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La vicenda dei POW italiani sotto la responsabilità degli USA

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La vicenda dei POW italiani sotto la responsabilità degli USA
POW in USA
24
4
Stati Uniti, alla
quale e stato affidato
l’incarico di esaminare
le oltre 6 mila domande
di indennizzo presentate
dagli ex prigionieri o
dai loro eredi.
Da tempo il Ministero
della Difesa assicura una
conclusione dei lavori di
indagine, ma ad oltre
due anni e mezzo
dall’istituzione della
Commissione nessuna
delle sei mila domande
presentate ha ancora
ottenuto una risposta
ufficiale e definitiva. l
POW in USA
America. Venne rimpatriato il 24 settembre del 1945. La famiglia non si ricorda il nome
del campo, né il lavoro fatto dal padre. Il 12 luglio del 2000 la signora Questa ha inviato
richiesta di indennizzo al Ministero del Tesoro.
Il 20 luglio del 2000 ha ricevuto una prima risposta nella quale il Ministero del Tesoro le
comunicava solo di aver inviato la domanda al Ministero della Difesa. Il 5 febbraio del
2002 la signora Questa ha ricevuto una lettera con la quale il Ministero della Difesa le comunicava che erano “in corso azioni volte ad individuare, in presenza di accertati crediti
residuali – possibili soluzioni in materia, eventualmente anche attraverso uno specifico
provvedimento legislativo”. Da allora, però non ha saputo più nulla.
Paolo Marchi, da Desenzano del Garda (Brescia)
È figlio di Sergio Marchi, un soldato italiano prigioniero degli Stati Uniti. Fatto prigioniero in Africa nel maggio del 1943, venne trasferito in un campo di prigionia americano dal
quale ritorno nel luglio del 1946. A nome della madre, Paolo Marchi ha inviato al Ministero della Difesa una richiesta di indennizzo nell’aprile del 2000.
Allora il Ministero gli rispose che non vi erano “disposizioni legislativi e/o regolamentari
che prevedano rimborsi” e che “non risulta alcun elenco di aventi titolo al riguardo”.
Nel settembre scorso Marchi è tornato a chiedere informazioni ed il Ministero della Difesa
gli ha risposto il 6 ottobre scorso affermando che la questione è “tuttora in attesa di una soluzione da parte dell’Autorità politico-legislativa”. l
La vicenda dei POW italiani
sotto la responsabilità degli USA
di Gianluca La Posta
C
ercare di risalire, documenti alla mano, a ciò che accadde quasi sessanta anni fa può non essere facile, soprattutto quando la vicenda è ingarbugliata e confusa come
quella che riguarda i prigionieri di guerra italiani che, durante la Seconda guerra mondiale, furono catturati sui vari
fronti e detenuti dagli Stati Uniti d’America.
La storia appare paradossale. Del milione di militari prigionieri, degli Alleati o internati dai nazisti, che il nostro paese
sopportò durante la guerra, i circa 125.000 ex P.O.W.’s (prisoners of war, secondo la dicitura statunitense) sotto la responsabilità americana, sono stati gli unici che videro riconosciuto il valore del lavoro prestato per la “potenza detentrice” durante la prigionia e ottennero l’assegnazione di una
somma a titolo di compenso per l’attività svolta.
Ciò nonostante, ancora oggi si avanzano dubbi su che fine
abbia fatto quela somma, se sia stata realmente restituita a
tutti gli aventi diritto o se, invece, sia stata incamerata dal
Tesoro e illegittimamente destinata ad altri fini come la ricostruzione del Paese distrutto dalla guerra.
Per cercare di rispondere a questa domanda è necessario
partire dal Libro Bianco sugli assegni corrisposti ai prigionieri italiani in USA del 1961 (gentilmente messo a disposizione dall’ANRP) che il Governo italiano dell’epoca fu let-
teralmente costretto a redigere in risposta alle aspre polemiche che in quegli anni infuriavano sulla stampa nazionale e
che, guarda caso, esprimevano perplessità e dubbi simili a
quelli che, da qualche tempo, vengono riproposti dalle pagine di questa rivista grazie, anche, all’interessamento dei
mass-media.
