cellule tumorali, questi farmaci sono in genere meglio
tollerati rispetto alla chemioterapia e, inoltre, poiché
sono generalmente formulati sotto forma di compresse,
consentono al paziente di curarsi direttamente a casa
propria, migliorando la sua qualità di vita.
Alcuni degli approcci terapeutici mirati approvati nella
pratica clinica utilizzano inibitori tirosin-chinasici (TKI)
oppure anticorpi diretti verso proteine di membrana. Nel
settembre 1998 negli Stati Uniti la FDA (Food and Drug
Administration) ha approvato per la prima volta l’utilizzo di un
anticorpo, Trastuzumab, diretto contro il dominio extracellulare
di ERBB2, come terapia antitumorale.
132
4.6 Bloccare la proliferazione: approcci terapeutici mirati
Figura 4.6 EGFRvIII
Le proteine ERBB sono bersaglio di terapie antitumorali mirate. La modalità di
interazione tra alcuni di questi farmaci e i recettori ERBB è illustrata in figura.
Nel 2000 Trastuzumab approda anche in Europa
come farmaco d’elezione per curare alcune forme
metastatiche di cancro al seno e allo stomaco che
presentano l’amplificazione del recettore ERBB2.
Dopo Trastuzumab sono stati approvati per la clinica
altri anticorpi diretti contro recettori di fattori di
crescita (tabella 4.1), tra cui Cetuximab, utilizzato
nel cancro al colon-retto e del distretto cervicofacciale, e Nimotuzumab, impiegato nel tumore al
pancreas. Entrambi sono efficaci solo nei pazienti che
sovraesprimono il recettore, dal momento che legano
EGFR e, con meccanismi differenti, ne inibiscono
l’attivazione.
I TKI sono piccole molecole che, rispetto agli
anticorpi, hanno generalmente uno spettro più ampio
di bersagli. Infatti, accanto agli inibitori specifici per
un singolo recettore, come Gefitinib diretto contro
EGFR e impiegato nel trattamento del cancro al
polmone, ne sono stati sviluppati altri in grado di
bloccare l’azione di più recettori contemporaneamente.
Un esempio è Lapatinib, un inibitore di EGFR ed
ERBB2, utilizzato per curare alcune forme di cancro
al seno, efficace anche nel trattamento di tumori
resistenti a Trastuzumab.
Un’altra promettente classe di farmaci ancora in fase
sperimentale comprende gli inibitori delle Heat Shock
Proteins (HSPs), molecole che regolano la maturazione
e la stabilità delle proteine. È stato dimostrato, infatti,
che rimuovendo HSP90, la HSP specifica per le
proteine ErbB, il recettore ERBB2 viene indirizzato
verso la via degradativa e la cascata di trasduzione del
segnale si spegne (Citri et al., 2004).
L’elenco completo di tutti i farmaci antitumorali
approvati in Europa è liberamente consultabile sul
133
4.6 Bloccare la proliferazione: approcci terapeutici mirati
sito dell’EMA, (European Medicines Agency), l’agenzia
europea per il farmaco (http://www.ema.europa.eu/
ema).
Quali sono le limitazioni delle terapie mirate? Se
per alcune neoplasie i bersagli molecolari contro
cui disegnare un farmaco sono stati identificati già
da tempo, come per ERBB2 nel cancro al seno,
in altri casi i meccanismi alla base del processo
di tumorigenesi non sono ancora noti. Ogni
terapia mirata è accompagnata quindi da ingenti
sforzi in ricerca di base, che ne giustificano i costi
elevati e i lunghi tempi di realizzazione. Una volta
identificato il bersaglio e sviluppato un farmaco
specifico, il principale problema che si rileva è la
farmacoresistenza. Questo fenomeno può avvenire
attraverso due meccanismi: le cellule tumorali
sviluppano mutazioni che modificano la proteina
target così che non sia più colpita dal farmaco, oppure
attivano una nuova via che permette al tumore di
crescere indipendentemente dall’oncogene bersagliato.
Per evitare che a causa della farmacoresistenza i
pazienti non rispondano più alla terapia generalmente
si combinano più farmaci mirati tra di loro oppure
li si associa ai chemioterapici. La cura per i pazienti
con cancro al seno metastatico in cui ERBB2 è
sovraespresso ne è un esempio: la terapia mirata
(Trastuzumab) è abbinata a un tradizionale
chemioterapico (Docetaxel).
L’eterogeneità del cancro è un altro fattore che
rende difficile l’individuazione di farmaci mirati
in grado di distruggere tutte le cellule tumorali:
all’interno dello stesso tumore coesistono, infatti,
cellule con diverse alterazioni e spesso non tutte sono
sensibili ai trattamenti terapeutici (paragrafo 1.6). In
questi casi la terapia eliminerà solo una parte delle
cellule maligne, lasciando spazio ad altre cellule con
un corredo di alterazioni molecolari leggermente
differente che saranno responsabili della formazione
delle recidive tumorali (paragrafo 1.8).
Un’altra limitazione delle terapie mirate, infine,
discende dalla difficoltà di sviluppare farmaci contro
alcuni particolari bersagli che per la loro struttura
o per la modalità di regolazione non sono facili da
colpire. Questo è il caso di RAS: una proteina che,
come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è
coinvolta in oltre un quarto di tutti i tumori (paragrafo
4.5) e per la quale ad oggi, nonostante gli sforzi, non
sono ancora stati generati inibitori efficaci.
134
4.6 Bloccare la proliferazione: approcci terapeutici mirati
Tabella 4.1 Farmaci antitumorali mirati
La tabella mostra i principali farmaci antitumorali mirati disponibili in Europa.
Rielaborata da European Medicines Agency (http://www.ema.europa.eu/ema/).
135
4.7
Proliferazione delle
cellule tumorali:
dove sta andando
la ricerca?
La capacità di proliferare in assenza di segnali di crescita
è stata la prima tra dieci caratteristiche delle cellule tumorali
a essere individuata. Risale, infatti, a quasi trent’anni fa la
scoperta che la proliferazione cellulare poteva essere indotta
dalla sovraespressione dei recettori ERBB2 e EGFR (Di Fiore
et al., 1987a; Di Fiore et al., 1987b) e che in diverse forme tumorali
questi stessi recettori erano sovraespressi (Slamon et al., 1987;
Yarden et al., 1988). Gli studi di genetica, biochimica, biologia
cellulare e strutturale condotti in questi trent’anni hanno
permesso di comprendere in dettaglio il funzionamento di molti
recettori e hanno caratterizzato i principali meccanismi
che trasmettono il segnale di crescita dalla membrana al
nucleo. Le acquisizioni della ricerca di base, a loro volta,
sono state indispensabili per aprire la strada alla ricerca
traslazionale che hanno portato allo sviluppo dei farmaci
antitumorali mirati descritti nel paragrafo precedente.
E ora? Quali sono le prossime sfide?
Uno degli obiettivi della ricerca oncologica è individuare
nuovi bersagli molecolari coinvolti nella proliferazione
cellulare. I recettori della famiglia ERBB non sono i soli
a ricevere e trasmettere all’interno della cellula i segnali di
crescita provenienti dall’ambiente. Sono circa venti le famiglie
di recettori tirosin-chinasici scoperte fino ad oggi e solo per
una parte di esse conosciamo i dettagli relativi a regolazione e
136
4.7 Proliferazione delle cellule tumorali: dove sta andando la ricerca?
funzionamento. Lo studio di questi recettori e dei loro
ligandi in tessuti sani e tumorali, oltre a fornire una
chiave in più per la comprensione dei meccanismi
che caratterizzano le cellule neoplastiche, potrebbe
portare a identificare nuove proteine implicate nella
proliferazione, utili per la ricerca clinica.
L’altra area su cui si stanno dirigendo gli sforzi della
comunità scientifica è la biologia dei sistemi, che punta
a integrare e organizzare tutti i dati acquisiti dalla
genetica, dalla biochimica e dalla biologia cellulare.
Oggi, infatti, conosciamo a livello molecolare molti
dei componenti della rete di segnalazione controllata
dai recettori tirosin-chinasici, abbiamo informazioni
sulla loro regolazione nel tempo e su come si muovono
nello spazio della cellula. Ciò che manca è un quadro
integrato in cui tutti questi dati trovino posto.
La biologia dei sistemi mira a colmare questa lacuna:
partendo dall’assunto che alcune importanti proprietà
del sistema non possono essere dedotte dallo studio
delle parti che lo compongono, essa costruisce modelli
su larga scala che descrivono macro-processi cellulari,
come ad esempio la proliferazione.
Figura 4.9 Come procede la ricerca?
La ricerca si può rappresentare come una piramide fondata sulla ricerca di base,
che esplora i fenomeni biologici per capire perché e come avvengono. Alcune delle
acquisizioni della ricerca di base possono essere impiegate per studi traslazionali,
che possono dare origine a molecole, tecnologie e nuovi protocolli da impiegare
nella pratica clinica.
137
4.7 Proliferazione delle cellule tumorali: dove sta andando la ricerca?
Grazie a questi modelli matematici, lo scienziato può
fare previsioni da sottoporre a prove sperimentali e,
attraverso cicli reiterati di predizioni e prove, riesce
ad affinare la comprensione del sistema biologico in
esame. Alla frontiera dell’oncologia sperimentale si
colloca quindi la biologia dei sistemi, che attraverso
il suo approccio integrato promette di svelare
nuove informazioni sui meccanismi che regolano la
proliferazione delle cellule tumorali.
138
4.8
Mettiti alla prova!
In questo paragrafo, puoi ripercorrere i principali temi
affrontati nel capitolo 4 e mettere alla prova le tue conoscenze
tramite domande specifiche e interattive (nella versione per
i-pad).
139
4.8 Mettiti alla prova!
140
4.8 Mettiti alla prova!
141
4.8 Mettiti alla prova!
142
4.8 Mettiti alla prova!
143
4.8 Mettiti alla prova!
144
4.8 Mettiti alla prova!
145
4.8 Mettiti alla prova!
146
4.8 Mettiti alla prova!
Risposte:
1: A
2: A
3: B
4: B
5: A
6: B
7: D
8: B
9: A
10: D
11: C
12: C
13: A
14: C
15: A
147
4.8 Mettiti alla prova!
A
A
B
B
C
C
D
148
4.8 Mettiti alla prova!
A
B
A
C
B
D
F
C
D
149
E
4.8 Mettiti alla prova!
A
B
C
D
150
4.8 Mettiti alla prova!
A
B
A
B
C
D
C
151
4.8 Mettiti alla prova!
A
A
B
C
D
152
B
C
4.8 Mettiti alla prova!
A
B
A
B
C
D
C
D
153
4.8 Mettiti alla prova!
A
C
B
D
154
Farmacovigilanza
A
Fase I
B
Screening molecole
C
Fase III
D
Studi preclinici
E
Fase II
F
4.8 Mettiti alla prova!
Risposte:
1: A
2: A-C-B
3: C
4: B-F-C-D-E-A
5: B
6: B
7: B-C-A-D
8: B-A-C
9: D
10: B-C-A
11: B
12: C
13: A
14: C-E-B-D-F-A
15: A-C-B
A
B
C
155
APPROFONDIMENTI
156
Approfondimenti
Un modello… a righe: il pesce zebra per studiare
l’angiogenesi
L’angiogenesi è il processo di sviluppo di nuovi vasi sanguigni a
partire da quelli preesistenti. Avviene fisiologicamente durante
lo sviluppo embrionale per formare il sistema circolatorio
dell’organismo ma è anche stimolata patologicamente dalle
cellule cancerogene per sostenere la massa tumorale in crescita.
Inoltre, il collegamento tra tumore e sistema vascolare favorisce
la disseminazione di nuove masse tumorali in altri distretti
corporei, le metastasi.
L’angiogenesi è guidata da determinati segnali chimici, sia
inibitori che attivatori. Si è scoperto che le cellule cancerose
sintetizzano alcune categorie di attivatori di natura proteica,
detti fattori di crescita. Questi vengono secreti nella matrice
extracellulare e si legano ai loro specifici recettori situati sulle
membrane delle cellule bersaglio, come le cellule dell’endotelio
vascolare. All’interno delle cellule bersaglio, alcuni “ripetitori
proteici” mediano il segnale del fattore di crescita per stimolare
la divisione cellulare e dunque lo sviluppo di nuovi vasi.
Il pesce zebra (nome scientifico Danio rerio) è un modello
ricorrente in svariati settori della ricerca biomedica, poiché
presenta molteplici vantaggi: basso costo, facilità di allevamento,
velocità con cui i loro embrioni si sviluppano da zigote a
individuo completamente formato e sequenziamento completo
del genoma. Questi piccoli pesci d’acqua dolce presentano
inoltre alcune caratteristiche particolarmente utili per lo studio
dell’angiogenesi. Sono trasparenti durante gran parte dello
sviluppo embrionale, il che rende ben osservabile al microscopio
ottico lo sviluppo della rete vascolare, la sua struttura anatomica
e il flusso sanguigno.
La visibilità dei vasi e del flusso sanguigno può essere implementata
attraverso l’ingegneria genetica. Le cellule dell’endotelio vascolare
(un tessuto costitutivo dei vasi) e degli eritroblasti (precursori
dei globuli rossi) possiedono proteine assenti in altre parti
dell’organismo. Tramite le metodologie del DNA ricombinante
è possibile rendere queste proteine fluorescenti, per seguire dal
vivo e nel tempo le cellule del sistema vascolare. Inoltre, anche
in stadi avanzati dello sviluppo embrionale, i pesci zebra non
dispongono di un sistema immunitario maturo, perciò è possibile
trapiantare cellule tumorali, anche umane, per osservare in un
organismo complesso la regolazione dello sviluppo di una rete
di vasi intorno al tumore e quali sostanze chimiche possano
modificare tale processo.
La comprensione delle interazioni tra le masse tumorali e il
sistema vascolare costituisce uno strumento prezioso per la ricerca
sul cancro e per la messa a punto di terapie antitumorali basate
sull’inibizione dell’angiogenesi. Proprio per conoscere la via più
indicata per la lotta ai tumori maligni è dunque indispensabile
avvalersi di organismi complessi e il pesce zebra appare quanto
mai adatto a tale scopo.
157
Jacopo Canonichesi
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
Questione di specificità: l’uso degli anticorpi nella
ricerca
Individuare nelle cellule tumorali le diverse mutazioni delle
proteine che regolano i numerosi processi cellulari potrebbe
fornire delle informazioni utili alla comprensione dell’oncogenesi
e della progressione tumorale. Quali metodologie utilizzano i
ricercatori per studiare le proteine?
Alcune delle tecniche più diffuse e utilizzate in ricerca si
basano sulle proprietà di particolari proteine, gli anticorpi,
detti anche “immunoglobuline”. Il loro compito nell’organismo
è quello di riconoscere e neutralizzare corpi estranei come
virus e batteri, riconoscendone delle porzioni, gli antigeni, con
estrema specificità. Essi sono infatti in grado di distinguere tra
frammenti proteici che differiscono anche per un amminoacido.
In ricerca vengono usati due tipologie di anticorpi: monoclonali
(riconoscono solo una porzione dell’antigene) e policlonali
(riconoscono diverse porzioni dell’antigene). Tra le svariate
tecniche sperimentali per l’individuazione di proteine, una delle
le più utilizzate è il Western blot che si basa proprio sul legame
specifico antigene-anticorpo. Il Western blot è una tecnica in
cui le proteine, dopo essere state purificate, sono separate in
base al loro peso molecolare mediante elettroforesi su gel di
poliacrilammide e successivamente trasferite su una membrana.
