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L`identikit del cancro in dieci tratti
L’identikit del cancro in dieci tratti Premessa7 Il cancro: cento malattie in una9 1.1 Cancro: una sola parola per tante malattie10 1.2 Il cancro è una malattia del DNA12 1.3 La progressione tumorale: un processo graduale nel tempo 14 1.4 Un panorama genetico complesso16 1.5 Tre processi chiave nella progressione tumorale19 1.6 I tumori: tessuti eterogenei e complessi21 1.7 Un’altra dimensione di eterogeneità: le cellule staminali del cancro 24 1.8 Il cancro: un’evoluzione darwiniana di cellule nell’organismo 28 1.9 Verso terapie sempre più personalizzate32 1.10 Il concetto di rischio e la responsabilità individuale 37 1.11 Prevenzione: un’arma efficace contro il cancro 40 1.12 Comprendere la complessità43 2 L’identikit del cancro in dieci tratti 45 2 Introduzione46 2.1 Proliferare anche senza segnali di crescita49 2.2 Crescere in presenza di segnali di arresto53 2.3 Aggirare la morte cellulare57 2.4 Proliferare in modo illimitato61 2.5 Promuovere l’angiogenesi64 2.6 Migrare e invadere68 2.7 Riprogrammare il metabolismo72 2.8 Sfuggire al sistema immunitario76 2.9 Infiammazione locale 79 2.10 Instabilità genomica81 3 Instabilità genomica84 3.1 L’instabilità genomica: la marcia in più delle cellule tumorali 85 3.2 Come avvengono le mutazioni nel DNA?87 3.3 Instabilità genomica e cancro90 3.4 I checkpoint e il “controllo qualità” del genoma 94 3.5 Come si studia il danno al DNA97 3.6 Mettiti alla prova!100 Proliferare anche senza segnali di crescita 117 4.1 Come si trasmette il segnale di proliferazione118 4.2 Come viene regolata la proliferazione121 4.3 Strategia 1: alterare il ligando124 4.4 Strategia 2: alterare il recettore126 4.5 Strategia 3: alterare la cascata di trasduzione129 4.6 Bloccare la proliferazione: approcci terapeutici mirati 132 4.7 Proliferazione delle cellule tumorali: dove sta andando la ricerca? 136 4.8 Mettiti alla prova!139 4 Approfondimenti156 Un modello…a righe: il pesce zebra per studiare l’angiogenesi Questione di specificità: l’uso degli anticorpi Gli interruttori molecolari dei geni: i fattori di trascrizione La divisione cellulare: un solo fenomeno, molti modi per studiarla Le “ossa” e i “muscoli” delle cellule: citoscheletro e strutture di membrana Mettere “a fuoco” le cellule in movimento Quando una cellula invecchia! Il genoma in un centimetro: i microarray e le tecnologie di analisi genica globale Dal lievito i segreti del ciclo cellulare Lievito: un microscopico alleato per studiare i danni al DNA Malattie genetiche rare e cancro: due facce della stessa medaglia Le isoforme di RAS: così simili e così diverse Endocitosi e trasduzione: due processi intimamente connessi Come si sviluppa un farmaco Protocolli Sperimentali 5 157 158 159 160 161 162 163 164 165 166 167 169 170 172 174 Bibliografia 184 Glossario190 Disclaimer196 6 PREMESSA Il 4 febbraio scorso, per il quarto anno consecutivo, l’Empire State Building si è illuminato di blu e arancio, in occasione del World Cancer Day (http://www.worldcancerday.org). Il tema dell’edizione di quest’anno è stato sfatare quattro miti che ruotano attorno a questa malattia: “non c’è bisogno di parlare del cancro”, “il cancro non ha segni o sintomi”, “non c’è niente che non possa fare contro il cancro”, “non ho diritto ad accedere alle cure”. Ma che cosa sappiamo veramente di questa malattia e delle sue cause? Che cosa è stato scoperto? Che cosa possiamo realisticamente aspettarci nei prossimi anni? Tante sono le domande che ruotano attorno a questa malattia, tutte complesse, e spesso senza risposta. Da oltre dieci anni, IFOM dedica tutte le sue attività alla ricerca di base per rivelare alcune delle cause molecolari del cancro e allo stesso tempo, tramite il programma YouScientist, si propone di avvicinare la società, in particolare la scuola, alle frontiere della ricerca scientifica. Oggi, con la pubblicazione dell’e-book “L’identikit del cancro in dieci tratti” vogliamo parlare di cancro e dei più recenti sviluppi della ricerca, in primo luogo ai docenti che, come 7 gli scienziati, ogni giorno affrontano sfide allo stesso tempo difficili ed appassionanti, sulle quali poggia il futuro del nostro Paese. È una pubblicazione interattiva, multimediale che esplorerà in dodici capitoli alcune delle scoperte più rilevanti nella ricerca oncologica, prima tra tutte il concetto che tutte le cellule tumorali, indipendentemente dal tipo e dalla complessità, possiedono dieci elementi distintivi, dieci tratti ben precisi e costanti che le descrivono. Vi invito a navigare tra queste pagine, a esplorare le gallerie fotografiche, le illustrazioni, i video filmati per approfondire e cogliere la complessità del cancro: perché insieme possiamo contribuire a sfatare falsi miti o errati luoghi comuni che, ancora oggi, ruotano attorno a questa malattia e a promuovere la cultura scientifica nella nostra società. Prof. Marco Foiani Direttore Scientifico di IFOM 8 1 IL CANCRO CENTO MALATTIE IN UNA “Although we have a much greater understanding of cancer biology and genetics, translation into clinical practice needs to allow for the cellular complexity of the disease and its dynamic, evolutionary characteristics”. Mel Greaves and Carlo C. Maley, Nature 2012 9 1.1 Cancro: una sola parola per tante malattie La parola “cancro” identifica un insieme di oltre 200 malattie (http://www.registri-tumori.it/cms/), che colpiscono organi e tessuti diversi nell’organismo. Sono tutte caratterizzate dalla crescita incontrollata di cellule “anomale”, capaci di evitare i normali meccanismi di controllo dell’organismo e di prendere il sopravvento sulle altre. Queste cellule, fuori controllo, generano masse che compromettono il funzionamento del tessuto o dell’organo in cui si trovano, invadono i tessuti circostanti e, entrando nel flusso sanguigno e linfatico, si diffondono nell’intero organismo. L’importanza, anche sociale, di questa malattia è aumentata negli ultimi decenni: il cancro, infatti, è una delle prime cause di morte sia nei paesi sviluppati che in quelli in via di sviluppo (Jemal et al., 2011). L’incidenza del cancro nei paesi industrializzati sta via via aumentando sia per effetto dell’invecchiamento progressivo della popolazione, sia a causa di stili di vita e abitudini che, come vedremo più avanti, possono favorire la comparsa della malattia. L’Associazione Italiana Registro Tumori per il 2013 ha stimato 365.000 nuove diagnosi di tumore in Italia, senza considerare i carcinomi della pelle, che sono 10 1.1 Cancro: una sola parola per tante malattie di solito conteggiati separatamente per la difficoltà di compiere una diagnosi certa e per le loro specifiche caratteristiche. Parliamo quindi di circa mille nuovi casi al giorno. Tabella 1.1 I tumori più diffusi in Italia nella popolazione Tabella 1.2 I tumori più diffusi in Italia divisi per genere Dal conteggio sono esclusi i carcinomi della pelle (fonte: I numeri del cancro in Italia, 2013). Dal conteggio sono esclusi i carcinomi della pelle (fonte: I numeri del cancro in Italia, 2013). 11 1.2 Il cancro è una malattia del DNA Il cancro è una malattia multifattoriale, causata dalla combinazione di molteplici fattori, sia interni sia esterni. I primi sono propri dell’organismo in cui il cancro si sviluppa, come per esempio mutazioni genetiche ereditate dai propri genitori, determinate caratteristiche ormonali, o ancora, specifiche reazioni del sistema immunitario che favoriscono una proliferazione anomala. I fattori esterni, invece, sono legati sia all’ambiente in cui viviamo (pensiamo ad esempio alle sostanze chimiche dannose, alle radiazioni ultraviolette o ancora ad alcuni tipi di virus), sia al nostro stile di vita (ad esempio il fumo di sigaretta, un’alimentazione scorretta, la sedentarietà). I fattori interni ed esterni provocano la comparsa di mutazioni del DNA e alterano l’informazione che la cellula usa per realizzare correttamente il programma per cui è stata generata. Di solito, le nostre cellule sono capaci di riconoscere in modo efficiente i danni al DNA e di ripararli. Tuttavia, in alcuni casi - per esempio con il procedere dell’età oppure quando si sono ereditate mutazioni nei sistemi di controllo e di riparazione(paragrafo 3.4) – le strutture di sorveglianza 12 1.2 Cancro: una sola parola per tante malattie non funzionano correttamente e le cellule accumulano danni al DNA. L’informazione genetica viene alterata e, se la mutazione ha colpito geni chiave per la vita della cellula, come quelli che regolano la crescita o la morte cellulare, essa acquista un “vantaggio” rispetto alle altre cellule che popolano il tessuto. Per esempio, la cellula mutata può essere in grado di crescere più velocemente delle altre oppure può continuare a vivere, quando invece sarebbe stata destinata all’autodistruzione. 13 1.3 La progressione tumorale: un processo graduale nel tempo I più recenti risultati sperimentali mostrano che un tumore può impiegare anche decenni per svilupparsi e raggiungere gli stadi più aggressivi (Vogelstein et al., 2013). La progressione tumorale, dunque, è un processo graduale, causato dall’accumulo di mutazioni successive, che di volta in volta permettono alle cellule pre-neoplastiche di conquistare caratteristiche nuove, di adattarsi al microambiente, e avanzare lungo la strada che porta alla formazione del tumore (paragrafo 2.1). Le prime descrizioni di questo processo nei suoi dettagli molecolari risalgono al 1990 e riguardano il tumore al colon-retto (Fearon and Vogelstein, 1990). Figura 1.1 La progressione tumorale Il tumore si sviluppa a seguito di successive mutazioni che inducono le cellule a perdere l’inibizione da contatto (2), ad acquisire la capacità di degradare la membrana basale (3) e a stimolare il sistema vascolare per creare nuovi capillari (4) che riforniscono il tumore di ossigeno e nutrienti. 14 1.3 La progressione tumorale: un processo graduale nel tempo Gli scienziati scoprirono che le mutazioni avvengono in geni ben precisi e con un ordine ben definito. Questa scoperta rappresenta una pietra miliare nella ricerca oncologica: per la prima volta si dimostra come la progressione tumorale dipende dall’accumulo di alterazioni molecolari e genetiche cui corrispondono precise modificazioni morfologiche del tumore, via via sempre più aggressive. 15 1.4 Un panorama genetico complesso La possibilità di sequenziare l’intero genoma dei tumori con l’obiettivo di identificare l’insieme dei geni mutati e il tipo di mutazioni - obiettivo che solo una decina di anni fa sembrava fantascientifico - oggi è una realtà praticata in moltissimi laboratori di ricerca in tutto il mondo. Questo è stato possibile grazie all’avanzamento tecnologico e allo sviluppo di sistemi informatici capaci di analizzare l’enorme mole di dati ottenuta. Per fare un paragone, il numero di lettere del genoma di una persona riempirebbe una pila di libri alta come l’Empire State Building. Questo ramo della ricerca oncologica ha permesso di scoprire la complessità del cancro dal punto di vista molecolare e del genoma. La maggior parte delle mutazioni nei tumori (circa il 95%) sono sostituzioni di singole basi nel DNA, mentre le rimanenti sono delezioni o inserzioni o amplificazioni. Alcuni tipi di tumore, come il melanoma (tumore della pelle) o il tumore al polmone, presentano un numero di mutazioni molto elevato (in oltre 200 geni - Vogelstein et al., 2013). 16 1.4 Un panorama genetico complesso Ciò dipende dal fatto che questi tumori sono causati per lo più da fattori ambientali, rispettivamente i raggi ultravioletti e il fumo di sigaretta, particolarmente aggressivi e capaci di danneggiare pesantemente il DNA. 17 1.4 Un panorama genetico complesso Figura 1.2 Elettroferogramma del gene BRCA2 In alto compare la sequenza di riferimento normale, in basso quella del DNA di una paziente con familiarità per carcinoma della mammella e dell’ovaio. La freccia evidenzia una mutazione riscontrata nell’esone 22 del gene BRCA2. Autore: Cancer Genetic Test Laboratory di Cogentech presso IFOM-IEO Campus 18 1.5 Tre processi chiave nella progressione tumorale Tra tutti i geni che possediamo, quelli che, se mutati, conferiscono alle cellule un vantaggio in termini proliferativi sono solo una minima parte. In questo momento gli scienziati stimano circa 138 geni (Vogelstein et al., 2013). Si tratta di geni coinvolti in diversi meccanismi molecolari, che controllano sostanzialmente tre processi cellulari fondamentali: 1. Il destino cellulare. Molte delle mutazioni identificate nei tumori modificano il delicato equilibrio tra divisione cellulare e differenziamento, a favore della prima. Le cellule tumorali continuano a dividersi, anziché arrestarsi e specializzarsi in una particolare funzione, come fanno normalmente le cellule sane del nostro organismo; 2. La sopravvivenza della cellula. Le cellule tumorali sono in grado di crescere anche in condizioni in cui le cellule normali andrebbero incontro a morte, come per esempio in mancanza di ossigeno o quando i nutrienti scarseggiano oppure in assenza di fattori di crescita (capitolo 2); 19 1.5 Tre processi chiave nella progressione tumoral 3. L’integrità del genoma. Le cellule tumorali tollerano meglio i danni al DNA, provocati sia da agenti esterni (come i radicali liberi, i raggi ultravioletti o i farmaci chemioterapici) sia da fattori interni (come quelli che si generano durante la replicazione del DNA). Infatti, spesso le cellule tumorali possiedono mutazioni nei sistemi che rintracciano e riparano i danni al DNA. Ciò permette loro di sfuggire ai meccanismi di auto-distruzione che dovrebbero innescarsi quando i danni al genoma diventano eccessivi (capitolo 3), come accade invece nelle cellule normali. 20 1.6 I tumori: tessuti eterogenei e complessi L’osservazione che i tumori sono un tessuto complesso formato da tanti tipi cellulari era già nota alla fine del 1800, quando i patologi, osservando al microscopio i primi campioni di tessuto tumorale, notarono la presenza di cellule anche molto diverse tra di loro. Bisogna, però, attendere gli studi di biologia cellulare degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso per associare la diversità morfologica a quella funzionale, dimostrando che cellule tumorali prelevate da porzioni differenti dello stesso tessuto possedevano capacità diversa di dare origine a tumori quando trasferite in modelli sperimentali. L’eterogeneità morfologica descritta alla fine del 1800 e quella funzionale descritta quasi cento anni più tardi sono due facce della stessa medaglia: quella della variabilità genetica. Negli ultimi anni, l’avanzamento tecnologico e lo sviluppo di software di analisi sempre più efficienti hanno reso più semplice e accessibile (anche in termini di costi) il sequenziamento dell’intero genoma tumorale (come nel caso del tumore alla mammella e al colon-retto). 21 1.6 I tumori: tessuti eterogenei e complessi I risultati di quest’analisi hanno confermato che esiste una rilevante variabilità genetica sia tra lo stesso tumore in persone diverse, sia tra aree differenti dello stesso tumore, o ancora tra tumore primario e metastasi nello stesso paziente. Da qui nasce il concetto di eterogeneità genetica che può essere definita come: 1. Eterogeneità intra-tumorale: cellule dello stesso tumore possiedono mutazioni diverse. Ogni volta che una cellula tumorale si divide, acquista nuove alterazioni, che la rendono diversa da quella che l’ha generata. Il numero di mutazioni che esistono tra due cellule neoplastiche dello stesso tumore è direttamente proporzionale al tempo che è trascorso da quando queste due cellule si sono originate dalla progenitrice comune, in un processo simile a quello della deriva genetica. All’interno di uno stesso tumore, una cellula neoplastica sarà più simile a una cellula vicina e più diversa a una cellula lontana, come è stato descritto per i tumori al pancreas (Yachida et al., 2010). Figura 1.3 Il tessuto tumorale All’interno del tumore convivono cellule tumorali, staminali del cancro (CSC), cellule del sistema immunitario, del sistema vascolare e fibroblasti. La loro interazione crea un particolare microambiente che contribuisce allo sviluppo del tumore. Autore: Cancer Genetic Test Laboratory di Cogentech presso IFOM-IEO Campus 22 1.6 I tumori: tessuti eterogenei e complessi È evidente allora come i tumori siano variegati dal punto di vista del patrimonio genetico e come sia importante conoscere questa complessità per elaborare una strategia di cura ottimale. 2. Eterogeneità inter-tumorale: la diversità tra lo stesso tipo di tumore in pazienti diversi. È ormai assodato, anche nella pratica clinica, come due pazienti con lo stesso tipo di cancro possono avere un decorso clinico anche molto differente. Ognuno di noi, infatti, ha particolarità specifiche, che riflettono il proprio patrimonio genetico. Il DNA di ognuno di noi presenta minime (ma cruciali) differenze, che determinano ad esempio caratteristiche come il colore dei capelli o degli occhi, l’altezza o ancora la capacità di assorbire e metabolizzare un certo tipo di farmaco. L’eterogeneità che si osserva tra due pazienti è la principale difficoltà nella creazione di terapie standard e uniformate. Questa osservazione è anche alla base dello sviluppo della medicina personalizzata di cui parleremo in seguito (paragrafo 1.11). Un simile livello di eterogeneità si osserva anche nelle metastasi. All’interno della stessa metastasi, in un paziente, le cellule tumorali hanno un patrimonio genetico diverso (eterogeneità intra-metastatica), così come metastasi tumorali dello stesso paziente hanno genomi differenti (eterogeneità inter-metastatica). 23 1.7 Un’altra dimensione di eterogeneità: le cellule staminali del cancro Le scoperte scientifiche dell’ultimo decennio ci hanno fatto comprendere che i tumori sono tessuti complessi, caratterizzati da un alto grado di diversità (paragrafo 1.6). La variabilità genetica rispecchia quella funzionale: al loro interno esistono, infatti, aree con livelli differenti di crescita, di vascolarizzazione e di aggressività, intesa come capacità di penetrare nei tessuti circostanti. La complessità intra-tumorale può essere in parte spiegata dalla recente scoperta che nei tessuti tumorali, come in quelli normali, sono presenti cellule staminali tumorali (CSC). Queste cellule, identificate per la prima volta a cavallo del nuovo millennio nei tumori del sangue, sono state isolate in seguito anche in molti altri tumori solidi, come quello della mammella o del pancreas (Cho and Clarke, 2008). Quali caratteristiche hanno? E che ruolo svolgono? Si chiamano così perché il loro profilo molecolare è molto simile a quello delle cellule staminali “sane”: molti dei geni che sono “accesi” o “spenti” nelle staminali normali, lo sono anche in quelle tumorali, spesso però in maniera anomala. 24 1.7 Un’altra dimensione di eterogeneità: le cellule staminali del cancro Come le cellule staminali normali, anche quelle tumorali hanno un ritmo proliferativo basso e sono in grado di auto-rigenerarsi. Quando si dividono, lo fanno in modo asimmetrico, dando origine a due cellule figlie con destini molto diversi: una che si mantiene in uno stato di quiescenza proliferativa, l’altra che va incontro a un vero e proprio processo di espansione tramite successive divisioni. Le cellule prodotte in questo modo poi si differenziano, contribuendo così a creare quella complessità che abbiamo descritto prima (paragrafo 1.6). Le cellule staminali del cancro, invece, contribuiscono a sostenere la crescita del tumore tramite due processi: 1. L’auto-rigenerazione, che permette di creare altre cellule staminali tumorali e di mantenere nel tessuto una riserva di CSC; 2. Il differenziamento, che consente loro di trasformarsi in cellule con precise caratteristiche capaci di svolgere specifiche funzioni, creando così quell’eterogeneità del tessuto tumorale descritto in precedenza. Figura 1.4 Divisione delle cellule staminali Quando si duplica, la cellula staminale genera due cellule figlie: una mantiene le caratteristiche di staminalità (1), l’altra (2) va incontro a differenziamento. 25 1.7 Un’altra dimensione di eterogeneità: le cellule staminali del cancro Come si formano le cellule staminali tumorali? Le origini non sono ancora del tutto note e potrebbero anche variare secondo il tipo di tumore. Per esempio in alcuni tumori, mutazioni a carico delle cellule staminali normali, potrebbero alterarne le funzioni e trasformarle in CSC. In altri, invece, cellule non ancora completamente differenziate potrebbero accumulare mutazioni oncogeniche, che le porterebbero ad assumere caratteristiche di staminalità. Rimane ancora da capire se all’interno dello stesso tumore possano esistere sotto-gruppi diversi di cellule staminali tumorali, che si evolvono e si modificano man mano che il tumore procede lungo il processo di trasformazione tumorale, contribuendo ad alimentare l’eterogeneità intra-tumorale. La scoperta delle cellule staminali tumorali ha importanti conseguenze anche dal punto di vista terapeutico. In primo luogo, le CSC, proprio per la loro scarsa capacità di proliferare, sono molto più resistenti ai farmaci utilizzati durante la chemioterapia (Singh and Settleman, 2010), che tipicamente colpiscono cellule in attiva fase di divisione. Non solo, la presenza di cellule staminali del cancro potrebbe spiegare Figura 1.5 Origine delle cellule staminali del cancro (CSC) Le CSC potrebbero derivare dall’accumulo di mutazioni in cellule parzialmente differenziate (1) oppure da alterazioni in cellule staminali normali (2). Le CSC si duplicano creando altre CSC (3) e progenitori (4) che differenziandosi contribuiscono alla complessità del tessuto tumorale. 26 1.7 Un’altra dimensione di eterogeneità: le cellule staminali del cancro anche la cosiddetta “dormienza”, un fenomeno in base al quale un tumore o una cellula tumorale si può mantenere in uno stato silente, di quiescenza, per manifestarsi dopo, anche a distanza di decenni dalla rimozione chirurgica del tumore primario. Ne consegue che ogni trattamento antitumorale per essere efficace dovrebbe avere come bersaglio proprio la CSC o la capacità di una cellula tumorale di riacquisire caratteri di staminalità. Questa sfida è resa particolarmente difficile perché il numero di cellule staminali in una massa tumorale è limitato e difficile da studiare, anche perché mancano marcatori molecolari in grado di identificare in modo univoco l’insieme delle cellule staminali tumorali. 27 1.8 Il cancro: un’evoluzione darwiniana di cellule nell’organismo Il primo scienziato a considerare la progressione tumorale come un processo governato dalle stesse leggi dell’evoluzione darwiniana fu Peter Nowell nel lontano 1976 (Nowell, 1976). Nell’articolo pubblicato sulla rivista scientifica Science, Nowell propone che la progressione tumorale è un processo guidato dall’acquisizione successiva di mutazioni genetiche, selezionate proprio per la loro capacità di dare un vantaggio proliferativo nel microambiente tumorale, in un meccanismo simile all’evoluzione delle specie. La teoria dell’evoluzione di Darwin si basa sostanzialmente su due principi: 1. La variabilità genetica, creata per lo più dalle mutazioni al DNA. Le mutazioni generano nuove varianti nei geni, che possono dare un vantaggio (o uno svantaggio o essere neutre) all’organismo che le possiede; 2. La selezione naturale, cioè quel processo che permette agli organismi con le migliori caratteristiche (la cosiddetta “fitness”) di sopravvivere in un particolare ambiente. Questo concetto, pionieristicamente proposto da Nowell, è stato avvalorato da numerosi studi nell’ultimo 28 1.8 Il cancro: un’evoluzione darwiniana di cellule nell’organismo decennio. I meccanismi dell’evoluzione darwiniana sono gli stessi che governano la progressione tumorale: le cellule pre-tumorali accumulano alterazioni nel proprio genoma, che fanno nascere tante sottopopolazioni di cellule con un patrimonio genetico leggermente diverso tra di loro e dalle cellule normali da cui si sono originate. Se le mutazioni avvengono in geni che regolano processi cruciali come il destino cellulare, la sopravvivenza della cellula o l’integrità del genoma (paragrafo 1.5), allora nascono nuove varianti che mostrano un vantaggio rispetto alle cellule normali. Ad esempio, i nuovi cloni possono dividersi più velocemente rispetto alle cellule normali oppure essere in grado di vivere anche in condizioni critiche, come la scarsità di ossigeno. Le sotto-popolazioni di cloni pre-tumorali continuano a mutare e a essere selezionate dal microambiente, in un processo adattativo, dove va avanti il clone (o i cloni) di cellule che si adeguano meglio alle condizioni ambientali. Il lungo periodo che di solito intercorre tra la nascita dei primi cloni di cellule tumorali e la manifestazione evidente della malattia, riflette proprio il tempo necessario perché le cellule tumorali trovino, seguendo un processo totalmente casuale, le combinazioni che si Figura 1.6 L’evoluzione darwiniana del cancro A differenza delle cellule normali (A), le cellule tumorali (B) sono caratterizzate da instabilità genomica, che le rende più eterogenee. Mutando rapidamente il loro genoma riescono ad adattarsi più facilmente al microambiente e a sopravvivere alle diverse barriere selettive. 29 1.8 Il cancro: un’evoluzione darwiniana di cellule nell’organismo adattano meglio al microambiente del tessuto nel quale si trovano. L’interazione tra le cellule tumorali e l’ambiente è reciproca. Le cellule neoplastiche interagiscono con esso e lo modificano attivamente, ad esempio: rimodellandolo e creando delle nicchie specializzate in cui le condizioni sono ideali per sostenere la propria crescita; o ancora, reclutando e corrompendo le cellule “sane” circostanti, perché le aiutino ad attuare i propri programmi (Hanahan and Coussens, 2012). Il microambiente tumorale non è un sistema chiuso e statico, ma piuttosto un ecosistema in continua evoluzione, influenzato da fattori locali, come la concentrazione di certi ormoni o la presenza di nutrienti, e da fattori esterni, legati per esempio all’ambiente e allo stile di vita dell’individuo. L’esposizione ad agenti che alterano il DNA, come il fumo di sigaretta o la luce ultravioletta, la presenza di infezioni virali, gli effetti a lungo termine dello stile alimentare o dei livelli di attività fisica, sono tutti elementi che influenzano parametri fisiologici: dalla concentrazione di alcuni ormoni, alla quantità di glucosio che circola nel sangue, alla presenza o meno di un’infiammazione. Tutto ciò concorre a rimodellare continuamente il microambiente tumorale. Si tratta dunque di un processo progressivo e dinamico, dove le cellule tumorali influenzano il microambiente e dove quest’ultimo opera una selezione dei cloni più adatti alla sopravvivenza (Greaves and Maley, 2012). Le stesse terapie cui si sottopongono i pazienti affetti da tumore, come la chemioterapia o la radioterapia, alterano in maniera drammatica l’ecosistema tumorale. I farmaci e le radiazioni ionizzanti, di fatto, eliminano le cellule tumorali, perché bloccano la loro capacità di dividersi e proliferare. La morte massiccia dei cloni tumorali, che fino a quel momento erano cresciuti perché possedevano le caratteristiche genetiche adeguate per quel microambiente, modifica a sua volta il sistema. Ed è la stessa terapia a creare una nuova pressione selettiva, cioè un nuovo microambiente. La conseguenza è che altre sotto-popolazioni tumorali, fino ad allora rimaste quiescenti perché prive di un profilo genetico adeguato per quell’ambiente o mantenutesi in uno stato di quiescenza, come nel caso di cellule staminali, ora, cambiate le condizioni, possono emergere e ripopolare il tumore. 30 1.8 Il cancro: un’evoluzione darwiniana di cellule nell’organismo Il fenomeno è stato descritto dal punto di vista molecolare per alcuni tumori, tra cui alcuni tipi di cancro del colon-retto (Diaz et al., 2012) e del polmone (Postel-Vinay and Ashworth, 2012). Questa scoperta recentissima spiegherebbe il perché in alcuni casi la malattia può ripresentarsi a distanza di tempo dal trattamento farmacologico, che in un primo momento si era dimostrato efficace. Conoscere il profilo genetico dei tumori è dunque importantissimo, perché consente di adeguare di volta in volta la terapia farmacologica alle caratteristiche specifiche del microambiente tumorale, identificando e colpendo più meccanismi contemporaneamente, così da impedire ai cloni quiescenti di emergere. 31 1.9 Verso terapie sempre più personalizzate La possibilità di sequenziare in tempi brevi l’intero genoma di un particolare tipo di tumore nelle varie fasi della sua evoluzione, insieme all’avanzamento delle discipline che ci permettono di analizzare queste informazioni, come la bioinformatica e la biologia computazionale, ha permesso agli scienziati di scoprire molte informazioni rilevanti. Conosciamo, ad esempio, i geni più frequentemente alterati, le mutazioni più ricorrenti all’interno di un gene, gli effetti, di alcune di queste modificazioni sui meccanismi molecolari che regolano la cellula. La strada verso la completa conoscenza molecolare dei tumori è ancora lunga, ma già ora possiamo prevedere dove ci porterà e quali saranno i suoi effetti sia nella diagnosi sia nella cura dei pazienti. La fotografia molecolare di un tumore ci permette, infatti, di apprendere quali meccanismi sono alterati e di disegnare delle terapie specifiche capaci di colpire solo le cellule che possiedono queste alterazioni (i bersagli molecolari), diminuendo anche eventuali effetti collaterali sulle cellule sane. È questa la rivoluzione cui stiamo assistendo: da una medicina one size fits all (un’unica cura per tutti) a una visione personalizzata e specifica in cui la terapia è 32 1.9 Verso terapie sempre più personalizzate tracciata sul profilo molecolare del singolo tumore nel singolo paziente. La medicina personalizzata sviluppa trattamenti terapeutici basati sulle caratteristiche di ogni paziente, che riceve la combinazione giusta di farmaci (in base al proprio profilo genetico e a quello della sua malattia), nella dose appropriata e al momento adeguato. Gli obiettivi? Massimizzare le potenzialità di cura, minimizzare la tossicità dei trattamenti e soprattutto individuare i pazienti che saranno in grado di beneficiare della terapia. L’osservazione che pazienti diversi rispondono in modo diverso allo stesso farmaco, anche quando esso è somministrato nello stesso dosaggio, per curare la medesima patologia, è un fenomeno già noto da tempo. È qualcosa che ognuno di noi ha sperimentato in prima persona: quante volte un certo principio attivo utile a eliminare il mal di testa in una persona, su di noi non ha alcun effetto? Per svolgere la propria funzione, infatti, un farmaco deve essere assorbito, distribuito nel sito di azione, deve interagire con il suo specifico bersaglio, essere metabolizzato dall’organismo e infine eliminato. La quantità di farmaco attiva in un individuo dipende, quindi, da processi come il suo assorbimento, la sua distribuzione, il suo metabolismo e la sua escrezione. Tutti questi fenomeni sono specifici per ogni persona proprio come lo è il suo patrimonio genetico. Se confrontassimo il DNA di due esseri umani, scopriremmo che è simile per il 99.7%: il restante 0.3% è differente da persona a persona e spiega la nostra unicità. Nei pazienti affetti da tumore, la situazione è ulteriormente complicata dal fatto che anche il tumore ha un proprio specifico patrimonio genetico che, come abbiamo visto nei paragrafi precendenti (paragrafo 1.8), è diverso da quello dell’individuo in cui insorge e soprattutto soggetto a rapide e continue modificazioni. Diventa quindi importante analizzare il genoma del paziente e quello del tumore per riconoscere la presenza di “segnali” che ci comunicano queste caratteristiche. Per farlo, la medicina personalizzata si avvale dell’uso di marcatori molecolari (o biomarkers), che possono essere di tre tipi: 33 1.9 Verso terapie sempre più personalizzate 1. Predittivi: consentono di predire se un paziente risponderà o no a una certa terapia. I marcatori predittivi aiutano gli oncologi a scegliere il farmaco (o sue combinazioni) più adeguato. Ad esempio, si è visto che pazienti con tumore al seno, caratterizzato dal punto di vista molecolare dalla presenza di più copie del gene ERBB2, beneficiano del trattamento con anticorpi (Herceptin) che attaccano la proteina codificata dal gene ERBB2 e ne bloccano l’azione. Lo stesso trattamento non è efficace in persone con tumore privo della mutazione. Oppure, pazienti affetti da melanoma (tumore della pelle), con mutazioni che attivano il gene BRAF possono essere trattati con farmaci che bloccano l’attività della proteina corrispondente. ERBB2 e BRAF sono solo alcuni esempi delle decine di geni e proteine che possono diventare il bersaglio d’azione di farmaci mirati, i farmaci molecolari. Tabella 1.3 Alcuni esempi di biomarcatori predittivi utilizzati nella pratica clinica 34 1.9 Verso terapie sempre più personalizzate 2. Prognostici: permettono di predire l’andamento naturale della malattia e stimare se quel particolare tipo di tumore avrà un decorso favorevole. Per esempio, analizzando il profilo molecolare di tumori alla mammella, gli scienziati hanno scoperto che è possibile stimare come si evolverà la malattia, analizzando il grado di accensione di un gruppo limitato di geni. Esistono specifici test, come il Mammaprint, che analizza 70 geni, o OncotypeDx, che ne valuta solo 22 , per predire con accuratezza se la malattia in quella paziente avrà un andamento positivo oppure no. Questa informazione è importantissima per la scelta della terapia, che deve essere allo stesso tempo la più efficace possibile e con minori effetti collaterali. Le pazienti a prognosi negativa, dopo la rimozione chirurgica del tumore, sono indirizzate verso la chemio e la radioterapia. Le altre, invece, sono curate solo chirurgicamente, poiché hanno un tumore poco aggressivo, che non richiede altre terapie. In questo modo, chemio e radioterapia sono somministrate solo alle pazienti che ne hanno realmente bisogno, mentre a tutte le altre si evitano inutili radiazioni o trattamenti farmacologi che comportano, pur sempre, effetti collaterali non trascurabili. Tabella 1.4 Alcuni esempi di biomarcatori prognostici utilizzati nella pratica clinica 35 1.9 Verso terapie sempre più personalizzate 3. Di controllo: permettono di seguire l’andamento della terapia e di tenere sotto controllo l’eventuale ricomparsa del tumore, prima che sia visibile tramite immagini radiologiche o clinicamente. È il caso dell’analisi dei livelli della proteina BCR-ABL1 nei bambini con leucemia mieloide cronica. Gli scienziati hanno osservato che è possibile prevedere l’eventuale ricorrenza della malattia, analizzando dal punto di vista molecolare la presenza di specifici riarrangiamenti cromosomici nei campioni tumorali (Van Dogen et al., 1998). Permette, innanzitutto di offrire la migliore cura possibile a ciascuno, oltre che di ottimizzare la spesa sanitaria, riducendo i costi di terapie inutili. Riuscire a contenere i costi e a impiegarli in modo sempre più efficiente è una delle sfide della medicina del futuro, vista anche la sempre maggiore diffusione dei tumori. I marcatori molecolari, dunque, si usano in diversi momenti: dalla fase iniziale della diagnosi (servono, infatti, anche per confermare la presenza del tumore quando i sintomi non sono ancora evidenti), alla scelta della migliore terapia, al monitoraggio dell’efficacia del trattamento. La possibilità di stratificare, cioè suddividere, i pazienti in funzione del rischio di sviluppare un certo tipo di tumore o della loro risposta a una terapia o della probabilità di sviluppare una recidiva, ha delle implicazioni sociali ed economiche rilevanti. 