A dire il vero, il titolo stesso del Libro Bianco ingenera
confusione, infatti si parla di assegni corrisposti agli ex
P.O.W.’s italiani in U.S.A. volendo, in realtà, intendere tutti
i prigionieri italiani che sono stati sotto la custodia statunitense e non solo quelli effettivamente deportati sul territorio americano.
Dei 125.000 militari italiani in mano americana, solo
50.000 furono custoditi in campi di prigionia situati sul territorio degli Stati Uniti mentre gli altri, pur rimanendo sotto
custodia U.S.A., furono internati in campi del Nord Africa
e dell’Europa.
Di tali internati circa 100.000 decisero di collaborare con
l’autorità detentrice, dopo l’8 settembre del 1943, prestando attività lavorativa volontaria che, in un modo o nell’altro, andava a sostenere lo sforzo bellico degli Alleati.
Tra questi “cooperatori” solo 33.000 erano effettivamente
quelli impiegati in America.
A norma della Convenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra – alla quale avevano aderito
sia l’Italia che gli U.S.A. – l’attività lavorativa dei prigionieri doveva essere retribuita dalla potenza detentrice e
l’ammontare della somma doveva essere deciso sulla base
di accordi bilaterali conclusi tra i belligeranti.
Mancando qualsiasi forma di accordo tra Italia e Stati Uniti, questi ultimi decisero, unilateralmente, di corrispondere
ai prigionieri “collaboratori” la somma fissa di 80 centesimi di dollaro al giorno la quale, secondo logiche di cottimo,
poteva aumentare, in alcuni casi, fino a $ 1,20 al giorno cui
andava ad aggiungersi un emolumento mensile di tre dollari inizialmente corrisposto a tutti ed in seguito solamente ai
prigionieri inabili al lavoro.
In realtà, in mancanza di accordi, la Convenzione del 1929
obbligava la potenza detentrice a corrispondere ai prigionieri somme di denaro secondo “les tarifs en vigueur pour
les militaires de l’armee nationale exécutaant le mémes travaux…” (Art. 34) collegando,
quindi, la paga dei prigionieri a
quanto corrisposto, per i medesimi lavori, ai militari della potenza detentrice.
La decisione presa dagli americani non rispettò questi parametri
minimi e i tentativi italiani di
“correggere” l’anomalia incontrarono la decisa opposizione
delle autorità U.S.A. non disposte a “trattare” sulla questione.
L’Italia che aveva perso la guerra non aveva una sufficiente
forza contrattuale e non bisogna dimenticare che gli Stati
Uniti decisero “graziosamente” di onorare il debito con i
P.O.W.’s anche se il nostro Paese, in sede di Accordi di Pace con le potenze alleate, aveva rinunciato al risarcimento
di qualsiasi credito, fosse esso statale o riguardante privati
cittadini.
Alla fine della guerra, i nostri militari vennero rimpatriati
ed ebbe inizio il “tragicomico” iter burocratico per poter ottenere la restituzione del dovuto.
Secondo il Libro Bianco del 1961 le autorità americane all’atto del rimpatrio rilasciarono ad ogni prigioniero che
vantasse un fido, un titolo di credito (military payment orders o certificates of credit) con l’annotazione del quantum
da riscuotere all’atto dell’esibizione dello stesso, senza
però specificare – in assenza di accordi e di coordinazione
con le autorità italiane – come e quando la restituzione del
denaro sarebbe potuta avvenire.
Dopo la fine della guerra i nostri militari presi prigionieri
dalle potenze alleate iniziarono ad essere rimpatriati e tra
tutti, gli ex “collaboratori” del governo americano furono
forniti di titoli di credito militari (military payment orders o
certificates of credit) per poter ritirare la somma guadagnata con il loro lavoro durante la prigionia.
Sta di fatto che, una volta rientrati nel nostro paese, gli ex
prigionieri dovettero consegnare il titolo di credito agli enti
militari italiani di accoglienza ricevendo un rimborso parziale (il 50%?) della somma dovuta, ottenuto applicando un
tasso di cambio provvisorio ed ovviamente inferiore alle
573 lire per dollaro all’epoca vigente. Molti prigionieri, probabilmente, hanno visto solo ed unicamente questi soldi!