Dopo ciò la proteina di interesse viene identificata mediante la
sua reazione specifica con un anticorpo. La membrana con le
proteine viene messa in contatto con l’anticorpo primario, che
come una sonda altamente specifica, riconosce la proteina di
interesse. Per la visualizzazione si utilizza un anticorpo secondario
che si lega specificamente al primario. L’anticorpo secondario è
legato a un enzima, come la perossidasi di rafano; in presenza
del suo substrato, l’enzima catalizza una reazione chimica che
sviluppa luce. L’ultima fase del Western blot è la detection o
rivelazione: la luce emessa viene misurata con strumenti specifici
o impressionando una lastra fotografica in una camera oscura.
La quantità di luce è proporzionale alla quantità di proteine di
interesse. Grazie a tecniche come il Western blot è possibile
valutare l’assenza o variazioni nei livelli di proteine di interesse,
ad esempio in cellule tumorali rispetto a cellule sane.
Studiare le proteine è di fondamentale importanza in ricerca:
esse servono a “fabbricare” un organismo e a farlo funzionare
e, quando sono difettose, possono causare malattie. Inoltre,
proprio attraverso lo studio del funzionamento delle proteine si
sviluppano nuovi farmaci più mirati.
158
Giulia Chianella
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
Gli interruttori molecolari dei geni: i fattori di
trascrizione
La regolazione dell’espressione genica è quel processo che porta
all’attivazione o all’inattivazione di un gene all’interno di una
cellula.
I geni non sono attivati o inattivati casualmente ma in risposta
ad uno specifico segnale che la cellula riceve e analizza. Sulla
sua membrana, la cellula possiede proteine chiamate recettori,
in grado di legarsi a molecole segnale presenti nella matrice
intercellulare, chiamate ligandi. Un recettore, legatosi al suo
ligando specifico, diviene attivo e genera un segnale intracellulare,
a partire dal quale si sviluppa una cascata di reazioni. Queste
possono essere molteplici e riguardare enzimi diversi, ma molto
spesso coinvolgono enzimi chiamati chinasi, la cui funzione
è di legare gruppi fosfato ad altre proteine, dette substrati,
attivandoli a loro volta. Durante la cascata di reazioni, il segnale
viene notevolmente amplificato così che sia sufficiente una
scarsa quantità di ligando iniziale per avere una risposta cellulare
imponente. L’ultima tappa delle reazioni sono generalmente i
fattori di trascrizione, che hanno un’importanza fondamentale
per la regolazione genica. Essi sono proteine che, legandosi al
DNA tramite particolari sequenze amminoacidiche, accendono
o spengono la trascrizione di uno specifico gene e di conseguenza
regolano l’espressione della proteina codificata dal gene stesso.
La regolazione genica permette di controllare la vita e le funzioni
cellulari, come la proliferazione o il differenziamento. Un
esempio emblematico è quello dell’embrione: a seconda dei geni
espressi e delle proteine sintetizzate, le cellule assumono forma e
funzione caratteristiche e si differenziano le une dalle altre.
è regolata da particolari fattori di trascrizione anche l’apoptosi,
cioè il processo di morte programmata della cellula in determinate
condizioni: una regolazione errata di questo processo può causare
anomalie maligne.
Il legame che si instaura tra un fattore di trascrizione e una
sequenza di DNA può essere studiato in vitro in laboratorio,
seguendo diverse procedure. Per visualizzare qualitativamente il
complesso DNA-fattore di trascrizione in stato non denaturato si
ricorre all’elettroforesi nativa. Per quantificare la forza di legame
si procede con la calorimetria isotermica, una tecnica che misura
il calore rilasciato alla formazione del legame stesso: tanto
maggiore esso è, tanto più forte è il legame.
Lo studio dei fattori di trascrizione riveste oggi una grande
importanza, in quanto si è scoperto che alcuni di essi hanno
funzione di oncosoppressori (cioè ostacolano lo sviluppo del
cancro), altri di oncogeni (cioè favoriscono la nascita di tumori).
159
Camilla De Giorgi
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
La divisione cellulare: un solo fenomeno, molti
modi per studiarla
Il potenziale proliferativo è la capacità delle cellule di duplicarsi in
due cellule figlie, aumentando di numero. è una proprietà molto
importante poiché, se fuori controllo, può causare patologie
come il cancro.
Per determinare sperimentalmente in vitro il potenziale
proliferativo di diversi tipi cellulari, esistono diverse tecniche
utili per confrontare ad esempio cellule tumorali e cellule sane:
curve di crescita, colony assay e trasfezione di un gene reporter.
La curva di crescita è un grafico che mostra come aumenta il
numero di cellule nel tempo. I dati per la costruzione del grafico
vengono ottenuti contando le cellule lungo un arco temporale
definito, ad esempio sette giorni. Il primo giorno vengono
seminate tante piastre di cellule almeno quanti sono i giorni
della curva e ogni 24 ore si contano le cellule. Tramite la curva
di crescita è anche possibile calcolare il tempo di duplicazione
delle diverse linee cellulari, ovvero il tempo che impiegano a
raddoppiare di numero.
Il colony assay, invece, misura il potenziale clonogenico di una
linea cellulare, ovvero la capacità che possiede una singola cellula
di formare, in un certo periodo di tempo, una colonia visibile ad
occhio nudo. Le cellule, seminate in ogni piastra in numero così
basso da poter essere isolate una dall’altra, vengono fatte crescere
per qualche settimana. Al termine, le colonie vengono colorate e
contate: si calcola poi la percentuale di cellule che sono riuscite a
formare una colonia tra tutte quelle seminate.
La terza tecnica è la trasfezione di un gene reporter. Consiste
nell’inserire all’interno della cellula un gene per la sintesi di
una proteina estranea, generalmente fluorescente come la GFP
(Green Fluorescent Protein), in modo che il risultato sia visibile
al microscopio. Per veicolare il gene nelle cellule si possono
utilizzare vettori lipidici, che formano intorno al gene estraneo
una sorta di membrana artificiale che si fonde con quella
della cellula e ne permette l’ingresso. Le linee cellulari che al
microscopio mostrano livelli più elevati di fluorescenza avranno
una maggiore efficienza di trasfezione e saranno quelle che si
sono duplicate il maggior numero di volte in dato arco di tempo.
Le cellule tumorali in genere hanno un tempo di duplicazione
molto basso e un alto potenziale clonogenico e di efficienza di
trasfezione. Il loro potenziale proliferativo è quindi molto elevato:
questa è una delle cause principali della loro aggressività.
160
Marco Franceschini
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
Le “ossa” e i “muscoli” delle cellule: citoscheletro e
strutture di membrana
Le cellule si muovono nell’ambiente extracellulare: ad esempio
direzionano i loro movimenti in base alla presenza di nutrienti
o sostanze chimiche secondo gradiente di concentrazione
(migrazione chemiotattica). Lo studio della migrazione è
finalizzato a comprendere fenomeni quali la formazione di
metastasi.
Il citoscheletro è un sistema di strutture che costituiscono
l’impalcatura delle cellule e ne consentono il movimento attraverso
la formazione di protrusioni specializzate. L’assemblaggio
delle molecole del citoscheletro determina il rimodellamento
della membrana plasmatica: specifici cambiamenti nella
morfologia cellulare con conseguente formazione di strutture
(protrusioni) che conferiscono alle cellule capacità di muoversi
e migrare. Una cellula migra lungo una superficie estendendo
protrusioni all’altezza del fronte di avanzamento. Tali strutture
successivamente si ancorano al substrato e, attraverso la
contrazione delle fibre di actina, permettono alla cellula di
retrarre la parte posteriore promuovendone l’avanzamento.
Le protrusioni sono costituite da filamenti di actina che assumono
diversa morfologia a seconda del numero di filamenti e del tipo di
proteine che legano l’actina (come miosina, α-actinina, filamina
e altre proteine). Le strutture risultanti sono le seguenti:
Filopodi: lunghi fasci di actina paralleli e non ramificati, spesso
legati a tropomiosina e fascina. Il loro allungamento è controllato
dalla formina. I filopodi consentono alle cellule di sondare
l’ambiente circostante;
Lamellipodi: protrusioni estese simili a fogli costituite da una
rete di brevi e sottili filamenti di actina;
Ruffles: protrusioni ricche in actina caratteristiche di cellule che
mostrano buone capacità migratorie;
Adesioni focali: situate alle estremità di grandi fasci di
actomiosina che consentono l’adesione al substrato. La loro
dinamica formazione e distruzione svolge un ruolo primario
nella motilità cellulare. Sono in grado di legare proteine come
tensina e fibronectina;
Podosomi: adesioni puntiformi disposte radialmente in strutture
circolari simili a ventose. Questi sono caratterizzati da un nucleo
contenente proteine coinvolte nella polimerizzazione dell’actina
e da un anello circostante ricco di recettori di integrine e proteine
di adesione.
161
Roberto Molinaro
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
Mettere “a fuoco” le cellule
in movimento
La migrazione delle cellule è un fenomeno biologico molto
importante e studiato poiché, quando avviene nelle cellule
tumorali, è alla base dei processi di metastatizzazione. Le
metastasi sono la principale causa di morte nei pazienti oncologici
perché permettono il diffondersi del tumore non solo all’interno
dell’organo già colpito ma anche in altri tessuti sani, diminuendo
la possibilità di cura. Ecco perché è fondamentale comprendere
i meccanismi di movimento cellulare per sviluppare terapie che
vadano a ridurre o, se possibile, eliminare la migrazione delle
cellule tumorali.
Una tecnologia molto importante e utilizzata per lo studio della
migrazione cellulare è la microscopia ottica, sia in luce trasmessa
sia in fluorescenza.
Tra le diverse tecniche di microscopia, quella ottica è una delle
più utilizzate perché è la meno invasiva e permette di mantenere
integro e vitale il campione studiato.
I microscopi ottici in luce trasmessa sfruttano la luce bianca,
come quella di una lampadina, per illuminare il campione. Si può
migliorare il contrasto con il microscopio a contrasto di fase che
enfatizza le differenze di indice di rifrazione, cioè della capacità
di deviare la luce, esaltando così le regioni chiare e scure della
cellula. Dotando un microscopio di un incubatore, si può inoltre
mantenere un campione cellulare vitale e seguire a intervalli
regolari di tempo l’evolversi di un processo biologico realizzando,
se necessario, un filmato in tempo reale (tecnica del time lapse).
Essa è particolarmente adatta allo studio della migrazione delle
cellule perchè permette di osservare “in diretta” i loro spostamenti,
valutare l’entità della migrazione o, ad esempio, quanto le cellule
siano abili a richiudere uno “strappo” nello strato cellulare.
La microscopia a fluorescenza si utilizza per visualizzare
e localizzare proteine di strutture subcellulari, come il
citoscheletro o le adesioni focali che permettono alla cellula di
ancorarsi al substrato. La proteina di interesse viene “marcata”
con una piccola molecola fluorescente. Questa molecola, se
eccitata da una particolare lunghezza d’onda, emette luce a sua
volta che è possibile captare e misurare con lo strumento. Per
ottenere immagini con elevata risoluzione spaziale ed effettuare
ricostruzioni 3D delle cellule e delle strutture analizzate si utilizza
il confocale, un particolare tipo di microscopio a fluorescenza
in grado di analizzare la luce emessa da singoli piani di fuoco,
eliminando quelli fuori fuoco rendendo l’immagine più nitida.
Nel suo complesso la microscopia ottica, fornendo informazioni
qualitative e quantitative, consente di studiare in dettaglio
fenomeni e processi legati alla genesi e alla progressione della
migrazione cellulare, dimostrandosi così uno strumento
essenziale nella ricerca biomedica e oncologica.
162
Erik Mus
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
Quando una cellula invecchia!
La senescenza è lo stadio avanzato della vita di una cellula in
cui viene interrotto definitivamente il ciclo cellulare ed essa
rimane immutata fino alla morte dell’individuo a cui appartiene,
contribuendo a determinare l’invecchiamento dell’organismo
stesso.
Il fenomeno della senescenza, alternativo all’apoptosi
(morte cellulare programmata), si innesca anche quando i
danni accumulati dal DNA sono troppo ingenti, sia a causa
dell’accorciamento dei telomeri nel corso del tempo, sia a causa
di mutazioni provocate dall’esposizione a radiazioni ionizzanti,
e non possono quindi essere completamente riparati tramite i
processi di risposta al danno. Recenti studi hanno confermato
che la senescenza è un processo strettamente correlato alla
risposta al danno al DNA. L’accorciamento dei telomeri oltre un
certo limite viene riconosciuto come una rottura dei filamenti di
DNA e induce la cascata della risposta al danno al DNA che porta
ad un definitivo arresto del ciclo cellulare e della proliferazione.
Nelle cellule tumorali, però, tale processo non si riscontra, in
quanto il tumore induce una proliferazione incontrollata ed
ininterrotta della cellula stessa, rendendola di fatto immortale
e insensibile alla senescenza. Diventa perciò interessante
analizzare la senescenza dal punto di vista clinico poiché, se le
vie biochimiche di riparazione e senescenza fossero riattivate,
potrebbero ritardare o arrestare lo sviluppo di un tumore, agendo
come stadio avanzato della risposta al danno al DNA.
In vitro, una cellula senescente è facilmente riconoscibile sia da
un punto di vista ottico, in quanto si presenta solitamente piatta
ed estesa, sia da un punto di vista chimico/biologico, tramite,
ad esempio, l’ausilio di tecniche specifiche quali il test della
β-galattosidasi. Tale tecnica, utilizzata anche per l’identificazione
di cellule senescenti nella pelle umana, sfrutta la presenza
nelle cellule senescenti di un marcatore specifico: una variante
dell’enzima lisosomiale β-galattosidasi. Questo enzima opera una
reazione su una particolare molecola somministrata e sviluppa
una reazione colorimetrica, che può essere misurata. Le cellule
colorate contengono β-galattosidasi e sono quindi senescenti.
La senescenza cellulare quindi, è un fenomeno importante e di
grande interesse scientifico e di ricerca, che potrebbe permettere
di sviluppare nuovi e migliori metodi di risposta alle più varie
forme tumorali esistenti.
163
Matteo Pavarini
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
Il genoma in un centimetro: i microarray e le
tecnologie di analisi genica globale
L’analisi dell’espressione genica, cioè quali geni sono espressi in
una cellula di un certo tessuto o in una data condizione ambientale
e il loro livello di trascrizione, è fondamentale per comprendere
la struttura e il funzionamento di un organismo.
A partire dagli anni ’80 sono state sviluppate tecnologie, quali
il Northern Blot o la PCR quantitativa, per misurare i livelli di
espressione di singoli geni d’interesse. Tali approcci one gene,
seppur di grande importanza nella ricerca, mostravano dei limiti:
un carattere fenotipico è spesso determinato dall’interazione di
più geni; inoltre la regolazione dell’espressione genica avviene
attraverso complesse reti di geni regolatori di cui tali sistemi
di analisi non tengono conto. Così, negli anni ’90, sono nate
tecniche di analisi simultanea dei profili trascrizionali di tutto
il genoma, come i microarray, la SAGE (Serial Analysis of Gene
Expression) e l’RNA-Seq (sequenziamento di RNA). I microarray
(microvettori) sono costituiti da un supporto solido, un chip di
pochi centimetri, a cui vengono legati migliaia di segmenti di DNA
rappresentativi ad esempio dell’intero genoma di un organismo.