36 1.10 Il concetto di rischio e la responsabilità individuale L’incidenza del cancro è in continuo aumento: ogni giorno in Italia sono diagnosticati circa 1.000 nuovi casi di tumore (I Numeri del cancro in Italia, 2013). Questo sia perché la vita media si sta progressivamente allungando (e il cancro è una malattia legata all’età), sia perché abbiamo modificato il nostro stile di vita, adottando comportamenti che possono favorire l’insorgere della malattia. A tutto questo si aggiunge, inoltre, una maggiore capacità rispetto al passato di riconoscere i tumori, che ci porta oggi a compiere molte più diagnosi di qualche anno fa. Il fatto che i tumori siano causati sia da fattori genetici sia da fattori ambientali è noto da tempo (paragrafo 1.2), come pure che determinati comportamenti siano correlati a una maggiore possibilità di ammalarsi. Ad esempio: l’incremento dei tumori al polmone nella popolazione femminile, che si sta registrando negli ultimi anni è legato all’aumento del numero di fumatrici. All’inizio degli anni Ottanta fu redatto il primo elenco, scientificamente dimostrato, dei principali fattori di rischio legati allo stile di vita e all’ambiente. 37 1.10 Il concetto di rischio e la responsabilità individuale Il lavoro, pubblicato da due epidemiologi (Doll and Peto, 1981), individua una dozzina di fattori e prova a dare per alcuni una stima numerica di quanti tumori possano essere causati (o evitati) da quell’elemento specifico. Oggi, dopo trent’anni di studi epidemiologici e statistici, sappiamo che il nostro comportamento e le nostre abitudini possono ridurre o aumentare il rischio di ammalarsi di tumore. Per esempio smettere di fumare riduce il rischio di contrarre il tumore al polmone (Kenfield et al., 2008), oppure l’assunzione di aspirina per lunghi intervalli di tempo aiuta a prevenire il tumore al colon (Rothwell et al., 2010). Il rischio di ammalarsi di cancro varia anche in funzione delle condizioni socio-economiche. Questo emerge sia da studi condotti su gruppi di persone che hanno cambiato il proprio stile di vita, migrando in aree geografiche diverse, sia esaminando come si evolve il rischio di cancro nei paesi in via di sviluppo. Ad esempio, l’incidenza del cancro alla mammella è sensibilmente aumentata in Paesi, come la Corea, che hanno conosciuto una rapida industrializzazione negli ultimi anni. Tutto questo ci fa capire come l’incidenza di un determinato tipo di tumore dipenda, oltre che dal patrimonio genetico di una persona, da variabili ambientali, sociali, economiche, e legate ai comportamenti individuali. 38 1.10 Il concetto di rischio e la responsabilità individuale Tabella 1.5 Quota di tumori attribuibili ai vari fattori di rischio Tratta dallo studio del National Cancer Institute: PQD® Cancer Prevention Overview (disponibile integralmente al sito http://cancer.gov/cancertopics/pdq/ prevention/overview/HealthProfessional). 39 1.11 Prevenzione: un’arma efficace contro il cancro Negli ultimi anni si è passati da un approccio unicamente legato alla diagnosi e cura della malattia a una visione proattiva, in cui la prevenzione gioca un ruolo importante. È possibile fare prevenzione a diversi livelli: curando lo stile di vita (prevenzione primaria), sottoponendosi a regolari controlli medici specifici in base al proprio rischio (prevenzione secondaria) e, anche quando è insorta la malattia, possiamo controllarne l’evoluzione tramite la cosiddetta prevenzione terziaria. Prevenzione primaria Lo scopo della prevenzione primaria è quello di ridurre l’insorgenza dei tumori, adottando una serie di comportamenti che - è scientificamente dimostrato - ci permettono di ridurre il rischio di contrarre la malattia. Esempi di prevenzione primaria sono: smettere di fumare, evitare di esporsi al sole nelle ore centrali della giornata quando i raggi ultravioletti possono danneggiare il DNA delle cellule e proteggere la propria pelle con filtri solari adeguati, fare regolare attività fisica, o ancora curare l’alimentazione. Un altro esempio, forse meno noto, di prevenzione primaria è quello di vaccinarsi contro alcuni tipi di virus 40 1.11 Prevenzione: un’arma efficace contro il cancro (come il virus dell’epatite B o il papilloma virus) che aumentano il rischio di sviluppare tumori (rispettivamente del fegato e della cervice uterina). Numerose associazioni, come l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (http://www.airc.it) e la Lega Italiana per la lotta contro i tumori (http:// www.legatumori.it) si occupano da anni di informare in modo semplice e chiaro la popolazione circa i comportamenti corretti e quelli da evitare. della prevenzione secondaria si inseriscono, inoltre, alcuni programmi di screening, promossi dal Sistema Sanitario Nazionale, dove gruppi specifici di popolazione sono invitati a sottoporsi gratuitamente a determinati esami. È il caso della mammografia, utile per diagnosticare il tumore alla mammella, a cui le donne tra i 50 e i 69 anni possono sottoporsi gratuitamente ogni due anni. Oppure del Pap-test, che permette di individuare i tumori della cervice uterina, che può essere realizzato gratuitamente ogni tre anni dalle donne nella fascia d’età tra i 25 e i 65 anni. Le modalità di realizzazione delle campagne di screening e il grado di adesione variano da Regione a Regione e il tipo di screening (genere e fascia d’età delle persone invitate, tipologia di esame, frequenza dello stesso) dipende ovviamente dal tipo di tumore che si vuole andare a diagnosticare. Prevenzione secondaria Se la prevenzione primaria si pone come obiettivo quello di ridurre la probabilità di sviluppare la malattia, la prevenzione secondaria si prefigge, invece, quello di scoprire il tumore in fasi sempre più precoci. Sulla base delle evidenze scientifiche ottenute negli anni, abbiamo un quadro sempre più chiaro e delineato di quali esami, nelle varie fasce d’età, consentono di individuare precocemente un tumore. Diventa allora importantissimo eseguire questi test, per scoprire il tumore quando è ancora localizzato in un organo, non ha formato metastasi e dunque può essere rimosso chirurgicamente e/o trattato con farmaci in modo efficace. All’interno Prevenzione terziaria Anche quando il tumore è stato diagnosticato, è possibile fare prevenzione. Si parla in questo caso di prevenzione terziaria, che ha come obiettivi prevenire complicanze associate alla cura, diminuire il rischio di recidive e migliorare la qualità della vita del paziente. 41 1.11 Prevenzione: un’arma efficace contro il cancro Fare prevenzione terziaria significa, dunque, proporre l’approccio terapeutico migliore per quel paziente con quella specifica malattia, migliorare i programmi di sorveglianza in modo da diagnosticare eventuali ricadute con l’obiettivo di aumentare la sopravvivenza dei malati oncologici. 42 1.12 Comprendere la complessità Abbiamo dunque compreso come il cancro sia una malattia complessa ed eterogenea, dalla variabilità delle cellule che lo compongono al genoma delle cellule tumorali, dalle sue manifestazioni cliniche alle risposte dei singoli pazienti ai trattamenti terapeutici. Una complessità che richiede sempre più studi approfonditi a diversi livelli. La ricerca di base svolge un ruolo prioritario e insostituibile. Apponendo nuova conoscenza permette di comprendere sempre meglio i meccanismi molecolari alla base della formazione e della progressione neoplastica, di svelare tutti gli attori in gioco e di fornire quel substrato di conoscenze sviluppabili in seguito dalla ricerca farmacologica (farmaci e/o test diagnostici), dalla ricerca clinica (per l’applicazione di nuovi marcatori molecolari) e da quella epidemiologica (per l’individuazione di piani di monitoraggio della malattia). Proprio grazie alla ricerca di base, negli ultimi dieci anni, sono stati fatti enormi progressi nella comprensione del cancro. 43 1.12 Comprendere la complessità Uno fra tutti, quello su cui questa pubblicazione si focalizza, il cogliere che la variabilità e la complessità del cancro, possono essere ricondotte a dieci tratti che descrivono le caratteristiche, finora conosciute, di tutte le cellule tumorali. Si tratta dei cosiddetti hallmarks of cancer che vedremo in dettaglio nel prossimo capitolo. 44 2 L’IDENTIKIT DEL CANCRO IN DIECI TRATTI “We foresee cancer research developing into a logical science, where the complexities of the disease, described in the laboratory and clinic, will become understandable in terms of a small number of underlying principles” D. Hanahan e R. A. Weinberg, Cell 2011 45 PROLIFERARE ANCHE SENZA SEGNALI DI CRESCITA CRESCERE IN PRESENZA DI SEGNALI DI ARRESTO SFUGGIRE AL SISTEMA IMMUNITARIO RIPROGRAMMARE IL METABOLISMO PROLIFERARE IN MODO ILLIMITATO AGGIRARE LA MORTE CELLULARE INSTABILITÀ GENOMICA INFIAMMAZIONE LOCALE PROMUOVERE L'ANGIOGENESI Introduzione Negli ultimi quarant’anni la ricerca sul cancro ha fatto passi da gigante nella comprensione della genesi e della progressione tumorale. Per esempio, abbiamo capito che il cancro è una malattia eterogenea, esistendo più di 200 forme tumorali differenti nell’uomo (www. cancerresearchuk.org); inoltre, abbiamo appreso che è una malattia genetica che insorge a causa dell’accumulo di mutazioni nel DNA delle cellule e che il processo di trasformazione neoplastica è un fenomeno articolato in diversi passaggi successivi. Scienziati di tutto il mondo hanno evidenziato la complessità e soprattutto la variabilità del cancro dal punto di vista genetico, morfologico, istologico ma anche dal punto di vista del suo decorso prognostico. Come approfondito nel capitolo 1, questo come gli stessi trattamenti terapeutici possono avere efficacia diversa e variabile a seconda non solo del tipo di tumore, ma anche del genoma del paziente, che può rispondere più o meno efficacemente a un certo tipo di cura, aprendo la strada verso una medicina personalizzata. MIGRARE E INVADERE 46 Introduzione A fronte di tanta variabilità, siamo in grado di identificare dei tratti distintivi presenti in tutti i tumori? È possibile classificare la molteplicità dei dati che gli scienziati ogni giorno producono in un numero limitato di meccanismi comuni a tutte le cellule tumorali? Queste sono le domande che, alle soglie del XXI secolo, si sono posti due scienziati impegnati da anni nella ricerca sul cancro. Si tratta di Douglas Hanahan e di Robert Weinberg che nel 2000, per primi, hanno introdotto un concetto destinato a diventare uno dei paradigmi nella ricerca sul cancro: tutte le cellule tumorali possiedono un insieme di tratti distintivi che le caratterizzano, i cosidetti hallmarks of cancer (Hanahan and Weinberg, 2010 e Hanahan and Weinberg, 2011). Douglas Hanahan (Seattle, 1951) è direttore del Swiss Institute for Experimental Cancer Research (ISREC) di Losanna, dove studia le interazioni tra tumore e microambiente. Tra i suoi numerosi contributi alla scienza, si ricorda la messa a punto di protocolli di trasformazione di E.coli con DNA ricombinante. Robert A. Weinberg (Pittsburgh, 1942) dirige un gruppo di ricerca al Whitehead Institute for Biochemical Research, di cui è uno dei fondatori, presso il Massachussets Institute of Technology (MIT) di Cambridge. Weinberg identificò il primo oncogene (Ras) e il primo oncosoppressore (Rb). Ora studia i meccanismi di migrazione cellulare e metastasi. 47 Introduzione Un insieme definito e costante di capacità che le cellule tumorali in un modo o nell’altro devono acquisire perché siano in grado di dar origine a un tumore. I tratti distintivi sono le capacità di: proliferare in modo indipendente dai fattori di crescita; Le cellule tumorali raggiungono queste capacità in un tempo relativamente breve, se pensiamo che un tumore può svilupparsi nell’arco di una decina d’anni (http://www.cancerresearchuk.org/). In questo percorso sono agevolate da due processi, che “spianano” loro la strada. Si tratta dell’instabilità genomica (capitolo 3) e della possibilità di sfruttare l’infiammazione locale. Instabilità genomica e infiammazione locale sono di fatto gli strumenti attraverso i quali le cellule tumorali accumulano alterazioni e costituiscono altri due tratti distintivi. 1. essere insensibili ai fattori che bloccano la crescita cellulare; 2. aggirare i meccanismi di morte cellulare programmata (o apoptosi); 3. proliferare in maniera illimitata; 4. costruire un proprio sistema vascolare (o angiogenesi); 5. invadere i tessuti circostanti e colonizzare organi a distanza (o metastasi); 6. modificare il metabolismo energetico della cellula; 7. sfuggire alla risposta immunitaria. 48 2.1 Proliferare anche senza segnali di crescita Le cellule del nostro organismo si trovano in continuo equilibrio tra segnali proliferativi, che le stimolano a crescere, e segnali anti-proliferativi che le bloccano (paragrafo 2.2). Questo equilibrio è regolato con grande precisione e, se da una parte consente di rinnovare le cellule vecchie o danneggiate, dall’altra permette di evitare che la proliferazione prenda il sopravvento, alterando il tessuto stesso e la sua funzione. Ogni cellula riceve milioni di segnali sia dal suo interno sia dall’ambiente in cui si trova, ed è in grado di tradurli in una risposta precisa, come per esempio dividersi (paragrafo 2.4), muoversi (paragrafo 2.6) o persino auto-distruggersi (paragrafo 2.3). Sulla membrana cellulare sono presenti delle vere e proprie “antenne”, i recettori capaci di captare questi segnali e di ri-trasmetterli all’interno della cellula. I segnali possono essere fattori di crescita liberamente circolanti o piccole molecole che fanno parte della matrice extra-cellulare di un tessuto oppure molecole coinvolte nell’adesione cellula-cellula (box 2.4). Quando il recettore si lega al suo segnale specifico, il ligando, si attiva e dà il via a una serie di eventi precisi, la cosiddetta cascata del segnale, che coinvolgono in successione diverse molecole. Esse trasmettono il segnale fino al nucleo, dove è elaborata una risposta: in questo caso l’accensione del gruppo di geni che indicano alla cellula di dividersi. 49 2.1 Proliferare anche senza segnali di crescita Una delle caratteristiche che accomuna le cellule tumorali, la prima a essere stata identificata dagli scienziati, è la capacità di dividersi indipendentemente dalla presenza di segnali proliferativi. È proprio questa peculiarità, unitamente all’abilità di proliferare in modo illimitato (paragrafo 2.4), che permette alle cellule tumorali di creare delle masse macroscopiche in tempi brevi. Esse usano diverse strategie per diventare autosufficienti dai fattori di crescita, vale a dire per proliferare indipendentemente da ciò che l’ambiente esterno indica di fare, tra cui: 1. Produrre i propri segnali di crescita. Le cellule tumorali possono creare autonomamente i fattori di crescita di cui hanno bisogno per proliferare. È il caso, per esempio, dei glioblastomi (un tipo di tumore del cervello) che sono in grado di produrre il PDGF (fattore di crescita derivato dalle piastrine), necessario per il loro sostentamento (Jeggins et al., 1997); 2. Aumentare la quantità di recettori sulla membrana cellulare. Questo consente alle cellule tumorali di attivare risposte importanti anche con concentrazioni minime di fattore di Figura 2.1 L’attivazione di un recettore tirosin-chinasico Il ligando lega la parte extra-cellulare del recettore, causando la sua dimerizzazione e la sua fosforilazione, cioè l’aggiunta di gruppi fosfato (stelle) nella coda intra-cellulare. 50 2.1 Proliferare anche senza segnali di crescita crescita, come accade, per esempio, in alcuni tipi di carcinoma dello stomaco o della mammella (Yarden and Ulrich, 1988); che innescano la divisione cellulare; 6. Stimolare le cellule normali del microambiente che circonda il tumore nascente a produrre i fattori di crescita di cui ha bisogno per proliferare (Bhowmick et al., 2004). La ricerca sul cancro degli ultimi anni ha evidenziato che le cellule sane che circondano il tumore hanno un ruolo attivo nei meccanismi di formazione, crescita e disseminazione del cancro (capitolo 1). 3. Modificare la struttura del recettore, rendendolo attivo anche in assenza del fattore di crescita. In questo modo le cellule tumorali si comportano come se fossero costantemente esposte a segnali di proliferazione; 4. Alterare i componenti che trasmettono il segnale dal recettore al nucleo della cellula, facendo in modo che siano sempre attivi. Si tratta di una strategia analoga a quella descritta sopra, ma che in questo caso coinvolge le molecole che trasmettono il segnale dal recettore attivato al nucleo. Uno dei più importanti “trasmettitori” è la proteina RAS, alterata nel 40% dei melanomi umani (Davies and Samuels, 2010); Se molti degli attori coinvolti nelle diverse cascate mitogeniche che si sviluppano dai recettori di membrana sono stati scoperti, ancora molto rimane da comprendere circa i meccanismi di rilascio e di controllo dei fattori di crescita da parte delle cellule sane circostanti. Questa sfida è ancora aperta ed è complicata dalle difficoltà di studiare il microambiente tumorale senza perturbarlo e dalla presenza di numerosi fattori in grado di alterare la biodisponibilità di questi segnali. 5. Modificare il tipo di recettori presenti sulla membrana cellulare, favorendo la presenza di recettori capaci di trasmettere segnali di crescita. In questo modo, ampliando il repertorio di “antenne” in grado di captare segnali proliferativi, aumenta anche la varietà di segnali 51 2.1 Proliferare anche senza segnali di crescita La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Proliferazione indipendente dai segnali di crescita” sul canale video di IFOM 52 2.2 Crescere in presenza di segnali di arresto La crescita delle cellule nel nostro organismo è un processo regolato in maniera molto accurata e dipende dalla presenza di segnali proliferativi, che stimolano la crescita (paragrafo 2.1), e segnali anti-proliferativi che la bloccano. La capacità di dividersi indipendentemente dai fattori di crescita non è sufficiente a garantire la formazione di un tumore. Infatti, nel confrontare le caratteristiche comuni a tutte le cellule tumorali, gli scienziati hanno scoperto che esse devono possedere anche un’altra proprietà: l’abilità di aggirare i sistemi regolativi che, nel corso dell’evoluzione, le cellule hanno sviluppato per impedire un’eccessiva proliferazione e per garantire così il corretto funzionamento e l’organizzazione strutturale del tessuto cui appartengono. I segnali che contrastano la crescita cellulare sono costituiti sia da molecole solubili che insolubili. In entrambi i casi si tratta di fattori che, legandosi a specifici recettori sulla membrana della cellula “da bloccare”, innescano cascate di segnali paragonabili alle cascate che controllano i meccanismi proliferativi. Mentre i fattori insolubili sono molecole legate alla matrice extracellulare o alla superficie delle cellule vicine, quelli solubili sono liberi di spostarsi negli spazi cellula-cellula e dunque di esercitare il proprio effetto con un raggio d’azione più ampio. 53 2.2 Crescere in presenza di segnali d’arresto I segnali anti-proliferativi agiscono principalmente sul ciclo cellulare in due modi (box 2.1): che li integrano, li smistano e li indirizzano verso il nucleo. Qui viene elaborata una risposta “trascrizionale”, come l’accensione o lo spegnimento di gruppi di geni che controllano l’uscita dal ciclo cellulare o l’esecuzione di programmi di differenziamento, di senescenza o di apoptosi. 1. Facendo entrare la cellula in uno stadio particolare del ciclo cellulare, la cosiddetta fase G0, in cui essa è quiescente e non può dividersi. Si tratta di una condizione reversibile: se le circostanze nell’ambiente lo consentiranno, la cellula potrà nuovamente rientrare nel ciclo cellulare e completarlo, dividendosi. In altri casi, invece, avvierà i programmi di apoptosi (paragrafo 2.3) o di senescenza (paragrafo 2.4); Box 2.1 - Il Ciclo Cellulare 2. Portando la cellula alla condizione irreversibile di differenziamento terminale. In questo stadio le cellule non possono più dividersi e semplicemente continuano a vivere, svolgendo la funzione specifica per cui sono state programmate. Si tratta di una fase comune alla maggior parte delle cellule del nostro organismo che sono differenziate, come per esempio i neuroni, gli epatociti o le cellule muscolari. Il ciclo cellulare è il periodo compreso tra una divisione cellulare e la successiva ed è caratterizzato da una sequenza ben definita di fasi: fase G1: crescita e produzione delle strutture cellulari necessarie per vivere, tra cui gli organelli; fase S: duplicazione del DNA; fase G2: preparazione alla divisione cellulare; fase M: divisione cellulare, seguita poi dalla divisione del citoplasma (citodieresi), al termine della quale sono generate due cellule figlie. Da G1 le cellule possono entrare in G0 in cui sono vitali ma quiescenti, cioè non proliferano. È una fase reversibile: le cellule possono tornare in G1 e riprendere a proliferare. Il passaggio da una fase all’altra è controllato con precisione in specifici punti di controllo (i checkpoint). I circuiti molecolari che regolano la risposta antiproliferativa sono numerosi e molto articolati: si avvalgono di diversi recettori di membrana per captare i segnali, di complessi molecolari intracellulari 54 2.2 Crescere in presenza di segnali d’arresto Due attori cruciali di questi circuiti sono le proteine Rb (retinoblastoma) e p53. Mentre Rb integra i segnali anti-proliferativi provenienti principalmente dall’ambiente circostante, p53 capta i segnali di stress o di malfunzionamento all’interno della cellula e si attiva per esempio se i danni al DNA sono eccessivi oppure se i livelli di glucosio e di altri metaboliti sono insufficienti alla crescita. Mutazioni in queste due proteine chiave, o in quelle dei circuiti che dirigono, si ripercuotono sulla capacità della cellula di rispondere efficacemente a segnali di allarme. In una cellula normale, se le condizioni di crescita non sono ottimali, il circuito diretto da p53 si attiva, bloccando il ciclo cellulare oppure eseguendo programmi di senescenza o addirittura di apoptosi. Se p53 non funziona correttamente, i medesimi segnali di stress non saranno adeguatamente percepiti dalla cellula, che continuerà a dividersi e utilizzerà strategie diverse per aggirare gli ostacoli e per continuare a crescere, ad esempio modificando il proprio metabolismo energetico (paragrafo 2.7). È importante sottolineare che i circuiti molecolari che sopprimono la crescita cellulare sono spesso funzionalmente ridondanti (esistono circuiti paralleli ma distinti per l’esecuzione di una stessa funzione) ed integrati (alcuni elementi di un circuito interagiscono e sono in grado di influenzare l’attività di membri dell’altro). Il livello di conoscenza molecolare di questa rete di segnali è ancora incompleto, ma rappresenta una delle sfide ineludibili per comprendere i meccanismi alla base dello sviluppo di una cellula tumorale. Figura 2.2 I checkpoint del ciclo cellulare In ogni fase del ciclo cellulare esistono dei punti di controllo specifici (segnali rossi di STOP), in cui la cellula verifica che tutto stia procedendo correttamente. Nel disegno sono indicati i principali checkpoint. 55 2.2 Crescere in presenza di segnali d’arresto La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Insensibilità ai fattori che bloccano la crescita cellulare” sul canale video di IFOM 56 2.3 Aggirare la morte cellulare Le prime evidenze sperimentali che portarono gli scienziati a ritenere la morte cellulare programmata (o apoptosi) una delle barriere naturali che le cellule oppongono allo sviluppo dei tumori risalgono agli inizi degli anni ’70, quando si osservarono, per la prima volta, massicci fenomeni apoptotici in cellule in forte crescita (Kerr et al., 1972). Questo fenomeno fu interpretato come un’estrema difesa messa in campo dalle cellule che attivavano la morte cellulare per salvaguardarsi dalla possibilità di diventare tumorali. L’apoptosi permette, infatti, di eliminare da un certo tessuto le cellule vecchie, danneggiate o che non seguono correttamente il programma per cui sono state create. Si tratta di un fenomeno biologico molto importante che interviene nella regolazione dell’omeostasi dell’organismo e in processi come lo sviluppo embrionale o la difesa contro i patogeni (Adams and Cory, 2007). L’apoptosi può essere indotta da diversi stress fisiologici che la cellula rileva al suo interno (come estesi danni al DNA, bassi livelli di ossigeno, insufficienza dei segnali proliferativi o eccessiva attivazione di alcuni circuiti molecolari rispetto ad altri) oppure all’esterno (ad esempio la progressiva perdita di contatti cellula-cellula o cellula-matrice o ancora la variazione dell’equilibrio tra fattori pro-apoptotici e proliferativi nell’ambiente circostante a favore dei primi). 57 2.3 Aggirare la morte cellulare Ma in che cosa consiste dal punto di vista molecolare l’apoptosi e come si realizza? I segnali di stress sono captati da specifici “sensori” capaci di raccogliere sia i segnali esterni che interni e di convogliarli verso gli “effettori”, i quali eseguono il programma di morte cellulare in una serie di passaggi ben definiti. Le membrane esterne dei mitocondri sono distrutte, la proteina citocromo C viene rilasciata e attiva in serie diverse proteasi, le caspasi, che con la loro attività proteolitica degradano le strutture cellulari. I cromosomi e il nucleo vengono frammentati e la cellula collassa in una serie di vescicole, tutto questo in un lasso di tempo relativamente breve che va dai trenta ai centoventi minuti, seguendo un copione preciso e costante. In seguito i detriti cellulari sono fagocitati dalle cellule circostanti e tipicamente spariscono nell’arco di 24 ore (Saraste and Pulkki, 2000). Per le cellule tumorali, caratterizzate da ritmi proliferativi molto alti e dall’attivazione preferenziale di alcune cascate molecolari (come quelle che sostengono la crescita), l’apoptosi rappresenta senz’altro uno degli scogli da superare, insieme ad altre forme di morte cellulare come l’autofagia (box Figura 2.3 I corpi apoptotici Immagine al microscopio confocale di nuclei di cellule di osteosarcoma umano. In verde, la proteina istonica di fusione H2B-GFP localizza nei nuclei. La freccia indica la frammentazione di un nucleo nei corpi apoptotici. Autore: Imaging Unit IFOM 58 2.3 Aggirare la morte cellulare 2.2), per sopravvivere e proliferare. Le strategie usate per aggirare l’apoptosi sono molto varie e consistono per esempio in: Box 2.2 - L’autofagia L’autofagia permette alla cellula di degradare aggregati proteici e organelli (ad es. ribosomi e mitocondri) non più funzionanti o danneggiati. Durante il processo, gli organelli sono avvolti da membrane e condotti ai lisosomi, dove sono distrutti. I cataboliti prodotti possono essere impiegati per costruire nuove strutture cellulari o per generare energia. Essa opera a livelli bassi e costanti nella cellula, ma può essere stimolata in caso di stress (ad es. la mancanza di nutrienti). 1. Mutare i sensori della cascata apoptotica, così da impedire alla cellula di rilevare la presenza di un segnale pro-apoptotico. Uno degli esempi più significativi riguarda la proteina p53 (paragrafo 2.2), che segnala la presenza di danni al DNA, oltre che varie altre anormalità come l’iper-attivazione delle vie proliferative o la mancanza di ossigeno. Non sorprende allora, visto il ruolo di questa proteina in processi cellulari di importanza vitale, apprendere che p53 risulta mutata in più del 50% dei tumori umani (Harris, 1996); Lo studio di questi circuiti molecolari è rilevante oltre che per avere un quadro sempre più dettagliato del fenomeno, anche per le potenziali applicazioni terapeutiche. Infatti, molti dei farmaci utilizzati nella chemioterapia sono agenti citotossici, ossia sostanze che stimolano la morte cellulare. Un tumore che riesce a trovare una strategia per eludere la morte cellulare è un tumore in grado di resistere a questi farmaci. 2. Aumentare l’espressione di fattori che inibiscono l’apoptosi o che promuovono la sopravvivenza; 3. Ridurre l’espressione dei fattori che stimolano l’apoptosi. 59 2.3 Aggirare la morte cellulare Tutto ciò è supportato da sempre maggiori evidenze sperimentali che dimostrano come neoplasie particolarmente aggressive o resistenti alle terapie sono proprio quelle che riescono a mantenere bassi i livelli di apoptosi tra le proprie cellule (Adams and Cory, 2007). Il lavoro degli scienziati nei prossimi anni dovrà sempre più focalizzarsi su questi temi, per identificare nuove molecole capaci di ri-attivare la naturale capacità delle cellule di auto-difendersi. La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Evitare la morte cellulare programmata” sul canale video di IFOM 60 2.4 Proliferare in modo illimitato I tre hallmarks che abbiamo incontrato finora, ossia la capacità di crescere anche in assenza di segnali proliferativi (paragrafo 2.1), l’insensibilità ai fattori che inibiscono la crescita cellulare (paragrafo 2.2) e l’abilità di aggirare la morte cellulare programmata (paragrafo 2.3) permettono alla cellula di sfuggire ai meccanismi che regolano in modo preciso e controllato la sua crescita. Ci si potrebbe aspettare che da soli questi tre tratti siano sufficienti per consentire a una cellula di replicarsi all’infinito, dando vita a un tumore nelle sue fasi iniziali. In realtà la ricerca degli ultimi trent’anni ha fatto emergere come il potenziale replicativo delle cellule eucariotiche sia limitato (Hayflick, 1997). Infatti, le cellule di mammifero in coltura sono in grado di dividersi per un numero definito di volte (circa 60-70) dopodiché entrano in una fase di “quiescenza” (la senescenza cellulare) dove seppure siano ancora vitali, non si replicano più. La senescenza può essere aggirata mutando proteine coinvolte nell’apoptosi, come per esempio la proteina p53 (paragrafo 2.3). La rimozione di questo blocco è temporanea e consente alle cellule di proliferare per altri cicli, finché esse sperimentano un nuovo arresto, la cosiddetta “crisi”. La maggior parte delle cellule in crisi va incontro ad apoptosi e solo pochissime (circa una su 10 milioni) conseguono ulteriori mutazioni che le portano a dividersi senza limite. 