I titoli così raccolti furono accentrati presso l’Ufficio
d’Amministrazione Personale Militare Vari dell’allora Ministero della Guerra.
Inizialmente fu deciso che il pagamento delle somme doveva esser effettuato dalle stesse autorità di occupazione americane, le quali chiesero al nostro governo di restituire i titoli di credito ai reduci che, poi, si recarono in massa dagli
Americani per ottenere il denaro. Gli uffici addetti non riuscirono a far fronte alle richieste e tutto ciò costrinse gli
U.S.A. a cercare altre soluzioni.
Si ritenne di giungere ad una conclusione con l’accordo
epistolare Tasca-Del Vecchio, rispettivamente rappresentante del Tesoro U.S.A. e Ministro del Tesoro italiano, mai ratificato dal nostro Parlamento essendo stato, forse, considerato
un semplice memorandum esecutivo.
Sta di fatto che fu deciso di risolvere la questione mediante la restituzione agli Stati Uniti di tutti i
titoli di credito degli ex P.O.W.’s,
affinché le competenti autorità
americane procedessero alla verifica di autenticità degli stessi e,
in base al dovuto accertato, consegnassero all’Italia la somma di denaro che le nostre autorità avrebbero poi provveduto a restituire agli interessati.
I titoli vennero, per l’ennesima, volta richiesti ai possessori,
accentrati presso un unico ufficio, consegnati agli Americani in attesa che questi, all’esito della verifica, emettessero
delle dichiarazioni di saldo attivo (Statement of Credit Bilance) a favore di ogni ex prigioniero cui fosse stato riconosciuto un credito. I titoli originali, in ottemperanza a quanto
stabilito dal memorandum Tasca -Del Vecchio, dovrebbero,
quindi, essere rimasti in possesso degli U.S.A.
In base a tale non semplice procedura l’Italia ricevette, il 2
aprile1948, la somma iniziale di $ 4.382.241,03 pari al
cambio vigente a Lit. 2.511.024.110,19 e, più tardi, il 5
gennaio 1949 la somma restante di $ 21.345.263,10 pari a
più di 12 miliardi di lire dell’epoca.
Una volta “tornati” in Italia gli Statements vennero inviati
dall’Ufficio d’Amministrazione Personale Militare Vari
agli enti preposti alla restituzione del denaro e che erano
per l’Esercito i Distretti Militari; per la Marina vari centri
individuati sul territorio nazionale e per l’Aeronautica le
Direzioni di Commissariato delle Zone Aeree Territoriali.
Ogni singolo Ufficio responsabile provvide a notificare,
agli ex prigionieri da risarcire, l’informativa di recarsi presso lo stesso ufficio per ritirare, finalmente, il dovuto decurtato dell’eventuale anticipo, incassato dal reduce all’atto
del rimpatrio.
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Stati Uniti, alla
quale e stato affidato
l’incarico di esaminare
le oltre 6 mila domande
di indennizzo presentate
dagli ex prigionieri o
dai loro eredi.
Da tempo il Ministero
della Difesa assicura una
conclusione dei lavori di
indagine, ma ad oltre
due anni e mezzo
dall’istituzione della
Commissione nessuna
delle sei mila domande
presentate ha ancora
ottenuto una risposta
ufficiale e definitiva. l
POW in USA
America. Venne rimpatriato il 24 settembre del 1945. La famiglia non si ricorda il nome
del campo, né il lavoro fatto dal padre. Il 12 luglio del 2000 la signora Questa ha inviato
richiesta di indennizzo al Ministero del Tesoro.
Il 20 luglio del 2000 ha ricevuto una prima risposta nella quale il Ministero del Tesoro le
comunicava solo di aver inviato la domanda al Ministero della Difesa. Il 5 febbraio del
2002 la signora Questa ha ricevuto una lettera con la quale il Ministero della Difesa le comunicava che erano “in corso azioni volte ad individuare, in presenza di accertati crediti
residuali – possibili soluzioni in materia, eventualmente anche attraverso uno specifico
provvedimento legislativo”. Da allora, però non ha saputo più nulla.
