materiale giurisprudenziale in tema di legittimazione processuale
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MATERIALE GIURISPRUDENZIALE IN TEMA DI LEGITTIMAZIONE PROCESSUALE, LEGITTIMAZIONE AD AGIRE LITISCONSORZIO SUCCESSIONE NEL PROCESSO CIVILE 1. Legittimazione processuale Cass. civ. Sez. lavoro 07.06.2003 n. 9147 L'art. 75 c.p.c., nell'escludere la capacità processuale delle persone che non hanno il libero esercizio dei propri diritti, si riferisce solo a quelle che siano state legalmente private della capacità di agire con una sentenza di interdizione o di inabilitazione o con provvedimento di nomina di un tutore o di un curatore provvisorio, e non alle persone colpite da incapacità naturale. Infatti, l'incapacità processuale è collegata alla incapacità di agire di diritto sostanziale e non alla mera incapacità naturale, cosicché l'incapace naturale conserva la piena capacità processuale sino a quando non sia stata pronunciata nei suoi confronti una sentenza di interdizione, ovvero non gli sia stato nominato, durante il giudizio che fa capo a tale pronunzia, il tutore provvisorio ai sensi dell'art. 419 c.p.c. Cass. civ. Sez. II 29.09.2003 n. 14455 In tema di rappresentanza sostanziale delle persone giuridiche, vige il principio secondo cui la legittimazione processuale - relativamente alla qualità dichiarata - va d'ufficio accertata dal giudice con riferimento all'astratta idoneità della veste del soggetto che agisca in nome e per conto dell'ente ad abilitarlo alla rappresentanza sostanziale nel processo. Ad un tale riguardo, nelle società per azioni il potere di rappresentanza spetta agli amministratori i quali, possono conferirlo, in base allo statuto o alle determinazioni dell'organo deliberativo, anche a soggetti che siano preposti a un settore con poteri di rappresentanza sostanziale o inseriti con carattere sistematico nella gestione sociale o in un suo ramo. La Corte, nel formulare il principio sopra richiamato, ha dichiarato inammissibile, per carenza di allegazione e di prova della rappresentanza sostanziale di coloro che avevano agito, il ricorso per cassazione proposto da una società per azioni in persona dei funzionari che, dichiarando di essere i suoi legali rappresentanti, avevano conferito la procura al difensore. Cass. civ. Sez. II 16.09.2003 n. 13550 In tema di legitimatio ad processum il potere rappresentativo con la relativa facoltà di nomina dei difensori e conferimento della procura, può essere conferito soltanto a chi sia investito della rappresentanza sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, sicché, qualora non si sia formato sul punto il giudicato, il difetto di siffatti poteri, che -comportando l'esclusione della legittimazione processuale - concerne la regolare costituzione del rapporto processuale, può essere rilevato d'ufficio anche da parte del giudice di legittimità attraverso l'esame diretto degli atti. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con citazione del 3 e 18 agosto 1989, il Nuovo Banco Ambrosiano s.p.a., cui Ebe Ziotti aveva rilasciato fideiussione per i debiti assunti dalla società Stiped, poi fallita, della quale era socio illimitatamente responsabile Fabio Taddia, marito della Ziotti, conveniva in giudizio, innanzi al Tribunale di Torino, Ebe Ziotti e suo genero Trinchero Paolo perché si dichiarasse inefficace, nei confronti di esso Banco, ai sensi dell'art. 2901 c.c., il contratto del 27 giugno 1986, con cui la prima (la Ziotti) aveva venduto al secondo (il Trinchero) un proprio immobile, sito in Ferrara, fraz. Bova di Marrara. Ebe Ziotti e Paolo Trinchero si costituivano e resistevano alla domanda. Con sentenza del 13 maggio 1994, in esito a consulenza tecnica d'ufficio, il Tribunale di Torino accoglieva la domanda revocatoria, col favore delle spese di lite. Paolo Trinchero interponeva gravame. Il Banco Ambrosiano Veneto s.p.a., già Nuovo Banco Ambrosiano, resisteva al gravame, mentre Ebe Ziotti era contumace. Con sentenza del 3 luglio 2000, la Corte d'appello di Torino rigettava il gravame, con condanna dell'appellante al pagamento delle spese del grado. Risolveva la Corte, negativamente, le questioni sollevate dall'appellante sulla validità della procura rilasciata a margine dell'atto introduttivo della lite, utilizzata dal Banco Ambrosiano Veneto anche per la costituzione in grado d'appello, e riteneva infondate le critiche rivolte alla decisione del primo giudice sulla ritenuta ricorrenza dei presupposti revocatori, del pregiudizio alle ragioni creditorie del Banco e della consapevolezza di tale pregiudizio in capo ad entrambi i contraenti, alla debitrice Ziotti ed al terzo Trinchero. Per la cassazione di tale sentenza, Paolo Trinchero ha proposto ricorso. Il Banco Ambrosiano Veneto s.p.a. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale condizionato. L'altra intimata, Ebe Ziotti, non ha svolto alcuna difesa. MOTIVI DELLA DECISIONE 1) Preliminarmente, i ricorsi sono stati riuniti perché proposti avverso la stessa sentenza (art. 335 c.p.c.). 2) Sul ricorso principale di Paolo Trinchero. Con il primo motivo, denunciando vizi di motivazione su punto decisivo della controversia, nonché violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (artt. 75, 77, 83, comma terzo, 100, 125 c.p.c., in relazione agli artt. 2328 n. 9 e 2396 c.c.), il ricorrente si duole che la Corte di merito abbia negativamente risolto le questioni sollevate sulla validità della procura, rilasciata a margine dell'atto introduttivo della lite ed utilizzata dal Banco Ambrosiano Veneto anche per la costituzione in grado d'appello, validità contestata per difetto sia di identificazione dei soggetti conferenti che di attribuzione agli stessi dei congiunti poteri di rappresentanza sostanziale e processuale di quella parte. Con il secondo motivo, denunciando vizi di motivazione su punto decisivo della controversia, nonché violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto (art. 2697 c.c., in relazione agli artt. 2901 e 2729 c.c.), il ricorrente si duole che la Corte di merito abbia ritenuto sussistenti, nella specie, i presupposti dell'azione revocatoria. Il primo motivo, che ripropone questioni svolte in sede di gravame, merita di essere accolto, con conseguente assorbimento del secondo, relativo a questione dipendente. Ed invero, in conformità della censura svolta dal ricorrente ed in difformità del rilievo contrario, che la Corte di merito espone con argomentazione peraltro inadeguata (perché solo assertiva), l'esame degli atti di causa, consentito dalla natura delle questioni poste, afferenti anche a legittimazione processuale e rilevabili anche d'ufficio (salvo il limite del giudicato), non evidenzia, con riguardo al rapporto dedotto in giudizio, la congiunta attribuzione dei poteri di rappresentanza sostanziale e processuale della società Banco Ambrosiano Veneto (già Nuovo Banco Ambrosiano) in chi, innominato negli atti, ebbe a rappresentare tale società ed a conferire la procura alla lite, dapprima con citazione proponendo domanda revocatoria ex art. 2901 c.c. e poi resistendo con comparsa al gravame avversario. In effetti, la citazione introduttiva del giudizio, con a margine la procura alla lite, e la comparsa di costituzione e di risposta in grado d'appello, che di quella procura si avvale, non contengono dati specifici di identificazione di chi dichiara di agire in giudizio, quale rappresentante legale del Banco Ambrosiano Veneto, ma, soprattutto, anche a ritenere che questi rispondesse al vice direttore Guglielmo Gallone e/o al funzionario Pietro Mariani, secondo le indicazioni rese in giudizio dal difensore del Banco, sia l'uno che l'altro risultavano esclusivamente investiti del potere di rappresentanza processuale di tale soggetto giuridico, senza conferimento di potere di rappresentanza sostanziale (anche) con riguardo al rapporto dedotto in giudizio. In termini, all'evidenza, è la procura speciale del 12 maggio 1987, prodotta allo scopo, laddove il direttore generale del Nuovo Banco Ambrosiano, poi Banca Ambrosiano Veneto, revoca precedenti procure speciali e nomina procuratori speciali del Banco più persone, tra cui il vice direttore Guglielmo Gallone ed il funzionario di sede Piero Mariani, conferendo loro i seguenti poteri: "a) rappresentare il Nuovo Banco Ambrosiano S.p.A. in giudizio, sia come attore che come convenuto nelle controversie relative al recupero di crediti per qualsiasi titolo, in ogni sede e grado di giurisdizione, con facoltà di rilasciare procure speciali alle liti, di rinunciare e accettare rinunce agli atti giudiziali e di effettuare o chiedere - sostenendone le relative spese - atti di procedura o provvedimenti conservativi ed esecutivi. Di fronte ai terzi l'attinenza a giudizi relativi al recupero di crediti è provata dal fatto stesso che i soggetti sopra indicati abbiano esercitato dette facoltà; b) rendere la dichiarazione di cui all'art. 547 cod. proc. civ. Il potere di cui alla lettera a) dovrà essere esercitato con firma congiunta a due a due mentre quello di cui alla lettera b) potrà essere esercitato disgiuntamente". Il primo motivo del ricorso principale, dunque, merita di essere accolto, nel solco del consolidato e (dal collegio) condiviso orientamento di questa Corte, secondo cui il potere rappresentativo processuale, con la correlativa facoltà di nomina dei difensori e conferimento della procura alla lite, può essere conferito soltanto a colui che sia investito di potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, con la conseguenza che il difetto di poteri siffatti si pone come causa di esclusione anche della "legitimatio ad processum" del rappresentante, il cui accertamento, trattandosi di presupposto attinente alla regolare costituzione del rapporto processuale, può essere compiuto in ogni stato e grado del giudizio e, quindi, anche in sede di legittimità, con il solo limite della formazione del giudicato sul punto e con possibilità di diretta valutazione degli atti attributivi del potere rappresentativo (v. "ex plurimis" da Cass. n. 6621/83 a Cass. S.U. n. 4666/98 e Cass. n. 9336/01). 3) Sul ricorso incidentale del Banco Ambrosiano Veneto. Condizionandone la valutazione all'accoglimento del ricorso principale, il ricorrente sostiene che la nullità della procura rilasciata a margine dell'atto introduttivo della lite, nullità ipotizzata col primo motivo del ricorso avversario, coinvolgerebbe anche l'elezione di domicilio di esso Banco, li espressa, con conseguente passaggio in giudicato della sentenza del primo giudice, per l'appunto impugnata dalla controparte, ma invalidamente, con atto notificato in quel domicilio. L'assunto è palesemente infondato, supponendo validamente conferita la procura a margine dell'atto introduttivo della lite, che, invece, per quanto rilevato innanzi, nell'esame del primo motivo del ricorso principale, è procura affatto invalida, non essendo stata "rite et recte" conferita ad opera di persone legittimamente investite della rappresentanza processuale del ricorrente. 4) Conclusivamente, quindi, per le ragioni esposte, deve accogliersi il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento del secondo, e respingersi il ricorso incidentale condizionato. All'accoglimento del motivo indicato consegue la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, ai sensi del terzo comma, ultima parte, dell'art. 382 c.p.c., dovendosi ritenere che la causa non poteva essere proposta, come proposta, in rappresentanza del Banco Ambrosiano Veneto, da persone cui non risultavano congiuntamente attribuiti i poteri di rappresentanza processuale e sostanziale, con riguardo al rapporto dedotto in giudizio. Sussistono giusti motivi, ravvisabili nelle cennate peculiarità della controversia, per compensare le spese dell'intero giudizio, totalmente, tra tutte le parti. PER QUESTI MOTIVI La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il primo motivo del ricorso principale, dichiarato assorbito il secondo; rigetta il ricorso incidentale; in ragione del motivo accolto, cassa senza rinvio la sentenza impugnata e compensa le spese dell'intero giudizio. Cass. civ. Sez. lavoro 03.10.2003 n. 14813 Qualora sia parte del processo una società, la persona fisica che, a norma di legge o di statuto, rappresenta la società ha conferito il mandato al difensore, ha l'onere di allegare ma non di provare tale sua qualità, spettando, invece, alla parte che contesta la sussistenza di detta qualità fornire la relativa prova negativa, anche nella ipotesi in cui la società sia costituita in giudizio per mezzo di persona diversa dal legale rappresentante, sempre che l'organo che ha conferito il potere di rappresentanza processuale derivi tale potestà dall'atto costitutivo o dallo statuto della società medesima. Ne consegue la nullità della procura qualora il direttore generale della società, organo al quale la legge non ricollega poteri rappresentativi, abbia rilasciato la procura al difensore senza indicare la qualità di legale rappresentante e senza dimostrare la fonte dei poteri rappresentativi, pur contestata da controparte. Cass. civ. Sez. lavoro 06.11.1998 n. 11221 Qualora sia parte del processo una persona giuridica, la persona fisica che sta in giudizio e rilasci il mandato al difensore nella qualità di organo di detta parte non ha l'onere di dimostrare tale veste, mentre l'eventuale inesistenza di tale rapporto organico, che è presunto, deve essere provata da chi l'eccepisce. (Fattispecie relativa a società di capitali rappresentata dal suo liquidatore). Cass., sez. lav., 06-11-1998, n. 11221. Cass. [ord.], sez. un., 01-10-2007, n. 20596. In tema di rappresentanza processuale delle persone giuridiche, la persona fisica che ha conferito il mandato al difensore non ha l’onere di dimostrare tale sua qualità, neppure nel caso in cui l’ente si sia costituito in giudizio per mezzo di persona diversa dal legale rappresentante e l’organo che ha conferito il potere di rappresentanza processuale derivi tale potestà dall’atto costitutivo o dallo statuto, poiché i terzi hanno la possibilità di verificare il potere rappresentativo consultando gli atti soggetti a pubblicità legale e, quindi, spetta a loro fornire la prova negativa; solo nel caso in cui il potere rappresentativo abbia origine da un atto della persona giuridica non soggetto a pubblicità legale, incombe a chi agisce l’onere di riscontrare l’esistenza di tale potere a condizione, però, che la contestazione della relativa qualità ad opera della controparte sia tempestiva, non essendo il giudice tenuto a svolgere di sua iniziativa accertamenti in ordine all’effettiva esistenza della qualità spesa dal rappresentante, dovendo egli solo verificare se il soggetto che ha dichiarato di agire in nome e per conto della persona giuridica abbia anche asserito di farlo in una veste astrattamente idonea ad abilitarlo alla rappresentanza processuale della persona giuridica stessa (nella specie, le sezioni unite, con riferimento ad un ricorso per regolamento di competenza, hanno disatteso l’eccezione di inammissibilità avanzata dai controricorrenti relativa alla invalidità della procura rilasciata dalla società ricorrente per assunto difetto di legittimazione alla rappresentanza processuale della persona fisica che l’aveva conferita, siccome rimasta priva di prova e risultata comunque formulata solo con la memoria di cui all’art. 47 c.p.c., depositata, però, tardivamente). Cass., sez. I, 08-03-2007, n. 5353. L’autorizzazione necessaria perché un ente pubblico possa agire o resistere in giudizio, emessa dall’organo collegiale competente, e della quale l’organo rappresentante l’ente pubblico deve essere munito, attiene alla legittimatio ad processum, ossia all’efficacia e non alla validità della costituzione stessa, sicché essa può intervenire ed essere prodotta in causa anche dopo che sia scaduto il termine per l’impugnazione, con efficacia convalidante dell’attività processuale svolta in precedenza, sempre che il giudice di merito non abbia già rilevato il difetto di legittimazione processuale, ossia l’irregolarità, della costituzione del rappresentante dell’ente pubblico, traendone come conseguenza l’invalidità degli atti compiuti. Cass., sez. III, 08-02-2007, n. 2744. In ipotesi di delibera di un ente pubblico (nella specie, camera di commercio di Messina) di ratifica dell’autorizzazione a stare in giudizio concessa in via d’urgenza occorre distinguere il caso di sopravvenuto rilascio dell’autorizzazione - cui può riconoscersi effetto sanante retroattivo a condizione che il relativo difetto non sia stato rilevato e fatto oggetto di pronuncia da parte del giudice - dal caso in cui, sussistendo l’autorizzazione fin dal principio, ne sia tardivamente data la prova in giudizio; in questo secondo caso non ha effetto preclusivo la circostanza che il giudice abbia già rilevato il difetto di autorizzazione, in quanto l’accertamento che l’autorizzazione esisteva anteriormente alla pronuncia del giudice depone nel senso che questa risulta fondata su un’apparenza di fatto superata dal documento prodotto in secondo grado o anche in sede di legittimità ex art. 372 c.p.c. (nella specie, poiché la delibera camerale di ratifica era stata adottata dalla giunta camerale, competente secondo la normativa regionale siciliana, prima del momento della decisione, al quale occorre fare riferimento per la verifica della sussistenza delle condizioni dell’azione, quali la legitimatio ad causam, la suprema corte ha cassato la sentenza di merito che aveva dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione per difetto dell’autorizzazione a stare in giudizio, risultando in quel giudizio prodotta la delibera d’urgenza del vice presidente dell’ente e non anche la delibera di relativa convalida). Cass., sez. III, 29-09-2006, n. 21255. L’autorizzazione a stare in giudizio, emessa dall’organo collegiale competente, necessaria perché un ente pubblico possa agire o resistere in causa, attiene alla legitimatio ad processum, ossia all’efficacia e non alla validità della costituzione dell’ente medesimo a mezzo dell’organo che lo rappresenta; essa, pertanto, può intervenire ed essere prodotta anche nel corso del giudizio e anche nel corso del giudizio davanti alla cassazione (sempre che non sia intervenuta nel frattempo una pronuncia del giudice di merito in ordine al riscontrato difetto di legittimazione processuale); l’autorizzazione produce l’effetto di sanare retroattivamente i vizi prodottisi nelle fasi precedenti e rimane escluso che la controparte possa dedurre l’insussistenza delle ragioni d’urgenza idonee a giustificare la proposizione dell’opposizione in difetto dell’autorizzazione dell’organo legittimato a rilasciarla, unicamente a quest’ultimo spettando la valutazione della correttezza dell’operato del rappresentante; tale sanatoria deve ritenersi ammissibile anche in relazione a eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da soggetto non abilitato a rappresentare l’ente in giudizio, trattandosi solo di atto inefficace e non anche invalido, per vizi formali o sostanziali attinenti a violazioni degli art. 83 e 125 c.p.c.; né la sanatoria può essere impedita dalla previsione dell’art. 182 c.p.c., secondo cui sono fatte salve le decadenze già verificatesi; la norma va infatti riferita alle decadenze sostanziali (sancite cioè per l’esercizio del diritto e dell’azione), e non anche a quelle che si esauriscono nell’ambito del processo, come è dimostrato dal fatto che, in caso contrario si avrebbe l’inapplicabilità dell’art. 182 c.p.c. in tutte le ipotesi in cui - come nel rito del lavoro - le parti incorrano in decadenze processuali già nell’atto introduttivo. Cass., sez. I, 08-03-2007, n. 5353. L’esecutività della deliberazione della giunta comunale che autorizza il sindaco a stare in giudizio costituisce condizione di efficacia e non di validità della costituzione dell’ente, sicché la prova di detta esecutività fornita nel giudizio di appello (mediante produzione della delibera vistata dal coreco) vale a sanare retroattivamente l’irregolarità del giudizio di primo grado. 