61 2.4 Proliferare in modo illimitato Le cellule uscite dallo stadio di crisi hanno raggiunto la capacità di dividersi in maniera illimitata, acquisendo il fenotipo “immortale”, che accomuna tutte le cellule tumorali. Che cosa indica alle cellule il numero di divisioni ancora possibili? E quali sono i meccanismi molecolari che, se mutati, consentono alle cellule di diventare “immortali”? I “contatori molecolari” della cellula sono i telomeri, le estremità dei cromosomi. Ogni volta che una cellula si divide, alla fine dei cromosomi viene perso progressivamente un tratto di DNA dai 50 ai 100 nucleotidi. Dopo ogni ciclo di replicazione, la cellula ripara i propri telomeri, allungando i cromosomi con nuove sequenze di DNA, grazie all’azione di una proteina specifica, la telomerasi. Con il passare del tempo, i telomeri vengono riparati in modo meno efficiente, si accorciano e diventano sempre meno capaci di proteggere le estremità dei cromosomi che così sono più soggette a fenomeni degenerativi (come per esempio la fusione con altre estremità cromosomiche). Figura 2.4 I telomeri FISH (Fluorescent In Situ Hybridization) di cromosomi di cellule di mammifero. Tramite specifiche sonde a fluorescenza è possibile evidenziare i telomeri (in giallo). In blu i cromosomi colorati con il DAPI. Autore: Prakash Hande, Department of Physiology National University of Singapore 62 2.4 Proliferare in modo illimitato Ancora una volta il raggiungimento del fenotipo tumorale è un meccanismo complesso, che tramite passaggi sequenziali scanditi dall’accumulo di successive mutazioni, permette a una cellula tra tante di acquisire una nuova caratteristica, che la avvantaggia rispetto alle altre, aumentandone il potenziale proliferativo. La sopravvivenza della cellula è compromessa e si innesca il programma di senescenza (Harley et al., 1990). La senescenza è un’estrema barriera che la cellula oppone all’accorciamento progressivo dei telomeri che avviene dopo ogni divisione. È come se la cellula proteggesse l’integrità del proprio DNA, impendendo altre divisioni cellulari, che potrebbero generare cellule figlie con un’informazione genetica alterata. Come fanno le cellule tumorali a evadere questo controllo? Una delle strategie più diffuse nei tumori è di mantenere alti i livelli di telomerasi, come succede in moltissimi casi: i dati sperimentali indicano che l’85% - 90% delle linee cellulari tumorali umane esprime elevati tassi di telomerasi (Shay and Bacchetti, 1997). Un’altra possibilità è di ricorrere alla ricombinazione non omologa, un meccanismo che le cellule normali utilizzano per riparare il DNA e che invece quelle tumorali sfruttano a proprio vantaggio per favorire gli scambi extra-cromosomiali, allungando così le estremità dei cromosomi. La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Proliferare in maniera illimitata” sul canale video di IFOM 63 2.5 Promuovere l’angiogenesi Come i tessuti sani, anche quelli tumorali hanno bisogno di ossigeno e nutrienti per crescere, così come di un sistema che consenta loro di espellere l’anidride carbonica e i rifiuti metabolici che via via producono. Nei tessuti sani questo viene realizzato dal sistema vascolare, che con la sua rete intricata di vasi e capillari è in grado di raggiungere tutte le cellule dell’organismo. Si stima, infatti, che ogni cellula abbia nell’arco di circa 100μm un capillare sanguigno a sua disposizione (Alberts et al., Molecular Biology of the Cell, 2000) (box 2.3). Il processo che porta alla creazione di nuovi vasi, l’angiogenesi, è regolato con grande precisione: generalmente è molto attivo durante lo sviluppo embrionale e post-natale, per accompagnare e sostenere la crescita dell’organismo. Nell’adulto, invece, l’angiogenesi è per lo più quiescente: viene attivata in modo temporaneo e solo in momenti specifici, come ad esempio quando è necessario ricostruire i vasi lesionati dopo un trauma oppure durante il ciclo mestruale quando l’endometrio deve essere rigenerato. Le ricerche sviluppate negli ultimi trent’anni, dapprima da Folkman e poi da molti altri scienziati in tutto il mondo, hanno identificato nell’angiogenesi uno degli otto tratti distintivi che caratterizzano tutte le cellule (e i tessuti) tumorali (Folkman, 1997). Durante la progressione neoplastica, a un certo punto 64 2.5 Promuovere l’angiogenesi del percorso che le porterà a formare un tumore vero e proprio, le cellule tumorali spingono il sistema vascolare quiescente a creare nuovi capillari. Il grado di vascolarizzazione che si ottiene da questa stimolazione è variabile. Infatti, alcuni tumori, come per esempio l’adenocarcinoma duttale del pancreas, sono poco vascolarizzati, altri invece sono più ricchi di vasi (è il caso del carcinoma renale). Ciò che accomuna la vascolarizzazione nei tumori, e che allo stesso tempo la differenzia da quella dei tessuti sani, è la sua architettura (Nagy et al., 2010). I vasi presenti nei tumori sono frequentemente distorti, eccessivamente ramificati e lassi rispetto alla controparte sana. Questo provoca, di conseguenza, maggiori micro-emorragie, una ridotta capacità del sistema vascolare di frapporsi come barriera alla disseminazione di cellule tumorali, e un’alterata capacità delle molecole chemioterapiche di raggiungere efficacemente il tumore, come vedremo in maniera più diffusa nel capitolo dedicato all’angiogenesi. Quando accade tutto questo? E soprattutto, quali meccanismi utilizzano le cellule tumorali per promuovere l’angiogenesi? Box 2.3 - Il sistema vascolare È formato da una serie di vasi (arterie, vene e capillari) dentro i quali si muove il sangue, spinto dalla forza propulsiva del cuore. Una delle sue peculiarità è il cosiddetto “letto capillare”, cioè la fitta rete di capillari che collega il circuito venoso con quello arterioso, dove si realizzano gli scambi gassosi. L’ossigeno si muove dal lato arterioso del letto all’interno delle cellule, mentre l’anidride carbonica dalle cellule al lato venoso del letto, ossigenando i tessuti ed eliminando degli scarti. Nell’uomo, i capillari hanno una superficie di circa 7.000 mq e l’intero sistema vascolare è lungo 100.000 km (fonte:www.fondazioneitalianacuorecircolazione.it). Se all’inizio gli scienziati ritenevano che l’attivazione dell’angiogenesi fosse importante solo per sostenere la crescita nelle fasi tardive della progressione tumorale, quando ormai il tumore ha una massa macroscopica, l’analisi istologica di lesioni pre-tumorali non ancora invasive (come nel caso di alcune displasie e di diversi tipi di carcinomi umani) ha evidenziato già segnali di attivazione dell’angiogenesi (Raica et al., 2009), suggerendo l’importanza di questo processo anche nelle fasi iniziali della formazione di un tumore. 65 2.5 Promuovere l’angiogenesi Tra le strategie utilizzate per ri-attivare la vascolarizzazione ci sono: 1. La modificazione dell’equilibrio tra fattori che promuovono e inibiscono l’angiogenesi. Generalmente nei tessuti la formazione di nuovi vasi sanguigni è mantenuta bassa, o nulla, tramite il bilanciamento tra fattori antie pro-angiogenici, a favore dei primi. In molti tumori, invece, l’equilibrio viene stravolto nella direzione opposta (Volpert et al., 1997), per esempio aumentando l’espressione dei fattori che favoriscono l’angiogenesi (come il VEGF, il fattore di crescita dell’endotelio vascolare) o riducendo i livelli di molecole che la frenano (è il caso della trombospondina o del β-interferone); Figura 2.5 La rete vascolare In A, immunofluorescenza di un campione di intestino tenue. In rosso, la proteina VE-caderina che si trova nelle cellule endoteliali. In B, ricostruzione artificiale della rete vascolare dell’immagine A, che evidenzia arterie (in rosso), vene (in blu) e vasi linfatici (in verde). Autore: Fabrizio Orsenigo, ricercatore IFOM. 2. La variazione della bio-disponibilità dei fattori che attivano o bloccano l’angiogenesi, tramite una diversa regolazione delle proteasi che li modificano. Le proteasi sono enzimi capaci di degradare le proteine, e di cambiare la quantità di questi fattori o il loro livello di attività. 66 2.5 Promuovere l’angiogenesi Diverse linee di ricerca nel mondo si focalizzano sull’angiogenesi tumorale e sono orientate sia a comprendere appieno questo fenomeno, identificando i fattori coinvolti e i contributi dei singoli attori (tra cui le cellule del micro-ambiente, come sempre di più sta emergendo - paragrafo 2.7), sia a individuare molecole capaci di bloccare la formazione di nuovi vasi per “affamare” il tumore. La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Promuovere l’angiogenesi” sul canale video di IFOM 67 2.6 Migrare e invadere La capacità delle cellule cancerogene di spostarsi dal sito originario e diffondersi in altri tessuti, formando tumori secondari, le metastasi, è al centro della ricerca oncologica. La maggior parte dei decessi per tumore, infatti, è causata dal collasso degli organi interessati da metastasi, più che da conseguenze dirette del tumore primario (Jemal et al., 2011). Le metastasi sono il risultato dell’acquisizione da parte delle cellule tumorali di tre capacità distinte ma correlate: la migrazione attraverso i tessuti, l’invasione nel sistema linfatico e circolatorio e la capacità di attecchire e proliferare in un tessuto diverso (box 2.4). L’intero processo è articolato in una serie di eventi sequenziali che coincidono con altrettante alterazioni molecolari e cellulari del tumore. Per questo si parla di “cascata dell’invasione e metastasi” (Valastyan and Weinberg, 2011). Si identificano: 1. Invasione locale: le cellule iniziano a migrare all’interno del tessuto di origine; 2. Ingresso nei vasi: le cellule attraversano la parete dei vasi linfatici e sanguigni, entrando nel lume; 3. Uscita dai vasi: le cellule escono dal flusso circolatorio, riattraversando la parete dei vasi e penetrano nei tessuti di organi distanti dal tumore primario; 68 2.6 Migrare e invadere Le cellule, per migrare attraverso lo spazio tridimensionale dei tessuti, possono utilizzare diverse strutture con caratteristiche morfologiche specifiche, ottenute riorganizzando l’architettura del citoscheletro e della membrana. Ne esistono 5 tipologie: circular ruffles, lamellipodi, fillopodi, podosomi e adesioni focali. Esistono diversi meccanismi molecolari con cui le cellule tumorali, particolarmente di origine epiteliale, attivano la cascata di invasione e metastasi. Uno dei più importanti è l’attivazione di un complesso programma di regolazione molecolare definito transizione epiteliale-mesenchimale o EMT (da Epithelial - Mesenchymal Transition). L’EMT avviene normalmente nei processi fisiologici in cui è richiesta un’aumentata proliferazione cellulare e capacità di migrazione, come lo sviluppo embrionale e la guarigione delle ferite. Le cellule tumorali dunque, come nel caso della riprogrammazione del metabolismo (paragrafo 2.7) e della resistenza all’apoptosi (paragrafo 2.3), sfruttano un meccanismo fisiologico a proprio vantaggio e lo “accendono” in condizioni non fisiologiche. 4. Micro-colonizzazione: le cellule formano piccoli noduli neoplastici e proliferano nel tessuto di arrivo; 5. Colonizzazione: le cellule formano una massa metastatica di dimensioni macroscopiche. Lo stadio della colonizzazione metastatica si può verificare anche molto tempo dopo quello della microcolonizzazione: le cellule tumorali inizialmente sono poco adattate al nuovo tessuto nel quale sono migrate, e possono restare in una fase “dormiente” mentre evolvono nuove strategie di sopravvivenza al nuovo ambiente (capitolo 1). Box 2.4 - Le differenze tra sistema linfatico e circolatorio I circoli sanguigni e linfatici sono sistemi vascolari che distribuiscono ossigeno e nutrienti ai tessuti, rimuovono i prodotti metabolici e permettono la migrazione a grandi distanze delle cellule, ad esempio quelle immunitarie. Il sistema circolatorio è chiuso, dotato di forza propulsiva da parte del cuore ed è l’unico che trasporta ossigeno tramite i globuli rossi. Il sistema linfatico è invece monodirezionale, aperto (confluisce nella vena succlavia) e senza forza propulsiva. Sfrutta la forza idrostatica e osmotica intorno ai capillari, drenando i liquidi in eccesso dai tessuti. Svolge un ruolo importante nello sviluppo della risposta immunitaria a livello dei linfonodi. 69 2.6 Migrare e invadere Durante l’attivazione dell’EMT, le cellule acquistano specifici tratti funzionali alla migrazione: • Perdita delle giunzioni aderenti tra cellule adiacenti; • Conversione da una forma poligonale tipica delle cellule epiteliali a una forma allungata, tipica dei fibroblasti; • Rilascio di enzimi litici, come le metallo-proteasi, che degradano la matrice extracellulare creando spazio alla cellula per muoversi nel tessuto; • Aumentata motilità e maggiore resistenza all’apoptosi. Un’altra modalità di migrazione delle cellule tumorali è la cosiddetta invasione collettiva: noduli di cellule cancerogene si spostano “in massa” nei tessuti adiacenti come per esempio nei carcinomi a cellule squamose (Friedl and Wolf, 2008), aumentando la loro propensione a disseminare sia a livello locale che in organi distanti. Meno caratterizzata è la modalità di migrazione ameboide: singole cellule cancerogene si muovono, sgusciando negli interstizi della matrice extracellulare, senza degradarla come invece avviene nella migrazione EMT. Come si muove una cellula? Video realizzato al microscopio a contrasto di fase (A) e al microscopio a fluorescenza (B) di un fibroblasto embrionale murino, che esprime la proteina di fusione VASP-GFP. In B, VASP-GFP si trova al fronte di migrazione, dove crea piccoli accumuli che precedono la formazione dei filopodi. Autore: Andrea Disanza, ricercatore IFOM Riparare le ferite Video realizzato al microscopio a contrasto di fase che mostra i risultati di un wound-healing assay. Dopo aver prodotto un taglio sulla superficie di una piastra interamente coperta da cellule, si segue la riparazione della ferita e si misurano vari parametri di migrazione. Autore: Chiara Malinverno, ricercatrice IFOM 70 2.6 Migrare e invadere Le cellule tumorali possono adottare anche un’altra strategia per favorire la propria motilità: emettono sostanze chemio-attrattive per le cellule del sistema immunitario, come i macrofagi (paragrafo 2.9). Questi ultimi sono cellule migranti che fisiologicamente rilasciano nei tessuti enzimi litici, degradando la matrice extracellulare e favorendo nello stesso tempo anche la migrazione delle cellule cancerogene. È un esempio di come le cellule tumorali acquisiscono un vantaggio proliferativo non solo sfruttando programmi molecolari già esistenti, ma anche “piegando” al proprio volere cellule sane del microambiente tumorale (capitolo 1). L’identificazione e la comprensione approfondita delle “firme metastatiche”, ovvero delle reti di geni e di programmi molecolari che sostengono la migrazione e l’invasione, rappresenta quindi un’importante sfida della ricerca oncologica dei prossimi anni. La capacità delle cellule tumorali di adottare diverse strategie di invasione, adattandole al microambiente, è alla base della plasticità della migrazione tumorale. Questo fenomeno ha importanti implicazioni terapeutiche poiché consente a una cellula tumorale di cambiare modalità di movimento in presenza di farmaci anti-metastatici, diventando resistente a trattamenti con singoli chemioterapici. La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Promuovere la migrazione e l’invasione dei tessuti” sul canale video di IFOM 71 2.7 Riprogrammare il metabolismo L’incontrollata e sostenuta proliferazione cellulare è uno degli hallmark principali che caratterizza pressoché tutti i tipi di cancro. Per alimentare la crescita, le cellule neoplastiche devono adeguare il loro metabolismo in base alle nuove esigenze energetiche. In un tessuto sano, le cellule utilizzano due programmi metabolici a seconda della disponibilità di ossigeno. In condizioni aerobiche (ossia in presenza di ossigeno) la cellula demolisce il glucosio in due passaggi: nel citoplasma, mediante la glicolisi, genera piruvato che nei mitocondri viene poi completamente ossidato ad anidride carbonica, consumando ossigeno e producendo grandi quantità di ATP, la molecola che veicola l’energia per tutti i processi cellulari. In carenza o assenza di ossigeno (anaerobiosi), come avviene ad esempio nelle cellule muscolari sotto sforzo, l’ossidazione mitocondriale non avviene e il piruvato, prodotto dalla glicolisi, è parzialmente ossidato in lattato. Questo processo genera meno ATP, ma può avvenire anche in assenza di ossigeno. Le cellule tumorali, invece, riprogrammano il loro metabolismo verso l’utilizzo della sola glicolisi anche in presenza di ossigeno, tramite la cosiddetta “glicolisi aerobica” o “effetto Warburg” (Warburg, 1956). 72 2.7 Riprogrammare il metabolismo Perché una cellula che prolifera di più e più velocemente utilizza il metabolismo glicolitico che garantisce una produzione energetica inferiore (box 2.5)? L’apparente contraddizione in realtà svela un meccanismo che favorisce la proliferazione tumorale. La glicolisi, anche se meno efficiente dal punto di vista energetico, fornisce un numero maggiore e più variegato di intermedi metabolici, cioè molecole che possono essere impiegate per produrre acidi nucleici, proteine e gli organelli necessari per la crescita cellulare. Per sostenere una maggiore glicolisi, le cellule tumorali espongono sulla loro membrana un maggior numero di recettori per il glucosio rispetto alle cellule sane, in modo da aumentarne l’incorporazione. Il maggior consumo di glucosio è il principio alla base delle tecniche diagnostiche come la PET (box 2.6) per l’identificazione di masse tumorali. Figura 2.6 Il metabolismo energetico nelle cellule tumorali Lo schema mostra le differenti vie metaboliche utilizzate da cellule normali e tumorali, evidenziando per queste ultime il concetto di complementarietà metabolica. 73 2.7 Riprogrammare il metabolismo Box 2.5 - Resa energetica glicolisi e ossidazione mitocondriale Box 2.6 - PET La glicolisi converte il glucosio in due molecole di piruvato attraverso dieci reazioni, con una produzione netta di due molecole di ATP per ogni molecola di glucosio. In presenza di ossigeno, i due piruvati entrano nei mitocondri, dove vengono completamente ossidati a CO2 attraverso il ciclo di Krebs e tramite la fosforilazione ossidativa. Complessivamente, con la respirazione mitocondriale si generano 36 molecole ATP per ogni molecola di glucosio, a differenza delle due prodotte con la sola glicolisi in condizioni anaerobiche. La tomografia a emissione di positroni, PET (Positron Emission Tomography) è una tecnica diagnostica che individua i tumori sfruttando l’effetto Warburg. Il paziente assume una molecola radioattiva, il 18-fluoro-desossiglucosio, che è incorporato maggiormente dalle cellule tumorali. La PET identifica la massa tumorale rivelando una maggiore radioattività, indicativa di un maggior tasso di consumo metabolico di glucosio. È ormai assodato che il tumore è un tessuto complesso, contenente diversi tipi di cellule tumorali e non-tumorali che interagiscono fra loro e con l’ambiente attraverso complesse relazioni (capitolo 1): dal punto di vista del metabolismo, è possibile identificare in molti tumori due sotto-popolazioni di cellule. Da una parte, cellule tumorali che impiegano il metabolismo glicolitico aerobico e rilasciano all’esterno lattato come prodotto di scarto. Dall’altra, cellule che incorporano il lattato e lo utilizzano per produrre energia attraverso l’ossidazione mitocondriale. Si realizza così una relazione di complementarietà metabolica favorevole alla proliferazione globale del tessuto cancerogeno. Questa complementarietà si trova anche in situazioni fisiologiche, come nel caso delle cellule muscolari che sotto sforzo generano lattato, “smaltito” dai fibroblasti circostanti che lo usano come fonte energetica. Come per i meccanismi alla base della proliferazione (paragrafo 2.1) e della resistenza all’apoptosi (paragrafo 2.3) anche nella riprogrammazione genetica che determina il cambio di metabolismo energetico le cellule tumorali non inventano meccanismi molecolari ex novo ma sfruttano a proprio 74 2.7 Riprogrammare il metabolismo vantaggio vie fisiologiche già esistenti. Tuttavia i meccanismi molecolari non sono ancora del tutto compresi. Per questo, la riprogrammazione metabolica è considerata come “hallmark emergente” e le ricerche nei prossimi anni aiuteranno a comprenderne i dettagli nei diversi tipi di tumore e come applicare le conoscenze alla diagnosi e alla cura nella pratica clinica. La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Riprogrammare il metabolismo energetico” sul canale video di IFOM 75 2.8 Sfuggire al sistema immunitario Il sistema immunitario è la principale arma di difesa dell’organismo. È costituito da numerosi sotto-tipi cellulari altamente specializzati, e si divide in due rami: l’immunità innata e quella adattativa. La prima rappresenta un’immediata linea di difesa relativamente meno specifica e comprende, tra le altre, cellule fagocitarie e cellule natural killer. La seconda è mediata da linfociti T e linfociti B che producono anticorpi specifici. È ormai assodato che le cellule del sistema immunitario non solo eliminano i patogeni esterni come virus e batteri, ma sono implicate anche nel controllare l’omeostasi dei tessuti, eliminando le cellule apoptotiche (paragrafo 2.3) e le cellule “anomale”, come quelle tumorali. In particolare, il sistema immunitario è efficiente nel contrastare ed eliminare tumori di origine virale come il tumore alla cervice uterina causato dal virus del papilloma umano (HPV) (box 2.7). I virus stimolano la proliferazione delle cellule per sostenere la loro stessa replicazione, favorendo l’insorgenza di cellule cancerogene. Il sistema immunitario riconosce ed elimina le cellule infettate, rimuovendo sul nascere anche eventuali cellule tumorali incipienti. 76 2.8 Sfuggire al sistema immunitario Box 2.7 - HPV e vaccini Il virus del papilloma umano, HPV (Human Papilloma Virus) è la principale causa di insorgenza del tumore alla cervice. HPV si trasmette per via sessuale e infetta le cellule epiteliali della mucosa uterina. Il virus può rimanere silente per molto tempo prima di stimolare la trasformazione neoplastica. Degli oltre 100 ceppi di HPV solo alcuni sono cancerogeni: HPV-16 e HPV-18 da soli causano il 70% dei tumori alla cervice HPV-positivi. La prevenzione di questa forma tumorale si avvale di due armi: il Pap-test, che identifica lesioni pre-cancerogene della cervice, e la vaccinazione contro HPV-16 e 18, che previene l’infezione virale. Tuttavia, più dell’80% dei tumori umani sono di origine non virale. Le cellule immunitarie sono in grado di agire come barriera anche contro la formazione e la progressione di questi tumori? Studi epidemiologici e condotti su modelli sperimentali dimostrano che la presenza di un alto numero di linfociti T citotossici o natural killer nei tumori al colon o alle ovaie è associata a una prognosi migliore (Pagès et al, 2010). Questo suggerisce che le cellule immunitarie svolgano un attivo ruolo di difesa contro la proliferazione di cellule atipiche come le cellule neoplastiche. Figura 2.7 HPV (Human Papilloma Virus) L’immagine mostra l’aspetto tridimensionale del papilloma virus. 77 2.8 Sfuggire al sistema immunitario Di contro, i tumori più aggressivi sono i tumori che riescono ad eludere i meccanismi di sorveglianza messi normalmente in atto dal sistema immunitario, ad esempio producendo fattori immuno-soppressivi come la molecola TGF-β (Schreiber et al, 2010). I meccanismi molecolari di immuno-evasione sono però ancora in buona parte sconosciuti. Il ruolo del sistema immunitario nella tumorigenesi è bivalente. Infatti, le cellule immunitarie rilasciano nei tessuti una serie di fattori pro-infiammatori che sono normalmente utili a svolgere le loro funzioni, come richiamare altre cellule coinvolte nell’eliminazione di patogeni e detriti cellulari, o stimolare la riparazione dei tessuti in caso di danno (come nella guarigione da ferite). Tuttavia, la presenza prolungata di questi segnali nel tessuto, e in particolare in prossimità di un tessuto tumorale, può alla lunga favorire e sostenere la proliferazione cellulare. Quindi, se da un lato il sistema immunitario contrasta l’insorgenza dei tumori, dall’altro le infiltrazioni nel tessuto tumorale di cellule immunitarie, come macrofagi e neutrofili, contribuiscono a creare uno stato di infiammazione cronica che promuove l’insorgere nelle cellule degli altri hallmark tipici del cancro, come una sostenuta proliferazione, angiogenesi e migrazione (paragrafo 2.9). Come per la riprogrammazione energetica (paragrafo 2.7), la capacità di immuno-evasione delle cellule tumorali è considerata un “hallmark emergente”: le ricerche dei prossimi anni chiariranno in modo più dettagliato il suo ruolo e se sia a tutti gli effetti una caratteristica comune e condivisa dalle cellule tumorali. La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Sfuggire al sistema immunitario” sul canale video di IFOM 78 2.9 Infiammazione locale È ormai accertato che le masse tumorali contengono non solo le cellule cancerogene, ma anche altri tipi cellulari sani, richiamati all’interno del tessuto tumorale. Ogni lesione neoplastica mostra, tra le altre, infiltrazioni di cellule del sistema immunitario, sia del ramo innato che adattativo (paragrafo 2.8), a cui è associato uno stato più o meno sostenuto di infiammazione (Pagès et al., 2010). L’infiammazione è una risposta fisiologica di difesa dei tessuti, conseguente a un danno fisico, chimico o biologico, col duplice obiettivo di rimuovere la causa iniziale e avviare il processo riparativo. Coinvolge diversi tipi cellulari ma è principalmente guidata dalle cellule dell’immunità innata che orchestrano vari processi finalizzati a rigenerare nuovo tessuto al posto di quello danneggiato, formando anche nuovi vasi sanguigni e sostenendo la proliferazione cellulare (Grivennikov et al., 2010) (box 2.8). È facile quindi comprendere come uno stato di infiammazione cronica e prolungata nel tempo contribuisca all’instaurarsi dei diversi hallmark del cancro, approvvigionando il microambiente tumorale con molecole che ne sostengono la proliferazione tra cui: 1. Fattori di crescita (paragrafo 2.1); 2. Molecole che bloccano la morte cellulare programmata (paragrafo 2.3); 79 2.9 Infiammazione locale 3. Fattori pro-angiogenici (paragrafo 2.5); Box 2.8 - L’infiammazione L’infiammazione coinvolge molteplici tipi cellulari, ma è guidata principalmente da cellule dell’immunità innata. I patogeni o i detriti, rilasciati a seguito di un danno, richiamano neutrofili e macrofagi, che migrano dai vasi sanguigni e linfatici al tessuto danneggiato. I vasi si dilatano e diventano più permeabili, causando edema e rossore. Le cellule fagocitarie a loro volta producono mediatori chimici che ne richiamano altre e che stimolano l’angiogenesi e la divisione delle cellule connettivali come i fibroblasti, per ricostruire il tessuto danneggiato. 4. Enzimi che modificano la matrice extracellulare favorendo la migrazione delle cellule tumorali; 5. Segnali che facilitano l’insorgenza di meccanismi pro-cancerogeni come la transizione epiteliale-mesenchimale (EMT) (paragrafo 2.6). Inoltre, le cellule infiammatorie del sistema immunitario generano nel microambiente tumorale molecole chimiche altamente ossidanti, come i radicali liberi, che possono danneggiare il DNA, contribuendo alla sua instabilità genomica (paragrafo 2.10) e accelerare l’evoluzione genetica del tumore verso stadi maligni. L’infiammazione nel suo complesso, insieme all’instabilità genomica, è considerata, quindi, un agente che promuove l’acquisizione dei tratti distintivi delle cellule tumorali. La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Infiammazione” sul canale video di IFOM 80 2.10 Instabilità genomica Come fanno le cellule tumorali ad acquisire via via i dieci tratti distintivi che abbiamo approfondito e a diventare tumori conclamati? Sappiamo che alla base dell’evoluzione biologica, che consente a un organismo o a una cellula di conquistare un nuovo fenotipo, cioè un’abilità inedita, ci sono le mutazioni del DNA. È l’insorgenza di mutazioni (box 2.9), infatti, che, modificando il patrimonio genetico di una cellula (o di un organismo), consente di creare delle varianti capaci di adattarsi in modo più efficiente all’ambiente e di ottenere un vantaggio rispetto a tutte le altre che non possiedono quella caratteristica specifica (capitolo 1). Se da una parte la presenza di mutazioni crea quella variabilità genetica su cui opera la selezione naturale, dall’altra questo processo è piuttosto raro. Esso avviene, infatti, con una frequenza molto bassa: circa 1 mutazione spontanea ogni 1 - 100 milioni di nucleotidi (Salk et al., 2008). Numeri che non giustificano la frequenza con cui i tumori si verificano nella popolazione (box 2.10). Questa apparente contraddizione si spiega col fatto che le cellule tumorali possiedono in realtà una maggiore capacità di mutare il proprio patrimonio genetico, rispetto alle cellule sane. 81 2.10 Instabilità genomica Box 2.9 - Mutazioni del DNA Una mutazione è una variazione accidentale o indotta nella sequenza delle basi del DNA, stabile e tramandabile alle generazioni successive. Esistono varie tipologie di mutazioni, che modificano l’informazione genetica in diversa misura. • Mutazioni puntiformi: interessano uno o pochi nucleotidi (fino a 50), ma possono causare cambiamenti significativi in uno (o più) prodotti proteici. • Riarrangiamenti cromosomici: sono causati dallo spostamento fisico di grosse porzioni di DNA da un sito cromosomico a un altro e causano le mutazioni più estese. Figura 2.8: Cariotipo ottenuto con SKY (Spectral Karyotiping) Un caso di leucemia linfoblastica acuta analizzato tramite SKY per cercare riarrangiamenti cromosomici. Ogni cromosoma è colorato in modo diverso. Si notano: un’amplificazione del cromosoma 1, una triplicazione del cromosoma 9, una delezione di tutto il cromosoma 11, una traslocazione tra i cromosomi 1 e 19 e una traslocazione tra il cromosoma 10 e il 21. Autore: Idoya Lahortiga, Laboratory for the Molecular Biology of Leukemia, KULeuven, Belgium. Ogni singola mutazione, infatti, altera l’informazione genetica e potrebbe compromettere la vita stessa della cellula o il programma che essa deve svolgere nel tessuto in cui si trova. Diverse molecole e vie biochimiche controllano l’integrità del genoma, segnalando ogni eventuale alterazione e stimolando il processo di riparazione della lesione, prima che essa si propaghi alle cellule figlie. Addirittura, nella peggiore delle ipotesi, esse attivano la morte cellulare programmata (paragrafo 2.3), autodistruggendo la cellula, nel caso in cui le mutazioni La maggiore “mutagenicità” del DNA delle cellule tumorali è chiamata instabilità genomica e rappresenta, insieme all’infiammazione (paragrafo 2.9) una delle condizioni che favoriscono l’insorgenza degli hallmark da parte delle cellule tumorali. Nel corso dell’evoluzione, le cellule hanno elaborato diversi meccanismi per tenere sotto controllo e ridurre al minimo l’insorgenza di mutazioni al DNA. 82 2.10 Instabilità genomica siano troppo estese e non riparabili. Diventa chiaro, allora, come l’instabilità genomica, che si ottiene alterando questi “guardiani molecolari”, consenta alle cellule neoplastiche di aumentare la frequenza con cui le mutazioni si verificano e garantisca quella variabilità genetica necessaria per elaborare nuove strategie di proliferazione, di evasione dall’apoptosi o di migrazione. Box 2.10 - Frequenza di tumori nella popolazione italiana Secondo i dati dell’Associazione Italiana Registro Tumori (AIRTUM) del 2013, in Italia ogni anno vengono diagnosticati 366.000 nuovi casi di tumore. Il cancro più frequente è quello del colon retto (14%), seguito dal tumore della mammella (13%), della prostata (11%, solo negli uomini) e del polmone (11%). Sono esclusi dalle statistiche i carcinomi cutanei, a causa delle difficoltà di distinguere con sicurezza le forme aggressive da quelle benigne. Tuttavia, aumentano anche le probabilità di sopravvivenza: 61% per le donne e 52% per gli uomini a cinque anni dalla diagnosi. La Videopillola Per approfondire questo argomento, guarda la Videopillola “Instabilità genomica” sul canale video di IFOM 83 3 L’INSTABILITÀ GENOMICA “Genetic instability makes the tumour itself a population under change; a huge collection of coexisting subclones, each with the potential for future changes in the face of selective pressure” Cahill et al., Trends Cell. Biol. 1999 84 3.1 L’instabilità genomica: la marcia in più delle cellule tumorali L’instabilità genomica è una proprietà che facilita l’acquisizione dei vari tratti distintivi del cancro (paragrafo 2.10). In che cosa consiste e da cosa è generata? Quali sono i meccanismi molecolari coinvolti nel mantenimento della stabilità del genoma, e come sono alterati nel cancro? Figura 3.1 L’instabilità genomica Fattori esogeni ed endogeni causano danni al DNA che, se non sono riparati, contribuiscono all’instabilità genomica. Nelle cellule pre-neolastiche l’instabilità genomica conferisce un vantaggio selettivo: aumentando la variabilità genetica della popolazione permette alle cellule di acquisire i tratti distintivi del cancro. 