Paolo Marchi, da Desenzano del Garda (Brescia)
È figlio di Sergio Marchi, un soldato italiano prigioniero degli Stati Uniti. Fatto prigioniero in Africa nel maggio del 1943, venne trasferito in un campo di prigionia americano dal
quale ritorno nel luglio del 1946. A nome della madre, Paolo Marchi ha inviato al Ministero della Difesa una richiesta di indennizzo nell’aprile del 2000.
Allora il Ministero gli rispose che non vi erano “disposizioni legislativi e/o regolamentari
che prevedano rimborsi” e che “non risulta alcun elenco di aventi titolo al riguardo”.
Nel settembre scorso Marchi è tornato a chiedere informazioni ed il Ministero della Difesa
gli ha risposto il 6 ottobre scorso affermando che la questione è “tuttora in attesa di una soluzione da parte dell’Autorità politico-legislativa”. l
La vicenda dei POW italiani
sotto la responsabilità degli USA
di Gianluca La Posta
C
ercare di risalire, documenti alla mano, a ciò che accadde quasi sessanta anni fa può non essere facile, soprattutto quando la vicenda è ingarbugliata e confusa come
quella che riguarda i prigionieri di guerra italiani che, durante la Seconda guerra mondiale, furono catturati sui vari
fronti e detenuti dagli Stati Uniti d’America.
La storia appare paradossale. Del milione di militari prigionieri, degli Alleati o internati dai nazisti, che il nostro paese
sopportò durante la guerra, i circa 125.000 ex P.O.W.’s (prisoners of war, secondo la dicitura statunitense) sotto la responsabilità americana, sono stati gli unici che videro riconosciuto il valore del lavoro prestato per la “potenza detentrice” durante la prigionia e ottennero l’assegnazione di una
somma a titolo di compenso per l’attività svolta.
Ciò nonostante, ancora oggi si avanzano dubbi su che fine
abbia fatto quela somma, se sia stata realmente restituita a
tutti gli aventi diritto o se, invece, sia stata incamerata dal
Tesoro e illegittimamente destinata ad altri fini come la ricostruzione del Paese distrutto dalla guerra.
Per cercare di rispondere a questa domanda è necessario
partire dal Libro Bianco sugli assegni corrisposti ai prigionieri italiani in USA del 1961 (gentilmente messo a disposizione dall’ANRP) che il Governo italiano dell’epoca fu let-
teralmente costretto a redigere in risposta alle aspre polemiche che in quegli anni infuriavano sulla stampa nazionale e
che, guarda caso, esprimevano perplessità e dubbi simili a
quelli che, da qualche tempo, vengono riproposti dalle pagine di questa rivista grazie, anche, all’interessamento dei
mass-media.
A dire il vero, il titolo stesso del Libro Bianco ingenera
confusione, infatti si parla di assegni corrisposti agli ex
P.O.W.’s italiani in U.S.A. volendo, in realtà, intendere tutti
i prigionieri italiani che sono stati sotto la custodia statunitense e non solo quelli effettivamente deportati sul territorio americano.
Dei 125.000 militari italiani in mano americana, solo
50.000 furono custoditi in campi di prigionia situati sul territorio degli Stati Uniti mentre gli altri, pur rimanendo sotto
custodia U.S.A., furono internati in campi del Nord Africa
e dell’Europa.
Di tali internati circa 100.000 decisero di collaborare con
l’autorità detentrice, dopo l’8 settembre del 1943, prestando attività lavorativa volontaria che, in un modo o nell’altro, andava a sostenere lo sforzo bellico degli Alleati.
Tra questi “cooperatori” solo 33.000 erano effettivamente
quelli impiegati in America.
A norma della Convenzione di Ginevra del 1929 sul trattamento dei prigionieri di guerra – alla quale avevano aderito
sia l’Italia che gli U.S.A. – l’attività lavorativa dei prigionieri doveva essere retribuita dalla potenza detentrice e
l’ammontare della somma doveva essere deciso sulla base
di accordi bilaterali conclusi tra i belligeranti.