2. Rappresentanza volontaria Cass. civ. Sez. I 04.05.2004 n. 8421 Nel quadro del principio per cui non può essere attribuita la rappresentanza processuale quando non risulti conferita al medesimo soggetto anche la rappresentanza sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, deve escludersi che il titolare della direzione affari legali di una società di capitali possa ritenersi munito, indipendentemente dal conferimento di apposita procura (e cioè per via di mera e necessaria deduzione logica dal fatto di ricoprire tale carica), di poteri di rappresentanza sostanziale in ordine ai rapporti caratterizzati dall'elemento comune di costituire oggetto di controversia. Ciò posto, la procura che attribuisca al detto dirigente il potere di decidere, a nome dell'azienda, le modalità di definizione dei rapporti controversi - se transigere, sottoporre la questione al giudice o agli arbitri, o resistere - non può essere interpretata quale conferimento di rappresentanza di ordine meramente processuale, atteso che l'anzidetto potere di scegliere ed attuare la migliore soluzione dei rapporti stessi rivela tipiche caratteristiche sostanziali e negoziali, comprendendo in sé e precedendo logicamente quello di costituirsi in giudizio (nella fattispecie, la Suprema Corte ha cassato la sentenza della Corte d'Appello, che aveva ritenuto che una procura rilasciata al direttore della Direzione Affari Legali della RAI S.p.a. dal Presidente del Consiglio di Amministrazione contenesse il conferimento di poteri esclusivamente processuali, nonostante che la procura stessa investisse tale Direttore del potere di assumere "tutte le iniziative in ordine alla instaurazione dei giudizi ed alla resistenza nelle cause", nonché di "effettuare rinunce e transazioni"). Cass., sez. lav., 01-06-2006, n. 13054. La rappresentanza processuale volontaria può essere conferita soltanto a chi sia investito di un potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, come si evince dall’art. 77 c.p.c., il quale menziona, come possibili destinatari dell’investitura processuale, soltanto il «p.g. e quello preposto a determinati affari», sul fondamento del principio dell’interesse ad agire (art. 100 c.p.c.), inteso non soltanto come obiettiva presenza o probabilità della lite, ma altresì come «appartenenza» della stessa a chi agisce (nel senso che la relazione della lite con l’agente debba consistere in ciò che l’interesse in lite sia suo): più precisamente, dalla lettura combinata degli art. 100 e 77 c.p.c. si desume la regola generale per cui il diritto di agire spetta a chi abbia il potere di rappresentare l’interessato nella totalità dei suoi affari (procuratore generale) o in un gruppo omogeneo di questi, paragonabile ad un’azienda commerciale o ad un suo settore (institore) (principio affermato dalla suprema corte in controversia in cui la procura era stata conferita per il recupero in sede processuale delle spese mediche erogate da una casa di cura privata a favore della rappresentata - assistita dall’ausl e ricoverata presso la casa di cura - di talché non era possibile ravvisare un’attività negoziale sostanziale se non di carattere meramente necessario e strumentale rispetto a quello processuale che il c.d. rappresentante avrebbe potuto impropriamente compiere). Cass. civ. Sez. I 11.06.2004 n. 11097 La rappresentanza processuale volontaria può essere conferita soltanto a chi sia investito di un potere rappresentativo di natura sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, come si evince dall'art. 77 c.p.c., il quale menziona, come possibili destinatari dell'investitura processuale, soltanto il "procuratore generale e quello preposto a determinati affari", sul fondamento del principio dell'interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) inteso non soltanto come obbiettiva presenza o probabilità della lite, ma altresì come "appartenenza" della stessa a chi agisce (nel senso che la relazione della lite con l'agente debba consistere in ciò che l'interesse in lite sia suo): più precisamente, l'art. 100 c.p.c., letto in combinazione con l'art. 77 c.p.c., indica la necessita che chi agisce abbia rispetto alla lite una posizione particolare che la norma stessa non definisce, ma che può desumersi dalle ipotesi individuate dall'altra norma, sì da condurre all'affermazione di una regola generale per cui il diritto di agire spetta a chi abbia il potere di rappresentare l'interessato o nella totalità dei suoi affari (procuratore generale) o in un gruppo omogeneo di questi, paragonabile ad un'azienda commerciale o ad un suo settore (institore). Cass., sez. lav., 13-02-2008, n. 3484. Il conferimento di una procura generale o speciale ad negozia non comporta, di per sé, l’automatica attribuzione anche della rappresentanza volontaria processuale, per la cui sussistenza, invece, è necessario uno specifico ed espresso mandato, da redigersi in forma scritta (nella specie, la suprema corte, nel confermare la sentenza impugnata, ha ritenuto l’inidoneità della procura notarile rilasciata per il compimento di uno specifico affare - ossia per ottenere dall’Inps il pagamento della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sui ratei di pensione corrisposti in ritardo - priva dell’espresso conferimento della rappresentanza processuale). Cass., sez. II, 13-03-2007, n. 5862. In tema di condominio, la legittimazione ad agire in giudizio dell’amministratore in caso di pretese concernenti l’affermazione di diritti di proprietà, anche comune, può trovare fondamento soltanto nel mandato conferito da ciascuno dei condomini al medesimo amministratore e non già - ad eccezione della equivalente ipotesi di unanime positiva deliberazione di tutti i condomini - nel meccanismo deliberativo dell’assemblea condominiale, che vale ad attribuire, nei limiti di legge e di regolamento, la mera legittimazione processuale ex art. 77 c.p.c., presupponente peraltro quella sostanziale; ne consegue che, in assenza del potere rappresentativo in capo all’amministratore in relazione all’azione esercitata, la mancata costituzione del rapporto processuale per difetto della legittimazione processuale inscindibilmente connessa al potere rappresentativo sostanziale mancante - vizio rilevabile anche d’ufficio, pure in sede di legittimità - comporta la nullità della procura alle liti, di tutti gli atti compiuti e della sentenza (nella specie, l’amministratore aveva esperito azione per far accertare la proprietà in capo al condominio dei locali soffitte di cui un condomino si era appropriato mettendoli in comunicazione con la propria abitazione a mezzo di una botola: la suprema corte, sulla base dell’enunciato principio, ha cassato la sentenza della corte di merito, che aveva accolto la domanda, perché l’azione non poteva essere proposta). 3. Rilievo e sanatoria dei vizii attinenti alla legitimatio ad processum Cass. civ. Sez. III 04.04.2003 n. 5328 La rilevabilità del difetto di legittimazione processuale, pur rientrando tra le questioni rilevabili anche d'ufficio dal giudice, deve essere coordinata con il sistema processuale vigente, introdotto dalla legge n. 353 del 1990 con le modifiche di cui alla legge n. 354 del 1995, e con le preclusioni da esso introdotte, per cui esso dovrebbe poter essere rilevato in primo grado non oltre l'udienza di trattazione, e in appello l'assenza di poteri rappresentativi può essere inserita nei motivi di appello. Ne consegue che, in difetto di una tempestiva contestazione all'interno dei due momenti processuali sopra indicati, e qualora il giudice di merito non abbia ritenuto di chiedere d'ufficio, ad una delle parti, la giustificazione dei poteri rappresentativi in capo alla persona che ha rilasciato la procura "ad litem", la questione non è proponibile per la prima volta con il ricorso per cassazione. Cass., sez. un., 18-02-2009, n. 3822. La corte di cassazione deve dichiarare d’ufficio la inammissibilità del ricorso proposto da soggetto qualificatosi procuratore speciale del legale rappresentante della ricorrente società di capitali, senza produrre, né all’atto del deposito del menzionato ricorso, né, successivamente, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., i documenti comprovanti la sussistenza della qualifica dichiarata. Motivi della decisione. — In via preliminare la corte rileva che la procura speciale di cui all’art. 365 c.p.c. a margine del ricorso risulta essere stata conferita agli avvocati Ivone Cacciavillani del foro di Venezia e Luigi Manzi del foro di Roma da Mazzarotto Giorgio nella dichiarata qualità di procuratore speciale di Dialma Gino legale rappresentante della ricorrente s.p.a. Giove. Tale qualità è stata genericamente affermata in ricorso e non documentata né all’atto del deposito del ricorso (pur se nell’atto si afferma di produrre «copia autentica della sentenza gravata e copia della procura citata») né successivamente ai sensi dell’art. 372 c.p.c., che al 1° comma consente la produzione di documenti riguardanti, tra l’altro, l’ammissibilità del ricorso. Il ricorso deve pertanto essere dichiarato inammissibile in applicazione del principio più volte affermato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui qualora il soggetto che in veste di parte formale proponga il ricorso per cassazione nell’affermata qualità di procuratore speciale della parte in senso sostanziale ed in detta qualità di rappresentante volontario rilasci il mandato per il giudizio di cassazione, ma non produca né con il ricorso né successivamente ai sensi dell’art. 372 c.p.c. i documenti che giustifichino quella qualità, il ricorso per cassazione deve essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 77 c.p.c., in quanto la Suprema corte non è posta in condizione di poter valutare la sussistenza ed i limiti del potere rappresentativo ed in particolare la facoltà di proporre ricorso per cassazione, che è essenziale ai fini della regolare costituzione del rapporto processuale e deve essere controllata dalla corte anche d’ufficio (a differenza della sussistenza della rappresentanza organica, la cui mancanza deve essere eccepita da chi la neghi), senza che in contrario possa rilevare la mancata eccezione del resistente (tra le tante, sentenze 19 ottobre 2007, n. 22009, Foro it., Rep. 2007, voce Cassazione civile, n. 59; 2 maggio 2007, n. 10122, ibid., nn. 57, 58; 27 maggio 2005, n. 11285, id., 2006, I, 1162; 26 maggio 2005, n. 11188, id., Rep. 2005, voce cit., n. 98). (Omissis) Cass., sez. I, 02-05-2007, n. 10122. Qualora chi propone ricorso per cassazione nella affermata qualità di procuratore speciale della parte in senso sostanziale ed in detta qualità di rappresentante volontario rilascia il mandato per il giudizio di cassazione, non produce né col ricorso né successivamente, secondo quanto previsto dall’art. 372 c.p.c., i documenti che giustifichino quella qualità, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 77 c.p.c., in quanto la suprema corte non è posta in condizione di valutare la sussistenza ed i limiti del potere rappresentativo ed in particolare la facoltà di proporre ricorso per cassazione, che è essenziale ai fini della regolare costituzione del rapporto processuale e dev’essere controllata dalla corte anche d’ufficio. Cass., sez. III, 15-09-2008, n. 23670. Il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisce in giudizio in rappresentanza di un ente può essere sanato in qualunque stato e grado del giudizio con efficacia retroattiva, con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti per effetto della costituzione in giudizio del soggetto dotato dell’effettiva rappresentanza dell’ente stesso, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator; tanto la ratifica, quanto la conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da un soggetto non abilitato a rappresentare la società in giudizio, trattandosi di atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi formali o sostanziali, attinenti a violazione degli art. 83 e 125 c.p.c. Cass., sez. I, 11-10-2006, n. 21811. Qualora la società in liquidazione promuova il giudizio per mezzo del precedente amministratore, ormai privo di poteri rappresentativi, il vizio che ne consegue concerne la capacità processuale della medesima società, in quanto relativo alla titolarità del potere di proporre la domanda e non alla legittimazione ad agire (ossia al prospettarsi come titolare del diritto azionato) e, pertanto, ad un difetto di legittimazione processuale; il vizio può essere sanato in qualunque stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della spontanea costituzione del soggetto dotato dell’effettiva rappresentanza dell’ente stesso, ossia il liquidatore, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator; la sanatoria non può essere impedita dalla previsione dell’art. 182 c.p.c., secondo cui sono fatte salve le decadenze già verificatesi, perché questo limite attiene alle decadenze sostanziali (sancite cioè per l’esercizio del diritto e dell’azione: art. 2964 seg. c.c.) e non a quelle che si esauriscono nel processo. Cass., sez. I, 06-07-2007, n. 15304. Qualora il giudizio venga promosso da amministratore di società a responsabilità limitata privo di poteri rappresentativi, il vizio che ne consegue non concerne né la legittimazione ad agire né lo ius postulandi ma esclusivamente la capacità processuale in quanto relativo ad un difetto di legittimazione processuale; tale vizio può essere sanato in ogni stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti per effetto della spontanea costituzione del soggetto dotato dell’effettiva rappresentanza dell’ente stesso; l’esclusione dell’effetto sanante stabilito dall’art. 182 c.p.c. per le decadenze già verificatesi non riguarda le preclusioni che si esauriscono nel processo. Cass., sez. III, 02-02-2006, n. 2270. Il difetto di legittimazione processuale della persona fisica che agisca in giudizio in rappresentanza di un ente può essere sanato, in qualunque stato e grado del giudizio (e, dunque, anche in appello), con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio del soggetto dotato della effettiva rappresentanza dell’ente stesso, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator; tanto la ratifica, quanto la conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da soggetto non abilitato a rappresentare la società in giudizio, trattandosi di atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi formali o sostanziali, attinenti a violazioni degli art. 83 e 125 c.p.c. Art. 182 Difetto di rappresentanza o di autorizzazione. [I]. Il giudice istruttore verifica d'ufficio la regolarità della costituzione delle parti e, quando occorre, le invita a completare o a mettere in regola gli atti e i documenti che riconosce difettosi. [II]. Quando rileva un difetto di rappresentanza, di assistenza o di autorizzazione ovvero un vizio che determina la nullità della procura al difensore, il giudice assegna alle parti un termine perentorio per la costituzione della persona alla quale spetta la rappresentanza o l’assistenza, per il rilascio delle necessarie autorizzazioni, ovvero per il rilascio della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. L’osservanza del termine sana i vizi, e gli effetti sostanziali e processuali della domanda si producono sin dal momento della prima notificazione1. 1 Comma modificato dalla l. n. 69/2009 per i giudizii instaurati dal 4 luglio 2009. 