85 3.1 L’instabilità genomica: la marcia in più delle cellule tumorali Nelle cellule pre-neoplastiche, l’aumentata instabilità genomica genera diverse sottopopolazioni con profili genetici diversi. La sottopopolazione meglio adattata alle alterate condizioni ambientali ha un vantaggio selettivo, espandendosi e proliferando. La maggiore instabilità genomica consente alle cellule pre-neoplastiche di accumulare ulteriori mutazioni e di progredire verso la tumorigenesi, acquisendo man mano i tratti distintivi del cancro. L’instabilità genomica è la tendenza del DNA ad accumulare alterazioni che possono riguardare sia la sequenza di nucleotidi sia il numero o la struttura dei cromosomi (il cosiddetto cariotipo). È causata dall’accumulo di danni al DNA di varia origine e natura, che non riescono ad essere riparati, innescando un ciclo vizioso che rende la cellula danneggiata progressivamente sempre più suscettibile all’acquisizione di ulteriori modificazioni. Ma in che modo questo favorisce l’acquisizione degli altri hallmark e conferisce un vantaggio proliferativo alle cellule tumorali? L’oncogenesi è un processo darwiniano in cui cellule tumorali mutano e si evolvono in un microambiente al quale devono continuamente adattarsi (capitolo 1). In cellule normali, il tasso di instabilità genomica è basso e la popolazione di cellule è geneticamente omogenea. Quando il microambiente cambia, per esempio per azione del sistema immunitario, o quando si verificano fluttuazioni nei nutrienti o nella disponibilità di ossigeno, le cellule non possiedono quella variabilità genetica che permette loro di adattarsi al nuovo ambiente e quindi smettono di crescere o addirittura attivano programmi di morte cellulare. 86 3.2 Come avvengono le mutazioni nel DNA? Il DNA è una molecola relativamente stabile, sia grazie alla sua struttura a doppia elica sia per il suo alto grado di organizzazione nella cromatina nel nucleo delle cellule. Tuttavia agenti di diversa natura, i mutageni, possono intaccarne l’integrità e/o indurre mutazioni. Si tratta di: • mutageni fisici, come radiazioni elettromagnetiche non ionizzanti a bassa energia (UV) e le radiazioni ionizzanti ad alta energia (raggi x e raggi γ). I raggi UV causano la formazione di legami covalenti tra timine adiacenti sullo stesso filamento del DNA, i cosiddetti dimeri di timina, che distorcono la doppia elica, ostacolando la corretta replicazione del DNA e l’espressione genica. Le radiazioni ionizzanti spezzano invece i legami fosfodiesterici del DNA causando rotture a singolo e a doppio filamento. Queste ultime sono particolarmente pericolose in quanto, se non riparate, possono portare a perdita o “scambi” di intere porzioni di cromosomi; • mutageni chimici, che si classificano sulla base del loro meccanismo di azione in agenti intercalanti, analoghi di basi e agenti che modificano chimicamente il DNA (box 3.1). Non sempre i mutageni chimici sono sostanze esterne: talvolta sono prodotte dallo 87 3.2 Come avvengono le mutazioni nel DNA? stesso metabolismo cellulare, come nel caso dei radicali liberi e di varie specie reattive dell’ossigeno (come lo ione -OH), capaci di danneggiare il DNA; • mutageni biologici, come virus e trasposoni. I virus inseriscono il loro genoma all’interno di quello della cellula infettata e sfruttano i meccanismi molecolari della cellula per replicarsi. In questo modo, modificano l’organizzazione dei cromosomi, alterano l’espressione genica e i meccanismi di regolazione, favorendo l’insorgenza di mutazioni. I trasposoni sono sequenze di DNA in grado di spostarsi in diverse posizioni del genoma tramite ricombinazione. L’inserimento dei trasposoni in certi punti del genoma, come per i virus, può causare mutazioni. Inoltre, durante la replicazione del DNA, si creano rotture al doppio filamento di DNA che se non riparate in tempo, facilitano ricombinazioni anomale: il processo di trasposizione è, infatti, una delle cause della duplicazione cromosomica (http://www.sci.sdsu. edu/cos/index.php). Box 3.1 - Agenti mutageni chimici I mutageni chimici danneggiano il DNA in modi diversi. Gli agenti intercalanti hanno una struttura ad anello e si inseriscono tra le basi del DNA: al successivo ciclo di replicazione causano l’inserzione di una coppia di nucleotidi. Un esempio è il benzo[α]pirene, contenuto nel fumo di sigaretta. Gli analoghi delle basi, come il 5-bromo-uracile, hanno una struttura simile alle basi azotate; sono incorporati nel DNA e determinano un appaiamento scorretto, causando mutazioni puntiformi. Appaiamenti scorretti avvengono anche quando il DNA è modificato chimicamente. Gli agenti deaminanti, come l’acido nitroso, causano perdita di un gruppo amminico; gli alchilanti, come i gas mostarda, aggiungono gruppi alchilici e gli idrossilanti, come l’idrossialanina, gruppi -OH. 88 3.2 Come avvengono le mutazioni nel DNA? Un’altra fonte di mutazioni risiede negli stessi processi molecolari che coinvolgono il DNA, come la replicazione. Si tratta di un meccanismo molto complesso eseguito da decine di proteine, che aprono la doppia elica e sintetizzano nuovi filamenti. Durante questo processo possono verificarsi degli errori: le mutazioni spontanee. La loro frequenza varia da un nucleotide mutato per milione fino a uno su 100 milioni, a seconda del tipo cellulare. Una frequenza apparentemente bassa ma che, se non contrastata, porterebbe nel giro di poche replicazioni all’accumulo di molte alterazioni. La maggior parte delle mutazioni spontanee viene subito identificata e rimossa da due meccanismi molecolari, i checkpoint e le vie di riparo del DNA. Errori o difetti in questi processi aumentano la frequenza con cui le mutazioni vengono propagate e determinano instabilità genomica. 89 3.3 Instabilità genomica e cancro L’instabilità genomica nell’oncogenesi è stata osservata già oltre 100 anni fa (von Hansemann, 1890): oggi è chiaro che tutti i tumori contengono alterazioni genetiche, da minime variazioni nella sequenza del DNA a importanti modifiche come traslocazioni, perdita o acquisizione di cromosomi. Spesso queste mutazioni si trovano nei geni coinvolti nel riparo del DNA, in oncogeni o anche nei geni coinvolti nella corretta separazione e distribuzione dei cromosomi nelle cellule figlie durante la mitosi (Cahill et al., 1998). Nei tumori, esistono due tipi principali di instabilità genomica: l’instabilità cromosomica o CIN (Chromosomal INstability), la più diffusa nella maggior parte delle neoplasie, e l’instabilità da microsatellite o MIN (Microsatellite INstability). In alcuni tumori, come quelli del colon-retto, si riscontra anche un terzo tipo di instabilità caratterizzato da un’alta frequenza di mutazioni puntiformi (Al-Tassan et al., 2002). Tumori CIN possiedono estesi cambiamenti nel cariotipo: le cellule mostrano diversi gradi di aneuploidia, con perdita o acquisizione di cromosomi, fusioni di bracci di cromosomi diversi, amplificazioni, delezioni, traslocazioni o inversioni. I tumori MIN, invece, mostrano sempre un cariotipo normale (Aaltonen et al., 1993). 90 3.3 Instabilità genomica e cancro Che cosa determina l’instabilità genomica? Nei tumori ereditari, la presenza di instabilità è spesso associata a mutazioni in geni coinvolti nel riparo del danno al DNA. Il malfunzionamento dei meccanismi di riparo rende il DNA più suscettibile ad accumulare danni, aumentando la frequenza di mutazioni in un circuito che si autoalimenta e che provoca in ultima analisi una maggiore instabilità genomica. Nei tumori sporadici (non a base ereditaria), che rappresentano la maggior parte dei tumori umani, l’instabilità genomica è spesso dovuta alla presenza di un gene “mutatore” oppure all’aumentato stress associato al processo replicativo. Nel primo caso, è la presenza di geni mutati in cellule pre-neoplastiche che causa un aumento del tasso di insorgenza di mutazioni spontanee, che a loro volta stimolano l’acquisizione di ulteriori danni. Un caso esemplare è quello dei tumori ereditari, in cui le mutazioni trasmissibili da una generazione all’altra sono spesso a carico di geni coinvolti nel riparo del DNA. Nel secondo caso, molto comune nei tumori non ereditari, l’instabilità può essere conseguenza dell’aumentata e incontrollata frequenza di divisione Figura 3.2 Tumori CIN e MIN Nell’illustrazione sono rappresentati i due tipi principali di instabilità genomica: l’instabilità cromosomica (CIN) che causa ampie alterazioni del cariotipo e l’instabilità da microsatellite (MIN) con un cariotipo normale. 91 3.3 Instabilità genomica e cancro cellulare, causata per esempio da mutazioni che attivano oncogeni (come Ras). L’iper-proliferazione mette a dura prova le strutture necessarie per la replicazione del DNA, causando rotture del doppio filamento e facilitando riarrangiamenti anomali (Halazonetis et al., 2008). Un esempio di questa situazione, detta anche “stress replicativo” è mostrata nella Figura 3.3. Recentemente, gli scienziati hanno scoperto un terzo meccanismo che può contribuire alla genesi dell’instabilità genomica: l’alterazione dei telomeri. I telomeri sono le estremità dei cromosomi (paragrafo 2.4): regolano il numero di divisioni e la senescenza cellulare e sono essenziali per proteggere la struttura del cromosoma. Quando la funzione dei telomeri è compromessa, essi diventano oggetto dei processi di riparo del DNA, tra cui la ricombinazione non omologa (box 3.2). Questo può causare fusioni e riarrangiamenti tra le estremità di cromosomi diversi, modificando il cariotipo e favorendo la progressione neoplastica. Anche l’alterazione dei telomeri è spesso associata a mutazioni nei geni coinvolti nel metabolismo del DNA, nei meccanismi di riparo e di ricombinazione (Feldser et al., 2003). Box 3.2 - La ricombinazione non omologa La ricombinazione non omologa, NHEJ (NonHomologous End Joining) è una della vie cellulari di riparo del danno al DNA e in particolare delle lesioni a doppio filamento. Le estremità dei filamenti possono essere legate anche in assenza di sequenze di DNA omologhe che ne guidino il processo. È un meccanismo molto importante, ad esempio, nella maturazione dei linfociti: attraverso la NHEJ si crea la grande varietà di anticorpi specifici. Quando non controllato, la NHEJ può unire pezzi di DNA di cromosomi diversi per esempio a livello dei telomeri. 92 3.3 Instabilità genomica e cancro Figura 3.3 Stress replicativo Immagini della replicazione del DNA ottenute tramite microscopia elettronica a trasmissione. In A, una normale forca di replicazione il DNA parentale (P) è copiato in due molecole identiche (R) e si nota una tipica “giunzione a tre”. In B, un riarrangiamento del DNA durante la replicazione porta alla formazione di un quarto frammento (freccia) in cui si evidenzia l’aspetto anomalo a “zampa di gallina”. Queste particolari strutture sono un segnale di stress replicativo. Autore: Ralph Zellweger. Laboratorio diretto da Massimo Lopes, Istituto di Ricerca Molecolare sul Cancro, Università di Zurigo 93 3.4 I checkpoint e il “controllo qualità” del genoma I checkpoint sono meccanismi molecolari di controllo del ciclo cellulare (box 2.1) che permettono di procedere alla fase successiva solo se quella precedente è stata completata correttamente. Strettamente connessi con i checkpoint del ciclo cellulare, o intrinseci, e con i quali condividono in buona parte vie biochimiche e proteine coinvolte, vi sono i checkpoint di risposta al danno al DNA, o estrinseci. Questi ultimi rilevano la presenza di un danno, ad esempio una rottura del doppio filamento del DNA, e agiscono arrestando la progressione del ciclo cellulare per permettere il riparo del DNA. I checkpoint del danno al DNA, sono anche in grado di innescare il processo di morte cellulare programmata o di senescenza (paragrafo 2.4) quando i danni al DNA sono troppo estesi e non possono essere riparati. Questi meccanismi sono di fatto messi in atto per salvaguardare l’integrità genomica e non sorprende che proteine coinvolte nei checkpoint siano frequentemente mutate nei tumori. Mutazioni in queste stesse proteine inoltre sono la causa molecolare di alcune malattie genetiche rare, chiamate sindromi da instabilità genomica. I pazienti affetti da queste malattie hanno spesso un rischio molto maggiore di sviluppare tumori; le proteine dei checkpoint e del riparo del danno al DNA costituiscono quindi un legame molecolare, a prima vista insospettabile, tra alcune malattie rare e 94 3.4 I checkpoint e il “controllo qualità” del genoma suscettibilità al cancro. Quali sono i meccanismi biologici che regolano il checkpoint del danno al DNA? I primi attori che entrano in gioco sono dei veri e propri “sensori”(come ad esempio la proteina NBS1 nel caso di danni al DNA a doppio filamento), che si legano al DNA nel punto in cui è stato danneggiato. I sensori a loro volta assemblano complessi proteici che funzionano da “trasduttori”, come le chinasi ATM e ATR, attivando a cascata una serie di “effettori”, con l’aiuto di proteine “mediatrici”. Due importanti target di ATM e ATR, sono le chinasi Chk1 e Chk2, che a loro volta agiscono modulando l’attività dell’oncosoppressore per antonomasia, p53 (che può essere direttamente controllato anche da ATM). p53 è un proteina chiave che orchestra una serie di risposte parallele. Da un lato blocca la progressione del ciclo cellulare, stimolando la produzione di regolatori negativi del ciclo, e dall’altro attiva le vie di riparo del DNA. Figura 3.4 Il checkpoint da danno al DNA A seguito di un danno al DNA la cellula attiva una cascata di trasduzione del segnale per trasferire il messaggio dai sensori agli effettori. Alcune delle proteine che intervengono nel processo sono evidenziate a lato. 95 3.4 I checkpoint e il “controllo qualità” del genoma Tutte le vie effettrici agiscono retroattivamente sul checkpoint: se il danno è stato riparato, il checkpoint viene “spento” e la cellula può proseguire nel suo ciclo. Se il danno non è stato riparato, il checkpoint persiste e, in certi casi, conduce alla morte cellulare programmata. Negli ultimi vent’anni gli scienziati hanno scoperto un altro livello di complessità nei meccanismi di regolazione dell’instabilità genomica: le alterazioni epigenetiche. Si tratta di modificazioni chimiche della cromatina che non cambiano la sequenza di basi del DNA ma che sono cruciali nel mantenere la corretta architettura dei cromosomi e nel regolare l’espressione genica e sono implicate attivamente nei meccanismi di riparo del DNA (Dinant et al., 2008). Lo studio delle alterazioni epigenetiche nell’instabilità genomica rappresenta un campo in fervida espansione della ricerca oncologica dei prossimi anni. Figura 3.5 La risposta al danno al DNA Immagine al microscopio confocale di nuclei di fibroblasti murini trattati con radiazioni ionizzanti (B) e non trattati (A). In rosso fosfo-ATM evidenzia l’attivazione di ATM dopo danno al DNA, in blu sono colorati i nuclei con il DAPI. Autore: Ubaldo Gioia, ricercatore IFOM. In caso di danno prolungato e irreversibile, p53 innesca la senescenza o addirittura l’apoptosi. p53 è dunque al crocevia di importanti vie biochimiche che mantengono e preservano la stabilità genetica della cellula; per questo ruolo p53 è denominata “il guardiano del genoma” ed è il più efficace oncosoppressore. Non sorprende, quindi, che in più del 50% dei tumori umani p53 sia mutato e inattivato (Harris et al., 1996). 96 3.5 Come si studia il danno al DNA Gli scienziati utilizzano diversi approcci sperimentali per studiare questo complesso fenomeno. Tra quelli più utilizzati ci sono: • Il Comet assay Questo saggio si usa per visualizzare e quantificare perdita di porzioni di cromosomi (Azqueta and Collins, 2013). I nuclei cellulari isolati e interi vengono fatti migrare in un campo elettroforetico. Se il DNA è integro, il nucleo si sposta come una sfera compatta; se sono presenti frammenti o porzioni di cromosomi liberi, essi migrano più velocemente formando una “coda” intorno al nucleo. La lunghezza e l’intensità della cometa sono proporzionali all’entità del danno al DNA. 3.6 Comet assay Un esempio di comet assay realizzato in fibroblasti umani, non trattati (A) e trattati con radiazioni ionizzanti (B). Il nucleo della cellula trattata (B) forma una coda, dovuta alla frammentazione del materiale genetico. Autore: Aurora Cerutti, ricercatrice IFOM 97 3.5 Come si studia il danno al DNA • Il microarray Analisi molecolari a larga scala di tutto il genoma, come nel caso dei microarray (Kirby et al., 2007). Si tratta di microchip di pochi centimetri su cui vengono depositate tutte le sequenze del genoma di un organismo e con i quali è possibile identificare e quantificare mutazioni, sia puntiformi che cromosomiche presenti nel proprio campione. • L’elettroforesi in due dimensioni (2D-gel electrophoresis) Figura 3.5 La risposta al danno al DNA Immagine al microscopio confocale di nuclei di fibroblasti murini trattati con radiazioni ionizzanti (B) e non trattati (A). In rosso fosfo-ATM evidenzia l’attivazione di ATM dopo danno al DNA, in blu sono colorati i nuclei con il DAPI. Autore: Ubaldo Gioia, ricercatore IFOM. Molecole di DNA, cariche negativamente, sono fatte migrare su un gel di agarosio tramite due campi elettrici perpendicolari (Lao et al., 2013). Le molecole si muovono e si distribuiscono nello spazio bidimensionale secondo la loro conformazione, che a sua volta dipende dalle strutture tridimensionali dell’elica del DNA. Questa tecnica è utilizzata per identificare riarrangiamenti e strutture anomale nelle molecole di DNA. Figura 3.7 Microarray L’immagine rappresenta il profilo di espressione dei geni all’interno di cellule eucariotiche di mammifero. Nel riquadro: l’ingrandimento mostra come la diversa luminosità corrisponda a un differente livello di espressione genica. In blu i geni spenti e in rosso quelli accesi. Autore: Microarray Unit IFOM. 98 3.5 Come si studia il danno al DNA Grazie a questa proprietà si possono facilmente ottenere mutanti, singoli o multipli, nelle proteine dei checkpoint e del riparo al DNA e si possono indagare a fondo i meccanismi nei quali sono coinvolti. • Microscopia elettronica Microscopia elettronica, che tramite l’utilizzo di fasci di elettroni che colpiscono il campione da analizzare, consente di studiare strutture nell’ordine di pochi nanometri (un miliardesimo di metro). Si può così visualizzare la struttura del DNA con estremo dettaglio, evidenziando anomalie come forche, bolle e riarrangiamenti (Lopes, 2009). Le metodologie appena descritte possono essere applicate per studiare il danno al DNA in cellule di qualunque origine; ad esempio, linee cellulari umane in coltura, come le HeLa, ma anche di organismi modello come il verme Caenorhabditis elegans e soprattutto il lievito Saccharomyces cerevisiae, che rappresenta l’organismo di elezione per studiare il ciclo cellulare e la risposta al danno al DNA. I checkpoint e le vie di riparo del DNA sono infatti così essenziali per la vita della cellula da essere rimasti sostanzialmente invariati durante l’evoluzione, anche negli eucarioti più semplici come il lievito. Questo organismo presenta molteplici vantaggi, tra cui un ciclo cellulare molto veloce e la possibilità di crescere come organismo aploide. 99 3.6 Mettiti alla prova! In questo paragrafo, puoi ripercorrere i principali temi affrontati nel capitolo 3 e mettere alla prova le tue conoscenze tramite domande specifiche e interattive (nella versione per i-pad). Non solo, se vuoi sperimentare in prima persona alcuni dei fenomeni descritti, sono disponibili diversi protocolli sperimentali da realizzare facilmente a casa o a scuola, utilizzando gli stessi metodi e modelli sperimentali dei ricercatori, dal lievito Saccharomyces cerevisiae alla radice di cipolla (Allium cepa). 100 3.6 Mettiti alla prova! 101 3.6 Mettiti alla prova! 102 3.6 Mettiti alla prova! 103 3.6 Mettiti alla prova! 104 3.6 Mettiti alla prova! 105 3.6 Mettiti alla prova! 106 3.6 Mettiti alla prova! 107 3.6 Mettiti alla prova! Risposte: 1: D 2: C 3: B 4: B 5: C 6: B 7: B 8: C 9: D 10: C 11: C 12: D 13: D 14: C 15: A 108 3.6 Mettiti alla prova! 109 3.6 Mettiti alla prova! 110 3.6 Mettiti alla prova! 111 3.6 Mettiti alla prova! 112 3.6 Mettiti alla prova! A B C D 113 A B C D 3.6 Mettiti alla prova! A B C D 114 A B C D 3.6 Mettiti alla prova! A B C D 115 A B C D 3.6 Mettiti alla prova! Risposte: 1: D 2: A 3: A 4: C 5: D 6: B 9: C 10: B 11: B 12: A 13: C 14: D 15: C 116 7: 8: 4 PROLIFERARE ANCHE SENZA SEGNALI DI CRESCITA “The appreciation of the nearuniversal role that receptor tyrosin kinases (RTKs) have in human cancer has cast a spotlight on this important class of mitogenic receptors and has effected an explosion of interest in RTKs as therapeutic targets” Casaletto e McClatchey, 2012 117 4.1 Come si trasmette il segnale di proliferazione? La proliferazione di cellule all’interno di un tessuto è un processo finemente regolato, che dipende dall’integrazione di diversi segnali provenienti dall’ambiente extracellulare (paragrafo 2.1). Ciò assicura che la divisione avvenga solo in caso di effettiva necessità, ad esempio per rimpiazzare delle cellule vecchie o a seguito di una ferita. Uno degli eventi che attivano la proliferazione è il legame tra fattori di crescita e recettori di membrana. Da qui il segnale si trasmette a staffetta fino al nucleo attraverso modificazioni biochimiche che coinvolgono una varietà di enzimi e secondi messaggeri. Figura 4.1 Un esempio di proliferazione cellulare Galleria fotografica di cellule epiteliali umane (HeLa) in coltura. Il primo giorno sono state depositate in piastra circa 500.000 cellule e la loro proliferazione è stata seguita per 5 giorni. 118 4.1 Come si trasmette il segnale di proliferazione? Molte delle proteine coinvolte nella trasmissione del segnale sono note da decine di anni, ma solo recentemente sono stati scoperti alcuni dei meccanismi molecolari che regolano la loro attività, come pure il ruolo che svolgono in altri processi quali migrazione e differenziamento (Lemmon and Schlessinger, 2010; Witsch et al., 2010). Una volta innescata la cascata, la cellula è anche in grado di spegnerla prontamente: ciò è importante sia per smorzare il segnale, evitando l’attivazione in risposta a minime fluttuazioni della concentrazione di ligando, sia per scongiurare la sovrastimolazione del sistema, un evento particolarmente pericoloso che porta la cellula a crescere in modo incontrollato. Uno dei protagonisti della trasmissione del segnale è RAS, un vero e proprio interruttore molecolare in grado accendersi per il passaggio del segnale e di spegnersi rapidamente bloccando il flusso di informazioni biochimiche. Quando RAS si attiva, nella cellula parte una vera e propria cascata di eventi enzimatici che amplificano il segnale e inducono la trascrizione di nuovi geni che promuovono la proliferazione cellulare (Roberts and Der, 2007; Morrison, 2012). I componenti della cascata a valle di RAS sono chinasi, enzimi che utilizzano ATP per trasferire un gruppo fosfato ai rispettivi bersagli molecolari. La fosforilazione è quindi il segnale biochimico che attiva ciascuno di questi enzimi e che permette la trasmissione a staffetta del segnale di proliferazione. (Roberts and Der, 2007; Morrison, 2012). Come viene spento il segnale? Tutto ruota attorno al legame ligando-recettore che, direttamente o indirettamente, innesca anche una serie di processi, che portano all’arresto del segnale. Questo fenomeno è detto feedback negativo. Il primo processo, che si verifica pochi minuti dopo l’attivazione del recettore, è la defosforilazione, ovvero la rimozione dei gruppi fosfato dal recettore e dagli altri componenti della cascata. Nei minuti successivi entra in gioco un altro processo, l’endocitosi, che permette di internalizzare i recettori attivati, eliminandoli dalla membrana cellulare e favorendone la successiva degradazione. Circa quaranta minuti dopo l’attivazione del recettore interviene l’attenuazione, un meccanismo lento di spegnimento del segnale. Gli attenuatori sono proteine la cui espressione è stimolata dalla cascata 119 4.1 Come si trasmette il segnale di proliferazione? di trasduzione del segnale e possono agire a diversi livelli, ad esempio riducendo l’attività di alcune chinasi (Lemmon and Schlessinger, 2010). Rita Levi-Montalcini, cancro e fattori di crescita La scoperta di una correlazione tra cancro e fattori di crescita risale agli anni ’50, quando la Montalcini lavorava nel laboratorio di Viktor Hamburger a St. Louis. Alla fine degli anni ’40 Elmer Bueker, uno studente di dottorato nel laboratorio di Hamburger scopre che l’innesto di cellule tumorali di sarcoma murino a livello dei gangli di un embrione pollo provoca una crescita sorprendente delle fibre nervose dirette verso la massa tumorale (Bueker, 1948). Insieme al collega Stanley Cohen, la Montalcini porta avanti le ricerche di Bueker spinta dall’interesse verso questo misterioso fattore in grado di stimolare la crescita dei neuroni. Nel 1954 riescono a isolare la molecola: la chiamano Nerve Growth Factor (NGF), il primo fattore di crescita a essere identificato, una pietra miliare nella storia della biologia. La scoperta, riconosciuta anche con il Nobel nel 1986, ha aperto la strada agli innumerevoli studi che negli anni a seguire hanno investigato le interazioni tra cancro e fattori di crescita. 120 4.2 Come viene regolata la proliferazione? Gli organismi multicellulari utilizzano una varietà di meccanismi per modulare finemente la proliferazione cellulare in base alle esigenze specifiche dei tessuti. Un caso esemplare che ricapitola molti di questi meccanismi è la regolazione del segnale di proliferazione trasmesso dal recettore per l’EGF (Epidermal Growth Factor Receptor, EGFR). EGFR è un recettore tirosinchinasico appartenente alla famiglia delle proteine recettoriali ERBB. Quando è presente il suo ligando, EGFR si attiva e accende una cascata di trasduzione del segnale che induce la cellula a dividersi e migrare. È coinvolto nello sviluppo di moltissimi tumori, come il cancro al polmone, il cancro al seno e il glioblastoma ed è bersaglio di terapie antitumorali mirate già in uso nella pratica clinica (paragrafo 4.6) (Hynes and MacDonald, 2009; Zhang et al., 2007). 121 4.2 Come viene regolata la proliferazione? In cellule normali gli elementi che controllano l’attivazione di un recettore di membrana sono due: 1. La quantità di fattore di crescita a cui una cellula è esposta, che dipende dalla velocità di sintesi del ligando, dalla sua maturazione e dal trasporto. Come molti altri fattori di crescita, i ligandi dei recettori ErbB sono sintetizzati sotto forma di precursori inattivi: inizialmente sono proteine transmembrana, poi attivate da specifiche proteasi, proteine che tagliano i precursori liberando nell’ambiente il ligando. Quest’ultimo può stimolare i recettori della cellula stessa, di cellule vicine o anche molto lontane, nel caso in cui venga rilasciato nel flusso sanguigno e linfatico. Queste tre modalità di stimolazione sono dette rispettivamente autocrina, paracrina ed endocrina. Alcuni fattori di crescita, come EGF, possono agire attraverso tutti e tre i meccanismi, altri invece prediligono una modalità rispetto alle altre (Singh and Harris, 2005). Figura 4.2 Le proteine ERBB e i loro ligandi La famiglia ERBB è costituita da quattro recettori: EGFR (ERBB1), ERBB2, ERBB3 e ERBB4. I ligandi identificati per ogni recettore sono riportati in figura nel pannello A. L’unico recettore per il quale non è stato individuato alcun ligando è ERBB2. In B, è illustrata la dimerizzazione tra due proteine ERBB. In C, l’attivazione della cascata di trasduzione del segnale. A differenza degli altri membri della famiglia, ERBB3 possiede un dominio tirosin-chinasico inattivo. EGF, Epidermal Growth Factor; TGF-α, Transforming Growth Factor α; AR, amphiregulin; BTC, betacellulin; HB-EGF, Heparin-Binding Growth Factor; EPR, epiregulin, NGR, neuregulin. 122 4.2 Come viene regolata la proliferazione? Il legame del ligando modifica la struttura del recettore che passa alla conformazione aperta. Solo così il complesso EGF-EGFR può formare dimeri attivi che avviano la cascata di trasduzione del segnale (Schlessinger 2002, Zhang et al., 2006). Maggiore è il numero di recettori in superficie e più alta sarà la probabilità che due recettori che hanno legato l’EGF si incontrino e, formando dimeri, attivino la cascata a valle. Figura 4.2 Il recettore del fattore di crescita epidermale (EGFR) Immunofluorescenza di cellule epiteliali umane (HeLa) in cui EGFR è stato colorato in verde e osservato al microscopio ottico. La proteina si accumula a livello della membrana plasmatica. 2. Il numero di recettori presenti sulla superficie della cellula. Nel caso di EGFR questo è un punto fondamentale nella regolazione dell’attivazione. In assenza di EGF, infatti, i recettori presenti sulla membrana hanno una particolare struttura, detta conformazione chiusa, che li rende incapaci di catturare il ligando e di attivare la cascata di trasduzione del segnale. Durante la progressione tumorale le cellule acquisiscono la capacità di evadere i meccanismi che controllano la trasmissione del segnale di proliferazione. Come ci riescono? Da diversi studi si è visto che le cellule tumorali possono attuare strategie che agiscono a livello del ligando (paragrafo 4.3), del recettore (paragrafo 4.4) e/o delle proteine della cascata (paragrafo 4.5) (Witsch et al., 2010). 