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NOTE SUL GENERE DOCUMENTARIO: LA REALTÀ È TALMENTE

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NOTE SUL GENERE DOCUMENTARIO: LA REALTÀ È TALMENTE
01/09/13
Note sul Genere Documentario: La realtà è talmente inverosimile che per renderla verosimile è necessario mescolarla a qualche menzogna | Fieldwor…
NOTE SUL GENERE DOCUMENTARIO: LA REALTÀ È
TALMENTE INVEROSIMILE CHE PER RENDERLA
VEROSIMILE È NECESSARIO MESCOLARLA A QUALCHE
MENZOGNA
di TONI ANDREETTA
E’ difficile definire l’area semantica che il termine documentario è chiamato a ricoprire. Le cose non sono
così semplici. La pratica documentaria del cinema, nell’accezione più comune, si pone come oggetto del
racconto un referente reale, cioè qualcosa che preesiste o che accade non in funzione della ripresa
cinematografica. Per documentare questa realtà, l’autore dovrebbe realizzare una elaborazione del testo
filmico fondato sulla massima riduzione della arbitrarietà dei propri segni, sino alla cancellazione quasi
totale del processo di scrittura in sede di ripresa e post-produzione, ottenendo il massimo della
trasparenza nella descrizione di fatti e accadimenti. Nella realtà le cose stanno diversamente e la storia del
documentario mette in luce modalità espressive che fanno sentire la soggettività dell’autore, l’ideologia
dello sponsor e della struttura editoriale paradossalmente molto di più del cinema di finzione. Il reportage
asettico e trasparente di fatti e immagini del mondo è impresa impossibile per una serie di considerazioni
facilmente intuibili e che in questa sede mi pare inopportuno elencare. A tal proposito basta richiamare
l’attenzione sul fatto che già la scelta dell’inquadratura, la selezione del “girato” da montare, l’utilizzo della
musica e così via sono tutti elementi che “piegano” il “reale” e fanno sentire la soggettività dell’autore. A
questo punto è facile considerare che la distinzione tra documentario e cinema narrativo diventa molto
problematica e alla fine una ricerca in tal senso rischia di essere infruttuosa ai fini di una netta
comprensione del fenomeno. Mi pare invece interessante a questo punto accennare ad alcune modalità
espressive cui è possibile far riferimento parlando di pratica documentaria. I diversi approcci creativi, cui
accennerò, che caratterizzano il fare documentario hanno valenza storica, in quanto si susseguono uno
dopo l’altro lungo la storia del cinema, ma, nel contempo, possono essere intesi anche come una sorta di
strumento di analisi del genere documentario. Tutto parte dalla considerazione che documentare non è
solo mettersi in attesa dell’imprevisto o gettare lo sguardo sul “reale”, è anche costruzione e
configurazione narrativa.
All’interno dei film e dei video documentari, possiamo identificare sei modalità di rappresentazione che
hanno più o meno la funzione di sottogeneri del “genere” documentario: poetica, descrittiva, partecipativa,
osservativa, riflessiva, rappresentativa. Queste sei modalità creano una struttura flessibile entro la quale
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lavorare. L’ordine in cui vengono presentate queste sei modalità corrisponde grossomodo a quello
cronologico con cui sono state introdotte nel corso della storia del cinema. La cosa importante da
sottolineare è che ogni modalità di rappresentazione documentaristica nasce e parte da un senso
crescente di insoddisfazione da parte dei registi nei confronti di una precedente. Solo per fare un
esempio, il documentario poetico è risultato troppo astratto e quello descrittivo troppo didattico quando si
è scoperta la possibilità di filmare gli eventi di tutti i giorni con macchine da presa leggere 16 mm durante
gli anni Sessanta. Vediamo come Bill Nichols nel suo Introduzione al documentario analizza le varie
modalità: “[….] La modalità poetica sacrifica le convenzioni del montaggio in continuità e il conseguente
senso di una collocazione specifica nel tempo e nello spazio. Gli attori sociali non prendono mai forme di
personaggi a tutto tondo, le persone vengono più spesso appaiate con altri oggetti nel ruolo di materiale
grezzo che i registi selezionano e dispongono in associazioni e motivi di loro scelta. Nel
documentario Pioggia (1929) di Joris Ivens, per esempio, non acquisiamo una conoscenza approfondita
degli attori sociali che vi compaiono, ma impariamo ad apprezzare l’impressione poetica, creata dal
regista, di un temporale estivo che passa sopra Amsterdam [….]“. La modalità poetica è particolarmente
adatta a esplorare le possibilità di comunicare in maniera alternativa le informazioni, di proporre
determinati argomenti o punti di vista, o presentare ragionevolmente la soluzione di un problema. Questa
modalità dà evidenza all’impressione, al tono e comunica molto più che sole informazioni o un tentativo di
persuasione. L’elemento retorico resta poco sviluppato.