Si estrae poi l’insieme degli RNA trascritti dalle cellule di interesse,
da cui si ricavano filamenti di DNA complementari (cDNA). Essi
vengono marcati con una sonda fluorescente e poi applicati sul
microarray, dove si appaiano con i corrispondenti frammenti di
DNA rappresentanti i geni d’origine: dal livello fluorescenza si
potrà dedurre il livello di RNA di partenza e quindi di espressione
genica. La SAGE prevede il taglio di brevi sequenze terminali dei
cDNA (tag) che, sequenziate, vengono allineate ai geni d’origine
e quantificate per via informatica, così da dedurre statisticamente
la quantità nel campione. L’RNA-Seq consiste nel frammentare
i campioni di mRNA, retrotrascriverli a cDNA complementare e
sequenziarli interamente per poi allineare tramite software tutte
le sequenze al genoma di riferimento e osservare la differenza
di espressione tra i campioni. Questi metodi di analisi sono
fondamentali in campo oncologico: nei tumori il normale
programma cellulare viene alterato, causando una trascrizione
anomala di set di geni che può essere individuata dal confronto
tra i trascrittomi di una cellula sana e una tumorale. Ciò è anche
applicabile alla comparazione tra cellule tumorali trattate con
farmaci e non, per individuare la modulazione dell’espressione
genica. Le diverse metodologie di analisi globale sono quindi
uno strumento indispensabile per indagare le alterazioni della
regolazione genica alla base di patologie come le trasformazioni
neoplastiche.
164
Davide Rodorigo
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
Dal lievito i segreti del ciclo cellulare
Il ciclo cellulare è un meccanismo biologico molto importante: è
alla base della divisione e proliferazione delle cellule ed eventuali
alterazioni favoriscono lo sviluppo di malattie, come i tumori.
L’indagine sui meccanismi del ciclo cellulare richiede organismi
modello per la sperimentazione biologica, il cui utilizzo è spesso
cruciale per comprenderne il funzionamento nell’uomo, data la
conservazione di tale processo in tutte le cellule eucariote.
Il lievito Saccharomyces cerevisiae, appartenente al regno dei
funghi e alla classe degli Ascomiceti, è un organismo unicellulare
eucariota. Esso viene utilizzato in diversi processi biotecnologici,
dati i numerosi vantaggi rispetto allo studio su mammiferi:
dimensioni ridotte, basso costo, crescita su substrati semplici,
breve tempo di generazione (120 minuti), stesse caratteristiche
cellulari di base degli eucarioti (S. Cerevisiae è stato definito per tali
motivi “mammifero onorario”), genoma piccolo e completamente
sequenziato, possibilità di manipolazione genetica (facilmente
trasformabile, disponibilità di diversi tipi di plasmidi).
Un altro aspetto rilevante della scelta del lievito come modello
sta nella sua capacità di esistere sia in forma aploide sia diploide.
Normalmente, il nucleo di S. Cerevisiae contiene due serie
omologhe di sedici cromosomi e si riproduce in maniera asessuata
per gemmazione (simile alla mitosi, ma il citoplasma è ripartito in
modo asimmetrico), che dà origine a due cellule figlie, entrambe
diploidi. Inoltre, anch’esse possono andare incontro a morte
programmata, o apoptosi. Tuttavia, in condizioni ambientali
avverse (carenza di glucosio e azoto), le cellule possono avviare un
processo di sporificazione: si tratta di una riproduzione sessuata
per meiosi, nella quale la cellula madre si trasforma in “asco”, un
involucro sacciforme contenente quattro cellule aploidi. Queste
ultime, dette spore, sono di due sessi, indicati con “a” e “α”, che
possono moltiplicarsi per gemmazione o unirsi a formarsi una
cellula diploide a/α, in un processo chiamato coniugazione.
Le fasi del ciclo cellulare del lievito sono le stesse rispetto agli
altri eucarioti (G1, S, G2, mitosi, citodieresi).
La possibilità del lievito di esistere nelle forme aploide e diploide
ha reso possibile l’isolamento e lo studio di mutazioni recessive,
l’identificazione degli elementi strutturali del cromosoma.
Sfruttando tecniche di ingegneria genetica è stato possibile
utilizzarlo per dar vita a mutazioni in diversi geni e per test di
complementazione: questo ha permesso di esplorare in grande
dettaglio i meccanismi di regolazione e controllo del ciclo
cellulare in maniera più chiara e versatile rispetto all’utilizzo di
cellule di mammifero.
165
Giada Toso
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
Lievito: un microscopico alleato per studiare i
danni al DNA
Per garantire il corretto funzionamento delle cellule è necessario
che il DNA sia replicato e trasmesso in maniera adeguata. Ciò,
però, non accade sempre, poiché l’integrità del genoma può
essere compromessa da diversi fattori, esogeni o endogeni, che
causano danni al DNA e quindi instabilità genomica.
L’instabilità genomica è alla base di diverse malattie e soprattutto
del cancro: per questi motivi, diverse sono le linee di ricerca per
comprendere i sistemi di controllo della stabilità genomica nelle
cellule. Uno degli organismi più utilizzati in questi studi è il
lievito Saccharomyces cerevisae.
Saccharomyces cerevisae è un organismo unicellulare eucariota
appartenente al regno dei funghi. Possiede diverse caratteristiche
che lo rendono uno dei modelli biologici più importanti per lo
studio di fenomeni come il danno al DNA e il ciclo cellulare.
Ha un basso costo e può essere cresciuto facilmente in terreni
liquidi o solidi definiti, fornendo un completo controllo dei
parametri ambientali. Si può trovare sia allo stato aploide che
allo stato diploide: le mutazioni recessive possono facilmente
essere isolate e analizzate in ceppi aploidi, mentre le analisi
di complementazione possono essere fatte in ceppi diploidi.
Si riproduce per gemmazione, il che permette di distinguere
morfologicamente le diverse fasi del ciclo cellulare e analizzare
facilmente i prodotti della meiosi. Infine, è molto semplice
sincronizzare le cellule nelle varie fasi del ciclo cellulare, per
studiare il danno al DNA in diversi momenti della vita della
cellula.
Tramite i feromoni (a o α) si ottengono cellule sincrone nella
166
fase G1, con l’idrossiurea (inibitore della riduttasi ribonucleica
che blocca le cellule nella fase iniziale S e attiva il checkpoint
intra-S) si ottengono cellule in fase S e col nocodazolo (inibitore
dell’assemblaggio del fuso mitotico) in mitosi.
Tramite semplici metodologie di biologia cellulare come la
citometria a flusso o l’immunoprecipitazione di specifiche
proteine coinvolte nel metabolismo del DNA si possono
comprendere diversi fenomeni, come ad esempio determinare
l’effetto delle differenti mutazioni sull’origine della replicazione
del DNA o sulla progressione della forca replicativa.
Saccharomyces cereviasie è quindi un compagno storico
dell’uomo: da secoli utilizzato per la panificazione e la
vinificazione, ha consentito e consentirà in futuro anche grandi
progressi in diversi campi scientifici come la genetica e la biologia
molecolare.
Francesca Zerial
Studente Ricercatore - edizione 2013
Approfondimenti
Malattie genetiche rare e cancro: due facce della
stessa medaglia
La stabilità del genoma nelle cellule è mantenuta grazie all’azione
delle proteine coinvolte nei checkpoint del danno al DNA e nelle
vie di riparazione. Quando le mutazioni dei geni che codificano
queste proteine sono presenti in cellule della linea germinale,
ovvero oociti o spermatozoi da cui si formano tutte le cellule di
un organismo, si verificano aberrazioni e scompensi genomici
diffusi, spesso alla base di rare e gravi patologie definite sindromi
da instabilità genomica.
Generalmente sono causate da mutazioni recessive, ovvero è
necessario che entrambi i geni sui due cromosomi, di origine
materna e paterna, siano mutati affinché si manifesti la
malattia. Queste sindromi si presentano in età infantile e sono
frequentemente caratterizzate da invecchiamento precoce e
predisposizione allo sviluppo di cancro. L’instabilità genomica
è dunque il “filo rosso” molecolare che accomuna diverse
manifestazioni cliniche, tra cui una delle principali è lo sviluppo
di varie forme di neoplasie.
L’ataxia telangiectasia è causata dalla mutazione del gene ATM,
con una frequenza di 1 su 40.000 nascite. I primi sintomi sono
atassia, ovvero la perdita di coordinazione muscolare, e fragilità
dei vasi sanguigni soprattutto nell’occhio. In seguito compaiono
degenerazioni al cervelletto, immunodeficienza, ipogonadismo
e un’elevata predisposizione a sviluppare neoplasie come le
leucemie. Anche soggetti eterozigoti (cioè che presentano la
mutazione solo in uno dei due alleli) mostrano un elevato rischio
di cancro al seno. ATM ha un ruolo fondamentale nel checkpoint
del danno al DNA, nella transizione G1/S del ciclo cellulare e
nell’apoptosi. Interagisce con diverse proteine tra cui p53, NBS1,
BRCA1 e FANCD1, tutte proteine mutate in tumori e in altre
sindromi da instabilità genetica.
La sindrome di Nijmegen, o sindrome da rottura di cromosomi,
colpisce 1 individuo ogni 3 milioni, ed è causata da mutazioni
nel gene per NBS1. I pazienti mostrano malformazioni al volto,
ritardo mentale e nella crescita, macchie sulla pelle e sensibilità
all’esposizione al sole, oltre a un elevato rischio di leucemie, in
particolare linfomi non-Hodgkin. Anche gli eterozigoti hanno
un’alta predisposizione a sviluppare leucemie, linfomi e tumori
al seno e al colon. NBS1 fa parte di un complesso di proteine, i
“sensori”, che rilevano le rotture sul DNA, reclutano e attivano
ATM per segnalare il danno.
Lo Xeroderma pigmentosum colpisce in Europa 1 individuo su
1 milione. I sintomi caratteristici sono estrema secchezza ed
eritemi della pelle e gravi reazioni da bruciatura anche dopo brevi
esposizioni al sole o a fonti UV artificiali. Col progredire della
malattia compare anche degenerazione neurologica e motoria.
Inoltre, i pazienti hanno un rischio 10.000 volte maggiore di
sviluppare carcinomi a cellule squamose e delle cellule basali,
e 2000 volte maggiore per i melanomi, con un’età media di
insorgenza di meno di 10 anni. Ci sono 8 geni che, se mutati,
causano xeroderma, chiamati XPA-G e XPV. Ad eccezione della
proteina XPV, le altre sono coinvolte nel meccanismo di riparazione
da escissione di nucleotidi (NER, Nucleotide Excission Repair),
che rimuove principalmente i dimeri di timina e le distorsioni
causate dai raggi UV. Questo spiega l’elevata suscettibilità a danni
e tumori della cute nei pazienti e l’ipersensibilità ai raggi UV.
La sindrome di Werner e la sindrome di Bloom sono entrambe
causate da mutazioni in proteine della famiglia delle elicasi RecQ,
167
Approfondimenti
rispettivamente WRN e BLM. Le elicasi sono proteine che svolgono
la doppia elica e sono implicate nei processi di replicazione e
riparazione del danno al DNA. La Werner colpisce 1 bambino su
1 milione e causa invecchiamento precoce a partire dalla pubertà;
ulcerazioni della cute, perdita di capelli, osteoporosi, cataratta,
aterosclerosi ed elevato rischio di tumore, soprattutto sarcomi,
carcinomi e tumori ematologici. L’elicasi WRN ha un importante
ruolo nello svolgere distorsioni del DNA come forche e bolle; è
coinvolta nella riparazione omologa e non-omologa del DNA e
stabilizza i telomeri. L’accumulo di cellule senescenti in questi
pazienti potrebbe spiegare il precoce invecchiamento osservato.
Anche BLM ha un ruolo attivo nello svolgere strutture complesse
del DNA come bolle e giunzioni a quattro filamenti. Inoltre,
BLM fa parte del complesso dei “sensori” del danno a doppio
filamento insieme a NBS1 ed è coinvolto nel checkpoint attivato
da ATM. La sindrome di Bloom è molto rara con solo 220 casi
in tutto il mondo dal 1975, principalmente in ebrei aschenaziti.
I sintomi principali sono fotosensibilità e macchie della pelle,
bassa statura, infertilità maschile, immunodeficienza, ritardo di
apprendimento e predisposizione al cancro, soprattutto linfomi
non-Hodgkin, leucemie e tumori della pelle.
L’anemia di Fanconi può essere causata da mutazioni in diversi
geni, le cui proteine sono chiamate FANC. Queste proteine
riconoscono e si accumulano in siti di danno al DNA oltre ad
essere coinvolte nelle via di segnalazione e nel mantenimento dei
telomeri. Ha un’incidenza di 4-7 individui per milione di nascite; il
primo sintomo è l’anemia aplastica. Col progredire della malattia
i pazienti sviluppano linfomi e leucemie, carcinomi all’esofago,
tumori epatici, cerebrali e a cellule squamose del collo e della
testa.
La discheratosi congenita è una cosidetta “telomeropatia”. Può
essere causata da mutazioni in 8 geni, 7 dei quali codificano
per componenti del complesso enzimatico della telomerasi,
come DKC1 e TERT. I pazienti hanno telomeri molto corti e
conseguente instabilità genomica. I sintomi comprendono
anormale pigmentazione della pelle, placche cheratinizzate
in bocca, perdita prematura dei capelli, distrofia alle unghie,
riduzione del cervelletto e aumentato rischio di cancro; il 10%
dei pazienti muore a causa di tumori, soprattutto ematologici.
168
Approfondimenti
Le isoforme di Ras:
così simili e così diverse
RAS è una piccola GTPasi, ovvero una proteina che scinde il
GTP (guanosina trifosfato) in GDP (guanosina difosfato). Nella
cellula esiste in due conformazioni che si alternano di continuo:
una forma attiva, che lega la molecola di GTP, e una inattiva, che
lega il GDP.
Nell’uomo sono state identificate tre isoforme di RAS (H-RAS,
N-RAS e K-RAS) codificate da tre differenti geni. Esse sono molto
simili (80% di identità): tutte in grado di indurre trasformazione
neoplastica, tutte capaci di attivare gli stessi effettori a valle.
Caratteristiche queste che hanno fatto per lungo tempo supporre
che le tre proteine fossero funzionalmente intercambiabili. A
dispetto della forte somiglianza invece si è scoperto che nella
cellula si comportano in modo diverso sia in termini di espressione,
sia per la specifica localizzazione subcellulare. Ognuna delle
tre isoforme, inoltre, è presente in maniera specifica in diverse
forme tumorali. Considerando la totalità dei tumori a oggi
analizzati, infatti, il 22% porta una mutazione in K-RAS, contro
l’8% in N-RASe il 3% in H-RAS (Forbes et al., 2011). Le mutazioni
di K-RASsono tipiche del cancro al pancreas, al colon-retto e al
polmone, patologie in cui le altre due isoforme sono raramente
colpite. Al contrario N-Ras è mutato molto frequentemente
nei tumori del sangue, mentre H-Ras sembra essere specifico
del cancro alla vescica e poche altre neoplasie (Castellano and
Santos, 2011).
Delle oltre 40 diverse mutazioni di RAS identificate nei tumori,
solo tre - localizzate a livello degli aminoacidi 12, 13 e 61 - rendono
conto del 99.2% del totale (Forbes et al., 2011). Esse si trovano
in una porzione della proteina perfettamente identica nelle tre
isoforme, importante per regolare lo scambio tra la forma attiva e
quella inattiva. Queste tre mutazioni producono, infatti, lo stesso
effetto: bloccano la proteina nella forma attiva, accendendo la
cascata di trasduzione del segnale anche in assenza di segnali di
crescita.
