`Ndà a scuà `l mar. Scopare il mare è atto immensamente inutile e
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`Ndà a scuà `l mar. Scopare il mare è atto immensamente inutile e
’Ndà a scuà ’l mar. Scopare il mare è atto immensamente inutile e occorre una bella fantasia per immaginarlo. Ma i bergamaschi sono così: sembrano terra terra ed hanno fantasia da vendere. Si manda a scopare il mare chi fa polemiche inutili, chi dimostra con le parole e le azioni di essere persona insulsa e fastidiosa, chi farebbe bene a togliersi dai piedi perché non è gradito. Dire a una persona: Và a scuà ’l mar! sarebbe insomma come dirle di andare a quel paese. Come non ricorrere a questa locuzione imperativa quando si viene assaliti dal rock, che sarebbe sciaguratamente diventato sinonimo di musica? Mattina e sera, giorno e notte è tutto uno schiamazzo di suoni metallici e di urli pazzeschi amplificati selvaggiamente e sostenuti dai rumori ritmati di percussioni ossessive: tutto un tum tum tum tum demenziale che non permette di pensare, di conversare, di considerare le cose per quel che effettivamente sono. È uno stordimento collettivo imposto da chi ci vuole rubare la ragione e la coscienza. Che sollievo, nel silenzio dello studio, trovare una volta il tempo di ascoltare le pagine violinistiche di Beethoven e di Mozart interpretate da Fritz Kreisler o il “Don Pasquale” di Donizetti nella registrazione storica del 1932 con il tenore Tito Schipa! ’Ndà a sircàla. C‘è gente che va a cacciarsi in situazioni insostenibili e che poi si lamenta delle tristi condizioni nelle quali si trova. Se ci s’intestardisce a combinare un affare sballato anche quando si è stati avvertiti del rischio cui si va incontro, non vale poi lamentarsi dello stato in cui si versa. A l’ se l’è sircada, commenta in questo caso il prossimo. In italiano diremmo: se l’è voluta. Ma il bergamasco è più efficace perché un conto è volere e un conto cercare. Andare a cercarsela rappresenta proprio il colmo della dabbenaggine per non dire della minchioneria. Del resto, si sa bene che mal che s’ völ a l’ gh’à mia de döl, il male che ci procuriamo noi stessi non deve dolere. Illuminante a questo proposito risulta una storiella narrata dal favolista Fedro, che metteva in guardia gli uomini dall’abilità con la quale certe donne li sanno spogliare di ogni sostanza. Raccontò infatti Fedro che un uomo sulla quarantina si era lasciato abbindolare da una sessantenne assai navigata, che lo teneva avvinto a sé con ogni sorta di vezzi, di moine e di lusinghe. Nello stesso tempo quest’uomo di mezza età si era invaghito anche di un’astuta giovane sulla ventina, che aveva finito per accondiscendere alle profferte dell’uomo. Naturalmente l’una non sapeva dell’altra. Ma sia la tardona sia la giovincella non volevano che la gente notasse quale differenza di età le separava dal loro uomo; così ciascuna incominciò a strappare i capelli all’amante: la vecchia gli strappava quelli neri perché apparisse canuto come lei e la giovane per converso gli strappava i capelli bianchi. Infine, ostinandosi a frequentare sia la sessantenne sia la ventenne, l’uomo si ritrovò completamente calvo. Non è che una favola ma l’insegnamento morale è chiaro. Altrettanto chiaro è il proverbio, che insegna a praticare la virtù della prudenza: meglio avere cautela e considerare le cose con lucidità piuttosto che commettere atti o assumere posizioni che domani ci potrebbero costare care. Una volta, quando un figlio, qualche tempo dopo essersi sposato, andava a lamentarsi dai genitori dicendo che non andava d’accordo con la moglie, la madre gli diceva: Mal che s’ völ a l’ gh’à mia de döl. E il padre, più esplicito, soggiungeva: Te sé ’ndàcc a sircàla té. Te l’é ülìda? Adèss tègnela. Il figlio capiva l’antifona, ritornava a casa e prima di pensare alla separazione cercava di dialogare con la moglie. Sano senso della realtà che induce a ragionare, a fare buon uso del ben dell’intelletto. ’Ndà a spane. Letteralmente: ‘Andare a spanne’. Ossia: ‘Prendere le misure con approssimazione’. Vi sono persone che hanno mani più grandi o più piccole di quelle di altre persone: come si fa a misurare con le spanne e pretendere che la misurazione sia accettata per buona? Quindi, chi va a spanne si deve accontentare di una indicazione vaga, che non si discosterà molto dalla realtà ma che è lontana dalla precisione. Se per ottenere un calcolo grossolano a s’ và a spane, di un lavoro eseguito in fretta e furia, senz’alcuna cura dei dettagli, si dirà che l’è fàcc a la carluna. ’Ndà a stà ’n Sità coi gòb. Una signora di Bergamo Bassa mi disse un giorno che, avendo disobbedito alla nonna, si sentì da questa apostrofare in tono di rimprovero: Ma và a stà ’n Sità coi gòb!. Perché? Incominciamo col dire che Sità, come si diceva una volta, sta per Città Alta mentre ancora nella prima metà del Novecento Città Bassa veniva denominata semplicemente Bórgh. Non si è mai detto da noi Bèrghem de sura e Bèrghem de sóta; lo dice soltanto chi non sa niente di Bergamo, della sua gente e della sua storia e farebbe bene a stare zitto. Ma perché i cittadini di Bergamo Bassa mandavano idealmente le persone importune e sgradite a tenere compagnia ai gobbi in Bergamo Alta? Occorre rifarsi a tempi ormai lontani, quando in diversi luoghi di Città Alta si trovavano casupole umide e malsane abitate da gente misera, presso la quale le malformazioni, connesse con la scarsa alimentazione e la cattiva igiene, erano purtroppo diffuse. Non lontano dai palazzi dei patrizi, sorgevano sui pendii a bacìo, addossati l’uno all’altro, i tuguri dei poveri, i quali vivevano in condizioni che definire disagiate è eufemistico. Fra le seconda metà dell’Ottocento e la prima metà del Novecento nel corso di alcuni risanamenti tutte quelle abitazioni infelici furono demolite. Tanta gente passeggia oggi per la Corsarola, la via principale di Bergamo Alta, senz’avere alcuna contezza del volto antico della città e della storia della gente che nei secoli passati l’ha popolata. ’Ndà a stradèle. Era una locuzione assai diffusa un tempo, quando i giovani innamorati amavano percorrere solitarie viuzze periferiche per scambiarsi qualche tenerezza lontani da sguardi indiscreti e senza temere di essere rimbrottati dai genitori, che non mancavano di essere vigili e severi. ’Ndà a viöle. Nella prima primavera spuntano le violette e in tempi lontani qualche innamorato poteva attardarsi a coglierle. Sarà per questo che la locuzione sta a indicare l’atto di distrarsi e di perdersi in fanfaluche. Di un conferenziere che non si attenga al tema da trattare e che divaghi perdendosi lungamente in argomenti non attinenti si può dire che l’è ’ndàcc a viöle. ’Ndà come ü tréno. Per indicare che una persona va di fretta si dice che la và come ü tréno. Dipende però da che treno. Si ha da sapere che il tempo di percorrenza della linea ferroviaria Bergamo-Brescia non si è ridotto rispetto all’Ottocento, quando la linea stessa fu istituita. Ciò è significativo della trascuratezza che gli organi centrali hanno sempre manifestato nei confronti delle strade ferrate bergamasche. Appare illuminante il testo di una conferenza tenuta il 25 ottobre 1952 all’Ateneo di Scienze Lettere e Arti di Bergamo da Giacinto Gambirasio, il quale narrò la genesi di un’altra linea ferroviaria, la Milano-Venezia, realizzata fra il 1854 e il 1858. Le legittime aspettative della Bergamasca non furono mai tenute in considerazione dal governo di Vienna, che si degnò di accogliere petizioni, proposte e suppliche ma che non mosse un dito perché fosse modificato il progetto che prevedeva il passaggio della strada ferrata per Chiari e Treviglio, congiungendo Brescia a Milano con l’esclusione di Bergamo e di Monza, città condannate di conseguenza all’isolamento e gravemente danneggiate nei loro interessi economici e sociali. Sulla scorta di una documentazione ineccepibile Gambirasio descrisse punto per punto tutta la lunga e intricata vicenda dell’impari lotta ingaggiata dai rappresentanti bergamaschi contro l’ottuso centralismo della burocrazia viennese, che frappose mille ostacoli pur di impedire a Bergamo di trovarsi sul tracciato della linea Milano-Venezia e che giunse a sabotare anche il progetto di realizzazione di una linea Bergamo-Monza-Milano. Alla fine si ottenne solo che una linea collegasse Bergamo a Treviglio. Il conte Pietro Moroni, recatosi a Vienna nella sua veste di podestà allo scopo di perorare la causa della sua città, trovò gli ambienti viennesi sordi, indifferenti e perfino scortesi. Non si è mai saputo per quale ragione la burocrazia viennese si fosse tanto ostinata nel danneggiare la città di Bergamo, nella quale invece in quel tempo si pensava al Tonale, allo Spluga, allo Stelvio, a collegamenti di vasto respiro. Anche Giacinto Gambirasio, che fu presidente della Camera di Commercio di Bergamo negli anni Cinquanta del Novecento, era lungimirante, progettò importanti linee di comunicazione e si batté più volte con fervore per tutelare gl’interessi ed affermare le aspettative della comunità bergamasca. Ma le autorità centrali hanno sempre tentato di giustificare la loro latitanza dicendo che i bergamaschi sanno fare da soli. Con questa farisaica scusa a Bergamo il trasporto su rotaia è sempre stato da terzo mondo e la città non ha mai ottenuto la dovuta considerazione. ’Ndà de anda. Significa: ‘Andare di buona lena’. Oppure: ‘Andare di gran carriera’. O ancora: ‘Andare a spron battuto’. ’Ndà decórde. La perfetta corrispondenza formale della locuzione italiana ‘Andare d’accordo’ con l’omologa bergamasca ’Ndà decórde indurrebbe a credere in una altrettanto perfetta coincidenza di significato. Ma chi sa parlare in bergamasco, chi conosce l’anima bergamasca, chi partecipa per consuetudine a un sentire ampiamente diffuso, conosce le varie intonazioni che può assumere la voce e riconosce le sottili sfumature e gli adattamenti delle accezioni. Risulta davvero difficile evocare la locuzione bergamasca ’Ndà decórde senza riudirla nell’esortazione pronunziata in qualche lontana circostanza da un genitore o da un educatore. Quando da ragazzi si questionava per un nonnulla un adulto interveniva per rappacificare gli animi dicendo: Sirchì de ’ndà decórde, s-cècc! L’esortazione possedeva l’autorevolezza di una sentenza. Si legge nel ”De bello Iugurtino”di Sallustio: Concordia parvæ res crescunt, discordia maximæ dilabuntur. Si era educati fin da ragazzi a capire che la concordia accresce le piccole fortune mentre la discordia distrugge anche le più grandi. Le singole individualità erano educate ad accordarsi in una consonanza di intenti che rispondeva ad un etos condiviso: l’identità del singolo si riconosceva in una identità comune, corale e complessa, maturata nell’esperienza delle generazioni, che anteponeva agl’interessi individuali alcuni irrinunziabili valori assoluti. Se così non fosse, Sordello da Goito, altero e disdegnoso, non sorgerebbe d’impeto ad abbracciare Virgilio che gli si è dichiarato suo conterraneo e Dante, edificato da quel gesto, non scioglierebbe la dolente e potente invettiva della “serva Italia” dilacerata dalla viltà degli egoismi e straziata dalla ferocia delle fazioni. Ma come andare d’accordo nella piccola comunità locale e nella grande comunità nazionale se si smarrisce perfino la memoria della voce degli avi, se gl’insegnamenti dei grandi maestri del pensiero non sono avvertiti come patrimonio comune della nostra civiltà? Si legge nel Vangelo di San Marco (3, 25) che una casa non può stare in piedi se è divisa in se stessa. Egual cosa si deve dire della comunità, che non può progredire se mancano l’identità e lo spirito della concordia. ’Ndà dét a ìda. Letteralmente: ‘Entrare a vite’. Si usa per dire che ci si trova coinvolti irrimediabilmente in una situazione come se ci si fosse avvitati. Così se sentite dire di uno che l’è dét a ìda state certi che si trova in un frangente dal quale gli risulta pressoché impossibile uscire. Lessi tanto tempo fa di una Consulta dello Spettacolo costituita da giornalisti e da critici che ritenevano inammissibile l’assuefazione del pubblico agli spettacoli mediocri e diseducativi inflitti alla gente dalle televisioni pubbliche e private. Della Consulta non ho più sentito parlare. Ma vedo che proseguono imperterriti gli spettacoli di pessima qualità, offensivi dell’intelletto e dell’arte, concepiti apposta per soffocare ogni anelito alla crescita interiore, per cancellare ogni interesse culturale, per intorpidire le coscienze e ridurre le persone ad automi. È evidentissima l’intenzione di usare gli strumenti della comunicazione di massa per rendere impraticabile quel poco che rimane della cultura e per privare il cittadino di ogni residua libertà. Non rimane che dire: A m’ sè dét a ìda. ’Ndà dét a sèra-öcc. Quando uno sa bene ciò che fa ed è assai sicuro del fatto suo può anche affrontare un’impresa o un rischio ad occhi chiusi. ’Ndà dét in del balù. Letteralmente: ‘Entrare nel pallone’. In senso figurato: ‘Affrontare un’impresa troppo rischiosa con forze del tutto inadeguate’, ‘Trovarsi in una situazione insostenibile’. Si può immaginare quale stupore e quale apprensione suscitassero i primi palloni aerostatici. Il primo esperimento bergamasco risale alla seconda metà del Settecento, quando un aerostato si levò dal parco dalla villa della contessa Paolina Secco Suardo a Redona e volò fino a Trescore, dove si afflosciò atterrando presso la villa del Canton: avvistato durante il volo sopra le campagne di Gorle, di Scanzo e di Cenate, suscitò sgomento e terrore nei contadini. ’Ndà fò del bósch a fà la lègna. È locuzione intensamente eufemistica, evocante l’uso dei capifamiglia di approvvigionarsi a turno di legna nel bosco comune, operazione che si compiva nel tardo autunno e nel primo inverno, quando gli alberi avevano perduto le foglie e potevano essere agevolmente sfrondati. Il proprietario di un fondo rustico poteva disporre di un bosco ceduo tutto suo, privato e quindi bandito a chiunque altro, che in longobardo era detto gahagi (donde i toponimi Gaggio, Gazzo, Gazzenda, Gazzoldo, Gazzaniga, ecc.). Il fare legna era una necessità e pertanto si attingeva al bosco che apparteneva alla comunità: ogni capofamiglia, controllato da un guardiano, vi otteneva il quantitativo prescritto potando gli alberi e diradando i rami senza danneggiare il patrimonio comune (il verbo scalvà è rimasto ad indicare appunto l’atto di recidere i rami). Chi voleva procurarsi un quantitativo di legna superiore a quello spettante non poteva che recarsi in un altro bosco alle prime luci dell’alba o al crepuscolo sperando di farla franca. La locuzione è fortemente allusiva all’infedeltà coniugale. Certi uomini sono tratti all’infedeltà dall’intrinseca assenza di norme morali. Altri vi sono indotti perché delusi dal matrimonio; sovviene quanto Creonte dice al figlio nell’“Antigone” di Sofocle: Pensa ben quanto con donna iniqua / sia duro il dimorar la notte e ’l giorno” (vv. 837-8 della traduzione compiuta dall’umanista fiorentino Luigi Alamanni). Comunque sia, il contravvenire ad una norma morale sulla quale si fonda la convivenza civile è sempre fonte di preoccupazione per le conseguenze che ne derivano. Il consiglio che veniva dato all’infedele de ’ndà fò del bósch a fa la lègna, ossia di andare lontano dalla sua comunità per amoreggiare con un’altra donna, piuttosto che dall’ipocrisia era dettato dalla necessità di non farsi scoprire per evitare contrasti e contraccolpi. Nisi caste saltem caute, sostenevano gli antichi. Non siamo tutti stinchi di santo e non abbiamo il diritto di ergerci a giudici delle debolezze altrui; ma almeno, dice in sostanza il vecchio detto, che si eviti di far sapere a tutti quali sono le nostre mancanze e i nostri vizi, soprattutto se comportano delle conseguenze che ricadono sulla famiglia. Contrariamente a quanto avviene al giorno d’oggi, quando l’istituzione matrimoniale è aggredita e screditata da un relativismo egoistico e distruttivo, i nostri vecchi si preoccupavano di salvaguardare il vincolo dell’unità famigliare, raccomandavano discrezione, usavano compatimento e comprensione, stendevano un velo pietoso sui difetti umani e consigliavano all’infedele di troncare al più presto la relazione adulterina perché i laùr lóngh i deènta serpèncc e non si deve mai andare in cerca di guai. ’Ndà inàcc. Per un bergamasco ’ndà inàcc è una necessità, una condizione irrinunziabile. “Come àla?”, vi domandano. E voi senza esitazione rispondete: “Pòta, m’ và inàcc”. Andiamo avanti, ossia procediamo nel nostro cammino, continuiamo nel nostro impegno. La strada della vita postula dei punti fermi, richiede fiducia in se stessi e in alcuni princìpi fondamentali. Altrimenti come si potrebbe andare avanti con la necessaria forza d’animo ed essere certi della direzione da seguire? ’Ndà inàcc o ’Ndà inante, che è la stessa cosa, oppure anche Tirà inàcc, che sottintende la capacità di superare difficoltà e traversie, tenacia nei propositi e nelle azioni, fede nelle proprie idee, lucidità nelle scelte. Un tappezziere milanese di Porta Tosa, Amatore Scesa, fu arrestato dalla polizia austriaca la notte del 30 luglio 1851 per essere stato còlto mentre affiggeva sui muri del corso di Porta Ticinese manifesti contrari alla dominazione asburgica. Condotto al patibolo, fu avvicinato dal delegato di polizia, il quale gli promise salva la vita se avesse confessato i nomi dei complici. Lo Scesa non degnò di uno sguardo il funzionario e rispose laconicamente: “Tiremm innanz!”. Meglio la morte per la patria che il tradimento dei compagni di fede e il ripudio delle proprie idealità. L’eroica fierezza dell’animo del patriota lombardo fu espressa dalla lapidaria stringatezza del motto: avanti fino all’estremo sacrificio purché la buona causa trionfi. L’anima lombarda, quella che per secoli tenne testa agli stranieri di tutte le razze e di tutte le lingue calati dalle “mal vietate Alpi” per invadere “armi e sostanze ed are e patria” si manifesta anche così, con poche parole che scandiscono un gesto sublime e che suonano come un inno d’amore per la terra degli avi. ’Ndà inàcc significa sapere da dove si viene e sapere quale strada si deve seguire, costi quel che deve costare. ’Ndà inàcc compàgn di gàmber. Non è certo un bel modo di procedere quello dei gamberi: du pass inàcc e quàter indré, ‘due passi avanti e quattro indietro’. Nella vita può accadere che si tenti di perseguire uno scopo o di raggiungere un traguardo ma che s’incontrino ostacoli tali da indurre alla rinunzia della meta agognata. Tuttavia c’è anche l’ignavo che non tenta nemmeno di procedere e che preferisce star fermo. Non progredi est regredi, dice una illuminante sentenza latina. Peggio ancora se si sceglie di regredire per viltà o per grettezza d’animo. L’essere umano non è stato creato per comportarsi come il gambero. A giudicare tuttavia dal forte regresso del senso civico c’è da pensare che certa gente sia felice di vivere in una condizione animalesca. Basta camminare per qualche strada di città e ci si rende conto subito del degrado nel quale pochi imbecilli costringono gli altri a vivere: cartacce e rifiuti dappertutto, bottiglie e lattine abbandonate ovunque quando non infrante sull’asfalto, disegni insulsi e messaggi politici deliranti tracciati con le bombolette-spray sui muri e sulle facciate a documentare l’elevato grado di cretinismo dei loro autori, le persone che non sanno tenere la propria destra e i giovani che non sanno più cedere il passo alle signore. Non parliamo di certi ciclisti tanto disinvolti (o prepotenti) che sui marciapiedi mettono a repentaglio la sicurezza dei pedoni. Forse ormai è pretendere troppo se in treno c’è chi crede di poter appoggiare i piedi sul sedile che ha di fronte o se in ogni luogo pubblico c’è chi parla animatamente al cellulare infastidendo gli altri con le faccendacce sue. Non parliamo del modo in cui si sta al ristorante, dove tutti si sentono in diritto di conversare sbraitando. C’è anche chi si dà la voce dalle finestre, chi schiamazza ad ogni ora del giorno e della notte, chi in automobile con i finestrini abbassati ascolta musicaccia rozza e burina a pieno volume per infliggerne il selvaggio frastuono anche agli altri, come se tutto il mondo fosse una balera di quart’ordine. Aggiungiamo la maleducazione e l’inciviltà di chi non rispetta la precedenza e con l’automobile ti taglia la strada obbligandoti a frenare oppure chi parla al cellulare mentre guida da ebete e il quadro che ne otteniamo è desolante. Se volete potete aggiungere quelli che fumano pur sapendo che danneggiano se stessi e le persone che sono a loro vicine, quelli che biascicano rumorosamente tenendo in bocca la gomma da masticare, gomma che poi sputano tranquillamente per terra, quelli che parlando con voi non si tolgono gli occhiali da sole, quelli che vi salutano inespressivamente dicendo: “Salve”, quelli (i più villani di tutti) che se ne infischiano del prossimo perché, avendo il cane, non si preoccupano di raccoglierne le deiezioni, quelli che stravedono per il loro cane tanto da lasciarlo libero anche quando ringhia minacciosamente e che credono di rassicurarti con una pazzesca faccia da schiaffi dicendo: “Guardi che finora non ha mai morsicato nessuno”. Ecco che cosa vuol dire procedere come i gamberi. ’Ndà in brögna. Vuol dire ‘essere trasportato nella camera ardente’ e quindi ‘morire’. Si tratta di espressione eufemistica che gli infermieri bergamaschi conoscono bene: negli ospedali, nelle cliniche e nelle case di ricovero esiste un luogo detto bergamascamente brögna nel quale sono esposti i cadaveri delle persone defunte perché siano visitati dai parenti e dagli amici prima della celebrazione dell’ufficio funebre. La voce brögna, ritenuta di orgine germanica, dovette diffondersi nel senso di ‘camera ardente’ nei secoli delle invasioni barbariche. ’Ndà in malura. ‘Andare alla malora’: può essere il guastarsi dei cibi o di altri prodotti deperibili come può essere la rovina di una impresa o di un patrimonio. ’Ndà in malura i caalér. Per significare che un affare è andato a monte e che si è concluso in perdita si può dire: I è ’ndàcc in malura i caalér. Quando le nostre famiglie contadine si davano alla coltura del baco da seta, poteva accadere che le galète si trasformassero in falòpe, ossia che i bozzoli dei filugelli ammalati non giungessero a maturazione. La bachicoltura aveva dato origine ad un piccolo lessico settoriale. Derivata dal veneto cavaliér, la parola bergamasca caalér (nel Settecento suonava cavalér perché non si era ancora verificato il dileguo della v intervocalica) designava il baco da seta, che dopo aver mangiato e dormito, risaliva un ramicello per chiudersi nel bozzolo e vi si appostava in guisa di un uomo a cavallo. La vendita dei bozzoli costituiva un sicuro guadagno per il contadino ma se i bozzoli non giungevano a compimento era una disdetta. Era color dell’oro la seta dei bozzoli e lo ricorda Corrado Govoni in una sua poesia: “Gran mangiar, gran dormire! I filugelli / s’imboscarono alfine tra i fastelli. / Ghiande d’oro divennero filando. / Le fanciulle or li colgono cantando”… ’Ndà in tate medesine. A differenza di altre genti d’Italia, le quali nei momenti d’ira si profondono in orribili maledizioni che coinvolgono anche le anime degli antenati, ben difficilmente il bergamasco augura malanni e disgrazie al suo prossimo. Ma se si sente defraudato di quanto gli è dovuto, può essere che in un impeto di risentimento esclami: Che i ghe àghe in tate medesine!, ‘Che gli vadano in tante medicine!’. Egli augura cioè a chi lo ha imbrogliato sottraendogli il dovuto, che i denari carpiti o non corrisposti siano impiegati in cure per una lunga malattia. Talora si può anche udire: Che i ghe àghe in tata panada fata!, ‘Che gli vadano in tanto pancotto insipido!’. ’Ndà là a quach manére. Significa ‘procedere confusamente’. La traduzione letterale non ha senso perché in italiano non si può dire ‘andare là a qualche maniera’: è la diversa natura dei due registri linguistici, quello dotto e quello popolare. Dopo tanta persecuzione delle parlate locali si è giunti al punto che la lingua nazionale non ha più il suo retroterra, ha perduto la sua vitalità e patisce una condizione d’inferiorità innanzi all’invadenza degli anglismi commerciali, mediatici, tecnologici e informatici. Si è perduto il piacere del bello scrivere, del buon comporre come si è perduta l’arte del ben parlare. Direi in bergamasco che s’ và là a quach manére, appunto. Ma la trascuratezza, il pressapochismo, la sciatteria non sono norme di vita raccomandabili. Trascrivo da un romanzo di Goethe questo passo illuminante: “Un uomo non deve assomigliare a un fungo, che, dopo essere sorto dalla terra, marcisce nel luogo in cui è nato e non lascia traccia alcuna di sé. Osservando di primo acchito una casa, si conosce il talento del suo costruttore, come entrando in una città ci si può fare un’idea dei suoi reggitori. Se le torri e le mura cadono in rovina, se le strade sono sporche e i fossati fangosi, se le pietre si staccano senza essere sostituite, se le travi sono tarlate e le case pericolanti attendono invano di essere puntellate, quella città è mal governata. Quando le superiori autorità non vegliano dai loro scanni sull’ordine e sulla nettezza, i cittadini si avvezzano alla più sordida negligenza, come il mendicante si avvezza ai suoi cenci”. Ecco dunque esemplato il vivacchiare nella negligenza e nella confusione, che corrisponde proprio alla nostra locuzione. ’Ndà ’n giro coi bórde. Questa locuzione si udiva ancora tempo fa, quando le madri rimproveravano i figli scavezzacolli dicendo loro: Fàm mia ’ndà ’n giro coi bórde, ’Non costringermi a mascherarmi quando esco di casa’. Era sottinteso che il ricorso alla maschera implicava il desiderio di non voler essere riconosciuta come madre di un discolo e di evitare così di doversi pubblicamente vergognare. L’antica voce bórda significa ‘nebbia’ ma anche ‘maschera’, perché le popolazioni primitive deificarono la nebbia rappresentandola con raffigurazioni teriomorfe. Nei lessici dei dialetti romagnoli ed emiliani la voce borda è associata ai fantocci, ai pupazzi, agli orchi e alle streghe, ad esseri demoniaci. Da masca, strega’, a maschera il passo è breve. In fondo la nebbia è come una maschera, perché essa ci sottrae alla vista altrui, ci rende estranei e irriconoscibili. Ma la nebbia è fenomeno contingente e d’altro canto durante il Carnevale si può indossare una maschera ad un ballo e niente più. Per tutto il resto dell’anno dobbiamo mostrare apertamente il nostro volto, com’è giusto che sia. È ben vero che stando alle cronache certa gente farebbe bene ad andare in giro mascherata per non farsi riconoscere. Ma il senso del pudore, della dignità e dell’onestà è talmente decaduto che le facce di bronzo sono ormai esimite dal mettersi la maschera. ’Ndà ’n giro col có in ària. Se si guarda in aria non si vede dove vanno a parare i piedi. Ecco perché se si cammina non ci si può distrarre. Peraltro, l’osservazione del cielo eleva lo spirito umano e infonde un desiderio d’infinito nell’animo. Il tenente pilota Natale Palli, che nell’agosto del 1918 comandò il volo su Vienna della squadriglia “Serenissima”, della quale facevano parte Gabriele D’Annunzio e l’asso bergamasco Antonio Locatelli, in una lettera inviata al padre durante la guerra scrisse: “Quando salgo a duemila metri mi sento felice. Il mondo è tutto sotto di me, le sue miserie non mi toccano, sono libero nel vero senso perché nessuno può raggiungermi lassù”. E in un’altra lettera, dopo un volo sulle Alpi Piemontesi: “Volare è una gioia sempre nuova e sempre grande. È uno spettacolo fantastico e di una grandiosità senza pari quello che si gode percorrendo i cieli di queste regioni irte di guglie rocciose e adornate di nevai candidissimi”. Ritornando dai suoi voli di ricognizione il tenente Palli sorvolò spesso la Valle Seriana e atterrò sul vecchio campo d’aviazione di Ponte San Pietro. Uscito indenne dalla guerra, morì durante un raid aereo che nel 1919 avrebbe dovuto portarlo dall’Istria a Parigi: una bufera di neve lo travolse sulla Savoia, fra Aosta e Chambery. Se le vie del cielo sono perigliose, lo sono a maggior ragione quelle della terra. ’Ndà ’n giro col có ’n del sach. Durante una sosta si dava da mangiare al cavallo infilandogli il sacco della biada sul muso. Prima di ripartire il sacco veniva tolto così da consentire al cavallo di vedere bene davanti a sé. Oggi c’è gente che non merita la patente di guida, rilasciata con troppa facilità soprattutto in certi Stati extracomunitari. Càpita che un automobilista, dopo aver investito un pedone, creda di giustificarsi nel modo più stupido dicendo: “Non l’ho visto”. Non dovrebbe essere permesso di guidare a chi si aggira con la testa nel sacco. ’Ndà vià co la cua inguàla ai ale. Pareggiare l’entrata con l’uscita. Si dice quando, per essere intervenuti in tempo su di un affare che non stava dando i frutti sperati, si riesce ad evitare una perdita ma non si è realizzato alcun guadagno. Nel sonetto “Sira al ròcol” (1937) Giuseppe Bonandrini, medico e naturalista, erudito dall’animo umanistico e profondo conoscitore della montagna bergamasca, considerò quanto aleatoria fosse l’uccellagione con il roccolo e scrisse: “Sa s’ ciapa ergót / a s’ và amò co la cua inguàl a i ale”, vale a dire che se si aveva la soddisfazione di catturare qualche uccello si pareggiavano le spese che si dovevano sostenere nell’apprestamento dell’impianto del roccolo. ’Ndà zó del lìber. Se di un tale dico che l’ m’è ’ndàcc zó del lìber intendo significare che non voglio più avere a che fare con lui perché non merita la mia stima e non riscuote più la mia fiducia. Al tempo dei primi opifici i compensi e le provvidenze dipendevano essenzialmente dalle leggi del mercato e il rapporto fra il datore di lavoro e il prestatore d’opera, in assenza di una legislazione sociale, era di tipo eminentemente fiduciario. Un contabile teneva il libro delle paghe e se un dipendente, anche per una plausibile ragione, non godeva più della fiducia dell’imprenditore, veniva allontanato dall’azienda e di conseguenza espunto dal libro delle paghe. Ecco dunque la ragione per la quale a una persona che non ci è più gradita diciamo: Te me sé ’ndàcc zó del lìber. Per libro (latino liber) s’intende un insieme di pagine legate e cartonate. I libri dei conti esistevano molto tempo prima che entrasse in uso il libro stampato. Da qualche tempo sono arrivati gli e-books, i libri ottenuti elettronicamente, chiamati così per la nostra indegna sudditanza linguistica nei confronti dell’informatica angloamericana. Usiamo le nuove tecniche per quel che possono servire ma non affatichiamo troppo i nostri occhi sullo schermo luminoso e ricorriamo ancora per le nostre letture al buon vecchio e intramontabile libro in carta stampata, che ci segue dove vogliamo, che si lascia sfogliare, che accoglie in silenzio sottolineature e annotazioni, che custodisce gelosamente fra le sue pagine il segnalibro, fosse anche un fiore appassito. Pazienza se i libri, come diceva Montaigne, non si limitano a tramandare ai posteri le opere dei grandi ingegni ma raccolgono nelle loro pagine anche le idiozie delle menti piccine. Che poi lo smercio dei libri sia scarso non deve stupire. Lo è sempre stato. Un libraio spiegava il fenomeno sostenendo che i libri sono acquistati soltanto dai poveri, i quali li prestano ai ricchi; questi non li restituiscono più e riescono in questo modo a costituire delle grandi biblioteche. Dev’esserci del vero in questo assunto perché dei molti libri che nella mia vita ho prestato pochissimi mi sono stati restituiti. ’Ndà zó di sò. Di uno che l’ sìes indàcc zó di sò si può dire che sia impazzito perché ha abbandonato il suo usuale contegno scadendo (’ndà zó, ‘scendere’ ma anche ‘scadere’) nell’assurdo e nell’irragionevole. Si dice anche che l’è ’ndàcc fò de có, ‘è andato fuori di testa’. Il percorso verso la pazzia passa per i verbi sragiunà, ‘non ragionare più’, ‘fare discorsi sconclusionati’ e basgà, ‘oscillare’ ma anche ‘dir cose senza senso’, ‘non connettere più’; poi si va fò de sentimènt, ‘fuor di sentimento’ perché ol servèl l’è ’ndàcc in aqua. L’approdo è costituito dalle locuzioni ’Ndà zó di sò e Èss fò de có, espressive della situazione tipica di chi ha perduto la facoltà della ragione. Si diventa pericolosi a sé e agli altri quando s’ dà fò de mat, ‘si dà in escandescenze’. . ’Ndà zó ’n Bórgh. Oggi in bergamasco si dice Sità Ólta e Sità Bassa per distinguere le due parti della città. Ma un tempo Bergamo Alta era chiamata perentoriamente Sità, la città per antonomasia, mentre Bergamo Bassa doveva accontentarsi di essere chiamata Bórgh. Ancor oggi un buon bergamasco sa bene che cosa intendo se dico ’Ndó sö ’n Sità, ‘salgo in Città Alta’. Ma questo non lo sento più dire da tempo. Ho però sentito ancora in questi ultimi anni qualche abitante di Bergamo Alta dire, fra il serio e il faceto: ’Ndó zó ’n Bórgh, ‘scendo in Città Bassa’. Le identità si stemperano e i tratti salienti della nostra cultura si attenuano. Sarebbe tuttavia imperdonabile perdere la memoria e non riconoscere più la fisionomia antica della città nel suo attuale volto urbano. Salendo e discendendo le scalette e le viuzze che collegano la bassa all’alta città, l’insediamento moderno a quello antico, interroghiamo le pietre, i muretti a secco, gli acciottolati, le facciate delle vecchie case, le lapidi murate, le fonti medievali, le piazzette, le chiese. Quanti altri prima di noi hanno risalito e ridisceso quelle vie! Le prime case della città sorsero lassù, sui colli, dove s’insediarono gli antenati a guardia della pianura e delle valli; il borgo ne è rampollato come una mano che protenda le dita verso la pianura, dipanandosi dall’acropoli e dividendosi nelle sue storiche contrade. Nelle giornate limpide, quando appare nell’estrema pianura la linea degli Appennini e si scorge in lontananza la sagoma imponente del Monte Rosa, dall’alto dei colli Bergamo Alta appare racchiusa nella cinta poderosa delle Mura dei veneziani con la propaggine dei borghi che la collegano con Città Bassa: sottile inesprimibile orgoglio di sentirsi bergamaschi. ’Ndà zó per la mèlga. È locuzione non più usata ma ben attestata nei capitoli bergamaschi dell’abate Giuseppe Rota, che visse nel Settecento. Significa ‘andare in rovina’, ‘perdersi in uno sterpeto o in una brughiera’ e quindi, per traslato, ‘confondersi durante un discorso’, ‘parlare sconclusionatamente’. La mèlga è la saggina, detta anche mèlica in italiano. È usata per fabbricare le scope (tanto che un terreno in cui prolifera la saggina è detto scopeto). In questi tempi in cui si vanno perdendo le parole, occorre precisare che un conto è la mèlga e un conto il melgòt, ossia il mais o granoturno che dir si voglia. In altre parti della Lombardia il mais è chiamato formenton ma noi bergamaschi lo chiamiamo melgòt perché la forma della pianta ricorda quella della saggina, anche se il mais può crescere ben oltre i due metri. A costo de ’ndà zó per la mèlga, ricordo che un tempo i ragazzi di campagna nel tentativo di imitare gli adulti fumavano di soppiatto i fili della chioma della pannocchia (i fömàa la barba del canù), ricordo che il rösgiù, ossia il torsolo della pannocchia, detto anche tochèl de lègn, era usato come legna da ardere e in modo particolare per abbrustolire le castagne (le caldarroste in bergamasco si chiamano boröle), ricordo ancora la visione georgica delle pannocchie appese sulle lòbie e sui baladùr delle nostre cascine. Negà ’l Signùr in crus. ‘Negare il Signore in croce’. Lo si dice per chi nega spudoratamente l’evidenza di un fatto. Nissü laùra per la césa di àe. Che senso ha dire che nessuno lavora per la chiesa delle api? Le api non hanno una chiesa e tanta gente giustamente si chiede perché si dica così. Ma io credo che originariamente il detto suonasse: Nissü laùra per la césa de Àe, ossia: ‘Nessuno lavora per la chiesa di Ave’. Nel territorio del comune di Ardesio si trova la frazioncina di Ave, quattro case e una chiesetta, senza beneficio e tanto povera che non c’erano quattrini per pagare il campanaro e il sagrestano. Si sa che le parole camminano con le persone e non c’è da stupirsi che il toponimo sia stato confuso con il plurale di àa, ‘ape’. In Valcamonica ho udito dire: Nissü laùra per la césa de Nàder. Infine, la conclusione è che l’orbo per niente non canta. ’Nsognàs di sò póer mórcc. Di uno che parli a vanvera e che narri fantasticherie o cose non vere diciamo: Chèl lé l’ s’è ’nsognàt di sò póer mórcc. C‘è gente che non lascia dormire in pace i poveri morti e che tenta di evocarli, magari soltanto per avere i numeri da giocare al lotto. Ma c’è anche chì, volendo comunicare con l’aldilà, si abbandona a pratiche spiritiche. In argomento esiste un’ampia letteratura pseudoscientifica dalla quale si arguisce soltanto un dato sicuro ossia che tutti i fenomeni di spiritismo sono frutto a volta a volta d’inganno, di trucco, d’ipnosi, di esaltazione, di allucinazione visionaria, di sdoppiamento della personalità del medium, il quale durante la seduta spiritica entrerebbe in trance, alterando la voce e riferendo il “messaggio” del defunto che si vorrebbe evocare. Accade che in sogno ci appaia qualche persona morta ma ciò è del tutto indipendente dalla nostra volontà e non ha uno specifico significato, essendo la natura del sogno irrazionale. Per il resto, è bene non evocare gli spiriti dei morti, fossero anche persone a noi molto care, perché non si trae alcuna notizia rassicurante o alcuna consolazione da pratiche che non danno affidamento e che possono pericolosamente alterare l’equilibrio psichico delle persone che in esse confidano. I