123 4.3 Strategia 1: alterare il ligando Una delle strategie delle cellule tumorali per acquisire l’indipendenza dai segnali di crescita è l’attivazione di un circuito di stimolazione autocrina, attraverso la produzione contemporanea di un fattore di crescita e del suo recettore. In questo modo la cellula non ha più bisogno che l’organismo fornisca i segnali che sostengono la crescita perché essa stessa diventa capace di produrli. Alcune cellule tumorali, come quelle di certi tipi di tumore al seno, producono sia EGFR sia i suoi ligandi, come HB-EGF e TGF-α. Il risultato è un circuito che si autoalimenta, in cui l’attivazione di EGFR accende una cascata intracellulare che a sua volta induce l’espressione HB-EGF e TGF-α. Queste molecole vengono rilasciate nel microambiente e si legano ai recettori di superficie della cellula che li ha prodotti attivando una nuova cascata del segnale (Schulze et al., 2001). In alcune cellule tumorali questo circuito autocrino viene realizzato anche agendo sulla maturazione del ligando: alterando l’espressione delle proteasi che tagliano i precursori dei fattori di crescita, le cellule tumorali si assicurano il continuo rilascio nell’ambiente dei ligandi necessari a sostenere la loro crescita. In altri casi i segnali che sostengono la crescita del tumore sono rilasciati dalle cellule non tumorali vicine, come i fibroblasti, le cellule endoteliali e del sistema immunitario che instaurano 124 4.3 Strategia 1: alterare il ligando con il tumore un dialogo indispensabile per la sua sopravvivenza. aggressiva responsabile di molte morti (9000 decessi l’anno solo in Italia, I numeri del cancro in Italia 2013). Nei pazienti di mCRPC le cellule tumorali rilasciano alcuni mediatori che stimolano lo stroma a creare un microambiente “accogliente” per il tumore. Le cellule dello stroma rispondono quindi producendo decine fattori di crescita, tra cui IGF-1, EGF e molti altri, che promuovono la proliferazione del tumore. Attraverso questo circuito le cellule tumorali e quelle dello stroma co-evolvono fino a giungere alla metastasi (Sluka and Davis, 2013). Box 4.1 - TGF-α e EGFR, l’accoppiata vincente Figura 4.4 Tumore alla prostata tessuto prostatico umano normale (A) e tumorale (B) colorati con ematossilinaeosina. L’ematossilina evidenzia i nuclei e la membrana plasmatica in viola, l’eosina colora in rosa il citoplasma. Le immagini dei campioni sono state acquisite al microscopio ottico con il Sistema Digitale Aperio Scanscope. Autore: Giovanna Jodice, Molecular Pathology Unit, Molecular Medicine for Care Program, Istituto Europeo di Oncologia. Questo meccanismo caratterizza ad esempio il carcinoma metastatico della prostata (mCRPC, metastatic Castration-Resistant Prostate Cancer), una forma di cancro alla prostata particolarmente 125 Uno dei fattori di crescita meglio caratterizzato per il suo ruolo nel processo di tumorigenesi è TGF-α, un ligando di EGFR. In molti i carcinomi TGF-α è espresso insieme a EGFR e, soprattutto nel cancro al polmone, all’ovario e al colon, questo correla con una prognosi negativa. Nel carcinoma della prostata l’espressione di TGF-α sembra modificarsi al progredire della malattia: nelle fasi iniziali del tumore è espresso principalmente dalle cellule dello stroma, mentre negli stadi più avanzati sono le cellule stesse del tumore a produrlo e processarlo (Scher et al., 1995). 4.4 Strategia 2: alterare il recettore I recettori dei fattori di crescita sono proteine di membrana dotate di una porzione extracellulare che comunica con l’esterno attraverso il legame con i ligandi, di una parte transmembrana e di un dominio intracellulare capace attivare la cascata di trasduzione. Nei recettori tirosin-chinasici la trasmissione del segnale avviene attraverso il trasferimento di un gruppo fosfato sulle tirosine dei loro substrati. La prima evidenza che un recettore tirosin-chinasico poteva indurre trasformazione neoplastica risale a trent’anni fa: è il 1984 e su Nature viene pubblicata la scoperta della corrispondenza tra il prodotto del gene v-erbB, un oncogene proveniente dal virus dell’eritroblastosi aviaria, e una forma di EGFR priva del dominio extracellulare. La particolarità di questo recettore tronco è che, mancando la porzione che comunica con l’esterno, il dominio tirosin-chinasico intracellulare non è più soggetto a controllo da parte del ligando e di conseguenza risulta sempre attivo (Downward et al., 1984). Le alterazioni dei recettori tirosin-chinasici sono molto comuni nei tumori e sono principalmente causate da due diversi meccanismi: sovraespressione e mutazioni attivanti. La sovraespressione può essere dovuta a un’aumentata produzione della proteina oppure dall’amplificazione della porzione di cromosoma su cui si trova il gene. 126 4.4 Strategia 2: alterare il recettore Box 4.2 - ErbB2, gli eterodimeri e il tumore al seno ErbB2 è l’unico recettore della famiglia ErbB per il quale non è stato identificato alcun ligando. Per attivare la cascata di traduzione del segnale ErbB2 deve interagire con altri membri della famiglia formando degli eterodimeri. Una volta internalizzati, gli eterodimeri di ErbB2 non entrano nella via degradativa ma, al contrario, tornano in superficie e continuano a segnalare anche dai compartimenti intracellulari. Nei pazienti che sovraesprimono ErbB2, quindi, la cascata che trasmette il segnale di proliferazione è sempre accesa (Harari and Yarden, 2000) e sostiene attivamente la crescita del tumore. Nel tumore al seno ad esempio l’amplificazione del gene erbB2 è frequente, riscontrabile nel 25% circa di tutti i casi, e correla con una minore sopravvivenza dei pazienti e un’incidenza più alta di recidive e di metastasi. Mutazioni attivanti sono state identificate invece nel glioblastoma, un tumore del cervello molto aggressivo. Nel 35% dei casi, infatti, i pazienti presentano amplificazioni e mutazioni del gene EGFR con conseguente sovraespressione della forma mutata e di quella normale. La mutazione più comune trovata nel glioblastoma è la variante III di EGFR (EGFR vIII), che manca di una porzione nella regione extracellulare. Figura 4.5 Glioblastoma Immagine al microscopio di glioblastoma (A) e tessuto nervoso normale (B) provenienti dallo stesso paziente. I tessuti sono trattati con ematossilina-eosina. Il tessuto tumorale è caratterizzato dalla perdita dell’architettura e dalla presenza di un maggior numero di cellule. Autore: Giovanna Jodice, Molecular Pathology Unit, Molecular Medicine for Care Program, Istituto Europeo di Oncologia. 127 4.4 Strategia 2: alterare il recettore Questa mutazione conferisce al recettore una bassa ma costante attività tirosin-chinasica, che non dipende più dalla presenza del suo ligando. In queste condizioni il recettore mutato è permanentemente in uno stato “acceso” e può trasmettere un segnale continuo di proliferazione, pur non attivando efficacemente i processi di degradazione e spegnimento (Grandal et al., 2007). Lo stesso meccanismo sembra verificarsi nel cancro al polmone: in questo caso le mutazioni riscontrate in EGFR sono completamente diverse, perché localizzate nella porzione intracellulare, ma l’effetto è analogo. Anche qui la mutazione provoca l’attivazione basale del recettore, adeguata a stimolare debolmente la cascata di segnalazione a valle ma insufficiente a reclutare le proteine che indirizzano il recettore verso la via degradativa. Figura 4.6 EGFR vIII La mutazione EGFR vIII, riscontrata spesso nel glioblastoma, produce un recettore tronco privo del dominio che lega il ligando. La dimerizzazione tra recettori mutanti induce una debole ma costante attivazione indipendente dalla presenza dei segnali di crescita. 128 4.5 Strategia 3: alterare la cascata di trasduzione Nei paragrafi precedenti abbiamo visto come le cellule tumorali possono crescere anche in assenza di segnali di crescita alterando la quantità di ligando disponibile (paragrafo 4.3) o modificando il recettore (paragrafo 4.4). Quali altre strategie mettono in atto per sfuggire ai controlli sulla proliferazione? In oltre un terzo di tutti i tumori a essere mutate sono le proteine della cascata di trasduzione (Forbes et al., 2011; Forbes et al., 2014): rendendole sempre attive, le cellule tumorali mantengono le cascate di proliferazione accese indipendentemente dalla presenza dei segnali di crescita. La prima mutazione a carico di un trasduttore è stata identificata all’inizio degli anni ’80. In quel periodo erano stati appena scoperti gli oncogeni, cioè geni in grado di indurre la formazione di un tumore. Se ne conoscevano circa una decina e uno di questi era ras: omologo di un gene proveniente da un virus di sarcoma murino, era stato isolato da cellule T24 di carcinoma umano della vescica. Nella cellula RAS funziona da interruttore molecolare, accendendosi in risposta agli stimoli esterni e spegnendosi successivamente per bloccare la trasmissione (paragrafo 4.1). Nel 1982 due gruppi di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology e del National Institute of Health, guidati rispettivamente da Robert Weinberg e Mariano Barbacid, scoprirono una mutazione che rendeva la proteina 129 4.5 Strategia 3: alterare la cascata di trasduzione RAS permanentemente accesa (Reddy et al., 1982; Tabin et al., 1982). Tale mutazione, che coinvolge l’aminoacido in posizione 12, è stata poi ritrovata con alta frequenza anche in svariati tumori, come il cancro al polmone (box 4.3)e al pancreas. Altri attori cruciali sono RAF, mutata nel 40% di tutti i melanomi, AKT, PI3K e PTEN, tutte proteine che intervengono nella cascata di trasmissione del segnale di proliferazione o in grado di conferire resistenza a morte cellulare, un processo fisiologico essenziale per mantenere l’omeostasi di un tessuto ed eliminare cellule alterate. Un elenco completo delle mutazioni associate a un particolare tipo di cancro può essere ottenuto esplorando database pubblici come quello del Sanger Center che registra e aggiorna periodicamente una banca dati globale di tutte le mutazioni ad oggi individuate nei tumori (http:// sanger.ac.uk/cosmic). Figura 4.7 Mutazioni G12C di RAS Il grafico rappresenta il numero totale di tumori depositati nel database COSMIC (Catalogue Of Somatic Mutations In Cancer) nei quali è stata riscontrata la mutazione G12C nel gene ras. I dati si riferiscono al V71 release e sono della Genome Research Limited. 130 4.5 Strategia 3: alterare la cascata di trasduzione Box 4.3 - Quando il fumo fa la differenza Il 16% dei carcinomi al polmone non a piccole cellule (Non-Small Cell Lung Carcinoma, NSCLC) presenta mutazioni di Ras nella glicina in posizione 12. Le due mutazioni più diffuse sono G12C e G12V, in cui la glicina è sostituita dalla cisteina o dalla valina: esse sono attribuibili al consumo di tabacco, che può indurre la modificazione della guanina del codone 12 in citosina o in timina (Ahrendt et al., 2001). Alcune molecole presenti nel fumo di sigaretta, come il benzopirene e le nitrosamine, formano dei complessi con il DNA che, se non riparati, provocano queste specifiche mutazioni (Pfeifer et al., 2002). Nei pazienti di NSCLC che non fumano le mutazioni G12C e G12V sono rarissime (Riely et al., 2008). Studi condotti in modelli animali hanno dimostrato che esiste una relazione di causa-effetto tra queste due mutazioni di Ras e l’insorgenza del cancro al polmone (Singh et al., 2010). 131 4.6 Bloccare la proliferazione: approcci terapeutici mirati La comprensione sempre più dettagliata delle lesioni molecolari specifiche delle cellule tumorali ha permesso lo sviluppo di terapie “mirate”, che hanno come bersaglio le proteine coinvolte nella crescita del tumore e dalle quale il tumore dipende. Questi nuovi approcci terapeutici vanno nella direzione di una medicina sempre più personalizzata (paragrafo 1.9), dato che agiscono in modo specifico solo sui pazienti il cui tumore possiede il bersaglio verso cui è stato disegnato il farmaco. Quali sono i vantaggi di queste terapie? Colpendo solo le cellule tumorali, questi farmaci sono in genere meglio tollerati rispetto alla chemioterapia e, inoltre, poiché sono generalmente formulati sotto forma di compresse, consentono al paziente di curarsi direttamente a casa propria, migliorando la sua qualità di vita. Alcuni degli approcci terapeutici mirati approvati nella pratica clinica utilizzano inibitori tirosin-chinasici (TKI) oppure anticorpi diretti verso proteine di membrana. Nel settembre 1998 negli Stati Uniti la FDA (Food and Drug Administration) ha approvato per la prima volta l’utilizzo di un anticorpo, Trastuzumab, diretto contro il dominio extracellulare di ERBB2, come terapia antitumorale. 132 4.6 Bloccare la proliferazione: approcci terapeutici mirati Figura 4.6 EGFRvIII Le proteine ERBB sono bersaglio di terapie antitumorali mirate. La modalità di interazione tra alcuni di questi farmaci e i recettori ERBB è illustrata in figura. Nel 2000 Trastuzumab approda anche in Europa come farmaco d’elezione per curare alcune forme metastatiche di cancro al seno e allo stomaco che presentano l’amplificazione del recettore ERBB2. Dopo Trastuzumab sono stati approvati per la clinica altri anticorpi diretti contro recettori di fattori di crescita (tabella 4.1), tra cui Cetuximab, utilizzato nel cancro al colon-retto e del distretto cervicofacciale, e Nimotuzumab, impiegato nel tumore al pancreas. Entrambi sono efficaci solo nei pazienti che sovraesprimono il recettore, dal momento che legano EGFR e, con meccanismi differenti, ne inibiscono l’attivazione. I TKI sono piccole molecole che, rispetto agli anticorpi, hanno generalmente uno spettro più ampio di bersagli. Infatti, accanto agli inibitori specifici per un singolo recettore, come Gefitinib diretto contro EGFR e impiegato nel trattamento del cancro al polmone, ne sono stati sviluppati altri in grado di bloccare l’azione di più recettori contemporaneamente. Un esempio è Lapatinib, un inibitore di EGFR ed ERBB2, utilizzato per curare alcune forme di cancro al seno, efficace anche nel trattamento di tumori resistenti a Trastuzumab. Un’altra promettente classe di farmaci ancora in fase sperimentale comprende gli inibitori delle Heat Shock Proteins (HSPs), molecole che regolano la maturazione e la stabilità delle proteine. È stato dimostrato, infatti, che rimuovendo HSP90, la HSP specifica per le proteine ErbB, il recettore ERBB2 viene indirizzato verso la via degradativa e la cascata di trasduzione del segnale si spegne (Citri et al., 2004). L’elenco completo di tutti i farmaci antitumorali approvati in Europa è liberamente consultabile sul 133 4.6 Bloccare la proliferazione: approcci terapeutici mirati sito dell’EMA, (European Medicines Agency), l’agenzia europea per il farmaco (http://www.ema.europa.eu/ ema). Quali sono le limitazioni delle terapie mirate? Se per alcune neoplasie i bersagli molecolari contro cui disegnare un farmaco sono stati identificati già da tempo, come per ERBB2 nel cancro al seno, in altri casi i meccanismi alla base del processo di tumorigenesi non sono ancora noti. Ogni terapia mirata è accompagnata quindi da ingenti sforzi in ricerca di base, che ne giustificano i costi elevati e i lunghi tempi di realizzazione. Una volta identificato il bersaglio e sviluppato un farmaco specifico, il principale problema che si rileva è la farmacoresistenza. Questo fenomeno può avvenire attraverso due meccanismi: le cellule tumorali sviluppano mutazioni che modificano la proteina target così che non sia più colpita dal farmaco, oppure attivano una nuova via che permette al tumore di crescere indipendentemente dall’oncogene bersagliato. Per evitare che a causa della farmacoresistenza i pazienti non rispondano più alla terapia generalmente si combinano più farmaci mirati tra di loro oppure li si associa ai chemioterapici. La cura per i pazienti con cancro al seno metastatico in cui ERBB2 è sovraespresso ne è un esempio: la terapia mirata (Trastuzumab) è abbinata a un tradizionale chemioterapico (Docetaxel). L’eterogeneità del cancro è un altro fattore che rende difficile l’individuazione di farmaci mirati in grado di distruggere tutte le cellule tumorali: all’interno dello stesso tumore coesistono, infatti, cellule con diverse alterazioni e spesso non tutte sono sensibili ai trattamenti terapeutici (paragrafo 1.6). In questi casi la terapia eliminerà solo una parte delle cellule maligne, lasciando spazio ad altre cellule con un corredo di alterazioni molecolari leggermente differente che saranno responsabili della formazione delle recidive tumorali (paragrafo 1.8). Un’altra limitazione delle terapie mirate, infine, discende dalla difficoltà di sviluppare farmaci contro alcuni particolari bersagli che per la loro struttura o per la modalità di regolazione non sono facili da colpire. Questo è il caso di RAS: una proteina che, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, è coinvolta in oltre un quarto di tutti i tumori (paragrafo 4.5) e per la quale ad oggi, nonostante gli sforzi, non sono ancora stati generati inibitori efficaci. 134 4.6 Bloccare la proliferazione: approcci terapeutici mirati Tabella 4.1 Farmaci antitumorali mirati La tabella mostra i principali farmaci antitumorali mirati disponibili in Europa. Rielaborata da European Medicines Agency (http://www.ema.europa.eu/ema/). 135 4.7 Proliferazione delle cellule tumorali: dove sta andando la ricerca? La capacità di proliferare in assenza di segnali di crescita è stata la prima tra dieci caratteristiche delle cellule tumorali a essere individuata. Risale, infatti, a quasi trent’anni fa la scoperta che la proliferazione cellulare poteva essere indotta dalla sovraespressione dei recettori ERBB2 e EGFR (Di Fiore et al., 1987a; Di Fiore et al., 1987b) e che in diverse forme tumorali questi stessi recettori erano sovraespressi (Slamon et al., 1987; Yarden et al., 1988). Gli studi di genetica, biochimica, biologia cellulare e strutturale condotti in questi trent’anni hanno permesso di comprendere in dettaglio il funzionamento di molti recettori e hanno caratterizzato i principali meccanismi che trasmettono il segnale di crescita dalla membrana al nucleo. Le acquisizioni della ricerca di base, a loro volta, sono state indispensabili per aprire la strada alla ricerca traslazionale che hanno portato allo sviluppo dei farmaci antitumorali mirati descritti nel paragrafo precedente. E ora? Quali sono le prossime sfide? Uno degli obiettivi della ricerca oncologica è individuare nuovi bersagli molecolari coinvolti nella proliferazione cellulare. I recettori della famiglia ERBB non sono i soli a ricevere e trasmettere all’interno della cellula i segnali di crescita provenienti dall’ambiente. Sono circa venti le famiglie di recettori tirosin-chinasici scoperte fino ad oggi e solo per una parte di esse conosciamo i dettagli relativi a regolazione e 136 4.7 Proliferazione delle cellule tumorali: dove sta andando la ricerca? funzionamento. Lo studio di questi recettori e dei loro ligandi in tessuti sani e tumorali, oltre a fornire una chiave in più per la comprensione dei meccanismi che caratterizzano le cellule neoplastiche, potrebbe portare a identificare nuove proteine implicate nella proliferazione, utili per la ricerca clinica. L’altra area su cui si stanno dirigendo gli sforzi della comunità scientifica è la biologia dei sistemi, che punta a integrare e organizzare tutti i dati acquisiti dalla genetica, dalla biochimica e dalla biologia cellulare. Oggi, infatti, conosciamo a livello molecolare molti dei componenti della rete di segnalazione controllata dai recettori tirosin-chinasici, abbiamo informazioni sulla loro regolazione nel tempo e su come si muovono nello spazio della cellula. Ciò che manca è un quadro integrato in cui tutti questi dati trovino posto. La biologia dei sistemi mira a colmare questa lacuna: partendo dall’assunto che alcune importanti proprietà del sistema non possono essere dedotte dallo studio delle parti che lo compongono, essa costruisce modelli su larga scala che descrivono macro-processi cellulari, come ad esempio la proliferazione. Figura 4.9 Come procede la ricerca? La ricerca si può rappresentare come una piramide fondata sulla ricerca di base, che esplora i fenomeni biologici per capire perché e come avvengono. Alcune delle acquisizioni della ricerca di base possono essere impiegate per studi traslazionali, che possono dare origine a molecole, tecnologie e nuovi protocolli da impiegare nella pratica clinica. 137 4.7 Proliferazione delle cellule tumorali: dove sta andando la ricerca? Grazie a questi modelli matematici, lo scienziato può fare previsioni da sottoporre a prove sperimentali e, attraverso cicli reiterati di predizioni e prove, riesce ad affinare la comprensione del sistema biologico in esame. Alla frontiera dell’oncologia sperimentale si colloca quindi la biologia dei sistemi, che attraverso il suo approccio integrato promette di svelare nuove informazioni sui meccanismi che regolano la proliferazione delle cellule tumorali. 138 4.8 Mettiti alla prova! In questo paragrafo, puoi ripercorrere i principali temi affrontati nel capitolo 4 e mettere alla prova le tue conoscenze tramite domande specifiche e interattive (nella versione per i-pad). 139 4.8 Mettiti alla prova! 140 4.8 Mettiti alla prova! 141 4.8 Mettiti alla prova! 142 4.8 Mettiti alla prova! 143 4.8 Mettiti alla prova! 144 4.8 Mettiti alla prova! 145 4.8 Mettiti alla prova! 146 4.8 Mettiti alla prova! Risposte: 1: A 2: A 3: B 4: B 5: A 6: B 7: D 8: B 9: A 10: D 11: C 12: C 13: A 14: C 15: A 147 4.8 Mettiti alla prova! A A B B C C D 148 4.8 Mettiti alla prova! A B A C B D F C D 149 E 4.8 Mettiti alla prova! A B C D 150 4.8 Mettiti alla prova! A B A B C D C 151 4.8 Mettiti alla prova! A A B C D 152 B C 4.8 Mettiti alla prova! A B A B C D C D 153 4.8 Mettiti alla prova! A C B D 154 Farmacovigilanza A Fase I B Screening molecole C Fase III D Studi preclinici E Fase II F 4.8 Mettiti alla prova! Risposte: 1: A 2: A-C-B 3: C 4: B-F-C-D-E-A 5: B 6: B 7: B-C-A-D 8: B-A-C 9: D 10: B-C-A 11: B 12: C 13: A 14: C-E-B-D-F-A 15: A-C-B A B C 155 APPROFONDIMENTI 156 Approfondimenti Un modello… a righe: il pesce zebra per studiare l’angiogenesi L’angiogenesi è il processo di sviluppo di nuovi vasi sanguigni a partire da quelli preesistenti. Avviene fisiologicamente durante lo sviluppo embrionale per formare il sistema circolatorio dell’organismo ma è anche stimolata patologicamente dalle cellule cancerogene per sostenere la massa tumorale in crescita. Inoltre, il collegamento tra tumore e sistema vascolare favorisce la disseminazione di nuove masse tumorali in altri distretti corporei, le metastasi. L’angiogenesi è guidata da determinati segnali chimici, sia inibitori che attivatori. Si è scoperto che le cellule cancerose sintetizzano alcune categorie di attivatori di natura proteica, detti fattori di crescita. Questi vengono secreti nella matrice extracellulare e si legano ai loro specifici recettori situati sulle membrane delle cellule bersaglio, come le cellule dell’endotelio vascolare. All’interno delle cellule bersaglio, alcuni “ripetitori proteici” mediano il segnale del fattore di crescita per stimolare la divisione cellulare e dunque lo sviluppo di nuovi vasi. Il pesce zebra (nome scientifico Danio rerio) è un modello ricorrente in svariati settori della ricerca biomedica, poiché presenta molteplici vantaggi: basso costo, facilità di allevamento, velocità con cui i loro embrioni si sviluppano da zigote a individuo completamente formato e sequenziamento completo del genoma. Questi piccoli pesci d’acqua dolce presentano inoltre alcune caratteristiche particolarmente utili per lo studio dell’angiogenesi. Sono trasparenti durante gran parte dello sviluppo embrionale, il che rende ben osservabile al microscopio ottico lo sviluppo della rete vascolare, la sua struttura anatomica e il flusso sanguigno. La visibilità dei vasi e del flusso sanguigno può essere implementata attraverso l’ingegneria genetica. Le cellule dell’endotelio vascolare (un tessuto costitutivo dei vasi) e degli eritroblasti (precursori dei globuli rossi) possiedono proteine assenti in altre parti dell’organismo. Tramite le metodologie del DNA ricombinante è possibile rendere queste proteine fluorescenti, per seguire dal vivo e nel tempo le cellule del sistema vascolare. Inoltre, anche in stadi avanzati dello sviluppo embrionale, i pesci zebra non dispongono di un sistema immunitario maturo, perciò è possibile trapiantare cellule tumorali, anche umane, per osservare in un organismo complesso la regolazione dello sviluppo di una rete di vasi intorno al tumore e quali sostanze chimiche possano modificare tale processo. La comprensione delle interazioni tra le masse tumorali e il sistema vascolare costituisce uno strumento prezioso per la ricerca sul cancro e per la messa a punto di terapie antitumorali basate sull’inibizione dell’angiogenesi. Proprio per conoscere la via più indicata per la lotta ai tumori maligni è dunque indispensabile avvalersi di organismi complessi e il pesce zebra appare quanto mai adatto a tale scopo. 157 Jacopo Canonichesi Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti Questione di specificità: l’uso degli anticorpi nella ricerca Individuare nelle cellule tumorali le diverse mutazioni delle proteine che regolano i numerosi processi cellulari potrebbe fornire delle informazioni utili alla comprensione dell’oncogenesi e della progressione tumorale. Quali metodologie utilizzano i ricercatori per studiare le proteine? Alcune delle tecniche più diffuse e utilizzate in ricerca si basano sulle proprietà di particolari proteine, gli anticorpi, detti anche “immunoglobuline”. Il loro compito nell’organismo è quello di riconoscere e neutralizzare corpi estranei come virus e batteri, riconoscendone delle porzioni, gli antigeni, con estrema specificità. Essi sono infatti in grado di distinguere tra frammenti proteici che differiscono anche per un amminoacido. In ricerca vengono usati due tipologie di anticorpi: monoclonali (riconoscono solo una porzione dell’antigene) e policlonali (riconoscono diverse porzioni dell’antigene). Tra le svariate tecniche sperimentali per l’individuazione di proteine, una delle le più utilizzate è il Western blot che si basa proprio sul legame specifico antigene-anticorpo. Il Western blot è una tecnica in cui le proteine, dopo essere state purificate, sono separate in base al loro peso molecolare mediante elettroforesi su gel di poliacrilammide e successivamente trasferite su una membrana. Dopo ciò la proteina di interesse viene identificata mediante la sua reazione specifica con un anticorpo. La membrana con le proteine viene messa in contatto con l’anticorpo primario, che come una sonda altamente specifica, riconosce la proteina di interesse. Per la visualizzazione si utilizza un anticorpo secondario che si lega specificamente al primario. L’anticorpo secondario è legato a un enzima, come la perossidasi di rafano; in presenza del suo substrato, l’enzima catalizza una reazione chimica che sviluppa luce. L’ultima fase del Western blot è la detection o rivelazione: la luce emessa viene misurata con strumenti specifici o impressionando una lastra fotografica in una camera oscura. La quantità di luce è proporzionale alla quantità di proteine di interesse. Grazie a tecniche come il Western blot è possibile valutare l’assenza o variazioni nei livelli di proteine di interesse, ad esempio in cellule tumorali rispetto a cellule sane. Studiare le proteine è di fondamentale importanza in ricerca: esse servono a “fabbricare” un organismo e a farlo funzionare e, quando sono difettose, possono causare malattie. Inoltre, proprio attraverso lo studio del funzionamento delle proteine si sviluppano nuovi farmaci più mirati. 158 Giulia Chianella Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti Gli interruttori molecolari dei geni: i fattori di trascrizione La regolazione dell’espressione genica è quel processo che porta all’attivazione o all’inattivazione di un gene all’interno di una cellula. I geni non sono attivati o inattivati casualmente ma in risposta ad uno specifico segnale che la cellula riceve e analizza. Sulla sua membrana, la cellula possiede proteine chiamate recettori, in grado di legarsi a molecole segnale presenti nella matrice intercellulare, chiamate ligandi. Un recettore, legatosi al suo ligando specifico, diviene attivo e genera un segnale intracellulare, a partire dal quale si sviluppa una cascata di reazioni. Queste possono essere molteplici e riguardare enzimi diversi, ma molto spesso coinvolgono enzimi chiamati chinasi, la cui funzione è di legare gruppi fosfato ad altre proteine, dette substrati, attivandoli a loro volta. Durante la cascata di reazioni, il segnale viene notevolmente amplificato così che sia sufficiente una scarsa quantità di ligando iniziale per avere una risposta cellulare imponente. L’ultima tappa delle reazioni sono generalmente i fattori di trascrizione, che hanno un’importanza fondamentale per la regolazione genica. Essi sono proteine che, legandosi al DNA tramite particolari sequenze amminoacidiche, accendono o spengono la trascrizione di uno specifico gene e di conseguenza regolano l’espressione della proteina codificata dal gene stesso. La regolazione genica permette di controllare la vita e le funzioni cellulari, come la proliferazione o il differenziamento. Un esempio emblematico è quello dell’embrione: a seconda dei geni espressi e delle proteine sintetizzate, le cellule assumono forma e funzione caratteristiche e si differenziano le une dalle altre. è regolata da particolari fattori di trascrizione anche l’apoptosi, cioè il processo di morte programmata della cellula in determinate condizioni: una regolazione errata di questo processo può causare anomalie maligne. Il legame che si instaura tra un fattore di trascrizione e una sequenza di DNA può essere studiato in vitro in laboratorio, seguendo diverse procedure. Per visualizzare qualitativamente il complesso DNA-fattore di trascrizione in stato non denaturato si ricorre all’elettroforesi nativa. Per quantificare la forza di legame si procede con la calorimetria isotermica, una tecnica che misura il calore rilasciato alla formazione del legame stesso: tanto maggiore esso è, tanto più forte è il legame. Lo studio dei fattori di trascrizione riveste oggi una grande importanza, in quanto si è scoperto che alcuni di essi hanno funzione di oncosoppressori (cioè ostacolano lo sviluppo del cancro), altri di oncogeni (cioè favoriscono la nascita di tumori). 159 Camilla De Giorgi Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti La divisione cellulare: un solo fenomeno, molti modi per studiarla Il potenziale proliferativo è la capacità delle cellule di duplicarsi in due cellule figlie, aumentando di numero. è una proprietà molto importante poiché, se fuori controllo, può causare patologie come il cancro. Per determinare sperimentalmente in vitro il potenziale proliferativo di diversi tipi cellulari, esistono diverse tecniche utili per confrontare ad esempio cellule tumorali e cellule sane: curve di crescita, colony assay e trasfezione di un gene reporter. La curva di crescita è un grafico che mostra come aumenta il numero di cellule nel tempo. I dati per la costruzione del grafico vengono ottenuti contando le cellule lungo un arco temporale definito, ad esempio sette giorni. Il primo giorno vengono seminate tante piastre di cellule almeno quanti sono i giorni della curva e ogni 24 ore si contano le cellule. Tramite la curva di crescita è anche possibile calcolare il tempo di duplicazione delle diverse linee cellulari, ovvero il tempo che impiegano a raddoppiare di numero. Il colony assay, invece, misura il potenziale clonogenico di una linea cellulare, ovvero la capacità che possiede una singola cellula di formare, in un certo periodo di tempo, una colonia visibile ad occhio nudo. Le cellule, seminate in ogni piastra in numero così basso da poter essere isolate una dall’altra, vengono fatte crescere per qualche settimana. Al termine, le colonie vengono colorate e contate: si calcola poi la percentuale di cellule che sono riuscite a formare una colonia tra tutte quelle seminate. La terza tecnica è la trasfezione di un gene reporter. Consiste nell’inserire all’interno della cellula un gene per la sintesi di una proteina estranea, generalmente fluorescente come la GFP (Green Fluorescent Protein), in modo che il risultato sia visibile al microscopio. Per veicolare il gene nelle cellule si possono utilizzare vettori lipidici, che formano intorno al gene estraneo una sorta di membrana artificiale che si fonde con quella della cellula e ne permette l’ingresso. Le linee cellulari che al microscopio mostrano livelli più elevati di fluorescenza avranno una maggiore efficienza di trasfezione e saranno quelle che si sono duplicate il maggior numero di volte in dato arco di tempo. Le cellule tumorali in genere hanno un tempo di duplicazione molto basso e un alto potenziale clonogenico e di efficienza di trasfezione. Il loro potenziale proliferativo è quindi molto elevato: questa è una delle cause principali della loro aggressività. 