169
Approfondimenti
Endocitosi e trasduzione del segnale:
due processi intimamente connessi
In molti libri di testo l’endocitosi è definita come “processo che la
cellula utilizza per assorbire molecole, come i nutrienti, troppo
grandi per attraversare la membrana plasmatica” (http://online.
scuola.zanichelli.it). Questa definizione, certamente vera, appare
però riduttiva rispetto alle molteplici funzioni in cui l’endocitosi
è coinvolta, come la trasduzione del segnale, l’adesione cellulare,
la divisione, la migrazione e il mantenimento della polarità
cellulare (Sigismund et al., 2012).
Durante la trasmissione del segnale di proliferazione, ad
esempio, l’endocitosi è indispensabile per spegnere la cascata
e limitare ampiezza e durata del segnale. Come avviene questo
processo? Una volta legato il fattore di crescita, il recettore va
incontro a una serie di modificazioni che stimolano l’interazione
con gli adattatori, proteine che guidano la formazione della
vescicola. In prima approssimazione queste vescicole possono
essere considerate come vetture che si spostano su autostrade
– i microtubuli – per portare i loro passeggeri – recettori e
ligandi – verso la destinazione finale, i lisosomi. Questa via è
detta degradativa, perché nei lisosomi i recettori e i ligandi sono
demoliti, evitando alla cellula di andare incontro a eccessiva
stimolazione.
Il fatto che l’endocitosi sia un meccanismo di retroazione negativa
che spegne il segnale di proliferazione è, però, solo una parte
della storia. Meno di vent’anni fa alcuni esperimenti condotti
in California dal gruppo di Sandra Schmid hanno rivelato un
legame molto più complesso tra endocitosi e trasduzione del
segnale. Studiando un mutante di una proteina con un ruolo
chiave nell’endocitosi, la Schmid e i suoi collaboratori avevano
ottenuto dei risultati del tutto inaspettati: mentre alcuni dati
riconfermavano l’importanza dell’endocitosi per smorzare la
trasmissione del segnale, altri sembravano andare in direzione
completamente opposta. Ad esempio, il mutante non era in
grado di attivare efficacemente le cascate di trasduzione del
segnale in risposta a EGF. Come spiegare un tale fenomeno? Gli
esperimenti della Schmid hanno fatto da apripista per una serie
di altri studi, condotti da diversi laboratori in tutto il mondo,
che hanno portato alla formulazione della teoria dei signaling
endosome (Di Guglielmo et al., 2003). Secondo questa teoria non
solo i recettori continuano a segnalare anche dopo essere stati
internalizzati (cioè inglobati in una vescicola), ma alcune cascate
di trasduzione avvengono preferenzialmente nel microambiente
della vescicola. Ciò dipende dalla presenza nelle vescicole di
particolari molecole assenti alla membrana plasmatica, o dal pH,
che è differente nei diversi compartimenti subcellulari, oppure
dall’elevata concentrazione locale di molecole nel piccolo spazio
della vescicola. Inoltre, è stato scoperto che le vescicole possono
subire diversi destini: in alcuni casi entrano nella via degradativa,
indirizzando i recettori verso il lisosoma, in altri casi ritornano
in superficie riutilizzando i loro passeggeri per un ulteriore ciclo
di attivazione-endocitosi, amplificando nel tempo il segnale.
Come fa la cellula a decidere in quale via mandare il recettore? La
scelta non è casuale, ma dipende dalle proteine che intervengono
durante l’endocitosi, dalle specifiche modificazioni che subisce
il recettore e dalle molecole presenti nella vescicola. Tutti questi
fattori rappresentano una sorta di codice a barre che specifica il
destino che dovrà subire un particolare recettore (Sigismund et
al., 2012).
170
Approfondimenti
Figura 1 Endocitosi di EGF
Immagini al microscopio confocale di cellule epiteliali umane (HeLa) stimolate
con EGF (rosso) per 4, 8 e 15 minuti. Il nucleo è colorato in blu (DAPI); il contorno
della cellula è disegnato in grigio. Dopo 4 minuti l’EGF si trova sulla membrana
plasmatica dove viene catturato nelle vescicole di endocitosi. Le vescicole si
muovono all’interno della cellula e si allontanano progressivamente dalla
membrana (8 e 15 minuti).
Autore: Gilda Nappo - IFOM
Figura 2 Internalizzazione di EGFR
Il grafico mostra l’internalizzazione di EGFR in cellule epiteliali umane (HeLa)
dopo stimolazione con EGF. Per seguire l’endocitosi nel tempo è stato utilizzato un
EGF radioattivo che ha permesso di misurare il numero di recettori in membrana
dopo 5, 8 e 10 minuti di stimolazione.
171
Approfondimenti
Come si sviluppa un farmaco?
Per passare dal laboratorio alla clinica tutti i farmaci, compresi
quelli di nuova generazione, devono seguire un lungo percorso
che generalmente dura almeno dieci anni.
Il primo passo è la scelta del bersaglio da colpire: questo è il
punto più importante per la formulazione di una terapia efficace.
Nel caso di un farmaco antitumorale, ad esempio, è necessario
che sia specifico per cellule neoplastiche e, soprattutto, che sia
coinvolto in un processo fondamentale per la sopravvivenza del
tumore.
Il passaggio successivo è un lungo lavoro di ricerca informatica
nei database per individuare tutti i composti, naturali o artificiali,
potenzialmente in grado di legare quello specifico bersaglio. E
se non esiste nessuna molecola con le proprietà desiderate? In
questo caso si procede alla creazione di nuovi composti attraverso
il drug design, una disciplina che sfrutta le conoscenze di biologia
strutturale e bioinformatica per predire la struttura chimica di
sostanze capaci di legare il bersaglio. Tutte le molecole selezionate,
che siano state sintetizzate ex novo o preesistenti, devono essere
sottoposte ad una serie di test, che mirano a restringere sempre
di più il campo fino ad ottenere solo uno o pochi candidati da
testare nei modelli animali e infine sull’uomo. Si inizia con gli
high-throughput screening, sistemi automatizzati che eseguono
saggi biologici su migliaia di campioni contemporaneamente
e che permettono di identificare un sottogruppo di molecole
efficaci dette composti guida o lead compound. Ogni composto
guida viene poi modificato chimicamente per produrre un set
di varianti da sottoporre a ulteriori analisi. Questa seconda fase
di test permette di individuare la sostanza più efficace e più
specifica, cioè quella col minore effetto su molecole diverse dal
bersaglio.
La sperimentazione vera e propria sui modelli animali e poi
sull’uomo segue un percorso stabilito a livello internazionale
dalle agenzie regolatorie sanitarie che prende il nome di Good
Laboratory Practice. Questo percorso inizia con una fase di
sperimentazione preclinica, detta anche fase 0, che prevede una
serie di test in vitro (su cellule in coltura) e in vivo (su modelli
animali). Questi ultimi permettono di studiare la tossicità a breve
e a lungo termine, di determinare se la molecola è mutagena e
cancerogena, di indagare gli effetti tossici sulla riproduzione
e lo sviluppo della prole e di individuare un intervallo di dosi
terapeutiche in cui gli effetti benefici superano quelli collaterali.
Accanto alla tossicità, i test sui modelli animali permettono di
studiare l’ADME (Assorbimento, Distribuzione, Metabolismo,
Escrezione), cioè come viene assorbito il farmaco dall’organo o
della cellula su cui deve agire e se viene assorbito anche da altri
tessuti; se il farmaco riesce a raggiungere il suo bersaglio; se ci
arriva modificato o immutato, attivo o inattivo; come viene
espulso dall’organismo e quanto tempo ci mette. Per completare
le analisi precliniche si eseguono anche studi in vitro, importanti
per fornire indicazioni su alcuni processi specifici dell’uomo: ad
esempio il test dei canali hERG, condotto su cellule in coltura,
consente di identificare molecole cardiotossiche in grado di
indurre fibrillazione e morte in soggetti predisposti.
Passata la fase 0, la molecola può essere testata sull’uomo. La
sperimentazione clinica ha inizio con la fase 1, in cui il composto
viene saggiato in un piccolo gruppo di volontari sani: l’obiettivo
è valutare gli effetti collaterali e la distribuzione del farmaco
nell’organismo.
172
Approfondimenti
A questa segue la fase 2, che indaga su un campione di poche decine
di pazienti gli effetti terapeutici della molecola e determina la
dose di farmaco che verrà somministrata per gli studi successivi.
Per valutare l’efficacia del farmaco, i pazienti sono suddivisi in
due gruppi: a uno si somministra il principio attivo, all’altro un
farmaco di controllo (generalmente il trattamento standard
per quella patologia). Per evitare che le aspettative influenzino
l’esito della sperimentazione, il paziente (e talvolta anche il
medico) non sa se sta ricevendo il farmaco da testare o quello di
controllo. I risultati di queste prove sono utilizzati per decidere
se procedere con gli studi su popolazioni più ampie. Infatti, nella
fase 3 la sperimentazione è estesa a diverse centinaia o migliaia
di pazienti con lo scopo di individuare eventuali reazioni avverse
che non si erano presentate nelle fasi precedenti e per stabilire
se il farmaco è efficace e presenta benefici maggiori rispetto a
quelli già in commercio. Se l’esito della fase 3 è positivo, tutti i
dati della sperimentazione preclinica e clinica vengono inviati
all’autorità competente per essere esaminati. Una volta che il
farmaco è stato registrato e autorizzato per il commercio, segue
una fase 4, detta di farmacovigilanza, in cui vengono annotati
tutti gli effetti indesiderati e eventuali nuovi risultati terapeutici
non rilevati precedentemente. In questo modo la sicurezza e
l’efficacia dei farmaci sono periodicamente verificate anche dopo
la commercializzazione.
Figura 1 Come si sviluppa un farmaco?
Schema che rappresenta le diverse fasi di sviluppo di un nuovo farmaco a partire dallo studio del bersaglio molecolare fino alla commercializzazione della molecola.
173
Approfondimenti
Protocolli Sperimentali
Protocolli
by
• Preparazione di un estratto di mela per
trattamenti antiossidanti in lievito
Preparazione di un estratto di mela per
trattamenti antiossidanti in lievito
a cura di C.V. Segré
Le mele contengono numerose molecole antiossidanti, che contrastano la reattività
di altre specie chimiche come i radicali liberi. Svolgono quindi un’importante azione
protettiva nelle cellule e nei tessuti. In questa esperienza viene descritto come
preparare un estratto da polpa e buccia di mela per effettuare trattamenti antiossidanti
su colture di lievito.
• Analisi di vitalità in lievito dopo esposizione di
agenti ossidanti (H₂O₂)
Obiettivo
Preparare un estratto di mele contenente molecole antiossidanti per trattamenti
su colture di lievito.
• Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione a
raggi UV
Tempo previsto
5 minuti per la preparazione della
soluzione acetone-acqua
2 ore (minimo) per il
raffreddamento
15 minuti per la preparazione
dell’estratto
Materiali e reagenti
Procedimento
1.Preparare una soluzione acetone 70%-acqua 30% come segue: versare in
una bottiglia 70ml di acetone e 30ml di acqua e mescolare bene le due fasi.
• Protezione dei danni da agenti ossidanti con
vitamina C ed estratto di mela in lievito
2.Porre la soluzione acetone-acqua, una mela e una bottiglia pulita in frigorifero
fino al momento del trattamento.
3.Lavare bene la mela con acqua fredda.
• Protezione dei danni da radiazioni ultraviolette
in lievito
4.Per tutti i passaggi successivi, occorre lavorare sempre tenendo il materiale
in ghiaccio.
Strumentazione
5.Tagliare la mela a fette senza togliere la buccia, rimuovere il torsolo e pesare
30g.
9 Bilancia
9 Frullatore
9 Coltello
6.Tagliare i 30g di mela in piccoli pezzi e frullarli con 50ml di soluzione fredda
acetone-acqua per 5 minuti fino a ottenere una purea omogenea.
7.Filtrare la purea nella bottiglia pulita precedentemente messa in frigorifero,
con l’ausilio di un imbuto rivestito di garza.
8.Strizzare la garza per estrarre tutto il succo possibile dal composto.
• Insorgenza di mutazioni in lievito dopo
trattamento con raggi UV
9.Avvolgere la bottiglia contenente l’estratto di mela in carta stagnola e
conservare in ghiaccio o in frigorifero fino al momento del trattamento.
Osservazioni
y Durante il passaggio nel frullatore, effettuare una pausa di 30 secondi ogni
minuto, onde evitare che il composto si scaldi troppo.
y Le molecole antiossidanti presenti nelle mele si ossidano rapidamente a
contatto con l’ossigeno, inattivandosi. Questo fenomeno è responsabile
dell’“annerimento” che si osserva ad esempio quando si lascia una fetta
di mela all’aria. Per ridurre al minimo questi effetti, è opportuno preparare
l’estratto di mela a fresco, subito prima del trattamento e lavorare sempre
con materiale freddo in ghiaccio.
• Insorgenza dei mutanti petite in lievito
• Selezioni dei mutanti petite in lievito
• Prova funzionale dei mutanti petite in lievito
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174
9 Una mela varietà Golden del
Trentino
9 Acetone 70ml
9 Acqua deionizzata 30ml
9 Due bottiglie da 100ml
9 Un imbuto
9 Garza
9 Un cilindro graduato da 100ml
9 Carta stagnola
miscellanea
• Colorazione degli apici radicali di cipolla
Approfondimenti
Protocolli
by
5.Lavare gli apici in acqua distillata, per eliminare l’acido cloridrico (si può utilizzare il coperchio Petri ricoperto da
un piccolo strato di acqua).
Colorazione degli apici radicali di cipolla
6.Prelevare gli apici ed appoggiarli su un vetrino, tagliare a circa 5 mm dall’apice ed eliminare la parte eccedente
(deve rimanere solo la “punta” della radice). Schiacciare delicatamente con una pipetta Pasteur monouso, in modo
da consentire il maggiore assorbimento del colorante.
a cura di U. Matranga, M. Peli e A. Croce
Obiettivo
Evidenziare le fasi della mitosi nelle cellule degli apici radicali di cipolla.
Procedimento
1.Mettere a radicare una cipolla bianca 3 o 4 giorni prima
dell’esperimento in un becker contenente acqua del
rubinetto: togliere prima le radici secche e posizionare la
cipolla in modo che solo la zona radicale sia a contatto
con l’acqua, come mostrato nella figura accanto.
2.Preparare una soluzione idroalcolica di Safranina all’1%
nel seguente modo:
y sciogliere 10 g di safranina in polvere in 100 ml di alcool etilico assoluto
(soluzione madre),
y decantare, filtrare con carta da filtro e conservare in una bottiglia scura,
y prima dell’uso, diluire la soluzione madre 1/10 con acqua distillata (esempio
10 ml di soluzione madre + 90 ml di acqua).
30 minuti per la preparazione
dei vetrini più 3-4 giorni per la
crescita delle radici
Materiali e reagenti
9 Cipolle bianche (diametro circa
3 cm)
9 Acqua del rubinetto
9 Becker (per far radicare le
cipolle)
9 Piastre petri
9 Pinzette
9 Pipette Pasteur
9 Bisturi
9 Carta da filtro
9 Matracci e pipette per
preparare le soluzioni
9 Soluzione di Safranina
9 HCl 5N
9 Smalto per unghie trasparente
9 Vetrini portaoggetto
9 Vetrini coprioggetto
colorazione apici
lavaggio apici
7.Coprire gli apici con qualche goccia di colorante e attendere 5 – 10 minuti.
8.Versare sul colorante alcune gocce di acqua e tamponare con carta da filtro. Coprire con il vetrino coprioggetto e
comprimere delicatamente.
9.Introdurre alcune gocce di acqua distillata tra il vetrino e il coprioggetto per lavare ulteriormente gli apici schiacciati ed eliminare il colorante in eccesso, avendo cura di raccogliere il colorante rimosso con un pezzetto di carta
assorbente posizionato dalla parte opposta da cui è stata inserita l’acqua (l’acqua consente l’allontanamento del
colorante che non è stato assorbito dalle cellule).