morti sono in pace ed hanno bisogno di essere ricordati con devozione pietosa: il modo migliore per farlo è di invocare per loro la luce perpetua recitando un Requiem. O avanti con l’amore… L’antinomia è giocata ironicamente in questo spiritoso detto popolare, che al primo termine espresso in italiano con tono solenne fa seguire l’antitetico e burlesco dialettale: o indré la mé cönécia. Un giovanotto, intrattenendo rapporti amorosi con una ragazza, le ha dato (non si sa bene se in dono o a titolo di prestito) una coniglia gravida. La ragazza però, una volta ottenuta la coniglia, non vuol più sapere di amoreggiare con il giovanotto. Questi allora si presenta a lei ponendola innanzi all’aut-aut di continuare con l’amore o di restituirgli la coniglia: O avanti con l’amore o indré la mé cönécia. Il dialetto è forese (cönécc, ‘coniglio’) perché in città si dice cünì, ‘coniglio’, e cünina, ‘coniglia’. Sarà per uno “stato di triste melanconia” che la ragazza non intende più compiacere il giovanotto? Søren Kierkegaard (1813-1855) distingueva fra “malinconia egoistica”, che soffre dell’orrore di unirsi per tutta la vita ad un altro essere, e “melanconia simpatetica”, che teme di non essere all’altezza dell’altro, di deluderlo e d’ingannarlo. O più semplicemente alla ragazza interessava soltanto di possedere dei coniglietti? Bella questione sarebbe stata per il filosofo danese, che nel suo “Enten-Eller” (1843) affastellò pagine su pagine intorno al matrimonio ma che non si sposò mai. Avrebbe potuto sospettare un’interpretazione ben diversa e cioè che fosse la nubenda a reclamare la restituzione della coniglia avendo constatato una certa freddezza da parte del promesso sposo, diventato improvvisamente titubante? C’è chi garantisce che questa sia la versione più accreditata. Tutto è possibile nelle faccende di cuore. Òcio che rìe. Letteralmente: ‘Attenti che arrivo’. La forma òcio è un piccolo tributo pagato dai bergamaschi ai veneziani, i quali seppero governare per quasi quattro secoli la terra d’Orobia rispettando la parlata e la cultura della nostra gente. Òcio al lüf! Un tempo il silenzio sovrastava gli spazi delle valli e della pianura ed una voce, uno strido, un rintocco, uno schianto potevano essere uditi a grande distanza. I richiami si diffondevano sull’onda dell’etere da un colle all’altro, da un versante all’altro. Ai pastori delle nostre montagne, che non avevano altra risorsa che il loro gregge, l’attacco di un branco di lupi famelici inferiva danni enormi. All’avvistamento di un lupo subito si levava il grido: “Òcio al lüf!”, ‘Attenzione al lupo!’, ed esso era ripetuto da chi lo udiva, cosicché si propagasse in tutte le direzioni e pastori, mandriani, contadini, boscaioli fossero allarmati ovunque. Le cronache dei secoli passati informano sulle stragi di pecore compiute dai lupi, che giungevano spesso ad attaccare e a sbranare anche i viandanti e i lavoratori dei campi. Nel 1629, anno della carestia che preluse alla terribile peste dell’anno successivo, un enorme lupo spinto dalla fame entrò in Bergamo e si aggirò per Borgo Palazzo terrorizzando gli abitanti. Come se non fossero bastate le carestie, le pestilenze, gli eserciti stranieri con le loro prepotenze e le loro ribalderie, ci si mettevano anche i lupi e gli orsi, tanto che i nostri comuni di montagna assegnavano dei premi a chi li uccideva. Estinti i lupi, il grido sopravvisse e servì di avvertimento ai contadini di Foresto Sparso e della Val Cavallina all’approssimarsi delle guardie di finanza che ostacolavano la produzione clandestina di grappa con un gran dispiegamento di mezzi, del tutto sproporzionato all’entità del reato, limitato per lo più alla produzione di pochi litri per uso domestico. Così mentre si colpiva con estrema durezza una frode insignificante (ipocrisia imperdonabile) si faceva finta di non vedere che l’economia di intere regioni italiane veniva progressivamente ma inesorabilmente strangolata dall’espandersi della criminalità organizzata! “Òcio al lüf!” fu inoltre il grido che si udiva durante l’ultima guerra, quando le colonne nazifasciste risalivano armate di tutto punto le valli per snidare i renitenti alla leva, i giovani delle formazioni partigiane nascosti nelle baite, negli abituri, nelle soffitte dei cascinali onde sfuggire all’arruolamento dell’esercito di Salò. Quanti erano catturati in quei rastrellamenti venivano passati per le armi e si capisce con quale trepidazione, con quale senso di sgomento il grido di avvertimento era lanciato dal fondo della valle per echeggiare fino ai casolari delle quote alte. Il grido è rimasto nella memoria collettiva a ricordare le ore del pericolo mortale. O dét o fò. C’è gente che sta a tentennare sulla soglia e che non si risolve né ad entrare né ad andarsene. Che senso ha affacciarsi ad una porta e starsene allo stipite come un allocco? Così, che senso ha, quando un problema urge, non saper compiere una scelta? Quante volte i nostri vecchi, in tutte le situazioni nelle quali occorreva prendere una decisione, dicevano: O dentro o fuori! Del resto, non pochi centri abitati erano protetti da una cinta muraria, sulla quale si aprivano delle porte vigilate giorno e notte. Mutati i tempi, centri come Bergamo Alta sono stati abbandonati dalla gran parte dei loro vecchi abitanti e presentano problemi di non facile soluzione, ad incominciare da quello degli accessi per continuare con quelli dei parcheggi, dei divieti di sosta, dell’inserimento di istituzioni scolastiche, della scelta fra turismo di élite e turismo di massa, che fa proliferare alcuni tipi di negozi, non consoni con l’atmosfera e l’aspetto urbanistico di un insediamento storico. Ognuno pensi ciò che vuole. Occorre però saper prendere delle decisioni, come fecero gli amministratori della seconda metà dell’Ottocento, quando adottarono la soluzione lungimirante della funicolare. Ofelér, fà ’l tò mestér! Nell’Ottocento in qualche via centrale delle principali città lombarde stazionavano in certe ore del giorno gli “offellieri”, pasticcieri che vendevano offelle, ossia stiacciatine di pasta sfogliata. Si trattava di mestiere modesto, che non richiedeva grande preparazione e che non prospettava cospicui guadagni. La locuzione esorta chi ha la presunzione di ingerirsi nelle competenze altrui a badare alle proprie faccende. Sutor, nec ultra crepidam… Ògne mórt de èscov. Esempio: A l’ söcéd a ògne mórt de èscov, ‘Càpita ad ogni morte di vescovo’. Si dice per indicare che un certo fatto accade molto raramente, come in una stessa diocesi succede raramente che muoia il vescovo. Òia de laurà, sàltem adòss! Lo diciamo quando siamo svogliati: chiediamo allora di essere assaliti dalla voglia di lavorare. “Aliquando et insanire iucundum est”, scrisse il saggio Seneca. Anche il dolce far niente non è da disprezzare, secondo la sentenza di Cicerone: “Nihil agere delectat”. Ma Seneca incalza: “Non semper Saturnalia erunt”. Libera traduzione bergamasca: L’è mia sèmper fèsta. Qualcuno (incredibile dictu) si affatica anche quando non fa alcunché; in una sua lettera infatti Orazio scrive: “Strenua nos exercet inertia”, ossia: ‘Ci affatica una irriducibile inerzia’. Per non scomodare oltre i classici, potremmo ricorrere a Gioppino, il quale si lamentava sempre di avere tanto lavoro e di essere assorbito da mille occupazioni.” Che mestér fìv?”, gli domandava qualcuno. E lui: “Gh’ó mai ü momènt de rèquie perché só sèmper dré a dàga öna mà a mé pàder”. Allora gli dicevano: “Ah sé? E che mestér fàl ol vòs’ pàder?”. E lui: “Negóta töt ol dé”. Gioppino sta bene nella baracca ma nella vita di tutti i giorni staremmo freschi se ci comportassimo come lui, che cercava di lavorare il meno possibile. Per esprimere il colmo dell’indolenza a Treviglio si dice: Té grata che ma spiör, letteralmente: ‘Tu gratta che mi prude’. Tutta la fantasia delle locuzioni della nostra gente non basta per esprimere la criminosa infingardaggine e l’indecente marpioneria di certa burocrazia centralista, specializzata nel complicare le cose semplici: basti dire che si sono impiegati cinquant’anni per liquidare i beni e l’amministrazione della Gioventù Italiana Littorio. Òi öa e ì. I bergamaschi si divertono a ideare scioglilingua che abbiano un senso compiuto per esorcizzare la malevolenza di quanti disprezzano e offendono la parlata orobica. In effetti il definire “ostica” e “incomprensibile” una lingua è sempre sintomo di scarsa predisposizione ad aumentare le proprie conoscenze e può essere inteso anche come mancanza di rispetto per quanti parlano quella lingua. Avvezzi loro malgrado a sentir qualificare il loro dialetto con i termini meno lusinghieri da persone quanto meno sprovvedute, i bergamaschi godono di stupirle proferendo frasi che ridondano di allitterazioni e che evocano una rusticità primitiva, come nel caso seguente, in cui si svolge un piccolo dialogo privo di suoni consonantici. Un tale domanda: Òe, ù: öa o ì?, ossia: ‘Oh, voi: uva o vino?’. E l’altro risponde: Òi öa e ì, ossia: ‘Voglio uva e vino’. Esistono varie versioni di questo artificioso scioglilingua, tutte prive di consonanti e proferite con l’evidente scopo di stupire. Il bergamasco in ciò dimostra di essere non indegno erede del latino. La più grande lingua del mondo antico abbondava di formule e di locuzioni giocate sull’iterazione di suoni simili per strabiliare e dare insieme il senso dell’incomprensibilità. Da Catone (“De agricoltura”, 160) apprendiamo che per rimediare ad una lussazione si diceva: Huat hauat huat ista pista sista dannabo dannaustra. E pare solo il caso di estrapolare dagli “Annales” di Quinto Ennio i seguenti versi famosi: O Tite tute Tati tibi tanta tyranne tulisti. Africa terribili tremit horrida terra tumultu. Machina multa minax minitatur maxima muris. Rem repetunt regumque petunt, vadunt solida vi. At tuba terribili sonitu taratantara fecit. Si luci, si nox, si mox, si iam data sit frux. E ancora Ennio, raggiungendo un notevole effetto comico, nelle “Satire” (59 e segg.) scrive: Nam qui lepide postulat alterum frustrari / Quem frustratur frustra eum dicit frustra esse. / Nam qui sese frustrari quem frustra sentit, / Qui frustratur is frustra est, si non ille est frustra. Nulla di strano che un bergamasco vi dica: A ó a èd i àe e i a òe ìe, ossia: ‘Vado a vedere le api e le voglio vive’. Oppure che riferisca di quel fattore il quale, per ordinare ai suoi contadini di occuparsi delle api, delle uve, delle olive e delle uova, diceva a ciascuno di loro: Ù ì ai àe, ù ì ai öe, ù ì ai ülìe e ù ì ai öv. Ol bal di caài. Oggi si dice semplicemente circo ma al tempo dei nostri nonni si diceva ancora ‘circo equestre’ perché vi venivano fatti esibire i cavalli ammaestrati. Ecco perché i vecchi bergamaschi non dicevano: Só ’ndàcc al circo, ‘Sono andato al circo’, bensì: Só ’ndàcc a èd ol bal di caài, ‘Sono andato a vedere il ballo dei cavalli’. Già Fellini in un suo documentario si era preoccupato di raccogliere le labili memorie dei clown, avvertendo che la televisione avrebbe messo in crisi non solo il teatro e il cinema ma anche e soprattutto il circo. Ormai non c’è più memoria dell’arte circense del secondo Ottocento e del primo Novecento, quando con le belle tavole disegnate da Achille Beltrame la “Domenica del Corriere” informava sugl’incresciosi incidenti che capitavano nei circhi (due ginnaste precipitate dal trapezio per la rotture delle corde, una pantera che aveva azzannato una giovane avvicinatasi alle sbarre della gabbia, un domatore ucciso da un orso durante una esibizione, un acrobata che era morto compiendo con l’automobile l’eccezionale numero del “cerchio della morte”). Chi ricorda più il vecchio bal di caài, che annoverava equilibristi, domatori, ballerine, giocolieri, illusionisti, saltimbanchi, funamboli, pagliacci, animali ammaestrati? Alcuni di loro erano diventati leggendari: il favoloso Grog, che da un minuscolo violino traeva suoni fortissimi, il nano Bernabè, che si ruppe una gamba durante un salto mortale, il pagliaccio Achille Zavatta, che intervenne a salvare un domatore aggredito da tre leoni, la domatrice Costanza Chiarini, la quale ottenne che una elefantessa suonasse il flauto con la proboscide, il giocoliere bergamasco Enrico Rastelli, che riuscì a far ruotare contemporaneamente dieci palle e dodici cerchi (nessuno c’è più riuscito). L’arte dei clown, dal triste Polidor intento a suonare la tromba per i suoi palloncini al genovese Joe Grimaldi, che per primo si presentò in un anfiteatro inglese con le guance infarinate e imbrattate di rosso, è rimasta avvolta nel mistero: si trattava quasi sempre di acrobati che avevano subìto un incidente e che vestivano per ripiego la giubba del pagliaccio. Quando arrivava a Bergamo un circo, un mio amico pittore, Aldo Grassi, andava con cavalletto, tele e tavolozza a ritrarre i pagliacci e parlava con loro negli orari in cui non si tenevano gli spettacoli. Un giorno mi disse: “Sono stati tutti molto provati dalla vita. Forse riescono a far ridere perché conoscono davvero il dolore”. Non vorrei dire che ogni epoca si merita i suoi spettacoli. Ma considerando il livello infimo e avvilente di tanti programmi televisivi è lecito pensare che per i nostri nonni il bal di caài abbia rappresentato non solo un passatempo ma anche un privilegio. Ol caàl del Bonèla. Di uno che abbia complessione delicata, che sia di salute molto cagionevole e che si ammali per un nonnulla diciamo che l’è ’l caàl del Bonèla, perché il cavallo di questo Bonella (un anonimo quidam de populo del quale non si hanno notizie, sempre che sia esistito) a l’ gh’ìa trènta piaghe per ògne sgarèla, ‘aveva trenta piaghe per ogni garretto’, era dunque un povero ronzino malmesso e acciaccoso. Ol diàol che l’indàa a scöla. A una persona ingenua che credeva di potercela fare sotto gli occhi e che abbiamo invece saputo prevenire, possiamo dire: Quando ’l tò diàol l’indàa a scöla, ol mé l’ turnàa zamò indré, ossia: ‘Quando il tuo diavolo andava a scuola, il mio ritornava già indietro’, evidentemente perché aveva già imparato ogni malizia. Ol diàol coi cadéne foghéte. Ai ragazzi irrequieti, disobbedienti e dispettosi si diceva un tempo: A l’ te porterà vià ’l diàol coi cadéne foghéte!, ‘Ti porterà via il diavolo con le catene infuocate!’. La locuzione, vivida e pittoresca, poteva suscitare nei monelli il senso della colpa e la coscienza di un giudizio che era ben al di sopra delle leggi umane. Ora c’è chi non crede più nell’esistenza del demonio, che è la personificazione del male (sarebbe come negare l’esistenza del male) e le catene infuocate del principe delle tenebre non spaventano più come un tempo. Così si perde il senso della distinzione fra la giustizia umana e quella divina. Le leggi umane non sempre coincidono con quelle di Dio e gli uomini chiamati a giudicare altri uomini possono sbagliare (è triste e sconfortante sapere che per difetto di una legge o per incapacità di un giudice un delitto resti impunito o un innocente venga condannato). L’immagine delle catene infuocate oggi può anche far sorridere ma educava al senso morale, richiamava al trascendente, insegnava che esiste un giudizio ineludibile, non quello di un tribunale di uomini, che possono anche emettere sentenze assurde, ma quello del tribunale di Dio, al quale nessuno può sfuggire. Si vive nello smarrimento morale, nella confusione etica e perfino nell’elusione sistematica delle leggi umane proprio perché non si ha più contezza di una giustizia assoluta, che attende tutti nell’Aldilà. Öle de gómbet. L’olio di gomito (bergamasco gómbet, da un tardo latino compitus, sostituitosi al latino classico cubitus) è il più prezioso che ci sia. Lo sapevano bene le nostre nonne, le quali comandavano alle loro figlie di lucidare le maniglie delle porte o di detergere i vetri delle finestre: l’ordine di sgürà (latino excurare), cioè di nettare strofinando, non era mai disgiunto dalla raccomandazione di usare l’öle de gómbet, un detergente particolare grazie al quale il lavoro era sempre eseguito nel migliore dei modi. La voce delle laboriose progenitrici risuona di generazione in generazione suadente e al contempo imperiosa come un comandamento al quale non si può derogare. È con l’operosità e la rettitudine che si vive degnamente. Ol föm di candéle. Quando non esisteva la luce elettrica anche nelle chiese si usavano soltanto le candele e ne venivano accese diverse durante le funzioni religiose. I sagrestani erano assai esperti nell’accenderle come nello spengerle usando lo smoccolatoio. Le candele di solito erano di buona cera e facevano pochissimo fumo. Ma chi non andava in chiesa diceva per giustificarsi che l’ghe dàa fastöde ol föm di candéle, ‘gli dava fastidio il fumo delle candele’. Era un modo scherzoso e arguto per trarsi d’impaccio e anche il più bacchettone dei credenti udendo questa locuzione sorrideva allargando le braccia. Un po’ di tolleranza e di comprensione non guasta. Ma non sempre prevaleva in tutti il buon senso. Al tempo del positivismo si diffuse la teoria evoluzionistica, secondo la quale l’uomo proverrebbe, per un processo naturale dovuto esclusivamente al caso, da animali inferiori, senz’alcun intervento di un Dio creatore, del quale Darwin aveva risolutamente negato l’esistenza. Questa idea, priva di alcuna dimostrazione scientifica, fu proclamata con l’assolutezza di un dogma dai fondamentalisti della scienza, tanto che ancor oggi l’origine dell’universo e la comparsa dell’uomo sulla Terra sono raccontate al volgo secondo le teorie dell’evoluzionismo e della selezione naturale (con tanto di documentari televisivi che mostrano la povera gazzella sbranata dal leone per ribadire il diritto del forte a sopprimere e a divorare il debole), nonostante l’evidenza dei fatti dimostri che le api e le formiche sono ciò che erano e fanno ciò che facevano milioni di anni fa senza che sia intervenuto alcun mutamento nella loro struttura fisica e nei loro comportamenti vitali. La ripulsa netta di ogni ipotesi creativa intorno alle manifestazioni del linguaggio, del pensiero elaborato, dell’arte e della scienza, la negazione di ogni idea di trascendenza e di redenzione, il rifiuto di ogni ispirazione divina e l’affidamento cieco ad un’entità assurda qual è il caso hanno finito per erigere steccati che solo in tempi recenti non sono più parsi tanto insormontabili. Meglio sentirsi argutamente dire che ’l föm di candéle l’ dà fastöde e sorridere bonariamente a questa simpatica uscita evitando così di passare la vita a questionare. Ol gir de l’óca. Il gioco dell’oca, che era assai praticato tempo addietro, si fa con due giocatori e con una cartella stampata che contiene novanta caselle numerate e disposte a spirale (nell’Ottocento erano sessantatré). Ogni giocatore trae i due dadi disponibili e se la somma dei punti ottenuti è 10, prende il suo contrassegno e lo fa avanzare di dieci caselle. Vince, ovviamente, chi arriva primo. Ma il gioco dell’oca ha alcune particolarità: se si arriva ad una casella sulla quale è raffigurata un’oca, la puntata vale il doppio e si procede dunque di altrettante caselle ma se siete giunti quasi alla fine del percorso, poniamo alla casella 89, e se la vostra giocata è di dieci punti, arretrate alla casella 81. E questo è un guaio perché a quel punto per raggiungere la casella 90 la vostra giocata dovrebbe essere di nove punti. Se è di più il vostro contrassegno ritorna indietro. Vedete un po’ a che cosa ricorrevano i nostri vecchi per ammazzare il tempo. Ecco perché di un percorso incerto e lungo, con diversioni e ritorni, si dice che l’è ü gir de l’óca. Quando per arrivare ad un determinato luogo siamo stati costretti ad allungare il tragitto oppure quando dopo tanti passi ci ritroviamo al punto di partenza diciamo infatti che m’à fàcc ol gir de l’óca, ‘abbiamo compiuto il giro dell’oca’. I passatempi dei nostri nonni ci appaiono tutto sommato ingenui. I bisnonni amavano pure giochi di società innocui, come quelli delle cosiddette penitenze, che sfioravano appena la malizia. Non erano più i tempi delle dame e dei cavalieri che nel Settecento trascorrevano gran parte della notte nei ridotti tentando la fortuna e dissipando stupidamente i loro patrimoni: ville, case, terreni, biblioteche, quadri, statue, gioielli, tappeti, scrigni colmi di zecchini da una notte all’altra cambiavano proprietario solo a causa dell’immensa imbecillità di qualche rampollo spavaldo e svogliato. D’altro canto, certi giovani d’oggi non praticano né il gioco dell’oca né alcun altro svago delle vecchie generazioni. Vanno in discoteca ad assordarsi, a tracannare superalcolici e ad assumere droga. All’uscita poi ci scappa qualche rissa con pugni e coltelli e magari anche una bella corsa in automobile a velocità pazzesca con scontro finale e funerale assicurato. Possibile che questa società non sappia offrire niente di meglio alla gioventù? Basterebbe un po’ di fantasia, anche senza ritornare al gioco dell’oca. Ol mal de la nóna. È la sonnolenza, l’appisolarsi con il capo pencolante, il trasalire ad un rumore o ad un richiamo e il riappisolarsi, ciò che si definisce in letteratura medica ‘postencefalite letargica’ e che si riassume nel verbo bergamasco piocà, che ha relazioni con il latino pisolare e con voci popolari onomatopeiche basate sul suono gutturale –ch– espressivo dell’atto di russare. Molte malattie hanno le loro denominazioni dialettali, ad incominciare dal mal del padrù, ‘depressione’ o ‘malinconia cronica’, che è quasi come dire la biligòrnia, ‘l’umor nero’. Ecco un interessante elenco: ol mal de la lüa, ‘la fame insaziabile’, la pecóndria, ’l’ipocondria’, i balurdù, ‘i capogiri’, ‘le vertigini’, ol fürmighére, ‘il formicolio’, i convülsiù, ‘le convulsioni’, i scalmane, ‘le vampate di calore’, ol reultù, ‘il rigurgito’, la gnignèta, ‘la febriciattola’, la micrània, ‘l’emicrania’, ol scotù de sul, ‘l’insolazione’, la bósga, ‘la tosse insistente’, la bocaröla, ‘la ragade labiale’, l’orzöl, ‘l’orzaiolo’, l’orbéra, ‘la congiuntivite’, i brüsèch, ‘l’acidità di stomaco’, l’involtüra, ‘l’ernia’, ol sangh spórch, ’l’intossicazione’, ol sangh gròss (detto anche sangh ingropìt), ‘l’ipertensione’, ol sangh in aqua, ‘la nefrite’, la gàstrica, ‘la gastrite’, la góta dólsa, ‘il diabete’, ol mal del pél, ‘il patereccio’, ol mal del vèrem, ‘il volatico’, ol mal róss, ‘la risipola’, i codegòcc, ‘l’orticaria’, ol bignù, ’il foruncolo’, i scròfole, ‘la scrofolosi’, la òia, ‘l’angioma’, l’èrpetre, ‘l’herpes simplex’, ol föch de Sant Antóne, ‘l’herpes zoster’, i petechiài, ‘le petecchie’, ol mal de la préda, ‘l’uricemia’, ol seramét, ‘la costrizione al petto’, ol mal de la pónta (ma anche ol mal de la còsta), ‘la pleurite’, la pónta pulmunìa, ‘la polmonite’, ol mal bröt (ma anche ol mal cadöch), ‘l’epilessia’, ol mal sitìl (ma anche ol mal de pècc), ‘la turbercolosi’, ol mal malégn, ‘il tumore’, ol mal francés, la lue’, ol mal del gróp, ‘la difterite’, ol mal del càter, ‘il rachitismo’, la scheesséra, ‘la lombaggine’, ol sgranf, ‘il crampo’, la taràntola, ‘la corea minor’, la podagra, ‘la gotta del piede’, l’öcc pulì, ’il callo interdigitale’, i ciodèi, ‘la varicella’, i goltére, ‘gli orecchioni’, la tóss canina, ‘la pertosse’, la fèrsa, il morbillo’, ol caröl in di òss, ‘l’osteomielite’. Un tempo erano tristemente note anche la livra, ‘la lebbra’, la pèst, ‘la peste’, e la eröla, ‘il vaiolo’. Fu chiamata la grip la pandemia influenzale che si diffuse nel 1918 e che fu denominata popolarmente spagnola. Ol Martì Pìcio l’è mórt per i fastöde di óter. Sarà esistito davvero questo Martin Piccolo che si occupava tanto dei fastidi altrui da morirne di sofferenza? Può darsi. Ma noi non comportiamoci come lui e se il nostro prossimo ci angustia esponendoci il catalogo di tutte le sue disgrazie troviamo con una buona scusa il modo d’interrompere l’esposizione. Ciascuno ha le sue disgrazie, che non si risolvono andando a condolersene con gli altri. Chissà che la persona che stiamo contristando con la narrazione di tutti i nostri guai non ne abbia di peggiori dei nostri? Anche nel dolore si abbia riservatezza, si abbia dignità, si eviti di coinvolgere nei nostri affanni il prossimo, che ha già i suoi. Per il nostro egoismo potremmo caricare di fastidi qualche persona troppo generosa e compassionevole. Registro questa variante, udita in Val Cavallina: Ol Martì Pìcio l’è borlàt zó del pórtech per i fastöde di óter. Ol negót a l’è bu ’n di öcc. La locuzione, che ha valore aforistico, si usa quando si vuol far intendere che un lavoro va compensato. Il niente potrà anche andar bene per gli occhi ma non per la bocca e per lo stomaco. Primum vivere, insomma, deinde philosophari. Ol nòm di àsegn. Con un gruppo di amici osservavo una volta un’antica pittura a fresco sulla quale tanto tempo fa un imbecille con caratteri malfermi aveva inciso il suo nome. Una signora mormorò: Ol nòm di àsegn a l’è scrìcc depertöt. A me sovvenne l’equipollente motto latino: Nomina stultorum scripta sunt ubicumque locorum. Che bisogno c’è di far sapere agli altri che si è stati in un certo luogo? Che uno sconosciuto e insignificante quidam de populo tracci il suo nome su un’opera d’arte non interessa ad alcuno. L’unico risultato ottenuto dall’imbecille è quello di deturpare selvaggiamente un’opera d’arte e buon per lui che l’artista sia morto, altrimenti pescandolo sul fatto gli farebbe passare un brutto quarto d’ora. Si è diffuso purtroppo anche il malvezzo dei graffitari, che lordano edifici, muri, carrozze ferroviarie e monumenti storici con i loro disegni assurdi e velleitari. Come si è diffuso l’altro sciagurato malvezzo di sporcare i muri delle città con scritte politiche, per la più parte volgari e demenziali, espressive di animi esaltati, facinorosi e violenti, ai quali manca completamente il senso del rispetto dei diritti altrui. Le scritte sono sempre tracciate a tarda notte, quando nessuno vede, perché gli autori sono anzitutto dei miserabili vigliacchi. È questione di buona educazione, si dirà. Verissimo. Ma mancano sempre i controlli e le necessarie reprimende. Così la licenza, la maleducazione, l’arbitrio più spavaldo e il menefreghismo più sfacciato sono dilagati a causa di una tolleranza colpevole, mai abbastanza deprecata. Perché questi mascalzoni non sono mai presi sul fatto, condotti davanti al giudice e puniti con la massima severità? Perché per colpa di pochissimi idioti siamo costretti a vivere in città dove le vie e le piazze sono deturpate da disegni balordi e da scritte odiose? Sovviene il famoso distico latino: Admiror, paries, te non cecidisse ruinis / qui tot scriptorum tædia sustineas. Ol paradìs di óche. Alle persone che peccano d’ingenuità e di candore e che fanno del bene a chi non lo merita si dice che i ’ndarà ’n del paradìs di óche, dando per scontato che per la loro bontà si guadagnano il paradiso. Ma si troveranno in compagnia di altre anime semplici, poco perspicaci e simili perciò alle oche. Ol paradìs di poarècc. Così era chiamato presso i ceti popolari il letto matrimoniale. La ragione pare ovvia e alla luce di questo detto non sorprende che un tempo fossero molte le famiglie numerose. Ol pàter di racc. Era così chiamato uno scherzo fanciullesco consistente nel fare sfregare ai bambini i pugni chiusi l’uno contro l’altro oppure le punte della dita sulle guance così da procurare un certo fastidio. La locuzione, che ricorda i movimenti compiuti dai ratti, può essere usata con intento minaccioso: ghe fó dì sö ’l pàter di racc, ‘gli faccio passare un brutto quarto d’ora’. Ol sacramènt del söcher. Per la gente di Bergamo il matrimonio è detto ‘sacramento dello zucchero’ per la dolcezza che la vita matrimoniale concede agli sposi novelli, almeno in senso lato. Probabilmente l’origine del detto è da collegare con l’uso della distribuzione dei confetti, il cui ingrediente fondamentale è lo zucchero raffinato. La locuzione era pronunziata un tempo non senza una sottile ironia, dando per scontato che i giovani e le giovani di buona famiglia giungessero illibati agli sponsali. Ol süchì d’ la mél. Per significare che una persona immeritevole di comprensione e di aiuto viene troppo complimentata e compiaciuta si dice che s’ ghe à dré col süchì d’ la mél, locuzione sopravvissuta ai mutamenti del modo di vivere intervenuti negli ultimi due o tre secoli. Anzitutto va osservato l’uso integrato del verbo ’ndà, ‘andare’: infatti ’ndà dré non significa soltanto ‘seguire’ ma anche ‘assecondare’. Va considerato anche l’uso arcaico del genere femminile del sostantivo mél, ‘miele’, come sal, ‘sale’, e fél, ‘fiele’ (ma anni fa ho potuto udire anche la nòm, ‘il nome’, e öna mal, riferito a dolore fisico, evidenti esiti di neutri latini). La locuzione süchì d’ la mél presenta una falsa consonante doppia (praticamente süchì lla mél nella pronunzia corrente) onde evitare la cacofonia; originariamente la locuzione non poteva che suonare süchì de la mél ma la preposizione articolata fu poi rusticamente ridotta e contratta. A parte questi aspetti morfologici, il detto ci rammenta che i nostri contadini, in mancanza di recipienti di vetro, un tempo molto costosi, usavano spesso le zucche vuote ed essiccate per la conservazione del sale, del miele e del vino. Essendo una volta lo zucchero un genere di lusso assai raro, riservato alle famiglie benestanti, per secoli e secoli il miele fu l’unico dolcificante in uso presso i ceti popolari. Esso era conservato in una cucurbitacea un po’ stretta e allungata, quindi un süchì (diminutivo di söca, ‘zucca’). Il detto insegna che non si deve mai assecondare il prossimo con gesti servili e parole mielate: essere cortesi non vuol dire fare il lacchè. Ol sügamà de la pórta. È il mattarello, ossia, come dicono le signore bergamasche, la resura de tirà la pasta. Vuole la tradizione popolare che Gioppino, il burattino bergamasco famoso non solo per essere trigozzuto ma anche per l’abitudine di aggirarsi armato di un bastone o meglio di un mattarello (in bergamasco tarèl), fosse solito appendere questo suo bastone alla parte interna della porta di casa, dove appendeva anche la mapa, ossia l’asciugamani. Si crede che Gioppino intendesse in questo modo aver sempre alla sua portata e sotto mano il tarèl ogniqualvolta doveva correre in soccorso dei deboli e degli oppressi dando una buona scossa ai prepotenti e agl’imbroglioni.”Ghe la dó mé la resù!”, diceva Gioppino e risolveva ogni cosa al meglio con qualche colpo ben assestato del sügamà de la pórta. Ora, in un mondo come il nostro, se intendesse fare giustizia, Gioppino non saprebbe da che parte incominciare. Ol tép a l’è töt tecàt. Il detto meriterebbe una parafrasi ampia, prestandosi a riflessioni di notevole impegno concettuale. Vediamo di cavarcela alla buona. Il tempo è come un filo che non si spezza mai e che continua a scorrere senz’arrestarsi e senza mai interrompersi. L’inesorabilità del tempo che fugge è bene rappresentata da un pensiero che si ritrova fra i precetti di un autore del Seicento, Carlo Roberto Dati. Esso dice: “Il già s’è fuggito né più s’incontra; l’adesso vola né può tenersi; il poi sempre viene, ma quando arriva è passato”. Sembra un paradosso ma nel suo eterno divenire, nel suo continuo dipanarsi il filo del tempo diventa statico, possiede una certa fissità: siamo noi che ci muoviamo e che c’interrompiamo. E non sappiamo quando. Meglio così. Ma tutti tendiamo a vivere convulsamente, vincolati dagl’impegni e dagli orari, sospinti dall’ansia, pungolati dalla fretta, condizionati dalla società dell’urgenza e dello stress. Mai un attimo per contemplare un tramonto, per interrogare la coscienza, per ascoltare la voce dell’anima, per accorgerci che qualcuno aspetta un gesto o una parola. Sempre di corsa, arrabattandoci fra preoccupazioni ed impegni, travolti da un parossismo di massa che pone al vertice della scala dei valori il denaro. Un gretto materialismo c’impone di vivere in fretta per impedirci di prender fiato e di fermarci a pensare. Eppure ci son cose che vanno fatte con calma, serenamente e diligentemente proprio perché ol tép a l’è töt tecàt. Si dice che c’è più tempo che vita: significa che la nostra vita è un segmento brevissimo rispetto alla linea del tempo, della quale non vediamo né il principio né la fine. Non sappiamo se la linea è infinita: coi nostri occhi non possiamo discernerlo ma comprendiamo bene che il tempo ci sovrasta. Giunti alla maturità, sappiamo di aver vissuto perché abbiamo un cumulo di ricordi ma ci rendiamo conto che i nostri anni sono pochissima cosa rispetto ai secoli e ai millenni, che a loro volta sono ben poca cosa rispetto alle ere geologiche. E che cos’è la nostra vita rispetto ai milioni di anni-luce che impiega una stella per far arrivare il suo sfavillio fino a noi? Fermiamoci ogni tanto a riflettere. Non è sempre vero che chi si ferma è perduto. Se si ferma può ritrovare se stesso. Ol vestìt de la fèsta. Nei giorni di lavoro (in bergamasco dé d’ laùr) si vestiva un abito dimesso ma nelle domeniche e negli altri giorni di precetto, quando non si lavorava e sulla tavola si poneva la tovaglia migliore, uomini e donne vestivano l’abito festivo. Oggi si veste sempre allo stesso modo, con poca eleganza, senza più distinguere il giorno di riposo dai giorni di lavoro perché un’accolta internazionale di usurai, di strozzini, di avvoltoi e di parassiti che si arricchiscono sulla carta straccia dei titoli finanziari ha drogato il mercato della produzione e del lavoro. La presenza del sacro nei giorni festivi è stata abolita e il popolo è degradato a una immensa massa di sradicati privi di identità, una moltitudine di automi da comandare con gli slogan e da sfruttare per tutti e sette i giorni della settimana. Ol zöch a l’ val mia la candéla. ‘Il gioco non vale la candela’. L’uso della luce elettrica per illuminare le abitazioni si diffuse nella prima metà del Novecento. Quando erano ancora in auge le candele, nelle famiglie non ci si attardava di sera a giocare a carte o a dama o a qualche altro gioco se non ne valeva la pena: il costo della candela doveva essere compensato da un passatempo piacevole, coinvolgente e appassionante. La locuzione si usa per significare che non ci s’impegna in un’impresa improduttiva. Ol zöch de l’ancorina. Quando ci si trova davanti ad una situazione di cui non si sa prevedere la soluzione, si dice che l’è come ’l zöch de l’ancorina. E si aggiunge: o se la ’mbòcia o se la ’ndüìna, ‘o la si azzecca o la s’indovina’. Oggi molte persone s’illudono di poter divinare il futuro ricorrendo alle pratiche dell’occulto e della magia, estranee alla nostra cultura e alla nostra etica, pratiche ingannevoli e furfantesche, dagl’intenti truffaldini. In realtà il futuro è per metà nelle nostre mani e per metà nelle mani di Dio. Incominciamo a fare noi la nostra parte. Dice un vecchio adagio: Aiùtati che Dio ti aiuta. Che cosa volete che sappiano del futuro quelli che fingono di vedere chissà quali cose nelle carte o in una sfera di cristallo? Incominciamo noi a fare tutto ciò che possiamo e cerchiamo di avere un po’ di fiducia nella Provvidenza, come ci hanno insegnato i nostri vecchi. Öna mà de biànch. Senza diplomi accademici e senza essere frescante, l’imbianchino (in bergamasco sbianchì) sale nel sentire comune al rango di pittore perché usa colori e pennelli stendendo sui muri uno strato (o una mano) di bianco. L’accezione del detto muta se si arricchisce di un aggettivo. Se l’imbianchino ha dato öna bèla mà de biànch vuol dire che ha eseguito il suo lavoro a regola d’arte. Ma se un gaglioffo o un malandrino merita öna bèla mà de biànch vuol dire che si farebbe bene a dargli una buona strapazzata. La locuzione trae origine dall’uso di tinteggiare le pareti esterne delle case con colori biancastri, tenui e chiari: nei mesi d’inverno le contrade e i sobborghi di Bergamo apparivano meno cupi e nel periodo estivo gli edifici non tendevano a surriscaldarsi. Chi ricorda ancora il bianco predominante negli anni dell’immediato dopoguerra sui muri delle case dei nostri borghi storici e sui palazzi del centro della città trasecola innanzi ai rosa carichi, agli arancioni squillanti, ai rossi, ai verdi e alle altre inverosimili tinte con le quali di fatto si è pacchianamente tentato di conferire ad una città del Settentrione d’Italia l’aspetto di un villaggio ligure. Si vorrebbe forse vivacizzare con qualche arlecchinata coloristica l’immagine di una città? In realtà se ne è offeso e deturpato l’aspetto in dispregio di una tradizione fondata su ragioni ovvie e sacrosante. Öna mànega. Mànega per dire ‘grande quantità’, ‘mucchio’, ‘filza’, con l’aggiunta della specificazione, come, ad esempio: Öna mànega de interdècc, ‘Un’accolta di stupidi’. I contribuenti sogliono spesso dire: Öna mànega de làder. Chissà a chi si riferiranno?... Peraltro, leggo che si vorrebbe far risalire la voce lombarda mànega ad un lemma longobardo che non risulta attestato. Che bisogno c’è d’inventare un’etimologia astrusa quando esiste il latino manica? Öna nèbia issé spèssa de teà col cortèl. La fantasia popolare ama il paradosso; se deve dare un’idea della compattezza della nebbia ricorre ad una immagine efficace come questa: una nebbia tanto fitta da poterla tagliare con il coltello. È quella che ti si para improvvisamente davanti come un muro, quella che inghiotte ogni cosa e che costringe gli automobilisti a procedere lentamente con l’occhio intento alla linea bianca dipinta sull’asfalto. La conoscono bene nella Bassa Bergamasca, dove in certi inverni staziona giorno e notte per una settimana o due, dando tregua solo attorno a mezzogiorno, quando un pallido sole tenta di fare capolino dagli sfagli alti e dopo un’ora svanisce dietro il velario bianco che si distende eguale nascondendo ogni cosa, mentre un umidore gocciolante si posa ovunque e i rami degli