4. Curatore speciale T. Milano, 21-12-2005. Il nuovo art. 2476 c.c., in materia di responsabilità degli amministratori di srl, introduce una fattispecie di azione sociale, nella quale il socio agisce in veste di sostituto processuale e la società è litisconsorte necessario; ove, pertanto, il legale rappresentante della società sia chiamato a rispondere ex art. 2476 c.c. di comportamenti lesivi dell’interesse sociale, sussiste un conflitto di interessi che può essere risolto soltanto con la nomina di un curatore speciale. T. Roma, 22-05-2007. La srl partecipa al giudizio di responsabilità nei confronti dei propri amministratori per mezzo di un curatore speciale; tuttavia, quest’ultimo non è legittimato ad esperire l’azione di responsabilità in nome e per conto della società in mancanza di una deliberazione assembleare. T. Lecco, 02-02-2006. Il tutore dell’interdetto ed il curatore speciale nominato ex art. 78 c.p.c. - al di fuori delle ipotesi espressamente previste dalla legge - non hanno il potere di compiere atti personalissimi nell’interesse dell’interdetto, né quello di esercitare azioni giudiziarie con riferimento ai diritti personalissimi (in applicazione di questo principio e ritenuto che l’interruzione di un trattamento necessario a conservare la vita dell’interessato è atto personalissimo che non può essere demandato ad altro soggetto, il tribunale ha dichiarato inammissibile la domanda di interruzione dell’alimentazione avanzata dal tutore e dal curatore speciale dell’interdetto per difetto di rappresentanza sostanziale e processuale). CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; ordinanza, 20-04-2005, n. 8291 Ritenuto in fatto. — Con provvedimento in data 20 luglio 2002, il Tribunale di Lecco, ritenuta la legittimazione attiva in capo a B.E., in qualità di tutore della figlia interdetta E., rigettò il ricorso, proposto ex art. 732 c.p.c., con il quale lo stesso, deducendo l’irreversibilità, secondo i criteri della scienza medica, dello stato vegetativo permanente in cui la predetta figlia si trovava, per effetto di un trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale occorso nel lontano 1992 — stato in relazione al quale già nel 1999 l’E. aveva una prima volta richiesto l’interruzione delle cure che ne consentivano la protrazione, ed in particolare dell’alimentazione artificiale —, aveva avanzato nuova istanza ai fini di ottenere l’autorizzazione a detta interruzione, sottolineando la necessità di sottrarre la figlia alle condizioni di vita disumane e degradanti nelle quali era costretta a proseguire la propria esistenza. Rilevava il tribunale che la nozione di cura del soggetto incapace implica un quid di positivo, volto comunque alla conservazione della vita del soggetto stesso, con la conseguenza che sarebbe contraddittorio attribuire al tutore la potestà di compiere atti che implichino di necessità la morte del soggetto; ed aggiungeva che l’ordinamento giuridico sottende una totale difesa della vita umana, e che l’autorizzazione al tutore, e cioè a soggetto diverso dal diretto interessato, a far cessare ogni forma di somministrazione alimentare non trova, allo stato della legislazione, adeguato fondamento giuridico. Avverso detto decreto, l’E. propose reclamo alla Corte d’appello di Milano, censurando la ricostruzione della funzione del tutore operata dal tribunale. La Corte d’appello di Milano, sezione delle persone e della famiglia, con decreto del 10 dicembre 2003, rigettò il reclamo, facendo riferimento all’inutilizzabilità diretta del principio di autodeterminazione nel caso del paziente in stato vegetativo permanente, ed al ruolo del tutore, sottolineando il valore morale delle direttive anticipate di trattamento, ma avvertendo la mancanza di regole allo stato, e perciò escludendo la possibilità di adottare un’interpretazione integratrice nella specie, pur nell’auspicio della predisposizione da parte del legislatore degli strumenti adeguati per la protezione della persona ed il rispetto del suo diritto di autodeterminazione. Avverso tale decisione, l’E. ha proposto ricorso per cassazione, non notificato ad alcuno. Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c. Considerato in diritto. — Lamenta il ricorrente la violazione degli art. 357 e 424 c.c., in relazione agli art. 2, 13 e 32 Cost., ed omessa ed insufficiente motivazione. Sottolinea come la propria figlia non sia in grado di esprimere alcun consenso, riguardo ad atti che si configurano come invasivi della sua personale integrità psico-fisica, e richiama la giurisprudenza costituzionale sull’attinenza della tutela della libertà personale a qualunque intromissione sul corpo o sulla psiche dell’individuo cui questi non abbia consentito. Pone l’accento sulla tutela della dignità umana, inscindibile da quella della vita stessa, come valore costituzionale, e richiama, tra l’altro, l’art. 32 Cost., che preclude trattamenti sanitari che possano violare il rispetto della persona umana, la cui perdita, in caso di soggetto in stato vegetativo permanente, è in re ipsa. Chiede in subordine che sia sollevata questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli art. 2, 13 e 32 Cost., dell’art. 357 c.c., o di quelle altre norme che siano da interpretare in modo tale da non consentire la cessazione dei trattamenti di alimentazione artificiale in atto. Il procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso in quanto non notificato ad alcuno e privo dei requisiti del ricorso per cassazione. Tali conclusioni sono state contestate dal ricorrente con una memoria depositata nell’imminenza della data fissata per la camera di consiglio, nella quale, in particolare, si esclude la necessità della notifica del ricorso al procuratore generale a quo. L’eccezione del procuratore generale appare meritevole di accoglimento. La notificazione del ricorso per cassazione, in quanto indispensabile per l’instaurazione del rapporto processuale, costituisce elemento la cui mancanza determina l’inammissibilità del ricorso. Tale principio, affermato per i procedimenti contenziosi ordinari, deve ritenersi operante anche nei procedimenti che si svolgono in camera di consiglio. Per questi ultimi — e tale è quello di specie — questa corte (ord. n. 6167 del 2002, Foro it., 2002, I, 3139) ha affermato l’applicabilità di detto principio nei procedimenti con pluralità di parti, rilevando che la notificazione non occorre solo allorché ricorra l’ipotesi di procedimento di volontaria giurisdizione unilaterale, e cioè di procedimento nel quale non sia individuabile un soggetto portatore di un interesse diverso da quello attribuito al soggetto istante. Occorre pertanto stabilire se nella specie ricorra quest’ultima ipotesi. Ed al riguardo va sottolineato che, se a tale questione si darà risposta negativa, e cioè se si riterrà che il presente giudizio è plurilaterale: a) sarà irrilevante, al fine di cui si discute, che le parti individuate quali contraddittori necessari non abbiano partecipato ai precedenti giudizi, e ciò perché la loro presenza nell’attuale giudizio sarebbe indispensabile per la costituzione del relativo rapporto processuale, anche se l’unica decisione adottabile sarebbe la rilevazione del difetto di contraddittorio nei precedenti gradi di merito; b) non sarà consentita — non essendo prevista — la rimessione in termini (richiesta in memoria), la quale è stabilita dall’art. 184 bis c.p.c. per casi specifici e non è applicabile per la rinnovazione della notifica del ricorso che non sia stato notificato ad alcuno. Per stabilire se sussistano interessi diversi o addirittura contrapposti a quello oggetto della causa, e, conseguentemente, se sussistano altri soggetti contraddittori necessari, occorre individuare l’oggetto della controversia. Il tutore, ritenendo che l’interdetta versi da moltissimi anni in stato meramente vegetativo, nel quale a suo avviso è mantenuta mediante presidî sanitari, e che tale stato, in quanto escludente la dignità umana, fa escludere la ricorrenza della vita intesa nella sua portata minima imprescindibile, ha chiesto l’autorizzazione alla cessazione di detti presidî. Va rilevato che tale cessazione dovrebbe — altrimenti non vi sarebbe motivo per l’autorizzazione alla stessa — condurre a morte il soggetto. Sulla base di tale individuazione della controversia occorre stabilire se sussistano altri soggetti interessati oltre l’istante. Il tutore evidentemente agisce ai sensi del combinato disposto degli art. 424 e 357 c.c., secondo i quali il tutore «ha la cura della persona del ...». Premesso che costituisce questione di merito stabilire se l’azione esercitata, come sopra individuata, possa essere ricompresa nell’indicato potere del tutore, è di immediata evidenza che il provvedimento di autorizzazione richiesto, che il tutore afferma corrispondente all’interesse dell’interdetto, possa invece non corrispondervi. Ed infatti, lo stabilire se sussista l’interesse (al provvedimento autorizzatorio) — prima che l’attuabilità dello stesso giuridicamente — presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte, che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive: con la conseguenza che giammai il tutore potrebbe esprimere una valutazione che, in difetto di specifiche risultanze, nella specie neppure analiticamente prospettate, possa affermarsi coincidente con la valutazione dell’interdetta. A questa stregua, premesso, per quanto ora esposto, che deve ritenersi che l’interdetta nella specie non sia in condizione di esprimere la propria valutazione, e quindi la propria scelta, deve trovare applicazione l’art. 78 c.p.c., che prevede la nomina di un curatore speciale al rappresentato «... quando vi è conflitto di interessi con il rappresentante». Ad ulteriore supporto di tale conclusione, va rilevato che le numerose norme rinvenibili nell’ordinamento che conferiscono al tutore specifici poteri in materie attinenti ad interessi strettamente personali — pur se di carattere non altrettanto essenziale quale quello in esame — dell’interdetto per infermità (art. 119 c.c., per l’impugnazione del matrimonio; art. 245 c.c., in tema di disconoscimento della paternità; art. 264 c.c., in tema di impugnazione del riconoscimento del figlio naturale da parte di chi è stato riconosciuto; art. 273 c.c., in tema di dichiarazione giudiziale di paternità o maternità naturale; art. 13 l. 22 maggio 1978 n. 194, in tema di interruzione della gravidanza), appaiono elementi sintomatici della non configurabilità, in mancanza di specifiche disposizioni, di un generale potere di rappresentanza in capo al tutore con riferimento ai c.d. atti personalissimi (per un’ipotesi in cui questa corte ha avuto occasione di escludere la proponibilità della domanda di divorzio per l’interdetto ad opera del tutore, riconoscendogli invece il potere di chiedere la nomina di un curatore speciale ai fini della proposizione della domanda di divorzio, v. sent. n. 9582 del 2000, id., Rep. 2000, voce Matrimonio, n. 143). E la conferma dell’inesistenza, in capo al tutore, di una rappresentanza generale degli interessi dell’interdetto con riguardo a siffatto genere di atti si rinviene nella previsione codicistica della necessaria nomina, da parte del giudice tutelare, non appena avuta notizia del fatto da cui deriva l’apertura della tutela, oltre che del tutore, anche del protutore (art. 346 c.c.), nonché nelle ulteriori previsioni che «il protutore rappresenta il minore nei casi in cui l’interesse di questo è in opposizione con l’interesse del tutore». «Se anche il protutore si trova in opposizione di interessi con il minore, il giudice tutelare nomina un curatore speciale» (art. 360 c.c.). È ben vero che le menzionate norme sono inserite nella «tutela dei minori»; ma tale tutela è richiamata nella sua interezza per l’interdizione, alla quale pertanto è applicabile: l’art. 424 c.c., infatti, sancisce che «le disposizioni sulla tutela dei minori ... si applicano ... alla tutela degli interdetti ...». Le conclusioni raggiunte non contrastano né possono ritenersi derogate dalla convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina, fatta ad Oviedo il 24 aprile 1997 — della quale la l. 28 marzo 2001 n. 145 ha autorizzato la ratifica — dal momento che tale convenzione prevede che il rappresentante legale (o comunque un’apposita autorità od altro soggetto) possa esprimere il consenso che l’incapace non è in condizione di dare (art. 6), ma non preclude ai singoli Stati di fissare condizioni specifiche — che essa convenzione non ha previsto — per la validità della prestazione del consenso (sostitutivo). L’affermata sussistenza di altro soggetto quale necessario contraddittore nel giudizio costituisce ragione sufficiente per la dichiarazione d’inammissibilità del ricorso. Rimane pertanto assorbita la questione, proposta nella memoria, relativa alla necessità o no della notifica del ricorso al procuratore generale a quo. La ravvisata inammissibilità del ricorso esclude l’esame del merito, e, quindi, anche della questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente. CORTE DI CASSAZIONE; sezione I civile; sentenza, 16-10-2007, n. 21748 Il giudice può autorizzare il tutore — in contraddittorio con il curatore speciale — di una persona interdetta, giacente in persistente stato vegetativo, ad interrompere i trattamenti sanitari che la tengono artificialmente in vita, ivi compresa l’idratazione e l’alimentazione artificiale a mezzo di sondino, sempre che: a) la condizione di stato vegetativo sia accertata come irreversibile, secondo riconosciuti parametri scientifici, b) l’istanza sia espressiva della volontà del paziente, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dai suoi convincimenti. In tema di attività medica e sanitaria, il carattere personalissimo del diritto alla salute dell’incapace comporta che il riferimento all’istituto della rappresentanza legale non trasferisce sul tutore un potere «incondizionato» di disporre della salute della persona in stato di totale e permanente incoscienza; nel consentire al trattamento medico o nel dissentire dalla prosecuzione dello stesso sulla persona dell’incapace, la rappresentanza del tutore è sottoposta a un duplice ordine di vincoli: egli deve, innanzitutto, agire nell’esclusivo interesse dell’incapace; e, nella ricerca del best interest, deve decidere non «al posto» dell’incapace né «per» l’incapace, ma «con» l’incapace: quindi, ricostruendo la presunta volontà del paziente incosciente, già adulto prima di cadere in tale stato, tenendo conto dei desideri da lui espressi prima della perdita della coscienza, ovvero inferendo quella volontà dalla sua personalità, dal suo stile di vita, dalle sue inclinazioni, dai suoi valori di riferimento e dalle sue convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche. In tema di attività medico-sanitaria, il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente non incontra un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita; di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio - nel quadro dell’«alleanza terapeutica» che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale; ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico; né il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce alla morte, può essere scambiato per un’ipotesi di eutanasia, ossia per un comportamento che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte, giacché tale rifiuto esprime piuttosto un atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la malattia segua il suo corso naturale. Il consenso informato costituisce, di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario: senza il consenso informato l’intervento del medico è, al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge obbligatorio o in cui ricorra uno stato di necessità, sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente; la pratica del consenso libero e informato rappresenta una forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi; il consenso informato ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma - atteso il principio personalistico che anima la nostra costituzione (la quale vede nella persona umana un valore etico in sé e guarda al limite del «rispetto della persona umana» in riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita e nell’integralità della sua persona, in considerazione del fascio di convinzioni etiche, religiose, culturali e filosofiche che orientano le sue determinazioni volitive) e la nuova dimensione che ha assunto la salute (non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza) - altresì di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. In tema di interpretazione della legge, all’accordo valido sul piano internazionale, ma non ancora eseguito all’interno dello stato, può assegnarsi - tanto più dopo la legge parlamentare di autorizzazione alla ratifica - una funzione ausiliaria sul piano ermeneutico: esso dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie, ma può e deve essere utilizzato nell’interpretazione di norme interne al fine di dare a queste una lettura il più possibile ad esso conforme (principio espresso in relazione alla convenzione del consiglio d’Europa sui diritti dell’uomo sulla biomedicina, fatta a Oviedo il 4 aprile 1997, resa esecutiva con la legge di autorizzazione alla ratifica 28 marzo 2001 n. 145, ma non ancora ratificata dallo stato italiano). A. Milano, 09-07-2008. Deve autorizzarsi il tutore di una persona interdetta, giacente da circa sedici anni in stato vegetativo persistente, a disporre l’interruzione del trattamento vitale, realizzato mediante alimentazione e idratazione con sondino nasogastrico, ferma la somministrazione di sedativi, tanto corrispondendo alla volontà ipotetica della paziente, desunta, almeno in via presuntiva, da sue precedenti affermazioni, nonché dalla sua personalità e dal suo stile di vita, alla stregua della concorde prospettazione di tutore e curatore speciale e delle dichiarazioni dei testimoni. In fatto e in diritto. — 1. - Cenni sugli antecedenti di fatto e processuali e sul contenuto della sentenza di cassazione con rinvio da cui ha tratto causa l’attuale fase decisoria. Il 18 gennaio 1992 si verificò un incidente stradale a seguito del quale fu diagnosticato ad E.E., che vi era rimasta coinvolta, e che era allora appena ventunenne (essendo nata il 25 novembre 1970), un gravissimo trauma cranioencefalico con lesione di alcuni tessuti cerebrali corticali e subcorticali, da cui derivò prima una condizione di coma profondo, e poi, in progresso di tempo, un persistente stato vegetativo con tetraparesi spastica e perdita di ogni facoltà psichica superiore, quindi di ogni funzione percettiva e cognitiva e della capacità di avere contatti con l’ambiente esterno. Dopo circa quattro anni dall’incidente, E.E. — essendo stata accertata la mancanza di qualunque modificazione del suo stato — fu dichiarata interdetta per assoluta incapacità con sentenza del Tribunale di Lecco in data 19 dicembre 1996. Fu nominato tutore il padre, B.E. Dopo altri tre anni circa prese avvio una lunga vicenda giudiziaria snodatasi in tre principali procedimenti consecutivi, nei quali il tutore, deducendo l’impossibilità per E. di riprendere coscienza, nonché l’inguaribilità/irreversibilità della sua patologia e l’inconciliabilità di tale stato e del trattamento di sostegno forzato che le consentiva artificialmente di sopravvivere (alimentazione/idratazione con sondino nasogastrico) con le sue precedenti convinzioni sulla vita e sulla dignità individuale, e più in generale con la sua personalità, ha ripetutamente chiesto, nell’interesse e in vece della rappresentata, l’emanazione di un provvedimento che disponesse l’interruzione della terapia di sostegno vitale. Nel