160 Marco Franceschini Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti Le “ossa” e i “muscoli” delle cellule: citoscheletro e strutture di membrana Le cellule si muovono nell’ambiente extracellulare: ad esempio direzionano i loro movimenti in base alla presenza di nutrienti o sostanze chimiche secondo gradiente di concentrazione (migrazione chemiotattica). Lo studio della migrazione è finalizzato a comprendere fenomeni quali la formazione di metastasi. Il citoscheletro è un sistema di strutture che costituiscono l’impalcatura delle cellule e ne consentono il movimento attraverso la formazione di protrusioni specializzate. L’assemblaggio delle molecole del citoscheletro determina il rimodellamento della membrana plasmatica: specifici cambiamenti nella morfologia cellulare con conseguente formazione di strutture (protrusioni) che conferiscono alle cellule capacità di muoversi e migrare. Una cellula migra lungo una superficie estendendo protrusioni all’altezza del fronte di avanzamento. Tali strutture successivamente si ancorano al substrato e, attraverso la contrazione delle fibre di actina, permettono alla cellula di retrarre la parte posteriore promuovendone l’avanzamento. Le protrusioni sono costituite da filamenti di actina che assumono diversa morfologia a seconda del numero di filamenti e del tipo di proteine che legano l’actina (come miosina, α-actinina, filamina e altre proteine). Le strutture risultanti sono le seguenti: Filopodi: lunghi fasci di actina paralleli e non ramificati, spesso legati a tropomiosina e fascina. Il loro allungamento è controllato dalla formina. I filopodi consentono alle cellule di sondare l’ambiente circostante; Lamellipodi: protrusioni estese simili a fogli costituite da una rete di brevi e sottili filamenti di actina; Ruffles: protrusioni ricche in actina caratteristiche di cellule che mostrano buone capacità migratorie; Adesioni focali: situate alle estremità di grandi fasci di actomiosina che consentono l’adesione al substrato. La loro dinamica formazione e distruzione svolge un ruolo primario nella motilità cellulare. Sono in grado di legare proteine come tensina e fibronectina; Podosomi: adesioni puntiformi disposte radialmente in strutture circolari simili a ventose. Questi sono caratterizzati da un nucleo contenente proteine coinvolte nella polimerizzazione dell’actina e da un anello circostante ricco di recettori di integrine e proteine di adesione. 161 Roberto Molinaro Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti Mettere “a fuoco” le cellule in movimento La migrazione delle cellule è un fenomeno biologico molto importante e studiato poiché, quando avviene nelle cellule tumorali, è alla base dei processi di metastatizzazione. Le metastasi sono la principale causa di morte nei pazienti oncologici perché permettono il diffondersi del tumore non solo all’interno dell’organo già colpito ma anche in altri tessuti sani, diminuendo la possibilità di cura. Ecco perché è fondamentale comprendere i meccanismi di movimento cellulare per sviluppare terapie che vadano a ridurre o, se possibile, eliminare la migrazione delle cellule tumorali. Una tecnologia molto importante e utilizzata per lo studio della migrazione cellulare è la microscopia ottica, sia in luce trasmessa sia in fluorescenza. Tra le diverse tecniche di microscopia, quella ottica è una delle più utilizzate perché è la meno invasiva e permette di mantenere integro e vitale il campione studiato. I microscopi ottici in luce trasmessa sfruttano la luce bianca, come quella di una lampadina, per illuminare il campione. Si può migliorare il contrasto con il microscopio a contrasto di fase che enfatizza le differenze di indice di rifrazione, cioè della capacità di deviare la luce, esaltando così le regioni chiare e scure della cellula. Dotando un microscopio di un incubatore, si può inoltre mantenere un campione cellulare vitale e seguire a intervalli regolari di tempo l’evolversi di un processo biologico realizzando, se necessario, un filmato in tempo reale (tecnica del time lapse). Essa è particolarmente adatta allo studio della migrazione delle cellule perchè permette di osservare “in diretta” i loro spostamenti, valutare l’entità della migrazione o, ad esempio, quanto le cellule siano abili a richiudere uno “strappo” nello strato cellulare. La microscopia a fluorescenza si utilizza per visualizzare e localizzare proteine di strutture subcellulari, come il citoscheletro o le adesioni focali che permettono alla cellula di ancorarsi al substrato. La proteina di interesse viene “marcata” con una piccola molecola fluorescente. Questa molecola, se eccitata da una particolare lunghezza d’onda, emette luce a sua volta che è possibile captare e misurare con lo strumento. Per ottenere immagini con elevata risoluzione spaziale ed effettuare ricostruzioni 3D delle cellule e delle strutture analizzate si utilizza il confocale, un particolare tipo di microscopio a fluorescenza in grado di analizzare la luce emessa da singoli piani di fuoco, eliminando quelli fuori fuoco rendendo l’immagine più nitida. Nel suo complesso la microscopia ottica, fornendo informazioni qualitative e quantitative, consente di studiare in dettaglio fenomeni e processi legati alla genesi e alla progressione della migrazione cellulare, dimostrandosi così uno strumento essenziale nella ricerca biomedica e oncologica. 162 Erik Mus Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti Quando una cellula invecchia! La senescenza è lo stadio avanzato della vita di una cellula in cui viene interrotto definitivamente il ciclo cellulare ed essa rimane immutata fino alla morte dell’individuo a cui appartiene, contribuendo a determinare l’invecchiamento dell’organismo stesso. Il fenomeno della senescenza, alternativo all’apoptosi (morte cellulare programmata), si innesca anche quando i danni accumulati dal DNA sono troppo ingenti, sia a causa dell’accorciamento dei telomeri nel corso del tempo, sia a causa di mutazioni provocate dall’esposizione a radiazioni ionizzanti, e non possono quindi essere completamente riparati tramite i processi di risposta al danno. Recenti studi hanno confermato che la senescenza è un processo strettamente correlato alla risposta al danno al DNA. L’accorciamento dei telomeri oltre un certo limite viene riconosciuto come una rottura dei filamenti di DNA e induce la cascata della risposta al danno al DNA che porta ad un definitivo arresto del ciclo cellulare e della proliferazione. Nelle cellule tumorali, però, tale processo non si riscontra, in quanto il tumore induce una proliferazione incontrollata ed ininterrotta della cellula stessa, rendendola di fatto immortale e insensibile alla senescenza. Diventa perciò interessante analizzare la senescenza dal punto di vista clinico poiché, se le vie biochimiche di riparazione e senescenza fossero riattivate, potrebbero ritardare o arrestare lo sviluppo di un tumore, agendo come stadio avanzato della risposta al danno al DNA. In vitro, una cellula senescente è facilmente riconoscibile sia da un punto di vista ottico, in quanto si presenta solitamente piatta ed estesa, sia da un punto di vista chimico/biologico, tramite, ad esempio, l’ausilio di tecniche specifiche quali il test della β-galattosidasi. Tale tecnica, utilizzata anche per l’identificazione di cellule senescenti nella pelle umana, sfrutta la presenza nelle cellule senescenti di un marcatore specifico: una variante dell’enzima lisosomiale β-galattosidasi. Questo enzima opera una reazione su una particolare molecola somministrata e sviluppa una reazione colorimetrica, che può essere misurata. Le cellule colorate contengono β-galattosidasi e sono quindi senescenti. La senescenza cellulare quindi, è un fenomeno importante e di grande interesse scientifico e di ricerca, che potrebbe permettere di sviluppare nuovi e migliori metodi di risposta alle più varie forme tumorali esistenti. 163 Matteo Pavarini Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti Il genoma in un centimetro: i microarray e le tecnologie di analisi genica globale L’analisi dell’espressione genica, cioè quali geni sono espressi in una cellula di un certo tessuto o in una data condizione ambientale e il loro livello di trascrizione, è fondamentale per comprendere la struttura e il funzionamento di un organismo. A partire dagli anni ’80 sono state sviluppate tecnologie, quali il Northern Blot o la PCR quantitativa, per misurare i livelli di espressione di singoli geni d’interesse. Tali approcci one gene, seppur di grande importanza nella ricerca, mostravano dei limiti: un carattere fenotipico è spesso determinato dall’interazione di più geni; inoltre la regolazione dell’espressione genica avviene attraverso complesse reti di geni regolatori di cui tali sistemi di analisi non tengono conto. Così, negli anni ’90, sono nate tecniche di analisi simultanea dei profili trascrizionali di tutto il genoma, come i microarray, la SAGE (Serial Analysis of Gene Expression) e l’RNA-Seq (sequenziamento di RNA). I microarray (microvettori) sono costituiti da un supporto solido, un chip di pochi centimetri, a cui vengono legati migliaia di segmenti di DNA rappresentativi ad esempio dell’intero genoma di un organismo. Si estrae poi l’insieme degli RNA trascritti dalle cellule di interesse, da cui si ricavano filamenti di DNA complementari (cDNA). Essi vengono marcati con una sonda fluorescente e poi applicati sul microarray, dove si appaiano con i corrispondenti frammenti di DNA rappresentanti i geni d’origine: dal livello fluorescenza si potrà dedurre il livello di RNA di partenza e quindi di espressione genica. La SAGE prevede il taglio di brevi sequenze terminali dei cDNA (tag) che, sequenziate, vengono allineate ai geni d’origine e quantificate per via informatica, così da dedurre statisticamente la quantità nel campione. L’RNA-Seq consiste nel frammentare i campioni di mRNA, retrotrascriverli a cDNA complementare e sequenziarli interamente per poi allineare tramite software tutte le sequenze al genoma di riferimento e osservare la differenza di espressione tra i campioni. Questi metodi di analisi sono fondamentali in campo oncologico: nei tumori il normale programma cellulare viene alterato, causando una trascrizione anomala di set di geni che può essere individuata dal confronto tra i trascrittomi di una cellula sana e una tumorale. Ciò è anche applicabile alla comparazione tra cellule tumorali trattate con farmaci e non, per individuare la modulazione dell’espressione genica. Le diverse metodologie di analisi globale sono quindi uno strumento indispensabile per indagare le alterazioni della regolazione genica alla base di patologie come le trasformazioni neoplastiche. 164 Davide Rodorigo Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti Dal lievito i segreti del ciclo cellulare Il ciclo cellulare è un meccanismo biologico molto importante: è alla base della divisione e proliferazione delle cellule ed eventuali alterazioni favoriscono lo sviluppo di malattie, come i tumori. L’indagine sui meccanismi del ciclo cellulare richiede organismi modello per la sperimentazione biologica, il cui utilizzo è spesso cruciale per comprenderne il funzionamento nell’uomo, data la conservazione di tale processo in tutte le cellule eucariote. Il lievito Saccharomyces cerevisiae, appartenente al regno dei funghi e alla classe degli Ascomiceti, è un organismo unicellulare eucariota. Esso viene utilizzato in diversi processi biotecnologici, dati i numerosi vantaggi rispetto allo studio su mammiferi: dimensioni ridotte, basso costo, crescita su substrati semplici, breve tempo di generazione (120 minuti), stesse caratteristiche cellulari di base degli eucarioti (S. Cerevisiae è stato definito per tali motivi “mammifero onorario”), genoma piccolo e completamente sequenziato, possibilità di manipolazione genetica (facilmente trasformabile, disponibilità di diversi tipi di plasmidi). Un altro aspetto rilevante della scelta del lievito come modello sta nella sua capacità di esistere sia in forma aploide sia diploide. Normalmente, il nucleo di S. Cerevisiae contiene due serie omologhe di sedici cromosomi e si riproduce in maniera asessuata per gemmazione (simile alla mitosi, ma il citoplasma è ripartito in modo asimmetrico), che dà origine a due cellule figlie, entrambe diploidi. Inoltre, anch’esse possono andare incontro a morte programmata, o apoptosi. Tuttavia, in condizioni ambientali avverse (carenza di glucosio e azoto), le cellule possono avviare un processo di sporificazione: si tratta di una riproduzione sessuata per meiosi, nella quale la cellula madre si trasforma in “asco”, un involucro sacciforme contenente quattro cellule aploidi. Queste ultime, dette spore, sono di due sessi, indicati con “a” e “α”, che possono moltiplicarsi per gemmazione o unirsi a formarsi una cellula diploide a/α, in un processo chiamato coniugazione. Le fasi del ciclo cellulare del lievito sono le stesse rispetto agli altri eucarioti (G1, S, G2, mitosi, citodieresi). La possibilità del lievito di esistere nelle forme aploide e diploide ha reso possibile l’isolamento e lo studio di mutazioni recessive, l’identificazione degli elementi strutturali del cromosoma. Sfruttando tecniche di ingegneria genetica è stato possibile utilizzarlo per dar vita a mutazioni in diversi geni e per test di complementazione: questo ha permesso di esplorare in grande dettaglio i meccanismi di regolazione e controllo del ciclo cellulare in maniera più chiara e versatile rispetto all’utilizzo di cellule di mammifero. 165 Giada Toso Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti Lievito: un microscopico alleato per studiare i danni al DNA Per garantire il corretto funzionamento delle cellule è necessario che il DNA sia replicato e trasmesso in maniera adeguata. Ciò, però, non accade sempre, poiché l’integrità del genoma può essere compromessa da diversi fattori, esogeni o endogeni, che causano danni al DNA e quindi instabilità genomica. L’instabilità genomica è alla base di diverse malattie e soprattutto del cancro: per questi motivi, diverse sono le linee di ricerca per comprendere i sistemi di controllo della stabilità genomica nelle cellule. Uno degli organismi più utilizzati in questi studi è il lievito Saccharomyces cerevisae. Saccharomyces cerevisae è un organismo unicellulare eucariota appartenente al regno dei funghi. Possiede diverse caratteristiche che lo rendono uno dei modelli biologici più importanti per lo studio di fenomeni come il danno al DNA e il ciclo cellulare. Ha un basso costo e può essere cresciuto facilmente in terreni liquidi o solidi definiti, fornendo un completo controllo dei parametri ambientali. Si può trovare sia allo stato aploide che allo stato diploide: le mutazioni recessive possono facilmente essere isolate e analizzate in ceppi aploidi, mentre le analisi di complementazione possono essere fatte in ceppi diploidi. Si riproduce per gemmazione, il che permette di distinguere morfologicamente le diverse fasi del ciclo cellulare e analizzare facilmente i prodotti della meiosi. Infine, è molto semplice sincronizzare le cellule nelle varie fasi del ciclo cellulare, per studiare il danno al DNA in diversi momenti della vita della cellula. Tramite i feromoni (a o α) si ottengono cellule sincrone nella 166 fase G1, con l’idrossiurea (inibitore della riduttasi ribonucleica che blocca le cellule nella fase iniziale S e attiva il checkpoint intra-S) si ottengono cellule in fase S e col nocodazolo (inibitore dell’assemblaggio del fuso mitotico) in mitosi. Tramite semplici metodologie di biologia cellulare come la citometria a flusso o l’immunoprecipitazione di specifiche proteine coinvolte nel metabolismo del DNA si possono comprendere diversi fenomeni, come ad esempio determinare l’effetto delle differenti mutazioni sull’origine della replicazione del DNA o sulla progressione della forca replicativa. Saccharomyces cereviasie è quindi un compagno storico dell’uomo: da secoli utilizzato per la panificazione e la vinificazione, ha consentito e consentirà in futuro anche grandi progressi in diversi campi scientifici come la genetica e la biologia molecolare. Francesca Zerial Studente Ricercatore - edizione 2013 Approfondimenti Malattie genetiche rare e cancro: due facce della stessa medaglia La stabilità del genoma nelle cellule è mantenuta grazie all’azione delle proteine coinvolte nei checkpoint del danno al DNA e nelle vie di riparazione. Quando le mutazioni dei geni che codificano queste proteine sono presenti in cellule della linea germinale, ovvero oociti o spermatozoi da cui si formano tutte le cellule di un organismo, si verificano aberrazioni e scompensi genomici diffusi, spesso alla base di rare e gravi patologie definite sindromi da instabilità genomica. Generalmente sono causate da mutazioni recessive, ovvero è necessario che entrambi i geni sui due cromosomi, di origine materna e paterna, siano mutati affinché si manifesti la malattia. Queste sindromi si presentano in età infantile e sono frequentemente caratterizzate da invecchiamento precoce e predisposizione allo sviluppo di cancro. L’instabilità genomica è dunque il “filo rosso” molecolare che accomuna diverse manifestazioni cliniche, tra cui una delle principali è lo sviluppo di varie forme di neoplasie. L’ataxia telangiectasia è causata dalla mutazione del gene ATM, con una frequenza di 1 su 40.000 nascite. I primi sintomi sono atassia, ovvero la perdita di coordinazione muscolare, e fragilità dei vasi sanguigni soprattutto nell’occhio. In seguito compaiono degenerazioni al cervelletto, immunodeficienza, ipogonadismo e un’elevata predisposizione a sviluppare neoplasie come le leucemie. Anche soggetti eterozigoti (cioè che presentano la mutazione solo in uno dei due alleli) mostrano un elevato rischio di cancro al seno. ATM ha un ruolo fondamentale nel checkpoint del danno al DNA, nella transizione G1/S del ciclo cellulare e nell’apoptosi. Interagisce con diverse proteine tra cui p53, NBS1, BRCA1 e FANCD1, tutte proteine mutate in tumori e in altre sindromi da instabilità genetica. La sindrome di Nijmegen, o sindrome da rottura di cromosomi, colpisce 1 individuo ogni 3 milioni, ed è causata da mutazioni nel gene per NBS1. I pazienti mostrano malformazioni al volto, ritardo mentale e nella crescita, macchie sulla pelle e sensibilità all’esposizione al sole, oltre a un elevato rischio di leucemie, in particolare linfomi non-Hodgkin. Anche gli eterozigoti hanno un’alta predisposizione a sviluppare leucemie, linfomi e tumori al seno e al colon. NBS1 fa parte di un complesso di proteine, i “sensori”, che rilevano le rotture sul DNA, reclutano e attivano ATM per segnalare il danno. Lo Xeroderma pigmentosum colpisce in Europa 1 individuo su 1 milione. I sintomi caratteristici sono estrema secchezza ed eritemi della pelle e gravi reazioni da bruciatura anche dopo brevi esposizioni al sole o a fonti UV artificiali. Col progredire della malattia compare anche degenerazione neurologica e motoria. Inoltre, i pazienti hanno un rischio 10.000 volte maggiore di sviluppare carcinomi a cellule squamose e delle cellule basali, e 2000 volte maggiore per i melanomi, con un’età media di insorgenza di meno di 10 anni. Ci sono 8 geni che, se mutati, causano xeroderma, chiamati XPA-G e XPV. Ad eccezione della proteina XPV, le altre sono coinvolte nel meccanismo di riparazione da escissione di nucleotidi (NER, Nucleotide Excission Repair), che rimuove principalmente i dimeri di timina e le distorsioni causate dai raggi UV. Questo spiega l’elevata suscettibilità a danni e tumori della cute nei pazienti e l’ipersensibilità ai raggi UV. La sindrome di Werner e la sindrome di Bloom sono entrambe causate da mutazioni in proteine della famiglia delle elicasi RecQ, 167 Approfondimenti rispettivamente WRN e BLM. Le elicasi sono proteine che svolgono la doppia elica e sono implicate nei processi di replicazione e riparazione del danno al DNA. La Werner colpisce 1 bambino su 1 milione e causa invecchiamento precoce a partire dalla pubertà; ulcerazioni della cute, perdita di capelli, osteoporosi, cataratta, aterosclerosi ed elevato rischio di tumore, soprattutto sarcomi, carcinomi e tumori ematologici. L’elicasi WRN ha un importante ruolo nello svolgere distorsioni del DNA come forche e bolle; è coinvolta nella riparazione omologa e non-omologa del DNA e stabilizza i telomeri. L’accumulo di cellule senescenti in questi pazienti potrebbe spiegare il precoce invecchiamento osservato. Anche BLM ha un ruolo attivo nello svolgere strutture complesse del DNA come bolle e giunzioni a quattro filamenti. Inoltre, BLM fa parte del complesso dei “sensori” del danno a doppio filamento insieme a NBS1 ed è coinvolto nel checkpoint attivato da ATM. La sindrome di Bloom è molto rara con solo 220 casi in tutto il mondo dal 1975, principalmente in ebrei aschenaziti. I sintomi principali sono fotosensibilità e macchie della pelle, bassa statura, infertilità maschile, immunodeficienza, ritardo di apprendimento e predisposizione al cancro, soprattutto linfomi non-Hodgkin, leucemie e tumori della pelle. L’anemia di Fanconi può essere causata da mutazioni in diversi geni, le cui proteine sono chiamate FANC. Queste proteine riconoscono e si accumulano in siti di danno al DNA oltre ad essere coinvolte nelle via di segnalazione e nel mantenimento dei telomeri. Ha un’incidenza di 4-7 individui per milione di nascite; il primo sintomo è l’anemia aplastica. Col progredire della malattia i pazienti sviluppano linfomi e leucemie, carcinomi all’esofago, tumori epatici, cerebrali e a cellule squamose del collo e della testa. La discheratosi congenita è una cosidetta “telomeropatia”. Può essere causata da mutazioni in 8 geni, 7 dei quali codificano per componenti del complesso enzimatico della telomerasi, come DKC1 e TERT. I pazienti hanno telomeri molto corti e conseguente instabilità genomica. I sintomi comprendono anormale pigmentazione della pelle, placche cheratinizzate in bocca, perdita prematura dei capelli, distrofia alle unghie, riduzione del cervelletto e aumentato rischio di cancro; il 10% dei pazienti muore a causa di tumori, soprattutto ematologici. 168 Approfondimenti Le isoforme di Ras: così simili e così diverse RAS è una piccola GTPasi, ovvero una proteina che scinde il GTP (guanosina trifosfato) in GDP (guanosina difosfato). Nella cellula esiste in due conformazioni che si alternano di continuo: una forma attiva, che lega la molecola di GTP, e una inattiva, che lega il GDP. Nell’uomo sono state identificate tre isoforme di RAS (H-RAS, N-RAS e K-RAS) codificate da tre differenti geni. Esse sono molto simili (80% di identità): tutte in grado di indurre trasformazione neoplastica, tutte capaci di attivare gli stessi effettori a valle. Caratteristiche queste che hanno fatto per lungo tempo supporre che le tre proteine fossero funzionalmente intercambiabili. A dispetto della forte somiglianza invece si è scoperto che nella cellula si comportano in modo diverso sia in termini di espressione, sia per la specifica localizzazione subcellulare. Ognuna delle tre isoforme, inoltre, è presente in maniera specifica in diverse forme tumorali. Considerando la totalità dei tumori a oggi analizzati, infatti, il 22% porta una mutazione in K-RAS, contro l’8% in N-RASe il 3% in H-RAS (Forbes et al., 2011). Le mutazioni di K-RASsono tipiche del cancro al pancreas, al colon-retto e al polmone, patologie in cui le altre due isoforme sono raramente colpite. Al contrario N-Ras è mutato molto frequentemente nei tumori del sangue, mentre H-Ras sembra essere specifico del cancro alla vescica e poche altre neoplasie (Castellano and Santos, 2011). Delle oltre 40 diverse mutazioni di RAS identificate nei tumori, solo tre - localizzate a livello degli aminoacidi 12, 13 e 61 - rendono conto del 99.2% del totale (Forbes et al., 2011). Esse si trovano in una porzione della proteina perfettamente identica nelle tre isoforme, importante per regolare lo scambio tra la forma attiva e quella inattiva. Queste tre mutazioni producono, infatti, lo stesso effetto: bloccano la proteina nella forma attiva, accendendo la cascata di trasduzione del segnale anche in assenza di segnali di crescita. 169 Approfondimenti Endocitosi e trasduzione del segnale: due processi intimamente connessi In molti libri di testo l’endocitosi è definita come “processo che la cellula utilizza per assorbire molecole, come i nutrienti, troppo grandi per attraversare la membrana plasmatica” (http://online. scuola.zanichelli.it). Questa definizione, certamente vera, appare però riduttiva rispetto alle molteplici funzioni in cui l’endocitosi è coinvolta, come la trasduzione del segnale, l’adesione cellulare, la divisione, la migrazione e il mantenimento della polarità cellulare (Sigismund et al., 2012). Durante la trasmissione del segnale di proliferazione, ad esempio, l’endocitosi è indispensabile per spegnere la cascata e limitare ampiezza e durata del segnale. Come avviene questo processo? Una volta legato il fattore di crescita, il recettore va incontro a una serie di modificazioni che stimolano l’interazione con gli adattatori, proteine che guidano la formazione della vescicola. In prima approssimazione queste vescicole possono essere considerate come vetture che si spostano su autostrade – i microtubuli – per portare i loro passeggeri – recettori e ligandi – verso la destinazione finale, i lisosomi. Questa via è detta degradativa, perché nei lisosomi i recettori e i ligandi sono demoliti, evitando alla cellula di andare incontro a eccessiva stimolazione. Il fatto che l’endocitosi sia un meccanismo di retroazione negativa che spegne il segnale di proliferazione è, però, solo una parte della storia. Meno di vent’anni fa alcuni esperimenti condotti in California dal gruppo di Sandra Schmid hanno rivelato un legame molto più complesso tra endocitosi e trasduzione del segnale. Studiando un mutante di una proteina con un ruolo chiave nell’endocitosi, la Schmid e i suoi collaboratori avevano ottenuto dei risultati del tutto inaspettati: mentre alcuni dati riconfermavano l’importanza dell’endocitosi per smorzare la trasmissione del segnale, altri sembravano andare in direzione completamente opposta. Ad esempio, il mutante non era in grado di attivare efficacemente le cascate di trasduzione del segnale in risposta a EGF. Come spiegare un tale fenomeno? Gli esperimenti della Schmid hanno fatto da apripista per una serie di altri studi, condotti da diversi laboratori in tutto il mondo, che hanno portato alla formulazione della teoria dei signaling endosome (Di Guglielmo et al., 2003). Secondo questa teoria non solo i recettori continuano a segnalare anche dopo essere stati internalizzati (cioè inglobati in una vescicola), ma alcune cascate di trasduzione avvengono preferenzialmente nel microambiente della vescicola. Ciò dipende dalla presenza nelle vescicole di particolari molecole assenti alla membrana plasmatica, o dal pH, che è differente nei diversi compartimenti subcellulari, oppure dall’elevata concentrazione locale di molecole nel piccolo spazio della vescicola. Inoltre, è stato scoperto che le vescicole possono subire diversi destini: in alcuni casi entrano nella via degradativa, indirizzando i recettori verso il lisosoma, in altri casi ritornano in superficie riutilizzando i loro passeggeri per un ulteriore ciclo di attivazione-endocitosi, amplificando nel tempo il segnale. Come fa la cellula a decidere in quale via mandare il recettore? La scelta non è casuale, ma dipende dalle proteine che intervengono durante l’endocitosi, dalle specifiche modificazioni che subisce il recettore e dalle molecole presenti nella vescicola. Tutti questi fattori rappresentano una sorta di codice a barre che specifica il destino che dovrà subire un particolare recettore (Sigismund et al., 2012). 170 Approfondimenti Figura 1 Endocitosi di EGF Immagini al microscopio confocale di cellule epiteliali umane (HeLa) stimolate con EGF (rosso) per 4, 8 e 15 minuti. Il nucleo è colorato in blu (DAPI); il contorno della cellula è disegnato in grigio. Dopo 4 minuti l’EGF si trova sulla membrana plasmatica dove viene catturato nelle vescicole di endocitosi. Le vescicole si muovono all’interno della cellula e si allontanano progressivamente dalla membrana (8 e 15 minuti). Autore: Gilda Nappo - IFOM Figura 2 Internalizzazione di EGFR Il grafico mostra l’internalizzazione di EGFR in cellule epiteliali umane (HeLa) dopo stimolazione con EGF. Per seguire l’endocitosi nel tempo è stato utilizzato un EGF radioattivo che ha permesso di misurare il numero di recettori in membrana dopo 5, 8 e 10 minuti di stimolazione. 171 Approfondimenti Come si sviluppa un farmaco? Per passare dal laboratorio alla clinica tutti i farmaci, compresi quelli di nuova generazione, devono seguire un lungo percorso che generalmente dura almeno dieci anni. Il primo passo è la scelta del bersaglio da colpire: questo è il punto più importante per la formulazione di una terapia efficace. Nel caso di un farmaco antitumorale, ad esempio, è necessario che sia specifico per cellule neoplastiche e, soprattutto, che sia coinvolto in un processo fondamentale per la sopravvivenza del tumore. Il passaggio successivo è un lungo lavoro di ricerca informatica nei database per individuare tutti i composti, naturali o artificiali, potenzialmente in grado di legare quello specifico bersaglio. E se non esiste nessuna molecola con le proprietà desiderate? In questo caso si procede alla creazione di nuovi composti attraverso il drug design, una disciplina che sfrutta le conoscenze di biologia strutturale e bioinformatica per predire la struttura chimica di sostanze capaci di legare il bersaglio. Tutte le molecole selezionate, che siano state sintetizzate ex novo o preesistenti, devono essere sottoposte ad una serie di test, che mirano a restringere sempre di più il campo fino ad ottenere solo uno o pochi candidati da testare nei modelli animali e infine sull’uomo. Si inizia con gli high-throughput screening, sistemi automatizzati che eseguono saggi biologici su migliaia di campioni contemporaneamente e che permettono di identificare un sottogruppo di molecole efficaci dette composti guida o lead compound. Ogni composto guida viene poi modificato chimicamente per produrre un set di varianti da sottoporre a ulteriori analisi. Questa seconda fase di test permette di individuare la sostanza più efficace e più specifica, cioè quella col minore effetto su molecole diverse dal bersaglio. La sperimentazione vera e propria sui modelli animali e poi sull’uomo segue un percorso stabilito a livello internazionale dalle agenzie regolatorie sanitarie che prende il nome di Good Laboratory Practice. Questo percorso inizia con una fase di sperimentazione preclinica, detta anche fase 0, che prevede una serie di test in vitro (su cellule in coltura) e in vivo (su modelli animali). Questi ultimi permettono di studiare la tossicità a breve e a lungo termine, di determinare se la molecola è mutagena e cancerogena, di indagare gli effetti tossici sulla riproduzione e lo sviluppo della prole e di individuare un intervallo di dosi terapeutiche in cui gli effetti benefici superano quelli collaterali. Accanto alla tossicità, i test sui modelli animali permettono di studiare l’ADME (Assorbimento, Distribuzione, Metabolismo, Escrezione), cioè come viene assorbito il farmaco dall’organo o della cellula su cui deve agire e se viene assorbito anche da altri tessuti; se il farmaco riesce a raggiungere il suo bersaglio; se ci arriva modificato o immutato, attivo o inattivo; come viene espulso dall’organismo e quanto tempo ci mette. Per completare le analisi precliniche si eseguono anche studi in vitro, importanti per fornire indicazioni su alcuni processi specifici dell’uomo: ad esempio il test dei canali hERG, condotto su cellule in coltura, consente di identificare molecole cardiotossiche in grado di indurre fibrillazione e morte in soggetti predisposti. Passata la fase 0, la molecola può essere testata sull’uomo. La sperimentazione clinica ha inizio con la fase 1, in cui il composto viene saggiato in un piccolo gruppo di volontari sani: l’obiettivo è valutare gli effetti collaterali e la distribuzione del farmaco nell’organismo. 172 Approfondimenti A questa segue la fase 2, che indaga su un campione di poche decine di pazienti gli effetti terapeutici della molecola e determina la dose di farmaco che verrà somministrata per gli studi successivi. Per valutare l’efficacia del farmaco, i pazienti sono suddivisi in due gruppi: a uno si somministra il principio attivo, all’altro un farmaco di controllo (generalmente il trattamento standard per quella patologia). Per evitare che le aspettative influenzino l’esito della sperimentazione, il paziente (e talvolta anche il medico) non sa se sta ricevendo il farmaco da testare o quello di controllo. I risultati di queste prove sono utilizzati per decidere se procedere con gli studi su popolazioni più ampie. Infatti, nella fase 3 la sperimentazione è estesa a diverse centinaia o migliaia di pazienti con lo scopo di individuare eventuali reazioni avverse che non si erano presentate nelle fasi precedenti e per stabilire se il farmaco è efficace e presenta benefici maggiori rispetto a quelli già in commercio. Se l’esito della fase 3 è positivo, tutti i dati della sperimentazione preclinica e clinica vengono inviati all’autorità competente per essere esaminati. Una volta che il farmaco è stato registrato e autorizzato per il commercio, segue una fase 4, detta di farmacovigilanza, in cui vengono annotati tutti gli effetti indesiderati e eventuali nuovi risultati terapeutici non rilevati precedentemente. In questo modo la sicurezza e l’efficacia dei farmaci sono periodicamente verificate anche dopo la commercializzazione. Figura 1 Come si sviluppa un farmaco? Schema che rappresenta le diverse fasi di sviluppo di un nuovo farmaco a partire dallo studio del bersaglio molecolare fino alla commercializzazione della molecola. 