alberi lacrimano come se rimpiangessero sommessamente le stagioni calde. Certi nebbioni si ricordano a memoria d’uomo. I vecchi narravano che nei paesi della Bassa la nebbia a volte era tanto fitta che prima si udiva lo scalpiccio dei passi e poi si vedeva la sagoma della persona: camminando per strada, bisognava stare attenti a non finire l’uno addosso all’altro. Avevano uno strano modo di chiamare la nebbia: per loro la nebbia fitta era la bórda e quando pronunziavano questa parola assumevano sempre un’espressione preoccupata, avevano un tono grave nella voce. La bórda era una nebbia fredda e molto umida, che avvolgeva tutto e che ristagnava per molto tempo paralizzando ogni attività. L’etimo ci porterebbe lontano, a ritroso nel tempo di migliaia e migliaia di anni, ad una base ritenuta indoeruropea, probabilmente bhor- o bher-, ‘portare in seno’, come se la nebbia ci avvolgesse maternamente. Òrbo, èdega! Accade che ci si affanni a cercare un oggetto senza vedere che si trova proprio vicino a noi, quasi sotto i nostri occhi. Quando finalmente lo troviamo, esclamiamo: Òrbo, èdega! Diciamo cioè a noi stessi che dobbiamo guarire dalla nostra cecità. Una certa cultura cattolica è oggi in questa situazione e si trova allo sbando più completo perché non si rifà alla dottrina e ai testi fondamentali del cristianesimo, come dovrebbe se avesse in buona considerazione la virtù della coerenza, ma è all’affannosa ricerca di punti di contatto con altre fedi e altre ideologie, nell’illusione di rinvenire altrove ciò che si trova solo nella sua tradizione e nel suo patrimonio culturale. Nel Novecento, seguendo un’asserzione espressa da Maritain nel suo “Umanesimo integrale”, si è creduto di poter considerare come verità accettabili e “incorporabili” le idee anticristiane dei pensatori atei e antireligiosi, come se Hegel, Voltaire, i philosophes, Marx, Feuerbach, Nietzsche potessero essere fatti ricondurre in qualche modo (chissà quale?) all’alveo religioso e cristiano, anziché essere ritenuti idealmente responsabili dell’instaurazione di sistemi di governo disumani e ferali come il nazismo e il comunismo, che hanno provocato tragedie immense scrivendo una funesta e infinita storia di ingiustizie, di lutti e di rovine. Tanta parte della cultura cattolica di questi anni, scambiando l’incontro e il dialogo per sudditanza, interpretando male o ignorando e disattendendo le indicazioni dei decreti del Concilio Ecumenico Vaticano II, pare ormai pendere dalle labbra di chi celebra l’ateismo e la morte di Dio e giunge a mettere in cattedra chi professa dottrine lontane ed opposte a quella cristiana: si sa bene dove si finisce lasciandosi guidare dai ciechi. O tèndem o èndem. Nessun mestiere può essere esercitato con noncuranza: se non si attende ad esso con costanza badando al suo buon andamento, si finisce per lavorare in perdita e fallire. È il mestiere stesso a dire all’esercente o al professionista: ‘O curati di me o vendimi’. Spesso le attività deperiscono se la sbadataggine e l’indolenza sovrastano la sollecitudine. Diceva Confucio: “La pigrizia cammina così lenta che la povertà non impiega molta fatica a raggiungerla”. La locuzione offre il destro per ricordare le vecchie botteghe e i mestieri esercitati un tempo come per celebrare il valore delle economie locali nel contesto di una società operosa, radicata nella famiglia e nella comunità di base. Gli artigiani trasmettevano il lavoro e l’esperienza di padre in figlio (lo attestano cognomi quali Fabbri, Calegari, Sarti, Muratori, Carbonari, Fornari) e si consorziavano in corporazioni sottoponendosi a regole severe. Parì Baco a caàl al vassèl. Traggo questa locuzione da “Motti, detti, modi di dire bergamaschi”, un libro cartonato pubblicato nel 1983 da una casa editrice milanese. Il curatore, che certo non sarà stato bergamasco, traduce così: “Parere Bacco sul suo vascello; essere molto grasso, quasi sformato”. Non ho mai udito in vita mia questa locuzione, che sarà stata proferita dai dotti bergamaschi del Seicento e del Settecento, i quali, avendo dimestichezza con la mitologia greca e romana, sapevano bene che Bacco non era capitano di vascello. Rilevo che il bergamasco vassèl va tradotto con l’italiano tino, recipiente di legno atto a contenere l’uva pigiata durante la fermentazione. Il vascello se l’è dunque sognato di notte il curatore, ingannato dall’isofonia e dalla sua evidente ignoranza del bergamasco. Evito di farne il nome e mi avvalgo dell’autorità del Petrarca: “Soleo contra quos loquor nominibus abstinere” (Sen., XV, 14). Del resto, Erostrato non meritava di passare alla storia per aver incendiato il tempio di Diana. Ma ritornando a questo strano Bacco allontanato dalle sue vendemmie e catapultato in un mare di acqua salata, viene fatto di osservare che la mancanza di competenza gioca brutti scherzi. Per ragioni che con la cultura non hanno proprio a che fare, accade spesso che tronfi ierofanti d’immensa autorità e di sconfinata dottrina (a sentir loro) al pari di oscuri scrittorelli da quattro soldi siano chiamati a occuparsi di temi e di argomenti dei quali sono perfettamente digiuni: si pubblicano libri, si allestiscono mostre, si fanno baracconate, si sprecano denaro ed energie a gabbo di discipline che meriterebbero ben altra esegesi. Frattanto campi sterminati come il dialetto e la cultura popolare si esauriscono e diventano reperti archeologici da museo. È un malvezzo che perdura. Irrimediabile. Parì borlàt zó di cóp. Letteralmente: ‘Sembrare caduto dai coppi’. Si dice di una persona malconcia e afflitta, che si trascini e che quasi non si regga, come fosse caduta dal tetto. Parì ’l fölmen. Si odono talora locuzioni come questa: L’è tat isvèlt che l’ par ol fölmen, ‘È tanto svelto che pare il fulmine’, nella quale l’uso dell’articolo determinativo sembra fare del fulmine una persona. Stanno ormai tramontando, nel generale disamore per le antiche lingue popolari d’Italia, voci come sömelèch, di area brembana, e bestéss, tipica della Valle San Martino. Alternative a fölmen, queste voci sembrano possedere nel suono alcunché di onomatopeico e non la cedono in espressività né al francese foudre né al tedsco Blitz. Chi si muove con straordinaria rapidità si può dire che vada come ü sömelèch; se poi chi ha movimenti rapidi ha anche la mano lesta si può dire che l’ gh’à ’l fà del sömelèch. Per significare che un certo fatto è accaduto in un attimo o in un battibaleno si dice che l’è söcedìt in d’ü sömelèch o in del tép d’ü sömelèch, ‘nell’attimo di un lampo’. Un tempo con le rogazioni si pregava il buon Dio perché risparmiasse ai contadini la rovina della folgore e della tempesta (a fulgore et tempestate) e le donne bruciavano alcune foglie di ulivo sull’aia. Parì sbaràt fò d’ü s-ciòp. Andare veloce come un proiettile sparato da uno schioppo. Se uno va troppo in fretta gli si può dire che l’ par sbaràt fò d’ü s-ciòp. Il mondo non è tutto a nostra disposizione e non possiamo pensare di percorrere le strade a tutta velocità: esistono anche gli altri, i quali hanno lo stesso nostro diritto di andare per la via. Troppe volte l’ambizione invita a procedere all’impazzata travolgendo chi si trova sul nostro percorso. Madame de Pompadour, favorita di Luigi XV, respirava l’aria attoscata della corte parigina e scriveva al fratello: “Dove sono degli uomini troverai la falsità e tutti i vizi di cui sono capaci”. Meglio andare un po’ più adagio, pensare a quel che si deve fare e seguire sempre i tre precetti fondamentali che ispirano il corpus giuridico di Giustiniano: Honeste vivere, alterum non lædere, suum cuique tribuere, ‘Vivere onestamente, non far danno al prossimo, dare a ciascuno il suo’. Parlà come s’ mangia. Esiste una relazione fra l’eloquio e il cibo? Si può presumere che una persona avvezza a prelibatezze e a degustazioni raffinate ami uno stile di vita ricercato e rifugga dalle volgarità preferendo un linguaggio elaborato e sostenuto piuttosto che un frasario basso, legato ad aspetti elementari e primitivi. ‘Parlare come si mangia’ è pertanto un’equazione plausibile ma viene talora usata senza il tatto necessario. Di solito si ode l’esortazione: Parla come te mànget!, ‘Parla come mangi!’. Più che espressione cordialmente confidenziale risulta essere locuzione irriguardosa, priva del senso del bon ton e dettata da una rozza supponenza che potrebbe perfino offendere la persona alla quale è rivolta. Costei infatti ha il diritto di esprimersi con le parole della sua cultura. Già Leo Longanesi nel lontano 1953 denunziava l’imbarbarimento dell’eloquio scrivendo: “Ora entrano nel linguaggio corrente frasi oscene e triviali, fino a ieri confinate nei postriboli e nelle caserme” (“Ci salveranno le vecchie zie?”, pag. 36). Piuttosto, approfittiamo dell’esistenza di questa singolare locuzione per stendere un parallelo fra il decadimento del buon uso della lingua e l’imbarbarimento del gusto e delle sane abitudini alimentari. Che senso ha trascurare e tradire l’alta tradizione della cucina italiana per abbandonarsi a cibi dannosi quali panini e hamburger con dovizia di grassi saturi e di zuccheri? La nostra ristorazione è famosa in tutto il mondo e non mancano ricettari che distillano i segreti della dieta mediterranea. Esiste una ragguardevole tradizione culinaria lombarda, non opulenta come quella emiliana e non doviziosa come quella toscana ma dotata di originalità e di fantasia. Né mancano in Bergamasca cuochi provetti e ottimi ristoranti, dove assaporare i piatti della nostra cucina pagando un prezzo onesto (cosa che ha indubbiamente la sua importanza). Dovremmo parlare una lingua evoluta, nobile e principesca se mangiassimo secondo la tradizione culinaria del Bel Paese. Rileggiamo le pagine del “Viaggio in Italia” di Guido Piovene e incantiamoci innanzi alle prose dedicate al baccalà alla vicentina, ai tartufi d’Alba, all’anguilla arrostita di Ferrara… Solo un pitocco, un burino o un paninaro che ingolla cibi da kebab sentendoci parlare potrebbe dirci: “Parla come te mànget!”. Parlà come ü lìber stampàt. Quando volevano indicare l’autorevolezza dell’eloquio di una persona, i nostri vecchi dicevano: A l’ parla come ü lìber stampàt. Se vi sentivate dire che avevate parlato come un libro stampato, dovevate compiacervi in cuor vostro del raro complimento che vi era stato rivolto: significava che avevate parlato bene, che avevate saputo esporre un concetto nei dovuti modi e come meglio non si sarebbe potuto. I nostri uomini di cultura di un tempo (innanzi ai quali gli odierni “intellettuali” tanto osannati avrebbero fatto delle magre figure) amavano parlare in dialetto, la lingua della loro gente, ma sapevano parlare e scrivere in italiano con correttezza ed eleganza, usando una sintassi elaborata. Oggi lo studio della letteratura è ingiustamente svalutato e raramente la scuola riesce ad insegnare ad esprimersi curando la proprietà dei termini ed osservando le regole grammaticali e sintattiche. Del resto, l’unica politica linguistica che da tempo si fa in Italia è affidata con incredibile incoscienza alle televisioni nazionali, dalle quali spesso ci viene rovesciato addosso senza ritegno alcuno un cialtronesco e ibrido italianese ciociaro-trasteverino. Dopo tanti sperimentalismi letterari, dopo anni di declino della qualità degli studi scolastici, essendosi diffuso un linguaggio mediatico povero e sciatto, che tradisce presunzione, superficialità e approssimazione, non capita tutti i giorni di trovare persone che sappiano parlà come ü lìber stampàt. Se non si hanno buoni studi letterari alle spalle, se di quando in quando non ci si riaccosta ad un grande poema, se non si coltiva l’amore per i classici, si rischia di smarrire il senso del comporre e dell’esprimersi. Ed è fuor di dubbio che non si possa nutrire molta fiducia di una persona che non sappia manifestare le proprie idee con parole acconce e seguendo un ordine logico. La trascuranza delle opere letterarie di respiro universale e l’esaltazione della creatività ridotta a frammento, a sensazione, spesso a pensierino infantile stanno condannando al regresso e all’imbarbarimento la nostra civiltà, che rischia di svuotarsi dall’interno perdendo i suoi valori fondanti e le caratteristiche della sua identità. Quando si è in una fase di decadenza c’è sempre chi evoca con rassegnazione i corsi e i ricorsi storici vichiani ma è molto miglior cosa il correre ai ripari prima che vada disperso ciò che si è costruito con tanta fatica. Un’oratoria vibrante e coinvolgente non s’improvvisa e costa fatica. Ma suscita ammirazione. E persuade. Parlà fò di décc. Letteralmente: ‘Parlare fuori dai denti’. Significa: ‘Parlare liberamente, in modo chiaro e sincero’. A volte costa caro: dicendo la verità si possono suscitare reazioni terribili. Parlà in bergamàsch. Un dialetto è di per sé una lingua, a scorno di quanti sottilizzano e bizantineggiano sui requisiti che un idioma dovrebbe possedere per assicurarsi la dignità, l’ufficialità e i paludamenti della lingua. La questione è attossicata dalle diatribe sui cartelli toponomastici, che alcuni hanno apposto in nome del rispetto delle culture locali e che altri si sono precipitati a togliere in nome nientemeno che dell’unità nazionale e di chissà quali frontiere aperte, come se la cultura locale non fosse degna di essere difesa e rappresentata. È un fatto che da più di mille anni esistono i dialetti italiani, alcuni dei quali hanno goduto di una certa ufficialità: i senatori della Serenissima parlavano in veneziano durante le loro sedute, il duca di Savoia si rivolgeva in piemontese ai suoi sudditi e il re delle Due Sicilie in napoletano. È pure un fatto che i nostri dialetti possiedono i loro bei quarti di nobiltà, derivando direttamente dal latino parlato, di cui conservano le strutture morfologiche. Inoltre, sono sempre stati parlati da tutti i ceti sociali. Il pregiudizio snobistico e piccolo-borghese che vorrebbe relegare l’uso del dialetto ai “ceti subalterni”, a persone rozze e poco istruite, è stato diffuso ad arte dai centralisti più reazionari, dai burocrati più ottusi, avvezzi (bontà loro) a definire i cittadini “gli amministrati”, nonché dai parvenus del neocapitalismo e della finanza, gente di pochi studi letterari, ignara dei tesori della poesia dialettale italiana. Del resto, i nostri eruditi di un tempo aborrivano il termine dialetto, importato dalla Francia imperialista e prefettizia, che con il pretesto di diffondere i “lumi” mandava in casa nostra i suoi rapinosi eserciti a spadroneggiare e a depredare. L’umanista Giovanni Bressani nel Cinquecento compose i suoi epigrammi in “bergomea lingua” e l’abate Giuseppe Rota, gran latinista, scrisse i suoi capitoli in “lèngua bergamasca”. Ricordo che Giacinto Gambirasio considerava un barbarismo l’aggettivo dialetàl e sosteneva che la voce dialèt, di acquisizione ottocentesca, fosse significativa di una politica linguistica antipopolare e centralistica. In effetti l’etnico ha sempre qualificato lo strumento linguistico, per cui un dialettofono non dice: Parle in dialèt. Dice piuttosto: Parle in bergamàsch. Posto che ogni parlata locale costituisce un immenso patrimonio di umanità e di cultura, occorre domandare quale alienante e disumano progetto si nasconde dietro l’intento politico di cancellare un autentico valore indentitario tanto fortemente radicato. Parlà francés come öna àca spagnöla. Si diceva quando si aveva a che fare con persone che, non conoscendo il francese, volevano dare ad intendere di parlarlo correntemente. Il motto risale al Settecento, allorché il francese incominciava a diffondersi come principale lingua straniera presso la nobiltà dell’Italia Settentrionale ed in particolare del Milanese, che era stato governato a lungo dagli spagnoli. Il greve ricorso all’immagine della vacca conferisce un’aura spiritosa di forte realismo alla similitudine. Parlà in pónta de pirù. Letteralmente: ‘Parlare in punta di forchetta’. Metaforicamente: ‘Parlare con sussiego e ricercatezza’. L’uso della forchetta si diffuse ad incominciare dalle famiglie patrizie, dove si osservavano le norme del galateo: fu inteso quindi come simbolo di raffinatezza. La voce bergamasca pirù è tributaria del veneziano piron. Parlà in italiano. A scorno di quanti asseriscono che noi bergamaschi parleremmo male in italiano confondendo i suoni vocalici aperti con quelli chiusi confesso di provare un’acuta nostalgia dell’italiano che avevano sulle labbra i bergamaschi quand’ero un ragazzino. Monsignori, medici, avvocati, ingegneri, professori non si vergognavano affatto di parlare a tempo e a luogo in bergamasco e prendendo pubblicamente la parola non si curavano di osservare le norme di pronunzia della scuola di dizione toscana, che insegna a dire stélle e non stèlle oppure pósto e non pòsto. L’eloquio bergamasco possedeva una sua musicalità più dolce che aspra e la si poteva cogliere nelle prediche tenute dai vecchi preti eruditi che mutavano i suoni sordi delle zeta in esse: dicevano cosciènsa, costansa, fortèssa, indirisso. I suoni delle vocali e e o componevano una musica che dai toni della più rocciosa robustezza passava a mollezze di suoni blandi, a smorzature e a sussurri incantevoli. Una musica perduta, che rivive ormai solo nella memoria. Non posso immaginare che italiano si parlerà a Bergamo fra cent’anni, sempre che l’italiano sopravviva. Ma se il centro d’irradiazione della lingua nazionale continuerà ad essere la televisione, povero italiano! Dopo gli anni Sessanta, per colpa della riprovevole ignoranza della classe politica, la scuola non ha più adempiuto degnamente e adeguatamente al compito dell’insegnamento della buona lingua nazionale ed è stata sostituita dalla televisione nazionale, gran baraccone caotico e dispendioso che si avvale di mezzi busti e di conduttori in perenne conflitto con la consecutio temporum. Troppo spesso dal teleschermo ci viene rovesciato addosso il linguaggio cialtrone dei borgatari, come se a Saxa Rubra si trovasse la sede di Teletrastevere. Quando mi telefonava Mario Dell’Arco, l’ultimo grande poeta romanesco, serntivo nel suo eloquio una musica gradevole e fascinosa. Che cosa direbbe oggi se udisse il rovinoso modello linguistico diffuso dalla televisione nazionale? Non sono soltanto le pronunzie becere a disgustare (penziero, dissaggi, zenzazione, risorza, scinguanda, bradiga e simili amenità) ma sono i toni da burini e le espressioni da trivio che fanno rimpiangere il bell’italiano dei nostri eruditi di un tempo. Parlà perchè s’ gh’à la bóca. Di uno che cianci e blateri perdendosi in vaniloqui si dice che parla perché ha la bocca. Non tutti onorano il motto antico che insegna ad oprar molto e a parlar poco. C’è anche chi fa sfoggio di dialettica per difendere una causa insostenibile ed argomenta e conciona anche quando farebbe bene a tacere. In questo caso gli si dice: Fà mia l’aocàt ciàcera!, affinché raffreni la sua loquacità e cessi i suoi sproloqui. L’enorme quantità di leggi vigenti nel nostro benedetto Paese induce all’esercizio retorico della parola. In un romanzo ormai dimenticato di Giovanni Verga, intitolato “Il marito di Elena” e pubblicato più di un secolo fa dai Fratelli Treves si legge: “Il migliore dei mestieri gli sembrava fosse quello dell’uomo di legge, una specie di prete senza sottana che confessa in casa, e si fa pagar caro i casi di coscienza delicati, che va a passeggio a spalla a spalla col sindaco e col pretore, al dopo pranzo, scappellato da tutti, salutato col grosso titolo ch’empie la bocca: avvocato!”. Categoria comunque benemerita, ancor più se le leggi, anziché poche e chiare come ai tempi dell’Italietta umbertina, sono molte e confuse. Ma il popolo, che ha le sue locuzioni, sa sceverare fra una causa buona e una cattiva e capisce quando qualcuno si spolmona in difesa di una tesi inammissibile. Insomma, si articolano i suoni con la bocca ma si parla con il cervello. Parla per té! Quando un bergamasco ode un discorso che non condivide o che rischia ingiustamente di coinvolgerlo, egli non esita a prendere le distanze da chi sta parlando e lo fa pronunziando con tono imperioso la formula: Parla per té!, il cui risoluto potere persuasivo non ammette repliche. Fra i tanti luoghi comuni che quotidianamente ci rovinano addosso dagli schermi televisivi, dalle pagine dei giornali e dalle reti informatiche c’è quello che ci vorrebbe tutti personalmente responsabili del processo storico della colonizzazione. I soloni interessati e i catoni prezzolati dell’opinionismo (attività inutile, quasi sempre tendenziosa e pertanto dannosa) ci vengono a dire ad ogni pié sospinto che noi occidentali saremmo un branco di ladri e di mascalzoni, un’accolta di egoisti e di biechi sfruttatori perché tanti anni fa siamo andati a conquistare le colonie mettendo a ferro e a fuoco e deprendendo dei territori che non ci appartengono: avremmo rubato materie prime e forza-lavoro condannando interi popoli alla miseria e alla desolazione perpetua. Posto questo allucinante assioma, qualche mente malata ne arguisce che il terrorismo esercitato contro il mondo occidentale, se non giustificabile, è per lo meno comprensibile. Niente di meglio che rispondere: Parla per té! Un italiano che vive in questo tempo non vede proprio per quale ragione dovrebbe essere chiamato a rispondere delle colpe di un processo storico che ha coinvolto le generazioni passate e che riguarda solo marginalmente l’Italia. Teognide, un poeta elegiaco megarese vissuto nella seconda metà del VI secolo a. C., lamentò che nella società del suo tempo fossero addebitate ai figli le colpe dei padri, pratica che egli riteneva ingiusta e incivile. Occorre poi dire che le operazioni coloniali dell’Italia, decise a volta a volta da un ristretto gruppo di potere del tutto estraneo alla volontà popolare, furono le più dispendiose e improduttive. Al nostro Paese non derivò alcun concreto vantaggio dall’occupazione dell’Eritrea, della Somalia, della Libia e infine dell’Etiopia, conquistata nel 1936 e perduta nel 1941. In realtà queste colonie costarono al nostro erario somme enormi per la costruzione di strade, di ferrovie, di acquedotti, di linee elettriche e telegrafiche, di piantagioni, di scuole e di ospedali, dei quali hanno beneficiato le popolazioni autoctone. Questo Occidente tanto ladro ed egoista ha mandato decine di migliaia di missionari a morire nei più sperduti villaggi del terzo mondo per testimoniare la fede, la fratellanza e la carità ma non risulta che gli sceicchi, i marajà e gli altri potentati del terzo mondo abbiano rinunziato alle loro favolose ricchezze in favore dei diseredati dei loro popoli. E noi dovremmo sentirci personalmente responsabili di colpe che non abbiamo commesso? A chi è vittima di derive ideologiche tanto mistificanti occorre dire chiaro: Parla per té! Paròle lombarde. Che il toscano l’abbia fatta da padrone nell’eloquenza volgare è un fatto incontrovertibile. Ma che al diffondersi del toscano i lombardi siano stati indotti a disprezzare i loro eloqui è cosa tanto grave da apparire inverosimile. Nell’esercizio del potere le parlate lombarde sono state perseguitate, derise e conculcate con un fanatismo degno di miglior causa. Nelle aule scolastiche l’uso degl’idiomi locali è stato per molto tempo proibito e sanzionato con castighi e percosse. Si è stupidamente indotta la persuasione balorda che l’uso del dialetto fosse tipico di persone di cultura inferiore e d’intelletto tardo e c’è tuttora gente strana che non si perita di definire i suoni delle nostre loquele sgradevoli, rozzi, irsuti. Chissà quali concetti estetici pretenderanno costoro di applicare alle lingue se nei vernacolarismi del toscaneggiare s’illudono di ravvisare una nobiltà di accenti e un’aulicità prosodica. Il fatto è che a furia di definire volgari e ostiche le nostre lingue lombarde si è ingenerata l’idea che ogni parola proferita in uno dei nostri dialetti non possa che essere volgare e sconveniente. Così i nostri docenti dei secoli passati raccomandando agli studenti di non usare termini triviali dicevano: “Non pronunziate parole lombarde”. Capitò anche a don Luigi Palazzolo, incaricato di tenere una recita di burattini per gli alunni del Seminario diocesano, di sentirsi dire dal rettore: “Non faccia dire parole lombarde ai suoi gioppini”. Il Palazzolo, che si serviva del dialetto per strappare i suoi ragazzi dalla strada e condurli sulle vie del bene, all’inizio della recita fece apparire Gioppino al proscenio in guisa di prologo. Il burattino disse: “Siamo qui per stare un po’ in allegria. Ma ghe sarà mia tat de diertìs, car i mé s-cècc. I m’à dìcc de mia dovrà di paròle lombarde. Come, per esempio…”. Ed infilzò una schidionata di quelle parole fra l’ilarità dei seminaristi e il disappunto del rettore. Non si umilia e non si offende tanto un popolo quanto deridendone e svilendone la lingua. Così si distrugge la cultura di quel popolo, se ne disprezzano i costumi, se ne cancella la storia, se ne estirpano le radici. Una volta interrotto il filo della tradizione e annientata l’identità, una volta obliterato il senso dell’appartenenza ad una terra e ad una civiltà, un popolo potrà essere sottomesso e schiavizzato, potrà essere ridotto ad un branco di pecore. La stolta accusa del localismo, che non tiene conto della comunanza delle radici latine e cristiane per tutti i popoli della Penisola, tende proprio a questo: a trasformare un popolo cosciente in una massa amorfa e ricettiva, che esegua supinamente qualunque ordine provenga dall’alto. Così mentre ci si preoccupa di salvare risorse fondamentali come l’aria e l’acqua, mentre si tutelano le specie animali e vegetali minacciate di estinzione, si inferiscono barbaramente (in nome della cultura e del progresso!) gli ultimi colpi mortali alle culture autoctone e si distruggono i resti di un immenso patrimonio millenario di cultura, di storia, di umanità. Passà da la padèla al föch. ‘Passare dalla padella al fuoco’. In italiano si dice: Dalla padella nella brace. Patì ’l gatìgol. Traduzione: ‘ soffrire il solletico’. Un parroco di un paese di montagna mi disse tanto tempo fa che la coscienza è come il solletico: c’è chi lo patisce di più e chi di meno. Lo diceva in bergamasco: “La coscènsa l’è come ’l gatìgol, gh’è chi l’ la patéss de piö e chi de méno”. E dopo una pausa aggiungeva: “Gh’è adritüra chi l’la patéss mia”. A proposito di coscienza, pare incredibile che la si voglia ricondurre esclusivamente all’attività bioelettrica e che si voglia far dipendere il pensiero dai neutroni, come vanno sostenendo alcuni scienziati, che per le loro affermazioni sembrano invadere il campo della filosofia nell’intento fin troppo evidente di cancellare la metafisica. Il gatìgol di cui argutamente parlava il saggio prete di montagna non avrebbe ragione di essere se volessimo riformulare la cosmogonia alla maniera di Leucippo, di Epicuro e di Lucrezio, i quali ritenevano che tutto il mondo, compresi gli dèi e le anime dei mortali, fosse composto di atomi. Il sostenere che l’anima sia soltanto il risultato di un processo neurobiologico attivato da un gruppo di cellule equivale ad arretrare fino all’ingenuità primitiva dell’atomismo democriteo ignorando tutto il progresso teoretico e le grandi conquiste del pensiero occidentale. Né è possibile disancorare la coscienza dall’anima e ridurre la sua voce ad un’etica naturale e relativistica. Vero è che un pensatore onesto come Norberto Bobbio si avvaleva del dubbio socratico a proposito del mistero della vita: ponendosi innanzi ai grandi interrogativi dell’origine e della fine della vita umana, Bobbio dichiarava di avvertire la religiosità del mistero. Le risposte della rivelazione cristiana non lo convincevano e tuttavia riconosceva gli enormi limiti della ragione e della scienza, incapaci di rispondere agli eterni quesiti che tutte le menti speculative si pongono. Con la differenza che a fronte di un gentiluomo come Bobbio s’incontrano spesso frotte di intolleranti i quali, consciamente o inconsciamente, fondano il loro relativismo su ragioni utilitaristiche o edonistiche. L’assopimento della coscienza, che non avverte più alcun solletico, conduce fatalmente alla negazione della vita spirituale e alla mortificazione dell’etica. E alla cancellazione delle patrie memorie, come quella di un grande patriota risorgimentale, Silvio Pellico, che fu arrestato e imprigionato soltanto per aver pacificamente manifestato le sue idee. Ma Pellico amava la sua Saluzzo e la sua gente piemontese, celebrava il sentimento della terra natia, ne difendeva i costumi, le tradizioni e la parlata, possedeva il senso della storia, professava i valori cristiani. Accantonato e ignorato, come se non fosse mai esistito. Perche infine la storia ufficiale è scritta talora con immenso e imperdonabile spirito di fazione da chi crede bambinescamente che la coscienza, composta dagli atomi e fatta funzionare dai neutroni, non sia in alcun modo accostabile al solletico. Patì ’l solèngh. È locuzione in disuso, ricordata da Carlo Cattaneo nel suo saggio “Notizie naturali e civili sulla Lombardia” (1844). Il solengo era “una tetra e arcana ansietà” di cui si diceva soffrisse un tempo la nostra gente di montagna, gente avvezza alla solitudine e al silenzio delle selve e dei dirupi. Patìn öna rama. È come dire: aver tratto un po’ di pazzia dai propri antenati o dall’ambiente che si frequenta. Se di una persona si dice che la ne patéss öna rama si vuol significare che discende da un genitore o da una famiglia avente comportamenti anormali, magari per aver sempre a che fare con gente stramba. Se la pianta non è completamente sana non lo sono nemmeno i suoi rami. Non so dire perché in bergamasco il maschile ram conviva con il femminile rama, che è voce pressoché arcaica (in effetti la si sente ormai soltanto in questa locuzione); forse perché è imparentata con il femminile raìs (accusativo latino radicem) o forse perché ‘albero’ in bergamasco si dice pianta, femminile a sua volta. Altra ipotesi da non sottovalutare è la necessità di distinguere la rama, ossia il ramo dell’albero, dal ram, metallo noto fin dall’antichità. Comunque sia, chi vive in una famiglia di squinternati o chi passa il suo tempo fra gente non del tutto registrata, ben difficilmente riesce a non esserne influenzato. Nel vocabolario trevigliese compilato da Tullio Santagiuliana (“Gente e parole”, 1975) trovo la locuzione èsghen ’na rama, ‘avere un rametto di pazzia’. Pecàt a lamentàs. A volte rispondiamo così a chi ci domanda come stiamo. Quando si gode buona salute e non si hanno preoccupazioni e dispiaceri è davvero un peccato lamentarsi. C’è purtroppo chi non si accontenta mai del suo stato. Nell’ultimo libro delle “Storie” di Erodoto si narra che Serse, sconfitto dall’esercito greco, fu costretto a fuggire precipitosamente abbandonando le suppellettili che portava sempre con sé, una quantità imponente di vasellame e di stoviglie d’oro con le quali soleva banchettare. Pausania, re di Sparta, dopo aver osservato il lussuoso apparato del re persiano, fece apparecchiare un desco con le modeste ciotole usate dai notabili della sua città. Invitò quindi al convito i comandanti delle altre città greche; quando costoro giunsero, mostrò loro da una parte gli sfarzosi arredi di Serse e dall’altra la tavola con l’umile stovigliame degli Spartani e disse: “Uomini di Grecia, vedete bene quanto era stolto il re asiatico: lui, tanto ricco, si lamentava del suo stato e giunse fin qui solo perché bramava rubarci queste nostre povere suppellettili”. Pelà la póia sènsa fàla cridà. C’è chi sa pelare la gallina senza farla strillare, il che equivale ad ottenere un determinato risultato senza creare problemi o suscitare reazioni. È un’arte difficile, nella quale si distinguono quei governanti capaci di imporre nuove tasse sensa provocare proteste e risentimenti nei cittadini. Va da sé che se i soldi prelevati attraverso la fiscalità sono spesi bene, il contribuente non è indotto a recriminare. Ma occorre anche sapere in quale misura esercitare il prelievo. Si sa dell’imperatore Tiberio, il quale rimproverò i suoi funzionari, eccessivamente zelanti nel tassare le popolazioni soggette a Roma, dicendo loro che le pecore vanno tosate ma non scorticate (“tondere pecus, non deglubere”). La locuzione bergamasca si addice dunque al concetto del buon governo, all’arte di reggere la cosa pubblica secondo buoni princìpi e attendendo al bene dei cittadini. Esiste in proposito un trattato, assai poco noto, scritto da Ludovico Antonio Muratori, il grande studioso modenese autore delle “Antiquitates” e fondatore della storia della letteratura italiana. Il trattato si oppone al “Principe” del Machiavelli e al “Leviathano” di Hobbes, s’intitola “Della pubblica felicità” ed insegna al principe ad usare il suo potere al servizio del prossimo perseguendo il bene comune. “L’imposizione dei tributi (raccomandava il Muratori) non dev’essere inutilmente vessatoria” ma finalizzata ad opere di pubblica utilità, perché il principe deve badare alla felicità del suo popolo, senza mai anteporre il suo interesse personale a quello dei sudditi. Se tutti i governanti avessero dato retta al Muratori nessuna gallina avrebbe strillato. Ma l’ambizione è cattiva consigliera e spinge spesso gli uomini di Stato ad oltrepassare il limite fra la moderazione e l’eccesso. Pelà zó la pèl del müs. Quando una certa persona la ghe péla zó la pèl del müs a un’altra, vuol dire che gliene sta dicendo di tutti i colori offendendola tanto da farla avvampare per la collera. È locuzione fortemente iperbolica. Pèl de tàmbor. Il bergamasco tàmbor indica il tamburo ma è anche sinonimo di persona di tardo comprendonio, certamente con riferimento al rumore prodotto percuotendo lo strumento. Per dire a una persona che ha la pelle molto dura e che sa sopportare colpi e contraccolpi gli si dice che la gh’à la pèl de tàmbor. E non è affatto un complimento. Per capì capésse. È un detto ironico, che si completa aggiungendo: L’è a laurà che patésse. Viene riferito a chi, pur dotato di buona intelligenza, per indolenza o svogliatezza tenta di sottrarsi al lavoro che gli è stato assegnato. Pèrd la sindèresis. Di una persona che l’àbie perdìt la sindèresis diciamo che ha smarrito il ben dell’intelletto perché assume comportamenti irrazionali, fa discorsi assurdi e compie gesti inconsulti. La sinderesi della lingua italiana è sinonimo di coscienza morale perché deriva dalla voce tardolatina syndereris usata dai filosofi medievali per indicare la capacità di distinguere il bene dal male. Anche i toscani dicono che perde la sinderesi chi non ha più la capacità di connettere, chi non ha più giudizio perché ha smarrito la coscienza di sé. Non sorprende che una voce dotta sia entrata nell’uso delle parlate popolari se si considera la benefica osmosi che ha sempre coinvolto la lingua italiana e le lingue popolari d’Italia (i cosiddetti “dialetti”). È però da segnare albo lapillo che in bergamasco la voce abbia conservato la sibilante finale: certo la gente del popolo la apprese dai nostri umanisti (ne avevamo di illustri e di famosi già nel Trecento ma nelle nostre scuole sono completamente ignorati, ad incominciare da Gasparino Barzizza, latinista insigne e autentica gloria italiana). Peraltro, la locuzione è di sconcertante attualità se riferita ai fatti di cronaca. Basterà ricordare che tempo fa un ventunenne di Long Island, suggestionato da un noto film di Oliver Stone, volendo dimostrare a se stesso di essere capace di uccidere un uomo, si procurò un revolver calibro 9 e sparò a sangue freddo sul primo passante capitatogli a tiro. Quale coscienza rimane se si propongono modelli aberranti, di gelida e crudele follia, che conducono all’esaltazione e al delirio le menti più deboli? Se la città anonima e anticomunitaria, che si può soltanto percorrere in automobile con le portiere chiuse, induce a pèrd la sindèresis fino a diventare assassini, non arrendiamoci alla “leggerezza dell’essere” ma salviamo ciò che resta dell’identità e della tradizione, della comunità e dei legami con il territorio. Pèrd la trebisónda. Si dice quando la situazione è tanto confusa che non ci si raccapezza più, si perde l’orientamento e non si sa che scelta compiere; è quasi sinonimo di perdita del ben dell’intelletto. La città di Trebisonda, che si affaccia sul Mar Nero, fu la capitale di un regno costituito nel 1204 dai crociati nel vano tentativo di arginare l’irruenza dell’espansionismo islamico. Essa cadde nel 1461, otto anni dopo la conquista turca di Costantinopoli, la città imperiale lasciata sola dai re cristiani d’Europa e messa a ferro e a fuoco dalle orde musulmane, che fecero orribile strage degli abitanti. La perdita del mercato di Trebisonda segnò un colpo disastroso per la marina mercantile veneziana, che vi convergeva per approvvigionarsi di seta, di spezie e di molti altri prodotti provenienti dall’Oriente. Perdunàga a töt méno che a la pèna. Verba volant, scripta manent: ciò che è scritto, giusto o sbagliato che sia, rimane scritto, con le conseguenze che si possono immaginare. Quod scripsi scripsi. La parola scritta possiede un’autorevolezza e una perentorietà delle quali il parlato, per sua natura labile, è privo. Un tempo, quando l’analfabetismo era diffuso ed il saper leggere e scrivere era appannaggio di una esigua minoranza, si diceva che si perdona a tutto meno che alla penna. Ma da molti anni il detto avrebbe dovuto essere riformato così: A s’ perduna a töt méno che a la televisiù, perché in questo Paese si legge poco (le buone letture essendo praticate da una esigua minoranza) e si guarda troppo la televisione. Psicologi, sociologi, intellettuali, uomini di cultura non fanno da tempo che puntare il dito accusatore contro l’infimo livello di tanti programmi televisivi e gli scienziati hanno avvertito che l’eccessiva permanenza davanti al teleschermo danneggia la salute, oltre che impedire la conversazione con i familiari e sottrarre tempo alla lettura. Invero, la televisione è diventata una cattedra di cattivo gusto e di stupidità: si trasmettono immagini che turbano, che suscitano disgusto e raccapriccio, si manca di rispetto nei confronti dei sentimenti comuni di umanità, si svillaneggia la buona educazione. Come si fa a perdonare la tanta spazzatura che lo schermo televisivo ci riversa addosso, la trasgressione sistematica dei valori e degli ideali, il vuoto etico e concettuale di tanti spettacoli idioti, il sensazionalismo, l’assenza di ogni riservatezza, la faziosità sfrenata, la provocazione, l’informazione a senso unico, asservita ad una determinata posizione politica? Come si fa a perdonare la futilità, il disimpegno, la sciatteria e la trivialità? E perché la cronaca si compiace d’insistere sugli atti più efferati, come se il mondo non conoscesse altro che l’egoismo, la violenza, la crudeltà, il crimine, ignorando le buone notizie, gli atti di onestà, di bontà, di generosità? Chi gestisce una stazione televisiva, grande o piccola che sia, dovrebbe sempre tener presente il rispetto che deve al suo prossimo perché le parole e le immagini entrano nelle case della gente senza chiedere permesso. E se esistono dei codici etici, vanno fatti rispettare. Per ol bé de la famèa. Un tempo si credeva che per il bene della propria famiglia si dovesse essere disposti a compiere qualunque azione lecita, ovvero consentita delle leggi morali (circa le leggi civili si deve sapere che non sempre coincidono con quelle dell’etica essendo talora dettate dall’egoismo e dallo spirito di fazione che può essere esercitato da una sola parte del corpo sociale). Una volta il pàder de famèa avvertiva la responsabilità della conduzione degli affari e degl’interessi domestici e seguiva la tradizione millenaria risalente alla figura del pater familias di romana memoria, quando il mos antiquus del tempo dei sette re e dei primi secoli della repubblica teneva la corruttela lontana dai focolari domestici e dalla magistrature. Ora sembra che sia stato smarrito il concetto della famiglia come struttura portante della società, a causa dell’invadenza di ideologie utopistiche e rovinose, che la prassi ha rivelato essere fallimentari. Accusata strumentalmente di presiedere a meri calcoli patrimoniali, la famiglia in realtà è stata messa in discussione perché tramanda valori limpidi e alti. Sono troppo demagogiche e fuorvianti le risposte che alle giovani generazioni vengono oggi date da correnti di pensiero superficiali, individualistiche e disimpegnate, ispirate ad un mondialismo eterogeneo, velleitario e confuso. Si sostiene che la famiglia non sarebbe fondata sul matrimonio e si propongono modelli innaturali e aberranti sull’onda di un individualismo esasperato che conduce alla perdita di ogni valore e alla rovina della società. Elementi di disordine e di disgregazione sono continuamente proposti e imposti come modelli comportamentali ai quali doversi conformare invocando farisaicamente il progresso, l’emancipazione e la conquista civile, senza capire, a causa di tanti maestri nefasti e interessati, che la società diventa sempre più egoista, violenta, intollerante e corrotta. Piàs la lèngua. ‘Morsicarsi la lingua’. Si dice quando si ode un discorso che non si condivide e si rinunzia a rispondere a tono per ragioni di opportunità. Esempio: Me só piàt la lèngua. Può apparire paradossale ma a volte costa un gran sacrificio il non rispondere a tono a certi tangheri che possono impunemente farla da prepotenti. Piàs ol gómbet. Mordersi il gomito è impresa ardua, da contorsionisti esperti. Negli Stati Uniti dicono qualcosa di simile e cioè: toccarsi l’orecchio destro con il ginocchio sinistro, per indicare un atto impossibile da compiere o una meta che non si riesce a raggiungere. La locuzione bergamasca è usata quasi sempre nella forma imperativa, rivolta a persona alterata, irata o furibonda. Per esempio: Sét nervùs? Pìet ol gómbet che la te passa la ràbia!, ‘Sei nervoso? Mòrsicati il gomito e ti passa la rabbia!’