primo procedimento, instaurato con ricorso ex art. 732 c.p.c. depositato in data 19 gennaio 1999, l’istanza del tutore fu dichiarata inammissibile dal Tribunale di Lecco (perché ritenuta incompatibile con l’art. 2 Cost., letto ed inteso come norma implicante una tutela assoluta e inderogabile del diritto alla vita) con decreto depositato il 2 marzo 1999, poi confermato in sede di reclamo dalla sezione «persone minori e famiglia» della Corte d’appello di Milano con decreto del 31 dicembre 1999, Foro it., 2000, I, 2022 (da questo giudice reputandosi invece sussistente una situazione d’incertezza normativa tale da non consentire l’adozione di una precisa decisione in merito all’istanza d’interruzione del trattamento di alimentazione/idratazione forzata). Nel secondo procedimento, instaurato con ricorso depositato il 26 febbraio 2002, la medesima istanza fu disattesa dal Tribunale di Lecco con decreto depositato il 20 luglio 2002 (con cui si ribadiva il principio di necessaria e inderogabile prevalenza della vita umana anche innanzi a qualunque condizione patologica e a qualunque contraria espressione di volontà del malato), ancora una volta poi confermato dalla predetta sezione della Corte d’appello di Milano, in sede di reclamo, con decreto del 17 ottobre 2003 (ivi reputandosi comunque inopportuna un’interpretazione integrativa volta ad attuare il principio di autodeterminazione della persona umana in caso di «paziente in stato vegetativo permanente»). Quest’ultimo provvedimento fu successivamente impugnato dal tutore con ricorso straordinario per cassazione (ex art. 111 Cost.), dichiarato inammissibile dalla Suprema corte con ordinanza n. 8291 del 20 aprile 2005 (id., 2005, I, 2359) per difetto di partecipazione al procedimento di un contraddittore ritenuto necessario, e da individuarsi nella persona di un curatore speciale della rappresentata incapace ex art. 78 c.p.c. Nel terzo procedimento, avviato, a seguito della predetta ordinanza, con ricorso depositato in data 30 settembre 2005, il tutore chiese la previa nomina di un curatore speciale, che fu in effetti nominato nella persona dell’avv. Franca Alessio (da indicare dunque, più esattamente, come «curatrice» speciale), la quale prestò adesione all’istanza del tutore. Tale istanza fu non dimeno dichiarata ancora inammissibile dall’adìto tribunale con decreto depositato il 2 febbraio 2006 (questa volta reputandosi che il tutore non fosse legittimato, neppure con l’assenso della curatrice speciale, a esprimere scelte al posto o nell’interesse dell’incapace in materia di diritti e «atti personalissimi»). Il decreto fu però riformato dalla sezione «persone minori e famiglia» della Corte d’appello di Milano, in sede di reclamo, con provvedimento in data 16 dicembre 2006 (id., 2007, I, 571). In tal caso, infatti, la corte, andando di contrario avviso rispetto al Tribunale, reputò ammissibile il ricorso in ragione del generale potere di cura della persona da riconoscersi in capo al rappresentante legale dell’incapace ex art. 357 e 424 c.c. Tuttavia, esaminando e giudicando nel merito l’istanza del tutore, la corte la giudicò insuscettibile di accoglimento, sul rilievo secondo cui l’attività istruttoria espletata non consentisse di attribuire alle idee espresse da E. all’epoca in cui era ancora pienamente cosciente un’efficacia tale da renderle idonee anche nell’attualità a valere come «volontà sicura della stessa contraria alla prosecuzione delle cure e dei trattamenti che attualmente la tengono in vita». Proposto dal sig. B.E. ricorso per cassazione (notificato il 6 marzo 2007) anche avverso tale decisione, peraltro autonomamente impugnata anche dalla curatrice speciale con un ricorso incidentale sostanzialmente adesivo a quello principale, la Suprema corte si è infine pronunciata con sentenza n. 21748 in data 16 ottobre 2007 (ibid., 3025) disponendo la cassazione dell’impugnato provvedimento e il rinvio della «causa» per una nuova decisione, relativamente alle parti cassate (secondo la disciplina di cui agli art. 384, 392 e 394 c.p.c.), ad altra sezione della medesima Corte d’appello di Milano. La Suprema corte, in particolare, ha accolto i ricorsi proposti sia dal tutore che dalla curatrice speciale di E.E., nei limiti meglio specificati in motivazione, reputando, in estrema sintesi, che: — in situazioni ove sono in gioco il diritto alla salute o il diritto alla vita, o più in generale assume rilievo critico il rapporto tra medico e paziente, il fondamento di ogni soluzione giuridica transita attraverso il riconoscimento di una regola, presidiata da norme di rango costituzionale (in particolare gli art. 2, 3, 13 e 32 Cost.), che colloca al primo posto la libertà di autodeterminazione terapeutica; — pertanto è la prestazione del consenso informato del malato, il quale ha come correlato la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità o modalità di erogazione del trattamento medico, ma anche eventualmente di rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla in tutte le fasi della vita, a costituire, di norma, fattore di legittimazione e fondamento del trattamento sanitario; — il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione terapeutica non può essere negato nemmeno nel caso in cui il soggetto adulto non sia più in grado di manifestare la propria volontà a causa del suo stato di totale incapacità, con la conseguenza che, nel caso in cui, prima di cadere in tale condizione, egli non abbia specificamente indicato, attraverso dichiarazioni di volontà anticipate, quali terapie avrebbe desiderato ricevere e quali invece avrebbe inteso rifiutare nel caso in cui fosse venuto a trovarsi in uno stato di incoscienza, al posto dell’incapace è autorizzato ad esprimere tale scelta il suo legale rappresentante (tutore o amministratore di sostegno), che potrà chiedere anche l’interruzione dei trattamenti che tengano artificialmente in vita il rappresentato; — tuttavia questo potere-dovere che fa capo al rappresentante legale dell’incapace non è incondizionato, ma soffre di limiti «connaturati» al fatto che la salute è un diritto «personalissimo» di chiunque, anche dell’incapace, e che la libertà di rifiutare le cure presuppone il ricorso a valutazioni della vita e della morte che trovano il loro fondamento in concezioni di natura etica o religiosa, e comunque (anche) extragiuridiche, quindi squisitamente soggettive, che per ciò stesso devono essere pur sempre riferibili al soggetto-malato, anche se incapace; — un primo limite, coessenziale alla scelta del rappresentante, va in particolare ravvisato nella necessità che tale scelta sia sempre vincolata, come attività rappresentativa, e nella concretezza del caso, al rispetto del migliore interesse (best interest) del rappresentato; — due ulteriori ed indefettibili condizioni si riassumono poi nel seguente principio di diritto, cui deve conformarsi il giudice di rinvio: «Ove il malato giaccia da moltissimi anni (nella specie, oltre quindici) in stato vegetativo permanente, con conseguente radicale incapacità di rapportarsi al mondo esterno, e sia tenuto artificialmente in vita mediante un sondino nasogastrico che provvede alla sua nutrizione ed idratazione, su richiesta del tutore che lo rappresenta, e nel contraddittorio con il curatore speciale, il giudice può autorizzare la disattivazione di tale presidio sanitario (fatta salva l’applicazione delle misure suggerite dalla scienza e dalla pratica medica nell’interesse del paziente), unicamente in presenza dei seguenti presupposti: (a) quando la condizione di stato vegetativo sia, in base ad un rigoroso apprezzamento clinico, irreversibile e non vi sia alcun fondamento medico, secondo gli standard scientifici riconosciuti a livello internazionale, che lasci supporre la benché minima possibilità di un qualche, sia pure flebile, recupero della coscienza e di ritorno ad una percezione del mondo esterno; e (b) sempre che tale istanza sia realmente espressiva, in base ad elementi di prova chiari, univoci e convincenti, della voce del paziente medesimo, tratta dalle sue precedenti dichiarazioni ovvero dalla sua personalità, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondendo al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona. Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, il giudice deve negare l’autorizzazione, dovendo allora essere data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dal grado di salute, di autonomia e di capacità di intendere e di volere del soggetto interessato e dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa»; — alla luce del suddetto principio, il decreto impugnato, reso dalla Corte d’appello di Milano nella pregressa fase del procedimento, non si sottrae alle censure articolate dal tutore e dal curatore speciale di E.E., poiché, pur risultando «pacificamente dagli atti di causa che nella indicata situazione si trova E.E., la quale giace in stato vegetativo persistente e permanente a seguito di un grave trauma cranico-encefalico riportato a seguito di un incidente stradale (occorsole quando era ventenne), e non ha predisposto, quando era in possesso della capacità di intendere e di volere, alcuna dichiarazione anticipata di trattamento», la corte di merito ha comunque omesso di indagare adeguatamente sulla sussistenza dell’altra imprescindibile condizione idonea a legittimare la scelta del rappresentante intesa al rifiuto dell’alimentazione artificiale, ossia non ha ricostruito la «presunta volontà» di E. dando rilievo ai desideri da lei precedentemente espressi, o più in generale alla sua personalità, al suo stile di vita e ai suoi più intimi convincimenti; accertamento che dovrà quindi essere effettuato dal giudice del rinvio, tenendo conto di tutti gli elementi emersi dall’istruttoria e della convergente posizione assunta dalle parti in giudizio (tutore e curatore speciale). A seguito di tale pronuncia, il pregresso procedimento di reclamo è stato riassunto dal tutore, originario reclamante, con ricorso depositato in data 5 febbraio 2008 e assegnato — secondo predeterminato criterio tabellare previsto per il caso di cassazione di provvedimenti emessi dalla sezione «persone minori e famiglia» — a questa prima sezione civile. Nel procedimento si è costituita con propria memoria la curatrice speciale, non opponendosi, ma aderendo nuovamente all’istanza del tutore. Ha formulato le sue conclusioni anche l’ufficio del pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale designato, chiedendo il rigetto del reclamo o, in subordine, un supplemento istruttorio. Sentite le parti all’odierna udienza, e disposta ed esperita in tale frangente un’integrazione probatoria con l’audizione del sig. B.E., che ha riferito profusamente in relazione alle concezioni di vita che aveva avuto modo di esprimere E. prima di cadere in stato di permanente incapacità, e più in generale sulla sua personalità, questa corte ha assunto la riserva di decidere che provvede ora a sciogliere. …… 5. La legittimazione ad agire e la sostituzione processuale Cass., sez. II, 06-03-2008, n. 6132. La legittimazione ad agire e contraddire deve essere accertata in relazione non alla sua sussistenza effettiva ma alla sua affermazione con l’atto introduttivo del giudizio, nell’ambito d’una preliminare valutazione formale dell’ipotetica accoglibilità della domanda; tale accertamento, pertanto, deve rivolgersi alla coincidenza, dal lato attivo, tra il soggetto che propone la domanda ed il soggetto che nella domanda stessa è affermato titolare del diritto e, da quello passivo, tra il soggetto contro il quale la domanda è proposta e quello che nella domanda è affermato soggetto passivo del diritto o comunque violatore di quel diritto; inoltre, il difetto della relativa allegazione, e dimostrazione, in quanto attinente alla regolare costituzione del contraddittorio e, quindi, disciplinata da inderogabile norma di diritto pubblico processuale, è rilevabile anche di ufficio; invece, l’accertamento dell’effettiva titolarità del rapporto controverso, così dal lato attivo come da quello passivo, attiene al merito della causa, investendo i concreti requisiti d’accoglibilità della domanda e, quindi, la sua fondatezza (nella specie, non avendo il ricorrente dimostrato la sua qualità di erede della parte, deceduta nelle more, nei cui confronti si era tenuto l’appello, in quanto la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà da lui resa non ha valore probatorio nel processo civile, il ricorso per cassazione è stato dichiarato inammissibile). Cass., sez. I, 10-01-2008, n. 355. La legitimatio ad causam, attiva e passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa, con conseguente dovere del giudice di verificarne l’esistenza in ogni stato e grado del procedimento; da essa va tenuta distinta la titolarità della situazione giuridica sostanziale, attiva e passiva, per la quale non è consentito l’esame d’ufficio, poiché la contestazione della titolarità del rapporto controverso si configura come una questione che attiene al merito della lite e rientra nel potere dispositivo e nell’onere deduttivo e probatorio della parte interessata (nella specie, la suprema corte, rigettando il ricorso avverso la sentenza impugnata, ha ritenuto sufficiente, ai fini della legittimazione passiva dei convenuti, che nella domanda attorea essi fossero indicati quali autori di illeciti anticoncorrenziali rientranti nella previsione della disciplina dettata dalla l. n. 287 del 1990, la quale regola le azioni di nullità e di risarcimento dei danni nascenti dall’illecito anticoncorrenziale, attinendo invece al merito la questione se gli stessi convenuti fossero in concreto esonerati dall’applicazione della normativa antitrust per avere agito nell’ambito di una delle ipotesi di esenzione disciplinate dalla legge). T. Milano, 13-02-2008. Il titolare di warrants azionari, prima dell’esercizio del suo diritto, non ha legittimazione ad agire ai sensi dell’art. 2497 c.c., poiché non è in condizioni di lamentare il danno che detta norma è tesa a ristorare: egli è infatti titolare solo di un «diritto d’opzione», cioè di un «bene della vita» diverso dall’azione o dalla partecipazione azionaria, né può ritenersi creditore della società, poiché è titolare solo del diritto potestativo di accettare la proposta di emettere nuove azioni al prezzo già concordato, non di un diritto di credito. Cass., sez. III, 13-12-2007, n. 26253. Nell’assicurazione per conto di chi spetta ha diritto all’indennità chi al momento dell’evento dannoso risulti proprietario della cosa o titolare di un diritto reale o di garanzia su di essa, mentre il contraente, anche quando si trova in una relazione di custodia con la cosa, può pretendere l’indennità in luogo dell’avente diritto se quest’ultimo presti il proprio consenso ovvero se ciò sia previsto da apposita clausola (nella fattispecie, relativa ad un contratto di assicurazione stipulato dal vettore in favore del proprietario delle cose trasportate, la suprema corte ha rigettato il ricorso avverso la sentenza di merito che aveva dichiarato la carenza di legittimazione del vettore ad agire contro l’assicuratore per il pagamento dell’indennizzo, a seguito della rapina su un furgone portavalori, dal momento che i valori perduti non appartenevano al vettore, ma ad altro soggetto, e che non poteva ravvisarsi nel comportamento dell’assicurato, che non aveva profittato dell’assicurazione, il di lui «espresso consenso» a che il contraente esercitasse i diritti derivanti dalla polizza, ai sensi del 2º comma dell’art. 1891 c.c.). Cass. civ. Sez. lavoro 24.03.2004 n. 5912 La "legitimatio ad causam" è espressione del principio dettato dall'art. 81 c.p.c., secondo il quale nessuno può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio fuori dei casi espressamente previsti dalla legge. Ciò comporta - trattandosi di materia attinente al contraddittorio e mirandosi a prevenire una sentenza "inutiliter data" - la verifica, anche d'ufficio in ogni stato e grado del processo (con il solo limite della formazione del giudicato interno sulla questione) e in via preliminare al merito, dell'astratta coincidenza dell'attore e del convenuto con i soggetti che, secondo la legge che regola il rapporto dedotto in giudizio, sono destinatari degli effetti della pronuncia richiesta. La questione relativa alla legittimazione, pertanto, si distingue nettamente dall'accertamento in concreto che l'attore e il convenuto siano, dal lato attivo e passivo, effettivamente titolari del rapporto fatto valere in giudizio; tale ultima questione, infatti, concerne il merito della causa e deve formare oggetto di specifica censura in sede di impugnazione, non potendo essere sollevata per la prima volta in cassazione. (Nel caso di specie, (nella specie, uno stato dedotto per la prima volta in cassazione) difetto di legittimazione attiva dell'INAIL riguardo ad una controversia in cui un lavoratore agiva in diritto per il riconoscimento della rendita per malattia professionale, avendo prestato attività lavorativa esclusivamente all'estero). Cass. civ. Sez. II 03.02.1998 n. 1039 Il controllo della legitimatio ad causam demandato al giudice non implica il dovere di procedere d'ufficio ad atti istruttori ad hoc allorquando le parti si siano presentate in lite dichiarandosi in possesso delle qualità richieste e nessun contrasto sia sorto in proposito, ovvero quando la tardività della contestazione non consenta lo svolgimento del contraddittorio sull'argomento, mentre il detto controllo può essere esercitato d'ufficio, in ogni stato e grado del processo, sulla scorta degli elementi acquisiti in causa. Cass., sez. I, 17-07-2007, n. 15946. Costituisce giudicato interno l’accertata legittimazione passiva sostanziale di una parte nei cui confronti siano stati liquidati i danni, dopo che essa si è dichiarata sostituta processuale di altra parte rimasta contumace e condannata genericamente in via non definitiva, quando, pur emergendo l’inesistenza di tale sostituzione da un documento in atti (nella specie, la procura al difensore), dopo la costituzione dell’interventrice dichiaratasi successore, né il giudice di primo grado ha ritenuto di chiedere d’ufficio, ai sensi dell’art. 182 c.p.c., a detta parte (una società) di regolarizzare la sua costituzione nella qualità di incorporante di altra società, né le controparti hanno contestato tale sostituzione processuale che non è stata