Osservare al microscopio con obiettivi a diverso ingrandimento. Se si vuole conservare il vetrino per 2-3 giorni, sigillare
i bordi del coprioggetto con smalto per unghie trasparente. Lo smalto impedisce la disidratazione del campione, ma non
permette una conservazione per lungo tempo.
Di seguito alcune immagini di apici radicali di cipolla colorati con safranina e osservati al microscopio ottico (63x). Le frecce
indicano le cellule in divisione, lo stadio della mitosi è indicato sotto a ciascun riquadro.
Strumentazione
9 Microscopio ottico
Per la preparazione della soluzione
di Safranina
9
9
9
9
Safranina in polvere
Alcool etilico assoluto
Carta da filtro
Bottiglie
profase
tarda profase
anafase
telofase
metafase
3.Quando le cipolle avranno radicato, tagliare gli apici radicali (è preferibile
usare frammenti corti di circa 2 cm).
4.Trasferire gli apici in una capsula Petri contenente HCl 5N e Lasciar agire per
3–5 minuti: l’acido cloridrico ha la funzione di indebolire le pareti cellulari e
quindi di consentire l’ingresso del colorante nella cellula.
taglio apici
fissaggio apici
lavaggio in acqua
Copyright©2010 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare - In collaborazione con: Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia
Copyright©2010 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare - In collaborazione con: Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia
175
botanica
bo-
Tempo previsto
botanica
Questa esperienza permette di osservare le varie fasi del processo mitotico, quel
processo che porta alla divisione di una cellula “madre” in due cellule “figlie”, identiche
e con lo stesso patrimonio genetico della cellula da cui si sono originate. La mitosi è
suddivisibile in fasi ben distinte:
Profase: La cromatina comincia a condensarsi e a formare i cromosomi, la membrana
nucleare si dissolve;
Metafase: Si forma una struttura chiamata fuso mitotico e i cromosomi si dispongono
sul piano equatoriale di questa struttura;
Anafase: Le fibre del fuso agganciano i cromosomi a livello del centromero e tirando lo
separano nei due cromatidi, che si dirigono versi i poli opposti della cellula;
Telofase: I cromatidi si condensano ai poli opposti della cellula per formare i due nuclei
delle due future cellule figlie originate dalla mitosi;
Citodieresi: I cromatidi si dissolvono, si ricreano i due nuclei e la cellula si divide in due
cellule figlie con due nuclei completi.
Per analizzare questo complesso fenomeno si ricorre alle cellule che si trovano negli
apici radicali di cipolla, a livello dei quali vi è una intensa attività di proliferazione
cellulare.
Protocolli
by
Approfondimenti
Protocolli
by
by
Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione
ad agenti ossidanti (H2O2)
Osservazioni
y Una soluzione commerciale di H2O2 10 volumi ha una concentrazione di 893mM.
y La crescita della coltura madre di lievito i per la notte precedente è funzionale all’esperimento: le cellule infatti, per
poter rispondere al meglio ai danni al DNA, devono essere in attiva crescita, nella cosidetta crescita esponenziale.
Se sciogliessimo il lievito in polvere e lo trattassimo immediatamente con H2O2 le cellule non avrebbero tempo di
adattarsi e, sottoposte direttamente allo stress ossidativo, morirebbero tutte.
y L’H2O2, a causa della sua estrema reattività chimica, è una molecola instabile, soprattutto in piastra solida: ecco
perché occorre somministrare l’H2O2 ad una coltura liquida e solo successivamente piastrare le cellule.
a cura di C.V. Segré, G. Nappo e A. Croce
Analizzare le differenze di vitalità di lievito dopo trattamento con un agente
mutageno chimico ossidante, il perossido di idrogeno (H2O2).
Procedimento
1.Pesare 0,2g di lievito in polvere e scioglierlo in 2ml di terreno liquido YPD.
2.Prelevare 10µl di lievito sciolto e trasferirli in 10ml di terreno liquido YPD
(diluizione 1:1000).
3.Versare 240ml di terreno liquido YPD in una fiasca da 500ml e aggiungere i
10ml di lievito diluito 1:1000.
4.Far crescere la coltura in agitazione a 28°C/30°C per una notte o a
temperatura ambiente per un giorno e una notte.
5.Preparare 4 provette da 1.5ml come segue: “0mM H2O2”, “5mM H2O2”,
“7.5mM H2O2” e “10mM H2O2”.
6. Mettere 15ml di terreno liquido YPD in un tubo da 50ml.
20 minuti per inoculo coltura
1 ora per trattamento con H2O2
1-2 giorni per la crescita delle
colonie
Materiali e reagenti
9 Lievito in polvere (acquistabile
al supermercato)
9 Piastre per lievito con bactoagar
9 Terreno liquido YPD
9 Provette da 50ml
9 Fiasca da 500ml
9 Cilindro graduato da 500ml
9 Ansette a L sterili
9 Carta stagnola (acquistabile al
supermercato)
9 Acqua ossigenata 10 volumi
(acquistabile al supermercato)
organismi modello
Obiettivo
Tempo previsto
organismi modello
L’integrità del DNA può essere danneggiata dall’azione di diversi agenti mutageni.
Alcuni di essi sono sostanze prodotte dal metabolismo, come il perossido di
idrogeno, o acqua ossigenata (H2O2). L’H2O2 è un forte ossidante, che reagisce con
le macromolecole biologiche, come il DNA, danneggiandolo. Se la concentrazione di
H2O2 è troppo elevata, le cellule non riparano i danni e possono andare incontro a
morte. Grazie a questa proprietà, l’H2O2 viene anche utilizzata come disinfettante. In
questa esperienza sarà possibile valutare gli effetti del danno ossidativo sulla vitalità
di una popolazione di cellule di lievito
Protocolli
Strumentazione
9
9
9
9
9
Agitatore
Bilancia
Oscillatore
Vortex (facoltativo)
Micropipette e relativi puntali
7. Prelevare 30µl di coltura di lievito cresciuta la notte e diluirla nei 15ml di
terreno YPD. Mescolare bene (spipettando o col vortex) e poi aggiungere
500µl di coltura diluita in ciascuna provetta.
8.Aggiungere in ogni provetta il volume appropriato di H2O2 per raggiungere la
concentrazione indicata, calcolata su un volume finale di 600µl.
9.Portare tutti i tubi allo stesso volume finale di 600µl con terreno liquido YPD.
10.Ricoprire le provette con carta stagnola e porre in oscillazione a 28°C (o a
temperatura ambiente) per 20 minuti.
11.Nel frattempo, preparare le piastre correttamente nominate, corrispondenti
alle diverse condizioni sperimentali.
12.Trascorsi i 20 minuti di trattamento, mescolare bene le colture (spipettando
o col vortex) e prelevare 50µl.
13.Depositare le cellule sulle piastre e spatolarle bene con un’ansetta fino a
che non sono asciugate.
14.Incubare le piastre a 28°C/30°C per 1-2 giorni o a temperatura ambiente
per 2-3 giorni fine a che non sono visibili le colonie.
15.Confrontare i numeri di colonie cresciute nei campioni trattati e non trattati
con agente ossidante.
Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
176
Approfondimenti
Protocolli
by
by
Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione
a raggi UV
y La crescita della coltura madre di lievito i per la notte precedente è funzionale all’esperimento: le cellule infatti, per
poter rispondere al meglio ai danni al DNA, devono essere in attiva crescita, nella cosidetta crescita esponenziale.
Se sciogliessimo il lievito in polvere il giorno stesso dell’irradiamento le cellule non avrebbero tempo di adattarsi e,
sottoposte direttamente ai raggi UV, morirebbero tutte.
y I tempi di irradiamento sono stati calcolati per un transilluminatore con due lampade da 6W l’una.
y La luce attiva la fotoliasi, un enzima che ripara i danni al DNA dovuti da radiazioni UV, come i dimeri di pirimidina, in
un processo chiamato fotoreversione. Per evitare questo processo durante l’esperimento, le piastre devono essere
tenute al buio avvolte in carta stagnola.
y I raggi UV sono le radiazioni a minor energia; esse infatti non penetrano in profondità nell’acqua o nei liquidi. Per
questo motivo l’irradiamento avviene su cellule già piastrate.
y I raggi UV sono mutageni e cancerogeni. Quando si utilizza il transilluminatore o la lampada UV è opportuno
indossare dei dispositivi di protezione, come un camice a maniche lunghe, guanti e occhiali protettivi, e non
guardare mai direttamente la fonte di UV.
Analizzare le differenze di vitalità di lievito dopo trattamento con un agente
mutageno fisico, le radiazioni ultraviolette (raggi UV).
Procedimento
1.Pesare 0,2g di lievito in polvere e scioglierlo in 2ml di terreno liquido YPD.
2.Prelevare 10µl di lievito sciolto e trasferirli in 10ml di terreno liquido YPD
(diluizione 1:1000).
3.Versare 240ml di terreno liquido YPD in una fiasca da 500ml e aggiungere i
10ml di lievito diluito 1:1000.
4.Far crescere la coltura in agitazione a 28°C/30°C per una notte o a
temperatura ambiente per un giorno e una notte.
5.Preparare diverse piastre di bacto-agar etichettate come segue: “no UV”,
“30 secondi UV”, “1 minuto UV” “5 minuti UV”.
20 minuti per inoculo coltura
45 minuti per trattamento con UV
1-2 giorni per la crescita delle
colonie
Materiali e reagenti
9 Lievito in polvere (acquistabile
al supermercato)
9 Piastre per lievito con bactoagar
9 Terreno liquido YPD
9 Provette da 50ml
9 Fiasca da 500ml
9 Cilindro graduato da 500ml
9 Ansette a L sterili
9 Carta stagnola (acquistabile al
supermercato)
organismi modello
Obiettivo
Tempo previsto
Strumentazione
9
9
9
9
9
9
Agitatore
Bilancia
Transilluminatore o lampada UV
Oscillatore
Vortex (facoltativo)
Micropipette e relativi puntali
6. Mettere 15ml di terreno liquido YPD in un tubo da 50ml.
7. Prelevare 30µl di coltura di lievito cresciuta la notte e diluirla nei 15ml di
terreno YPD. Mescolare bene (spipettando o col vortex) .
8.Prelevare 50µl di coltura, depositare le cellule sulle piastre di bacto-agar e
distribuirle bene con un’ansetta a L fino a che non sono asciutte.
9.Sistemare le piastre, ad eccezione del controllo, senza coperchio con l’agar
rivolto verso la fonte di raggi UV.
10.Accendere la lampada UV e trattare le piastre per i tempi indicati: 30
secondi, 1 minuto, 5 minuti.
11. Allontanare le piastre dalla fonte UV, rimettere il coperchio e avvolgere le
piastre in carta stagnola.
12.Incubare le piastre a 28°C/30°C per 1-2 giorni o a temperatura ambiente
per 2-3 giorni o fino a che non sono visibili le colonie.
13.Valutare le differenze nel numero di colonie cresciute nelle diverse
condizioni sperimentali.
Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
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organismi modello
Osservazioni
a cura di C.V. Segré, G. Nappo e A. Croce
L’integrità del DNA può essere danneggiata dall’azione di diversi agenti mutageni,
come le radiazioni ultraviolette (raggi UV). Questi inducono mutazioni nel DNA,
contribuendo all’instabilità genomica, che è una delle cause primarie dei tumori.
Le cellule possiedono dei meccanismi per identificare e riparare i danni al DNA, i
checkpoint; se il danno al DNA è troppo esteso, come dopo eccessiva esposizione
a raggi UV, i checkpoint inducono la morte delle cellule. Per questo, i raggi UV sono
utilizzati in procedure di sterilizzazione, nei laboratori di ricerca ma anche nell’industria
alimentare. In questa esperienza sarà possibile valutare gli effetti del danno da raggi
UV sulla vitalità di una popolazione di cellule di lievito.
Protocolli
Approfondimenti
Protocolli
by
by
Protezione dei danni da agenti ossidanti
con vitamina C ed estratto di mela in lievito
15.Depositare le cellule sulle piastre e spatolarle bene con un’ansetta fino a che non sono asciugate.
16.Incubare le piastre a 28°C/30°C per 1-2 giorni o a temperatura ambiente per 2-3 giorni fine a che non sono visibili
le colonie.
17.Confrontare i numeri di colonie cresciute nei campioni trattati con agente ossidante in presenza e in assenza di
estratto di mela.
a cura di C.V. Segré
Analizzare le differenze di vitalità cellulare di lievito dopo trattamento con agente
ossidante in presenza o assenza di estratto di mela.
Procedimento
1.Preparare una coltura di lievito in crescita esponenziale come descritto nel
protocollo “Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione ad agenti ossidanti”
ai punti 1-3.
2.Preparare l’estratto di mela come descritto nel protocollo “Preparazione di
un estratto di mela per trattamenti antiossidanti in lievito”.
3.Preparare una soluzione madre di vitamina C 250mM: sciogliere 22.015mg
di vitamina C in polvere in 0.5ml di acqua sterile.
4.Preparare 4 provette da 1.5ml ognuna etichettato come segue: “0mM H2O2”,
“10mM H2O2”, “10mMH2O2 + estratto mela”, “10mM H2O2 + vitamina C”.
5.Mettere 15ml di terreno liquido in un tubo da 50 ml.
6.Prelevare 30µl di coltura di lievito cresciuta la notte e diluirla nei 15ml di
terreno, mescolando bene (spipettando o col vortex).
7.Trasferire 500µl della coltura diluita in ciascuna provetta.
8.Effettuare un pre-trattamento con estratto di mela solo nella provetta
contrassegnate con la dicitura “+ estratto mela”: aggiungere 25 µl di
estratto di mela in modo da raggiungere la diluizione 1:20.
9.Effettuare un pre-trattamento con vitamina C solo nelle provette
contrassegnate con la dicitura “+ vitamina C”: aggiungere 20µl della
soluzione madre 250mM in modo da raggiungere una concentrazione finale
di vitamina C di 10mM.
10.Ricoprire le provette con carta stagnola e porle in oscillazione a temperatura
ambiente per 20 minuti.
11.Aggiungere 5.9µl di H2O2 in ogni provetta contrassegnata dalla dicitura “+
H2O2”.
20 minuti per inoculo coltura
1.5 ore per trattamento con
estratto di mela e H2O2
1-2 giorni per la crescita delle
colonie
Materiali e reagenti
9 Lievito in polvere (acquistabile
al supermercato)
9 Piastre per lievito con bactoagar
9 Terreno liquido YPD
9 Provette da 15ml
9 Provette da 50ml
9 Fiasca da 500ml
9 Cilindro graduato da 500ml
9 Ansette a L sterili
9 Bottiglie
9 Carta stagnola (acquistabile al
supermercato)
9 Soluzione di H2O2 (acqua
ossigenata acquistabile al
supermercato)
9 Mele varietà Golden Delicious
del Trentino
9 Vitamina C in polvere
9 Acetone
9 Garze pulite
9 Ghiaccio e cestello del ghiaccio
y Una soluzione commerciale di H2O2 10 volumi ha una concentrazione di 893mM.
y I polifenoli e le sostanze nutritive contenute nella buccia e nella polpa della mela si ossidano facilmente quando
esposte all’aria, perdendo parte delle loro proprietà. Per ridurre il rischio di ossidazione è opportuno tenere i
reagenti e le soluzioni per la preparazione dell’estratto di mela a 4°C e lavorare sempre in ghiaccio.
y La mela è un elemento centrale dell’alimentazione umana; il melo è originario dell’Asia Centrale, coltivato fin da
epoche preistoriche. Le mele contengono molteplici nutrienti come fibre, vitamine e diverse molecole ad azione
antiossidante, tra cui i più abbondanti sono i polifenoli. I polifenoli proteggono le strutture cellulari e le macromolecole
biologiche come il DNA dai danni causati da molecole reattive e ossidanti, contrastando l’invecchiamento cellulare
e aiutando a prevenire l’insorgenza del cancro.
y La vitamina C, o acido L-ascorbico, è un potente antiossidante naturale, fondamentale cofattore in molte reazioni di
ossido-riduzione che avvengono nelle cellule e importante per inattivare i radicali liberi prodotti dal metabolismo.