. È un buon antidoto contro la litigiosità e l’aggressività diffusa nella nostra società, dominata dalla violenza gratuita, da un individualismo scontroso, egoistico e prepotente, nemico del dialogo, dello spirito di concordia, del sentimento comunitario. Sarà una terapia psicologica paradossale quella che insegna a mordersi il gomito prima di esplodere ma costituisce indubbiamente un efficace richiamo all’autocontrollo e al buon senso. Picà sö. Indica il gesto che si compie quando si conclude un affare: i due contraenti si trovano d’accordo su tutto e ritengono che non occorra redigere una scrittura. Fra galantuomini basta la parola e ciascuno dei due interessati batte il palmo della propria mano sul palmo della mano dell’altro. Il palmo della mano dev’essere completamente aperto e la mano usata dev’essere la destra. Il gesto, non di rado compiuto in presenza di testimoni, è solenne come un rito e vale a suggellare l’intesa. Si tratta di una costumanza durata per secoli ma ormai assai poco praticata in questi tempi, nei quali non ci si cura di venir meno alla parola data e si attribuisce scarso valore perfino all’uso di mettere nero sul bianco. Tempo da facce toste. Pin pi oselì. Così principia la formula di una nota conta infantile, che trae spunto dall’abitudine dei passeri di avvicinarsi alle mense degli uomini per divorare le briciole cadute al suolo. La formula intera recita: Pin pi oselì / sóta i pé del taolì / pà mòl pà frèsch / indüìna chi l’è quèst. Dopo l’imitazione del verso del passero, che si trova ai piedi del tavolo, la conta dice che l’uccellino sta beccando frammenti di mollica di pane di giornata, fatti evidentemente cadere al suolo da un bambino. Le formule spontanee delle conte infantili fanno parte dell’antica cultura popolare, di cui costituiscono un patrimonio particolarmente interessante. Mi rattrista il ricordo penoso della lettura di una sorta di sgangherato e offensivo memoriale di Elena Gianini Belotti pubblicato diversi anni fa e intitolato appunto “Pimpi oselì”, ridondante di malanimo e di disprezzo nei confronti della vecchia società contadina bergamasca; esso tradiva una spocchiosa, ristretta e superficiale mentalità piccolo-borghese da salotto di quart’ordine, riverniciata di falso progressismo, stucchevolmente anticlericale e noiosamente radicaleggiante, del tutto incapace di comprendere ragioni e conseguenze delle privazioni, delle umiliazioni, dei disagi e delle sofferenze patite nel corso della storia dai nostri ceti popolari. Non diciamo poi dei giudizi stupidi e calunniosi sulla lingua bergamasca, definita “gutturale” (sic!), aspra e rozza. Quanta povertà concettuale in tanta sicumera! Piöcc scapàt a la lissìa. Di una persona avarissima ed esosa possiamo dire che l’è ü bröt piöcc scapàt a la lissìa, ‘un brutto pidocchio sfuggito alla lisciva’ (o liscivia che dir si voglia), una soluzione, abbastanza diluita, di soda e di potassa che veniva usata anche contro i parassiti. Non è un argomento molto piacevole ma è un fatto che la mancanza d’igiene ha sempre favorito la diffusione delle infezioni. Nel Settecento nel porto di Livorno funzionava un’infermeria nella quali erano trattenuti e isolati i marinai affetti da scabbia che ritornavano dagli scali dell’Oriente. Nello stesso secolo le dame dell’aristocrazia impreziosivano il loro abbigliamento con ciondoli d’oro che in realtà erano trappole per le pulci. E nelle scuole elementari fin dai tempi dell’unità d’Italia i maestri prescrivevano il taglio integrale dei capelli per impedire la proliferazione delle lèndene (così sono chiamate in bergamasco le uova dei pidocchi), contro le quali si usava la lisciva. Per completezza d’informazione si ha da sapere che lendenù è una persona sporca, scarmigliata, trascurata. E piöcc, ‘pidocchio’, non è solo l’insetto ma anche una persona sordida e spilorcia, una via di mezzo fra l’avaro, il parassita e lo strozzino. Dio ce ne scampi! Piö che ècc a s’ deènta mia. Più che vecchi non si diventa, dice questa locuzione che suona come una sentenza ammonitrice. Nessuno può arrestare l’incedere del tempo ma v’è modo e modo di rassegnarsi all’ineluttabile. Il barone Charles de Saint-Denis, signore di Saint-Évremond (1614-1703), avventuroso e libero pensatore normanno le cui opere tanto piacquero a Sainte-Beuve, in un suo trattatello (“De la retraite”, 1686) dedicato all’opportunità di ritirarsi dalla vita sociale prima che alla decrepitezza dei sensi si accompagni la decadenza intellettuale, scrisse: “Per quanto mi riguarda, io mi ridurrei a vivere in un convento o nel deserto piuttosto che ingenerare nei miei amici una specie di compassione. Ma la sciagura consiste nel fatto che non ci si accorge quando si diventa inetti o ridicoli. Non basta affatto rendersi conto che tutto ad un tratto si è decaduti, occorrerebbe avvertire subito quando si sta precipitando e da uomo saggio prevenire l’accorgersi da parte degli altri di tale cambiamento”. Poco più avanti egli raccomanda “contro l’ingiuria del tempo una cura diligente della propria salute”. Si tende peraltro a identificare la vecchiaia con la saggezza. Ippocrate sosteneva che la perfetta maturità si raggiungerebbe fra i sessanta e i settant’anni. Eppure non è difficile incontrare persone che a quell’età sono ancora perfettamente immature. Pisà i póm. Questa è una delle locuzioni bergamasche più fantasiose e argute perché paragona il lento abbassarsi e rialzarsi delle palpebre di una persona che stia per essere sopraffatta dal sonno all’atto che facevano un tempo i fruttivendoli di pesare le mele con la bilancia a due piatti: questi venivano fatti oscillare fino alla perfetta corrispondenza fra il piatto gravato dai pesi e quello che conteneva le mele. Non ha senso tradurre letteralmente la locuzione. Se di una persona io dico che l’è dré che l’ pisa i póm voglio dire che si sta sforzando di tenere gli occhi aperti ma che le palpebre, gravate dalla sonnolenza, oscillano come i piatti della bilancia del fruttivendolo che pesa le mele. Il detto offre il destro per ricordare colori e sapori e fragranze della frutta di un tempo, quando il mercato non si era ancora ristretto a poche qualità, prodotte intensivamente. Nessuno poi che faccia rispettare le disposizioni di legge sulla provenienza, sulla qualità, sulla categoria, sul calibro, sulla percentuale di tolleranza… Oggi per enumerare le qualità delle mele in commercio bastano le dita di due mani (golden, stark, morghenduft, gala, smith, fuji e poche altre). Una volta non era così. Gustavo Buratti, valente e indimenticabile studioso piemontese di origini bergamasche, pubblicò negli anni Novanta del secolo scorso una sua indagine condotta parlando con i vecchi contadini della collina e della pianura biellese: da essa risultava che fino agli anni Cinquanta si erano coltivate una quarantina di qualità diverse di mele, ognuna delle quali era identificata con una denominazione dialettale. La stessa cosa si potrebbe dire per i nostri broli, i nostri frutteti di un tempo, dove si producevano póm paradìs, póm moscatèi, póm ladì, póm giàss, póm madunì… Anche le pere si diversificavano in tante qualità: pir bötér, pir de San Péder, pir farinòcc, érde lónghe, piröle (famose quelle di Bianzano). Molte di queste qualità sono da considerarsi perdute. Addio, sapori di un tempo! Póera cà sènsa tècc! È un’esclamazione desolata, di chi con enorme rammarico si rende conto che, qualunque sforzo egli possa compiere, si trova a fronteggiare una situazione tanto compromessa da risultare insostenibile. I nostri vecchi proferivano questa locuzione quando gh’éra del malindà, quando cioè in una famiglia, in un’azienda, in un’amministrazione pubblica si notava un cattivo andamento. Si sa che una casa priva del tetto è esposta alle intemperie, non è più abitabile, dev’essere abbandonata e va assai presto in rovina. Così se nelle famiglie non c’è concordia, se si fa il passo più lungo della gamba e non si riesce più a far quadrare il bilancio, si passano dei guai. Se in un’azienda si commettono errori gravi sono altri guai: dipendenti che perdono il posto di lavoro, creditori che non vengono più pagati e che rischiano di fallire. Non diciamo poi se il malindà alligna nell’amministrazione della cosa pubblica. I cittadini onesti, che pagano le tasse e che osservano le leggi, si scandalizzano innanzi alla demagogia e alla sventatezza con cui a volte viene usato il denaro di tutti. Póera cà sènsa tècc! Quante volte i nostri vecchi proruppero in questa esclamazione pensando alle tristi vicende della barca nazionale! Sicuramente lo dissero quando, dopo tanta retorica e tanta esaltazione, la Patria si ritrovò prostrata, umiliata, calpestata dagli eserciti stranieri, con le città bombardate e le fabbriche distrutte, la povertà dilagante, le tessere annonarie, il nostro esercito sbandato, i profughi giuliano-dalmati scampati all’atrocità delle foibe, i forzieri del tesoro di Stato saccheggiati dagli occupanti. Si spera che le persone chiamate dal suffragio popolare a gestire il pubblico bene avvertano sempre la responsabilità di servire la comunità, resistendo alla tentazione umana di servirsi del potere. C’è tanta gente senza grilli per la testa, che non viene mai intervistata dai telegiornali ma che lavora coscienziosamente dalla mattina alla sera riuscendo, magari con qualche sacrificio, a far quadrare il suo bilancio, gente che non sa che cosa sia il malindà e che tutte le mattine leggendo il giornale è costretta ad esclamare: Póera cà sènsa tècc! Ma è tanto difficile essere parsimoniosi, previdenti e lungimiranti? A l’ ghe öl issé tat a reteciàla, chèsta póera cà? Polènta e pica-sö. Il paradosso nasconde sempre un fondo di verità, come nel caso di questo detto, che ricorda i tempi grami della carestia e della fame, quando sul desco della povera gente non c’era altro che polenta: il capofamiglia faceva penzolare dal soffitto un’aringa, che ciascun figlio toccava con la sua fetta di polenta nell’illusione d’insaporirla. In tristitia hilaris: l’ironico ricorso alla fantasia induceva a sopportare la miseria, ad esorcizzare l’inedia e la disperazione. Portà gàbola. La parola ebraica cabala o cabbala vuol dire ‘tradizione’ e nel suo significato letterale indica ciò che viene tramandato, quanto lasciamo in eredità a chi ci succede. Contiene, questa parola, una forte consapevolezza delle proprie radici, della propria identità ed esprime quindi un impegno forte per il futuro, la volontà di progredire sulla scorta delle conquiste realizzate dalle vecchie generazioni, perché non vada disperso ciò che è stato acquisito con il sacrificio da chi ci ha preceduto. La cabala ebraica originò una corrente di pensiero secondo la quale il mondo fu creato attraverso una emanazione di lettere dell’alfabeto. Nella cultura popolare del tardo Medio Evo il concetto di cabala fu associato all’idea di lettere o di numeri o di altri segni scritti da consultare e da interpretare. Si credette così di poter divinare il futuro. Paracelso dalla sua cattedra di Basilea insegnò che il sole era in armonia con il cuore e la luna con il cervello (ecco perché di una persona balzana si dice che è lunatica), Marte influiva sulla bile, Giove sul fegato e Venere, naturalmente, sul sesso. Il Manzoni usa la locuzione ordir cabale nel senso di ‘architettare un intrigo’, ‘combinare un imbroglio’, perché la gente comune faceva bene a non fidarsi troppo di certi dotti, di quelli che, sapendo leggere e scrivere, con la pretesa di indovinare il futuro ricorrevano alle cartelle della cabala per infinocchiare i creduloni e i gonzi. Naturalmente la previsione non si avverava e allora era tutta colpa della cabala, che in bergamasco suonava gàbola e che assunse così il significato di ‘sfortuna’, ‘iella’, ‘malasorte’. Di uno che paia particolarmente sfortunato diciamo infatti che l’ gh’à adòss öna gran gàbola. E se di una persona diciamo che la pórta gàbola è perché ci riferiamo ad un menagramo, ad uno che abbia fama di iettatore. Portà i ciàv in Cümü. Il detto è fra i più arguti della tradizione bergamasca. Il Tiraboschi nel suo vocabolario traduce: ‘Lasciare le voglie amorose’. Indicherebbe dunque il raggiungimento della cosiddetta ‘pace dei sensi’. Il gesto della restituzione delle chiavi era compiuto un tempo dai commercianti che alla scadenza dell’affitto per l’uso di un locale o di uno spazio di proprietà comunale cessavano la loro attività. Portàga l’aqua al mar. Sarebbe come dire: ‘Portare vasi a Samo e nottole ad Atene’. Non vale la pena di regalare acqua al mare come non non vale la pena di fare regali per avvantaggiare chi gode già di una posizione invidiabile. Il riferimento all’acqua non è casuale: le generazioni passate s’industriarono di sfruttarla convogliandola in canali per incrementare la produzione agricola attraverso l’irrigazione dei campi, per sostenere attività artigianali e per impiantare officine che contribuirono al progresso economico delle nostre comunità. Sulle rogge sorsero mulini per la macinatura del frumento, del miglio e dell’avena (che in bergamasco si chiama biada), magli per la lavorazione del ferro e del rame, segherie, cartiere, opifici per la concia delle pelli, torchi per la spremitura delle noci e del mais, folli per la produzione dei panni di lana, incannatoi per la filatura della seta, fornaci, fucine, che simboleggiarono lo spirito d’intraprendenza e l’attaccamento al lavoro della nostra gente. Portà ’l candelì. La locuzione è connessa con l’antica abitudine di far accompagnare da un fratello la ragazza che doveva uscire di sera; il fratello reggeva una candela per illuminare la via. In italiano esiste il corrispondente modo di dire:’reggere il moccolo’, che allude ad un terzo incomodo il quale si trovi suo malgrado a far compagnia ad un giovane e ad una fanciulla che se la intendono. Un tempo alle ragazze da marito, quando le nozze erano ormai vicine, era permesso di vedere il fidanzato, magari durante qualche festicciola, di solito il sabato sera. Sulla strada del ritorno il fratello chiudeva un occhio e si fermava per qualche istante onde permettere alla sorella e al promesso sposo un fugace scambio di affettuosità, come una carezza o un bacio sulla guancia. C’è da giurare che si spazientisse assai presto e che dicesse ai due innamorati: “Oh, s-cècc, müìv fò, perchè mé só mia ché a portà ’l candelì!”. La luce elettrica è una grande conquista: ha evitato ai fratelli di continuare a reggere il moccolo. Portàs inàcc. È l’infinito presente riflessivo del verbo portà seguito da un avverbio di luogo. Se si vuole, si può tradurre letteralmente ‘portarsi avanti’ ma in italiano suona male e dice poco, non ha in sé l’idea del precorrimento e il senso della previdenza, non esprime il premunirsi e il farsi parte diligente, il prevedere e il provvedere ad un tempo, il non volersi abbandonare all’indolenza e all’ozio quando si ha modo ed agio di lavorare bene e con coscienza, quando ci si può preparare alla parte più impegnativa dell’opera, fin da principio, quando s’invìa là ol laurà, per dirla con un’altra locuzione bergamasca che non si può rendere in italiano se non con una circonlocuzione. Portàs inàcc (o portàs inante, che è la stessa cosa) dice tutto della preveggenza e della lungimiranza delle generazioni che ci hanno preveduto, per le quali il buon impiego del proprio tempo era espresso da una massima valida come un assioma: Non rimandare a domani ciò che potresti fare oggi. E da un’altra massima ancor più cogente: Chi ha tempo non aspetti tempo. Questo portàs inàcc è significativo di una civiltà alta, di una cultura popolare fortemente radicata in un’etica irrobustita da una lunga e severa tradizione, della quale non ci si deve certo vergognare. Strano che si parli tanto di multiculturalità (parola con la quale troppa gente superficiale e incolta si sciacqua la bocca) e che si neghi perfino cittadinanza e spazio alla cultura che è nostra e dei nostri padri. Si ideologizza e si politicizza tutto a causa di un diffuso strabismo intellettuale e non ci si rende conto della perdita d’identità che questo grave errore comporta. Così facendo, anziché portàs inàcc, si finisce soltanto per restà indré. Quach aque de quach qualità. È un non-sense, che il poeta Pietro Ruggeri da Stabello, non immune da una predisposizione alla misoginia, fa pronunziare alla Baga Dondina, protagonista di una sua lunga composizione altalenante fra il satirico e il sarcastico. Dice infatti la donna: Dém quach aque de quach qualità, ‘Datemi qualche acqua di qualche qualità’. Si tratta di uno scioglilingua, inventato per stupire. Ogni lingua ne ha, ad incominciare dall’italiano, che si diverte a contare i trentini a trenta a trenta, a mettere le tigri contro le tigri e le capre prima sopra e poi sotto le panche. I bergamaschi non hanno voluto essere da meno. Così giocando sul doppio senso della parola sés, che vuol dire ‘sei’ ma anche ‘siepe’ (almeno in certe parti della provincia, dove non si dice sésa, come si usa invece in città), si può dire: Trènta sés piö trènta sés fà sessanta sés, ossia ‘Trenta siepi più trenta siepi fanno sessanta siepi’; ma si può anche capire che ‘Trentasei più trentasei fa sessantasei’, il che fa a pugni con l’aritmetica. Purtroppo c’è chi per pigrizia mentale non sa cogliere l’umorismo bonario e candido dei nostri scilinguagnoli e crede di fare sfoggio d’intelligenza e di buona educazione dicendoci in faccia: “Ah, ma voi bergamaschi come parlate! Non si capisce un’acca di quel che dite”. Non riesce a supporre, l’intelligentone, che è lui a non capire, visto che i bergamaschi parlando in bergamasco fra di loro si capiscono benissimo. Se uno ha tanta buona grazia, tanto riguardo e tanto acume da venire a dirci simili corbellerie in pieno viso non è il caso che ce la prendiamo troppo. Essendo privo della buona disposizione ad ascoltare e a cercar di capire, il tanghero va semplicemente servito. Gli si può beatamente dire che La à la Lala a laà a la àl, ‘Va la Lalla a lavare alla valle’, proposizione che non avremmo mai motivo di proferire e che è stata inventata apposta per stupire i gonzi. Se non basta si può aggiungere: À chèla àca là che la à ’n chèla cà là, ‘Guarda quella mucca, che va in quella casa’. Così il buzzurro se ne andrà via gongolante, convinto che il bergamasco sia proprio un linguaggio ostico e incomprensibile. Che diamine, basta poco per accontentare certa gente! Quando gh’è de mès i sólcc. Se un tempo accadeva che qualcuno agisse cinicamente pur di far prevalere il proprio interesse, i nostri vecchi commentavano la cosa con una proposizione che lasciavano sospesa, incompiuta, sottintendendone la conclusione: Quando gh’è de mès i sólcc, dicevano scuotendo il capo. Bastavano quelle poche parole a significare che un calcolo egoistico aveva preso il sopravvento sui sentimenti dell’equità e della solidarietà e che la voce della coscienza era stata messa a tacere dal dio soldo. L’espressione dialettale si ripropone oggi nella sua eloquente incompiutezza innanzi alla cancellazione sistematica sia della coscienza individuale sia della coscienza popolare da parte degli strumenti di comunicazione di massa, che trasformano l’uomo in un automa passivo sottraendogli ogni residuo valore etico. L’allettante sirena del consumismo impone una omologazione sempre più devastante; il denaro detta inesorabilmente la sua legge spietata alla quale tutti devono uniformarsi in nome del benessere economico e finanziario. Intanto si dissolvono i princìpi fondanti della società civile, scompare la coscienza di appartenere ad un comunità, i rapporti sociali diventano sempre più convenzionali, aridi e cinici quando non disumani e violenti, il popolo degrada alla condizione di una massa di sradicati e di alienati. Eppure nulla è più effimero del denaro, che non possiamo portare con noi nella tomba. Se il soldo è elevato a divinità, se diventa il solo e incontrastato valore assoluto, se viene assunto a unità di misura e a pietra di paragone dei pensieri e delle azioni dell’uomo, si è immersi fino al collo nell’immediatezza e nella fugacità, non si riesce più a pensare al futuro perché si perde la nozione del passato, si finisce per accantonare l’idea del tempo e dell’eternità. Ciò che è effimero veste allora i panni dell’assoluto e crollano tutti i valori umani conquistati faticosamente nel corso dei secoli dalle generazioni che ci hanno preceduto. I messaggi subliminali impongono i modelli di comportamento e l’immenso branco umano viene irreggimentato e condotto verso la sola meta che interessa ai grandi gruppi economici e finanziari, cosicché sembra che lo scopo della nostra esistenza consista unicamente nello spendere e nel consumare. Nella prefazione alla seconda edizione della “Vita di Gesù” François Mauriac domandava quale sarebbe stato il destino delle “moltitudini spossate e senza pastore”, “il cui gregge invade i viali delle grandi capitali e che scalpicciano dietro delle orifiamme, al servizio di dottrine che appartengono al tempo”. E se un giorno le moltitudini togliessero il simulacro del dio soldo dall’altare e lo relegassero nell’angelo più buio del tempio? Quando i bö i è fò de la stala. Si sa bene che se si lascia la stalla aperta e incustodita i buoi volentieri ne escono e vanno attorno per la campagna. Quando si arriva troppo tardi per risolvere un problema si dice che è inutile correre a chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Succede da qualche tempo che sedicenti improvvisati difensori dei dialetti spuntino come i funghi proprio quando i dialetti stessi si avviano alla dissoluzione. Questi novelli paladini dichiarano in modo sospetto di amare i dialetti ma proprio perché dicono di amarli li vorrebbero relegare in una sorta di riserva indiana, ideale per garantirne in tempi brevi l’estinzione. Sostengono, questi falsi progressisti, che il dialetto non debba assolutamente entrare in alcuna forma nelle scuole accampando pretesti relativi alla grafia e alla differenza che si registra nelle pronunzie da un luogo all’altro di una stessa provincia. Sono argomenti meschini, farisaici e speciosi. La grafia dei principali dialetti italiani, bergamasco compreso, è da tempo regolata con norme pratiche universalmente accettate; non si vede perché debbano costituire ostacolo alla lettura o alla scrittura. Circa le differenze di pronunzia, si sa che esse vanno rispettate. Ma qualcuno obietta puerilmente che così non si sa quale sia il dialetto autentico di una regione o di una provincia. Si dovrebbe sapere che il centro d’irradiazione di un dialetto s’indentifica sempre nel municipio che è capoluogo di una provincia storica o di una regione. Ma questo non deve implicare la cancellazione o la sottovalutazione delle varianti locali. Il dire, ad esempio, che non esiste un dialetto lombardo è argomento in sé ridicolo, dal momento che esiste un’area linguistica lombarda ben definita. Del resto, una regione tanto popolosa ed importante avrà pure il diritto di annoverare al suo interno delle subaree e delle varianti, senza che ciò possa costituire pretesto per declassarne le parlate. Dicono allora i sedicenti amici dei dialetti che a loro interessa che i giovani parlino in italiano e che apprendano le lingue straniere. “Non m’importa nulla del fatto che conoscano il bolognese”, dichiara Valerio Manfredi all’intervistatore de “L’Eco di Bergamo” (pag. 5, 13 agosto 2009). Importava, e come!, al Carducci, il quale, arrivato a Bologna dalla Toscana, si accorse che nella città felsinea insegnavano maestri che non conoscevano il bolognese e che ne proibivano l’uso agli allievi. Il poeta se ne dolse osservando che solo dal bolognese gl’insegnanti avrebbero potuto capire il costume, la psicologia, l’anima degli allievi. Ciò non significa che si debba trascurare l’apprendimento del buon italiano e di almeno una lingua straniera. Ma quando si affronta giornalisticamente il tema del dialetto solo per fare polemica con un partito politico si finisce per fare un pessimo servizio alla cultura, che è sempre nobile e alta anche quando si riferisce ad un territorio limitato e ad un popolo che non abbia mosso guerra ad altri popoli per sopraffarli. Infine, la velata intolleranza del monolinguismo e del monoculturalismo emerge sempre da simili interviste, nelle quali non si tiene mai conto né delle persecuzioni alle quali ancor oggi sono sottoposte le culture e le lingue locali né dello spirito di tutela e di salvaguardia che ispira le direttive del Consiglio d’Europa in ordine alle lingue e alle culture minoritarie. Teocrito nell’idillio XV scrive: “Sarà lecito ai dori parlar dorico”. Questa maturità non appartiene certo a chi fa di tutto perché i buoi fuggano dalla stalla per poi fingere di preoccuparsene. Quando i parlàa i bachècc. Se si vuol significare che un fatto è accaduto moltissimo tempo fa, in un’epoca remota della quale si è quasi del tutto perduta la memoria, si può dire che quel fatto è successo quando i parlàa i bachècc. Il tempo in cui parlavano i ramicelli richiama una mitica età dell’oro, una primigenia età saturnia priva di leggi e di gerarchie, nella quale la natura, abbandonata ad una innocente anarchia, non era sottoposta all’etica e al diritto. Forse è esistito un tempo in cui l’uomo conosceva i segreti delle piante e ne intendeva il linguaggio arcano. Nel XIII canto dell’Inferno Dante s’inoltra nella selva dolorosa “che da nessun sentiero era segnata”, stacca un rametto da una pianticella e questa con voce dolente gli grida: “Perché mi scerpi? / Non hai tu spirto di pietade alcuno?”. Il poeta s’ispira ad un analogo episodio narrato da Virgilio nel libro III dell’Eneide, quando, trovandosi nel paese dei Traci, Enea entra in un bosco di mirti e di cornioli, strappa qualche virgulto e la pianta così si lagna sanguinando: “Quid miserum, Aeneas, laceras? Iam parce sepulto, parce pias scelerare manus”. Traduco per chi non sa di latino: ‘Enea, perché mi strazi? Abbi pietà di me che sono morto, non macchiare di sangue le tue mani pietose’. Alcuni popoli antichi credevano che anche gli alberi avessero un’anima. Il nostro detto riflette quindi una credenza antichissima, di natura magica, risalente al tempo in cui l’uomo viveva costantemente a contatto con la natura e conosceva bene le piante, la loro vita, le loro proprietà. Sono nostri amici, gli alberi, ci elargiscono l’ombra e i frutti, rassodano il terreno frenando l’impeto delle acque, ricambiano l’ossigeno dell’atmosfera. Se parlassero davvero, quanti rimbrotti! Quando l’ piöv a l’ piöv per töcc. Così mi disse tanti anni fa un simpatico e saggio anziano valdimagnino soggiungendo con un sorriso arguto: “Ma chi che gh’à l’ombrèla l’ se bagna mia!”. La frase fu pronunziata con la tipica cadenza dei vecchi valdimagnini, cadenza vocalizzata di suoni alti e gravi che i giovani purtroppo non praticano, perché da Milano a Brescia, da Mantova a Varese si tende ormai in Lombardia a parlare con un birignao banale, insulso e lamentoso, tipico un tempo dei “figli di papà” più viziati. Ma veniamo al detto. Quando piove ci si bagna, perché la rìa zó bagnada. A volte piove a dirotto, con tanta forza che la par pagada. Così è non solo del tempo atmosferico ma anche delle vicende della nostra esistenza. Solo uno sciocco può sperare che il tempo si mantenga sempre sereno e che nella vita non arrivino mai i momenti delle prove e delle asperità. Ma dicendo che l’ piöv per töcc il vecchio valdimagnino sottintendeva che sotto la volta del cielo nessuno può ritenersi indenne dalle tribolazioni e dai guai (o prima o dopo arrivano per tutti, perché ognü l’ gh’à la sò crus). Soggiungeva però il valligiano nella sua ammirevole saggezza che chi ha l’ombrello non si bagna. Basta provare a stare per un minuto sotto un acquazzone e si capisce la differenza. C’è dunque chi bada a recare con sé l’ombrello uscendo di casa e chi, non essendo attento e previdente, esce di casa senza ombrello anche se il tempo minaccia, le nubi nere si affoltano nel cielo e si ode già il rumoreggiare del tuono. Venato di sottile arguzia, il motto possiede una connotazione sapienziale. Certo il vecchio valdimagnino non aveva letto Novalis ma come Enrico di Ofterdingen sapeva che per giungere alla conoscenza umana occorre abbandonare gl’itinerari ingannevoli e sinuosi ed imboccare la via rettilinea della contemplazione interiore. Quando ’l sul a l’ tramónta. Il detto si completa aggiungendo: l’àsen a l’ispónta. Non può che essere un asino chi non brilla né per puntualità né per solerzia, presentandosi al lavoro al tramonto, quando la giornata sta per concludersi. La locuzione viene pronunziata allorché si presenta qualcuno a dare una mano quando un lavoro è stato quasi interamente compiuto. La locuzione dà giustamente dell’asino ai lavativi e agl’infingardi: se tutti si comportassero come loro l’economia andrebbe a rotoli e il consorzio civile precipiterebbe nel caos. Non si dice che l’uomo debba essere schiavo del lavoro, che non debba ricevere una giusta mercede e che non debba godere di adeguate assicurazioni e di certi diritti che sarebbe un errore cancellare. Ma si dice che si deve lavorare con impegno e sollecitudine, osservando scrupolosamente i propri doveri. Quistiù de fortüna. La dea bendata non premia i meriti e favorisce spesso i tangheri e i birbanti. Pietro Ruggeri da Stabello così intitolò un suo sonetto amaro e sofferto: “Sequitur fortuna baluccos”, come a dire che la buona sorte compiace gl’insulsi e gli stolti. Se ritornasse in vita, povero Ruggeri!, chissà che cosa direbbe assistendo a certi spettacoli televisivi a quiz, dove una pioggia di denaro investe concorrenti i quali rispondono a domande che definire sceme è atto di generosa indulgenza. Chi segnò la seconda rete nel tal partita del tal campionato? Quanti anni aveva la tal attrice quando girò il tal film? Quale canzone si classificò terza al tal festival dell’anno tale? Con scempiaggini di questa risma si crede di intrattenere la gente elevandone la cultura e stimolandone l’intelligenza? Anche quando le domande vertono su argomenti un po’ meno stupidi non si va mai al di là della semplice nozione. Corre una bella differenza fra cultura e nozionismo. Il ritenere alla mente un nome o una data non è atto meritorio in sé ma soltanto esercizio della memoria, che a loro modo compiono perfino i pappagalli. Non basta la memoria e non basta neppure l’erudizione, che è una somma organica e sistematica di molte nozioni, per arrivare al traguardo della cultura, alla quale si confà l’esercizio dell’intelligenza. È l’intelligenza che si deve gratificare, non il nozionismo. Ma la cultura, che crea la civiltà, riesce ad affermarsi comunque, anche senza il denaro elargito da quiz televisivi diseducanti. Töta quisitù de fortüna, si dice a Bergamo. E si sa che fortuna e denaro sono sempre molto male distribuiti. Regordàs mia dal nas a la bóca. ‘Non ricordarsi dal naso alla bocca’. Esistono persone sbadate e smemorate, che non ricordano mai ciò che debbono fare e che non collegano mai un fatto con un altro, come non si rendono conto che il naso è posto sopra la bocca. Respónd a tóno. È tipico della pratica musicale rispondere con il tono appropriato. Per assimilazione si risponde a tono quando si replica a proposito e secondo il merito. Alcesti era un cattivo poeta e si vantava di aver scritto cento versi in tre giorni rinfacciando a Euripide di aver composto nel frattempo solamente tre versi. Gli rispose il grande trageda: “I tuoi cento versi non dureranno tre giorni mentre i miei tre versi raggiungeranno i secoli più remoti”. Altra risposta a tono fu quella che Socrate diede ad un principe il quale si vantava di aver speso una enorme quantità di denaro per fabbricarsi un bel palazzo senza minimamente curarsi di elevare il suo animo volgare. “Verranno da ogni parte per vedere il tuo palazzo, non certo per vedere te”, gli disse il filosofo. C’è gente che certe risposte se le va a cercare. Restà in camisa. Di una persona che abbia voluto affrontare impegni ingenti senza ottenerne alcun tornaconto o che abbia trascinato una causa giudiziaria finendo per sostenere spese molto onerose si dice che l’è restàt in camisa per significare che ha perduto quasi tutte le sue sostanze e che si è ridotto in ristrettezze economiche. Accade quando l’ostinazione e l’imprevidenza prevalgono sulla prudenza e sul buon senso. Restà la rèsca in góla. La rèsca è la lisca del pesce. Se a un tale l’è restada la rèsca in góla significa che non si è dimenticato affatto di un sopruso o di un torto patito e che all’occorrenza potrebbe vendicarsene. Restà servìt. Secondo un luogo comune vecchio e stantìo i bergamaschi sarebbero poco o punto cerimoniosi. Ma esistono motti che valgono a contraddire la diceria. Ad esempio, quando si era a tavola ed arrivava un ospite era di prammatica offrirgli del cibo dicendogli: Se l’ völ restà servìt… Come tante altre formule con le quali si manifestavano le buone maniere, anche questa locuzione è ormai tramontata. La mondializzazione dell’economia, che in sé non sarebbe un fatto negativo, continua ad influire pesantemente sulle opinioni e sui comportamenti delle singole persone come di intere nazioni modificando e cancellando abitudini e costumanze radicate nell’etica popolare. Restà söl bachetù. Mi rivedo ragazzo mentre osservo alcuni coetanei che spalmano del vischio su di un ramicello legato ad una gabbietta nella quale, fungendo da richiamo, si trova una cinciallegra turchina (in bergamasco ü ciüicì, parola di evidenza onomatopeica, che dà gusto a pronunziarla). I ragazzi lasciano la gabbietta con la bacchetta vischiosa sotto un albero ed ecco che un ciüicì, richiamato dal canto del prigioniero, si accosta incuriosito alla gabbietta, si posa sulla bacchetta e non riesce più a staccarsene perché le zampette sono trattenute dal vischio. Il povero esserino viene così catturato. Restà söl bachetù significa perciò fare la fine che facevano le cinciallegre e per traslato rimanere invischiati in una brutta faccenda o in una impresa rovinosa, correre un rischio troppo grosso per non essere scoperti e per non essere chiamati a rispondere. Quanti ragazzi al giorno d’oggi sapranno che cos’è un ciüicì? Peraltro, non ci si deve stupire se si vedono raramente le cinciallegre, essendo mutato l’habitat: il bosco, che un tempo era sicuro rifugio per molte specie di uccelli, ora è minacciato di morte. Gl’incivili e gli screanzati che gettano ovunque cartaccia, piatti e bottiglie di plastica e di vetro, danno manforte alle piogge acide causate dall’inquinamento dell’atmosfera; se poi non esiste salvaguardia ambientale, se i piani urbanistici e quelli paesaggistici non sono finalizzati alla tutela e alla protezione dei boschi, l’ordine e l’equilibrio della natura ne patiscono vistosamente. Continuando a non avere rispetto dell’ambiente arriverà il giorno in cui a rimanere söl bachetù saremo noi, non i ciüicì. Per il vero, esiste anche un significato arcaico, registrato dal Tiraboschi nel suo vocabolario: ‘Rimaner preso da innamoramento, invaghirsi perdutamente, essere accalappiato o cadere nella ragna tesa da una maliarda’. Comunque sia, occorre guardar bene dove si va a parare sia per non perdere denari e sostanze a causa di un imbroglio sia per non perdere il senno a causa di una donna. Restà söl góss. Di una parola che sia stata detta a sproposito o di un torto che ci sia stato fatto possiamo dire che l’ m’è restàt söl góss. Avrete pir sentito esclamare qualche volta: Chèsta la mande mia zó!, che è come dire: ‘Questa non la accetto!’, ‘Questa non la digerisco!’