impugnata con l’appello, proposto proprio dall’interventrice erroneamente costituitasi ancora come sostituta e nella stessa qualità, anche se nel corso del secondo grado l’appellante abbia denunciato l’errore nella dichiarazione, chiedendo di integrare il contraddittorio nei confronti della parte sostituita. T. Napoli, 20-10-2005. L’azione introdotta dall’art. 2476, 3º comma, c.c. è azione sociale in quanto finalizzata alla reintegrazione del patrimonio sociale e la legittimazione attiva del socio configura un’ipotesi di sostituzione processuale dello stesso alla società, la cui partecipazione al giudizio non è richiesta per difetto di litisconsorzio necessario. TRIBUNALE DI NAPOLI; sentenza, 20-10-2005 Motivi della decisione. — (Omissis). Gli attori hanno domandato «in via preliminare revocare dalla carica gli attuali amministratori sig. Scotti Pasquale ed Antonio Marzio». Si reiterano in primo luogo i rilievi formulati dal relatore con il decreto ex art. 12, 3° comma, d.leg. 5/03. Più esattamente, ribadita la qualificazione dell’istanza de qua alla stregua della previsione di cui all’art. 2476, 3° comma, c.c. e, quindi, in termini senza dubbio cautelari, va rimarcato che Filippo Di Meglio e la Dega tourist s.n.c. di Gennaro Della Vecchia e fratelli non hanno né proposto, così come prescrive l’art. 24 d.leg. cit., apposito ricorso al relatore medesimo in epoca successiva alla sua designazione da parte del presidente della sezione, né attivato, in epoca antecedente, i poteri di designazione prefigurati a vantaggio del presidente dall’art. 24, 1° comma, ultima parte, d.leg. cit. Conseguentemente, è da condividere il postulato affermato, sulla scorta dell’insegnamento dottrinario (in dottrina si è chiarito che «la necessità di ‘formalizzare’ con autonomo e separato atto la richiesta di cautela discende, per un verso, dall’autonomia della tutela cautelare rispetto alla causa di merito pur già pendente e, soprattutto, dal rispetto del principio del contraddittorio, che deve consentire alla parte che resiste alla cautela di esaminare il contenuto della domanda e svolgere difese anche scritte»), col decreto ex art. 12, 3° comma, d.leg. cit., in virtù del quale l’omessa ottemperanza a siffatto onere di forma preclude la delibazione dell’istanza cautelare di revoca degli amministratori Scotti e Marzio (benvero il condiviso postulato aveva già trovato espressione in giurisprudenza con riferimento alla cautela del sequestro invocata nella citazione introduttiva del giudizio di merito: cfr., in tal senso, Trib. Roma 17 gennaio 1996, Foro it., Rep. 1996, voce Sequestro conservativo, n. 33). Si opina in secondo luogo, pur ad assumere (nonostante l’esplicita caratterizzazione in guisa preliminare della domanda) che parte attrice intenda conseguire la revoca in via definitiva, sulla scorta di una cognizione piena e non sommaria, degli amministratori (la domanda di revoca in via preliminare degli amministratori Scotti e Marzio, pur ribadita nell’istanza di fissazione d’udienza, risulta del tutto pretermessa ed in alcun modo figura nelle conclusioni di cui alla comparsa conclusionale), che un’istanza siffatta sia da reputare, alla stregua della reale portata dell’art. 2476, 3° comma, c.c., inammissibile, giacché di già al momento della sua proposizione il diritto in concreto azionato non era neppure astrattamente configurabile (la dottrina spiega che costituisce condizione dell’azione «l’esistenza di una norma che contempli in astratto il diritto che si vuol far valere. Questa prima condizione dell’azione si chiama possibilità giuridica»). Segnatamente si reputa che la menzionata novella disposizione codicistica non contempla affatto, a differenza di quanto prefigurato all’art. 2259, 3° comma, c.c. (scritto in tema di società semplice), un’azione, a cognizione piena, finalizzata all’attuazione giurisdizionale del diritto sostanziale (evidentemente e parallelamente non previsto) di ciascun socio di s.r.l. a conseguire la revoca definitiva del titolare ovvero dei titolari dalla carica gestoria: il paradigma normativo di cui all’art. 2476, 3° comma, c.c. prevede unicamente, in singolare connessione con l’azione sociale di responsabilità ossia con un’azione (di cognizione) di condanna, una mera azione cautelare che, in quanto rivolta all’interinale caducazione dell’atto costitutivo, nella parte in cui reca indicazione giusta il disposto dell’art. 2463, 2° comma, n. 8, c.c. delle persone degli amministratori, ovvero della decisione dei soci assunta ai sensi dell’art. 2479, 2° comma, n. 2, c.c., riflette i caratteri di un’azione (di cognizione) costitutiva, azione costitutiva di cui, nondimeno, non vi è traccia alcuna nel letterale dettato dell’art. 2476 c.c. Al cospetto delle descritte opzioni della «riforma» opina il collegio che l’elaborazione giurisprudenziale non può in alcun modo insinuare nel tessuto normativo dell’art. 2476 c.c. un’azione costitutiva a cognizione piena mirante alla (pronuncia di) revoca definitiva degli amministratori dall’ufficio gestorio: l’applicazione analogica dell’art. 2259, 3° comma, c.c. appare indiscutibilmente preclusa dal carattere tipico della tutela costitutiva, destinata ad esplicarsi, in dipendenza della riserva di legge di cui all’art. 2908 c.c., nei soli casi previsti dal legislatore, e, quindi, ai sensi dell’art. 14 delle preleggi, dal suo carattere eccezionale, connesso alla tendenziale intangibilità, pur da parte dell’organo statuale giurisdizionale, della sfera di esplicazione dell’autonomia costituzionalmente garantita (art. 41, 1° comma, Cost.) ai privati. Né, al contempo, vi è margine per reputare che il provvedimento cautelare di revoca ex art. 2476, 3° comma, c.c. abbia di per sé attitudine ad acquisire definitiva efficacia in dipendenza della «stabilità» assicurata dalla «riforma», nonostante il mancato inizio ovvero l’estinzione del giudizio di merito, ai provvedimenti d’urgenza ed ai provvedimenti cautelari idonei ad anticipare gli effetti della decisione di merito, sì che possa a pieno titolo esser pronunciato pur dal collegio in fase di decisione (sulla scorta di una domanda di revoca definitiva dell’amministratore dalla carica gestoria) in presenza di gravi irregolarità gestionali generatrici di conseguenze pregiudizievoli per il patrimonio societario. Ciò che osta ad una simile soluzione esegetica, è, parimenti, l’omessa prefigurazione di un’azione costitutiva a cognizione piena, facultante ciascun socio alla richiesta giudiziaria di revoca definitiva dell’amministratore e, quindi, la mancata prefigurazione nel sistema della «riforma» della correlata sentenza (decisione) di merito: invero non possono in via cautelare essere «definitivamente» anticipati gli effetti atti a scaturire da una statuizione (costitutiva) di merito non espressamente prevista. D’altronde, la proiezione dell’efficacia del provvedimento cautelare di revoca oltre il tempo successivo all’affermazione giurisdizionale della responsabilità gestoria, si tradurrebbe, sostanzialmente, nella «pretoria» enucleazione di un provvedimento costitutivo a carattere definitivo che il legislatore non ha inteso prevedere e, comunque, non ha previsto, con susseguente ed inevitabile violazione della riserva di legge di cui all’art. 2908 c.c. (nel quadro dell’originale connessione prefigurata tra il provvedimento cautelare di revoca di valenza costitutiva e la statuizione a cognizione piena di condanna, il disconoscimento della pretesa risarcitoria, pur con sentenza non passata in giudicato, vale senza dubbio a determinare, ai sensi dell’art. 669 novies, 2° comma, c.p.c., l’inefficacia della revoca interinalmente disposta; nondimeno, l’affermazione della pretesa risarcitoria del pari vanifica il provvedimento cautelare, ripristinando nella titolarità dell’ufficio gestorio la persona o le persone che ne sono state provvisoriamente rimosse. Né tale ultima soluzione appaia aberrante: nel quadro della significativa «contrattualizzazione» del diritto societario conseguente alla dilatazione, quasi illimitata per la s.r.l., dei margini dell’autonomia statutaria, per giunta la collettività dei soci, in dipendenza dell’omesso richiamo, nell’ambito della disciplina della s.r.l., dell’art. 2383, 3° comma, c.c., non può, nonostante la presenza di una giusta causa, procedere alla revoca degli amministratori). Gli attori, in dipendenza della costituzione della Gestione nuove terme comunali s.r.l. in persona del legale rappresentante pro tempore ovvero della società di cui essi stessi sono soci ed il cui patrimonio, asseritamente menomato dagli atti di mala gestio dei convenuti Borsò, Postiglione, Scotti e Marzio, mirano a reintegrare, hanno, nella memoria di replica ex art. 6 d.leg. cit. specificamente rivolta nei confronti della medesima s.r.l., dedotto l’inopportunità della costituzione della G.N.T.C. s.r.l., giacché unica e reale beneficiaria dell’azione di responsabilità all’uopo esperita, altresì evidenziando il conflitto d’interessi in cui verserebbero i due componenti del consiglio di amministrazione convenuti in proprio con la spiegata azione ex art. 2476 c.c. Su tale scorta, nella memoria ex art. 6 d.leg. cit., gli attori medesimi hanno invocato la declaratoria di nullità della comparsa di costituzione e risposta della Gestione nuove terme comunali s.r.l. per violazione dell’art. 4, 1° comma, d.leg. cit., non avendo, tra l’altro, la società convenuta preso posizione sui fatti dedotti ex latere actoris e formulato conclusioni, ed hanno altresì chiesto «accertare e dichiarare anche l’illegittimità e, comunque, la nullità della delibera assembleare (n.d.e.: recte, consiliare) del 3 luglio 2004 (n.d.e.: delibera con cui si è disposto per la costituzione della società nel presente giudizio), giacché assunta in palese conflitto di interesse» (così memoria di replica ex art. 6 d.leg. cit.). Ritiene il collegio che la società G.N.T.C. sia priva di legittimazione a resistere, giacché, di già alla stregua della prospettazione di parte attrice, la società convenuta non è in alcun modo prefigurata quale titolare dell’asserito debito risarcitorio cui si correla l’azionata pretesa creditoria (la dottrina spiega che la «domanda non è accoglibile, neppure ipoteticamente, se il diritto affermato nella domanda stessa non è affermato come diritto di colui che propone la domanda e contro colui nei cui confronti si propone la domanda»; in giurisprudenza, cfr. Cass. 16 novembre 1982, n. 6126, id., Rep. 1982, voce Procedimento civile, n. 74, secondo cui il controllo del giudice sulla sussistenza della legitimatio ad causam, nel duplice aspetto di legittimazione ad agire e a contraddire, si risolve nell’accertare se, secondo la prospettazione del rapporto controverso data dall’attore, questi ed il convenuto assumano, rispettivamente, la veste di soggetto che ha il potere di chiedere la pronunzia giurisdizionale e di soggetto tenuto a subirla, con la conseguenza che, qualora da tale controllo risulti che già secondo la prospettazione dell’attore, quest’ultimo ovvero il convenuto non possano identificarsi col soggetto rispettivamente avente diritto o tenuto a subire la pronunzia giurisdizionale, il giudice deve rigettare la domanda rispettivamente per difetto di legittimazione attiva o passiva). Non s’ignora che si è in dottrina prospettata la necessità di chiamare in giudizio la società. All’uopo si è evidenziato che l’art. 2476, 3° comma, prima parte, c.c., nel legittimare ciascun socio, sia o meno, a sua volta, amministratore ed indipendentemente dal quantum della sua partecipazione societaria, all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori (che l’azione alla cui proposizione è, ai sensi del 3° comma dell’art. 2476 c.c., abilitato ciascun socio, sia l’azione sociale, l’azione cioè finalizzata alla reintegrazione del patrimonio della società, lo si desume senza dubbio dalla correlazione sistematica con l’actio prefigurata al 6° comma del medesimo art. 2476 c.c., ove, invece, è riprodotta nel tessuto normativo della s.r.l. l’azione individuale del socio e del terzo di cui, in tema di s.p.a., all’art. 2395 c.c.; d’altro canto, che trattasi dell’azione sociale di responsabilità lo si evince ulteriormente dalla previsione del 5° comma dell’art. 2476 c.c., giacché in tanto l’azione può essere oggetto di rinuncia o di transazione da parte della società, in quanto, appunto, si tratta dell’azione sociale), prefiguri una vera e propria legittimazione straordinaria ad agire ovvero un’ipotesi di sostituzione processuale, di legittimazione all’esercizio in nome proprio di un diritto altrui. Su tale premessa, argomentando analogicamente dalla disposizione di cui al 3° comma del novello art. 2393 bis c.c., scritto in tema di s.p.a. e disciplinante l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità da parte dei soci di minoranza, si è concluso, nonostante l’assenza di una corrispondente previsione nel corpo della disciplina della s.r.l., specificamente dell’art. 2476 c.c., per la necessità della partecipazione al giudizio della società. Siffatta impostazione non è da condividere. In primo luogo, giacché «complica» un tessuto normativo, quale quello dell’art. 2476 c.c., che non contempla affatto la partecipazione al giudizio della società in guisa di litisconsorte necessario. In secondo luogo, giacché difetta il presupposto, postulato dall’art. 12, 2° comma, delle preleggi, della «somiglianza rilevante» (la regolamentazione di una data fattispecie alla stregua della disciplina dettata per un caso simile postula non già una somiglianza qualunque, sibbene una «somiglianza rilevante» ovvero che ambedue le fattispecie siano accomunate da una qualità essenziale, che costituisca al contempo la ragione principe — eadem ratio legis — in virtù della quale sia stata, per il caso espressamente previsto, dettata quella determinata e non altra disciplina): la facultas agendi accordata alla minoranza qualificata di cui all’art. 2393 bis, 1° comma, c.c. non ha motivo di esplicarsi in caso di attivazione dell’organismo collettivo, sicché l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità da parte della minoranza ex art. 2393 bis, 1° comma, c.c. sembra legittimarsi, essenzialmente se non esclusivamente, nel caso in cui l’assemblea abbia ritenuto, nel solco della disposizione di cui all’art. 2393, 1° comma, c.c., di non deliberarla ossia, essenzialmente se non esclusivamente, in caso di inerzia della società, del soggetto titolare del diritto sostanziale, la cui omessa attivazione, appunto, assurge, tra gli altri ed in aderenza con quanto sancito in linea generale dall’art. 2900 c.c., a presupposto del potere surrogatorio accordato alla minoranza. Viceversa con la legittimazione di ciascun socio di s.r.l. all’esercizio dell’azione sociale di responsabilità non interferisce in alcun modo l’inerzia della società. Certo, l’iniziativa del socio ex art. 2476, 3° comma, c.c., così come quella della minoranza qualificata ex art. 2393 bis c.c., si risolve a beneficio dell’organismo collettivo. Tuttavia non sembra vi sia margine per caratterizzare la mancata attivazione della s.r.l., del soggetto titolare della pretesa risarcitoria, quale imprescindibile presupposto dell’iniziativa del singolo socio. E ciò tanto più se è a dubitarsi, così come (nonostante, in verità, taluni autorevoli dissensi) si dubita, della possibilità di esplicazione della legittimazione attiva della s.r.l. sulla scorta di un percorso decisionale analogo a quello dettato per la s.p.a., in dipendenza della sua mancata previsione nel contesto normativo dell’art. 2476 c.c., più esattamente sulla scorta di un modulo, pur non collegiale, di decisione circa la proposizione dell’azione assimilabile a quello di cui al 1° comma dell’art. 2393 c.c. (significativi, al riguardo, sono pure il disposto e, quindi, il silenzio in parte qua dell’art. 2479, 2° comma, c.c.). In questi termini opina il collegio che il conferimento a ciascun socio della legittimazione all’esercizio dell’azione di cui all’art. 2476, 3° comma, c.c. sottenda, abbia valenza di attribuzione ex lege ad ognuno dei componenti della compagine collettiva, benvero ai soli fini dell’esercizio dell’azione sociale di responsabilità, del potere di diretta gestione e di diretta rappresentanza, sostanziale e processuale, dell’impresa sociale: all’unico scopo della reintegrazione del patrimonio della società menomato dall’atto di mala gestio dell’amministratore o degli amministratori in carica la soluzione prescelta dall’art. 2476, 3° comma, c.c. riproduce sul terreno della s.r.l. le opzioni positive di cui agli art. 2257, 1° comma, e 2266, 2° comma, c.c. ovvero la regola per cui ciascun socio è amministratore e rappresentante della società. In siffatta prospettiva, che appare confortata dalla possibilità esplicitamente prevista (in verità in via sussidiaria) dall’art. 2475, 3° comma, c.c. di strutturazione e di funzionamento dell’organo di gestione ai sensi dell’art. 2257 c.c. ossia secondo il modello dell’amministrazione plurima disgiuntiva, è a reputarsi che il socio o i soci attori, ancorché non spendano formalmente il nome della società nell’attivarsi e costituirsi in giudizio (è il caso di specie), onde reintegrare non già il proprio (come sarebbe, se ad esser esercitata fosse l’azione di cui al 6° comma dell’art. 2476 c.c.) sibbene il patrimonio della società depauperato dalle negligenti condotte degli amministratori, agiscano nondimeno in nome e per conto della società medesima. Del resto, specificamente con riferimento alle società in nome collettivo di fatto, si è ritenuto che non occorre che le manifestazioni esteriori, atte a rivelare ai terzi l’agire del socio in nome della società, assurgano alla spendita del nome dell’altro o degli altri soci, essendo sufficiente che il comportamento di chi agisce per la società sia tale da rendere palesi al terzo il vincolo sociale e l’esplicazione dell’attività nell’interesse comune (cfr., in tal senso, Cass. 18 marzo 1986, n. 1843, id., Rep. 1986, voce Società, n. 302). Cass., sez. II, 23-01-2007, n. 1389. Il creditore agente in surrogatoria ex art. 2900 c.c., e quindi con veste di sostituto processuale del debitore, non può essere equiparato a un soggetto terzo - come tale libero di provare con qualsiasi mezzo la simulazione ex art. 1417 c.c. - atteso che si viene a trovare, per la natura stessa dell’azione esercitata, nella stessa posizione, processuale e sostanziale, del debitore surrogato, con la conseguenza che sono a lui applicabili tutti i limiti probatori inerenti la posizione del debitore sostituito. 