173 Approfondimenti Protocolli Sperimentali Protocolli by • Preparazione di un estratto di mela per trattamenti antiossidanti in lievito Preparazione di un estratto di mela per trattamenti antiossidanti in lievito a cura di C.V. Segré Le mele contengono numerose molecole antiossidanti, che contrastano la reattività di altre specie chimiche come i radicali liberi. Svolgono quindi un’importante azione protettiva nelle cellule e nei tessuti. In questa esperienza viene descritto come preparare un estratto da polpa e buccia di mela per effettuare trattamenti antiossidanti su colture di lievito. • Analisi di vitalità in lievito dopo esposizione di agenti ossidanti (H₂O₂) Obiettivo Preparare un estratto di mele contenente molecole antiossidanti per trattamenti su colture di lievito. • Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione a raggi UV Tempo previsto 5 minuti per la preparazione della soluzione acetone-acqua 2 ore (minimo) per il raffreddamento 15 minuti per la preparazione dell’estratto Materiali e reagenti Procedimento 1.Preparare una soluzione acetone 70%-acqua 30% come segue: versare in una bottiglia 70ml di acetone e 30ml di acqua e mescolare bene le due fasi. • Protezione dei danni da agenti ossidanti con vitamina C ed estratto di mela in lievito 2.Porre la soluzione acetone-acqua, una mela e una bottiglia pulita in frigorifero fino al momento del trattamento. 3.Lavare bene la mela con acqua fredda. • Protezione dei danni da radiazioni ultraviolette in lievito 4.Per tutti i passaggi successivi, occorre lavorare sempre tenendo il materiale in ghiaccio. Strumentazione 5.Tagliare la mela a fette senza togliere la buccia, rimuovere il torsolo e pesare 30g. 9 Bilancia 9 Frullatore 9 Coltello 6.Tagliare i 30g di mela in piccoli pezzi e frullarli con 50ml di soluzione fredda acetone-acqua per 5 minuti fino a ottenere una purea omogenea. 7.Filtrare la purea nella bottiglia pulita precedentemente messa in frigorifero, con l’ausilio di un imbuto rivestito di garza. 8.Strizzare la garza per estrarre tutto il succo possibile dal composto. • Insorgenza di mutazioni in lievito dopo trattamento con raggi UV 9.Avvolgere la bottiglia contenente l’estratto di mela in carta stagnola e conservare in ghiaccio o in frigorifero fino al momento del trattamento. Osservazioni y Durante il passaggio nel frullatore, effettuare una pausa di 30 secondi ogni minuto, onde evitare che il composto si scaldi troppo. y Le molecole antiossidanti presenti nelle mele si ossidano rapidamente a contatto con l’ossigeno, inattivandosi. Questo fenomeno è responsabile dell’“annerimento” che si osserva ad esempio quando si lascia una fetta di mela all’aria. Per ridurre al minimo questi effetti, è opportuno preparare l’estratto di mela a fresco, subito prima del trattamento e lavorare sempre con materiale freddo in ghiaccio. • Insorgenza dei mutanti petite in lievito • Selezioni dei mutanti petite in lievito • Prova funzionale dei mutanti petite in lievito Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare 174 9 Una mela varietà Golden del Trentino 9 Acetone 70ml 9 Acqua deionizzata 30ml 9 Due bottiglie da 100ml 9 Un imbuto 9 Garza 9 Un cilindro graduato da 100ml 9 Carta stagnola miscellanea • Colorazione degli apici radicali di cipolla Approfondimenti Protocolli by 5.Lavare gli apici in acqua distillata, per eliminare l’acido cloridrico (si può utilizzare il coperchio Petri ricoperto da un piccolo strato di acqua). Colorazione degli apici radicali di cipolla 6.Prelevare gli apici ed appoggiarli su un vetrino, tagliare a circa 5 mm dall’apice ed eliminare la parte eccedente (deve rimanere solo la “punta” della radice). Schiacciare delicatamente con una pipetta Pasteur monouso, in modo da consentire il maggiore assorbimento del colorante. a cura di U. Matranga, M. Peli e A. Croce Obiettivo Evidenziare le fasi della mitosi nelle cellule degli apici radicali di cipolla. Procedimento 1.Mettere a radicare una cipolla bianca 3 o 4 giorni prima dell’esperimento in un becker contenente acqua del rubinetto: togliere prima le radici secche e posizionare la cipolla in modo che solo la zona radicale sia a contatto con l’acqua, come mostrato nella figura accanto. 2.Preparare una soluzione idroalcolica di Safranina all’1% nel seguente modo: y sciogliere 10 g di safranina in polvere in 100 ml di alcool etilico assoluto (soluzione madre), y decantare, filtrare con carta da filtro e conservare in una bottiglia scura, y prima dell’uso, diluire la soluzione madre 1/10 con acqua distillata (esempio 10 ml di soluzione madre + 90 ml di acqua). 30 minuti per la preparazione dei vetrini più 3-4 giorni per la crescita delle radici Materiali e reagenti 9 Cipolle bianche (diametro circa 3 cm) 9 Acqua del rubinetto 9 Becker (per far radicare le cipolle) 9 Piastre petri 9 Pinzette 9 Pipette Pasteur 9 Bisturi 9 Carta da filtro 9 Matracci e pipette per preparare le soluzioni 9 Soluzione di Safranina 9 HCl 5N 9 Smalto per unghie trasparente 9 Vetrini portaoggetto 9 Vetrini coprioggetto colorazione apici lavaggio apici 7.Coprire gli apici con qualche goccia di colorante e attendere 5 – 10 minuti. 8.Versare sul colorante alcune gocce di acqua e tamponare con carta da filtro. Coprire con il vetrino coprioggetto e comprimere delicatamente. 9.Introdurre alcune gocce di acqua distillata tra il vetrino e il coprioggetto per lavare ulteriormente gli apici schiacciati ed eliminare il colorante in eccesso, avendo cura di raccogliere il colorante rimosso con un pezzetto di carta assorbente posizionato dalla parte opposta da cui è stata inserita l’acqua (l’acqua consente l’allontanamento del colorante che non è stato assorbito dalle cellule). Osservare al microscopio con obiettivi a diverso ingrandimento. Se si vuole conservare il vetrino per 2-3 giorni, sigillare i bordi del coprioggetto con smalto per unghie trasparente. Lo smalto impedisce la disidratazione del campione, ma non permette una conservazione per lungo tempo. Di seguito alcune immagini di apici radicali di cipolla colorati con safranina e osservati al microscopio ottico (63x). Le frecce indicano le cellule in divisione, lo stadio della mitosi è indicato sotto a ciascun riquadro. Strumentazione 9 Microscopio ottico Per la preparazione della soluzione di Safranina 9 9 9 9 Safranina in polvere Alcool etilico assoluto Carta da filtro Bottiglie profase tarda profase anafase telofase metafase 3.Quando le cipolle avranno radicato, tagliare gli apici radicali (è preferibile usare frammenti corti di circa 2 cm). 4.Trasferire gli apici in una capsula Petri contenente HCl 5N e Lasciar agire per 3–5 minuti: l’acido cloridrico ha la funzione di indebolire le pareti cellulari e quindi di consentire l’ingresso del colorante nella cellula. taglio apici fissaggio apici lavaggio in acqua Copyright©2010 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare - In collaborazione con: Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia Copyright©2010 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare - In collaborazione con: Ufficio Scolastico Regionale per la Lombardia 175 botanica bo- Tempo previsto botanica Questa esperienza permette di osservare le varie fasi del processo mitotico, quel processo che porta alla divisione di una cellula “madre” in due cellule “figlie”, identiche e con lo stesso patrimonio genetico della cellula da cui si sono originate. La mitosi è suddivisibile in fasi ben distinte: Profase: La cromatina comincia a condensarsi e a formare i cromosomi, la membrana nucleare si dissolve; Metafase: Si forma una struttura chiamata fuso mitotico e i cromosomi si dispongono sul piano equatoriale di questa struttura; Anafase: Le fibre del fuso agganciano i cromosomi a livello del centromero e tirando lo separano nei due cromatidi, che si dirigono versi i poli opposti della cellula; Telofase: I cromatidi si condensano ai poli opposti della cellula per formare i due nuclei delle due future cellule figlie originate dalla mitosi; Citodieresi: I cromatidi si dissolvono, si ricreano i due nuclei e la cellula si divide in due cellule figlie con due nuclei completi. Per analizzare questo complesso fenomeno si ricorre alle cellule che si trovano negli apici radicali di cipolla, a livello dei quali vi è una intensa attività di proliferazione cellulare. Protocolli by Approfondimenti Protocolli by by Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione ad agenti ossidanti (H2O2) Osservazioni y Una soluzione commerciale di H2O2 10 volumi ha una concentrazione di 893mM. y La crescita della coltura madre di lievito i per la notte precedente è funzionale all’esperimento: le cellule infatti, per poter rispondere al meglio ai danni al DNA, devono essere in attiva crescita, nella cosidetta crescita esponenziale. Se sciogliessimo il lievito in polvere e lo trattassimo immediatamente con H2O2 le cellule non avrebbero tempo di adattarsi e, sottoposte direttamente allo stress ossidativo, morirebbero tutte. y L’H2O2, a causa della sua estrema reattività chimica, è una molecola instabile, soprattutto in piastra solida: ecco perché occorre somministrare l’H2O2 ad una coltura liquida e solo successivamente piastrare le cellule. a cura di C.V. Segré, G. Nappo e A. Croce Analizzare le differenze di vitalità di lievito dopo trattamento con un agente mutageno chimico ossidante, il perossido di idrogeno (H2O2). Procedimento 1.Pesare 0,2g di lievito in polvere e scioglierlo in 2ml di terreno liquido YPD. 2.Prelevare 10µl di lievito sciolto e trasferirli in 10ml di terreno liquido YPD (diluizione 1:1000). 3.Versare 240ml di terreno liquido YPD in una fiasca da 500ml e aggiungere i 10ml di lievito diluito 1:1000. 4.Far crescere la coltura in agitazione a 28°C/30°C per una notte o a temperatura ambiente per un giorno e una notte. 5.Preparare 4 provette da 1.5ml come segue: “0mM H2O2”, “5mM H2O2”, “7.5mM H2O2” e “10mM H2O2”. 6. Mettere 15ml di terreno liquido YPD in un tubo da 50ml. 20 minuti per inoculo coltura 1 ora per trattamento con H2O2 1-2 giorni per la crescita delle colonie Materiali e reagenti 9 Lievito in polvere (acquistabile al supermercato) 9 Piastre per lievito con bactoagar 9 Terreno liquido YPD 9 Provette da 50ml 9 Fiasca da 500ml 9 Cilindro graduato da 500ml 9 Ansette a L sterili 9 Carta stagnola (acquistabile al supermercato) 9 Acqua ossigenata 10 volumi (acquistabile al supermercato) organismi modello Obiettivo Tempo previsto organismi modello L’integrità del DNA può essere danneggiata dall’azione di diversi agenti mutageni. Alcuni di essi sono sostanze prodotte dal metabolismo, come il perossido di idrogeno, o acqua ossigenata (H2O2). L’H2O2 è un forte ossidante, che reagisce con le macromolecole biologiche, come il DNA, danneggiandolo. Se la concentrazione di H2O2 è troppo elevata, le cellule non riparano i danni e possono andare incontro a morte. Grazie a questa proprietà, l’H2O2 viene anche utilizzata come disinfettante. In questa esperienza sarà possibile valutare gli effetti del danno ossidativo sulla vitalità di una popolazione di cellule di lievito Protocolli Strumentazione 9 9 9 9 9 Agitatore Bilancia Oscillatore Vortex (facoltativo) Micropipette e relativi puntali 7. Prelevare 30µl di coltura di lievito cresciuta la notte e diluirla nei 15ml di terreno YPD. Mescolare bene (spipettando o col vortex) e poi aggiungere 500µl di coltura diluita in ciascuna provetta. 8.Aggiungere in ogni provetta il volume appropriato di H2O2 per raggiungere la concentrazione indicata, calcolata su un volume finale di 600µl. 9.Portare tutti i tubi allo stesso volume finale di 600µl con terreno liquido YPD. 10.Ricoprire le provette con carta stagnola e porre in oscillazione a 28°C (o a temperatura ambiente) per 20 minuti. 11.Nel frattempo, preparare le piastre correttamente nominate, corrispondenti alle diverse condizioni sperimentali. 12.Trascorsi i 20 minuti di trattamento, mescolare bene le colture (spipettando o col vortex) e prelevare 50µl. 13.Depositare le cellule sulle piastre e spatolarle bene con un’ansetta fino a che non sono asciugate. 14.Incubare le piastre a 28°C/30°C per 1-2 giorni o a temperatura ambiente per 2-3 giorni fine a che non sono visibili le colonie. 15.Confrontare i numeri di colonie cresciute nei campioni trattati e non trattati con agente ossidante. Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare 176 Approfondimenti Protocolli by by Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione a raggi UV y La crescita della coltura madre di lievito i per la notte precedente è funzionale all’esperimento: le cellule infatti, per poter rispondere al meglio ai danni al DNA, devono essere in attiva crescita, nella cosidetta crescita esponenziale. Se sciogliessimo il lievito in polvere il giorno stesso dell’irradiamento le cellule non avrebbero tempo di adattarsi e, sottoposte direttamente ai raggi UV, morirebbero tutte. y I tempi di irradiamento sono stati calcolati per un transilluminatore con due lampade da 6W l’una. y La luce attiva la fotoliasi, un enzima che ripara i danni al DNA dovuti da radiazioni UV, come i dimeri di pirimidina, in un processo chiamato fotoreversione. Per evitare questo processo durante l’esperimento, le piastre devono essere tenute al buio avvolte in carta stagnola. y I raggi UV sono le radiazioni a minor energia; esse infatti non penetrano in profondità nell’acqua o nei liquidi. Per questo motivo l’irradiamento avviene su cellule già piastrate. y I raggi UV sono mutageni e cancerogeni. Quando si utilizza il transilluminatore o la lampada UV è opportuno indossare dei dispositivi di protezione, come un camice a maniche lunghe, guanti e occhiali protettivi, e non guardare mai direttamente la fonte di UV. Analizzare le differenze di vitalità di lievito dopo trattamento con un agente mutageno fisico, le radiazioni ultraviolette (raggi UV). Procedimento 1.Pesare 0,2g di lievito in polvere e scioglierlo in 2ml di terreno liquido YPD. 2.Prelevare 10µl di lievito sciolto e trasferirli in 10ml di terreno liquido YPD (diluizione 1:1000). 3.Versare 240ml di terreno liquido YPD in una fiasca da 500ml e aggiungere i 10ml di lievito diluito 1:1000. 4.Far crescere la coltura in agitazione a 28°C/30°C per una notte o a temperatura ambiente per un giorno e una notte. 5.Preparare diverse piastre di bacto-agar etichettate come segue: “no UV”, “30 secondi UV”, “1 minuto UV” “5 minuti UV”. 20 minuti per inoculo coltura 45 minuti per trattamento con UV 1-2 giorni per la crescita delle colonie Materiali e reagenti 9 Lievito in polvere (acquistabile al supermercato) 9 Piastre per lievito con bactoagar 9 Terreno liquido YPD 9 Provette da 50ml 9 Fiasca da 500ml 9 Cilindro graduato da 500ml 9 Ansette a L sterili 9 Carta stagnola (acquistabile al supermercato) organismi modello Obiettivo Tempo previsto Strumentazione 9 9 9 9 9 9 Agitatore Bilancia Transilluminatore o lampada UV Oscillatore Vortex (facoltativo) Micropipette e relativi puntali 6. Mettere 15ml di terreno liquido YPD in un tubo da 50ml. 7. Prelevare 30µl di coltura di lievito cresciuta la notte e diluirla nei 15ml di terreno YPD. Mescolare bene (spipettando o col vortex) . 8.Prelevare 50µl di coltura, depositare le cellule sulle piastre di bacto-agar e distribuirle bene con un’ansetta a L fino a che non sono asciutte. 9.Sistemare le piastre, ad eccezione del controllo, senza coperchio con l’agar rivolto verso la fonte di raggi UV. 10.Accendere la lampada UV e trattare le piastre per i tempi indicati: 30 secondi, 1 minuto, 5 minuti. 11. Allontanare le piastre dalla fonte UV, rimettere il coperchio e avvolgere le piastre in carta stagnola. 12.Incubare le piastre a 28°C/30°C per 1-2 giorni o a temperatura ambiente per 2-3 giorni o fino a che non sono visibili le colonie. 13.Valutare le differenze nel numero di colonie cresciute nelle diverse condizioni sperimentali. Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare 177 organismi modello Osservazioni a cura di C.V. Segré, G. Nappo e A. Croce L’integrità del DNA può essere danneggiata dall’azione di diversi agenti mutageni, come le radiazioni ultraviolette (raggi UV). Questi inducono mutazioni nel DNA, contribuendo all’instabilità genomica, che è una delle cause primarie dei tumori. Le cellule possiedono dei meccanismi per identificare e riparare i danni al DNA, i checkpoint; se il danno al DNA è troppo esteso, come dopo eccessiva esposizione a raggi UV, i checkpoint inducono la morte delle cellule. Per questo, i raggi UV sono utilizzati in procedure di sterilizzazione, nei laboratori di ricerca ma anche nell’industria alimentare. In questa esperienza sarà possibile valutare gli effetti del danno da raggi UV sulla vitalità di una popolazione di cellule di lievito. Protocolli Approfondimenti Protocolli by by Protezione dei danni da agenti ossidanti con vitamina C ed estratto di mela in lievito 15.Depositare le cellule sulle piastre e spatolarle bene con un’ansetta fino a che non sono asciugate. 16.Incubare le piastre a 28°C/30°C per 1-2 giorni o a temperatura ambiente per 2-3 giorni fine a che non sono visibili le colonie. 17.Confrontare i numeri di colonie cresciute nei campioni trattati con agente ossidante in presenza e in assenza di estratto di mela. a cura di C.V. Segré Analizzare le differenze di vitalità cellulare di lievito dopo trattamento con agente ossidante in presenza o assenza di estratto di mela. Procedimento 1.Preparare una coltura di lievito in crescita esponenziale come descritto nel protocollo “Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione ad agenti ossidanti” ai punti 1-3. 2.Preparare l’estratto di mela come descritto nel protocollo “Preparazione di un estratto di mela per trattamenti antiossidanti in lievito”. 3.Preparare una soluzione madre di vitamina C 250mM: sciogliere 22.015mg di vitamina C in polvere in 0.5ml di acqua sterile. 4.Preparare 4 provette da 1.5ml ognuna etichettato come segue: “0mM H2O2”, “10mM H2O2”, “10mMH2O2 + estratto mela”, “10mM H2O2 + vitamina C”. 5.Mettere 15ml di terreno liquido in un tubo da 50 ml. 6.Prelevare 30µl di coltura di lievito cresciuta la notte e diluirla nei 15ml di terreno, mescolando bene (spipettando o col vortex). 7.Trasferire 500µl della coltura diluita in ciascuna provetta. 8.Effettuare un pre-trattamento con estratto di mela solo nella provetta contrassegnate con la dicitura “+ estratto mela”: aggiungere 25 µl di estratto di mela in modo da raggiungere la diluizione 1:20. 9.Effettuare un pre-trattamento con vitamina C solo nelle provette contrassegnate con la dicitura “+ vitamina C”: aggiungere 20µl della soluzione madre 250mM in modo da raggiungere una concentrazione finale di vitamina C di 10mM. 10.Ricoprire le provette con carta stagnola e porle in oscillazione a temperatura ambiente per 20 minuti. 11.Aggiungere 5.9µl di H2O2 in ogni provetta contrassegnata dalla dicitura “+ H2O2”. 20 minuti per inoculo coltura 1.5 ore per trattamento con estratto di mela e H2O2 1-2 giorni per la crescita delle colonie Materiali e reagenti 9 Lievito in polvere (acquistabile al supermercato) 9 Piastre per lievito con bactoagar 9 Terreno liquido YPD 9 Provette da 15ml 9 Provette da 50ml 9 Fiasca da 500ml 9 Cilindro graduato da 500ml 9 Ansette a L sterili 9 Bottiglie 9 Carta stagnola (acquistabile al supermercato) 9 Soluzione di H2O2 (acqua ossigenata acquistabile al supermercato) 9 Mele varietà Golden Delicious del Trentino 9 Vitamina C in polvere 9 Acetone 9 Garze pulite 9 Ghiaccio e cestello del ghiaccio y Una soluzione commerciale di H2O2 10 volumi ha una concentrazione di 893mM. y I polifenoli e le sostanze nutritive contenute nella buccia e nella polpa della mela si ossidano facilmente quando esposte all’aria, perdendo parte delle loro proprietà. Per ridurre il rischio di ossidazione è opportuno tenere i reagenti e le soluzioni per la preparazione dell’estratto di mela a 4°C e lavorare sempre in ghiaccio. y La mela è un elemento centrale dell’alimentazione umana; il melo è originario dell’Asia Centrale, coltivato fin da epoche preistoriche. Le mele contengono molteplici nutrienti come fibre, vitamine e diverse molecole ad azione antiossidante, tra cui i più abbondanti sono i polifenoli. I polifenoli proteggono le strutture cellulari e le macromolecole biologiche come il DNA dai danni causati da molecole reattive e ossidanti, contrastando l’invecchiamento cellulare e aiutando a prevenire l’insorgenza del cancro. y La vitamina C, o acido L-ascorbico, è un potente antiossidante naturale, fondamentale cofattore in molte reazioni di ossido-riduzione che avvengono nelle cellule e importante per inattivare i radicali liberi prodotti dal metabolismo. Svolge un’azione protettiva verso le macromolecole biologiche come il DNA, e per questo contrasta l’invecchiamento cellulare e aiuta a combattere l’insorgenza del cancro. La vitamina C si trova abbondante negli ortaggi a foglia verde, in peperoni, pomodori, fragole, kiwi e agrumi. Altre importanti molecole ad azione antiossidante, anch’esse abbondanti in frutta e verdura, sono ad esempio le vitamine A, B ed E, i carotenoidi e i flavonoli. Strumentazione 9 9 9 9 9 9 9 9 Agitatore Bilancia Oscillatore Vortex (facoltativo) Micropipette e relativi puntali Frullatore Coltello Imbuto 12.Ricoprire le provette con carta stagnola e porre in oscillazione a 28°C (o a temperatura ambiente) per 20 minuti. 13.Nel frattempo, preparare le piastre correttamente etichettate, corrispondenti alle diverse condizioni sperimentali. 14.Terminato il trattamento, mescolare bene le colture (spipettando o col vortex) e prelevare 50µl. Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare 178 organismi modello Obiettivo Osservazioni Tempo previsto organismi modello Le molecole ossidanti, come i radicali liberi, hanno un’ elevata reattività chimica, e possono danneggiare le macromolecole cellulari, come le proteine e il DNA. Un’altra classe di molecole chimiche, gli antiossidanti, abbondanti in certi alimenti come frutta e verdura, svolgono un’importante azione protettiva contro lo stress ossidativo. In questa esperienza saranno valutati gli effetti protettivi della vitamina C e di un estratto di mele sulla vitalità di cellule di lievito trattate con H2O2. Protocolli Approfondimenti Protocolli by Protezione dei danni da radiazioni ultraviolette in lievito 13.Irradiare le piastre come al punto 5. 14.Avvolgere le piastre in carta stagnola. 15.Incubare le piastre a 28°C/30°C per 1-2 giorni o a temperatura ambiente per 2-3 giorni o fino a che non sono visibili le colonie. a cura di C.V. Segré, G. Nappo e A. Croce Analizzare le differenze di vitalità cellulare di lievito dopo trattamento con radiazioni ultraviolette in presenza o assenza di fattori di protezione. Procedimento 1.Preparare una coltura di lievito in crescita esponenziale come descritto nel protocollo “Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione a raggi UV” ai punti 1-3. 2.Preparare una piastra etichettata “no UV” e tre piastre di bacto-agar etichettate come segue: “1 minuto UV”, “1 minuto + crema” e “1 minuto + lastra”. 3.Mettere 15ml di terreno liquido YPD in un tubo da 50ml. 4.Prelevare 30µl di coltura di lievito cresciuta la notte e diluirla nei 15ml di terreno YPD. Mescolare bene (spipettando o col vortex) . Tempo previsto Osservazioni 20 minuti per inoculo coltura 45 minuti per trattamento con UV 1-2 giorni per la crescita delle colonie y Se non si ha disposizione un transilluminatore ma lampade UV, posizionare la crema e la lastra come indicato nelle Figure 1A e 1B. y La crescita della coltura madre di lievito la notte precedente è funzionale all’esperimento: le cellule, per poter rispondere al meglio ai danni al DNA, devono essere in attiva crescita, nella cosidetta crescita esponenziale. Se sciogliessimo il lievito in polvere il giorno stesso dell’irradiamento le cellule non avrebbero tempo di adattarsi e sottoposte direttamente ai raggi UV morirebbero tutte. y I tempi di irradiamento sono stati calcolati per un transilluminatore con due lampade da 6W l’una. y La luce attiva la fotoliasi, un enzima che ripara i danni al DNA da radiazioni UV, come i dimeri di pirimidina, in un processo chiamato fotoreversione. Per limitare questo processo, le piastre devono essere tenute al buio avvolte in carta stagnola. y I raggi UV sono le radiazioni a minor energia, non penetrano in profondità nell’acqua o nei liquidi. Per questo motivo l’irradiamento avviene su cellule già piastrate e non in coltura. y I raggi UV sono mutageni e cancerogeni. Quando si utilizza il transilluminatore o la lampada UV è opportuno indossare dei dispositivi di protezione, come un camice a maniche lunghe, guanti e occhiali protettivi, e non guardare mai direttamente la fonte di UV. Materiali e reagenti 9 Lievito in polvere (acquistabile al supermercato) 9 Piastre per lievito con bactoagar 9 Terreno liquido YPD 9 Provette da 50ml 9 Fiasca da 500ml 9 Cilindro graduato da 500ml 9 Ansette a L sterili 9 Carta stagnola Strumentazione 9 9 9 9 9 9 Agitatore Bilancia Transilluminatore o lampada UV Oscillatore Vortex (facoltativo) Micropipette e relativi puntali 5.Prelevare 50µl di coltura, depositare le cellule sulle piastre di bacto-agar e distribuirle bene con un’ansetta a L fino a che non sono asciutte. Fig. 1A 6.Posizionare la piastra etichettata come “1 minuto” senza coperchio con l’agar rivolto verso la fonte di raggi UV. 7.Irradiare la piastra per 1 minuto. 8.Allontanare le piastre dalla fonte UV, rimettere il coperchio e avvolgere le piastre in carta stagnola. 9.Stendere della pellicola trasparente sulla superficie del transilluminatore, assicurandosi che sia ben adesa e tesa senza bolle di aria. Stendere 3g di crema solare sulla superficie, assicurandosi che lo strato di crema sia uniforme in tutti i punti. 10.Posizionare la piastra etichettata con “crema” senza coperchio sulla pellicola con l’agar rivolto verso la fonte di raggi UV. Irradiare le piastre come al punto 5. 11.Rimuovere la pellicola con la crema solare, rimettere il coperchio alle piastre e avvolgerle in carta stagnola. 12.Appoggiare sulla superificie del transilluminatore la lastra scura. Posizionare le piastre etichettate con “lastra” senza coperchio sulla lastra con l’agar rivolto verso la fonte di raggi UV. Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare 179 Fig. 1B organismi modello Obiettivo 16.Valutare le differenze nel numero e nelle dimensioni delle colonie cresciute nelle diverse condizioni. organismi modello Le radiazioni ultraviolette (raggi UV) sono agenti mutageni che danneggiano il DNA. Le cellule possiedono dei meccanismi di riparazione dei danni, i checkpoint, ma non sempre sono efficaci al 100%, soprattutto se la quantità di agente mutageno è grande e prolungata nel tempo; questo causa insorgenza di mutazioni e instabilità genomica. Per ridurre la quantità di raggi UV che penetrano in una cellula esistono diverse strategie, come l’utilizzo di “schermi” e fattori di protezione. La nostra arma più potente contro l’insorgenza di tumori è la prevenzione che si attua adottando misure di protezione. In questa esperienza vedremo l’effetto di alcuni fattori di protezione verso esposizione a raggi UV. Protocolli by Approfondimenti by Insorgenza di mutazioni in lievito dopo trattamento con raggi UV piastra contenente il terreno di selezione. Se la crescita sulle due piastre è comparabile, la colonia deriva da un mutante in grado di crescere in presenza di Amfotericina. Se vi è crescita solo sulla piastra di controllo, la colonia non è in grado di crescere su Amfotericina. Se non vi è crescita nemmeno sulla piastra di controllo, nulla si può dire sull’insorgenza di eventuali mutazioni. y L’Amfotericina uccide i lieviti legando un componente della loro membrana, l’ergosterolo (simile al colesterolo): crea una sorta di poro nella membrana causando un flusso massiccio di ioni K+ fuori dalla cellula, determinandone la morte. In questa esperienza viene valutato il tasso di insorgenza di mutazioni indotte da UV che conferiscono alle cellule la capacità di crescere in presenza di Amfotericina, tuttavia non permette di comprendere il meccanismo molecolare. y Potrebbero verificarsi alcune situazioni intermedie: colonie che crescono in presenza di antibiotico ma di dimensioni ridotte rispetto alla condizione di controllo. Presumibilmente si tratta di mutanti la cui crescita è rallentata dalla presenza dell’antibiotico ma non inibita. In questa esperienza questi vengono considerati come mutanti positivi. y Il tasso di insorgenza di mutazioni valutato in questa esperienza è certamente sottostimato rispetto al valore reale, poiché è misurato solo sulla comparsa di uno specifico fenotipo. Tutte le altre possibili mutazioni insorte a causa del trattamento non vengono rilevate. Per avere una stima precisa della quantità di mutazioni causate dal trattamento con raggi UV, occorrerebbe estrarre il DNA da lieviti trattati e non trattati ed effettuare un sequenziamento. a cura di C.V. Segré, G. Nappo e A. Croce Obiettivo Valutare l’aumentata frequenza di insorgenza di mutazioni in cellule di lievito dopo esposizione a un agente mutageno. Procedimento 1.Preparare delle piastre di bacto-agar contenenti l’antibiotico Amfotericina B come descritto nel protocollo “Preparare il terreno di crescita di lievito con antibiotico”. 2.Sottoporre le cellule di lievito al trattamento con radiazioni UV come descritto nel protocollo “Analisi di vitalità di lievito dopo esposizione a raggi UV” con le seguenti tempistiche di irradiamento: “no UV” (1-2 piastre) e “30 secondi UV” (4-5 piastre). 3.Quando le piastre di bacto-agar con Amfotericina B sono solidificate, preparare la griglia per lo spotting delle colonie e lo screening dei mutanti come indicato nella Figura 1. 4.Quando le colonie delle piastre irradiate sono cresciute, selezionare almeno 50 colonie per condizione (irradiato e non irradiato). Con uno stuzzicadenti sterile toccare una colonia alla volta e spottarla ognuna in un quadratino della griglia sia della piastra di controllo che di quella con amfotericina, nelle stesse posizioni. Utilizzare quindi due piastre normali e due piastre con Amfotericina B per condizione, per un totale di 8 piastre con griglia. 5.Avvolgere le piastre in carta stagnola e incubarle a 28°C/30°C per 1-2 giorni o a temperatura ambiente per 2-3 giorni o fino a che non sono visibili le colonie sulla piastra di controllo. Tempo previsto 20 minuti per inoculo coltura 50 minuti per preparazione piastre di bacto-agar con Amfotericina B 45 minuti per trattamento con UV 1-2 giorni per la crescita delle colonie 2 ore per la preparazione delle griglie e gli spot 1-2 giorni per la crescita delle colonie Materiali e reagenti 9 Lievito in polvere (acquistabile al supermercato) 9 Piastre per lievito con bactoagar 9 Terreno liquido YPD 9 Tubi da 50ml 9 Fiasca da 500ml 9 Cilindro graduato da 500ml 9 Ansette a L sterili 9 Carta stagnola (acquistabile al supermercato) 9 Antibiotico Amfotericina B 9 Stuzzicandenti sterili organismi modello Gli agenti mutageni come le radiazioni ultraviolette minacciano l’integrità dell’informazione genetica danneggiando il DNA e aumentando la frequenza di mutazioni. Le mutazioni possono far perdere una funzione, come ad esempio la capacità di crescere in assenza di un nutriente, o farne acquisire di nuove, come la capacità di crescere in presenza di una molecola tossica, ad esempio un antibiotico. In questa esperienza verrà valutato come aumenta il tasso di insorgenza di mutazioni in cellule di lievito esposte a raggi UV rispetto a cellule non esposte, utilizzando un terreno che seleziona positivamente i mutanti. Figura 1. Strumentazione 9 9 9 9 9 9 Protocolli Agitatore Bilancia Transilluminatore o lampada UV Oscillatore Vortex (facoltativo) Micropipette e relativi puntali 6.Calcolare la frequenza di mutanti per le due condizioni (irradiato e non irradiato) come: numero di colonie cresciute su Amfotericina B/numero totale colonie seminate Osservazioni y I raggi UV, oltre a indurre mutazioni nel DNA, riducono anche la vitalità cellulare: per avere un numero sufficiente di colonie irradiate da testare, è necessario irradiare almeno 4-5 piastre. y Le piastre con griglia di bacto-agar senza antibiotico sono un controllo sperimentale molto importante: permette di valutare quando la colonia è cresciuta correttamente e quindi di poter valutare se è cresciuto o no sulla Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare Copyright©2013 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare 180 organismi modello Protocolli by Approfondimenti Protocolli Protocolli Insorgenza dei mutanti petite in lievito a cura di V. Soglio Generare dei mutanti petite a partire da lievito con genotipo selvatico. Procedimento Preparazione di piastre con terreno di crescita glucosio+glicerolo y Pesare 10 g di estratto di lievito, 20 g di peptone e 2 g di D-glucosio. y Mettere l’estratto di lievito in un becker contenente 500 ml di acqua deionizzata e mescolare fino a quando la polvere si è sciolta. y Aggiungere il peptone e il D-glucosio e mescolare fino a quando le polveri si sono sciolte. y Aggiungere 20 ml di glicerolo e portare il volume a 1 L con acqua deionizzata. y Trasferire in una bottiglia, aggiungere 20 g di bacto agar e sterilizzare in autoclave per 10 minuti a 121°C. y Lasciare raffreddare il terreno e versarne 25 ml circa in ogni piastra. y Quando il terreno si è solidificato, conservare le piastre in frigorifero. 