. Succede ogni tanto nella vita di dover inghiottire un boccone amaro; se è troppo amaro, diciamo che non riusciamo neppure a trangugiarlo e che ci rimane sul gozzo. Restà söl góss è appunto la locuzione bergamasca che esprime il senso dell’insofferenza innanzi a qualcosa d’incomportabile. Un gozzo metaforico, ovviamente, perché non saremo certamente noi bergamaschi ad avvalorare la stolta diceria accreditata da Merlin Cocai, il quale nel suo ridicolo maccheronico asserì essere la nostra montagna popolata da gozzuti. Quanto tempo è trascorso da allora! Eppure ogni tanto capita di leggere ancora su certi giornali che nelle nostre valli si troverebbero parecchi gozzuti. In realtà secoli or sono la patologia tiroidea dovuta principalmente alla scarsità di cibi salati era diffusa dal Veneto alla Sicilia e la Bergamasca fu una delle prime terre d’Italia a liberarsene tanto è vero che negli anni Cinquanta del secolo scorso, organizzandosi in quel di Albino un carnevalone e desiderando gli organizzatori rinvenire un gozzuto da incoronare coram populo durante la manifestazione, si compirono ricerche spasmodiche per tutta la Valle Seriana prima di trovarne uno solo, il quale peraltro non era affatto tardo di comprendonio e parlava assennatamente, essendo perfettamente sano di mente. Si vuole che i gozzuti siano lenti nei movimenti e intorpiditi nell’intelletto ma se pensiamo al trigozzuto Gioppino, dobbiamo riconoscerne l’indole vivace e arguta, pronta a risolvere gl’inghippi con il ricorso al sügamà de la pórta, ossia al randello che il celebre burattino bergamasco reca sempre con sé. È ben vero che spesso Gioppino si comporta come un tonto ma quasi sempre, da gran furbastro, fa finta di essere sciocco per non pagare il dazio e farla franca. Il che dimostra come le dicerie siano sovente inattendibili quando non calunniose. Dei bergamaschi sono state dette cose inverosimili, inaudite e incredibili, compresa questa scemenza del gozzo, tanto detta e ridetta che infine abbiamo rischiato di crederci un po’ anche noi. A ben pensarci, la m’è pròpe restada söl góss come un torto che non si riesce a patire. Rià la cartolina. La chiamata alle armi era comunicata dal distretto militare territorialmente competente con l’invio di una cartolina di precetto e chi si sottraeva all’obbligo incorreva in pesanti sanzioni. L’ordine era insomma perentorio e ineludibile. La locuzione rià la cartolina era usata eufemisticamente per indicare l’imminenza della morte. Un sacerdote amico andò a confortare un moribondo, il quale, vedendolo, gli disse: “Sciùr preòst, l’è dré a riàm la cartolina”. Viviamo in una società priva di valori etici e spirituali: la morte incute paura e si fa di tutto per dimenticarla. I nostri vecchi invece, interiormente più ricchi di noi, affrontavano con serenità il passaggio all’altra vita e si permettevano perfino qualche blanda ironia. Ròba dàcia piö sircada, a l’infèrno spatarada. Se si regala un oggetto, è assurdo pretendere che sia restituito: chi lo ha ricevuto potrebbe anche averlo eliminato o destinato ad un uso non conveniente. In ogni caso è come se l’oggetto fosse finito all’inferno, dal quale non può ritornare indietro. L’aggettivo spatarada (spatarà, variante di squatarà, ‘appiattire’, ‘schiacciare calpestando’) rafforza il concetto del non ritorno. Il detto invita a riflettere bene prima di regalare qualcosa essendo poi inutile pentirsi di aver compiuto un atto di generosità. Róba dés, duna quàter, rèsta sés. Letteralmente: ‘Ruba dieci, dona quattro, (ti) resta sei’. Chi ruba tanto facendola franca può anche donare qualche cosa per fare bella figura davanti alla gente e per tentare di salvarsi l’anima: gli rimane comunque una parte cospicua di ciò che ha accumulato con la frode e il raggiro. Il detto suona implicitamente a condanna di chi giustifica la disonestà mettendo a tacere la voce della coscienza. Robàga mia ’l lard a la gata. Se una persona si getta in un’impresa improduttiva o si dedica ad un lavoro mal retribuito si può dire che l’ ghe róba mia ’l lard a la gata, ‘non ruba il lardo alla gatta’. Ma quante camicie occorreva sudare un tempo se per farsi un po’ di gruzzolo si dovevano affrontare difficoltà come quella di sottrarre il lardo proprio alla gatta, che lo avrebbe conteso con le unghie e coi denti! Robà in cà di làder. Dice un adagio che s’ và mia a robà in cà di làder: il concetto sembra tanto ovvio da non richiedere considerazione o commento veruno. Invece vien subito fatto di osservare quanto disdicevole sia l’intenzione espressa dall’adagio stesso. L’andare a rubare, il sottrarre furtivamente al prossimo beni e denari non sono certamente azioni da galantuomini e nessuna ideologia, per pazza che possa essere, le può giustificare. Solo il londinese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), giustamente definito “principe dei paradossi”, poté scrivere: “I ladri rispettano la proprietà. Desiderano soltanto che essa divenga loro proprietà così che possano assai meglio rispettarla”. Se poi si crede di andare a rubare proprio nella casa dei ladri, allora significa che oltre ad essere disonesti e furfanti,, si è anche babbioni e allocchi: i ladri, esperti nell’arte di appropriarsi delle cose altrui, non si lasciano certamente derubare e colgono subito sul fatto il mariuolo inesperto. Viene alla mente la descrizione che Tito Petronio, arbiter elegantiarum della sofisticata e tralignante corte neroniana, fa di una città verso la quale si vanno dirigendo Encolpio e i suoi compagnoni, gente sbandata, senza parte né patria, che campa di espedienti e che trascorre incoscientemente da un’avventura all’altra, incapace di dare un significato apprezzabile alla propria esistenza. Dice l’autore che in quella città occorre saper sempre mentire: in essa non sono onorate le belle lettere, non s’insegna l’eloquenza, non sono lodate e premiate la frugalità e la santità dei costumi ma soltanto l’abilità d’ingannare il prossimo. Il testo di Petronio è incompleto e non si sa come andò a finire in quel luogo per Encolpio e per i suoi amici ma si rimane sconcertati al pensiero che una intera città sia costituita da persone intente soltanto a truffare per impadronirsi dei patrimoni altrui. La fittizia degradazione rappresentata dalla narrazione petroniana dissimula e al contempo denunzia il disorientamento e la opulenta decadenza della Roma imperiale, giunta ad un passo dallo sfacelo per essersi troppo allontanata dal rigore dei princìpi sui quali era sorta la res publica e dalla sobrietà delle antiche usanze. Il testo di Petronio, che per la sua scabrosità picaresca si diffuse nel mileu mondano degl’intellettuali e dei cicisbei vanesi dei Settecento, pare oggi attagliarsi a certi aspetti del mondo occidentale, esausto e sull’orlo del disfacimento. Quando tutto è dominato dalla corruzione e si confida ormai soltanto nelle ricchezze terrene, quando l’unica norma da seguire è il tornaconto individuale, allora è facile essere indotti a disconoscere ogni codice morale e a sfidare ogni legge: ecco dunque la città dei mentitori e degl’imbroglioni come metafora di una società dedita all’inganno e al furto. Nel motto bergamasco un soprassalto di residua coscienza ammonisce che non si va a rubare in casa dei ladri, se non altro perché sarebbe ben difficile riuscire a farla franca. Ma a questo punto nulla può più essere opposto alla rovina del senso morale. E il naufragio travolge l’intera società. Robà i sólcc fò de scarsèla. Si dice quando l’allettamento all’acquisto è tale da risultare quasi irresistibile. Scrisse tanti anni fa Carlo Linati in un suo elzeviro per il “Giornale d’Italia”: “Sono arrivati a questo: che se non avete un bisogno ve lo creano, ve lo istigano, ve lo cacciano in corpo a viva forza”. Robà ’l mestér. Ogni mestiere ha pratiche e norme delle quali occorre impossessarsi e non sempre chi è esperto ha tempo di insegnare a chi fa l’apprendistato; spesso il maestro per gelosia è restio a passare il testimone e non trasmette volentieri le sue conoscenze al giovane che gli sta al fianco. Ecco perché chi fa il suo praticantato deve ‘rubare il mestiere’, ovvero osservare attentamente come lavora chi è esperto per carpirgli i segreti del mestiere. Un tempo chi veniva inviato a bottega era spesso maltrattato da un padrone burbero e severo, che lo teneva all’oscuro del sapere connesso con la sua attività. Il garzone doveva dunque imparare da solo con diligenza e applicazione. Mutati gli assetti sociali, per troppo tempo si è lasciato credere che non fosse necessario compiere sacrifici e dimostrare buona volontà nell’apprendere un mestiere, come se tutto fosse dovuto. Così i giovani cresciuti nella bambagia al primo fallimento cadono nella depressione e si abbandonano alla droga. È evidente per che ‘rubare il mestiere’ occorre aver voglia di imparare. Ed è ancor più evidente che crescendo nella bambagia e senza l’esercizio della buona volontà s’impara ben poco. Saì come s’istà ’n di pagn. Prima di criticare gli altri occorrerebbe farsi l’esame di coscienza e chiedersi come si sta nei propri panni. La locuzione ammonisce a badare ad emendarci dai nostri difetti. Saì fà de Marta e de Maréa. Questa vecchia locuzione suona a lode della donna capace sia di svolgere ogni domestica incombenza, come sapeva fare Marta, sia di manifestare all’occorrenza cultura e intelligenza, sensibilità e saggezza, doti proprie di Maria. Il richiamo al Vangelo è valso in questo caso all’anima popolare per ricavare dalle due figure molto ben delineate di Marta e di Maria i simboli dell’operosità e dell’intellettualità. Saì fà de Marta e de Maréa significa insomma concentrare in sé le risorse del braccio e della mente, il che non è poco. In realtà, consuetudo est alterna natura, l’abitudine è la nostra seconda natura e se noi ci avvezziamo all’ecletticità, se educhiamo noi stessi a non fossilizzarci in una sola disciplina senza tuttavia cadere nel dilettantismo più vieto, miglioriamo noi stessi ed arricchiamo la nostra personalità. In un suo racconto il poeta svizzero Geremia Gotthelf narrò di una fanciulla che nel raccogliere fragole di bosco, preoccupata di non calpestarne neanche una, aveva acquistato scioltezza e flessuosità nei movimenti, tanto che la sua figura aveva movenze aggraziate ed ella era divenuta tanto garbata e gentile da poter essere accolta da una nobile famiglia nel suo castello. Abituata a trattare le sue fragole con delicatezza, la fanciulla era diventata un modello di grazia e di raffinatezza. Non è così solo nelle fiabe dei poeti: le donne capaci di fare da Marta e da Maria esistono davvero. Saìghen öna pàgina de piö del lìber. Di un saputello si dice che sa una pagina di più del libro. Saìghen öna piö del diàol. Si dice anche: Íga ’l diàol de la sò, ‘Avere il diavolo dalla propria parte’. Sono gli uomini a dire che le donne ne sanno una più del diavolo. Comunque sia, è certo che la farina del diàol la fenéss in crösca. Saì gna de che banda l’ nass ol sul. Di un tonto che assommi in sé ingenuità e ignoranza si può dire che l’ sà gna de che banda l’ nass ol sul, ‘non sa nemmeno da che parte nasce il sole’. Saì gna de mé gna de té. Si corre il rischio al giorno d’oggi di ridurre il senso dell’identità di un popolo e di una nazione all’enogastronomia e all’oggettistica artigianale. Se vi azzardate a qualificarvi con temi e discipline di maggiore impegno, subito qualche tanghero isterico rozzamente avvolto nei cascami di vecchie ideologie fallimentari e disumane si permette di offendervi dandovi del localista ottuso e retrivo. Se poi osate rivendicare l’esistenza di una millenaria cultura autoctona e reclamate per essa il sacrosanto diritto al rispetto, alla sopravvivenza e alla tutela, eccovi messo ferocemente all’indice dai globalizzatori e dai mondialisti, dai propagandisti più o meno occulti del consumismo e dai bolsi pantofolai della rivoluzione, nullafacenti minacciosi e vocianti in nome di chissà quale distorto e delirante concetto della democrazia. Secondo questi progressisti da strapazzo dovremmo perdere tutti i nostri connotati, diventare esseri umani intercambiabili e inespressivi, insapori e inodori, che i sà gna de mé gna de té, per dirla con una locuzione bergamasca ancora molto usata, diventare insomma automi col cervello programmato per far piacere all’egualitarismo becero dei conformisti. Ma per non sapere né di me né di te occorre essere senza popolo e senza patria, credere soltanto nell’esistenza dei beni materiali e perseguirne il possesso e il godimento escludendo a priori ogni altro fine. Era Adam Smith a dire che il mercante non potrebbe aver patria, agendo solamente in quanto mosso dall’interesse. Per converso i teorici marxisti anteposero al concetto di patria e di popolo quello di classe sociale, da internazionalizzare per la conquista del potere (salvo poi, dopo la conquista, riscoprire la patria in chiave nazionalistica e militarista opprimendo i popoli con l’instaurazione di regimi carcerari soffocanti e criminosi, trucemente polizieschi e liberticidi, come la storia documenta in modo incontrovertibile). Nell’identità debole, sfilacciata e depressa, si logorano i valori religiosi, etici, civili e sociali che reggono e che difendono una comunità. Una gestione relativistica dei mezzi di comunicazione di massa (televisione, giornali, cinema, pubblicità, reti informatiche) sta diffondendo una sorta di atarassia epicurea che porta all’indifferenza, all’individualismo egoistico di chi l’ sà gna de mé gna de té. Ed ecco rispuntare, novelli clerici vagantes, gli apolidi e i deracinés assunti a modello di una società scialba, nella quale la libertà è priva di contenuti etici. Si costruisce così una società senza memoria e senza futuro, che non sa né di me né di te, fondata sulle sabbie mobili di un multiculturalismo che mitizza le culture esotiche e che disprezza e oblitera la cultura autoctona rinnegandola e perseguitandola fanaticamente. Continuando ad annacquare e a indebolire l’identità storica si smarriscono i punti fermi della nazionalità e della libertà. Così ora in nome dei popoli europei pretende di parlare gente che ha ignorato lo spirito e l’eredità di Cluny nei suoi valori non solo religiosi ma anche filosofici, culturali, artistici, scientifici, nell’illusione che l’economia e la finanza bastino da sole ad assicurare il progresso e la libertà. Saì mia a che pianta impicàs. È il colmo della disperazione: essere precipitati in tanto sconforto e in tanta desolazione da non sapere neppure a che pianta potersi impiccare. Nel ricorso al paradosso la fantasia popolare ottiene spesso effetti efficacissimi. Saì piö che sant ciamà. È la locuzione dei disperati, che non sanno più a quale santo rivolgersi per uscire da una situazione inestricabile. Chi si sente oppresso da uno stato di cose che gli pare irrimediabile forse ha perduto la fiducia in se stesso; ma se ha smarrito le sue certezze, se non si sa più orientare perché ha perduto la bussola, che cosa può fare il santo? Secondo le statistiche (da prendere sempre con le molle, come del resto i sondaggi, non di rado manipolati e ingannevoli) più del venti per cento della popolazione sarebbe affetto da disturbi di tipo depressivo. Sulle componenti somatiche e biologiche dovrà esprimersi il medico. Ma le concause di tipo socioculturale e psicologico richiederebbero altri interventi e altre terapie. La noia di ogni cosa e il senso di inutilità che conduce a pensieri ossessivi di morte, l’assunzione di stupefacenti che distruggono la salute sono fenomeni diffusi che non si curano con le frivolezze e gli ottimismi a buon mercato di cascami e di pateracchi filosofici alla new age: per essere sicuri di se stessi non basta guardarsi allo specchio ogni mattina e tentare di autoconvincersi che si vivrà una bella giornata. Maritain aveva colpito nel segno descrivendo la vicenda di Raïssa e Jacques, i quali, indotti a ritenere la vita soltanto un accidente della natura a causa della mentalità relativistica di certi scienziati e dei pessimismi di certi filosofi fin de siècle, si erano rassegnati a considerare il suicidio unico rimedio alle difficoltà della vita, presentata come “teatro di lacrime e di sangue”. Ha un senso votarsi al santo se si vuole capire quale significato assuma la vita umana. I santi hanno trovato la pace e la gioia spirituale nell’Aldilà perché hanno vissuto secondo la volontà di Dio: essi si pongono come esempi da ammirare e da seguire. I nostri vecchi li onoravano molto di più di quanto facciamo noi e a seconda delle circostanze sapevano a quale santo appellarsi. Se infuriava una pestilenza si rivolgevano a San Rocco, che si vede spesso raffigurato mentre mostra un bubbone o una piaga su di una gamba, se erano affetti dall’herpes zoster invocavano Sant’Antonio abate, raffigurato spesso con una fiammella sul palmo di una mano (l’affezione è comunemente detta fuoco di Sant’Antonio). Ma i nostri vecchi sapevano che la vita non è fatta solo di lacrime e di sangue e avevano fiducia nella Provvidenza: per questo avevano sempre un santo al quale votarsi. Salvà la pansa per i fich. Come tanti altri modi di dire, anche questo si ode sempre di meno, forse perché i fichi sono ormai considerati da tempo frutti poco pregiati. ‘Salvare la pancia per i fichi’ significa: ‘Evitare di esporsi a pericoli gravi’, come chi s’imbosca in tempo di guerra per salvare la pelle. Sopravvivendo, oltre a salvare la pelle si può ancora godere dei piaceri della vita, ad incominciare dal sapore dolce dei fichi. Saltà la mósca al nas. Vale per ‘alterarsi’, ‘arrabbiarsi’ o, meglio ancora, ‘montare in furore’. Di solito accade al colmo di una discussione animata, quando si perde la pazienza e ci si deve dominare per non commettere uno sproposito. Le mosche, si sa, sono insetti assai fastidiosi, anche per la loro abitudine di posarsi ovunque, magari anche sul naso. Saltà ’l fòss. Il “Piccolo vocabolario bergamasco-italiano” di Marco Carminati e Gian Giacomo Viaggi, stampato a Lovere nel 1905, alla voce saltafòss traduce ‘agrimensore ignorante’. E Tullio Santagiuliana nel lessico trevigliese annesso al suo “Gente e parole” (1975) traduce saltafòss con ‘agrimensore’ ma avverte trattarsi di voce scherzosa. È lecito domandarsi perché un agrimensore di scarse capacità potesse essere dileggiato e definito saltafòss. Si può rispondere con un’altra domanda: che affidamento avrebbe mai dato una persona disposta a saltare un fosso, scegliendo, a seconda della convenienza, se stare da una parte o dall’altra? A ben considerare, nel nostro territorio c’era davvero un fosso storico che poteva essere saltato da una sponda all’altra quando si doveva salvare la pelle: era il Fosso Bergamasco, un vallo risalente alla seconda metà del Duecento, che servì da confine in una estesa plaga aperta, contestata da bergamaschi, milanesi e cremonesi; il confine, stabile e visibile, durò fino al 1797, quando l’armata napoleonica invase il territorio della Repubblica di Venezia. Il corso d’acqua non era né grande né profondo e in certi punti boscosi e poco vigilati, lontani dai centri abitati e dalle cascine, poteva essere tranquillamente attraversato a cavallo, soprattutto alle prime luci dell’alba o al tramonto del sole, quando non v’era attorno anima viva. Chi saltava il fosso non era quel che si dice uno stinco di santo e aveva sempre qualche buona ragione per cambiare aria e stato: bravacci colpiti da una sanzione penale, grassatori, ladri, briganti, assassini, contrabbandieri, ciurmadori, ribelli, perseguitati politici. Non è un caso che l’Innominato manzoniano sia esistito veramente e che, fuor della magistrale finzione artistica del romanzo, sia vissuto a Brignano, a un tiro di schioppo dal Fosso Bergamasco. Riccardo Bacchelli nelle “Passeggiate orobiche” ricorda il proverbio Paìs de confì, o làder o assassì, non perché fossero assassini quelli di Brignano ma perché lo potevano essere quelli che attraversavano alla chetichella il Fosso Bergamasco da quelle parti. Ancor oggi ad una persona che abbia mutato idea, che abbia cambiato bandiera, che sia passata da un partito a un altro diciamo: T’é saltàt ol fòss. Parlandone con altri lo definiamo saltafòss. E non gli facciamo certo un complimento. Salüte e valüte. Così dicevano i nostri vecchi quando volevano significare una condizione privilegiata, concessa a pochi e solitamente per tempi non molto lunghi. Si fa presto ad invidiare ma non si sa se colui che ci appare in ottima salute lo sia veramente e se quello che crediamo nuotare nell’oro viva felicemente e sia in grado di usare il suo denaro con intelligenza. Benedette valute, che in bergamasco suonano sólcc, franch, palanche e ghèi. In Valle Imagna ho sentito anche dire pìlter e blösegn. Facendo con il pollice e l’indice il gesto tipico di chi conta le banconote un vecchio valdimagnino tanti anni fa mi disse: Sènsa blösegn a s’ fà dét negót, ossia: ‘Senza soldi non si combina niente’. Per quanta confidenza i bergamaschi abbiano avuto con la lira (non solo quella italiana, introdotta dopo l’unità politica d’Italia, ma anche quella milanese e quella austriaca) ed abbiano ora con l’euro, ho sempre sentito parlare di franch per le unità e di ghèi per i centesimi. Sólcc e palanche sono invece voci generiche per indicare il denaro. Coi palanche s’ pöl fà töt, dice un proverbio, che attribuisce al denaro più potere di quanto effettivamente abbia. Un altro insegna: Coi sólcc a s’ quàrcia zó di gran laùr. Insomma, con il denaro si cancellano tante colpe, si mettono a tacere tanti rimorsi. Ma ecco una verità apodittica: I sólcc i dà mia la salüte. Ed ecco un’altra verità assiomatica: I palanche i dà mia la felicità. Quindi non possiamo augurare al nostro prossimo niente di meglio e di più che avere insieme salute e denaro. Salüte e valüte l’è ü bèl campà. Finché dura. S’à mai ’mparàt assé. Non si è mai imparato abbastanza, dice il saggio. Lo dice anche il vero artista, che si pone sempre nuovi traguardi e che resta inappagato pur avendo raggiunto risultati apprezzabili. Un grande pittore ed incisore giapponese, Katsushika Hokusai, giunto alla maturità, disse una volta: “A tredici anni sapevo disegnare un paesaggio, a venti sapevo disegnare un albero, a quaranta un ramo, ora che ho sessant’anni sono capace di disegnare una foglia. Se vivrò ancora per dieci o vent’anni, spero di riuscire un giorno a disegnare soltanto un punto sulla tela bianca e quel punto avrà un significato”. Morì ottantanovenne dipingendo opere pregevoli senza mai vantarsene, convinto di dover sempre imparare e rimproverandosi di non aver saputo fare di meglio. La consapevolezza dei propri limiti conduce alla modestia, all’autocontrollo e alla voglia di apprendere. Ma nel mondo in cui viviamo tutto è chiasso e vanagloria, esiste solo lo spettacolare e il sensazionale: cose insignificanti, provocatorie e offensive dell’intelligenza sono presentate a colpi di grancassa, trionfano il vuoto concettuale e il disimpegno, la cultura e l’arte sono scambiate per fenomeni da baraccone. A Barnum, impresario del celebre circo, fu domandato come avesse fatto a trarre tanto profitto dalla sua attività. Egli rispose che essendo le persone intelligenti assai poche e quelle di poco senno moltissime, aveva divisato di rivolgersi ai più. Honny soit qui mal y pense. S’à mai tocàt ol fónd. Diciamo così quando al peggio segue il peggio, quando dalla padella si finisce nella brace. Tutti ricordano l’aneddoto della vecchietta siracusana che supplicava ogni giorno gli dèi di concedere una lunga vita al tiranno della città. Venutolo a sapere, costui mandò a chiamare la donna e le domandò: “Perché tu ti rivolgi agli dèi pregandoli di farmi vivere quando io so che quasi tutti i miei sudditi mi maledicono ad ogni pié sospinto e mi augurano di morire?”. La donna rispose: “Io sono molto vecchia ed ho visto sedere sul trono tuo nonno e tuo padre prima di te. Tuo padre era più cattivo di tuo nonno e tu sei più cattivo di tuo padre. Alla tua morte ti succederà tuo figlio, che è molto più malvagio e crudele di te. Ebbene, spero che tu possa campare tanto da sopravvivermi così che io non veda tuo figlio sul trono”. La vecchietta siracusana sapeva bene che non si tocca mai il fondo e che non esiste mai un limite alla malvagità, al vizio e al degrado. Del resto, nei “Cenni sintetici sulla necessità di educare la gioventù collo studio della storia”, redatti dal professor Carlo Ricci, socio (beato lui) dell’Accademia “Pico della Mirandola” e pubblicati a Torino nel 1873, si legge che “nelle scienze morali è in tanta miseria traboccata l’età presente che a ragione chiamar si può, di fronte ai tempi antichi, incomparabilmente inferiore”. Ma oggi che cosa direbbe il professor Ricci, il quale riteneva che “purtroppo sulla terra il numero dei tristi supera di molto quello degli ottimi?”. Egli raccomandava di studiare la storia, secondo una famosa esortazione rivolta da Ugo Foscolo agli studenti pavesi. Lo studio della storia dovrebbe far capire che è assai più facile precipitare nell’abisso che risalire una china. San Piéro giüdica ’l véro. Aforismi, sentenze e locuzioni tipiche sopravvivono talora alle circostanze che le hanno originate ma con il passare del tempo non se ne comprende più il senso. È il caso di questo detto. Si crede di spiegarne il significato con il fatto che San Pietro giudicherebbe le anime davanti alla porta del Paradiso. Non è così, ovviamente. Vi fu un tempo nel quale i nostri Comuni, ribellatisi al potere imperiale e alla supremazia dei feudatari (è solo il caso di richiamare alla memoria la battaglia di Legnano), si diedero degli statuti con i quali regolarono le loro attività. Sorse la consuetudine per i tesorieri di rendere i conti due volte all’anno, il 29 giugno, festa dei Santi Pietro e Paolo, e il 31 dicembre. Dunque, nel giorno di San Pietro i revisori comunali controllavano i conti resi dal tesoriere per accertare la regolarità delle entrate e delle spese. Le leggi erano perentorie, il tesoriere e i revisori vi si dovevano assoggettare pena forti ammende e il controllo dei consiglieri e dei capifamiglia era fortissimo: un comportamento anomalo non passava certo inosservato: lo spreco del pubblico denaro e le allegre gestioni che hanno dissestato la finanza pubblica italiana sarebbero stati allora colpiti con la massima severità. Quanto vale oggi il sacrosanto istituto della delega se all’organizzazione articolata dei poteri e dei compiti non corrisponde un’organizzazione efficiente ed efficace dei controlli? Lo spirito di specchiata onestà che animava gli amministratori dei Comuni medievali proveniva da un forte senso identitario, dalla consapevolezza dell’appartenenza ad una comunità e ad un territorio che andava difeso. L’incarico pubblico era inteso come un servizio alla comunità, alla quale rendere conto del proprio operato. Sant Imbù l’è ü gran sant. Sant’Omobono Tucenghi, morto a Cremona nel 1197, era un produttore e commerciante tessile tutto dedito alla beneficenza e al soccorso dei poveri. Dopo la sua morte fu oggetto di venerazione; gli furono attribuiti dei miracoli e venne senza indugio canonizzato. È ritenuto protettore dei sarti e più in generale dei mercanti e dei commercianti. I suoi resti mortali giacciono tuttora nella cripta della cattedrale di Cremona. Perché la parrocchia di Mazzoleni, che fa parte del Comune di Sant’Omobono Imagna, sia dedicata proprio al santo cremonese non è facile dire ma vien fatto di pensare alla tradizione della pastorizia, che secoli or sono era assai diffusa in Valle Imagna; nella transumanza le greggi raggiungevano la pianura cremonese, dove probabilmente i pastori facevano commercio della lana, che esitavano a poco prezzo (la pecora gigante bergamasca non dà una lana molto pregiata). Perché poi nella lingua locale si dica Sant Imbù attiene alle mutazioni fonetiche: uomo buono si dice ancor oggi in bergamasco òm bu e quindi da Sant Òm bu a Sant Imbù il passo è breve, tenendo conto dell’attrazione esercitata sulla vocale atona dal suono ù conclusivo. Resterebbe da spiegare perché si dice: Sant Imbù l’è ü gran sant ma de meràcoi l’ ne fà gran póch. Meno male che ne fa pochi! Altrimenti si finirebbe per dimenticare il valore dell’esortazione: Aiutati che Dio ti aiuta. Troppo comodo aspettare il miracolo del santo. E la buona volontà dove la mettiamo? I valdimagnini si traggono sempre d’impaccio grazie alla loro grande tradizione di laboriosità: sanno che il santo ha tutto il diritto di fare i miracoli se e quando vuole, meritando di essere venerato per come è vissuto. Sbàtes mia zó i ónge. Non rovinarsi le unghie. Se un tale, compiendo un certo lavoro o dedicandosi ad una determinata attività, a l’ se sbat mia zó i ónge, vuol dire che non si spreca affatto e che si guarda bene dall’affaticarsi: certamente non si consumerà le unghie. La locuzione non è usata solo a proposito di lavori manuali, attagliandosi a persone flemmatiche, pigre e indolenti. Viene alla mente una quartina romanesca del Belli: “Tutta la mi’ passione, Sarvatore, / sarebbe quella de nun fa’ mai ggnente; / e quando che sto in ozio, propriamente / me pare, bbene mio, d’esse un zignore”. Proprio così, zignore con la zeta iniziale, come sentiamo troppo spesso dire alle televisioni nazionali, inflazionate dalla presenza di gente raccogliticcia che non sa pronunziare correttamente la lingua italiana e che la se sbat mia zó i ónge per impararla. Anziché dire “la pratica del concorso” dicono “la bradiga del gongorzo” e con simili accentacci da marrani e da borgatari avrebbero la presunzione di insegnarci a parlare in buon italiano. Nessuno che li cacci via! Sbat fò ’l caröl di pórte. Significa: ‘Mendicare con insistenza’. Il detto, molto realistico ma ormai in disuso, dà l’idea del bussare ripetuto e del colpo dato alla porta con il battente, un colpo tanto energico da far uscire il tarlo dal suo pertugio. Sbat i mà. ‘Battere le mani’, ovvero: ‘Applaudire’. Già lo facevano gli spettatori del teatro greco classico. Il vanesio Nerone giunse ad assoldare cinquemila giovani perché lo applaudissero quando si esibiva cantando e accompagnandosi con la cetra. Anche negli odierni studi televisivi si applaude a comando per indurre consenso, nonostante il livello miserando di moltissimi programmi. Nella società di massa i valori sono sistematicamente distorti e i meriti sono spesso attribuiti ad autentiche nullità. Mai come ora ha senso la locuzione bergamasca: Sbàtega i mà al prim bambo che passa fò per la strada, ‘Applaudire il primo sciocco che passa per la strada’. Schèrs de prét. I nostri preti di una volta (come quelli di adesso, del resto) erano sempre in attività e non avevano tempo da perdere. Tuttavia molti di loro erano sottilmente arguti ed alcuni giungevano ad architettare scherzi e giocare tiri tanto bene studiati che ancor oggi non se n’è perduta interamente la memoria. Basterebbe evocare lo stratagemma adottato da don Faustino Premerlani, cappellano delle carceri di Sant’Agata, per essere nominato vicebibliotecario civico di Bergamo. Si rivolse a ciascuno dei cinque componenti della commissione incaricata della nomina con un discorsetto più o meno come questo: “Lei sa che ho presentato la domanda per accedere al posto di vicebibliotecario. So bene che altri concorrenti sono più titolati di me e che pertanto non ricoprirò mai quel posto. Tuttavia oso rivolgermi a lei per pregarla di assicurarmi il suo voto. Che figura farei se non ricevessi nemmeno un voto? Lei capisce, un voto basterebbe a salvaguardare la dignità dell’abito talare che indosso. La cosa però è molto delicata e io le raccomando di non parlarne mai ad anima viva né prima né dopo la votazione. Che cosa direbbe la gente se si venisse a sapere di questo nostro colloquio? Resti dunque un segreto fra me e lei”. Così all’atto della votazione don Premerlani ricevette cinque voti e fu eletto vicebibliotecario all’unanimità. Storia vecchia ma vera, risalente alla seconda metà dell’Ottocento. Un altro pio e zelante sacerdote che possedeva il talento della celia era don Bettinelli, popolarmente noto come don Betì. Egli si divertiva talora a burlare gli amici, come quella volta che ne convitò alcuni per una cena a base di polenta e uccelli. La sera stabilita ecco giungere gli amici, accolti con mala grazia dalla domestica, la quale disse loro che don Bettinelli era assente. Li fece accomodare in tinello, additò un piatto di rape cotte e disse aspra: “No gh’è óter”. Figuriamoci la delusione e i mugugni degl’invitati, i quali, dopo aver assaggiato per creanza le rape, si disposero mogi mogi ad andarsene. Avevano ormai raggiunto la porta quando ecco ad un tratto apparire don Betì, che trattenne gli amici dicendo loro: “’Ndo ’ndìv, teréboi?”