Mancando qualsiasi forma di accordo tra Italia e Stati Uniti, questi ultimi decisero, unilateralmente, di corrispondere
ai prigionieri “collaboratori” la somma fissa di 80 centesimi di dollaro al giorno la quale, secondo logiche di cottimo,
poteva aumentare, in alcuni casi, fino a $ 1,20 al giorno cui
andava ad aggiungersi un emolumento mensile di tre dollari inizialmente corrisposto a tutti ed in seguito solamente ai
prigionieri inabili al lavoro.
In realtà, in mancanza di accordi, la Convenzione del 1929
obbligava la potenza detentrice a corrispondere ai prigionieri somme di denaro secondo “les tarifs en vigueur pour
les militaires de l’armee nationale exécutaant le mémes travaux…” (Art. 34) collegando,
quindi, la paga dei prigionieri a
quanto corrisposto, per i medesimi lavori, ai militari della potenza detentrice.
La decisione presa dagli americani non rispettò questi parametri
minimi e i tentativi italiani di
“correggere” l’anomalia incontrarono la decisa opposizione
delle autorità U.S.A. non disposte a “trattare” sulla questione.
L’Italia che aveva perso la guerra non aveva una sufficiente
forza contrattuale e non bisogna dimenticare che gli Stati
Uniti decisero “graziosamente” di onorare il debito con i
P.O.W.’s anche se il nostro Paese, in sede di Accordi di Pace con le potenze alleate, aveva rinunciato al risarcimento
di qualsiasi credito, fosse esso statale o riguardante privati
cittadini.
Alla fine della guerra, i nostri militari vennero rimpatriati
ed ebbe inizio il “tragicomico” iter burocratico per poter ottenere la restituzione del dovuto.
Secondo il Libro Bianco del 1961 le autorità americane all’atto del rimpatrio rilasciarono ad ogni prigioniero che
vantasse un fido, un titolo di credito (military payment orders o certificates of credit) con l’annotazione del quantum
da riscuotere all’atto dell’esibizione dello stesso, senza
però specificare – in assenza di accordi e di coordinazione
con le autorità italiane – come e quando la restituzione del
denaro sarebbe potuta avvenire.
Dopo la fine della guerra i nostri militari presi prigionieri
dalle potenze alleate iniziarono ad essere rimpatriati e tra
tutti, gli ex “collaboratori” del governo americano furono
forniti di titoli di credito militari (military payment orders o
certificates of credit) per poter ritirare la somma guadagnata con il loro lavoro durante la prigionia.
Sta di fatto che, una volta rientrati nel nostro paese, gli ex
prigionieri dovettero consegnare il titolo di credito agli enti
militari italiani di accoglienza ricevendo un rimborso parziale (il 50%?) della somma dovuta, ottenuto applicando un
tasso di cambio provvisorio ed ovviamente inferiore alle
573 lire per dollaro all’epoca vigente. Molti prigionieri, probabilmente, hanno visto solo ed unicamente questi soldi!
I titoli così raccolti furono accentrati presso l’Ufficio
d’Amministrazione Personale Militare Vari dell’allora Ministero della Guerra.
Inizialmente fu deciso che il pagamento delle somme doveva esser effettuato dalle stesse autorità di occupazione americane, le quali chiesero al nostro governo di restituire i titoli di credito ai reduci che, poi, si recarono in massa dagli
Americani per ottenere il denaro. Gli uffici addetti non riuscirono a far fronte alle richieste e tutto ciò costrinse gli
U.S.A. a cercare altre soluzioni.
Si ritenne di giungere ad una conclusione con l’accordo
epistolare Tasca-Del Vecchio, rispettivamente rappresentante del Tesoro U.S.A. e Ministro del Tesoro italiano, mai ratificato dal nostro Parlamento essendo stato, forse, considerato
un semplice memorandum esecutivo.