6. Il giudizio con pluralità di parti 6.1. Il litisconsorzio necessario Cass. civ. Sez. I 23.09.2003 n. 14102 Al di fuori dei casi in cui la legge espressamente impone la partecipazione di più soggetti al giudizio instaurato nei confronti di uno di essi, ricorre un'ipotesi di litisconsorzio necessario solo allorquando l'azione tenda alla costituzione o al mutamento di un rapporto plurisoggettivo unico oppure all'adempimento di una prestazione inscindibile, incidente su una situazione inscindibilmente comune a più soggetti, di modo che, se pronunciata in assenza del contraddittorio di tutte le parti interessate, l'emananda sentenza sia priva di alcuna pratica utilità; pertanto, non sussiste un'ipotesi di litisconsorzio necessario allorché il giudice proceda in via meramente incidentale e con effetto limitato alle parti in giudizio ad accertare una situazione giuridica che riguardi anche la parte in esso non presente, dal momento che tale accertamento può ben compiersi e produrre i suoi effetti tra dette parti del processo, senza chiamare in giudizio l'altra, la quale, in quanto pretermessa, non subisce alcun pregiudizio dall'accertamento incidentale, inidoneo a costituire giudicato nei suoi confronti. Sulla base dell'enunciato principio, la S.C. ha escluso la necessità del litisconsorzio in un giudizio volto al pagamento di una somma di denaro richiesta da un contraente nei confronti dell'altro sulla base di un negozio, tra gli stessi stipulato, che aveva modificato un precedente contratto, al quale aveva partecipato anche un altro soggetto. Cass. civ. Sez. III 03.02.2004 n. 1940 Il litisconsorzio necessario ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa, alla stregua di un accertamento da effettuarsi sulla base del "petitum" (e cioè in base al risultato perseguito in giudizio dall'attore, in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe, onde non privare la decisione dell'utilità connessa all'esperimento dell'azione proposta indipendentemente dalla natura del provvedimento richiesto. (Nella specie, riguardando la controversia l'esistenza, validità e risoluzione di contratti di locazione (e subaffitto) e di comodato di un fondo di destinazione ad uso civico concesso in affitto dal Comune, ed essendo stati tali contratti conclusi dall'affittuario del predetto fondo con terzi, la S.C. ha escluso che potesse configurarsi un'ipotesi di litisconsorzio necessario col Comune). Cass. civ. Sez. III 17.11.1998 n. 11550 Il litisconsorzio necessario ricorre, oltre che nei casi espressamente previsti dalla legge, quando la situazione sostanziale plurisoggettiva dedotta in giudizio debba essere necessariamente decisa in maniera unitaria nei confronti di ogni soggetto che ne sia partecipe onde non privare la decisione dell'utilità connessa all'esperimento dell'azione proposta indipendentemente dalla natura del provvedimento richiesto, non essendo di per sè solo rilevante il fatto che la parte istante abbia richiesto una sentenza costitutiva, di condanna o meramente dichiarativa. (Fattispecie in cui si controverteva tra le parti della qualità di una di esse di coaffittuario di un fondo agrario. La S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva affermato la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti del concedente). Cass. civ. Sez. III 04.06.2004 n. 10649 Quando il proprietario di un immobile denunci i danni provenienti da un immobile confinante per conseguire una pronuncia di condanna all'esecuzione di opere e lavori idonei ad eliminare i danni medesimi l'appartenenza di detto immobile a più comproprietari determina l'esigenza di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti tali comproprietari, stante la loro qualità di litisconsorti necessari, in relazione alla inscindibilità ed indivisibilità dell'obbligazione dedotta in causa, con la conseguenza che la nullità del giudizio per la mancata partecipazione di uno dei litisconsorti necessari può essere fatta valere dal litisconsorte pretermesso; tuttavia, l'eccezione di difetto del contraddittorio per omessa citazione di un litisconsorte necessario non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di cassazione qualora su tale questione sia intervenuto il giudicato, ovvero se il presupposto e gli elementi posti a fondamento di essa non emergano con ogni evidenza dagli atti del processo di merito, non essendo possibile in sede di legittimità valutare nuove prove o svolgere attività istruttorie. Cass., sez. II, 18-11-2008, n. 27412. L’azione con la quale i comproprietari di un fabbricato chiedono, nei confronti dei comproprietari dell’immobile confinante, la rimozione, o comunque l’arretramento a distanza legale, di opere abusivamente eseguite, dà luogo ad un litisconsorzio necessario passivo e, dunque, in appello ad una ipotesi di cause inscindibili ai sensi dell’art 331 c.p.c., in quanto la modificazione della cosa comune non può essere disposta od attuata pro quota in assenza di alcuno dei contitolari della proprietà del bene su cui dovrebbe effettuarsi la rimozione o l’arretramento a distanza legale; ne consegue che la mancata notificazione dell’atto di impugnazione della sentenza di primo grado a taluno dei comproprietari vizia la sentenza di appello che sia stata emessa senza l’integrazione del contraddittorio con il comproprietario pretermesso e tale vizio può essere fatto valere come motivo di ricorso per cassazione anche dalla stessa parte cui sia imputabile, in quanto, per un verso, la sentenza di primo grado non passa in giudicato nei confronti dei pretermessi in presenza dell’impugnazione di altre parti e, per altro verso, la sentenza che non sia pronunciata nei confronti di tutti i comproprietari risulta comunque ineseguibile e, quindi, inutiliter data. Cass., sez. III, 16-01-2009, n. 972. Nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi sono legittimati a contraddirvi tutti i soggetti entrati nel processo esecutivo che abbiano interesse a che l’atto impugnato non sia annullato e, quindi, anche i creditori intervenuti, seppure non siano muniti di titolo esecutivo; ne consegue che, ove non venga eseguita, né prima né dopo la scadenza del termine perentorio assegnato, l’integrazione del contraddittorio disposta dal giudice nei confronti di un creditore intervenuto non munito di titolo esecutivo, non si produce la sanatoria della nullità dell’atto introduttivo del giudizio ed il giudice è tenuto a dichiarare d’ufficio la mancanza di tale sanatoria, non potendo, in assenza delle parti necessarie, giudicare del merito della domanda. Cass., sez. II, 17-03-2006, n. 6056. In tema di condominio degli edifici, l’azione di accertamento della proprietà comune, in quanto ha ad oggetto la contitolarità del diritto di proprietà in capo a tutti i condomini, è relativa a un rapporto sostanziale plurisoggettivo unitario, dando luogo a un’ipotesi di litisconsorzio necessario fra tutti i condomini; infatti, il giudicato si forma ed è opponibile nei confronti dei soli soggetti che hanno partecipato al giudizio; d’altra parte, poiché non è applicabile ai rapporti assoluti la disciplina specifica dei rapporti obbligatori, non è estensibile alla specie il criterio dettato in materia di obbligazioni indivisibili dall’art. 1306 c.c., in virtù del richiamo di cui all’art. 1317 c.c., secondo cui gli effetti favorevoli di una sentenza pronunciata nei confronti di uno o di alcuni dei diversi componenti dell’obbligazione solidale o indivisibile si comunicano agli altri. Cass., sez. II, 27-02-2009, n. 4856. La rappresentanza in giudizio per gli atti relativi all’amministrazione dei beni facenti parte della comunione legale spetta, a norma dell’art. 180 c.c., ad entrambi i coniugi e, quindi, ciascuno di essi è legittimato ad esperire qualsiasi azione di carattere reale (come, nella specie, quella di rivendicazione) o con effetti reali diretta alla tutela della proprietà o del godimento della cosa comune, senza che sia indispensabile la partecipazione al giudizio dell’altro coniuge, non vertendosi in una ipotesi di litisconsorzio necessario. Cass., sez. II, 13-02-2008, n. 3474. Il contraddittorio nel giudizio tra tutti i partecipanti, od i loro eredi, all’atto impugnato per simulazione è necessario solo quando la nullità che ne deriva all’atto venga posta a fondamento dell’azione e non già quando il suo accertamento formi oggetto di una mera eccezione e debba essere effettuato in via incidentale e senza efficacia di giudicato. Cass., sez. II, 02-03-2007, n. 4901. La fattispecie della simulazione, sia essa assoluta o relativa, integra una ipotesi di litisconsorzio necessario tra le parti del contratto solamente nel caso in cui il relativo accertamento risulti proposto in via principale, e non anche quando ad esso si proceda in via meramente incidentale, nell’ambito di un altro e diverso procedimento volto ad una pronuncia che non incida direttamente sul patrimonio del contraente pretermesso, ma sia destinata a produrre i suoi effetti unicamente tra le parti del processo. Cass., sez. lav., 23-06-1998, n. 6214. Nelle controversie aventi ad oggetto situazioni di interposizione fittizia nella prestazione di lavoro, nelle quali il rapporto di lavoro intercorre apparentemente con l’appaltatore di manodopera (soggetto interposto), ma sostanzialmente con l’appaltante, non sussiste litisconsorzio necessario tra interponente ed interposto; pertanto, nell’ipotesi in cui il giudizio vertente sulle richieste dei lavoratori nei confronti dell’interponente si sia svolto nei gradi di merito in contraddittorio anche con il soggetto interposto, la notificazione tardiva del ricorso in cassazione a quest’ultimo non impone l’integrazione del contraddittorio ai sensi dell’art. 331 c.p.c. Cass., sez. III, 11-02-2009, n. 3338. La circostanza per cui una domanda di condanna all’adempimento di un’obbligazione venga accolta nei confronti di più soggetti in via solidale non giustifica di per sé che il processo, che ha avuto in primo grado natura di litisconsorzio facoltativo, si configuri in sede di impugnazione come processo su causa inscindibile, sia che impugni il soggetto che ha ottenuto la condanna solidale sia che impugni alcuno dei condannati in solido; ne consegue che, di regola, in appello si applica in tali casi il disposto dell’art. 332 c.p.c. e non quello dell’art. 331 c.p.c. Cass., sez. II, 23-02-2009, n. 4382. L’azione con la quale si chiede, nei confronti dei comproprietari dell’immobile confinante, la rimozione, o comunque l’arretramento a distanza legale, di opere assunte come abusivamente eseguite, dà luogo ad un litisconsorzio necessario passivo e, quindi, in appello determina la configurazione di una ipotesi di cause inscindibili ai sensi dell’art. 331 c.p.c.; ne consegue che la mancata citazione in appello di uno dei litisconsorti costituisce un vizio rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo. Cass. civ. Sez. I 01.08.2003 n. 11736 La parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l'onere di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e di provarne l'esistenza. Cass. civ. Sez. lavoro 02.07.2001 n. 8894 La parte che eccepisce la non integrità del contraddittorio ha l'onere non soltanto di indicare le persone che debbono partecipare al giudizio quali litisconsorti necessari e di provarne l'esistenza, ma anche quello di indicare, se l'eccezione è proposta in cassazione, gli atti del processo di merito dai quali dovrebbe trarsi la prova dei presupposti di fatto che giustificano la sua eccezione. Cass. civ. Sez. III 04.06.2004 n. 10649 Quando il proprietario di un immobile denunci i danni provenienti da un immobile confinante per conseguire una pronuncia di condanna all'esecuzione di opere e lavori idonei ad eliminare i danni medesimi l'appartenenza di detto immobile a più comproprietari determina l'esigenza di integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti tali comproprietari, stante la loro qualità di litisconsorti necessari, in relazione alla inscindibilità ed indivisibilità dell'obbligazione dedotta in causa, con la conseguenza che la nullità del giudizio per la mancata partecipazione di uno dei litisconsorti necessari può essere fatta valere dal litisconsorte pretermesso; tuttavia, l'eccezione di difetto del contraddittorio per omessa citazione di un litisconsorte necessario non può essere proposta per la prima volta nel giudizio di cassazione qualora su tale questione sia intervenuto il giudicato, ovvero se il presupposto e gli elementi posti a fondamento di essa non emergano con ogni evidenza dagli atti del processo di merito, non essendo possibile in sede di legittimità valutare nuove prove o svolgere attività istruttorie. Cass. civ. Sez. III 29.07.2002 n. 11149 Qualora il giudizio venga promosso contro alcuni soltanto dei litisconsorti necessari, a norma dell'art. 102, comma 2, c.p.c. il giudice deve ordinare l'integrazione del contraddittorio in un termine perentorio da lui stabilito, non solo all'udienza di prima comparizione, come previsto dall'art. 180, comma 1, c.c., ma anche nel corso del giudizio, e quindi anche quando la non integrità del contraddittorio venga rilevata in sede di decisione della causa. Ne consegue che è errata la sentenza con la quale il giudicante, rilevata la mancata integrazione del contraddittorio, ne faccia discendere l'inammissibilità della domanda, anzichè l'adozione del provvedimento ordinatorio imposto dall'art. 102, comma 2, c.p.c. Cass. civ. Sez. II 06.09.2002 n. 12980 In caso di litisconsorzio necessario, la confessione resa da uno dei litisconsorti a seguito delle domande rivoltegli in sede di interrogatorio formale, se non può acquistare valore di prova legale anche nei confronti delle persone diverse dal confidente, in quanto costui non ha alcun potere di disposizione in ordine a situazioni giuridiche che fanno capo a altri distinti soggetti del rapporto processuale, consente al giudice di apprezzare liberamente la dichiarazione confessoria e trarne elementi di convincimento valutabili secondo i principi delle logica comune, anche nei confronti degli altri litisconsorti. 6.2 Litisconsorzio facoltativo e interventi Cass. civ. Sez. II 12.06.2001 n. 7908 Il provvedimento discrezionale di riunione di più cause lascia immutata l'autonomia dei singoli giudizi e non pregiudica la sorte delle singole azioni; pertanto, la loro congiunta trattazione lascia integra la loro identità tanto che la sentenza che decide simultaneamente le cause riunite pur essendo formalmente unica si risolve in altrettante pronunce quante sono le cause decise: conseguentemente, la liquidazione delle spese giudiziali va operata in relazione ad ogni singolo giudizio, posto che solo in riferimento alle singole domande è possibile accertare la soccombenza, non potendo essere coinvolte in quest'ultima soggetti che non sono parti in causa. Cass. civ. Sez. III 22.01.2004 n. 1103 In materia di procedimento civile, in caso di litisconsorzio facoltativo, pur nell'identità delle questioni, permane autonomia dei rispettivi titoli, dei rapporti giuridici e delle singole "causae petendi", con la conseguenza che le cause, per loro natura scindibili, restano distinte, con una propria individualità in relazione ai rispettivi legittimi contraddittori; e con l'ulteriore conseguenza che la sentenza che le definisce - sebbene formalmente unica - consta in realtà di tante pronunzie quante sono le cause riunite, le quali conservano la loro autonomia anche ai fini delle successive impugnazioni, che ben possono svolgersi separatamente le une dalle altre, senza che ne derivino interferenze reciproche fra i diversi giudizi susseguenti, e senza che venga compromesso l'interesse all'unitaria trattazione di questioni di identico oggetto, che ben può trovare soddisfazione nell'esame delle separate impugnazioni nella medesima udienza. Cass. civ. Sez. lavoro 01.06.2004 n. 10530 Il diritto che, a norma dell'art. 105 c.p.c., primo comma, il terzo può far valere in un processo pendente tra altre parti, in conflitto con esse (ipotesi nella quale si configura un intervento principale) o solo con alcune di esse (ipotesi di intervento litisconsortile o adesivo autonomo), legittimante l'autonoma impugnazione della sentenza che abbia statuito in senso sfavorevole alla parte adiuvata, a differenza dell'intervento meramente adesivo, escludente tale legittimazione, deve essere relativo all'oggetto, ovvero dipendente dal titolo, e, quindi, individuabile, rispettivamente, con riferimento al "petitum" o alla "causa petendi". (Nella specie, la S.C. ha ritenuto ammissibile il ricorso proposto dalla CGIL nei confronti della sentenza che aveva accolto la domanda di un legale - diretta ad ottenere il pagamento delle competenze in relazione all'attività difensiva da lui svolta in un giudizio nei confronti dell'INPS per la rivalutazione della pensione di reversibilità - giudicando di tipo litisconsortile l'intervento spiegato nel giudizio promosso dal professionista dalla stessa CGIL, la quale aveva sostenuto la tesi secondo la quale quest'ultimo non avrebbe potuto pretendere il pagamento richiesto, avendo operato per oltre venti anni in regime di convenzionamento con la confederazione, in virtù di un patto alla stregua del quale egli avrebbe dovuto fornire gratuitamente assistenza legale agli iscritti ed ai cittadini che si rivolgessero alle strutture del sindacato). Cass. civ. Sez. II 12.05.2003 n. 7273 Nell'ipotesi di chiamata in causa di un terzo per comunanza di causa, la domanda del convenuto si estende direttamente al terzo senza necessità di apposita istanza quando la chiamata stessa sia rivolta a sentire affermare la esclusiva responsabilità del terzo, a prescindere dal fatto che tale responsabilità sia poi riconosciuta o meno in via esclusiva dal giudice, e ciò in quanto il giudizio verte sull'individuazione del responsabile sulla base di un rapporto (obbligazione "ex illicito") oggettivamente unico. Analoga estensione viceversa non si verifica nel caso di chiamata del terzo in garanzia (propria o impropria), stante l'autonomia sostanziale dei due rapporti, ancorché confluiti in un unico processo. Cass., sez. III, 03-11-2008, n. 26421. Il litisconsorzio tra assicuratore e responsabile del danno, ai sensi dell’art. 23 l. n. 990 del 1969, sussiste nell’ipotesi di