. E li guidò alla volta della sala da pranzo, dove troneggiava sulla tavola una regale polenta fumante sormontata da croccanti uccelletti e scortata da boccali del brioso vinello dei colli orobici. Quando si dice schèrs de prét… Scörtà ’l camisì. Quando in una famiglia nasceva il secondogenito si diceva al primogenito: I t’à scörtàt ol camisì, letteralmente: ‘Ti hanno accorciato l’abituccio’. Il primo nato capiva che avrebbe dovuto compiere delle rinunzie a favore del fratellino o della sorellina. Scuà i fòie quando gh’è sö ’l vènt. Quanto debole e fragile è la natura umana se può permettere che si compiano azioni inutili e stupide come quella di andare a scopare le foglie quando soffia il vento! Il detto sembra ammonire che intelligenza e saggezza non sono la stessa cosa. L’intelligenza può essere sprecata senza la saggezza. Giunge fino a noi il grido di Ovidio: Video meliora proboque, deteriora sequor. Perché vediamo ed apprezziamo le cose migliori e tuttavia siamo tanto deboli da cedere alle lusinghe delle cose peggiori, che finiscono per danneggiarci? Nella formulazione di questa locuzione bergamasca si avverte come un tono di commiserazione verso chi spreca la sua fatica in azioni improduttive Scuà ’l mar. È locuzione che si ode solitamente nella forma esortativa: Và a scuà ’l mar!, che viene pronunziata al termine di un alterco o di una discussione inutile, non intendendo l’interlocutore ragione alcuna. A persona che non capisce perché non vuol capire non si può che dire di andare a compiere un atto inutile come quello di scopare il mare. Se Bèrghem la föss al pià. Se Bèrghem la föss al pià – ho sentito dire talvolta dai nostri vecchi – la sarèss piö bèla de Milà (una volta mi è stato detto piö granda). Bergamo, città antichissima, centro geografico e cuore della Lombardia, sorta assai prima di Roma e di Milano, edificata sulla linea dei colli prealpini, ha una storia millenaria che pochi bergamaschi conoscono. Ancor oggi nelle nostre scuole la storia s’insegna prescindendo dai valori locali: si abita una città, si appartiene ad un territorio ma la scuola italiana non educa alla conoscenza e all’amore per la comunità di appartenenza, come se tutti i cittadini fossero nomadi e sradicati. Città da civitas, che conferisce una identità agli abitanti dichiarandoli appartenenti ad una comunità di base e richiamando i valori profondi della libertà, della democrazia, della partecipazione, della condivisione dei princìpi, delle norme e dei costumi, città come comunità e come polis, come luogo in cui si stabiliscono e si osservano le regole della convivenza, che è premessa alla concordia civile e alla pace sociale, quando sono condivisi i diritti, i doveri e le responsabilità. Una città che sorge in pianura può facilmente espandersi senza dover superare le asperità dell’orografia. Bergamo è dunque più piccola di Milano per ragioni non solo storiche ma anche geografiche. La sua parte antica, adagiata sui colli, è però fra le più belle e suggestive d’Italia. I grandi spiriti del nostro Rinascimento vagheggiarono la città ideale, che armonizzava funzionalità, ordine e bellezza. Ed ora si è angosciati dalla visione di tante megalopoli amorfe e disumane, cresciute in America, in Asia e in Africa: un continuum per chilometri e chilometri di edifici cresciuti all’insegna del concentramento demografico e della speculazione edilizia. Giorgio La Pira scrisse: “Le città hanno una vita propria: hanno un loro proprio essere misterioso e profondo: hanno un loro volto: hanno, per così dire, una loro anima e un loro destino: non sono cumuli occasionali di pietra: sono abitazioni di uomini”. La Pira sapeva bene che si devono fare i conti con l’edilizia, con l’urbanistica e con tutti i fenomeni economici e sociali che favoriscono la crescita o che determinano lo spopolamento dei centri urbani. E si adoperò perché lo storico volto di Firenze non fosse alterato da interventi devastanti. Una città è una creatura da amare e da rispettare: non si rispetta se non si ama. Che si trovi in pianura o in collina, una città è come la vogliono i suoi reggitori e i suoi abitanti: i problemi della convivenza, dell’ordine, della sicurezza in qualche modo si possono risolvere o contenere ma la bellezza di una città dipende dalla gente che la abita, da come un popolo ama la sua città. Secà la lira. Non è espressione molto elegante ed è da usarsi proprio quando si è enormemente infastiditi. È praticata soprattutto la forma negativa, come ad esempio: ’É mia ché a secà la lira, ‘Non venir qui a seccar l’anima’. La locuzione appartiene anche alla lingua italiana. Il vocabolario dello Zingarelli fra le accezioni del verbo seccare ospita anche le seguenti: ‘importunare’, ‘infastidire’, ‘annoiare’. Ed esemplifica così: ci secca con continue telefonate, oppure: sapete che mi avete proprio seccato? Avverte lo Zingarelli trattarsi di uso figurato, seguendo in questo i vecchi e consolidati repertori lessicali come il benemerito Melzi e addirittura l’ottocentesco Fanfani, che già registra seccare nel senso figurato di ‘importunare’. E infatti una persona seccante è certamente molto importuna e quando una persona si è seccata, vuol dire che è stata tanto importunata da alterarsi. Non dicono tuttavia i dizionari che si tratta di vocabolo dell’italiano colloquiale, popolaresco, non certo aulico. Peraltro, nessun testo spiega perché si debba seccare proprio la lira. Quale lira? Quella che secondo Svetonio l’imperatore Nerone suonava per accompagnarsi quando declamava versi o quando cantava? E perché mai? Si sarà seccata piuttosto la moneta, quella che una volta era la libbra d’argento che Carlomagno usò come base del suo sistema monetario. La libbra era chiamata ponderale perché traeva il valore dal suo peso in argento, un metallo nobile assai stimato prima del XIV, quando decadde nella considerazione generale innanzi all’incalzare del fiorino, che era coniato in oro fino a 24 carati. La lira da noi rimase in vigore nello Stato di Milano e nel Lombardo-Veneto e successivamente nel Regno d’Italia. Ma per il bergamasco le lire erano i franch e i centesimi i ghèi. La lira per parte sua si era tanto seccata prima di essere sostituita dall’euro che una moneta da una lira non era più spendibile essendo il suo valore diventato insignificante. Segnàs col pögn. Di una persona molto avara, che non dia nulla del suo agli altri, si dice che fa su di sé il segno della croce tenendo il pugno ben chiuso. Segnàt de Dio. Cave a signatis, si diceva un tempo. Era un retaggio del mondo grecoromano, nel quale la concezione dell’uomo era dettata dall’aforisma Mens sana in corpore sano. Anche nella tradizione giudaica il ‘segnato’ era da considerare con sospetto: nella Genesi (IV, 15) è scritto infatti che Caino fu segnato dal Signore perché fosse riconosciuto e non venisse ucciso (ma il testo non dice a quale menomazione fisica fu sottoposto il fratricida). Perché mai guardarsi dalle persone deformi? Eppure la prevenzione, intesa a un dispresso dalla superstizione, indusse a bollare come ‘segnati da Dio’ i gobbi, gli orbi, gli zoppi, gli sciancati; si diffuse la credenza che incontrarli avrebbe portato sfortuna. Si diceva maccheronicamente: Nulla fides gobbis, similiter est zoppis, si squerzus bonus est super annalia scribe. E sarebbe forse così ancor oggi se la carità cristiana non fosse intervenuta a sensibilizzare gli animi educando alla solidarietà. Segónd come s’ sómna. L’uomo del Novecento si è lasciato alle spalle il mondo contadino senz’alcun rimpianto e ostentando un malinteso senso di affrancamento, come se l’abbandono della terra comportasse una emancipazione da non si sa bene quale sudditanza. Ma il ritorno alla terra è inevitabile, almeno come riscoperta della natura, del territorio e delle radici. Scontiamo amaramente il colossale errore compiuto con l’affidamento cieco e irrazionale a ideologie materialistiche totalitarie, volte a circoscrivere gl’interessi umani entro la sfera dell’economia e a perseguire una visione riduttiva della persona, basata non sull’essere ma sull’avere, non sulla libertà etica delle idee e delle scelte ma sul possesso (o sull’uso) indiscriminato dei beni. Il ritorno alla terra comporta il recupero della saggezza antica dei proverbi, che non scaturiscono più dall’anima del popolo. Bastano però quelli dei nostri avi, tanto prezioso è il tesoro del buon senso che essi racchiudono. Se ad esempio noi diciamo che segónd come s’ sómna a s’ regói, ‘secondo come si semina si raccoglie’, riproponiamo il valore assoluto di una riflessione che i padri hanno sperimentato mille volte nell’atto della semina. Il contadino doveva scegliere il terreno, la semente, il tempo adatto alla semina, cose di non poco conto, perché da esse dipendeva l’esito del raccolto. E per traslato ogni atto della vita comporta delle conseguenze: oggi i contadini sono assai pochi ma anche chi non lavora la campagna sa bene che il raccolto dipende da come si è seminato. Nell’“Anabasi” di Senofonte si legge che l’esercito dei Diecimila, avvicinandosi al palazzo del governatore della Siria, attraversò un parco enorme ove crescevano innumerevoli alberi da frutto di ogni specie e per ogni stagione. Entrato poi nel territorio dei Carduchi, l’esercito trovò grande abbondanza di vino conservato in cisterne. Pensando che oggi i territori menzionati da Senofonte sono pressoché desertici e incolti, si comprende che l’agricoltura ha radici assai antiche e che senza di essa non si sarebbero sviluppate le più grandi civiltà. Siamo figli della terra e non possiamo prescinderne se non a nostro danno. Per la nostra sopravvivenza dobbiamo imparare dai nostri contadini a rispettarne l’assetto e le leggi, come dobbiamo riappropriarci del tesoro sapienziale insito nei proverbi sorti dalla riflessione sul lavoro della campagna. Se l’è dét l’è dét. Ogni lingua che si rispetti ha dei bisticci, degli scilinguagnoli, dei calembours, come dicono i francesi. Certe parole suonano allo stesso modo pur avendo significati assai diversi. Se in bergamasco diciamo dét possiamo significare sia ‘dentro’ sia ‘dente’. È stato facile per i bergamaschi giocare sul doppio significato della parola e inventare l’indovinello: Se l’è dét l’è dét, se l’è fò l’è fò ma l’è sèmper dét. Infatti un dente è sempre tale anche quando sia stato estratto, quando sia fuori dalla sua sede. Ma evidentemente l’indovinello fa appello all’anfibologia perché il calembour risulti arguto e divertente. Un tempo i manuali del galateo, quelli che piacevano tanto alla piccola borghesia emergente e ai parvenus (la “gente nova” dei fiorentini), raccomandavano di evitare in società le tiritere e i giochi di parole, attribuiti ai “provinciali dallo scarso intelletto”. Così si legge nel manuale “Come presentarsi in società” di Erminia Vescovi, risalente agli anni Venti del secolo scorso. Un simile assunto trasuda di saccenteria: fatta l’Italia, si presumeva di “fare” gl’italiani calpestando e offendendo la loro cultura popolare. Del resto, quel manuale giungeva a definire “sconveniente” l’uso del dialetto, ignorando che tutta la vera aristocrazia italiana parlò per secoli in dialetto e che il patrimonio etico e culturale delle genti d’Italia fu sempre trasmesso in dialetto. Ancora in quell’infelice manuale si ammoniva di proibire ai bambini di parlare in dialetto e di far apprendere loro l’italiano da una bambinaia toscana, proprio ciò che il Carducci deplorava paventando che la parlata degli stenterelli si sostituisse all’italiano parlato dai dotti. Giunto a Bologna, il grande maremmano aveva rilevato negativamente il fatto che molti insegnanti non fossero bolognesi e non avessero alcuna contezza della parlata e della storia della città. Sèmper mé a gratà ’l formài. Letteralmente: ‘Sempre io a grattare il formaggio’. Lo dice chi assolve abitualmente ad una certa incombenza senza che alcuno si offra di aiutarlo o di sostituirlo. Sèmper mèi d’ü pögn in d’ün öcc. Sempre meglio di un pugno in un occhio, si dice ironicamente quando ci si deve accontentare del poco che viene dato perché non si è in grado di ottenere di più. Accade quando si riceve un regalo di poca consistenza e di scarso valore, che non corrisponde alle nostre aspettative. Ma a caval donato non si guarda in bocca. Se ci si avvezza alla sobrietà e al disprezzo del superfluo ci si racconsola presto della pochezza del dono. Esiste la variante Sèmper mèi d’ü pögn söl có. Che finisca negli occhi o sul capo, il pugno è comunque da evitare. È da evitare anche la sassata dell’altra variante: Sèmper mèi che öna sassada ’n d’ün öcc. Come il calcio nelle caviglie, perché si può dire anche: Mèi d’öna pessada ’n di caége. Ma la locuzione Mèi d’ü pögn in d’ün öcc presenta la bellezza di quattro vocali celtiche in sei sillabe, le stesse vocali turbate che ritroviamo in francese, in tedesco, in inglese. E pensare che per pigrizia mentale tanti supponenti blateratori delle televisioni nazionali non riescono a pronunziarle! Se nasse ön’ótra ólta… Esprime il colmo dell’insoddisfazione questa protasi pronunziata con tono sospensivo e priva di apodosi. Da una signora che si lagnava delle sue figlie ho però udito dire: Se nasse ön’ótra ólta töe tate cavre, ‘Se nasco un’altra volta prendo tante capre’. E un buon uomo che si lagnava dei suoi figli mi disse: Se ègne amò al mónd, al pòst de ìga di s-cècc me se contenteró de ìga di gacc e di cà, ‘Se vengo ancora al mondo, anziché avere dei figli mi accontenterò di avere dei gatti e dei cani’. Sèntega. Quando la fede religiosa si affievolisce aumentano la superstizione e la credulità, si diffondono succedanei balordi come le sette e i movimenti. Pare che in Bergamasca esercitino (si fa per dire) oltre cento maghi, pomposamente definiti “operatori dell’occulto”, autentici ciarlatani e venditori di fumo. Forse al tempo dei nostri nonni non si era tanto creduloni (in bergamasco bocalù). Anche allora si parlava di streamécc, di sortilegi, d’incantesimi e i fatture. Ma non si correva a dar soldi agli spacciatori di frottole. Poteva capitare che si dicesse che in una vecchia casa c’erano gli spiriti. Allora si chiamava il prete per farla benedire e di spiriti poi non si parlava più, probabilmente perché non c’erano mai stati. Per definire il fenomeno della supposta presenza degli spiriti si ricorreva ad una strana locuzione: si diceva che in quella casa s’ ghe sentìa, letteralmente ‘ci si sentiva’, ossia si sentivano gli spiriti. Le cronache locali tramandano che lo scultore Alfredo Faino, artista arguto ed effervescente, negli anni Dieci del Novecento per non pagare la pigione incominciò a spargere la voce che nello studio da lui preso in affitto si sentivano gli spiriti. “A s’ ghe sènt, a s’ ghe sènt!”, diceva a tutti quelli che gli chiedevano conferma della nuova. Se egli se ne fosse andato, il locale non sarebbe più stato preso in affitto da alcuno per tema degli spiriti. Fu così che il proprietario, appresa la diceria e tenutala per buona, scongiurò il Faino di rimanere nello studio senza preoccuparsi troppo del pagamento puntuale della pigione. Proprio ciò che lo scultore voleva ottenere. Del resto, ne “Il padrone sono me” di Alfredo Panzini, romanziere e lessicografo quasi dimenticato (ne avessimo oggi!), si legge di una villa che, messa in vendita, non trova acquirenti. La padrona non se ne fa una ragione e il fattore le spiega: “Nella villa ci si sente. Dicono che quando è notte ci si vede passare attorno un’ombra tutta bianca, il padrone buonanima”. Proseguendo nella lettura si apprende però che è lo stesso fattore a diffondere la diceria per poter poi acquistare egli stesso la villa ad un prezzo stracciato. Di casi simili si ride ma non dovrebbe essere perdonato ad alcuno dei migliaia di maghi, veggenti, ciarlatani e mediconzoli dell’occulto d’ingannare la buona fede degl’ingenui. Né si dovrebbe consentire a certe reti televisive di ospitare nei loro palinsesti o nei loro programmi i venditori di fumo che gabbano i gonzi. Sèntele sö. Significa: ‘Essere redarguito’. Esempio: I ó sentide sö, ‘Sono stato rimproverato’. Ma si avverte nell’uso integrato di questo verbo il fastidio e l’umiliazione di dover sopportare una reprimenda senza poter reagire o senza neppure esporre le proprie ragioni. Sènt la Madóna a pestà ’l lard. Lo dicono i nostri alpini quando raggiungono le quote alte perché lassù si è tanto vicini al cielo che sembra di sentire la Madonna che, intenta a cucinare, sta pestando il lardo. È un modo semplice, affettuoso e filiale di riferirsi alla Regina delle nevi. Serà fò la bàita. È locuzione eufemistica che vale per ‘morire’. Alla fine della stagione dell’alpeggio il mandriano lascia la baita e discende alla pianura: l’atto di chiudere il casolare simboleggia quello della fine della vita terrena. Dalla sarabanda di messaggi alienanti che continuamente gli pervengono dalla società di massa l’uomo contemporaneo è indotto a non riflettere sul senso dell’esistenza. Ho nostalgia delle scritte ammonitrici che un tempo i nostri vecchi facevano tracciare accanto alle meridiane. Su di un edificio di Olmo al Brembo ho rilevato questo motto: Vedi l’ombra in passar quanto sia breve: / dall’ombra impara che morir si deve. Non sarebbe male che qualche distico simile apparisse all’esterno dei centri commerciali e delle discoteche a ricordare la fugacità del tempo e la brevità della vita, che andrebbe vissuta senza l’affanno tutto materialistico di questa nostra società dominata dall’egoismo e dalla cupidigia. Serà fò ’l Sère. Se si dorme in un paese a mezza costa in Val Seriana e ci si sveglia a notte fonda, nell’ora del silenzio e della brina, si ode la voce sciabordante del fiume che scorre ad imo della valle. Ma il fiume è incanalato, al tempo dell’asciutta scorre poca acqua nell’alveo e il crosciare dell’onda precipite non si ode più. Dovrebbe essere questa l’occasione per dire che i à seràt fò ’l Sère. Tuttavia un professionista originario di Alzano mi ha detto che la locuzione è usata nella bassa Val Seriana dalle donne che abitano vicino alle scuole per indicare la fine della ricreazione, durante la quale i bambini giocano all’aria aperta vociando, o la fine dell’anno scolastico, quando le aule e i cortili delle scuole rimangono deserti e silenziosi. In questi anni di culle vuote si può ben dire per estensione che i àbie seràt fò ’l Sère. Ho letto in un vecchio testo scolastico di storia che nei primi secoli repubblicani la società romana salutava con gioia la nascita dei figli. Poi decaddero i costumi e si smarrirono i princìpi etici sui quali si fondava la società, sicché la nascita dei figli fu considerata un fastidio o un impedimento e la natalità diminuì a grado a grado, finendo per essere compensata dall’arrivo disordinato da tutti i territori dell’Impero di genti eterogenee che difficilmente si assuefacevano alle leggi e alle costumanze romane. Poi c’è chi crede di poter sostenere che la storia non sia maestra di vita! Servèl de póia. L’insulto, riferito a persona di scarsa o nulla intelligenza, trae vigore dal vivo senso che della realtà ha sempre posseduto l’anima popolare. Sgüràs zó la ésta. Nella mia lontana gioventù mi accadde di trovarmi in visita in casa di un amico, il quale ad un certo punto si affacciò alla finestra e poi mi disse: “Té, ’é ché a èd che te se sgüret zó la ésta”. Traduzione: ‘Tu, vieni a vedere: ti lustri la vista”. Stavano passando delle belle ragazze e l’amico mi aveva invitato a guardarle. Ma sgürà indica l’atto di pulire sfregando con un panno umido e con l’impiego di un detergente o di polvere abrasiva (quella che un tempo si chiamava spolverì). Sgurà zó è il verbo della lucidatura delle maniglie di ottone e delle pentole di rame, è il verbo della pulitura (con l’impiego della paglietta saponata) delle posate e delle pentole che si usano in cucina. Fantasioso ed efficacissimo è dunque il ricorso a questo verbo per dire di lustrarsi gli occhi e di bearsi la vista. Leggo che si vorrebbe dare per certa l’origine del nostro verbo (comune peraltro ad altri dialetti lombardi) da un altotedesco schuren, che significherebbe ‘strofinare’, ‘pulire’, ‘tosare’. Ma la fonetica ha le sue leggi e il suono gutturale sonoro non può che essere derivato da quello sordo del latino ex-curare. Non attribuiamo ai barbari più di quanto meritino. Sich sach de sòch sèch i è car ach a cà. Cinque sacchi di ceppi secchi sono cari anche a casa. Anziché sich alcuni dicono sèt, ‘sette’. È un noto scioglilingua, che i bergamaschi si divertono a pronunziare a scherno di quanti hanno la mala grazia (per non dire la villania) di definire “incomprensibile” la parlata orobica. Esso ha un senso preciso perché dice che cinque (o sette) sacchi di ceppi secchi sono cari anche a casa, cioè fa piacere averli a casa propria. Quando per riscaldarsi si ricorreva alla legna da ardere, era una fortuna disporre della legna di ceppo, assai compatta e di ottima resa nel camino. La formulazione del detto, giocato tutto su monosillabi dominati dal suono gutturale della c dura, è scherzosamente criptica ma si sa che i bergamaschi si compiacciono in cuor loro di parlare un linguaggio robusto e scarno. Avendo sempre a che fare con qualche foresto tanto maleducato da esprimere in loro presenza giudizi balordi e villani sulla loquela bergamasca, i nostri avi si divertivano a confondere simili baggiani e simili allocchi proferendo strani scioglilingua: quanti rappresentavano il bergamasco come un linguaggio osco od ostrogoto erano serviti a dovere. Ancor oggi c’è gente talmente rozza e sprovveduta che non si perita di accostarsi alle lingue popolari d’Italia con la superficialità pacchiana e spocchiosa di chi non ha né contezza né rispetto delle lingue e delle culture altrui. Nessuno mi autorizza a dire che un mio simile “parla male” o “parla una brutta lingua” solo perché io non capisco le sue parole. Nessuna lingua è dunque “brutta” o “incomprensibile”: se c’è chi la parla, c’è anche chi la capisce. Le persecuzioni e le censure subìte per tanto tempo dai dialetti italiani (e dal bergamasco in modo particolare) hanno costituito gravi atti discriminatori, offensivi delle nostre culture popolari. Siémo de guèra. Le lingue sono documenti della storia: guerre, rivoluzioni, invasioni, sconvolgimenti sociali lasciano traccia nella parlata di ogni giorno. Esiste un insulto generico che qualche volta ho sentito proferire e che indica fino a quale punto i ceti popolari abbiano scontato le tragedie delle guerre. Una persona che abbia irrimediabilmente perduto il bene dell’intelletto può essere infatti definita siémo de guèra. Stefano Zappettini e Antonio Tiraboschi nei loro dizionari bergamaschi non registrano la voce siémo, probabilmente perché al loro tempo era ancora avvertita come un italianismo. Non v’è traccia dunque nei repertori lessicali della locuzione siémo de guèra, che quasi certamente si diffuse subito dopo la prima guerra mondiale, quando la popolazione del nostro ospedale psichiatrico aumentò da 150 a 450 unità a causa soprattutto del ricovero di molti reduci dal fronte, poveri giovani costretti a vivere per anni come talpe nel fango delle trincee, mandati all’assalto da disperati sotto il fuoco nemico, sconvolti dallo scoppio delle granate, sottoposti in prigionia a privazioni e ad angherie d’ogni sorta, ritornati alle loro case come larve sopravvissute, con lo spavento negli occhi e in uno stato di perenne ebetismo. Per quanto siémo de guèra fosse un insulto, ho sempre avvertito una sorta di dolente compassione nel tono della voce di chi lo proferiva. Il popolo sa bene di essere chiamato a pagare il conto delle guerre che gli altri dichiarano. Siémo de la Madóna. Per un bergamasco tutto ciò che appartiene alla Madonna è straordinariamente grande ed acquisisce valore superlativo. Così se un tale ha dato a un altro una sberla molto forte si dice che l’ gh’à sunàt öna papina de la Madóna e lo si dice senza la minima intenzione di mancare di rispetto alla dolcissima figura della Regina dei Cieli. Così per apostrofare adeguatamente uno che dimostri dal comportamento di essere immensamente scemo non resta che ricorrere alla locuzione: Siémo de la Madóna. Sifula, Ambrös, che i durcc i passa! L’Ambrogio di questa locuzione è un pessimo uccellatore perché non si è procurato lo zufolo adatto per richiamare i tordi e farli posare nella rete del roccolo. Egli allora fischia ma i tordi non si lasciano ingannare e passano oltre. Il detto è molto ironico e si attaglia a quanti non sanno cogliere le buone occasioni, si fanno trovare impreparati e dimostrano di essere dei poveri incapaci. Esiste anche la locuzione: Sifulà i durcc, per indicare l’atto inutile di chi non sa attirare nella rete i tordi con il richiamo appropriato. Perciò chi per inettitudine non combina niente di buono può essere ironicamente invitato a sifulà i durcc. Sifulà i orège. I medici sanno che gli acufeni sono sintomi dell’irritazione del nervo auditivo. Ma per la gente comune se si ode un fischio in un orecchio significa che si è oggetto dei discorsi di qualcuno. Infatti quando si parla con insistenza di una persona, si dice: I ghe sifulerà i orège a chèl lé! Una credenza popolare vuole che il fischio si oda all’orecchio destro se i discorsi sono favorevoli e lusinghieri, a quello sinistro se di critica malevola e di pettegolezzo. Per sapere chi sta parlando di noi si chiede a chi è presente di indicare un numero a suo piacimento purché non superiore alle lettere dell’alfabeto: la lettera corrispondente al numero è l’iniziale del nome della persona che sta parlando di noi. Si tratta di una superstizione assai antica, perché fin dalla preistoria l’uomo ha usato il fischio come segnale e come richiamo. Se udite all’improvviso un fischio acuto all’orecchio sinistro non pensate che stiano parlando male di voi ma controllatevi la pressione del sangue e se il fatto si ripete più volte ricorrete al medico. Un acufene non è mai una premonizione, un presentimento, un avvertimento o un presagio. Eppure c’è chi ci crede. Un amico mi disse una volta: I te sifula i orège? Làssei dì. Töta invìdia! E concluse: Mèi invidiàcc che compatìcc. Come dargli torto? Sifulà l’“Aida”. Sarebbe nell’accezione comune una perdita di tempo, un atto inutile e inconcludente. Oggi si è smarrito il concetto della popolarità della musica di Giuseppe Verdi. Si ode musicaccia commerciale, monotona, sgraziata e banale alla televisione, in discoteca, nei cosiddetti “concerti” (termine che per un elementare rispetto dovrebbe essere riservato alla musica classica), musicaccia che dura il tempo di una hit parade, non più di una stagione per canzonette di consumo, espressive del più vieto disimpegno nonostante le sconfinate presunzioni dei testi e l’invadente grancassa mediatica. Senza radio, senza televisione, senza dischi la musica di Verdi s’imponeva e si diffondeva in virtù della sua bellezza assoluta e del suo alto livello artistico. Molte pagine dell’“Aida” diventarono popolarissime. Per la prima dell’opera al Cairo nel 1871 il kedivé d’Egitto compensò Verdi con una somma favolosa. Alcuni temi erano talmente indovinati che al termine della prima rappresentazione scaligera molti spettatori uscirono dal teatro fischiettandoli. Già, non tutti sono tenori, baritoni e soprani… Poco male se fischiavano. L’opera tiene ancor oggi i cartelloni dei più importanti teatri lirici del mondo ed ogni volta le rappresentazioni suscitano interesse negli spettatori. Ma ora non si ha l’idea di quale emozione suscitò in tutta Italia il concerto con il quale l’11 maggio 1946 Arturo Toscanini reinaugurò il Teatro alla Scala, ricostruito dopo le rovine dei bombardamenti: il concerto fu radiotrasmesso in diretta. Al coro del “Nabucco” un fremito corse dalla platea ai palchi e il pubblico in piedi seguì commosso il lamento sublime che era suonato come l’inno della riscossa per i patrioti del Risorgimento; le ultime note furono salutate da un’ovazione entusiastica: più di venti minuti di applausi, diffusi per radio in tutte le case della Penisola. Toscanini ringraziava dal podio e mandava cenni di saluto ai vecchietti della Casa Verdi che sedevano nel palco reale. La musica operistica aveva restituito dignità e speranza all’Italia sconfitta. Signùr di poarècc. Al termine di una considerazione o di un ragionamento, non sempre espresso a voce e tenuto perciò nella mente, si esclama: Signùr di poarècc! E dopo una breve pausa si soggiunge: Che chèl di siòr a l’è amò in lècc. L’amore per la rima induce il nostro popolo a formulare, sia pure confusamente, un ardito concetto teologico secondo il quale la divinità assumerebbe due entità diverse a seconda dello stato sociale dell’orante. In realtà il ricorso a questa formula tanto paradossale vuole sottintendere che il ricco se ne sta a poltrire mollemente nel suo letto mentre il povero è già intento da ore al suo lavoro. La rassegnata consapevolezza dell’ineluttabilità dell’ingiustizia sociale, che nessun regime politico potrà mai risolvere appieno, induce perciò a prorompere in una invocazione sincera e sofferta, attenuata dalla sottile ironia della seconda parte del motto. In proposito possiede un’arguzia davvero ammirevole la seguente tiritera bergamasca: A mèsa-nòcc i lèa sö i frà, a l’öna chi và a robà, ai dò i macc, ai trè i malàcc, ai quàter ol fornér, ai sich ol bechér, ai sés i précc, ai sèt l’operare, ai vòt ol segretare, ai növ la siura, ai dés chi và in malura. Nel suo realismo la tiritera suona quasi a denunzia di una situazione, non dice che si debba accettare fatalisticamente una ingiusta distribuzione della ricchezza ma sembra tuttavia ammonire che il senso della giustizia sia innato nell’uomo. La giustizia perfetta, si sa, non è di questo mondo e occorre guardarsi dai fanatismi e dalle utopie, che producono solo violenza e sopraffazione. Summum jus summa iniuria, dicevano gli antichi. Il buon senso induce alla via del cuore: come ogni giorno si conquista la libertà esercitandola, così ogni giorno, avendone la volontà, si realizza la giustizia tendendo ad essa con animo solidale. Sircà fò col lanternì. Si è perduto il ricordo del tempo in cui per l’illuminazione si ricorreva alle lanterne e ai lumi a petrolio. Ma per colmo d’ironia la locuzione è usata ancora per significare che una certa persona è del tutto inadeguata a sostenere la responsabilità o la carica che le è stata attribuita. Infatti di uno che non sia all’altezza del suo incarico diciamo sarcasticamente in bergamasco che i l’à sircàt fò col lanternì, hanno cioè usato perfino la lanterna per trovarlo. Non diversamente il cinico Diogene fu visto una volta aggirarsi in pieno giorno con una lanterna accesa nell’atto di cercare qualcuno. Chi lo conosceva gli domandava: “Diogene, che cosa stai facendo?”. Ed egli rispondeva: “Cerco l’uomo!”, intendendo dire che non conosceva una sola persona degna di essere chiamata uomo. Che cosa direbbe e quanti lumi accenderebbe oggi il filosofo antico innanzi al cattivo uso che si fa delle conquiste tecnologiche? Basta pensare alla televisione, che dovrebbe educare e diffondere il sapere mentre la più parte degli spettacoli è d’infimo livello: pessimo gusto, spazzatura, insulsaggini, volgarità e turpiloquio, dissacrazione sistematica di ogni valore, scene violente di un cinismo raccapricciante, dibattiti condotti all’insegna della faziosità e della provocazione, manipolazione e travisamento delle notizie, rincorsa all’audience a costo di precipitare nella morbosità e nell’idiozia, spettacoli musicali di una banalità avvilente, tutto un analfabetismo culturale di massa che anziché illuminare avvolge le coscienze in una tetraggine soporifera. Sircà ’l frècc fò del lècc. Esiste anche la versione negativa: Sirca mia ’l frècc fò del lècc, ‘Non cercare il freddo fuori dal letto’. Significa: ‘Non andare a cercare fastidi’. Nelle fredde notti d’inverno che cosa c’è di meglio che starsene al calduccio nel proprio letto? Sircà öna gógia dét in d’ü paér. Si dice anche in Toscana: ‘cercare un ago in un pagliaio’. A questa locuzione si ricorre per indicare una ricerca tanto complessa quanto intricata da ritenersi praticamente impossibile. Quando si perde qualcosa di prezioso su di un terreno erboso o in un bosco dalla vegetazione folta e inestricabile, ci si rassegna a rinunziare alla ricerca, che risulterebbe infruttuosa e dunque inutile. Talvolta penso a quanti scrutano il firmamento con strumenti adeguati. La locuzione bergamasca mi dà lo stesso sgomento che di primo acchito si può provare accostando l’occhio ad un telescopio spaziale: migliaia e migliaia di corpi celesti appaiono sospesi nel vuoto, sparsi nell’immensità e lontani da noi chissà quanti anni-luce. E mi sovviene la stupenda descrizione che della volta stellata diede il Pascoli ne “La pecorella smarrita”, una delle sue poesie più significative. Come cercassero davvero un ago in un pagliaio, gli astronomi dei centri spaziali sono impegnati nell’individuazione di nuovi corpi celesti. Tentano di carpire all’universo i molti suoi segreti. Ora si è giunti a stabilire che le galassie si stanno allontanando le une dalle altre e che continueranno a farlo senza invertire la loro marcia e quindi senza riavvicinarsi, come si riteneva invece tempo fa. L’universo sta dunque andando alla deriva e ciò aumenta gl’interrogativi sulle sue origini, sul suo movimento, sul suo futuro. Dà la vertigine pensare che in ogni galassia si addensano circa cento miliardi di stelle simili al nostro Sole. L’uomo non cesserà di scrutare, di ricercare, d’indagare nel mistero del cosmo. Grazie alla scintilla spirituale che è in lui non gli verrà mai meno l’ansia d’infinito. Slongà la éta. Come può accadere che riusciate ad allungare la vita a una persona? Se di un tale di cui non sentite più parlare da tempo dite che probabilmente è morto e chi vi ascolta vi smentisce dicendovi che è tuttora vivo, allora voi a quel tale avete allungato la vita. Almeno così vuole una sorta di ingenua e innocente superstizione diffusa fra la gente bergamasca. C’è anche chi la vita se la sa allungare per conto suo, come quel commerciante bergamasco, colmo di debiti, che fece spargere la voce di essere morto e che cambiò città. I creditori, sia pure obtorto collo¸ si misero il cuore in pace. Ma uno di loro un giorno vide il debitore in quel di Brescia, lo affrontò e lo riempì di pugni. Il fatto ebbe anche uno strascico giudiziario. Ma è cronaca di tanto tempo fa: acqua passata non macina più. Smarì ’l culùr. Se un indumento l’è smarìt, non vuol dire che è stato smarrito o perduto, significa che si è sbiadito, che si è scolorito. Antonio Tiraboschi nel suo vocabolario registra le locuzioni ’ndà zó de culùr e smarì o smontà ’l culùr per indicare la perdita di colore, lo scolorire. L’uso della locuzione sta tramontando, come tante altre del resto, ma mi è ritornata alla mente pensando a quanti sperano che con il passare del tempo si attenuino e si opacizzino le tinte squillanti e multicolori delle facciate delle abitazioni dei borghi storici di Bergamo, ridotte ad una veste arlecchinesca. Certo con le intemperie e i fumi di scarico degl’impianti di riscaldamento a poco a poco quelle tinte si affievoliranno ma non si capisce perché ci si ostini a far dipingere le case con toni aggressivi, dissonanti, avulsi dalla nostra tradizione urbanistica, affidata ab immemorabili all’uso di colori blandi come il bianco avorio e il giallo paglierino. Vi fu un tempo nel quale le pareti esterne delle case di Bergamo ostendevano affreschi degli Scanardi e di altri nostri buoni pittori ma l’intonazione generale della città era bianca, non grigia, com’è stato detto a sproposito. Nelle giornate limpide Alessandro Manzoni, gran camminatore, nei suoi giri fuori porta aveva osservato più volte la “macchia biancastra” della città orobica profilata sui colli. Giunto all’Adda, Renzo scorge il biancheggiare lontano e per assicurarsi domanda al barcaiolo: “È Bergamo quel paese?”. E l’altro lo corregge: “La città di Bergamo”. Biancastre le case per respingere l’ardore dei raggi solari nella canicola estiva e per vincere il buio fitto delle lunghe notti invernali, non colorate di rosso, di azzurro, di arancione come a Murano o a Tellaro, perché a Bergamo non c’è il mare, che riflette la luce del sole sulle tinte delle case. Ogni popolo ha il suo modo di costruire le abitazioni e di colorarle esternamente: con che diritto si stravolge qui da noi una tradizione e si muta un aspetto che dura da secoli e che letterati italiani e stranieri hanno descritto e magnificato? Se si crede di poter alterare la fisionomia di una città, ci si deve anche rassegnare a critiche severe e disporre l’animo a sènten sö de töcc i culùr. Smorsà zó ’l föch. Vale letteralmente ‘spengere il fuoco del camino’ ma è locuzione eufemistica che indica l’atto di morire, perché a chi muore il fuoco non serve più. Assai più di un tempo la morte è tabù: l’idea dell’evento luttuoso è stata rimossa dallo spirito plebeo, volgare, edonistico e materialistico del consumismo. Non si può più neppure tentare un collegamento fra il tempo che fugge e la morte, come si usava quando si scrivevano motti rimati accanto alle meridiane. Ne trascrivo uno rilevato al Bererì di Mezzoldo: Mutano l’ombre che l’ora ci mostra / e vano è il volger della vita nostra. Sofià ’l damù. La locuzione trae origine dal gioco della dama. Per traslato s’intende: ‘Precedere in un affare o in una impresa’. Esempio: I m’à sofiàt ol damù, ‘Sono arrivati prima di me’, ‘Si sono affrettati a concludere l’accordo e mi hanno preceduto’. Söl campanél de Ciaravàl. Le parlate lombarde hanno scioglilingua all’apparenza incomprensibili e privi di significato. In realtà questo a volte ci sfugge a causa dell’antichità delle parole, ormai disusate. Ma risulta evidente lo scopo di tali formule, che per i loro suoni iterati e le difficoltà di pronunzia educavano i bambini ad acquisire la padronanza del linguaggio e la scioltezza dell’eloquio. Tali tiritere si presentano in forme variate da una regione all’altra. In Toscana si usava dire: Sul campanil d’Androccoli c’è una biribàula con trecento biribàulini; se la biribàula muore, chi sbiribaulinerà i trecento biribàulini? Ebbene, ecco la versione lombarda: Söl campanél de Ciaravàl gh’è sö öna ciribiciàcola con sichméla e sichsènto sinquantasìch ciribiciacolì; la val de piö la ciribiciàcola o i sichméla sichsènto sinquantasìch ciribiciacolì? Naturalmente non è estraneo allo scioglilingua il gusto di stupire e di mettere in difficoltà chi ascolta: di primo acchito infatti udendo le voci biribàula e ciribiciàcola non si sa a che cosa pensare. Il riferimento all’abbazia di Chiaravalle dovrebbe far presumere che il nostro scioglilingua sia originario del Milanese. Qui se ne è data la versione bergamasca. Sólcc fà sólcc. Di solito si aggiunge: E piöcc fà piöcc. A ben considerare, non è sempre vero che dove ci sono tanti soldi ne arrivino molti altri: basta che fra i discendenti capiti un cretino, un incapace e un dissoluto perché in breve tempo vadano in fumo beni e denari accumulati da più generazioni. Più rispondente alla realtà è invece la considerazione che pidocchi generano altri pidocchi e cioè che sia ben difficile trarsi d’impaccio quando si è nella miseria o nell’indigenza. A volte la laboriosità e l’intraprendenza non bastano a riscattare una persona dal pidocchiume. Vero è che in altri contesti l’insetto, più che simboleggiare la povertà estrema, richiama la sordidezza del parassitismo e dell’avarizia. Trovo nelle “Storielle naturali” (Milano, Ceschina, 1936) di Giuseppe Girardi questi quinari spiritosi intitolati “Giove e il Pidocchio”: “Disse il Pidocchio: / Giove, t’imploro, / io voglio vivere / con più decoro. / La vita è facile, / non te lo nego, / ma devi subito / darmi un impiego, / affinché in seguito / nessun m’additi / come il prototipo / dei parassiti”. Spartì i cügià. Letteralmente: ‘Dividere i cucchiai’. Si dice per indicare l’atto della separazione di due coniugi che non riescono più a vivere insieme. Il riferimento ad oggetti di uso quotidiano ma di scarso valore come le posate sottintende che la separazione coinvolge ogni sorta di proprietà mobili e immobili. A tanto si dovrebbe arrivare in presenza di cause gravi e irrimediabili, essendo scontato che i piccoli difetti si possono da una parte sopportare e dall’altra attenuare. Spènd in gòga e magòga. È locuzione trevigliese che significa ‘spendere in futilità’, ‘dissipare in divertimenti’, ossia ‘sciupare il proprio denaro’. Bisogna dire che un tempo la nostra gente conoscesse abbastanza bene l’Antico Testamento se ritroviamo in questo detto un richiamo a Gog, principe guerriero nominato da Ezechiele, e a Magog, figlio di Jafet. I nomi sono adattati per incrocio con l’antica voce lombarda gòga, ‘baldoria’. Spiör de nas, nüità che piàs. Una vecchia credenza popolare vuole che il prurito del naso sia foriero di novità piacevoli. Esiste però la prudenziale variante: Spiör de nas, nüità in viàs. Un tempo anche il soffiare del fuoco nel camino (a l’ bófa ol föch, ‘soffia il fuoco’) era interpretato come annunzio di buona nuova. Stà al sò pòst. Che cosa intendano i bergamaschi con questa locuzione si può spiegare con il seguente aneddoto. Negli anni Trenta del secolo scorso tale Amedeo Fogliardi, innocuo pazzoide filosofeggiante, scendeva talora a Bergamo da un paese della Media Valle Seriana per passeggiare sul Sentierone; essendo ben noto per le sue idee strampalate, veniva spesso fermato dai passanti, che lo interrogavano divertiti per udirlo concionare. Egli non si faceva pregare ed esponeva le sue sconclusionate teorie sulla pace universale, sostenendo che fosse indispensabile convocare un congresso mondiale dei sindaci a Gazzaniga. A chi gli domandava perché proprio a Gazzaniga egli rispondeva trattarsi secondo i suoi calcoli del centro esatto dell’universo. C’era chi gli faceva osservare che il fascismo aveva sostituito i sindaci con i podestà ed egli allora si lagnava che non si dicesse podestò. A chi glie ne chiedeva la ragione rispondeva con tono professorale: “Io podestò, tu podestai, egli podestà, è questione di coniugazioni!”