Sta di fatto che fu deciso di risolvere la questione mediante la restituzione agli Stati Uniti di tutti i
titoli di credito degli ex P.O.W.’s,
affinché le competenti autorità
americane procedessero alla verifica di autenticità degli stessi e,
in base al dovuto accertato, consegnassero all’Italia la somma di denaro che le nostre autorità avrebbero poi provveduto a restituire agli interessati.
I titoli vennero, per l’ennesima, volta richiesti ai possessori,
accentrati presso un unico ufficio, consegnati agli Americani in attesa che questi, all’esito della verifica, emettessero
delle dichiarazioni di saldo attivo (Statement of Credit Bilance) a favore di ogni ex prigioniero cui fosse stato riconosciuto un credito. I titoli originali, in ottemperanza a quanto
stabilito dal memorandum Tasca -Del Vecchio, dovrebbero,
quindi, essere rimasti in possesso degli U.S.A.
In base a tale non semplice procedura l’Italia ricevette, il 2
aprile1948, la somma iniziale di $ 4.382.241,03 pari al
cambio vigente a Lit. 2.511.024.110,19 e, più tardi, il 5
gennaio 1949 la somma restante di $ 21.345.263,10 pari a
più di 12 miliardi di lire dell’epoca.
Una volta “tornati” in Italia gli Statements vennero inviati
dall’Ufficio d’Amministrazione Personale Militare Vari
agli enti preposti alla restituzione del denaro e che erano
per l’Esercito i Distretti Militari; per la Marina vari centri
individuati sul territorio nazionale e per l’Aeronautica le
Direzioni di Commissariato delle Zone Aeree Territoriali.
Ogni singolo Ufficio responsabile provvide a notificare,
agli ex prigionieri da risarcire, l’informativa di recarsi presso lo stesso ufficio per ritirare, finalmente, il dovuto decurtato dell’eventuale anticipo, incassato dal reduce all’atto
del rimpatrio.
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POW in USA
A.U.C. del ‘43
a cura di Alvaro Riccardi
In conclusione è necessario rilevare alcune peculiarità che
emergono dalla documentazione consultata.
Il Libro Bianco del 1961 fu redatto per giustificare l’operato dei Governi italiani e, quindi, difficilmente potrebbe
contenere elementi che possano evidenziare mancanze o
“sottrazioni”da parte dei Governi stessi.
Ciò nonostante, è possibile ricavare dal Libro che i Titoli di
credito degli ex prigionieri, documenti fondamentali per
l’esigibilità dei soldi, subirono in quegli anni tanti, troppi,
passaggi di mano per finire non nel macero nazionale ma,
eventualmente, in quello statunitense.
Durante questo intricato procedimento, alle lungaggini ed
alle inefficienze tipiche della burocrazia italiana, si aggiunse anche il “carico da undici” dell’indecisione Americana!
C’è da tener conto, poi, che le comunicazioni agli interessati avvennero in un Paese distrutto dalla guerra e con mezzi
molto probabilmente non adeguati. Non è impossibile pensare che qualche cosa non abbia funzionato e che più di
qualcuno non abbia mai avuto notizia delle restituzioni
mentre qualcun altro possa essersi approfittato della confusione.
Dobbiamo aggiungere, poi, che l’elenco dei nomi contenuti
nel Libro Bianco del 1961 riguarda solo coloro che hanno
ricevuto il denaro e non la lista di tutti gli aventi diritto al
risarcimento. L’Italia non sembra essere mai stata in possesso di alcuna lista del genere. Almeno ciò si evince dal
Libro.
È forse il caso di rivolgersi al Dipartimento del Tesoro degli U.S.A. per ottenere delucidazioni a riguardo tanto più
che i mezzi di comunicazione attuali non rendono difficile
simili scambi di informazioni?
Dall’analisi dell’elenco dei nomi contenuta nel Libro Bianco, effettuata dall’ANRP è stato evidenziato che non risultano esserci proprio quelli dei 33.000 ex collaboratori internati negli Stati Uniti! Questa ricerca è stata resa difficile dal
L’ANRP
non abdicherà mai
al dovere di tutelare, in ogni sede,
i propri associati.
Da soli si fa poco e la via giudiziaria
intrapresa, per ripristinare
il diritto, la verità
e la memoria storica,
costa molto.