Svolge un’azione protettiva verso le macromolecole biologiche come il DNA, e per questo contrasta l’invecchiamento
cellulare e aiuta a combattere l’insorgenza del cancro. La vitamina C si trova abbondante negli ortaggi a foglia
verde, in peperoni, pomodori, fragole, kiwi e agrumi. Altre importanti molecole ad azione antiossidante, anch’esse
abbondanti in frutta e verdura, sono ad esempio le vitamine A, B ed E, i carotenoidi e i flavonoli.
Strumentazione
9
9
9
9
9
9
9
9
Agitatore
Bilancia
Oscillatore
Vortex (facoltativo)
Micropipette e relativi puntali
Frullatore
Coltello
Imbuto
12.Ricoprire le provette con carta stagnola e porre in oscillazione a 28°C (o a
temperatura ambiente) per 20 minuti.
13.Nel frattempo, preparare le piastre correttamente etichettate, corrispondenti
alle diverse condizioni sperimentali.
14.Terminato il trattamento, mescolare bene le colture (spipettando o col
vortex) e prelevare 50µl.
Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
178
organismi modello
Obiettivo
Osservazioni
Tempo previsto
organismi modello
Le molecole ossidanti, come i radicali liberi, hanno un’ elevata reattività chimica, e
possono danneggiare le macromolecole cellulari, come le proteine e il DNA. Un’altra
classe di molecole chimiche, gli antiossidanti, abbondanti in certi alimenti come frutta
e verdura, svolgono un’importante azione protettiva contro lo stress ossidativo. In
questa esperienza saranno valutati gli effetti protettivi della vitamina C e di un estratto
di mele sulla vitalità di cellule di lievito trattate con H2O2.
Protocolli
Approfondimenti
Protocolli
by
Protezione dei danni da radiazioni
ultraviolette in lievito
13.Irradiare le piastre come al punto 5.
14.Avvolgere le piastre in carta stagnola.
15.Incubare le piastre a 28°C/30°C per 1-2 giorni o a temperatura ambiente per 2-3 giorni o fino a che non sono
visibili le colonie.
a cura di C.V. Segré, G. Nappo e A. Croce
Analizzare le differenze di vitalità cellulare di lievito dopo trattamento con radiazioni
ultraviolette in presenza o assenza di fattori di protezione.
Procedimento
1.Preparare una coltura di lievito in crescita esponenziale come descritto nel
protocollo “Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione a raggi UV” ai punti
1-3.
2.Preparare una piastra etichettata “no UV” e tre piastre di bacto-agar
etichettate come segue: “1 minuto UV”, “1 minuto + crema” e “1 minuto +
lastra”.
3.Mettere 15ml di terreno liquido YPD in un tubo da 50ml.
4.Prelevare 30µl di coltura di lievito cresciuta la notte e diluirla nei 15ml di
terreno YPD. Mescolare bene (spipettando o col vortex) .
Tempo previsto
Osservazioni
20 minuti per inoculo coltura
45 minuti per trattamento con UV
1-2 giorni per la crescita delle
colonie
y Se non si ha disposizione un transilluminatore ma lampade UV, posizionare la crema e la lastra come indicato nelle
Figure 1A e 1B.
y La crescita della coltura madre di lievito la notte precedente è funzionale all’esperimento: le cellule, per poter
rispondere al meglio ai danni al DNA, devono essere in attiva crescita, nella cosidetta crescita esponenziale. Se
sciogliessimo il lievito in polvere il giorno stesso dell’irradiamento le cellule non avrebbero tempo di adattarsi e
sottoposte direttamente ai raggi UV morirebbero tutte.
y I tempi di irradiamento sono stati calcolati per un transilluminatore con due lampade da 6W l’una.
y La luce attiva la fotoliasi, un enzima che ripara i danni al DNA da radiazioni UV, come i dimeri di pirimidina, in un
processo chiamato fotoreversione. Per limitare questo processo, le piastre devono essere tenute al buio avvolte in
carta stagnola.
y I raggi UV sono le radiazioni a minor energia, non penetrano in profondità nell’acqua o nei liquidi. Per questo motivo
l’irradiamento avviene su cellule già piastrate e non in coltura.
y I raggi UV sono mutageni e cancerogeni. Quando si utilizza il transilluminatore o la lampada UV è opportuno indossare
dei dispositivi di protezione, come un camice a maniche lunghe, guanti e occhiali protettivi, e non guardare mai
direttamente la fonte di UV.
Materiali e reagenti
9 Lievito in polvere (acquistabile
al supermercato)
9 Piastre per lievito con bactoagar
9 Terreno liquido YPD
9 Provette da 50ml
9 Fiasca da 500ml
9 Cilindro graduato da 500ml
9 Ansette a L sterili
9 Carta stagnola
Strumentazione
9
9
9
9
9
9
Agitatore
Bilancia
Transilluminatore o lampada UV
Oscillatore
Vortex (facoltativo)
Micropipette e relativi puntali
5.Prelevare 50µl di coltura, depositare le cellule sulle piastre di bacto-agar e
distribuirle bene con un’ansetta a L fino a che non sono asciutte.
Fig. 1A
6.Posizionare la piastra etichettata come “1 minuto” senza coperchio con
l’agar rivolto verso la fonte di raggi UV.
7.Irradiare la piastra per 1 minuto.
8.Allontanare le piastre dalla fonte UV, rimettere il coperchio e avvolgere le
piastre in carta stagnola.
9.Stendere della pellicola trasparente sulla superficie del transilluminatore,
assicurandosi che sia ben adesa e tesa senza bolle di aria. Stendere 3g
di crema solare sulla superficie, assicurandosi che lo strato di crema sia
uniforme in tutti i punti.
10.Posizionare la piastra etichettata con “crema” senza coperchio sulla
pellicola con l’agar rivolto verso la fonte di raggi UV. Irradiare le piastre
come al punto 5.
11.Rimuovere la pellicola con la crema solare, rimettere il coperchio alle
piastre e avvolgerle in carta stagnola.
12.Appoggiare sulla superificie del transilluminatore la lastra scura. Posizionare
le piastre etichettate con “lastra” senza coperchio sulla lastra con l’agar
rivolto verso la fonte di raggi UV.
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Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
179
Fig. 1B
organismi modello
Obiettivo
16.Valutare le differenze nel numero e nelle dimensioni delle colonie cresciute nelle diverse condizioni.
organismi modello
Le radiazioni ultraviolette (raggi UV) sono agenti mutageni che danneggiano il DNA.
Le cellule possiedono dei meccanismi di riparazione dei danni, i checkpoint, ma non
sempre sono efficaci al 100%, soprattutto se la quantità di agente mutageno è grande
e prolungata nel tempo; questo causa insorgenza di mutazioni e instabilità genomica.
Per ridurre la quantità di raggi UV che penetrano in una cellula esistono diverse
strategie, come l’utilizzo di “schermi” e fattori di protezione. La nostra arma più
potente contro l’insorgenza di tumori è la prevenzione che si attua adottando misure
di protezione. In questa esperienza vedremo l’effetto di alcuni fattori di protezione
verso esposizione a raggi UV.
Protocolli
by
Approfondimenti
by
Insorgenza di mutazioni in lievito dopo
trattamento con raggi UV
piastra contenente il terreno di selezione. Se la crescita sulle due piastre è comparabile, la colonia deriva da un
mutante in grado di crescere in presenza di Amfotericina. Se vi è crescita solo sulla piastra di controllo, la colonia
non è in grado di crescere su Amfotericina. Se non vi è crescita nemmeno sulla piastra di controllo, nulla si può dire
sull’insorgenza di eventuali mutazioni.
y L’Amfotericina uccide i lieviti legando un componente della loro membrana, l’ergosterolo (simile al colesterolo):
crea una sorta di poro nella membrana causando un flusso massiccio di ioni K+ fuori dalla cellula, determinandone
la morte. In questa esperienza viene valutato il tasso di insorgenza di mutazioni indotte da UV che conferiscono alle
cellule la capacità di crescere in presenza di Amfotericina, tuttavia non permette di comprendere il meccanismo
molecolare.
y Potrebbero verificarsi alcune situazioni intermedie: colonie che crescono in presenza di antibiotico ma di dimensioni
ridotte rispetto alla condizione di controllo. Presumibilmente si tratta di mutanti la cui crescita è rallentata dalla
presenza dell’antibiotico ma non inibita. In questa esperienza questi vengono considerati come mutanti positivi.
y Il tasso di insorgenza di mutazioni valutato in questa esperienza è certamente sottostimato rispetto al valore reale,
poiché è misurato solo sulla comparsa di uno specifico fenotipo. Tutte le altre possibili mutazioni insorte a causa del
trattamento non vengono rilevate. Per avere una stima precisa della quantità di mutazioni causate dal trattamento
con raggi UV, occorrerebbe estrarre il DNA da lieviti trattati e non trattati ed effettuare un sequenziamento.
a cura di C.V. Segré, G. Nappo e A. Croce
Obiettivo
Valutare l’aumentata frequenza di insorgenza di mutazioni in cellule di lievito dopo
esposizione a un agente mutageno.
Procedimento
1.Preparare delle piastre di bacto-agar contenenti l’antibiotico Amfotericina B
come descritto nel protocollo “Preparare il terreno di crescita di lievito con
antibiotico”.
2.Sottoporre le cellule di lievito al trattamento con radiazioni UV come descritto
nel protocollo “Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione a raggi UV” con
le seguenti tempistiche di irradiamento: “no UV” (1-2 piastre) e “30 secondi
UV” (4-5 piastre).
3.Quando le piastre di bacto-agar con Amfotericina B sono solidificate,
preparare la griglia per lo spotting delle colonie e lo screening dei mutanti
come indicato nella Figura 1.
4.Quando le colonie delle piastre irradiate sono cresciute, selezionare almeno
50 colonie per condizione (irradiato e non irradiato). Con uno stuzzicadenti
sterile toccare una colonia alla volta e spottarla ognuna in un quadratino
della griglia sia della piastra di controllo che di quella con amfotericina,
nelle stesse posizioni. Utilizzare quindi due piastre normali e due piastre
con Amfotericina B per condizione, per un totale di 8 piastre con griglia.
5.Avvolgere le piastre in carta stagnola e incubarle a 28°C/30°C per 1-2 giorni
o a temperatura ambiente per 2-3 giorni o fino a che non sono visibili le
colonie sulla piastra di controllo.
Tempo previsto
20 minuti per inoculo coltura
50 minuti per preparazione piastre
di bacto-agar con Amfotericina B
45 minuti per trattamento con UV
1-2 giorni per la crescita delle
colonie
2 ore per la preparazione delle
griglie e gli spot
1-2 giorni per la crescita delle
colonie
Materiali e reagenti
9 Lievito in polvere (acquistabile
al supermercato)
9 Piastre per lievito con bactoagar
9 Terreno liquido YPD
9 Tubi da 50ml
9 Fiasca da 500ml
9 Cilindro graduato da 500ml
9 Ansette a L sterili
9 Carta stagnola (acquistabile al
supermercato)
9 Antibiotico Amfotericina B
9 Stuzzicandenti sterili
organismi modello
Gli agenti mutageni come le radiazioni ultraviolette minacciano l’integrità
dell’informazione genetica danneggiando il DNA e aumentando la frequenza di
mutazioni. Le mutazioni possono far perdere una funzione, come ad esempio la
capacità di crescere in assenza di un nutriente, o farne acquisire di nuove, come la
capacità di crescere in presenza di una molecola tossica, ad esempio un antibiotico.
In questa esperienza verrà valutato come aumenta il tasso di insorgenza di mutazioni
in cellule di lievito esposte a raggi UV rispetto a cellule non esposte, utilizzando un
terreno che seleziona positivamente i mutanti.
Figura 1.
Strumentazione
9
9
9
9
9
9
Protocolli
Agitatore
Bilancia
Transilluminatore o lampada UV
Oscillatore
Vortex (facoltativo)
Micropipette e relativi puntali
6.Calcolare la frequenza di mutanti per le due condizioni (irradiato e non
irradiato) come: numero di colonie cresciute su Amfotericina B/numero
totale colonie seminate
Osservazioni
y I raggi UV, oltre a indurre mutazioni nel DNA, riducono anche la vitalità
cellulare: per avere un numero sufficiente di colonie irradiate da testare, è
necessario irradiare almeno 4-5 piastre.
y Le piastre con griglia di bacto-agar senza antibiotico sono un controllo
sperimentale molto importante: permette di valutare quando la colonia è
cresciuta correttamente e quindi di poter valutare se è cresciuto o no sulla
Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
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180
organismi modello
Protocolli
by
Approfondimenti
Protocolli
Protocolli
Insorgenza dei mutanti petite in lievito
a cura di V. Soglio
Generare dei mutanti petite a partire da lievito con genotipo selvatico.
Procedimento
Preparazione di piastre con terreno di crescita glucosio+glicerolo
y Pesare 10 g di estratto di lievito, 20 g di peptone e 2 g di D-glucosio.
y Mettere l’estratto di lievito in un becker contenente 500 ml di acqua
deionizzata e mescolare fino a quando la polvere si è sciolta.
y Aggiungere il peptone e il D-glucosio e mescolare fino a quando le polveri
si sono sciolte.
y Aggiungere 20 ml di glicerolo e portare il volume a 1 L con acqua deionizzata.
y Trasferire in una bottiglia, aggiungere 20 g di bacto agar e sterilizzare in
autoclave per 10 minuti a 121°C.
y Lasciare raffreddare il terreno e versarne 25 ml circa in ogni piastra.
y Quando il terreno si è solidificato, conservare le piastre in frigorifero.
40 minuti per la preparazione
del terreno e 1 ora per il
raffreddamento delle piastre
30 minuti per l’esperimento
Materiali e reagenti
9
9
9
9
9
9
9
9
9
9
9
9
9
9
9
Estratto di lievito
Peptone
D-glucosio (destrosio)
Glicerolo
Bacto-agar
Acqua deionizzata
Becker
Bottiglia
Piastre Petri
Piastra con colonie di lievito
Terreno liquido YPD
Provette da 15 ml
Anse a L (sterili)
Stuzzicadenti (sterili)
Pipette graduate o pasteur
Figura 1
Piastra con terreno di crescita glucosio+glicerolo:
le colonie con fenotipo ‘petite’ sono indicate da
frecce rosse
Osservazioni
3.Usando un’ansa a L, piastrare 20 μl di coltura di lievito su una piastra con
terreno di crescita glucosio+glicerolo.
y I lieviti sono in grado di produrre energia utilizzando diverse fonti di carbonio e attivando di volta in volta l’opportuna
via metabolica. Ecco alcuni esempi: il glucosio può essere degradato sia attraverso la respirazione che attraverso
la fermentazione, il glicerolo solo attraverso la respirazione, mentre il maltosio solo per via fermentativa. Il fenotipo
del mutante petite, come evidenziato dal nome, consiste in dimensioni ridotte delle cellule e di conseguenza delle
colonie generate su piastra. Questa caratteristica è dovuta al rallentamento della crescita causata dall’incapacità
di respirare, infatti essi usano il glucosio per produrre energia solo attraverso la fermentazione e non attraverso la
respirazione.
y La mutazione petite ha una percentuale di insorgenza spontanea pari allo 0,1% - 1%, tuttavia essa può essere
incrementata facendo crescere lieviti selvatici su un terreno contente due fonti di carbonio: il glucosio allo 0,2% (lo
zucchero sia respirabile che fermentabile) e il glicerolo al 2% (composto solo respirabile).
y Oltre alle dimensioni delle colonie, un’ulteriore conferma che si tratti di mutanti petite viene dalla loro incapacità di
crescere su un terreno contenente una fonte di carbonio solo respirabile come il glicerolo (vedi protocollo ‘Selezione
dei mutanti petite in lievito’).