La modalità poetica si afferma in concomitanza delle avanguardie storiche del primo Novecento. Segue la
modalità descrittiva che è quella che utilizza la voce fuori campo. Questo approccio direi che è il più pigro.
La voce over è l’elemento più importante, mentre le immagini passano in secondo piano e servono di
supporto al commento parlato. La tradizione della voce fuori campo continua ancor oggi. Dei sottogeneri
questo è forse il più retorico e istituzionale. Ovviamente con le dovute eccezioni come Terra di
Spagna (1937) di Ivens, dove tuttavia l’autore non utilizza lo stereotipo di voce professionale profonda,
asettica, ma impiega come speaker Ernest Hemingway. L’utilizzo di una voce poco professionale sul piano
della dizione e della fonetica è spesso sufficiente a eliminare la cadenza didascalico-didattico-retorica che
spesso caratterizza questi documentari. Poi, intorno agli anni ’60 del Novecento, si afferma la modalità
osservativa. Qui l’agilità delle cineprese 16 mm e la possibilità di ripresa dell’audio in diretta permette film
senza il commento fuori campo, senza ricostruzioni storiche, senza interviste dirette. Il mondo viene ripreso
come appare “realmente”. Spesso gli attori sociali appaiono come personaggi problematici. Il regista resta
in una posizione apparentemente marginale e allo spettatore tocca un ruolo più attivo nell’individuare i
significati. Paradossalmente questo è lo stile che più di ogni altro si avvicina alla fiction e i personaggi
spesso diventano estremamente espressivi, attivando processi di identificazione nello spettatore che Edgar
Morin descrive benissimo nel suo Testa ben fatta: “Letteratura, poesia e cinema devono essere considerati
non solamente, né principalmente, come oggetti di analisi grammaticale, sintattica o semiotica, ma come
scuole di vita […..] scuole della scoperta di sé attraverso quella dei personaggi di romanzi o di film. La
doppia estasi della scoperta della nostra verità nella scoperta di una verità esterna a noi, che si accoppia
alla nostra verità, la incorpora e diviene la nostra verità”.
Negli anni ’80 si afferma la modalità partecipativa che ben si armonizza con lo sguardo antropologico
legato al lavoro sul campo, dove uno studioso vive a contatto con una comunità. Qui lo scienziato regista si
mette in gioco e si fa riprendere assieme agli attori sociali mantenendo tuttavia la distanza necessaria per
poter osservare il fenomeno. Il regista partecipa per enfatizzare la verità di un incontro (tra regista e
comunità) e non una verità assoluta e innegabile. Brevemente vediamo le altre modalità. Quella riflessiva è
una sorta di modalità partecipativa dove l’autore-regista-studioso guarda in macchina e oltre a descrivere il
mondo e interagire con esso ci racconta anche le problematiche che nascono dal rappresentarlo. La
dimensione rappresentativa utilizza ricostruzioni dichiaratamente di fiction come dispositivo narrativo utile
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alla descrizione del “reale”.
In ambito storico queste modalità non debbono essere intese come evoluzione di un linguaggio nel corso
di un secolo (in arte non vi è mai progresso, ma solo differenze) ma soltanto sottogeneri sempre
impiegabili anche congiuntamente. Ovviamente in un documentario spesso coesistono varie modalità.
TONI ANDREETTA
Docente di Teoria e Pratica del Documentario presso l’Università degli Studi di Padova, è autore di
numerosi documentari (tra cui La Fenice la rinascita , La Torre del tempo,etc) tra le sue opere mandate in
onda dalle reti nazionali RAI: I Carraresi , Armeni Ebrei e Greci a Venezia, etc. Ha vinto nel 1990 l’ “Airone” al
VII Festival internazionale di Montecatini Terme, quale migliore film sulle risorse culturali con Armeni, Greci,
Ebrei a Venezia e sempre a Montecatini, nel 1991, l’ “Airone” quale migliore film per il turismo culturale
con Il museo d’arte orientale. Nel 2006 gli è stato conferito dalla Città di Padova il titolo di “Padovano
eccellente”.
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