40 minuti per la preparazione del terreno e 1 ora per il raffreddamento delle piastre 30 minuti per l’esperimento Materiali e reagenti 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 9 Estratto di lievito Peptone D-glucosio (destrosio) Glicerolo Bacto-agar Acqua deionizzata Becker Bottiglia Piastre Petri Piastra con colonie di lievito Terreno liquido YPD Provette da 15 ml Anse a L (sterili) Stuzzicadenti (sterili) Pipette graduate o pasteur Figura 1 Piastra con terreno di crescita glucosio+glicerolo: le colonie con fenotipo ‘petite’ sono indicate da frecce rosse Osservazioni 3.Usando un’ansa a L, piastrare 20 μl di coltura di lievito su una piastra con terreno di crescita glucosio+glicerolo. y I lieviti sono in grado di produrre energia utilizzando diverse fonti di carbonio e attivando di volta in volta l’opportuna via metabolica. Ecco alcuni esempi: il glucosio può essere degradato sia attraverso la respirazione che attraverso la fermentazione, il glicerolo solo attraverso la respirazione, mentre il maltosio solo per via fermentativa. Il fenotipo del mutante petite, come evidenziato dal nome, consiste in dimensioni ridotte delle cellule e di conseguenza delle colonie generate su piastra. Questa caratteristica è dovuta al rallentamento della crescita causata dall’incapacità di respirare, infatti essi usano il glucosio per produrre energia solo attraverso la fermentazione e non attraverso la respirazione. y La mutazione petite ha una percentuale di insorgenza spontanea pari allo 0,1% - 1%, tuttavia essa può essere incrementata facendo crescere lieviti selvatici su un terreno contente due fonti di carbonio: il glucosio allo 0,2% (lo zucchero sia respirabile che fermentabile) e il glicerolo al 2% (composto solo respirabile). y Oltre alle dimensioni delle colonie, un’ulteriore conferma che si tratti di mutanti petite viene dalla loro incapacità di crescere su un terreno contenente una fonte di carbonio solo respirabile come il glicerolo (vedi protocollo ‘Selezione dei mutanti petite in lievito’). 4.Per ottenere un numero significativo di colonie che mostrano il fenotipo dei mutanti petite (piccole dimensioni, vedi figura 1), preparare almeno una decina di piastre. Referenze 5.Porre le piastre a temperatura ambiente per due giorni o fino a quando le singole colonie diventano visibili. O. Caryl Wallis and P.A. Whittaker - Induction of petite yeast mutation in yeast by starvation in glycerol - Journal of General Microbiology (1974) 84: 11-18 1.Trasferire 10 ml di terreno liquido YPD in una provetta da 15 ml e stemperarvi le cellule di lievito raccolte toccando con uno stuzzicadente una colonia cresciuta su piastra. Strumentazione 9 9 9 9 Bilancia Autoclave Vortex (facoltativo) Micropipette e relativi puntali 2.Miscelare usando il vortex o invertendo la provetta più volte. 6.Individuare le colonie con fenotipo petite e procedere con la selezione dei mutanti come descritto nel protocollo ‘Selezione dei mutanti petite in lievito’. Copyright©2011 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare Copyright©2011 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare 181 organismi modello Obiettivo Tempo previsto organismi modello L’utilizzo di ceppi di lievito mutanti consente agli scienziati di studiare particolari geni e fenomeni che avvengo all’interno della cellula. Tali mutazioni possono essere indotte ad hoc nella regione genomica in studio tramite sofisticate tecniche di biologia molecolare. Il protocollo qui riportato descrive come sia possibile generare dei mutanti ponendo cellule di un ceppo selvatico su un determinato terreno di crescita. Il mutante che si propone di generare è noto come ‘petite’ e mostra delle modificazioni nel DNA mitocondriale, più raramente in quello nucleare, che alterano la via metabolica della respirazione. Approfondimenti Protocolli Protocolli Selezione dei mutanti petite in lievito Osservazioni a cura di V. Soglio y Il metodo di selezione dei mutanti petite descritto nel protocollo si basa sulla loro incapacità di respirare: il terreno usato contiene come fonte di carbonio, il glicerolo, che può essere solo respirato, pertanto solo i lieviti selvatici riusciranno a crescere. y Lo striscio della stessa colonia su terreno selettivo e su quello non selettivo (YPD) consente di identificare i lieviti petite (quelli che non crescono sul terreno selettivo) e averli a disposizione (cresciuti su terreno non selettivo) per successivi esperimenti come il saggio funzionale descritto nel protocollo ‘Prova funzionale dei mutanti petite in lievito’. Identificare i mutanti petite tramite crescita su un terreno selettivo. Procedimento Preparazione di piastre con terreno di crescita selettivo y Pesare 10 g di estratto di lievito e 20 g di peptone. y Mettere l’estratto di lievito in un becker contenente 500 ml di acqua deionizzata e mescolare fino a quando la polvere si è sciolta. y Aggiungere il peptone e mescolare fino a quando la polvere si è sciolta. y Aggiungere 20 ml di glicerolo e portare il volume a 1 L con acqua deionizzata. y Trasferire in una bottiglia, aggiungere 20 g di bacto agar e sterilizzare in autoclave per 10 minuti a 121°C. y Lasciare raffreddare il terreno e versarne 25 ml circa in ogni piastra. y Quando il terreno si è solidificato, conservare le piastre in frigorifero. 40 minuti per la preparazione del terreno 40 minuti per l’esperimento Materiali e reagenti Estratto di lievito Peptone Glicerolo Bacto-agar Acqua deionizzata Becker Bottiglia Piastre Petri Piastre con terreno glucosio+glicerolo su cui sono cresciute colonie di lievito 9 Piastre con terreno solido YPD 9 Stuzzicadenti (sterili) 9 9 9 9 9 9 9 9 9 Nelle figure riportate di seguito si osserva la crescita delle stesse colonie di lievito su terreni diversi. Figura 1 Lieviti cresciuti su piastra con terreno selettivo: le cellule che non hanno dato origine a delle colonie (asterisco) sono mutanti ‘petite’. Strumentazione 9 Bilancia 9 Autoclave Dopo aver generato possibili mutanti petite secondo il protocollo ‘Insorgenza dei mutanti petite in lievito’, è opportuno selezionarli procedendo come descritto di seguito. Figura 2 Lieviti cresciuti su piastra con terreno non selettivo (YPD): i lieviti ‘petite’ identificati grazie alla mancata proliferazione su terreno selettivo sono invece cresciuti su questo tipo di terreno (asterisco). 1.Individuare le colonie di ridotte dimensioni cresciute sulle piastre glucosio+glicerolo. Testare tutti i possibili mutanti formatisi sulle 10 piastre preparate. 2.Toccare con uno stuzzicadente ciascuna colonia e fare uno striscio su una piastra con terreno selettivo. Per poter distinguere le colonie è fondamentale suddividere la piastra in spicchi, numerarli e fare lo striscio di una colonia in uno spicchio. 3.Con lo stesso stuzzicadente fare uno striscio anche su una piastra con terreno di crescita non selettivo, quello contente il glucosio come fonte di carbonio (YPD, vedi protocollo ‘Preparare il terreno di coltura per i lieviti’). Anche in questo caso suddividere le piastre in spicchi e numerarli. Deve esserci corrispondenza tra la piastra con terreno selettivo e quella con YPD. 4.Incubare le piastre a temperatura ambiente per due giorni o fino a quando le colonie diventano visibili. Copyright©2011 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare Copyright©2011 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare 182 organismi modello Obiettivo Tempo previsto organismi modello I mutanti di lievito noti con il nome di ‘petite’ insorgono spontaneamente in una popolazione di lieviti selvatici e il loro numero può essere incrementato se questi ultimi vengono posti su un particolare terreno di crescita (vedi protocollo ‘Insorgenza dei mutanti petite in lievito’). A parità di tempo di crescita, le dimensioni ridotte delle colonie rispetto al selvatico consentono una prima identificazione dei mutanti. Tuttavia questa differenza morfologica delle colonie non è sinonimo e garanzia che quei lieviti siano ‘petite’, è necessario svolgere dei saggi per l’identificazione. In questo protocollo si propone un metodo di selezione dei mutanti di facile realizzazione. Si ricorda che la certezza che si tratti di un mutante ‘petite’ è data solo dal sequenziamento del DNA mitocondriale e dal suo confronto con quello di un selvatico. Approfondimenti Protocolli Protocolli Prova funzionale dei mutanti petite in lievito zuccheri). La conformazione delle proteine viene perturbata, compromettendo la funzionalità degli enzimi coinvolti in tutte le vie metaboliche. y La mancata integrità del genoma mitocondriale dei lieviti petite causa, oltre all’incapacità di respirare, anche una minor tolleranza all’etanolo presente nel terreno di coltura. La minor tolleranza all’etanolo del lievito petite comporta un ulteriore rallentamento della crescita delle cellule e la loro pregressiva morte, di conseguenza le colture appaiono meno torbide se confrontate con quelle di ceppi selvatici. a cura di V. Soglio e G. Nappo Valutare nei mutanti petite il grado di tolleranza all’etanolo presente nel mezzo di coltura. Procedimento 1.Riportare rispettivamente su 2 provette la scritta ‘selvatico-controllo’ e ‘mutante-controllo’ e riempirle con 5 ml di terreno liquido YPD. 2.Su altre 2 provette riportare la scritta ‘selvatico-etanolo’ e ‘mutante-etanolo’ e riempirle con 5 ml di terreno liquido di coltura e 200 μl di etanolo assoluto (corrisponde al 4% del volume totale). 3.Toccare con uno stuzzicadente una colonia di lieviti selvatici e stemperarla nel terreno della provetta denominata ‘selvatico-controllo’. 4.Toccare con uno stuzzicadente una colonia di lieviti selvatici e stemperarla nel terreno della provetta denominata ‘selvatico-etanolo’. 5.Toccare con uno stuzzicadente una colonia di lieviti petite e stemperarla nel terreno della provetta denominata ‘mutante-controllo’. 6.Toccare con uno stuzzicadente una colonia di lieviti selvatici e stemperarla nel terreno della provetta denominata ‘mutante-etanolo’. 20 minuti Materiali e reagenti 9 Piastra con colonie di lievito petite 9 Piastra con colonie di lievito selvatico 9 Terreno liquido YPD 9 Etanolo assoluto 9 Provette da 15 ml 9 Vetrino con reticolo 9 Stuzzicadenti (sterili) 9 Pipette pasteur 9 Cuvette Figura 1 (10x) Cellule di lievito cresciute in terreno YPD: a sinistra il selvatico (selvatico-controllo), a destra il ‘petite’ (mutante-controllo). Strumentazione 9 Blocchetto termostatato o bagnetto Vortex (facoltativo) Micropipette e relativi puntali Microscopio ottico Spettrofotometro 9 9 9 9 7.Miscelare bene il contenuto di ciascuna provetta usando il vortex o invertendola più volte. 8.Incubare le provette a 30°C per due giorni o a temperatura ambiente per quattro giorni (meglio se in agitazione). 9.Osservare e confrontare la torbidità e di conseguenza la crescita della coltura di lievito selvatico e mutante in presenza di etanolo. 10.Prelevare 1ml di coltura in presenza di etanolo del lievito mutante e del lievito sevatico per quantificare allo spettrofotometro la differente torbidità (lunghezza d’onda 600 nm). Figura 2 (10x) Cellule di lievito cresciute in terreno con etanolo al 4%: a sinistra il selvatico (selvatico-etanolo), a destra il ‘petite’ (mutanteetanolo). 11.Per una stima più precisa del diverso grado di crescita è possibile, in alternativa, contare le cellule usando un vetrino con reticolo, come descritto nel protocollo ‘La conta dei lieviti tramite l’utilizzo di un vetrino con reticolo’. Referenze A. Hutter and S.G. Oliver - Ethanol production using nuclear petite yeast mutants - Applied Microbiology and Biotechnology (1998) 49: 511-516 Menggen Ma and Z. Lewis Liu - Mechanisms of ethanol tolerance in Saccharomyces cerevisiae - Applied Microbiology and Biotechnology (2010) 87: 829-845 Osservazioni y Nonostante il lievito sia per eccellenza uno dei microorganismi produttori di etanolo, esso è sensibile alle elevate concentrazioni di questo alcool. Eccetto il lievito del vino che tollera concentrazioni di etanolo fino al 1015%, gli altri ceppi, tra cui S.cerevisiae, tollerano concentrazioni fino al 5-6%. La presenza di etanolo nel mezzo di coltura inibisce la crescita e la sopravvivenza modificando l’integrità e la fluidità della membrana cellulare e di conseguenza alterando la permeabilità ai diversi soluti (come ioni, Copyright©2011 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare Copyright©2011 Fondazione IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare 183 organismi modello Obiettivo Le figure riportate di seguito mostrano i lieviti selvatici o mutanti cresciuti in terreno YPD o in terreno con etanolo al 4%. Per la conta è stato usato un vetrino con reticolo (griglia in giallo). Tempo previsto organismi modello Dopo aver identificato un ipotetico mutante ‘petite’ tramite la selezione descritta nel protocollo ‘Selezione dei mutanti petite in lievito’ è possibile utilizzare questo ceppo per una prova funzionale. Di seguito si descrive come valutare il diverso grado di tolleranza all’etanolo tra lieviti di un ceppo selvatico e uno ‘petite’. BIBLIOGRAFIA 184 Bibliografia 1. Aaltonen LA, Peltomäki P, Leach FS, Sistonen P, Pylkkänen L, Mecklin JP, Järvinen H, Powell SM, Jen J, Hamilton SR. Clues to the pathogenesis of familial colorectal cancer. Science 1993 May 7;260(5109):812-6. 1999 Dec;9(12):M57-60. 2. Adams JM, Cory S. The Bcl-2 apoptotic switch in cancer development and therapy. Oncogene 2007 Feb 26;26(9):1324-37. 10. Chen JM, Cooper DN, Férec C, Kehrer-Sawatzki H, Patrinos GP. Genomic rearrangements in inherited disease and cancer. Semin Cancer Biol. 2010 Aug;20(4):222-33. 9. Castellano E, Santos E. Functional specificity of ras isoforms: so similar but so different. Genes Cancer 2011 March;2(3):216-31. 3. Ahrendt SA, Decker PA, Alawi EA, Zhu Yr YR, SanchezCespedes M, Yang SC, Haasler GB, Kajdacsy-Balla A, Demeure MJ, Sidransky D. 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Può essere totale (perdita o acquisto di interi cromosomi) o parziale (perdita o acquisto di parti di cromosomi) Termini correlati: Cariotipo, Mutazioni Anticorpi Fondamentali per la risposta immunitaria, sono glicoproteine capaci di riconoscere e legare in modo specifico elementi estranei che possono danneggiare l’organismo (come virus, batteri, ma anche tossine), chiamati antigeni. Termini correlati: Farmaci molecolari ATP L’adenosintrifosfato è la molecola che le cellule utilizzano per immagazzinare e scambiare energia. Dal punto di vista chimico, è formata dalla base azotata adenina, dallo zucchero ribosio e da tre gruppi fosfato. Il taglio del legame covalente tra il secondo e il terzo gruppo fosfato produce energia chimica che la cellula usa per i processi biologici e libera ADP (adenosindifosfato). Termini correlati: Chinasi, Recettori tirosin-chinasici, Secondi messaggeri Bioinformatica Disciplina che applica le tecniche dell’informatica alla biologia. Si occupa di sviluppare strumenti matematici per analizzare dati complessi (come l’analisi delle sequenze di DNA), di sviluppare modelli per simulare processi biologici, di fornire modelli statistici per interpretare i dati biologici e di organizzare in modo sistematico le conoscenze su DNA, RNA e proteine su database accessibili a tutti. Termini correlati: Biologia computazionale, Omologo, Sequenziare Biologia computazionale Disciplina che applica le tecniche delle scienze dell’informazione (ad es. algoritmi di analisi e database) alle scienze della vita. L’obiettivo è analizzare e studiare la complessità di problemi di interesse biologico o biomedico, individuando modelli capaci di descrivere le interazioni in sistemi complessi. Termini correlati: Bioinformatica Cariotipo In citogenetica, è la rappresentazione ordinata del corredo cromosomico di un individuo, in termini di numero e morfologia dei cromosomi ed è caratteristico della specie di appartenenza. Il cariotipo normale di un essere umano è di 46 cromosomi. Termini correlati: Aneuploidia Caspasi Sono un gruppo di proteine con attività enzimatica: tagliano altre proteine dopo un residuo di acido aspartico. Comprendono le “iniziatrici” e le “effettrici”. Le prime tagliano le seconde, attivandole. Le effettrici agiscono su altre proteine ed eseguono l’apoptosi. Cellule fagocitarie Cellule che riconoscono un patogeno o un detrito cellulare, lo inglobano e lo distruggono utilizzando enzimi litici e specie reattive dell’ossigeno. Si classificano in granulociti neutrofili, monociti e macrofagi. Termini correlati: Cellule natural killer (NK) Cellule natural killer (NK) Riconoscono ed eliminano cellule anomale o infettate da virus. Agiscono tramite sostanze tossiche contenute in granuli che rilasciano nel bersaglio. Liberano nel tessuto anche citochine e interferoni, che richiamano e attivano altre cellule immunitarie, come i macrofagi. Termini correlati: Cellule fagocitarie Cellule staminali Sono cellule speciali capaci di auto-replicarsi (creando copie identiche di se stesse) e di specializzarsi (differenziandosi danno origine alle varie tipologie di cellule presenti nell’organismo). Le cellule staminali pluripotenti possono dar vita a tutti i tipi cellulari, quelle multipotenti solo ad alcuni. Sono presenti in quasi ogni tessuto dell’organismo, costituendo una sorta di “riserva” di cellule. Termini correlati: Differenziamento, Divisione cellulare 191 Glossario Chinasi Enzimi in grado di trasferire un gruppo fosfato da molecole donatrici ad alta energia, come l’ATP, a specifici amminoacidi di proteine bersaglio (serina, treonina o tirosina). Questo processo, reversibile, è definito fosforilazione e rappresenta una delle modalità di trasduzione del segnale nelle cellule. Termini correlati: ATP, Recettore tirosin-chinasico, Recettori Citocromo C È una proteina di piccole dimensioni, contiene un gruppo eme (complesso chimico con un atomo di ferro) e lega l’ossigeno. Si trova tra la membrana esterna e interna dei mitocondri ed è coinvolta nella catena di trasporto degli elettroni nella fosforilazione ossidativa. Termini correlati: Metabolismo Codone È alla base del codice genetico e consiste nella sequenza di tre nucleotidi nell’RNA messaggero, che porta l’informazione per il posizionamento (nella proteina codificata corrispondente) di uno specifico amminoacido durante la sintesi proteica. Il codice genetico comprende complessivamente 64 codoni, cioè 64 sequenze di triplette di nucleotidi. In particolare, 61 codoni portano l’informazione per uno dei venti amminoacidi, mentre tre codoni (UAA, UAG e UGA) sono anche detti “di stop” perché in loro presenza la sintesi proteica viene terminata. Termini correlati: Genoma, Sequenziare Cromatina È la modalità con cui il DNA è compattato all’interno del nucleo delle cellule eucariotiche. È costituita da nucleosomi, ovvero DNA avvolto intorno a proteine basiche (gli istoni), e da proteine non istoniche. Una corretta architettura della cromatina aiuta a mantenere la stabilità del genoma. Termini correlati: Epigenetica Delezione Un tipo di mutazione che consiste nella perdita di uno o più nucleotidi nella sequenza del DNA, causando la perdita di informazione genetica. Come nel caso delle inserzioni, se il numero di nucleotidi persi non è divisibile per tre, causano uno spostamento del frame di lettura del gene e la produzione scorretta della proteina corrispondente. Termini correlati: Amplificazione, Inserzione, Mutazioni Differenziamento Processo biologico che consente a una cellula eucariotica che appartiene a un organismo di specializzarsi in un particolare tipo cellulare, capace di svolgere una precisa funzione (es. cellule nervose, muscolari, intestinali…). Per potersi specializzare, la cellula deve smette di dividersi, uscendo in maniera irreversibile dal ciclo cellulare (si parla di differenziamento terminale). Termini correlati: Cellule staminali, Divisione cellulare DImeri Elementi formati dall’unione di due parti (monomeri). Le molecole che formano il dimero possono essere identiche (omodimero) oppure diverse (eterodimero) dal punto di vista della loro composizione chimica. Termini correlati: Recettore Divisione cellulare Processo biologico che permette a una cellula madre di generare due cellule figlie. Nelle ceellule eucariotiche avviene principalmente tramite la mitosi e produce due cellule figlie con lo stesso numero di cromosomi della progenitrice. Termini correlati: Cellule staminali, Differenziamento Epigenetica Insieme di modificazioni ereditabili della cromatina che non determinano una variazione nella sequenza dei nucleotidi, ma che influenzano la regolazione e l’espressione genica. Ne sono un esempio la metilazione del DNA e le modificazioni post-traduzionali degli istoni (come acetilazioni, fosforilazioni e metilazioni). Termini correlati: Cromatina Farmaci molecolari Sono molecole che colpiscono in modo selettivo un particolare bersaglio cellulare (come una specifica sequenza di DNA o una certa proteina). Frutto delle ricerche in campo molecolare degli ultimi decenni, agiscono in modo specifico sulle cellule patologiche, consentendo di ridurre la tossicità generale dei trattamenti. Esempi di farmaci molecolari sono gli anticorpi monoclonali, già utilizzati nella pratica clinica nella cura delle leucemie. Termini correlati: Anticorpi, Farmacoresistenza, Ricerca Traslazionale 192 Glossario Farmacoresistenza Si tratta della riduzione dell’efficacia di azione di un determinato farmaco in uno specifico paziente durante un trattamento terapeutico. Un esempio è la resistenza agli antibiotici, che si verifica quando un certo patogeno non può più essere eliminato con un antibiotico che prima invece risultava efficace. In campo oncologico, la farmacoresistenza è una delle cause delle recidive tumorali. Termini correlati: Farmaci molecolari; Recidiva Feedback negativo Noto anche come retroazione negativa, è un meccanismo di controllo ampiamente usato dagli organismi viventi a diversi livelli (dalla cellula, ai tessuti, all’organismo) per mantenere l’omeostasi, cioè l’equilibrio. Un segnale (ad es. la diminuzione della temperatura corporea) viene percepito da sensori (recettori cutanei) e innesca una risposta (diminuzione di dispersione termica e/o aumento di produzione di calore da parte dei tessuti adiposi), per modificare una variabile (temperatura corporea). La risposta dei meccanismi di controllo ha, in questo tipo di circuito, segno negativo, cioè opposto a quello del segnale che l’ha innescato. Inserzione Un tipo di mutazione che consiste nell’inserimento di uno o più nucleotidi nella sequenza del DNA. Possono causare errori nella decifrazione del codice genetico (mutazioni frameshift) poiché, se il numero di nucleotidi inseriti non è divisibile per tre, causano uno spostamento del frame di lettura del gene. Termini correlati: Amplificazione, Delezione, Mutazioni Ligando Si tratta di molecole in grado di legare in modo altamente specifico e selettivo recettori specifici e di innescare una cascata di risposte biochimiche nella cellula. Termini correlati: Recettore tirosin-chinasico, Recettori Mammaprint È un test che permette di stimare, nei pazienti con tumore alla mammella ai primi stadi, la probabilità che il tumore ritorni entro dieci anni dalla sua prima diagnosi. Analizzando i livelli di espressione di 70 geni chiave, tramite la tecnologia del microarray, è possibile calcolare il rischio di ricorrenza del tumore Termini correlati: OncotypeDx, Recidiva, Ricerca Traslazionale Genoma È l’insieme delle informazioni contenute nel DNA di un organismo vivente. Consente all’organismo di vivere e riprodursi e viene trasmesso alla progenie. È specifico per ogni essere vivente e determina le sue caratteristiche (ad es. il colore degli occhi) Termini correlati: Codone, Microsatelliti, P53, Sequenziare Metabolismo Insieme delle reazioni chimico-fisiche che avvengono in un organismo, tessuto o cellula, con produzione (catabolismo) o utilizzo (anabolismo) di energia e corrispondente consumo e produzione di molecole, dette metaboliti. Termini correlati: Citocromo C Giunzione aderente Tipo di giunzione tra cellule adiacenti, formata da diverse proteine (caderine e catenine). Regolano l’architettura e la permeabilità di tessuti epiteliali ed endoteliali, ma anche la morfologia e la polarità delle singole cellule. Metallo-proteasi Enzimi ad azione litica che degradano altre proteine, tipicamente quelle della matrice extracellulare. Contengono nel sito catalitico uno ione metallico, come zinco o cobalto, che svolge un ruolo essenziale nella reazione enzimatica. Termini correlati: Proteasi Incidenza È il numero di nuovi casi di una certa malattia in una specifica popolazione e in un determinato periodo di tempo. Dà una stima della probabilità di contrarre quella specifica malattia. Metastasi Diffusione delle cellule tumorali dal tessuto in cui si sono originate a un altro distretto corporeo, tramite il sistema circolatorio e/o linfatico. Sono anche dette tumori secondari, poiché si verificano a distanza dal tumore primario, sia dal punto di vista spaziale che temporale. 193 Glossario Microsatelliti Regioni del genoma formate da corte sequenze di DNA non codificante ripetute molte volte. Nell’uomo, rappresentano il 3% del genoma totale e hanno un ruolo nel mantenere la stabilità delle strutture dei cromosomi. Termini correlati: Genoma Mutazioni Sono alterazioni nella sequenza del DNA, stabili ed ereditabili cioè trasmissibili alla progenie. Possono interessare singole basi (mutazioni puntiformi); causare l’inserimento (inserzioni e duplicazioni), la perdita (delezioni) o lo spostamento (traslocazioni) di tratti più o meno estesi di DNA. Termini correlati: Amplificazione, Aneuploidia, Delezione, Inserzione Omologo Due geni A e B si definiscono omologhi quando hanno avuto origine da un gene ancestrale comune per duplicazione o in seguito a un evento di speciazione. L’omologia tra due geni può essere misurata confrontando le rispettive sequenze nucleotidiche: tanto più è alta la percentuale di identità tra le sequenze, tanto minore è la loro distanza evolutiva. Termini correlati: Bioinformatica, Sequenziare OncotypeDx È un test che permette di stimare, nei pazienti con tumore alla mammella (positivo al recettore dell’estrogeno) ai primi stadi, la probabilità che il tumore si verifichi nuovamente e quanto beneficerà della chemioterapia dopo la rimozione chirurgica. In questo caso, si analizza il livello di espressione di un gruppo di 21 geni specifici. Termini correlati: Mammaprint, Recidiva, Ricerca Traslazionale P53 È un fattore di trascrizione, cioè una proteina che dirige l’espressione di geni specifici, legandosi al DNA nelle loro regioni regolatrici. È stata scoperta nel 1979 ed è chiamata anche “il guardiano del genoma” per il suo ruolo cruciale nel controllo dell’integrità e della riparazione del DNA. Termini correlati: Genoma Proteasi Si tratta di proteine dotate di attività enzimatica, che catalizzano la rottura del legame peptidico tra un amminoacido e l’altro, con l’ausilio di una molecola d’acqua. Ecco perché appartengono alla famiglia delle idrolasi. Si differenziano in base al tipo di residuo che hanno nel sito catalitico (ad es. metallo-proteasi, serino-proteasi, cistein-proteasi e così via). Sono coinvolte nella degradazione delle proteine, ma anche nell’attivazione specifica di alcuni substrati. Termini correlati: Metallo-proteasi Rb È chiamata così perché la sua alterazione causa il retinoblastoma, un tumore della retina. Si trova nel nucleo delle cellule e regola il ciclo cellulare, inibendolo il passaggio da fase G1 a S quando le condizioni non sono adeguate (ad es. in caso di danni al DNA). Recettore tirosin-chinasico Detti anche RTKs (Receptor Tyrosine Kinase) sono proteine dotate di attività chinasica, capaci cioè di trasferire un gruppo fosfato dall’ATP a proteine bersaglio a livello di specifici residui di tirosina. Si tratta di recettori di membrana che possiedono un dominio extracellulare (in grado di legare ligandi specifici), un dominio che attraversa la membrana plasmatica e uno intracellulare coinvolto nel trasferimento del segnale all’interno della cellula. Termini correlati: ATP, Chinasi, Ligando, Recettori Recettori Sono proteine localizzate sulla membrana o nella cellula, capaci di legare un fattore specifico. Il legame genera un cambiamento della loro struttura tridimensionale (attivazione) e dà l’avvio a una cascata di segnalazione cellulare. Termini correlati: Chinasi, Dimeri, Ligando, Recettore tirosin-chinasico Recidiva In termini medici identifica il ritorno a distanza di tempo di una malattia che in precedenza era stata eliminata. Termini correlati: Farmacoresistenza, Mammaprint, OncotypeDx 194 Glossario Ricerca traslazionale È quel ramo della ricerca che ha l’obiettivo di trasferire le conoscenze scientifiche prodotte in laboratorio in nuove applicazioni mediche: dallo sviluppo al riposizionamento di un farmaco, dalla creazione di un nuovo test diagnostico alla realizzazione di un’apparecchiatura medica innovativa. Termini correllati: Farmaci molecolari, Mammaprint, OncotypeDx Secondi messaggeri Si tratta di molecole di varia natura che, rilasciate in seguito al legame tra recettore e ligando (o primo messaggero), trasferiscono il segnale all’interno della cellula, attivando proteine con attività chinasica. Uno dei più noti è l’AMP ciclico, prodotto a partire dall’ATP, la cui scoperta valse a Sutherland il premio Nobel per la medicina nel 1971. Termini correati: ATP, Chinasi Sequenziare Individuare l’ordine con cui si susseguono i nucleotidi in un tratto specifico di DNA. Ciò permette di conoscere le informazioni contenute nel DNA, come per esempio i suoi geni o la presenza di eventuali alterazioni. Termini correlati: Bioinformatica, Codone, Genoma, Omologo Sovraespressione Detta anche over-espressione, consiste in una regolazione anomala dell’espressione genica di uno specifico gene, che comporta un aumento della sua trascrizione e di conseguenza una maggiore produzione della corrispondente proteina. Telomerasi È un enzima, in particolare una trascrittasi inversa, cioè una DNA polimerasi RNA dipendente: usa frammenti di RNA come stampo per aggiungere alle estremità dei cromosomi ripetizioni di sequenze specifiche di DNA, allungandole. Termini correlati: Telomeri Telomeri Sono le regioni terminali dei cromosomi e sono formati da una sequenza di sei basi ripetuta migliaia di volte (nei mammiferi 5’-TTAGGG -3’). Proteggono il DNA, impedendogli di rovinarsi alla fine di ogni replicazione. Termini correlati: Telomerasi 195 “L’identikit del cancro in dieci tratti” è un progetto di YouScientist di IFOM, Istituto FIRC di Oncologia Molecolare. Ideazione e piano editoriale Assunta Croce Testi Assunta Croce, Gilda Nappo e Chiara Segrè Gli approfondimenti sono a cura degli Studenti Ricercatori - Edizione 2013: Jacopo Canonichesi, Giulia Chianella, Camilla De Giorgi, Marco Franceschini, Roberto Molinaro, Erik Mus, Matteo Pavarini, DavideRodorigo, Giada Toso e Francesca Zerial Progetto grafico Deborah Agostini e Cinzia Villa Foto credits e illustrazioni Amaya Alzu Farinas, Aurora Cerutti, Cinzia Chirico, Assunta Croce, Andrea Disanza, Ubaldo Gioia, Prakash Hande, Idoya Lahortiga, Chiara Malinverno, Gilda Nappo, Fabrizio Orsenigo, Stefania Romaggi, Valeria Soglio e Ralph Zellweger Tutte le illustrazioni sono a cura di Gilda Nappo L’illustrazione che rappresenta i dieci tratti distintivi delle cellule tumorali è tratta dalla figura 6 dell’articolo: “The Hallmarks of Cancer: the next generation” (authors: D. Hanahan and R. Weinberg; published in Cell /144/, March 4, 2011). [Licenza numero 3332981471427] Foto Rita Levi-Montalcini: Alessandra Benedetti/Corbis Referente scientifico Giorgio Scita, direttore del programma di ricerca IFOM “Meccanismi di migrazione nelle cellule tumorali” Copyright © 2015 IFOM Tutti i diritti sono riservati, incluso il diritto di riproduzione totale o parziale in ogni forma.