4.Per ottenere un numero significativo di colonie che mostrano il fenotipo dei
mutanti petite (piccole dimensioni, vedi figura 1), preparare almeno una
decina di piastre.
Referenze
5.Porre le piastre a temperatura ambiente per due giorni o fino a quando le
singole colonie diventano visibili.
O. Caryl Wallis and P.A. Whittaker - Induction of petite yeast mutation in yeast by starvation in glycerol - Journal of General
Microbiology (1974) 84: 11-18
1.Trasferire 10 ml di terreno liquido YPD in una provetta da 15 ml e stemperarvi
le cellule di lievito raccolte toccando con uno stuzzicadente una colonia
cresciuta su piastra.
Strumentazione
9
9
9
9
Bilancia
Autoclave
Vortex (facoltativo)
Micropipette e relativi puntali
2.Miscelare usando il vortex o invertendo la provetta più volte.
6.Individuare le colonie con fenotipo petite e procedere con la selezione dei
mutanti come descritto nel protocollo ‘Selezione dei mutanti petite in lievito’.
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181
organismi modello
Obiettivo
Tempo previsto
organismi modello
L’utilizzo di ceppi di lievito mutanti consente agli scienziati di studiare particolari
geni e fenomeni che avvengo all’interno della cellula. Tali mutazioni possono essere
indotte ad hoc nella regione genomica in studio tramite sofisticate tecniche di biologia
molecolare. Il protocollo qui riportato descrive come sia possibile generare dei mutanti
ponendo cellule di un ceppo selvatico su un determinato terreno di crescita. Il mutante
che si propone di generare è noto come ‘petite’ e mostra delle modificazioni nel DNA
mitocondriale, più raramente in quello nucleare, che alterano la via metabolica della
respirazione.
Approfondimenti
Protocolli
Protocolli
Selezione dei mutanti petite in lievito
Osservazioni
a cura di V. Soglio
y Il metodo di selezione dei mutanti petite descritto nel protocollo si basa sulla loro incapacità di respirare: il terreno
usato contiene come fonte di carbonio, il glicerolo, che può essere solo respirato, pertanto solo i lieviti selvatici
riusciranno a crescere.
y Lo striscio della stessa colonia su terreno selettivo e su quello non selettivo (YPD) consente di identificare i lieviti
petite (quelli che non crescono sul terreno selettivo) e averli a disposizione (cresciuti su terreno non selettivo) per
successivi esperimenti come il saggio funzionale descritto nel protocollo ‘Prova funzionale dei mutanti petite in
lievito’.
Identificare i mutanti petite tramite crescita su un terreno selettivo.
Procedimento
Preparazione di piastre con terreno di crescita selettivo
y Pesare 10 g di estratto di lievito e 20 g di peptone.
y Mettere l’estratto di lievito in un becker contenente 500 ml di acqua deionizzata e mescolare fino a quando la polvere si è sciolta.
y Aggiungere il peptone e mescolare fino a quando la polvere si è sciolta.
y Aggiungere 20 ml di glicerolo e portare il volume a 1 L con acqua deionizzata.
y Trasferire in una bottiglia, aggiungere 20 g di bacto agar e sterilizzare in
autoclave per 10 minuti a 121°C.
y Lasciare raffreddare il terreno e versarne 25 ml circa in ogni piastra.
y Quando il terreno si è solidificato, conservare le piastre in frigorifero.
40 minuti per la preparazione del
terreno
40 minuti per l’esperimento
Materiali e reagenti
Estratto di lievito
Peptone
Glicerolo
Bacto-agar
Acqua deionizzata
Becker
Bottiglia
Piastre Petri
Piastre con terreno
glucosio+glicerolo su cui sono
cresciute colonie di lievito
9 Piastre con terreno solido YPD
9 Stuzzicadenti (sterili)
9
9
9
9
9
9
9
9
9
Nelle figure riportate di seguito si osserva la crescita delle stesse colonie di lievito su terreni diversi.
Figura 1
Lieviti cresciuti su piastra con terreno selettivo: le cellule che non hanno dato
origine a delle colonie (asterisco) sono mutanti ‘petite’.
Strumentazione
9 Bilancia
9 Autoclave
Dopo aver generato possibili mutanti petite secondo il protocollo ‘Insorgenza dei
mutanti petite in lievito’, è opportuno selezionarli procedendo come descritto di
seguito.
Figura 2
Lieviti cresciuti su piastra con terreno non selettivo (YPD): i lieviti ‘petite’
identificati grazie alla mancata proliferazione su terreno selettivo sono invece
cresciuti su questo tipo di terreno (asterisco).
1.Individuare le colonie di ridotte dimensioni cresciute sulle piastre
glucosio+glicerolo. Testare tutti i possibili mutanti formatisi sulle 10 piastre
preparate.
2.Toccare con uno stuzzicadente ciascuna colonia e fare uno striscio su una
piastra con terreno selettivo. Per poter distinguere le colonie è fondamentale
suddividere la piastra in spicchi, numerarli e fare lo striscio di una colonia
in uno spicchio.
3.Con lo stesso stuzzicadente fare uno striscio anche su una piastra con
terreno di crescita non selettivo, quello contente il glucosio come fonte di
carbonio (YPD, vedi protocollo ‘Preparare il terreno di coltura per i lieviti’).
Anche in questo caso suddividere le piastre in spicchi e numerarli. Deve
esserci corrispondenza tra la piastra con terreno selettivo e quella con YPD.
4.Incubare le piastre a temperatura ambiente per due giorni o fino a quando
le colonie diventano visibili.
Copyright©2011 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
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182
organismi modello
Obiettivo
Tempo previsto
organismi modello
I mutanti di lievito noti con il nome di ‘petite’ insorgono spontaneamente in una
popolazione di lieviti selvatici e il loro numero può essere incrementato se questi
ultimi vengono posti su un particolare terreno di crescita (vedi protocollo ‘Insorgenza
dei mutanti petite in lievito’). A parità di tempo di crescita, le dimensioni ridotte delle
colonie rispetto al selvatico consentono una prima identificazione dei mutanti. Tuttavia
questa differenza morfologica delle colonie non è sinonimo e garanzia che quei lieviti
siano ‘petite’, è necessario svolgere dei saggi per l’identificazione. In questo protocollo
si propone un metodo di selezione dei mutanti di facile realizzazione. Si ricorda che la
certezza che si tratti di un mutante ‘petite’ è data solo dal sequenziamento del DNA
mitocondriale e dal suo confronto con quello di un selvatico.
Approfondimenti
Protocolli
Protocolli
Prova funzionale dei mutanti petite in lievito
zuccheri). La conformazione delle proteine viene perturbata, compromettendo la funzionalità degli enzimi coinvolti
in tutte le vie metaboliche.
y La mancata integrità del genoma mitocondriale dei lieviti petite causa, oltre all’incapacità di respirare, anche
una minor tolleranza all’etanolo presente nel terreno di coltura. La minor tolleranza all’etanolo del lievito petite
comporta un ulteriore rallentamento della crescita delle cellule e la loro pregressiva morte, di conseguenza le
colture appaiono meno torbide se confrontate con quelle di ceppi selvatici.
a cura di V. Soglio e G. Nappo
Valutare nei mutanti petite il grado di tolleranza all’etanolo presente nel mezzo di
coltura.
Procedimento
1.Riportare rispettivamente su 2 provette la scritta ‘selvatico-controllo’ e
‘mutante-controllo’ e riempirle con 5 ml di terreno liquido YPD.
2.Su altre 2 provette riportare la scritta ‘selvatico-etanolo’ e ‘mutante-etanolo’
e riempirle con 5 ml di terreno liquido di coltura e 200 μl di etanolo assoluto
(corrisponde al 4% del volume totale).
3.Toccare con uno stuzzicadente una colonia di lieviti selvatici e stemperarla
nel terreno della provetta denominata ‘selvatico-controllo’.
4.Toccare con uno stuzzicadente una colonia di lieviti selvatici e stemperarla
nel terreno della provetta denominata ‘selvatico-etanolo’.
5.Toccare con uno stuzzicadente una colonia di lieviti petite e stemperarla nel
terreno della provetta denominata ‘mutante-controllo’.
6.Toccare con uno stuzzicadente una colonia di lieviti selvatici e stemperarla
nel terreno della provetta denominata ‘mutante-etanolo’.
20 minuti
Materiali e reagenti
9 Piastra con colonie di lievito
petite
9 Piastra con colonie di lievito
selvatico
9 Terreno liquido YPD
9 Etanolo assoluto
9 Provette da 15 ml
9 Vetrino con reticolo
9 Stuzzicadenti (sterili)
9 Pipette pasteur
9 Cuvette
Figura 1 (10x)
Cellule di lievito cresciute in terreno YPD: a sinistra il selvatico (selvatico-controllo), a destra il ‘petite’ (mutante-controllo).
Strumentazione
9 Blocchetto termostatato o
bagnetto
Vortex (facoltativo)
Micropipette e relativi puntali
Microscopio ottico
Spettrofotometro
9
9
9
9
7.Miscelare bene il contenuto di ciascuna provetta usando il vortex o
invertendola più volte.
8.Incubare le provette a 30°C per due giorni o a temperatura ambiente per
quattro giorni (meglio se in agitazione).
9.Osservare e confrontare la torbidità e di conseguenza la crescita della
coltura di lievito selvatico e mutante in presenza di etanolo.
10.Prelevare 1ml di coltura in presenza di etanolo del lievito mutante e del
lievito sevatico per quantificare allo spettrofotometro la differente torbidità
(lunghezza d’onda 600 nm).
Figura 2 (10x)
Cellule di lievito cresciute in terreno con etanolo al 4%: a sinistra il selvatico (selvatico-etanolo), a destra il ‘petite’ (mutanteetanolo).
11.Per una stima più precisa del diverso grado di crescita è possibile, in
alternativa, contare le cellule usando un vetrino con reticolo, come descritto
nel protocollo ‘La conta dei lieviti tramite l’utilizzo di un vetrino con reticolo’.
Referenze
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Biotechnology (2010) 87: 829-845
Osservazioni
y Nonostante il lievito sia per eccellenza uno dei microorganismi produttori
di etanolo, esso è sensibile alle elevate concentrazioni di questo alcool.
Eccetto il lievito del vino che tollera concentrazioni di etanolo fino al 1015%, gli altri ceppi, tra cui S.cerevisiae, tollerano concentrazioni fino al
5-6%. La presenza di etanolo nel mezzo di coltura inibisce la crescita e la
sopravvivenza modificando l’integrità e la fluidità della membrana cellulare
e di conseguenza alterando la permeabilità ai diversi soluti (come ioni,
Copyright©2011 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare
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183
organismi modello
Obiettivo
Le figure riportate di seguito mostrano i lieviti selvatici o mutanti cresciuti in terreno YPD o in terreno con etanolo al 4%. Per
la conta è stato usato un vetrino con reticolo (griglia in giallo).
Tempo previsto
organismi modello
Dopo aver identificato un ipotetico mutante ‘petite’ tramite la selezione descritta nel
protocollo ‘Selezione dei mutanti petite in lievito’ è possibile utilizzare questo ceppo
per una prova funzionale. Di seguito si descrive come valutare il diverso grado di
tolleranza all’etanolo tra lieviti di un ceppo selvatico e uno ‘petite’.
BIBLIOGRAFIA
184
Bibliografia
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189
GLOSSARIO
190
Glossario
Amplificazione
Un tipo di mutazione che consiste nella duplicazione di tratti di DNA nel
genoma.
Termini correlati: Delezione, Inserzione, Mutazioni
Aneuploidia
È una variazione anomala del numero e della forma dei cromosomi rispetto al
cariotipo normale. Può essere totale (perdita o acquisto di interi cromosomi) o
parziale (perdita o acquisto di parti di cromosomi)
Termini correlati: Cariotipo, Mutazioni
Anticorpi
Fondamentali per la risposta immunitaria, sono glicoproteine capaci di
riconoscere e legare in modo specifico elementi estranei che possono
danneggiare l’organismo (come virus, batteri, ma anche tossine), chiamati
antigeni.
Termini correlati: Farmaci molecolari
ATP
L’adenosintrifosfato è la molecola che le cellule utilizzano per immagazzinare
e scambiare energia. Dal punto di vista chimico, è formata dalla base azotata
adenina, dallo zucchero ribosio e da tre gruppi fosfato. Il taglio del legame
covalente tra il secondo e il terzo gruppo fosfato produce energia chimica che
la cellula usa per i processi biologici e libera ADP (adenosindifosfato).
Termini correlati: Chinasi, Recettori tirosin-chinasici, Secondi messaggeri
Bioinformatica
Disciplina che applica le tecniche dell’informatica alla biologia. Si occupa di
sviluppare strumenti matematici per analizzare dati complessi (come l’analisi
delle sequenze di DNA), di sviluppare modelli per simulare processi biologici,
di fornire modelli statistici per interpretare i dati biologici e di organizzare
in modo sistematico le conoscenze su DNA, RNA e proteine su database
accessibili a tutti.
Termini correlati: Biologia computazionale, Omologo, Sequenziare
Biologia computazionale
Disciplina che applica le tecniche delle scienze dell’informazione (ad es.
algoritmi di analisi e database) alle scienze della vita. L’obiettivo è analizzare
e studiare la complessità di problemi di interesse biologico o biomedico,
individuando modelli capaci di descrivere le interazioni in sistemi complessi.
Termini correlati: Bioinformatica
Cariotipo
In citogenetica, è la rappresentazione ordinata del corredo cromosomico di un
individuo, in termini di numero e morfologia dei cromosomi ed è caratteristico
della specie di appartenenza. Il cariotipo normale di un essere umano è di 46
cromosomi.
Termini correlati: Aneuploidia
Caspasi
Sono un gruppo di proteine con attività enzimatica: tagliano altre proteine
dopo un residuo di acido aspartico. Comprendono le “iniziatrici” e le
“effettrici”. Le prime tagliano le seconde, attivandole. Le effettrici agiscono su
altre proteine ed eseguono l’apoptosi.
Cellule fagocitarie
Cellule che riconoscono un patogeno o un detrito cellulare, lo inglobano
e lo distruggono utilizzando enzimi litici e specie reattive dell’ossigeno. Si
classificano in granulociti neutrofili, monociti e macrofagi.
Termini correlati: Cellule natural killer (NK)
Cellule natural killer (NK)
Riconoscono ed eliminano cellule anomale o infettate da virus. Agiscono
tramite sostanze tossiche contenute in granuli che rilasciano nel bersaglio.
Liberano nel tessuto anche citochine e interferoni, che richiamano e attivano
altre cellule immunitarie, come i macrofagi.
Termini correlati: Cellule fagocitarie
Cellule staminali
Sono cellule speciali capaci di auto-replicarsi (creando copie identiche di se
stesse) e di specializzarsi (differenziandosi danno origine alle varie tipologie
di cellule presenti nell’organismo). Le cellule staminali pluripotenti possono
dar vita a tutti i tipi cellulari, quelle multipotenti solo ad alcuni. Sono presenti
in quasi ogni tessuto dell’organismo, costituendo una sorta di “riserva” di
cellule.