L’unione fa la forza,
non solo: riduce,
e non di poco,
anche i costi.
fatto che il Libro Bianco non riporta alcun riferimento al
luogo dove ogni singolo ha scontato la sua prigionia e,
quindi, risulta essere di scarsa utilità per la risoluzione del
problema.
È stato ipotizzato che tutti i detenuti in territorio americano
abbiano direttamente ricevuto le somme prima del rimpatrio, ma, dai documenti in nostro possesso, non emergono
elementi a sostegno di questa pur plausibile ipotesi. Anche
in questo caso è necessario che le nostre autorità, come ultima risorsa, si rivolgano agli Stati Uniti per avere una risposta definitiva.
Lo scopo evidente della polemica sollevata dalle pagine di
questa rivista, è, soprattutto, quello di poter giungere – dopo sessant’anni dagli eventi, – alla ricostruzione della verità
che purtroppo riguarda un numero esiguo di cittadini tale
da non essere politicamente interessante.
La considerazione può apparire amara ma è ciò che si è verificato in tutti questi anni.
Ancora oggi, nel dicembre del 2003 siamo in attesa di una
risposta alle domande che tanta incertezza ed approssimazione hanno fatto sorgere. Come i nostri lettori ben sanno,
esiste una Commissione istituita nel 2001 presso il Ministero della Difesa, per l’analisi delle domande di restituzione
presentate dopo che la questione è stata risollevata dai mas
media ed i lavori di detta Commissione si dovevano concludere dopo svariati rinvii entro il 31 dicembre 2003.
Indro Montanelli sosteneva che un popolo senza passato
fosse un popolo senza futuro. Questo sono stati gli Italiani
fino ad oggi, soprattutto per le tristi vicende della seconda
guerra mondiale ricordate solo se “comode” per le varie fazioni che hanno calcato la scena politica del Paese negli anni. Speriamo che il mutato clima nei confronti delle
FF.AA., aiutino, questa volta, a non scordare il nostro passato ed a rendere giustizia a chi ha aspettato sessant’anni
per averla. l
“C’è chi vorrebbe dimenticare,
c’è chi vorrebbe falsificare.
Noi cerchiamo di difendere
la verità e la memoria storica
”
Sostieni la nostra azione con
un abbonamento a “rassegna”
€ 15.00 da versare sul c/c postale 51610004
intestato: ANRP Roma
Gruppo Ufficiali
ex A.U.C. del ’43
Degnamente onorate nella
Capitale la figura e le opere
di Beppe Fenoglio
“Tutte le strade conducono a Roma” afferma un noto aforisma, dai risvolti anche figurati, che proprio in questi giorni si è dimostrato pienamente valido.
Dopo ben 60 anni, infatti, trascorsi fra
mille peripezie, sono state accolte nella
Capitale, per essere riproposte al pubblico, le memorie di Beppe Fenoglio:
attore (nel senso di “colui che seppe e
volle agire”) e autore, al tempo stesso,
di opere rievocative che, in tale duplice
veste, diede un contributo senza pari all’epopea della Resistenza.
Si è trattato di “un ritorno”, come alcuni hanno riconosciuto: un ritorno che
“sa di primavera” o “di anni verdi”, come scrivevano gli antichi commilitoni
di Beppe, che con lui trascorsero un periodo relativamente breve ma denso di
avvenimenti che non è esagerato definire “epocali”: perché da essi, pur maturati nella sventura, ebbe origine il riscatto del popolo italiano. Lo aveva
perfettamente intuito, anzi previsto, Fenoglio quando, nella scuola “Don Bosco” di Roma – Montesacro trasformata provvisoriamente in caserma, fu trasferito con il 2° Battaglione universitario al quale apparteneva, dopo alcuni
mesi trascorsi a Ceva nel Cuneese.
Tutto ciò ha formato oggetto di un
Convegno dal titolo “Scrittura e Resistenza” svoltosi nel mese di novembre
di quest’anno presso la “Casa delle
Letterature”, sita in Roma – Piazza dell’Orologio, per commemorare il sessantennio di quello che fu chiamato “il
riscatto del popolo italiano” e il quarantennio della morte del prestigioso
Autore.