esercizio dell’azione diretta nei confronti dell’assicuratore ai sensi dell’art. 18 dell’anzidetta legge e non in quella in cui il danneggiato agisce direttamente ed esclusivamente nei confronti del responsabile del danno; in tale ultimo caso, se il responsabile chiami in garanzia l’assicuratore, attesa l’autonomia sostanziale del rapporto confluito nel processo per effetto della chiamata, la domanda proposta dall’attore non si estende automaticamente al terzo ma tale estensione deve essere espressamente richiesta (la suprema corte, in relazione a fattispecie anteriore all’entrata in vigore del d.leg. n. 209 del 2005, in applicazione del riportato principio, ha cassato la sentenza impugnata affermando che, a fronte di due distinti ed autonomi rapporti processuali domanda di risarcimento del danno ex art. 2054 c.c. proposta dall’attrice nei confronti del responsabile civile e domanda di garanzia spiegata da quest’ultimo nei confronti della società assicuratrice senza che l’attrice avesse esteso alla stessa la domanda già formulata nei confronti del convenuto - riguardando la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti dell’impresa designata esclusivamente il rapporto processuale responsabile civile-assicuratore, eventuali vizi relativi alla chiamata in causa dell’impresa designata rilevavano solo nella autonoma controversia tra il convenuto e l’assicuratore ma erano privi di conseguenze quanto alla diversa controversia tra l’attrice e il convenuto). Cass., sez. III, 21-10-2008, n. 25559. La domanda principale dell’attore si estende automaticamente al chiamato in causa dal convenuto, quando la chiamata del terzo sia effettuata per ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa attorea, individuandosi il terzo come l’unico obbligato nei confronti dell’attore, in posizione alternativa con il convenuto ed in relazione alla medesima obbligazione dedotta nel giudizio; viceversa, l’estensione automatica della domanda dell’attore al terzo chiamato dal convenuto non opera quando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso, ed in particolare, ove l’azione abbia natura risarcitoria, qualora venga dedotto un titolo di responsabilità del terzo differente ed autonomo rispetto a quello invocato dall’attore (nella fattispecie, relativa alla domanda del proprietario di un terreno per i danni causati dai lavori stradali eseguiti dall’impresa commissionata da un comune, la suprema corte ha cassato la sentenza della corte di merito che aveva condannato solidalmente al risarcimento anche il direttore dei lavori, invece chiamato in causa dal comune a titolo di garanzia). Cass., sez. III, 08-11-2007, n. 23308. Il principio dell’estensione automatica della domanda principale al terzo chiamato in causa dal convenuto non opera quando lo stesso terzo venga evocato in giudizio come obbligato solidale o in garanzia propria od impropria, essendo in questo caso necessaria la formulazione di un’espressa ed autonoma domanda da parte dell’attore. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza 25 giugno - 3 dicembre 2002 la Corte d'Appello di Firenze, in riforma della decisione di primo grado, condannava l'appellante C.L.E. a pagare ad E.C. la somma di L. 88.314.100 oltre interessi e rivalutazione, per i danni da infiltrazione di acque luride (proveniente da una fognatura) verificatisi in una autorimessa di proprietà della stessa E.. I giudici di appello respingevano invece la domanda della E. di condanna in solido per i medesimi danni del Condominio di (OMISSIS), dando atto che nessuna domanda era stata proposta dalla originaria attrice contro il Condominio di (OMISSIS). Non poteva, pertanto, essere confermata la decisione del primo giudice, il quale aveva rilevato che in ogni caso, poichè il Condominio di (OMISSIS) e la C. utilizzavano entrambi il medesimo condotto fognario, non importava a quale titolo gli stessi ne avessero conseguito il possesso (se quindi come proprietari ovvero ad altro titolo), dovendo entrambi rispondere in solido dei danni provocati dalle infiltrazioni provenienti dalla rottura del condotto. La Corte territoriale osservava che non vi era alcuna prova del fatto che il Condominio di (OMISSIS) fosse anche esso proprietario della fognatura dalla quale erano derivati i danni denunciati dalla E.. Tra l'altro, non era stato acquisito un atto di costituzione della servitù relativa a tale fognatura. Un diritto di questo genere non poteva in alcun modo essere usucapito, in mancanza di opere visibili e permanenti, destinate al suo esercizio. In nessun modo pertanto il Condomino di (OMISSIS) poteva essere chiamato a rispondere dei danni subiti dall'immobile dell' E.. In tal modo, doveva ritenersi superata anche ogni questione relativa alla domanda di manleva proposta nei confronti della C.. I giudici di appello osservavano che, al contrario, la C. aveva riconosciuto sin dalla comparsa di costituzione in primo grado di essere titolare di una servitù di scarico di acque reflue costituita per destinazione del padre di famiglia in favore dei propri immobili ed a carico di quelli di proprietà della E.. Del resto, la C. non aveva mai contestato di dover rispondere dei danni in questione, avendo invece censurato la decisione di primo grado nella parte in cui l'aveva condannata a risarcirli in solido con gli altri titolari della servitù. Invece che per la sola parte a suo carico. La Corte territoriale riduceva poi il risarcimento per lucro cessante, tenendo conto del fatto che solo una parte dei locali era divenuti inagibili e che in parte le infiltrazioni erano dipese anche da altre cause, non imputabili alla C. (quali la mancanza di idoneo scannafosso e le condizioni della strada sotto la quale scorreva la fogna). Di queste cause - secondo la Corte territoriale - doveva essere chiamata a rispondere la stessa E., che pertanto non poteva essere risarcita per i danni derivanti direttamente dalle stesse. Per il danno emergente, i giudici di appello davano atto che la E. aveva concordato con le altre parti per quanto riguarda l'ammontare delle spese di ripristino dei luoghi, consistite nel rifacimento del pavimento e della relativa piastrellatura. Avverso tale decisione C. ha proposto ricorso per cassazione sorretto da cinque motivi. Resistono il Condominio di (OMISSIS) e la E. con controricorso (questa ultima e il solo condominio di (OMISSIS) hanno proposto anche ricorso incidentale). Il Condominio di (OMISSIS) resiste con controricorso al ricorso incidentale della E.. La E. ed i due Condomini hanno depositato memorie. MOTIVI DELLA DECISIONE Devono innanzi tutto essere riuniti i tre ricorsi, proposti contro la medesima decisione. Il primo motivo del ricorso principale della C. riguarda la violazione di norme di Legge (artt. 1061 e 1062 c.c.). La servitù costituita da un condotto di scarico fognario non potrebbe mai dirsi non apparente e quindi non occorrerebbe, come invece ritenuto dalla giurisprudenza, un accertamento da farsi caso per caso. Il motivo deve tuttavia considerarsi assorbito, per ragioni di ordine logico, a seguito dell'accoglimento dei due motivi che seguono. Con il secondo motivo la ricorrente principale denuncia contraddittoria motivazione e violazione delle norme sull'obbligo di custodia (art. 2051 c.c.) posto a carico anche dell'utilizzatore Condominio di (OMISSIS). Secondo tale disposizione di legge, ed anche in base all'art. 1117 c.c., l'onere della custodia e quindi della conservazione delle mura e delle fondazioni di uno stabile condominiale compete al Condominio e non anche al proprietario della porzione sulla quale insiste la parte abbisognevole di riparazioni. Con il terzo motivo, sotto altro profilo, la ricorrente principale denuncia ulteriore vizio di motivazione. Costituiva circostanza del tutto pacifica che il Condominio di (OMISSIS) utilizzasse - se non ne fosse anche proprietario - del condotto fognario in questione. Tra l'altro lo stesso Condominio, costituendosi in giudizio in primo grado, si era dichiarato pronto ad eseguire tutte le riparazioni del caso. I verbali delle assemblee dello stesso Condominio acquisiti agli atti - confermavano che il Condominio aveva accettato di eseguire le opere necessarie per eliminare i danni causati dalle infiltrazioni. I due motivi da esaminare congiuntamente sono fondati. Contrasta con evidenti ragioni di logica sostenere che il Condominio di (OMISSIS) pur utilizzando il condotto fognario non dovesse rispondere dei danni causati dallo stesso, al pari della altra utilizzatrice. Le ragioni che hanno condotto i giudici di appello ad affermare la responsabilità della C. avrebbero dovuto indurre gli stessi ad accogliere la domanda della attrice anche nei confronti del Condominio. In questa ottica, già il primo giudice aveva affermato che sia questo Condominio che la C. dovevano rispondere dei danni causati dalla fognatura, nella loro qualità di utilizzatori della fogna. Essi, infatti, ne avevano "il possesso e rispondono quindi della sua manutenzione, sia che avvenga quali proprietari, sia che ciò avvenga quali titolari di un diritto di servitù su detto fognone". Ogni indagine, pertanto, in ordine alla esatta qualificazione del diritto, passava evidentemente in secondo piano e risultava addirittura non essenziale ai fini della decisione. Con il quarto ed il quinto motivo la ricorrente principale denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 106 c.p.c. e vizi della motivazione. I giudici di appello avevano respinto quel capo dell'appello incidentale mediante il quale la C. aveva richiesto la declaratoria di condanna al risarcimento anche del Condominio di (OMISSIS) (che si trovava nella medesima situazione dell'altro Condominio), in quanto utilizzatore dello stesso condotto fognario. Le ragioni per le quali il Condominio di (OMISSIS) doveva rispondere dei danni erano stati indicati nei primi due motivi dello stesso ricorso incidentale. Nessuno dei due motivi (quarto e quinto) appare meritevole di accoglimento. Correttamente i giudici di appello hanno osservato che, in assenza di una specifica domanda della E., l'estensione della stessa a detto Condominio non poteva conseguire alla chiamata in causa effettuata dalla C., dal momento che detta chiamata non era stata effettuata ai fini della individuazione del Condominio stesso quale unico responsabile. Risulta infatti che la C. non aveva esteso specificamente la domanda nei confronti di questo Condomino nè in primo grado nè nel giudizio di appello, come aveva accertato la Corte territoriale e non è stato censurato espressamente dalla ricorrente principale. Si richiama sul punto il consolidato orientamento di questa Corte per il quale in caso di chiamata in causa del terzo, egli assume per effetto della, stessa chiamata in causa la posizione di contraddittore nei confronti della domanda originaria solo se viene chiamato in causa quale unico responsabile del fatto dannoso, e non anche se viene chiamato in causa dal convenuto per esserne garantito o in quanto corresponsabile dello stesso fatto; in quest'ultimo caso, se l'attore vuole proporre domanda anche nei confronti del terzo chiamato, deve formulare nei suoi confronti una espressa ed autonoma domanda, che potrà trovare fondamento in fatti anche diversi rispetto a quelli posti a base del rapporto di garanzia, avvalendosi della facoltà disciplinata dall'art. 183 c.p.c., comma 4. Il ricorso incidentale di E. merita, parimenti, solo parziale accoglimento. La E. con il proprio ricorso incidentale propone quattro diverse ragioni di censura. Con il primo motivo denuncia violazione di norme di Legge (artt. 1061 e 1062 c.c.). Il motivo si rivela assorbito per le ragioni già esposte a proposito del primo motivo della ricorrente principale. Con il secondo motivo la E. denuncia violazione dell'art. 115 c.p.c., e 1227 c.c., nonchè omessa, insufficiente ed illogica motivazione. La E. denuncia la motivazione della sentenza nella parte in cui la stessa aveva ritenuto che sarebbe stata possibile comunque una parziale utilizzazione della autorimessa in attesa delle riparazioni necessarie, da eseguire sulla fognatura. Il motivo è inammissibile in quanto finisce per sollecitare una diversa interpretazione delle risultanze processuali, non consentita in questa sede. Con il terzo motivo la ricorrente incidentale deduce violazione di norme di Legge (artt. 1117 e 2051 c.c.). Le mura perimetrali di un edificio costituiscono beni condominiali, sicchè compete al condominio l'obbligo della manutenzione e quello di eliminare eventuali carenze e vizi costruttivi dell'edificio. Il motivo merita accoglimento. Si richiama sul punto la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 18 maggio 2001 n. 6849) condivisa interamente dal Collegio secondo la quale l'obbligo del condomino di contribuire in misura proporzionale al valore della sua unità immobiliare alle spese necessarie per la manutenzione e riparazione delle parti comuni dell'edificio e alla rifusione dei danni subiti dai singoli condomini nelle loro unità immobiliari, a causa della omessa manutenzione e riparazione previsto dall'art. 1123 cod. civ. trova sua fonte nella comproprietà delle parti comuni dell'edificio non anche in una sua particolare condotta, commissiva od omissiva, che, peraltro, se provata, può determinare, relativamente alle spese occorrenti per porre rimedio alle conseguenze negative di tale condotta, la sua esclusiva responsabilità ai sensi dell'art. 2043 cod. civ.. Tale obbligo di contribuzione vale anche per le spese necessarie per eliminare vizi e carenze costruttive originarie dell'edificio condominiale, salva in questo caso, l'azione di rivalsa nei confronti del costruttore - venditore e si estende anche alle spese necessarie per riparare i danni che i singoli condomini subiscono nelle loro unità immobiliari. Il ricorso incidentale del Condominio di (OMISSIS) riguarda unicamente la compensazione delle spese del giudizio operata dal giudice di appello. Sul punto si richiama consolidato insegnamento di questa Corte in ordine alla incensurabilità di questa statuizione, quando - come nel caso di specie - la stessa sia logicamente motivata e trovi una sua giustificazione con la natura delle questioni trattate. Il ricorso principale deve essere accolto limitatamente al secondo e terzo motivo (con assorbimento del primo motivo ed il rigetto degli altri). Deve essere rigettato il ricorso incidentale del Condominio di (OMISSIS) e quello della E. (con l'eccezione del terzo motivo che merita accoglimento con l'assorbimento del primo motivo). La sentenza impugnata deve essere cassata, in relazione alle censure accolte, con rinvio ad altro giudice, che provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione. P.Q.M. La Corte riunisce i ricorsi. Accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso principale, assorbito il primo motivo dello stesso ricorso e rigettati gli altri motivi. Accoglie il terzo motivo del ricorso incidentale della E., assorbito il primo motivo e rigettato il resto. Rigetta il ricorso incidentale del Condominio di (OMISSIS). Cassa e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Firenze in diversa composizione. Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2007. Depositato in Cancelleria il 8 novembre 2007 Cass., sez. III, 01-06-2006, n. 13131. Il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore al chiamato in causa da parte del convenuto trova applicazione allorquando la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell’attore, in ragione del fatto che il terzo s’individui come unico obbligato nei confronti dell’attore ed invece dello stesso convenuto, realizzandosi in tal caso un ampliamento della controversia in senso soggettivo (divenendo il chiamato parte del giudizio in posizione alternativa con il convenuto) ed oggettivo (inserendosi l’obbligazione del terzo dedotta dal convenuto verso l’attore in alternativa rispetto a quella individuata dall’attore), ma ferma restando, tuttavia, in ragione di detta duplice alternatività, l’unicità del complessivo rapporto controverso; il suddetto principio, invece, non opera, allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall’attore come causa petendi come avviene nell’ipotesi di chiamata di un terzo in garanzia, propria o impropria (nella specie, è stata esclusa la estensione della domanda perché la chiamata in causa era avvenuta da parte del committente, convenuto per il risarcimento dei danni prodotti dall’esecuzione di opere edilizie, nei confronti delle ditte appaltatrici, configurandosi come chiamata in garanzia). Cass. [ord.], sez. III, 24-01-2007, n. 1515. In tema di competenza per territorio, con riferimento alla proposizione dell’azione di garanzia, poiché si ha garanzia propria quando la causa principale e quella accessoria abbiano lo stesso titolo, ovvero quando ricorra una connessione oggettiva tra i titoli delle due domande, e si configura invece la garanzia c.d. impropria quando il convenuto tenda a riversare su di un terzo le conseguenze del proprio inadempimento in base ad un titolo diverso da quello dedotto con la domanda principale, ovvero in base ad un titolo connesso al rapporto principale solo in via occasionale o di fatto, gli ordinari criteri di competenza territoriale, quali stabiliti dalla legge o contrattualmente indicati dalle parti, non rimangono derogati dalla chiamata in causa del soggetto da cui il chiamante pretenda di essere garantito a titolo diverso (garanzia impropria) da quello dedotto in giudizio (poiché, nella specie, la domanda principale era fondata su di un contratto concluso a Genova, e quella di garanzia - impropria - dal convenuto proposta nei confronti del terzo chiamato, su di un distinto e autonomo contratto, concluso a Napoli, la suprema corte, in sede di regolamento di competenza avverso la sentenza del tribunale di Genova che aveva dichiarato la propria competenza sulla domanda di garanzia, per averla invece qualificata come propria, ha dichiarato la competenza del tribunale di Napoli sulla detta domanda di garanzia impropria). Cass. [ord.], sez. un., 12-03-2009, n. 5965. In tema di giurisdizione nei confronti dello straniero, in caso di chiamata in giudizio, da parte del convenuto nella causa principale, di un soggetto di diritto straniero, dal quale egli pretenda di essere manlevato, al fine di affermare o negare la giurisdizione del giudice nazionale, ai sensi dell’art. 6, n. 2, convenzione di