Termini correlati: Differenziamento, Divisione cellulare
191
Glossario
Chinasi
Enzimi in grado di trasferire un gruppo fosfato da molecole donatrici ad alta
energia, come l’ATP, a specifici amminoacidi di proteine bersaglio (serina,
treonina o tirosina). Questo processo, reversibile, è definito fosforilazione e
rappresenta una delle modalità di trasduzione del segnale nelle cellule.
Termini correlati: ATP, Recettore tirosin-chinasico, Recettori
Citocromo C
È una proteina di piccole dimensioni, contiene un gruppo eme (complesso
chimico con un atomo di ferro) e lega l’ossigeno. Si trova tra la membrana
esterna e interna dei mitocondri ed è coinvolta nella catena di trasporto degli
elettroni nella fosforilazione ossidativa.
Termini correlati: Metabolismo
Codone
È alla base del codice genetico e consiste nella sequenza di tre nucleotidi
nell’RNA messaggero, che porta l’informazione per il posizionamento (nella
proteina codificata corrispondente) di uno specifico amminoacido durante la
sintesi proteica. Il codice genetico comprende complessivamente 64 codoni,
cioè 64 sequenze di triplette di nucleotidi. In particolare, 61 codoni portano
l’informazione per uno dei venti amminoacidi, mentre tre codoni (UAA, UAG
e UGA) sono anche detti “di stop” perché in loro presenza la sintesi proteica
viene terminata.
Termini correlati: Genoma, Sequenziare
Cromatina
È la modalità con cui il DNA è compattato all’interno del nucleo delle cellule
eucariotiche. È costituita da nucleosomi, ovvero DNA avvolto intorno a
proteine basiche (gli istoni), e da proteine non istoniche. Una corretta
architettura della cromatina aiuta a mantenere la stabilità del genoma.
Termini correlati: Epigenetica
Delezione
Un tipo di mutazione che consiste nella perdita di uno o più nucleotidi nella
sequenza del DNA, causando la perdita di informazione genetica. Come
nel caso delle inserzioni, se il numero di nucleotidi persi non è divisibile per
tre, causano uno spostamento del frame di lettura del gene e la produzione
scorretta della proteina corrispondente.
Termini correlati: Amplificazione, Inserzione, Mutazioni
Differenziamento
Processo biologico che consente a una cellula eucariotica che appartiene
a un organismo di specializzarsi in un particolare tipo cellulare, capace di
svolgere una precisa funzione (es. cellule nervose, muscolari, intestinali…).
Per potersi specializzare, la cellula deve smette di dividersi, uscendo in
maniera irreversibile dal ciclo cellulare (si parla di differenziamento terminale).
Termini correlati: Cellule staminali, Divisione cellulare
DImeri
Elementi formati dall’unione di due parti (monomeri). Le molecole che formano
il dimero possono essere identiche (omodimero) oppure diverse (eterodimero)
dal punto di vista della loro composizione chimica.
Termini correlati: Recettore
Divisione cellulare
Processo biologico che permette a una cellula madre di generare due
cellule figlie. Nelle ceellule eucariotiche avviene principalmente tramite la
mitosi e produce due cellule figlie con lo stesso numero di cromosomi della
progenitrice.
Termini correlati: Cellule staminali, Differenziamento
Epigenetica
Insieme di modificazioni ereditabili della cromatina che non determinano una
variazione nella sequenza dei nucleotidi, ma che influenzano la regolazione
e l’espressione genica. Ne sono un esempio la metilazione del DNA e le
modificazioni post-traduzionali degli istoni (come acetilazioni, fosforilazioni e
metilazioni).
Termini correlati: Cromatina
Farmaci molecolari
Sono molecole che colpiscono in modo selettivo un particolare bersaglio
cellulare (come una specifica sequenza di DNA o una certa proteina). Frutto
delle ricerche in campo molecolare degli ultimi decenni, agiscono in modo
specifico sulle cellule patologiche, consentendo di ridurre la tossicità generale
dei trattamenti. Esempi di farmaci molecolari sono gli anticorpi monoclonali,
già utilizzati nella pratica clinica nella cura delle leucemie.
Termini correlati: Anticorpi, Farmacoresistenza, Ricerca Traslazionale
192
Glossario
Farmacoresistenza
Si tratta della riduzione dell’efficacia di azione di un determinato farmaco in
uno specifico paziente durante un trattamento terapeutico. Un esempio è la
resistenza agli antibiotici, che si verifica quando un certo patogeno non può
più essere eliminato con un antibiotico che prima invece risultava efficace.
In campo oncologico, la farmacoresistenza è una delle cause delle recidive
tumorali.
Termini correlati: Farmaci molecolari; Recidiva
Feedback negativo
Noto anche come retroazione negativa, è un meccanismo di controllo
ampiamente usato dagli organismi viventi a diversi livelli (dalla cellula, ai
tessuti, all’organismo) per mantenere l’omeostasi, cioè l’equilibrio. Un
segnale (ad es. la diminuzione della temperatura corporea) viene percepito da
sensori (recettori cutanei) e innesca una risposta (diminuzione di dispersione
termica e/o aumento di produzione di calore da parte dei tessuti adiposi), per
modificare una variabile (temperatura corporea). La risposta dei meccanismi
di controllo ha, in questo tipo di circuito, segno negativo, cioè opposto a
quello del segnale che l’ha innescato.
Inserzione
Un tipo di mutazione che consiste nell’inserimento di uno o più nucleotidi
nella sequenza del DNA. Possono causare errori nella decifrazione del codice
genetico (mutazioni frameshift) poiché, se il numero di nucleotidi inseriti non è
divisibile per tre, causano uno spostamento del frame di lettura del gene.
Termini correlati: Amplificazione, Delezione, Mutazioni
Ligando
Si tratta di molecole in grado di legare in modo altamente specifico e selettivo
recettori specifici e di innescare una cascata di risposte biochimiche nella
cellula.
Termini correlati: Recettore tirosin-chinasico, Recettori
Mammaprint
È un test che permette di stimare, nei pazienti con tumore alla mammella
ai primi stadi, la probabilità che il tumore ritorni entro dieci anni dalla sua
prima diagnosi. Analizzando i livelli di espressione di 70 geni chiave, tramite
la tecnologia del microarray, è possibile calcolare il rischio di ricorrenza del
tumore
Termini correlati: OncotypeDx, Recidiva, Ricerca Traslazionale
Genoma
È l’insieme delle informazioni contenute nel DNA di un organismo vivente.
Consente all’organismo di vivere e riprodursi e viene trasmesso alla progenie.
È specifico per ogni essere vivente e determina le sue caratteristiche (ad es. il
colore degli occhi)
Termini correlati: Codone, Microsatelliti, P53, Sequenziare
Metabolismo
Insieme delle reazioni chimico-fisiche che avvengono in un organismo,
tessuto o cellula, con produzione (catabolismo) o utilizzo (anabolismo) di
energia e corrispondente consumo e produzione di molecole, dette metaboliti.
Termini correlati: Citocromo C
Giunzione aderente
Tipo di giunzione tra cellule adiacenti, formata da diverse proteine (caderine
e catenine). Regolano l’architettura e la permeabilità di tessuti epiteliali ed
endoteliali, ma anche la morfologia e la polarità delle singole cellule.
Metallo-proteasi
Enzimi ad azione litica che degradano altre proteine, tipicamente quelle della
matrice extracellulare. Contengono nel sito catalitico uno ione metallico, come
zinco o cobalto, che svolge un ruolo essenziale nella reazione enzimatica.
Termini correlati: Proteasi
Incidenza
È il numero di nuovi casi di una certa malattia in una specifica popolazione
e in un determinato periodo di tempo. Dà una stima della probabilità di
contrarre quella specifica malattia.
Metastasi
Diffusione delle cellule tumorali dal tessuto in cui si sono originate a un altro
distretto corporeo, tramite il sistema circolatorio e/o linfatico. Sono anche
dette tumori secondari, poiché si verificano a distanza dal tumore primario, sia
dal punto di vista spaziale che temporale.
193
Glossario
Microsatelliti
Regioni del genoma formate da corte sequenze di DNA non codificante
ripetute molte volte. Nell’uomo, rappresentano il 3% del genoma totale e
hanno un ruolo nel mantenere la stabilità delle strutture dei cromosomi.
Termini correlati: Genoma
Mutazioni
Sono alterazioni nella sequenza del DNA, stabili ed ereditabili cioè trasmissibili
alla progenie. Possono interessare singole basi (mutazioni puntiformi); causare
l’inserimento (inserzioni e duplicazioni), la perdita (delezioni) o lo spostamento
(traslocazioni) di tratti più o meno estesi di DNA.
Termini correlati: Amplificazione, Aneuploidia, Delezione, Inserzione
Omologo
Due geni A e B si definiscono omologhi quando hanno avuto origine da
un gene ancestrale comune per duplicazione o in seguito a un evento di
speciazione. L’omologia tra due geni può essere misurata confrontando le
rispettive sequenze nucleotidiche: tanto più è alta la percentuale di identità tra
le sequenze, tanto minore è la loro distanza evolutiva.
Termini correlati: Bioinformatica, Sequenziare
OncotypeDx
È un test che permette di stimare, nei pazienti con tumore alla mammella
(positivo al recettore dell’estrogeno) ai primi stadi, la probabilità che il tumore
si verifichi nuovamente e quanto beneficerà della chemioterapia dopo la
rimozione chirurgica. In questo caso, si analizza il livello di espressione di un
gruppo di 21 geni specifici.
Termini correlati: Mammaprint, Recidiva, Ricerca Traslazionale
P53
È un fattore di trascrizione, cioè una proteina che dirige l’espressione di geni
specifici, legandosi al DNA nelle loro regioni regolatrici. È stata scoperta nel
1979 ed è chiamata anche “il guardiano del genoma” per il suo ruolo cruciale
nel controllo dell’integrità e della riparazione del DNA.
Termini correlati: Genoma
Proteasi
Si tratta di proteine dotate di attività enzimatica, che catalizzano la rottura
del legame peptidico tra un amminoacido e l’altro, con l’ausilio di una
molecola d’acqua. Ecco perché appartengono alla famiglia delle idrolasi. Si
differenziano in base al tipo di residuo che hanno nel sito catalitico (ad es.
metallo-proteasi, serino-proteasi, cistein-proteasi e così via). Sono coinvolte
nella degradazione delle proteine, ma anche nell’attivazione specifica di alcuni
substrati.
Termini correlati: Metallo-proteasi
Rb
È chiamata così perché la sua alterazione causa il retinoblastoma, un
tumore della retina. Si trova nel nucleo delle cellule e regola il ciclo cellulare,
inibendolo il passaggio da fase G1 a S quando le condizioni non sono
adeguate (ad es. in caso di danni al DNA).
Recettore tirosin-chinasico
Detti anche RTKs (Receptor Tyrosine Kinase) sono proteine dotate di attività
chinasica, capaci cioè di trasferire un gruppo fosfato dall’ATP a proteine
bersaglio a livello di specifici residui di tirosina. Si tratta di recettori di
membrana che possiedono un dominio extracellulare (in grado di legare
ligandi specifici), un dominio che attraversa la membrana plasmatica e uno
intracellulare coinvolto nel trasferimento del segnale all’interno della cellula.
Termini correlati: ATP, Chinasi, Ligando, Recettori
Recettori
Sono proteine localizzate sulla membrana o nella cellula, capaci di legare
un fattore specifico. Il legame genera un cambiamento della loro struttura
tridimensionale (attivazione) e dà l’avvio a una cascata di segnalazione
cellulare.
Termini correlati: Chinasi, Dimeri, Ligando, Recettore tirosin-chinasico
Recidiva
In termini medici identifica il ritorno a distanza di tempo di una malattia che in
precedenza era stata eliminata.
Termini correlati: Farmacoresistenza, Mammaprint, OncotypeDx
194
Glossario
Ricerca traslazionale
È quel ramo della ricerca che ha l’obiettivo di trasferire le conoscenze
scientifiche prodotte in laboratorio in nuove applicazioni mediche: dallo
sviluppo al riposizionamento di un farmaco, dalla creazione di un nuovo test
diagnostico alla realizzazione di un’apparecchiatura medica innovativa.
Termini correllati: Farmaci molecolari, Mammaprint, OncotypeDx
Secondi messaggeri
Si tratta di molecole di varia natura che, rilasciate in seguito al legame tra
recettore e ligando (o primo messaggero), trasferiscono il segnale all’interno
della cellula, attivando proteine con attività chinasica. Uno dei più noti è l’AMP
ciclico, prodotto a partire dall’ATP, la cui scoperta valse a Sutherland il premio
Nobel per la medicina nel 1971.
Termini correati: ATP, Chinasi
Sequenziare
Individuare l’ordine con cui si susseguono i nucleotidi in un tratto specifico di
DNA. Ciò permette di conoscere le informazioni contenute nel DNA, come per
esempio i suoi geni o la presenza di eventuali alterazioni.
Termini correlati: Bioinformatica, Codone, Genoma, Omologo
Sovraespressione
Detta anche over-espressione, consiste in una regolazione anomala
dell’espressione genica di uno specifico gene, che comporta un aumento
della sua trascrizione e di conseguenza una maggiore produzione della
corrispondente proteina.
Telomerasi
È un enzima, in particolare una trascrittasi inversa, cioè una DNA polimerasi
RNA dipendente: usa frammenti di RNA come stampo per aggiungere
alle estremità dei cromosomi ripetizioni di sequenze specifiche di DNA,
allungandole.
Termini correlati: Telomeri
Telomeri
Sono le regioni terminali dei cromosomi e sono formati da una sequenza di
sei basi ripetuta migliaia di volte (nei mammiferi 5’-TTAGGG -3’). Proteggono il
DNA, impedendogli di rovinarsi alla fine di ogni replicazione.
Termini correlati: Telomerasi
195
“L’identikit del cancro in dieci tratti” è un progetto di YouScientist di IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare.
Ideazione e piano editoriale
Assunta Croce
Testi
Assunta Croce, Gilda Nappo e Chiara Segrè
Gli approfondimenti sono a cura degli Studenti Ricercatori - Edizione 2013: Jacopo Canonichesi, Giulia Chianella, Camilla De Giorgi, Marco
Franceschini, Roberto Molinaro, Erik Mus, Matteo Pavarini, DavideRodorigo, Giada Toso e Francesca Zerial
Progetto grafico
Deborah Agostini e Cinzia Villa
Foto credits e illustrazioni
Amaya Alzu Farinas, Aurora Cerutti, Cinzia Chirico, Assunta Croce, Andrea Disanza, Ubaldo Gioia, Prakash Hande, Idoya Lahortiga, Chiara
Malinverno, Gilda Nappo, Fabrizio Orsenigo, Stefania Romaggi, Valeria Soglio e Ralph Zellweger
Tutte le illustrazioni sono a cura di Gilda Nappo
L’illustrazione che rappresenta i dieci tratti distintivi delle cellule tumorali è tratta dalla figura 6 dell’articolo: “The Hallmarks of Cancer: the next
generation” (authors: D. Hanahan and R. Weinberg; published in Cell /144/, March 4, 2011).
[Licenza numero 3332981471427]
Foto Rita Levi-Montalcini: Alessandra Benedetti/Corbis
Referente scientifico
Giorgio Scita, direttore del programma di ricerca IFOM “Meccanismi di migrazione nelle cellule tumorali”
Copyright © 2015 IFOM Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione totale o parziale in ogni forma.
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