La manifestazione era indetta dall’Assessorato alle Politiche culturali del Comune di Roma, in collaborazione con la
Fondazione Ferrero, di Alba (Cuneo),
l’Università degli studi “La Sapienza” e
quella di Teramo, la Casa editrice Einaudi e “Il Caffè illustrato”. Nutrito il
programma, attuato dal 4 al 20 novembre e comprendente una mostra di fotografie originali e manoscritti prestati
dalla famiglia Fenoglio e di prime edizioni e documenti provenienti dal Centro ricerche e documentazione “Beppe
Fenoglio” della citata Fondazione Ferrero: il tutto accompagnato dalla presentazione di opere del compianto Autore pubblicate rispettivamente dalle
Case editrici Einaudi e Garzanti e della
proiezione, nel giorno inaugurale, di
due interessanti documentari.
Una settimana dopo (11 novembre) ha
avuto inizio il previsto Convegno, preceduto dai saluti di Gianni Borgna, Assessore capitolino alle Politiche culturali, di Maria Pia Gaeta, Responsabile
della “Casa delle Letterature e della figlia di Fenoglio, Margherita.
Nel corso del Convegno, conclusosi il
13 novembre e presieduto a turno da
Roberto Bigazzi, Gabriele Pedullà e
Giulio Ferroni, sono state presentate da
eminenti Autori ben 17 relazioni, cui ha
fatto seguito, con la partecipazione di
otto oratori, una “tavola rotonda” coordinata da Giulio Ferroni e Gabriele Pedullà. Per finire, Francesco Siciliano ha
letto “I ventitré giorni della città di Al-
ba” di Beppe Fenoglio.
Il nutrito programma del Convegno ha
consentito ai prestigiosi oratori di far
conoscere al pubblico (che ha seguito i
lavori direttamente o attraverso la
stampa) l’essenza genuina delle opere
di Fenoglio, protagonista e narratore
(come già detto), in chiave romanzata
ma aderente alla realtà, dei fatti successivi all’8 settembre 1943: avvenimenti
di cui furono protagonisti centinaia di
migliaia di patrioti, pur consci delle terribili conseguenze alle quali si esponevano quando osarono ribellarsi all’oppressione degli antichi alleati tedeschi,
armati fino ai denti e intenzionati ad
imporre agli italiani il rispetto a qualunque costo – compresa la rovina totale – del famigerato “patto d’acciaio” a
suo tempo incautamente sottoscritto.
Ben calzante si può considerare, al riguardo, quanto realisticamente affermava Nicolò Macchiavelli in un passo
del Libro III dei “Discorsi”: “In qualunque azione si può acquistare gloria,
perché nella vittoria s’acquista ordinariamente, nella perdita s’acquista o col
mostrare tal perdita non essere venuta
per tua colpa, o col far subito qualche
azione virtuosa che la cancelli”. E la
“Resistenza”, si potrebbe aggiungere a
mò di commento, ebbe proprio questo
significato e il suo scopo quello di “salvare il salvabile”, indicando anche agli
antichi alleati una via d’uscita, dolorosa ma indiscutibilmente valida: tanto
valida da ispirare indirettamente, nel
1944, la congiura dei generali tedeschi
dissidenti contro la follia hitleriana (un
tentativo purtroppo fallito e punito con
la condanna a morte degli autori, eseguita con barbara ferocia).
Così Fenoglio intese offrire al pubblico
una “chiave di lettura” o, meglio “di rilettura” degli avvenimenti svoltisi fra il
settembre 1943 e l’aprile 1945. In questo quadro si pone, come altre volte osservato, il racconto “Primavera di bellezza”, edito da Garzanti nel 1959 (4
anni, cioè, prima della morte dell’Autore): un racconto che, si badi bene, non è
parto di pura fantasia ma che si ispira
alle esperienze realmente vissute dall’Autore medesimo nel 1943, insieme
con i suoi commilitoni del 2° Battaglione d’istruzione, presentati sotto altri
nomi. l
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