Bruxelles del 27 settembre 1968 - per il quale, in caso di azione di garanzia, il garante può, di massima, essere citato davanti al giudice presso il quale è stata proposta la domanda principale - è ininfluente la distinzione fra garanzia propria od impropria, dovendo l’indagine circoscriversi al solo accertamento della non pretestuosità della chiamata in causa, in quanto avente il solo scopo di distogliere il convenuto dal giudice naturale. IN FATTO La società di diritto canadese "Transport Watson Montreal" ha proposto ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione nel procedimento promosso dalla s.p.a. "Lloyd Italico" nei confronti delle società "Cosmos" s.r.l. e "Cast Line - C.p. Ships" dinanzi al tribunale di Venezia, avente ad oggetto, tra l'altro, una domanda di garanzia proposta dalla società Cosmos, convenuta dall'attrice ex art. 1916 c.c., nei confronti della Watson. L'istanza di regolamento trae fondamento da una complessa vicenda negoziale, dapprima di compravendita e poi di spedizione e trasporto, avente ad oggetto un macchinario industriale destinato ad un acquirente americano e danneggiato nel corso del trasporto. La società assicuratrice LLoyd Italico, che aveva assunto il relativo rischio, dopo aver indennizzato l'acquirente, promuove azione di surrogazione ex art. 1916 c.c., nei confronti dello spedizioniere - vettore (Cosmos), società di diritto italiano, e di uno dei subvettori di cui quest'ultimo si era avvalso (Cast Line). Lo spedizioniere - vettore Cosmos, nel costituirsi in giudizio, chiederà, in ipotesi di accoglimento della domanda, di essere tenuto indenne dagli altri soggetti che avevano curato il trasporto, e cioè il subvettore marittimo Cast Line (che aveva curato il trasporto da (OMISSIS)), lo spedizioniere - vettore Dolbec (che aveva curato quello da (OMISSIS)) e il subvettore Watson (che aveva, infine, effettuato l'ultima tratta di trasporto sino allo Stato del (OMISSIS), destinazione finale della merce). La Watson, nell'asserita qualità di società di diritto canadese avente sede in (OMISSIS), eccepirà preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice italiano, giusta disposto della L. n. 218 del 1995, art. 3, ed esclusa l'applicabilità dell'art. 6 n. 2 della Convenzione di Bruxelles del 27.9.1968 (a mente del quale il terzo chiamato in garanzia può essere convenuto dinanzi al giudice della causa principale), vertendosi, a suo dire, in tema di garanzia c.d. "impropria", ipso facto ostativa all'invocabilità della norma speciale. Resiste con controricorso la Cosmos (convenuto principale rispetto alla domanda di surrogazione proposta dalla società attrice) e chiede il rigetto del ricorso, opinando che la domanda di garanzia proposta nei confronti del terzo chiamato vada ricondotta a pieno titolo nel novero delle garanzie proprie, come tale devoluta alla cognizione del giudice italiano ai sensi dell'art. 6 del Regolamento CE 44/2001, si come "richiamato come criterio di collegamento dal nostro diritto internazionale privato". IN DIRITTO Il ricorso della Transport Watson Montreal deve essere respinto. La questione di diritto che esso pone a queste sezioni unite - se, cioè, il giudice italiano possa legittimamente prendere cognizione di una domanda di manleva formulata dal convenuto (nella specie, spedizioniere - vettore (OMISSIS)) nei confronti di un terzo chiamato in causa (nella specie, sub-vettore) persona giuridica straniera (nella specie, di diritto canadese) orbita apparentemente nella sfera dei (complessi) rapporti e della (non sempre piana) distinzione tra. garanzia propria e impropria nell'ambito dell'istituto processuale della connessione (questione sviluppata funditus ai ff. (OMISSIS) e seguenti dell'atto di impugnazione, e sintetizzata poi nell'ampio quesito di diritto formulato al successivo folio (OMISSIS)). Non è seriamente contestabile, in premessa, come, in subiecta materia, la stessa giurisprudenza della corte non sia mai apparsa del tutto univoca, tanto che, con la pronuncia del 26.7.2004, queste sezioni unite, rimeditando l'intera tematica della chiamata in garanzia quanto ai relativi risvolti processuali, hanno in definitiva affermato (senza raccogliere, peraltro, particolari consensi in dottrina) che, nelle ipotesi in cui sia unico il fatto generatore della responsabilità come prospettata tanto con l'azione principale che con la domanda di garanzia - anche se le ipotizzate responsabilità traggano origine da rapporti o situazioni giuridiche diverse -, si verserebbe pur sempre in ipotesi di garanzia propria, predicabile, pertanto, ove il collegamento tra la posizione sostanziale vantata dall'attore e quella del terzo chiamato sia previsto dalla legge disciplinatrice del rapporto (in applicazione di tale principio, verrà affermata la natura di garanzia propria in caso di controversia in ordine alla responsabilità per danni subiti da una partita di merce e cagionati dal vettore contro cui aveva agito l'assicuratore che, avendo pagato la merce danneggiata, si era surrogato nei diritti del proprio assicurato verso il vettore stesso, il quale, a sua volta, aveva chiamato in causa la propria società assicuratrice: in conseguenza di tale qualificazione, la Corte ha definitivamente respinto l'eccezione in ordine alla competenza del Tribunale adito dalla parte danneggiata, per essere questa divenuta incontestabile in ragione della mancata eccezione del convenuto in relazione al regime della chiamata in garanzia propria). In senso del tutto speculare rispetto a tale pronuncia possono invece leggersi le sentenze di queste stesse sezioni unite n. 579 del 1999 (avente ad oggetto una chiamata in garanzia formulata dal vettore marittimo convenuto in giudizio dal destinatario della merce nei confronti dell'armatore ritenuto corresponsabile del sinistro), n. 10891 del 2001 (resa in tema di chiamata in garanzia formulata dallo spedizioniere convenuto in giudizio dal mittente nei confronti del subvettore corresponsabile del sinistro), n. 5978 del 2007 (in punto di chiamata formulata dal vettore convenuto in giudizio dall'assicuratore surrogatosi al destinatario nei confronti dei pretesi corresponsabili del sinistro), mentre espressamente in termini di garanzia impropria viene ancora ricostruito (Cass. sez. 3^, n. 19050 del 2003) il rapporto scaturente da una domanda di manleva formulata dal vettore convenuto in giudizio dal destinatario nei confronti dei pretesi corresponsabili dell'avaria. Non sfugge al collegio la evidente analogia tra le fattispecie decise con le sentenze dianzi citate e quella oggetto del presente ricorso, nè pare seriamente contestabile che proprio la qualificazione del rapporto di garanzia come "impropria" abbia condotto a negare la giurisdizione del giudice italiano, sulla base dell'(apparentemente) assorbente considerazione secondo la quale "si verte in tema di responsabilità aventi titolo nell'inosservanza di obblighi scaturenti da contratti distinti e non interdipendenti" (così, testualmente, la sentenza 10891/2001). Nondimeno, è fermo convincimento di queste sezioni unite che, sia pur soltanto ai fini di una corretta individuazione del giudice competente quoad iurisdictionis, la distinzione tra garanzia propria e impropria debba essere definitivamente superata. Spunti in tal senso possono trarsi, innanzitutto, dalla analisi della stessa giurisprudenza di questa corte di legittimità, in particolare dalla sentenza a sezioni unite del 5.11.2001 n. 12627 (che ribadiva a sua volta un principio già enunciato da Cass. Sez. Un., 21 maggio 1986, n. 3375), ove si afferma tout court la competenza giurisdizionale del giudice nazionale in una ipotesi di azione per risarcimento danni da c.d. "bagnamento" proposta da parte del cessionario dei diritti del ricevitore della merce nei confronti del vettore e del raccomandatario (danesi) e dell'assicuratore (italiano) del vettore stesso, "sussistendo vincolo di connessione tale da rendere opportuna la trattazione e la decisione unitaria, davanti al giudice competente dello Stato ove la società assicuratrice ha la propria sede, in quanto, pur essendo diversi i titoli posti a fondamento della domanda, identici risultano il petitum e l'oggetto dell'azione e sussiste altresì un rapporto di alternatività tra le prestazioni dovute". La pronuncia in esame ricorda, in motivazione, come la norma di cui all'art. 6 della Convenzione di Bruxelles sia stata oggetto di una pronuncia interpretativa della Corte di Giustizia delle Comunità europee (il riferimento è alla sentenza del 27 settembre 1988 in causa 189/87, Athanasios Kalfelis v. Bankhaus Schroeder), nella quale il giudice sopranazionale avrebbe evocato un concetto di connessione - quale presupposto necessario per l'applicazione della norma citata del tutto autonomo da quello stabilito dal diritto processuale degli Stati membri, caratterizzato, cioè, da un nesso tale da generare "l'interesse a giudicare insieme le diverse domande, onde evitare pronunce che potrebbero essere inconciliabili se le cause fossero decise separatamente", ritenendo altresì demandato al giudice nazionale il compito di "controllare di volta in volta se questa condizione è soddisfatta". (La sentenza accolse, in definitiva, la tesi sostenuta dall'Avvocato Generale, secondo cui la connessione conformemente alla nozione fornita dall'art. 22 della Convenzione - non doveva necessariamente dar luogo ad un litisconsorzio necessario, essendo sufficiente l'esistenza di un litisconsorzio facoltativo: è, del resto, significativo ricordare che la competenza speciale stabilita dall'art. 6 viene definita da autorevoli commentatori tedeschi proprio come "foro del litisconsorzio", il c.d. Gerichtsstand der Streitgenossenschaft). Ancor più significativamente, con la sentenza del 26 maggio 2005 (in causa C.77/04, G.I.E. v. Zurich Espana), la Corte di Giustizia ebbe modo di specificare che, nel caso di un'azione di garanzia o di una chiamata di terzo nel processo, un convenuto può essere citato davanti al giudice presso il quale sia stata proposta la domanda principale sempre che quest'ultima non sia stata proposta per distogliere il convenuto dal suo giudice naturale, aggiungendo ancora che, ai sensi della relazione Jenard del 1979, l'azione di garanzia "è definita come quella che il convenuto della causa principale propone contro un terzo allo scopo di restare estraneo agli effetti del giudizio (come nel caso in cui un assicuratore cerca di far contribuire un altro soggetto che ritiene responsabile del medesimo evento)", e ribadendo infine che "spetta al giudice nazionale investito della domanda principale verificare l'esistenza di un nesso di tal genere, nel senso che esso deve assicurare che l'azione di garanzia non abbia il solo scopo di distogliere il convenuto dal suo giudice naturale", poichè "l'art. 6 punto 2 della Convenzione non richiede l'esistenza di nessun altro nesso oltre a quello sufficiente ad escludere la violazione delle norme sul foro competente". Infine, con la sentenza 14-03-2006, in causa C-103/05, la stessa Corte di giustizia (sulla premessa secondo la quale la Convenzione di Bruxelles del 1968 sarebbe stata sostituita con il regolamento n. 44/2001 con l'intento di unificare le regole che designano il giudice competente a decidere delle controversie al fine di salvaguardare il funzionamento del mercato interno) avrebbe avuto modo di precisare come le norme (sia pur con riferimento alle "controversie intracomunitarie") dovessero presentare "un alto grado di prevedibilità", fondandosi sul generale principio "nel domicilio del convenuto (...) salvo in alcuni casi rigorosamente determinati nei quali la materia del contendere o l'autonomia delle parti giustifichi un diverso criterio di collegamento", anche se il detto foro deve essere completato attraverso fori alternativi, "in base al collegamento stretto tra l'organo giurisdizionale e la controversia, ovvero al fine di agevolare la buona amministrazione della giustizia". Sulla base di tali premesse, ritenne la Corte che, ai fini della legittima instaurazione di una controversia dinanzi, al giudice nazionale nonostante il chiamato in garanzia fosse soggetto di diritto estero, non rilevasse affatto la natura del rapporto di garanzia (se essa, cioè, risultasse "propria" o "impropria", secondo una distinzione cara all'interprete italiano ma sostanzialmente sconosciuta a quello europeo), decisiva risultando, per converso, "la verifica se il ricorso della società attrice al foro speciale di cui all'art. 6 della Convenzione abbia, o meno, come unico scopo quello di sottrarre le parti al foro generale del domicilio del convenuto". E' convincimento di questo collegio che, alla luce delle considerazioni suesposte, debba pertanto dirsi definitivamente tramontata la distinzione tra garanzia propria e impropria ai fini di affermare o negare la giurisdizione del giudice nazionale in caso di chiamata, da parte del convenuto nella causa principale, di un soggetto di diritto straniero, dal quale egli pretenda di essere manlevato, onde consentire la celebrazione del simultaneus processus, dovendo l'indagine circoscriversi, viceversa, al solo accertamento della non pretestuosità di tale chiamata. Tale indagine - che deve essere compiuta dalla Corte anche attraverso un diretto esame degli atti, consentito in sede di decisione sulla giurisdizione - conduce, nella specie, ad un risultato senz'altro non ostativo all'affermazione della giurisdizione del giudice italiano, essendo di palmare evidenza la non strumentalità e la non pretestuosità della chiamata in garanzia della Watson (sulla cui effettività non v'è, d'altronde, alcuna contestazione tra le parti). Il ricorso è pertanto rigettato. La disciplina delle spese (che possono per motivi di equità essere in questa sede compensate, attesa la complessità delle questioni trattate e la novità del decisum adottato) segue come da dispositivo. P.Q.M. La Corte: Rigetta il ricorso e dichiara la giurisdizione del giudice italiano. Spese interamente compensate tra le parti. Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2009. Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2009 Cass., sez. un., 26-07-2004, n. 13968. Il terzo chiamato dal convenuto, che intenda esser da lui garantito, non può eccepire l’incompetenza per territorio del giudice davanti al quale è stato evocato qualora il convenuto stesso, non avendo proposto alcuna eccezione in merito, abbia reso non più contestabile la competenza di detto giudice, e ciò tanto in ipotesi di garanzia propria, quanto impropria (che si verifica ogni qualvolta, pur sussistendo un’obbligazione indennitaria, il collegamento del relativo rapporto con quello principale è meramente occasionale ed estrinseco, senza che per questo rimanga preclusa l’opportunità del simultaneus processus). 7. Successione nel processo Cass. civ. Sez. II 26.05.2003 n. 8316 La successione a titolo particolare nel diritto controverso si verifica non soltanto nel caso in cui sia stato alienato il medesimo diritto che forma oggetto della controversia, ma in ogni caso in cui l'alienazione importi, per un rapporto di derivazione sostanziale, il subingresso dell'acquirente nella posizione giuridica attiva o passiva cui inerisce la pretesa dedotta in giudizio, con la conseguenza che, proposta domanda diretta ad ottenere l'esecuzione in forma specifica di un preliminare di compravendita, il terzo avente causa dal convenuto in base ad un contratto stipulato nel corso del processo è da considerarsi successore a titolo particolare nel diritto controverso, ed è, pertanto, legittimato ad impugnare la sentenza pronunciata contro il suo "dante causa". Cass., sez. III, 24-10-2007, n. 22316. Nel caso di giudizio instaurato dal danneggiato nei confronti di impresa assicuratrice in bonis, nei cui riguardi sia poi intervenuto provvedimento di liquidazione coatta amministrativa, la sentenza di condanna pronunciata nei confronti di società assicuratrice non è opponibile al fondo di garanzia per le vittime della strada che non abbia ricevuto la comunicazione di cui all’art. 25, 2º comma, l. 24 dicembre 1969 n. 990; ne consegue che il fondo non può non esperire il rimedio straordinario dell’opposizione di terzo ex art. 404, 1º comma, c.p.c., non ricorrendo il presupposto della possibilità che esso sia in condizione di essere pregiudicato dalla sentenza. Cass., sez. III, 24-04-2008, n. 10676. La società di capitali nella quale sia conferita l’azienda di una impresa individuale succede in tutti i rapporti attivi e passivi di quest’ultima; da ciò consegue che la società nella quale sia confluita l’azienda di altra è soggetta all’esecuzione forzata fondata su un titolo giudiziale pronunciato nei confronti del conferente l’azienda, oltre ad essere legittimata a proporre opposizione all’esecuzione stessa. Cass. civ. Sez. I 12.03.1999 n. 2200 Il successore a titolo particolare nel diritto controverso non è terzo ma parte, essendo titolare della res litigiosa che costituisce l'oggetto dell'accertamento giurisdizionale in corso (proprietà, diritto reale limitato, diritto di credito). Il suo intervento nel processo, regolato dall'art. 111 c.p.c., non ha, pertanto alcun rapporto con le fattispecie disciplinate dall'art. 105 stesso codice, e la sua esprimibilità, in grado di appello, al di fuori dei limiti rigorosi di cui all'art. 344 c.p.c., trova giustificazione nella situazione particolare dell'interveniente. Cass., sez. III, 22-03-2007, n. 6945. La trasformazione di una ditta individuale in società di capitali, nel corso del processo, integra un’ipotesi di successione a titolo particolare, secondo la previsione dell’art. 111 c.p.c., con la conseguenza che il titolare della predetta ditta resta legittimato alla continuazione del processo medesimo ed all’esercizio del diritto d’impugnazione. Cass. civ. Sez. I 12.03.1999 n. 2200 Il successore a titolo particolare nel diritto controverso non è terzo ma parte, essendo titolare della res litigiosa che costituisce l'oggetto dell'accertamento giurisdizionale in corso (proprietà, diritto reale limitato, diritto di credito). Il suo intervento nel processo, regolato dall'art. 111 c.p.c., non ha, pertanto alcun rapporto con le fattispecie disciplinate dall'art. 105 stesso codice, e la sua esprimibilità, in grado di appello, al di fuori dei limiti rigorosi di cui all'art. 344 c.p.c., trova giustificazione nella situazione particolare dell'interveniente.