. Diceva una volta queste ed altre amenità mentre faceva parte del crocchio di uditori un redattore di un settimanale satirico, il quale si divertì a canzonare il Fogliardi segnalandone gli sproloqui ai lettori del foglio. Letta la cronaca, il fratello del Fogliardi si precipitò a telefonare al redattore dicendogli: “Cosa gh’él saltàt in mènt de scriv chèl articol? A l’ la lasse quiét, ol mé fradèl!”. E il redattore: “Nò, l’ varde: a l’è ’l sò fradèl che l’ gh’à de sta quiét! Cosa ghe èntre mé se ’l sò fradèl a l’ cönta sö di bambossade? A l’ ghe dighe de stà al sò pòst!”. Stà de cà. In bergamasco ‘abitare’ si dice stà de cà, letteralmente ‘stare di casa’. Quand’ero ragazzo mi sentivo talora domandare: ’Ndo stét de cà?, oppure: Sét is-cèt de chi té?, perché la paternità e il luogo di abitazione erano considerati elementi identitari fondamentali nell’ambito di una comunità. Rispondevo senz’alcun imbarazzo, intimamente lieto e perfino un po’ fiero di appartenere ad una famiglia e ad un luogo. Ora c’è gente tanto alienata e imbastardita che si vergogna della propria identità, gente che ha rinnegato e distrutto le proprie radici credendo di emanciparsi da chissà quale stato di soggezione o condizione di arretratezza. Ci si riempie la bocca con termini quali multiculturalità, interculturalità, multietnicità e altre simili trovate e si giunge a negare l’esistenza di una cultura autocnona, si giunge ad ostacolare in ogni modo la sopravvivenza della propria cultura, di quella locale come di quella nazionale, quasi che millenni di civiltà e di storia, di arte e di progresso che sono alle nostre spalle non avessero senso e fossero addirittura da cancellare, quasi che non costituissero un patrimonio inalienabile e inestimabile, ammirato e invidiato in tutto il mondo. Chissà di che cosa mai ci si dovrebbe vergognare? In realtà se non si possiede il senso della propria provenienza e se non si conosce la cultura nazionale e quella locale si è talmente deboli e disarmati da essere indotti ad accettare supinamente i modelli imposti dal potere finanziario dominante, un potere che sovrasta i governi nazionali e che intende fare strame dei popoli, annullandone non solo le etnie ma anche le culture, le identità, e creando un acefalo mélange, una mistura anonima di razze da schiavizzare, un branco sterminato di individui simili ad automi, dai comportamenti identici e programmati: abitare a Milano o alla Mecca, a Mosca o a Nuova York non farebbe infine alcuna differenza. Ma non sarà così perché lo stare di casa a Bergamo è cosa diversa dallo stare di casa a Tripoli o a Pechino né può un territorio inquinato e sovrappopolato come il nostro, rovinato dalle speculazioni edilizie e privo di risorse fondamentali, sopportare assalti demografici di consistenza tale da compromettere e snaturare il tessuto sociale faticosamente ricomposto dopo gli anni convulsi del “miracolo economico”. Del resto già si notano i guasti e le rovine del relativismo culturale, delle mescidanze forzate, delle integrazioni celebrate sulla carta e nei discorsi retorici, già sorgono dure conflittualità a denunziare il fallimento di un sistema confuso e disumano, nemico dei popoli e delle persone perché dettato unicamente dalla bramosia di denaro. Le integrazioni sono possibili ma non si fanno con la demagogia, ponendo le condizioni per l’insorgere di conflitti fra la popolazione stanziale e i nuovi venuti, ai quali va detto chiaramente che si esige il tassativo rispetto delle leggi e delle costumanze della nazione ospitante. Perché in ogni tempo e in ogni luogo ha sempre un senso la domanda: ’Ndo stét de cà? Stablà scabe l’è samà gacc. Questo non è bergamasco ma gaì, il gergo dei pastori dell’Alta Val Seriana, un linguaggio criptico ormai caduto in disuso ma ancora ben parlato fino agli anni Cinquanta del Novecento. I pastori ricorrevano al gaì in presenza di persone appartenenti ad altri gruppi sociali con lo scopo preciso di non farsi capire. Si può immaginare quali danni potesse arrecare un gregge entrando in un prato. I pastori non amavano far sapere ai contadini, ai negozianti, alle guardie campestri, agl’impiegati comunali o ai carabinieri le loro intenzioni. Con l’andare del tempo però diverse parole del gaì entrarono a far parte del dialetto di Parre, di Rovetta, di Bossico e di altri centri seriani dai quali i pastori partivano con le loro greggi per la transumanza. Il codice segreto è stato in parte decifrato. Se trovandomi a Parre io dico: Stablà scabe l’è samà gacc, sono certo che qualcuno capisce e traduce giustamente: ‘Bere vino è star bene’. Lo dicevano anche i pastori davanti a un buon bicchiere. Ma non andiamo oltre. C’è ancora chi il gaì lo sa parlare davvero. Stà gna ’n cél gna ’n tèra. Si dice di una situazione assurda, di un fatto illogico, di una ipotesi inammissibile, di tutto ciò insomma che contrasti con il buon senso e con la ragione e per il quale non vi sia scusa che tenga né per le leggi divine né per quelle umane. Stà in colégio. Se vogliamo ironicamente significare che un tale è stato in galera diciamo che l’è stàcc in colégio. Si ritiene che questa locuzione, diffusa anche negli altri dialetti lombardi, provenga dal furbesco della malavita italiana, in particolare da quella milanese. A proposito di carceri, occorre ricordare che non si recludono soltanto le persone per impedire loro di circolare e di partecipare alla vita sociale. Per tanto tempo sono state recluse anche le parole bergamasche, cacciate dall’ufficialità e dai luoghi pubblici senza colpe e senza processi a causa dei pregiudizi piccolo-borghesi e della mediocrità culturale di gran parte della classe dirigente. Si è disastrosamente inculcata nei ceti popolari l’opinione che ci si dovesse vergognare di parlare la lingua nativa, quella che si usava in famiglia da secoli e che possedeva i suoi quarti di nobiltà discendendo dal latino parlato in epoca imperiale. Insegnanti filologicamente impreparati e burocrati dell’amministrazione pubblica hanno imprigionato il dialetto esercitando una disdicevole violenza psicologica nei confronti dei parlanti. Si è creduto che l’unica didattica dell’italiano consistesse nella soppressione del dialetto e si è così reso un pessimo servizio alla lingua nazionale e alla cultura italiana, ridotte oggi al livello becero e miserando del monolinguismo televisivo. Stà ’n di grébegn. Di chi abita in un luogo alpestre remoto, dirupato e infelice si dice che l’istà ’n di grébegn. I grébegn sono i dirupi, le balze ripide. La locuzione, che è stata italianizzata (tempo fa di un tale sentii dire che stava nei grebani), è di uso piuttosto raro e l’intento è sempre spregiativo, volendo indicare un’abitazione sperduta, posta in una località lontana, isolata, dirupata, selvaggia e sterile a causa del clima rigido e inclemente. Il termine grébegn fa parte dei pluralia tantum ed è imparentato con grembano, voce epentica del veneto giuliano usata nel senso traslato di ‘stupido’, ‘duro di comprendonio’. Alla base è una voce prelatina che suonava greban, ‘sasso’, ‘pietra’ e per estensione ‘roccia’, ‘dirupo’, ‘balza’, formatasi sul lemma mediterraneo grappa o krappa, ‘sasso’, di cui è ampia traccia negli oronimi dell’arco alpino. Stà ’n pé ’l cügià. Quando il caffè è troppo denso si può dire che l’è issé spèss che l’istà ’n pé ’l cügià. L’iperbole è troppo bella perché mi azzardi a darne una traduzione letterale. Ho udito sempre la locuzione proferita dalle gentili signore, le quali anche nella potenza della fantasia iperbolica non la cedono affatto ai signori uomini. Stà ’n pé ’ntat che te ènde! Traduzione: ‘Règgiti in piedi mentre ti vendo!’. Così dicevano scherzosamente i mandriani della Valle di Scalve mentre conducevano al mercato del bestiame una mucca già avanti negli anni per venderla. È invalso l’uso di cedere un immobile, un animale o un oggetto nello stato in cui si trova, senza che il venditore sia tenuto a rispondere di eventuali difetti che venissero successivamente riscontrati dall’acquirente. Dal che si desume che il concetto dell’onestà trova applicazioni tutto sommato abbastanza elastiche. Il ricorso alla garanzia non mitiga che parzialmente l’effetto del danno che può essere subìto dall’acquirente dopo la compravendita. Se anziché una mucca io acquisto un’automobile, chi mi risarcisce del danno che patisco quando, scaduto il tempo della garanzia, l’impianto elettrico incomincia a funzionare male e ad un controllo presenta gravi difetti strutturali? Posso ben dire che i miei soldi erano buoni ma non ho alcun modo legale per rivalermi del gretto materialismo che ha mutato la compravendita in truffa. Da tempo l’alta e la media borghesia hanno smarrito la nozione della morale, della filosofia, degli studi classici, dell’arte e della musica colta, credono di farsi una cultura risolvendo i cruciverba, ritengono che il momento culminante di una conversazione sia rappresentato dal racconto di qualche barzelletta e si affidano ai vantaggi immediati del progresso scientifico e tecnologico. A questo andazzo sono ridotti i ceti produttivi che hanno la presunzione di ergersi a guida e a modello della società. Che cosa si pretende che siano gli altri ceti? Stà ’nsèma a palèta. Si dice di chi convive senz’aver contratto matrimonio. Una volta fra i giochi infantili era diffuso quello delle piastrelle, in bergamasco palète (o palècc). Nel dizionario dello Zappettini trovo la locuzione zögà ai palète, ‘giocare alle piastrelle’. E nel Seicento l’Assonica scriveva ègn sö la palèta, per dire ‘balzar la paletta sulla mano’. Le piastrelle non erano altro che sassi molto appiattiti, che venivano fatti balzare dalla palma al dorso della mano: vinceva chi riusciva a far stare il più a lungo possibile la piastrella sul dorso della mano. Fatalmente alla minima oscillazione la piastrella scivolava dalla mano. Stà ’nsèma a palèta indica dunque una convivenza che può interrompersi facilmente per mancanza di una forte adesione, di un saldo legame che presupponga l’assunzione di responsabilità e la donazione di sé da entrambe le parti. Oggi non sono pochi i giovani che preferiscono convivere anziché sposarsi: donare se stessi è diventato difficile ed è inteso come una limitazione. Dicono: “Ora stiamo bene insieme, domani si vedrà”. La locuzione bergamasca sembra ammonire che non si riesce a fondare alcunché di stabile e di duraturo su ciò che può scivolare giù di mano al minimo turbamento, al più piccolo sobbalzo. Stà ’nsèma col fil de fèr. Per significare che certi lavori sono stati eseguiti male o che certe situazioni presentate come stabili e solide sono in realtà precarie e inaffidabili diciamo che i stà ’nsèma (o che i è metide ’nsèma o ancora che i stà tecade) col fil de fèr, che può essere rimosso con l’ausilio di una pinza. C’è peraltro una canzone da osteria che parla di una compagnia del fil de fer (o di una socetà del fil de fèr) e anch’essa, per la sua melodia sguaiata, dal tema semplice e ìnsistito, sa di raccogliticcio e di abborracciato, di un’adunanza o di un raggruppamento di persone dalla comunanza provvisoria. Il detto suona peraltro ironico se riferito alle corde metalliche delle teleferiche usate un tempo per portare a valle il legname da ardere. Edmund Hillary, alpinista neozelandese che conquistò la vetta dell’Everest, fu invitato una volta negli Stati Uniti per una serie di conferenze e di interviste televisive. Ritornato in patria, parlò così della sua esperienza americana: “Tutto mi disorientava. Detestavo di essere spinto a comperare cose che mi sarebbero state di scarsa utilità. La grande macchina del capitalismo creava ricchezze e luci inutili, mi appariva troppo materialistica, volta principalmente alla ricerca del piacere”. Di una società che abbia per base il consumo e che appaia fondata sui centri commerciali e sulle discoteche occorre dire che la stà ’nsèma col fil de fèr, che è unita da legami labili e fragili. Il forte progresso economico e tecnologico intervenuto nel dopoguerra non è stato accompagnato da un adeguato progresso etico, culturale e sociale e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la sportività sconfina nella tifoseria teppistica, l’autodifesa diventa aggressività (la più evidente dimostrazione consiste nell’adozione di cani pitbull), la solidarietà finisce sotto i tacchi delle scarpe e nel caldo torrido dell’estate si lasciano morire migliaia di anziani perché nessuno ha tempo e voglia di prendersene cura. Bella società e bel progresso! La superficialità e il disimpegno regnano sovrani, i giovani sono indotti a credere che tutto sia facile, che non si debbano avere problemi, che il principale obiettivo sia il divertimento e che si debba scansare ogni fatica; trionfano il brutto e il pacchiano e le conquiste del pensiero rimangono appannaggio di una ristretta cerchia di studiosi, si diffonde il relativisimo e prendono piede idee e suggestioni estranee alla nostra visione del mondo, proposte ideologiche strutturalmente deboli e confuse, scarsamente motivate e ancor più scarsamente elaborate. Non si dice che si debba rinunziare al progresso economico e tecnologico ma si osserva che una società non può reggersi a lungo se fondata essenzialmente sul materialismo consumistico, sull’apparenza e sul mito del successo facile. Occorre restituire alla nostra società i suoi alti valori spirituali ed etici, che costituiscono il suo cemento armato. Basta un colpo di tenaglie per spezzare un filo di ferro. Stà piö ’n de pèl. ‘Non stare più nella pelle’, ossia: ‘Fremere dal desiderio’, ‘Non resistere più’. L’immagine della pelle che non riesce più a contenere il sentimento dell’ansia o dell’ambascia è un’iperbole quanto mai efficace ed espressiva. Stà sö de dòss. C’è gente che non si sa rapportare con il prossimo e che ritiene di essere al centro dell’universo, gente egoista che concepisce l’esistenza degli altri in funzione dei propri interessi e dei propri comodi. Gente simile non esita a pesare su chi ha buona disposizione ad aiutare i propri simili. Se non esistessero persone tanto importune e pretenziose non esisterebbe neppure la formula imperativa: Stà sö de dòss!, ‘Non pesarmi addosso!’, ovvero ‘Togliti di dosso!’. La categoria più trista di questo genere di persone è quella che annoia e che indispone il prossimo facendo il catalogo dei propri guai e dei propri mali nella speranza di farsi compatire e consolare. Anche gli altri soffrono dei loro problemi ma non tutti hanno la mala grazia di scaraventarli addosso al prossimo. Stà sö la sò. Letteralmente: ‘Stare sulla sua’. Si dice di persona riservata che dia poca confidenza al prossimo, che faccia capire di voler mantenere le distanze e che in determinate circostanze preferisca non esporsi o compromettersi. Stà söl fiàt. Te me sté söl fiàt, diciamo a persona importuna e molesta, che si rivolge a noi con insistenza e senza riguardo alcuno pur di ottenere qualcosa. Si dice anche: Te me càet ol fiàt. Oppure: Te me töet ol fiàt. C’è gente che ottiene senza merito ciò che vuole solo perché chiede con insistenza: anche così prospera la mala pianta del clientelismo. Il senso del rispetto e della discrezione sembra non esistere più. Stelina dóra. Con il passare del tempo le parole languiscono: con esse finiscono un mondo, una civiltà, un’etica, un modo di vivere e di sentire. Da tanti anni non sento più rivolgere a una bambina o a una fanciulla il complimento: stelina dóra, vocativo tenero e dolce che fioriva sulle labbra delle mamme, delle nonne e delle zie. Anche noi, da ragazzi, al tempo dei richiami del piccolo Cupido, ficcando un po’ di bergamasco nell’italiano pressoché esclusivo che ci era stato imposto da una scuola ostinatamente dialettofona, ci azzardavamo ad apostrofare la ragazza del cuore con l’appellativo stèla dóra, che in italiano suona sic et simpliciter ‘stella dorata’. Ma volete mettere la forza suasiva e la potenza di suggestione del bergamasco? E quando da bambini ci sentivamo dire: s-cèt car del Signùr, che in italiano suona ‘figliolo caro del Signore’, ci sentivamo avvolti da un’onda di bontà e di affettuosa gentilezza. La stessa sensazione provavano le bambine allorché erano apostrofate con la soave locuzione appellativa: s-cèta bèla del Signùr. Il richiamo alla divinità costituiva il massimo dell’apprezzamento, aveva riscontri simili se non identici in altre lingue appartenute a grandi civiltà antiche, dava la misura della bontà e della squisitezza di cui era capace l’anima popolare. Non riesco a rinvenire nell’“italianese” contemporaneo locuzioni che per bontà e gentilezza stiano al pari di quelle che ho appena ricordato, neppure ricorrendo al linguaggio infantile, che pure ha voci antichissime e termini di straordinaria tenerezza, oggi però usati spesso con eccessiva affettazione. In tempi di diffusa povertà materiale i sentimenti abbondavano. Il bisogno di affettività, il desiderio di trovarsi al centro dell’attenzione, l’ansia di ottenere l’approvazione altrui forse sono innati nell’essere umano, che soffre sempre di un certo egocentrismo. Ma al tempo della nostra puerizia trovavamo persone dall’animo sensibile che ci deliziavano definendoci s-cèt car del Signùr se eravamo maschetti, e s-cèta bèla del Signùr o stelina dóra se femminucce. Soavità semplici, dolcezze pure che solo il tanto vituperato dialetto, nella sua immediatezza e nella sua autenticità, sa esprimere. Stopà la bóca. Per molto tempo è stato compiuto e praticato con ostinazione l’errore di pensare al dialetto come espressione esclusiva del mondo contadino. In realtà il dialetto è stato mezzo abituale di comunicazione fra imprenditori e operai delle piccole e medie industrie. Per ciò che mi riguarda, ricordo di aver conversato quaranta o cinquant’anni fa in bergamasco con alcuni vecchi patrizi e con gli uomini colti della mia città. È un errore credere che il dialetto sia legato soltanto al passato e che non possa aggiornarsi, adattandosi ai tempi e alle situazioni. Altro errore è quello di gridare allo scandalo ogni volta che si propone di fare qualcosa per rivitalizzare il dialetto. Si sentono, è ben vero, tante idee strampalate ma non si riesce a concretizzare nemmeno una sola idea buona perché c’è sempre chi si straccia le vesti in nome dell’unità nazionale, del progresso o di chissà quale altra scoperta. Così si tappa la bocca a chi, attraverso la difesa del dialetto, intende riaffermare i diritti della cultura popolare, l’amore per il territorio e per la comunità. Stopà la bóca è proprio l’atto che si è compiuto e che si continua farisaicamente a compiere contro il patrimonio linguistico locale e le sue implicazioni storiche, culturali, antropologiche. S’intende cioè cancellare una cultura autentica estirpandone le radici. Poco importa se al termine di questa operazione ci ritroveremo tutti impoveriti e indifesi innanzi al rullo compressore della globalizzazione, al grigiore dell’egualitarismo, all’uniformità dei comportamenti e all’assenza di pensiero. L’obiettivo è proprio questo. Non facciamoci rubare le parole, non facciamoci chiudere la bocca. Strèns i pagn indòss. Letteralmente: ‘Stringere i panni addosso’, ossia: ‘Mettere alle strette’, come si dice in italiano. Ma la locuzione bergamasca è di un realismo stupendo. Ströcà pàter e schità diàoi. Con questa colorita locuzione dai suoni perentori si designa il comportamento di chi per devozione recita parecchie preghiere ma poi non resiste alla tentazione di spettegolare e di spargere zizzania parlando male del suo prossimo. Si noti che ströcà significa ‘spremere’. Sul come ü remét. È un paragone spontaneo, che si ode ormai raramente e che si traduce: ‘solo come un romito’. Il remét era un uomo d’una certa età che custodiva un santuario o un oratorio o un tempietto sorto in qualche località isolata, soprattutto di montagna, com’era, per esempio, il bel santuario della Madonna del Perello, sorto in una zona boscosa e semiselvaggia, chiamata ancor oggi Val Pagana. Quest’uomo viveva solitario in una sua casupola annessa al luogo sacro, era molto pio e devoto, dedito alla preghiera; teneva in bell’ordine il santuario e apprestava l’occorrente per le funzioni, suonava la campana nelle ore prescritte, coltivava un suo orticello e un piccolo frutteto, aveva cura della mulattiera e del bosco di pertinenza del santuario. Una volta all’anno si aggirava per le contrade vicine questuando. Era di poche parole e d’indole riservata, se non talora quasi scontrosa; per quanto morigerato e di buoni e sani princìpi, era da tutti considerato un po’ originale per quel suo vivere le giornate in solitudine. Ai nostri giorni un simile scelta sarebbe ben ardua. Se l’urbanizzazione rapida e convulsa ha comportato problemi enormi, anche il villaggio globale ne comporterà: la crisi della comunità, l’abbattimento delle specificità etniche, linguistiche e culturali, la cancellazione dell’identità e l’imposizione di modelli di comportamento spersonalizzanti e uniformanti non sono da considerare a cuor leggero. La persona perde la sua identità individuale e non può più compiere scelte autonome, diventa un prodotto collettivo insignificante e intercambiabile come un mattone di un muro. Il remét dei santuari era molto più libero e interiormente più ricco, nella sua semplicità non si sentiva solo, disperato e sperduto nell’immensità di una folla anonima, nella babele di un frastuono universale. Sunà dré i padèle. Si legge a pagina 57 di “Provincia e paese” di Sereno Locatelli Milesi: “La tuntunada (sunà dré i padèle) è l’uso – che vige ancora nei nostri paesi – di fare la serenata, a suon di fischi, di padelle, di campanacci, ai vedovi e alle vedove che passano a seconde nozze. Il popolino non è mai stato tenero per le vedove e per i vedovi che passano a nuove nozze: perché il popolino è primitivo e, come tale, romantico e, come tutti i romantici, vorrebbe l’amore vivesse oltre la tomba, e fosse eterno, come tutte le cose ideali. Il popolino è però generoso: si astiene dalla tuntunada quando si tratta del matrimonio di una vedova ancor giovane, o di un vedovo che ha figliuoli in tenera età e non ha persona alla quale affidarli: ma quando si tratta, invece, di vedove in età avanzata, o di vedovi senza prole e che sono già… nonni, si abbandona alla tuntunada più frenetica, senza ritegno, con voluttà, quasi con esasperazione”. L’avvocato Locatelli Milesi scriveva questa prosa negli anni Trenta del Novecento. Eheu quantum mutatus ab illo! L’usanza nei nostri paesi non è durata oltre gli anni della guerra. Oggi non si va più a far baccano di sera presso la casa degli sposi novelli ed attempati; ma può succedere che se ne faccia un gran parlare e il chiacchiericcio e il pettegolume equivalgono allora a sunà dré i padule. Sunà i ure. Ancora al tempo della dominazione austriaca, durata fino al 1859, le ore non erano fisse perché si contavano da un tramonto all’altro. Mezz’ora prima del tramonto veniva dato il suono dell’Ave Maria e quando il sole spariva si suonavano ventiquattro colpi, come se la giornata si fosse compiuta in quel momento. Le ore si susseguivano quindi per tutta la notte ad intervalli di sessanta minuti, dall’una alle due alle tre e via dicendo, ed erano chiamate i ure de nòcc; dal sorgere del sole venivano suonate i ure del dé. Albe e tramonti variavano a seconda delle stagioni e pertanto anche il suono delle ore seguiva l’andamento astronomico della levata e del tramonto del sole. Quindi si giungeva alla metà della giornata dodici ore dopo il sorgere del sole e la mezzanotte era suonata poco prima dell’alba. Insomma, non un’ora sola ricorreva puntualmente per tutto l’anno e con un simile sistema di scansione del tempo noi oggi non ci raccapezzeremmo. Le ore venivano suonate manualmente ed i campanari avevano il loro bel da fare. Sunà öna papina. Un conto è che io dica: A l’ gh’à dàcc öna papina, ‘Gli ha dato una sberla’. Altro è che io dica: A l’ gh’à sunàt öna papina, perché in questo caso la locuzione assume una forte espressività: sembra quasi che voglia indicare il rumore prodotto dalla mano che percuote la guancia. Trovo su di un dizionario recente alla voce papina come secondo significato ‘ceffata burlevole’. Ma perché? Ho sempre udito la voce papina nel senso di ‘sberla’, sinonimo di s-ciafa, ‘schiaffo’. Che cosa c’entra la burla? Per celia si dà un buffetto, si fa solo l’atto di dare uno schiaffo oppure si tocca per un istante la guancia della persona che si minaccia scherzosamente di percuotere con una pressione che sia poco più di una carezza. Ma öna papina è una sberla bella e buona e bisognerebbe domandare a chi la riceve se la intende come una burla o non piuttosto come una offesa. Svödà ’l borsèl. Mi sono domandato qualche volta che modo di vivere sia quello di chi trascorre una parte non indifferente della giornata in un grande magazzino uscendone trionfante, dopo un quarto d’ora di attesa in coda alla cassa, con un carrello colmo di ogni genere di articoli, acquistati non sempre per necessità ma cedendo spesso alla lusinga del prezzo allettante. Uno scrittore ormai dimenticato, Arnaldo Fraccaroli, giornalista che aveva la vocazione del poligrafo, in un suo libro risalente al 1944 e intitolato “Matte anche queste però…”, passando in rassegna i difetti e le ipocrisie del suo tempo, dedicò un capitolo ad una signora milanese che sosteneva di risparmiare acquistando vari generi a prezzi convenienti. Dovendo comperare un regalo di nozze ed avendo saputo che a Bergamo teneva bottega un argentiere artista che vendeva argento lavorato a prezzi speciali, la signora vi si recò e acquistò a buon prezzo dall’argentiere un bel servizio ma a conti fatti, a causa della spesa del viaggio, l’acquisto non poté dirsi conveniente. La stessa cosa capitò a un quidam de populo, tale Francesco Bosisio, pazzoide filosofeggiante, il quale ordinò legna in fascine a Brescia perché là costava qualche centesimo meno che a Bergamo; naturalmente, considerando la spesa del trasporto, le fascine finivano per costare molto di più ma il Bosisio, da bell’originale qual era, sosteneva di aver fatto un buon affare. In realtà, un conto è acquistare e un conto vendere: se dovete acquistare, non dovete mai mettervi dalla parte di chi deve vendere. La convenienza dell’acquisto dovete sempre e comunque stabilirla voi, indipendentemente dagli allettamenti della pubblicità e dalle condizioni di vendita, che possono anche essere molto vantaggiose. Non c’è dubbio che esistano commercianti onesti e che i prezzi a volte risultino davvero convenienti. Ma voi dovete ben sapere se il tale articolo vi occorre o non vi occorre e decidere l’acquisto di conseguenza. Il consumismo di massa ha cancellato un’arte antica, quella di saper acquistare osservando un equo rapporto fra qualità e prezzo. Le giovani generazioni sono indotte a credere che il denaro sia un fiume inarrestabile e che ci si possa indebitare all’infinito mentre è sempre vero che i debiti si pagano e che il miglior credito che si ha è quello di saper spendere bene i propri soldi e di non spenderli quando non se ne ha la necessità. Perché ol bu marcàt l’isvöda ’l borsèl. Tàches al tram! Non lo si diceva soltanto a Milano. I tram c’erano anche a Bergamo e vennero soppressi in gran fretta e con assai scarsa lungimiranza nella seconda metà degli anni Cinquanta del Novecento perché allora si puntava all’incremento indiscriminato della motorizzazione senza prevedere che i costi si sarebbero assai presto dilatati e che gli autobus avrebbero contribuito ad inquinare l’atmosfera delle città. Avessimo ancor oggi le linee tramviarie che collegavano la città a Ponte San Pietro, a Stezzano, a Negrone, con le carrozze alimentate a corrente e tanto robuste da durare più di mezzo secolo! A me càpita ogni tanto di sognarli: mi rivedo com’ero da ragazzino e li guardo mentre passano per Porta Nuova, per Broseta, per le Muraine, per Borgo Palazzo… Strani sogni: sono alla fermata e faccio un cenno ma il tram non si ferma e io mi risveglio con l’amaro in bocca. Ormai rimane la memoria dei tram soltanto nei più anziani, i quali ricordano bene che i “portoghesi” viaggiavano a ufo stando sul predellino della vettura o attaccati in equilibrio precario all’esterno del retro della carrozza. Si trattava di póer màrter o di furbetti che non potevano pagare il biglietto. In ogni caso erano oggetto di compassione da parte della gente. Una persona che faceva discorsi inconcludenti o illogici faceva tanta pena da meritare di essere sbrigativamente invitata ad attaccarsi al tram. Era come dire di andare al diavolo. Il modo non era esplicito ma era comunque inequivoco. Chi poi voglia sapere le vicende dei nostri tram consulti il libro intitolato “I tram a Bergamo e la loro storia”, pubblicato nel 1965 e scritto da Carlo Traini, bella figura di docente e di studioso morto novantaquattrenne nel 1973. Tat de capèl. Da tempo immemorabile l’uomo si preoccupa di proteggere la testa dalle intemperie, dal vento, dal freddo e dai raggi del sole cocente. Nell’antica Grecia solo gli uomini liberi potevano usare un copricapo mentre gli schiavi avevano l’obbligo di tenere la testa scoperta in segno di rispetto e di umiltà. Non per niente i nostri vecchi si salutavano togliendosi il cappello. Se dovevano salutare una persona importante, degna del massimo ossequio, non si limitavano a caàs fò ’l capèl, ‘a togliersi il cappello’, ma i ghe fàa tat de capèl con un gesto largo e solenne. Poteva sembrare una smanceria ma un po’ di affettazione è sempre meglio della scontrosità e dell’inurbanità di certi contegni scortesi e villani che si sono diffusi in questi anni. Per estensione si dice che si fa ‘tanto di cappello’ a persone di valore o a comportamenti commendevoli. Teàga i pagn indòss a la zét. Si credeva che il pettegolezzo allignasse soltanto nei paesi, nei sobborghi e nelle contrade, dove tutti un tempo si conoscevano. Ma anche nella società globalizzata la condotta altrui è oggetto della maldicenza più sfrontata. L’invidia è il vero e unico movente dell’atto di “tagliare i panni” addosso al prossimo con le critiche più velenose e il sarcasmo più corrosivo: a mordere sono gli oziosi e i buoni a nulla, i mediocri che non sanno come altro fare per uscire dalle livide gore della loro pochezza, dal lurido fango della loro meschinità. Le lingue biforcute degl’ipocriti e dei malvagi suscitano inimicizie, rancori, odi e vendette. Il male che compiono è enorme e irreparabile. Un proverbio bergamasco insegna che paròla dìcia e sassada tràcia i turna piö indré, ‘parola detta e sassata scagliata non ritornano più indietro’. Té a mà. Letteralmente ‘tenere a mano’, ossia ‘risparmiare’, ‘tenere da conto’, ‘non sciupare’. Purtroppo non tutti si capacitano che i prim sólcc guadegnàcc i è chèi risparmiàcc, ‘i primi soldi guadagnati sono quelli risparmiati’, come dice un nostro vecchio proverbio. Non è questione di grettezza o di avarizia o di taccagneria. Troppe volte la tradizionale parsimonia dei bergamaschi di un tempo è stata confusa con la spilorceria dai tanti trinciatori di sentenze che vedono la pagliuzza nell’occhio altrui e non la trave conficcata nel loro occhio. Risparmiare significa programmare, accantonare per senso di responsabilità, perché o prima o poi arrivano gl’impegni consistenti e se non si è fatta la scorta sono dolori. Anziché essere indotti alla sobrietà e all’assennatezza, si è invogliati da mane a sera a spendere e a spandere, tanto che si è definiti consumatori. Così facendo certi bilanci pubblici in rosso pesano sulle spalle dei cittadini e certe famiglie finiscono per essere travolte dai debiti. Inoltre, gli scienziati avvertono che le risorse del pianeta non sono infinite e che diverse materie prime, sempre più sfruttate, sono in via di esaurimento. Inutilmente la coscienza ecologica invita a contenere la produzione di rifiuti, il cui smaltimento è sempre più problematico. Si può continuare a consumare e a sprecare rovinando l’habitat, compromettendo l’ecosistema, trasformando il globo in una enorme discarica? Sarà il caso che si ritorni a educare ad un sano e costruttivo risparmio, come facevano i nostri antenati, che si preoccupavano di utilizzare nel modo migliore ogni risorsa e che si guardavano bene dal dissipare il denaro e dallo sciupare la roba. Té a mà de la spina per bötà vià del borù. Il vino è fatto per essere bevuto (moderatamente, s’intende). Esso è un corpo vivo e non inerte: se rimane per troppo tempo nella botte si altera perdendo progressivamente le sue caratteristiche organolettiche ed acquisendone altre che non sono più quelle del vino. Allora si è costretti a gettarlo svuotando la botte dal fondo, togliendo cioè il borù, il grosso tappo cilindrico che si trova appunto sul fondo della botte. Così per non aver attinto a suo tempo il vino dalla spina, si deve sopportare un danno ingente. Quando si vuole risparmiare troppo vivendo quasi alla busca, indossando abiti frusti e sdruciti e lasciando tarmare quelli nuovi negli armadi, si fa come quel contadino che, dopo aver tanto curato il suo vigneto ed aver vendemmiato, si riduce a svuotare le botti perché il vino si è alterato diventando aceto. La locuzione suona a condanna e ad irrisione dell’avarizia, che nuoce alla stregua dell’eccessiva prodigalità. A quale scopo lavorare tanto per poi sprecare il frutto del proprio lavoro? Perché vivere da pitocchi lasciando guastare per grettezza i cibi e i beni che hanno una durata limitata nel tempo? Dovendo incoronare Guido da Spoleto, il vescovo di Metz ordinò un pranzo regale. Egli ignorava che Guido, spregiatore dei conviti e nemico della buona tavola, era avvezzo a cibi poveri e scarsi. Quando glielo dissero, il vescovo ne fu tremendamente contrariato ed esclamò: “Come può meritare di cingere una corona regale un uomo come Guido, che si ciba di cipolle al pari di un miserabile?”. Té a mà ’l fiàt. Se non vale la pena di parlare perché la persona alla quale ci si rivolge non ascolta, non dà retta, non si cura delle ragioni che vengono addotte, si dice che conviene risparmiare il fiato. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Tecà vià ’l capèl. Di un giovanotto appartenente a famiglia di modeste condizioni economiche il quale sposi una donna ricca e vada ad abitare con lei si dice che l’à tecàt vià ’l capèl, ‘ha appeso il cappello’. Il gesto di appendere il copricapo è inteso qui come presa di possesso di un luogo e di una posizione sociale e quindi di una sistemazione per il resto della vita. Tègn a mènt. Il bergamasco ha un suo rapporto tutto speciale con la memoria. Gli basta poco per precisarne il concetto e definirne la natura. Non ama idealizzazioni e mitizzazioni. Non c’è Mnemòsine che tenga. Certamente il bergamasco ha tratto dal latino il sostantivo memòria e il verbo regordà. Di uno che abbia il cervello svanito e che non ricordi più niente si dice che l’à perdìt la memòria. E di generazioni immemori e ingrate, che spregiano i sacrifici e le conquiste degli antenati, si dice che i è sènsa memòria, per significare che hanno perduto i legami con il passato e che hanno disperso i valori e le virtù degli avi. Ho letto con sommo rincrescimento negli scritti di certi verseggiatori bergamaschi di questi anni la parola regórd (al plurale regórcc), brutto barbarismo. Le cosiddette “scuole di dialetto” potranno insegnare a distinguere un apostrofo da una elisione ma è difficile che suscitino la consapevolezza linguistica e la coscienza estetica: questo è un patrimonio che occorre conquistare giorno per giorno e possedere saldamente per poterlo trasmettere ad altri. Il sostantivo che indica il ricordo in bergamasco è memòria. E poi, fra il sostantivo e il verbo il bergamasco non ha dubbi di sorta e ricorre subito al verbo, che indica l’azione. Infatti regordà attiene al buon bergamasco e affonda le sue radici nel latino cor, -dis, con il prefisso iterativo indicante ciò che ritorna al cuore: re-cord-are. Il cuore è sentimento e l’atto di ricordare diventa intima commozione. Il bergamasco sa commuoversi come pochi ma non ammette di essere preso per il naso. Fa appello alla ragione e senz’aver compiuto studi sul cervello umano, sa d’istinto che la sede della memoria si trova all’interno della scatola cranica. L’atto di ricordare diventa allora ègn in mènt, ‘venire in mente’, o tègn a mènt, ‘tenere a mente’, a seconda delle necessità e delle circostanze. Se voi aulicamente dite ‘mi sovviene’, il bergamasco dice: a l’ me ’é ’n mènt, ‘mi viene in mente’; e l’imperativo italiano ricorda! suona in bergamasco: té a mènt!, letteralmente ‘tieni a mente!’, perché, come nel “Paradiso” insegna padre Dante, …non fa scienza / senza lo ritener l’avere inteso. A che ci serve il dono della memoria se m’ sè gna bu de té a mènt, se non sappiamo neppure ricordare? Tègn bòta. Significa: ‘Tener testa’, ‘Ribattere colpo su colpo’. Questo modo di dire è parente stretto della locuzione italiana Botta e risposta. Tègnela lónga. Meglio la laconicità della logorrea. Il bergamasco è di questo avviso e non ama prendere le cose alla lontana né accetta che si tergiversi menando il can per l’aia e infilando una sequela di frasi inutili e inconcludenti. La brevità gran pregio: è inutile impiegare molto tempo per esprimere un concetto che si può enunciare con poche parole appropriate. Se provate a far tanti sproloqui con un bergamasco è facile che vi sentiate dire: Tègnela mia tat lónga, letteralmente ‘Non tenerla tanto lunga’. Del resto, è risaputo che le visite più gradite (o meno sgradite) sono quelle brevi, nelle quali non si divaga e non si fa perdere tempo. È risaputo altresì che tante belle parole non hanno valore se non sono seguite da opere buone. Tègn in pé i orège. Si usa scherzosamente come formula augurale di saluto: Té ’n pé i orège, letteralmente: ‘Tieni in piedi le orecchie’. Si sa che le orecchie degli animali ammalati si abbassano: l’arguzia del saluto è fortemente realistica. Tègnes la pansa del grignà. Il dialetto ama i paradossi. Se ci abbandoniamo all’allegria ed esplodiamo in risate sonore, in bergamasco possiamo dire che m’ se té la pansa del grignà, ovvero che per il gran ridere siamo costretti a trattenere con le mani la pancia nel timore che scoppi. Tègn la drécia. Tenere la destra, stare sulla dritta via. Per raccomandare di comportarsi bene una volta i genitori dicevano ai loro figli: Stà sö la tò drécia! Oppure: Té la drécia! La destra era la via sicura, quella che aveva la precedenza. L’invito a stà sö la sò mà, a tenere la propria mano, compendiava il patrimonio etico degli avi, il lascito morale delle generazioni da onorare con un consono comportamento negli atti di ogni giorno. Alle superiori il professore di filosofia ci narrava l’apologo di Ercole al bivio fra la via che indica la virtù e quella che mostra il vizio (l’apologo è narrato da Senofonte, che lo attribuisce a Prodico, filologo vissuto nella seconda metà del V secolo a. C.); per esercizio di memoria noi ricordavamo subito le quattro virtù cardinali (prudenza, fortezza, giustizia, temperanza) e le tre virtù teologali (fede, speranza, carità), imparate studiando la dottrina cristiana. Capivamo che le formule del catechismo non erano vuote parole: vi ravvisavamo concetti alti e impegnativi, da tentare di tradurre nella pratica quotidiana superando resistenze dure e difficoltà enormi. Proprio questo voleva dire stà sö la sò mà, tenere la propria mano e cioè comportarsi sempre con rettitudine, non abbandonare le norme della virtù, non deflettere dalla strada del galantomismo. L’ideale di una vita virtuosa, alla quale sono chiamati credenti e non credenti, è stato distrutto non soltanto dal dileggio sistematico delle virtù (travisate tanto da essere rappresentate come imposizioni innaturali o divieti illiberali) ma anche dall’esaltazione e dalla glorificazione dei vizi, presentati come giusti e sacrosanti diritti da esercitare senza ostacoli o limitazioni di sorta. Una sfrenata mentalità consumistica ha favorito il propagarsi dell’illusione che tutto sia dovuto, che ogni velleità edonistica vada soddisfatta a oltranza, che l’attimo vada colto sempre e comunque e che sia non solo giusto ma perfino indispensabile coltivare qualche vizio, lasciando la pratica delle virtù a quelli che vogliono farsi santi. In realtà i precetti delle virtù sono guide liberatorie alle quali si ispira chi intende governarsi senza conformismi, senza ipocrisie o infingimenti, chi vuole camminare sicuro e spedito sulla propria mano. Del resto, se si è capaci de tègn la sò drécia è perché si sa dove si deve andare e non ci si lascia fuorviare. Tègn la mà söl có. ‘Tenere la mano sulla testa’. È atto che anticamente si compiva a simboleggiare la protezione nei confronti dei figli in tenera età. Se ne trasse il detto augurale: Che ’l Signùr a l’ te tègne la sò mà söl có, ‘Che Dio ti protegga tenendoti la mano sul capo’. Talora si aggiungeva scherzosamente: In manéra de squataràtel, ‘Così che ti schiacci la testa’. Tègn saldo ’l Crédo coi décc. La saldezza della fiducia in Dio guidò le generazioni passate aiutandole a superare a denti stretti ogni sorta di traversie. Chi non conosce la storia delle grandi sofferenze affrontate e patite di secolo in secolo dalla gente comune non è in grado di comprendere lo spirito di questa locuzione, fondata su quanto si legge nel Vangelo di Marco (XVI, 15): “Chi crederà sarà salvo, chi non crederà sarà condannato”. Dante definisce la fede “cara gioia / sovra la qual ogni virtù si fonda” (Paradiso, XXV). La locuzione è usata anche a deplorazione delle ipocrisie. Tègn ü pé in dò scarpe. Letteralmente: ‘Tenere un piede in due scarpe’. È il colmo dell’incoerenza. Si dice di chi abbraccia un partito e contemporaneamente il suo contrario. Té pà e fam. Si dice quando si vuole indicare un comportamento incoerente. Non si può parteggiare contemporaneamente per il pane e per la fame: chi ha fame non ha il pane mentre chi può disporre del pane non patisce fame. La locuzione rappresenta vivamente lo spirito di fazione, che induce ad estremismi nefasti. Si pensi al contrasto, più voluto che reale, fra ragione e fede: di qua la scienza, di là la superstizione e non c’è verso di far capire che il fondamentalismo induce ad errori colossali. Come non si può far dipendere la fisica dalla metafisica, così risulta assurdo che ancor oggi, sull’onda stanca di un greve positivismo anticlericale diffuso nelle taverne alla fine dell’Ottocento, si pretenda di risolvere tutti i problemi della conoscenza affidandosi unicamente alla scienza e ai suoi faticosi e problematici progressi. La realtà non si spiega da sé e la filosofia non trova risposte adeguate. Tèra de Bèrghem. Tèra è una parola della tradizione latina. In italiano assume molti significati contigui, dal nome del pianeta che noi popoliamo allo strato di humus che ricopre le rocce. La terra è materna per definizione, avendo Iddio creato l’uomo con l’argilla e avendone destinato il corpo alla polvere (“memento, homo, quia pulvis es et in polverem reverteris”). Ma in bergamasco la tèra appare ancor più materna che in italiano. Se in italiano io posso dire la mia patria, dove patria è aggettivo sostantivato (da terra patria, ‘terra dei padri’, ‘terra dei patres’, latinamente parlando), in bergamasco la patria è la tèra e ‘la mia patria’ diventa sic et simpliciter ‘la mé tèra’. Se proferita da un anziano, questa locuzione evoca tempi lontani, di generazioni che conquistarono fisicamente la terra, lavorandola giorno per giorno, disboscando, dissodando, arando, seminando, concimando, irrigando, falciando, raccogliendo, spigolando… Mi si perdoni la raffica dei gerundi. Se poi càpita di udir pronunziare la locuzione la mé tèra da un vecchio emigrante delle nostre valli ritornato d’estate per un soggiorno nella contrada natìa, allora si avverte nei precordi il sentimento dell’amor patrio. Ritornano alla memoria i versi di Omero, sia pure nella traduzione non sempre aulica del Pindemonte, quelli del primo libro dell’Odissea, dove Ulisse è rappresentato “pensoso” e “inconsolabile” nella dorata prigione dell’isola di Ogigia: “…ma ei non brama che veder dai tetti / sbalzar de la sua dolce Itaca il fumo, / e poi chiuder per sempre al giorno i lumi”. Omero narratore e descrittore sommo inventa il sublime inganno della tela di Penelope: “finché il giorno splendea, tessea la tela / superba e poi la distessea di notte / al complice chiaror di mute faci”. Ma non inventa nulla quando fa dire ad Ulisse, che narra ad Alcinoo le sue peripezie: “Deh, qual giammai l’uom può della natìa / sua contrada veder cosa più dolce?”. In tempi di mondializzazione si rischia di gettare allo ortiche il concetto di patria e di troncare il legame con la propria terra, disprezzando le proprie radici e cancellando la memoria degli avi. Ancora Ulisse dice ad Alcinoo: “…di dolcezza tutto / la patria avanza, e nulla giova un ricco / splendido albergo a chi dai suoi disgiunto / vive in estrania terra”. La voce di uno dei più grandi poeti dell’umanità, il veggente di Chio, giunge a noi dall’antichità per celebrare il sentimento della terra natìa come uno dei più alti che possa nutrire il cuore dell’uomo. Lo sa bene chi ha udito parlare in bergamasco in terra straniera. Tirà a mà di gioedé. Letteralmente: ’Addurre dei giovedì’. Metaforicamente: ‘Usare argomenti insignificanti’, ‘Accampare pretesti’, ‘Andare per le lunghe con con false ragioni o con scuse insensate’. Nello stesso senso si dice anche: Dà d’intènd di gioedé. Non ci si capacita dell’origine della locuzione se non si tiene conto che ol gioedé l’è ’l dé di macc, ‘giovedì è il giorno dei matti’, il giorno nel quale si concedeva la libera uscita agli ospiti sedati degl’istituti manicomiali. Tirà böschèta. Antonio Tiraboschi nel suo “Vocabolario” si limita a tradurre letteralmente: ‘tirare le buschette o le bruschette’ dando per scontato il significato dell’atto. Meglio precisare, incominciando col dire che la böschèta è un fuscello o una festuca. Quando in un gruppo di persone si deve decidere quale di queste debba compiere un’azione rischiosa od onerosa, ci si affida alla sorte: si prendono tanti fuscelli quanti sono i componenti del gruppo e uno tiene in pugno i fuscelli in modo che gli altri non possano scorgerne la lunghezza: chi estrae il fuscello più corto si assume l’incarico di compiere l’azione stabilita. Se invece occorre assegnare un premio a sorte, esso viene aggiudicato a chi ha estratto il fuscello più lungo. Molti non sanno che si tratta di un uso assai antico, che risale alla notte dei tempi. Già nel Medio Evo per non far torto ad alcuno dei concorrenti l’assegnazione di un terreno poteva essere decisa con l’estrazione a sorte (tirà a sórt) ed ancor oggi per questa ragione tante località sono indicate con il toponimo Sorte. Nella nostra preistoria le popolazioni insediatesi nell’arco alpino erano solite divinare il futuro nello stesso modo: usavano astine di bronzo sulle quali erano stati incisi segni che potevano indicare prosperità o sventura, successo o pericolo. Da Erodoto (IV, 67) apprendiamo che gli àuguri degli Sciti supponevano di prevedere il futuro con l’uso di bacchette di salice. Veniamo da tanto lontano che non riusciamo neppure a rendercene conto. Se dunque veniamo da lontano, dobbiamo pure essere capaci di andare lontano. Ma per sapere bene dove si deve andare non si deve mai dimenticare donde si è venuti. Tirà ciòch a’ sènsa biv. Se dico che i m’à tiràt ciòch a’ sènsa biv intendo significare che mi hanno stordito, che mi hanno ubriacato senza farmi bere. È locuzione di piena attualità perché viviamo nella società del chiasso e del frastuono. Non si può più andare in una sala da ballo o in una sala cinematografica senza essere aggrediti da rumori pseudomusicali e da “effetti sonori” diffusi a pieno volume. Non si può guardare un programma televisivo d’intrattenimento senza udire gl’imbonimenti da pescivendola e gli sbraitamenti di qualche burinotta seminuda che grida: “Restate con noi!”. Inutilmente i medici avvertono che occorre evitare i rumori forti e prolungati se non si vuole danneggiare l’udito. Stiamo crescendo generazioni di sordastri, i quali dovranno ricorrere all’impiego di apparecchi acustici prima della vecchiaia. L’eccessivo rumore non danneggia soltanto l’apparato auditivo ma altera il funzionamento del cuore e la circolazione del sangue, i nervi, l’apparato digerente, il sistema endocrino. Nessuno ci ha prescritto che dobbiamo rovinarci la salute esponendoci a suoni fastidiosi e a rumori insopportabili. Che bisogno abbiamo di farci stordire, di farci rincretinire dal chiasso, dalla violenza delle percussioni di certa musicaccia rozza e plebea? Un po’ di silenzio, per favore! Come si fa a riflettere, a padroneggiare le situazioni se si è continuamente frastornati dal baccano? E che cosa augurare agl’incoscienti e ai maleducati che infliggono al prossimo clamori e frastuoni? Motociclisti fracassoni che devono dimostrare a quante più persone possono la loro immensa imbecillità, automobilisti villanzoni e trogloditi che a notte fonda attraversano le vie della città coi finestrini abbassati e la radio a pieno volume credendo che tutto il mondo sia una balera di buzzurri… Gente balorda, rintronata e perennemente stordita, che non sa cogliere le voci sottili di un bosco e i sussurri della coscienza. Tirà fò i paròle col rampì. Di uno che sia di poche parole si dice, ricorrendo ad un’immagine realistica, che merèss tiràga fò i paròle col rampì, ‘cavargli di bocca le parole con l’uncino’. Tiràga dré gna i scarpe. Quando una certa cosa non regge assolutamente il confronto con un’altra si dice che la ghe tira dré gna i scarpe. È un bel rompicapo tentare di risalire all’origine di questa locuzione. Perché tirà dré? Forse nel senso di stà dré, ‘seguire a ruota’, e quindi ‘accostare’, ‘avvicinare’, con l’intento evidente di comparare. Ma che cosa comparare? Le scarpe? A ben riflettere, oggi tutti possono vestirsi con un certo decoro. Forse, proprio perché si è raggiunto un discreto tenore di vita e ci si può vestire elegantemente, la moda si sbizzarrisce da tempo nel propinarci modelli di pessimo gusto, giubbotti e pantaloni da facchini, contando sull’ingenuità delle nuove generazioni. Ma tant’è… Secoli or sono si notava subito la differenza fra gli abiti sfarzosi dei patrizi e i poveri cenci che coprivano gli straccioni raffigurati dal Pitocchetto e dal Todeschini, i quali dovevano accontentarsi perfino di calzature modeste. Sembra proprio il caso di dire che i ghe tiràa dré gna i scarpe! Vero è che l’abito non fa il monaco e che l’apparenza talora inganna. L’umanità è una sola: prima del colore della pelle e della foggia dell’abito che s’indossa, conta ciò che si è dentro. Possiamo anche vestirci con abiti eleganti e costosi ma se non sappiamo comportarci nelle dovute maniere sarà notata subito la differenza fra il lusso del nostro abito e la nostra mancanza di buon senso. Dicevano gli antichi egiziani che non si deve ridere presso quelli che piangono come non si deve andare a piangere fra coloro che stanno ridendo. È la differenza fra l’avere e l’essere a stabilire se si è degni dell’umanità: chi pensa soltanto all’avere non si periterà, se gli conviene, di andare a ridere fra coloro che piangono ma l’ ghe tirerà mai dré gna i scarpe a quanti avranno rispetto del dolore altrui. Che dire di più? Sarebbe troppo bello se di ogni locuzione caratteristica si conoscessero le ragioni e le circostanze che l’hanno generata. Tirà i gambe. Se un giovanotto si rivolge scherzosamente ad una ragazza di bassa statura domandandole perché è piccola, può sentirsi rispondere: Quando sére pissèna i m’à mia tiràt i gambe, ’Quand’ero piccola non mi hanno tirato le gambe’. La ragazza non si è offesa e ha risposto spiritosamente. Il giovanotto ha allora il dovere di replicare: Ol vì piö bu l’è chèl di bòte pissène, ’Il vino più buono è quello delle botti piccole’. Se non si affretta a dirlo, che gentiluomo è? Tirà i pé. Per tener calmi i bambini e per farli andare a letto presto non si trovava di meglio un tempo che spaventarli, minacciando che di notte i sarèss vegnìcc i mórcc a tiràga i pé, ‘sarebbero venuti i morti a tirare loro i piedi’. Figuriamoci con quale stato d’animo i bambini andavano a letto e da quali incubi potevano essere turbati. Tirà la carèta. Oggi sono assai poche le persone che hanno dimestichezza con i carri, quelli che un tempo venivano costruiti dai carradori. Naturale che sia così perché oggi si va in automobile. Ma un tempo in campagna tutti i contadini usavano il car e il carèt. Il carro era mosso da quattro ruote, due delle quali erano mobili e venivano comandate dal timone; lungo e capiente, il carro aveva i bordi ribaltabili e poteva trasportare ogni sorta di prodotti della terra. Il carretto invece aveva due ruote soltanto ma molto grandi e ricoperte da un cerchio di ferro; aveva inoltre due stanghe, alle quali veniva attaccato il cavallo. La carèta era infine un piccolo carro a due ruote, con un piano più basso di quello del carro e normalmente privo di bordi; essa veniva tirata a mano da un uomo. Straccivendoli, fruttivendoli, legnaioli, rivenduglioli, ambulanti si servivano normalmente della carretta e negli anni immediatamente successivi alla guerra se ne vedevano ancora in giro per le nostre strade. Ora tutto è cambiato ma c’è ancora, metaforicamente parlando, chi tira la carretta. Quanti di noi hanno imparato tanti anni fa ad impugnare le stanghe e a tirare la carretta dei sogni e delle speranze! Tirà l’aqua al sò mülì. Quando l’economia era prevalentemente agricola erano molti i mulini, che servivano per macinare le granaglie e per ridurle in farina, ma occorreva regolare il flusso dell’acqua dei fiumi e dei canali per permettere il funzionamento di ogni impianto. Qualcuno ogni tanto faceva il furbo e deviava il corso dell’acqua così da poter mettere in funzione il proprio mulino al di fuori del turno stabilito. Ciò poteva provocare conflitti e determinare l’intervento delle autorità in difesa di chi si vedeva privato dell’uso dell’acqua durante il turno assegnato. Nelle giovani generazioni è assai scarsa la conoscenza della vita agreste di un tempo: sorge dunque la necessità di spiegare la locuzione perché oggi manca spesso la consapevolezza che nel corso dei secoli il territorio è stato modificato e plasmato dall’uomo secondo le esigenze primarie della sussistenza. Attrarre l’acqua al proprio mulino significa dunque fare il proprio interesse in modo tanto esclusivo da recar danno agli altri, infischiandosene delle leggi, dei regolamenti, degli accordi, perfino della parola data. Se si sono stabiliti dei turni, significa che tutti si è chiamati ad osservarli e che non è lecito alterarli a proprio piacimento; chi lo fa, va scoperto e sanzionato. La locuzione contiene l’iimplicita condanna del comportamento disonesto di chi attrae l’acqua al proprio mulino. Ma l’etica severa dei nostri vecchi in questi tempi non sembra essere molto tenuta in considerazione. Tirà la schéna adré al mür. È l’atteggiamento di chi pensa soltanto a sé, di chi non vuole assumersi alcuna responsabilità e se ne sta con la schiena al muro cosicché nessuno possa prenderlo alle spalle. La locuzione, usata a Treviglio e nella Bassa Bergamasca, indica persone prive di senso sociale. Tirà ol sgarlèt. Si può tradurre: ‘tirare le cuoia’. Nel dizionario bergamasco dello Zappettini si legge: “Tirà ’l sgarlèt: morire, fare quei moti convulsivi che, poco prima della morte, fanno gli animali feriti”. Allude il nostro diligente lessicografo dell’Ottocento al fatto che gli animali muovono le gambe agitandole in tremiti qualche istante prima di morire. La voce sgarlèt deriva dal lemma celtico gar-, ‘gamba’ (donde il garretto della lingua italiana e l’aggettivo bergamasco sgarlàt, ‘storpio’, ‘claudicante’). La trafila dovrebbe essere: gar(r)>garula>gar(u)lèt>garlèt>sgarlèt. Per significare che una persona è morta si può dunque dire che l’à tiràt (o l’à tràcc) ol sgarlèt ma è modo basso. Tirà sö i archècc. È locuzione eufemistica che indica l’atto di morire: l’à tiràt sö i archècc, ‘è morto’. Ricorda una pratica di aucupio proibita dalla legge perché ritenuta giustamente crudele e dolorosa per i volatili catturati. Tocà fèr. Una superstizione diffusa vuole che nominando uno iettatore o evocando una disgrazia si debba al più presto toccare un oggetto di ferro allo scopo di allontanare la sfortuna. Il bergamasco allora esclama imperativamente: Tóca fèr! Tanto tempo fa bastava toccare una chiave, che era sempre fatta di ferro. In certe regioni d’Italia nel caso di un’improvvisa epistassi si ricorreva al gesto scaramantico di farsi addirittura sfregare la chiave sulla schiena. Anche le forcine metalliche usate dalle donne per trattenere i capelli servivano da amuleti contro il malocchio. Dal momento che si è in tema di scaramanzie, ricordo che gli antichi romani ritenevano foriero di sciagure l’atto d’incespicare. Se capitava, erano usi ritornare sui loro passi e ripercorrere il tratto nel quale avevano rischiato di cadere. L’avvocato Maleherbes, che aveva invano difeso Luigi XVI innanzi al tribunale della Rivoluzione e che fu a sua volta condannato a morte, incespicò mentre si recava al supplizio della ghigliottina. Rialzatosi, disse a chi lo accompagnava: “Ah, questo è proprio un brutto segno. Se fossi nell’antica Roma, voi mi permettereste di ritornare sui miei passi”. Per ritornare alla locuzione tocà fèr, Antonio Tiraboschi comprese fra i giochi fanciulleschi in auge nell’Ottocento il gioco detto tóca-fèr, nel quale “i giuocatori, finché toccano un oggetto di ferro, non possono essere presi dagli altri”. Nella protostoria il passaggio dal bronzo al ferro fu di capitale importanza: i popoli che per primi avevano messo le mani sulle miniere di ferro potevano disporre di spade e di aratri forgiati con un metallo assai più resistente del bronzo. A Parre, antico centro retico, in località Castello fu scoperto nell’Ottocento un consistente deposito di rame utilizzato da antichi forgiatori: forse fu proprio un popolo che disponeva di armi di ferro a far cadere l’oppidum di Parra di cui è testimonianza in Plinio, oppidum da cui discesero i bergamaschi. L’uso del ferro per gli zoccoli dei cavalli assunse notevole importanza per i popoli guerrieri; presso gli antichi Germani il ferro di cavallo (da appendere con le punte rivolte verso l’alto) era già ritenuto un portafortuna. La tradizione cristiana non si oppose a questa usanza perché si seppe di San Dustano, maniscalco, al quale un giorno il diavolo si presentò vestito da cavaliere ingiungendogli di ferrargli un piede. Il santo lo accontentò ma lo fece con tale violenza da procurare dolori terribili al diavolo, il quale fu costretto a confessare la sua identità e a promettere di non comparire più ad alcun maniscalco. Tö in öde. Non conosce l’anima bergamasca chi non conosce la parlata bergamasca. La pacatezza dei sentimenti e la compostezza delle manifestazioni trova spesso perfetto riscontro nelle locuzioni. Si pensi ad una delle passioni più esecrabili dell’animo umano: l’odio. In bergamasco si può dire che non esista il corrispettivo del verbo odiare. Si deve ricorrere alle locuzioni tö in öde e ìga in öde, letteralmente ‘prendere in odio’ e ‘avere in odio’. Un conto è dire tö in öde, che indica l’atto di chi incomincia ad odiare una persona o una cosa, e altro conto è dire ìga in öde, che indica invece il permanere del sentimento dell’odio. In nessun altro caso il bergamasco ammette l’uso della voce öde, che in analisi logica non può pertanto assumere la funzione del soggetto o dell’oggetto. Dunque, non posso tradurre ‘ti odio’ se non in questo modo: t’ó in öde, letteralmente ‘ti ho in odio’. Se dicessi te òdie userei un neologismo e potrei essere disapprovato da chi il bergamasco lo conosce e lo parla bene. Così non posso tradurre in bergamasco la voce italiana odio usata come soggetto o in un qualunque complemento che non sia quello delle due locuzioni sopra indicate (da ricondurre al complemento di luogo figurato) perché l’anima bergamasca censura un sentimento tanto abietto e tende ad ignorarlo pur di non praticarlo. Qualcuno obietterà che non è sopprimendo una parola che si combatte la negatività insita nella parola stessa. Ma nel nostro caso la cancellazione del termine è effetto dell’educazione e pare ancora di udire la voce dei nostri vecchi, i quali ammonivano che il prossimo va amato e non odiato, che non si deve fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi. Le generazioni passate credevano in queste norme etiche e si preoccupavano d’insegnarle ai giovani non per sterile e stolto buonismo ma perché senza di esse non esiste comunità pacifica e armoniosa. Le cronache riferiscono ad abundantiam le catastrofi materiali e morali delle società nelle quali è predicato e professato l’odio, società rovinate dalla violenza, dall’aggressività, dalla rivalità, dal fanatismo, dall’esaltazione cieca. Chi odia è intollerante per antonomasia, ha bisogno di un nemico da combattere e da eliminare o da sottomettere; eliminato un nemico, se ne procura un altro, perché non ammette l’esistenza dell’amore nella sua forma più alta: la carità, sorella maggiore della generosità. Chi odia non ragiona. Invece ai nostri vecchi, che non erano fondamentalisti e assolutisti, l’ ghe piasìa a ragiunà: perfino il loro vocabolario lo attesta senza ombra di dubbio. Tómbola! Si esce in questa esclamazione quando si constata che qualcuno ha svelato un arcano, ha indovinato un fatto o ha azzeccato un argomento, insomma ha fatto centro. Si sa che nel gioco della tombola quando tutti i numeri di una cartella sono stati estratti il fortunato giocatore lo fa sapere agli altri esclamando ad alta voce e con comprensibile gioia: Tombola! Così il giocatore cui soltanto una casella non sia stata ancora occupata dice: Per ü, intendendo cioè che gli manca soltanto un numero per completare la cartella e fare tombola. In questo gioco chi estrae i numeri è autorizzato a proferire le “varianti” eufemistiche ben note ai giocatori. Per avvertire che è stato estratto il numero 1 può dire: ol caécc, oppure ol capo di làder. Il 2 è detto dùnemel, l’8 i ögiài, ‘gli occhiali’, l’11 ol fécc, il 22 i ochine, il 33 i agn del Signùr, il 44 i scagnine, il 47 ol mórt che parla, il 48 ol mórt (ma questo non parla), il 55 ol pighéss, il 66 i sibrine, ‘le ciabattine’, il 69 ol sö e zó, ‘il su e giù’, il 77 i gambe di fómne, l’88 i ögiai del Papa, il 90 ol nóno ma anche la pura (si dice che “la paura fa novanta”). Certamente ne avrò dimenticato qualcuno ma tanto basta perché ci si renda conto della capacità di osservazione e della fervida fantasia dell’anima popolare. Divertimento innocuo, quello della tombola. Qualcuno ebbe la dabbenaggine (o la stupidità?) di considerarlo gioco d’azzardo e durante un’estate degli anni Sessanta del Novecento alcune signore di Bergamo, che stavano tranquillamente giocando nel cortile di una casa della contrada di Broseta, si videro improvvisamente circondate da un gruppo di finanzieri che le terrorizzarono minacciando sanzioni incredibili. Il fatto peregrino mise a rumore mezza città e non pochi bergamaschi ebbero ragione di considerare la pochezza, l’inefficienza e l’inadeguatezza di un apparato che lasciava tranquillamente prosperare in alcune regioni la malavita organizzata (premiando e incoraggiando i capicosca con aberranti provvedimenti di confino in note località climatiche dell’Italia Settentrionale) e che da noi assumeva comportamenti tanto inutili e disdicevoli. Tön fò se ghe n’è dét. Parlavo tempo fa con un conoscente della incredibile moda dei videopoker e dei danni sociali provocati da quelle diavolerie, che hanno impoverito tante famiglie. Ci si domandava che cosa poté spingere tante persone, soprattutto delle categorie sociali più deboli e indifese, a lasciarsi contagiare dall’epidemia di quegli assurdi aggeggi, concepiti per spillare soldi agl’ingenui e ai gonzi. L’interlocutore osservò che soltanto un preoccupante vuoto interiore poté indurre tante persone a stare per ore intere davanti a uno schermo affidando all’azzardo le proprie sorti finanziarie. Un comportamento non è mai casuale: a seconda delle scelte che si compiono si dimostra se si è ricchi o poveri interiormente, se si ha una buona considerazione di sé e del valore della propria vita o se ci si stima tanto poco da lasciare al caso, anziché al buon senso, il destino della propria condizione economica. Töghen fò se ghe n’è dét, ha concluso il mio interlocutore. Già: che cosa volete togliere da un contenitore vuoto, che cosa volete ottenere o ricavare da una coscienza priva di valori e di princìpi saldi, da una persona interiormente vuota? De nihilo nihil, dicevano gli antichi: dal niente non sorte niente. Dipende tutto da come si è stati educati. Isocrate descrisse le abitudini austere dei giovani spartani di alto rango, che non frequentavano le bische e i bordelli, che non andavano a mangiare e a bere nelle taverne, che non perdevano il loro tempo ad osservare gli spettacoli dei buffoni e dei giocolieri, che si guardavano bene dal disobbedire ai genitori e che tenevano in grande onore gli anziani. Sarà anche stata un’educazione molto severa ma non si può certo dire che fosse priva di princìpi morali. Oggi siamo circondati dal disimpegno proposto come originalità, dalla superficialità gabellata per genialità, assistiamo allo scialo dell’effimero, dell’esteriore, del vuoto di valori truffaldinamente presentato come una conquista. Tüìn fò se ghe n’è dét! Tö la misüra. Si misura con il metro, essendo ormai universalmente accettato il sistema metrico decimale, da noi ufficialmente introdotto nel 1814. Un tempo si usava un regolo, ossia un pezzo di legno lineare riquadrato; quello lungo due braccia era appunto chiamato misüra, quello lungo un solo braccio era detto misürèt. Prima del 1814 le misure si prendevano a brass, a pé e a pass. Sulla fronte settentrionale della basilica di Santa Maria Maggiore in Bergamo Alta sono ancora infisse alcune misure metalliche usate dai venditori di stoffe durante i mercati. Furono loro forse a dare origine al detto: Sènto ólte misürà e öna ólta teà, ‘Cento volte misurare e una volta tagliare’. Si dice anche: Chi la misüra l’ la düra, perché dura di più chi sa amministrare bene le proprie energie. I nostri vecchi insegnavano anche a misürà bé i paròle, badando bene a ciò che si dice. Ritornando al metro, è bene ricordare che in bergamasco il centimetro si dice ghèl, che vuol dire anche ‘quattrino’, ‘centesimo’; al plurale suona ghèi, il che non ha rapporto alcuno con la pronunzia di una parola inglese che ha ben altro significato. Se dico tö la misüra intendo dire ‘misurare’. Ma se dico töga la misüra alludo scherzosamente al fatto che si spende tutto ciò che si ha: se una donna andata al mercato la gh’à töld la misüra ha speso tutti i soldi che aveva con sé. Se invece ricorro alla locuzione dà mia la misüra giösta intendo alludere ad un’azione truffaldina: un venditore di caldarroste l’ m’à mia dàcc la misüra giösta perché ha lasciato semivuoto il sacchetto. È sempre questione di misura, come ben sanno i musicisti, i quali giustamente non ammettono che si sbagli la durata di una nota. Mai ’ndà fò de misüra, ‘Mai andar fuori misura’. Tö ’n giro. ‘Prendere in giro’. È il farsi beffe di qualcuno, come se lo si conducesse in giro a piacimento per deriderlo. La locuzione sembra evocare i giochi fanciulleschi di un tempo, quello dei più piccini, che si divertivano a muoversi in girotondo osservando norme delle quali spesso non si conosce più l’origine e non si comprende più la ragione. Tö sö i gàbie. Il bergamasco non esita ad adombrare l’idea della morte richiamando l’antica pratica, un tempo diffusissima, dell’aucupio con il roccolo o con la bressana, dove si tenevano in gabbia gli uccelli da richiamo. Nel significato di ‘morire’ si dice tuttora tö sö i gàbie, l’atto che compiva l’uccellatore rimuovendo le gabbie dal roccolo quando era finita la stagione del passo dei migratori. Eufemistica è anche la locuzione portà i gàbie de sura, che si potrebbe tradurre ‘andare ad uccellare all’altro mondo’. Ancor più realistico, inequivoco e perentorio è il detto serà fò ’l ròcol, ‘chiudere il roccolo’. Di tutti gli eufemismi che mi è capitato di udire questo è davvero uno dei più esorcizzanti. Tö sö ’l du de cópe. Le carte da gioco dette bergamasche presentano quattro semi: coppe, spade, bastoni e denari (detti anche ori). Le carte sono dieci per ciascun seme e si usano per molti giochi, i più diffusi dei quali sono la briscola, la scopa e il tressette. Ogni gioco ha le sue norme e attribuisce ad alcune carte determinati valori. Se una persona non ha mai giocato a briscola non può capire che cosa significhi la locuzione: Cöntà come ’l quàter de spade quando de brìscola gh’è zó bastù. Se la briscola è una carta che appartiene al seme dei bastoni, il quattro di spade, che l’è mia ü càrech, non ha alcun valore e viene definito scartì. Anche il due di coppe l’è ü scartì, tanto che dire di una persona che la àl come ’l du de cópe significa dire che non vale niente. Ecco che di un tomo importuno che se ne sia andato da un certo luogo per non trovarsi a disagio si dice che l’à töld sö ’l du de cópe. Tös zó di spése. ‘Togliersi dalle spese’: è locuzione eufemistica che vale ‘morire’. Nel sonetto “Ú neùt” (1928) di Giuseppe Bonandrini, composto nella parlata casnighese, si legge: “Sa l’ gh’ìa negót a l’ fàa benù a crapà / per tös gió prèst da e spése”, ‘Se non possedeva niente faceva benone a crepare per togliersi presto dalle spese’. Nella parlata veneta: Tirar fora da le spese. Töt de fröst. Provate a rivolgere a un bergamasco la seguente domanda: Gh’è di nüità? In assenza di nuove, è facile che vi risponda: Töt de fröst. Quindi non solo non c’è niente di nuovo ma il vecchio che già si conosce è frusto, ossia logoro, consunto, liso, perché la fantasia popolare ama l’iperbole. L’idea dello sfibramento non si attaglia più soltanto ai nostri millenari e gloriosi dialetti, tanto ricchi di storia e di umanità, ma anche alla lingua nazionale, che sta per essere sopraffatta dalla versione americana della lingua inglese. Nelle nuove edizioni dei più diffusi vocabolari italiani gli aggiornamenti segnano un arretramento, indicano la debolezza intrinseca di una lingua alla deriva, che adotta acriticamente parole angloamericane tratte dal latino, dalla lingua cioè dalla quale l’italiano dovrebbe attingere per naturale disposizione. Inoltre, da più parti è stata osservata l’incongruenza dei termini introdotti dall’informatica. Per i nostri ragazzi la ‘chiocciola’ non è un gasteropodo ma un elemento del ‘sito’, parola che in bergamasco possiede ben altro significato nonché una potente forza imperativa (se oggi c’è tanta confusione l’è perchè m’ sè piö bu de fà sito, infatti se non si tace non si pensa e se non si pensa non si combina mai alcunché di buono). Non parliamo del ‘virus’, che non si limita più a procurarci l’influenza ma che ci blocca l’attività dell’informatizzatore (così in italiano dovremmo definire il computer). Sarebbe bene che imparassimo a chiamare ‘cursore’ il mouse perché non è piacevole avere per le mani un topo. Che dire dei verbi? A parte l’orribile ciattare, che dimostra fino a quale punto la globalizzazione ci stia allontanando dal buon gusto, dalla grazia e dall’eleganza, ci vuole una bella grossolanità a reimpiegare il verbo scannare, che vuol dire ‘tirare il collo’, nel senso di ‘far funzionare lo scanner’. L’uso informatico del verbo scaricare fa poi venire in mente quel buon uomo che si occupava del trasporto del letame. Un giorno gli domandarono “se l’ se n’intendìa de rüt”. Ed egli per darsi un sussiego rispose in italiano: “Parlarmi a me di rutto che ne ho descargate delle mide!”. Bergamasco rüt, dal latino rudus, ‘letame’. Bergamasco mida, dal latino meta, ‘mucchio’. Tanto di cappello al bergamasco, signori! Non ha parole sciatte, incolori, scipite, come quelle oggi usate da un popolo che sta perdendo il dono della fantasia. Senza fantasia non si va lontano, tutto invecchia. A l’ deènta fröst, insomma. Töte i scüse i è bune. Tutte le scuse sono buone per fare o per non fare alcunché. In effetti si accampa sempre un motivo o un pretesto, che suona come una scusa, per compiere qualcosa che la gente di buon senso non si aspetterebbe. Vi svegliate un mattino e apprendete dalla stampa o dalla radio che un governante con una tassa improvvisa ha prelevato una percentuale dai vostri magri risparmi, agendo come un ladro ma tirando naturalmente in ballo la giustizia sociale, come fanno tutti i demagoghi e gli arruffapopoli che si rispettano. Ebbene, non vi rimane, davanti alla turlupinatura, che commentare: Töte i scüse i è bune. La televisione vi dice che alcuni “bravi ragazzi” dal volto coperto, armati di bastoni e di bulloni, arrestati dalle forze dell’ordine mentre compivano atti di violenza, sono stati sollecitamente rimessi in libertà per ordine di un giudice, il quale motiva il suo provvedimento con la scusa di non ritenerli affatto pericolosi. Avrete almeno il diritto di commentare: Töte i scüse i è bune! Vorrebbero che stessimo zitti davanti a provvedimenti assurdi? Che libertà ci rimarrebbe se pretendessero di tapparci la bocca? Clemente VIII, preoccupato che ogni mattino si trovasse appesa alla statua di Pasquino una poesiola ironica che criticava questo ufficio o quel funzionario, questo decreto o quel provvedimento, mandò un suo consigliere di fiducia da Torquato Tasso, ospite dei frati di Sant’Onofrio al Gianicolo, perché si pronunziasse sull’eventualità della rimozione della statua. Il grande poeta rispose che tale atto avrebbe indispettito la popolazione. Piuttosto, per far cessare le pasquinate anonime il governo (suggerì il Tasso) avrebbe dovuto essere affidato a uomini avveduti, capaci e probi, in grado di emanare leggi giuste. Quando si dice che töte i scüse i è bune si evoca lo spirito satirico degli anonimi censori che nottetempo appendevano i loro strali poetici alla statua di Pasquino. Non si disperda la sana arguzia dei nostri avi, i quali non rinunziavano a motteggiare e a dir la loro. La critica, se garbata e dettata dal buon senso, è sempre salutare. Töt ol mónd a l’è paìs. È difficile dire se sia stata di vero giovamento nella temperie illuministica l’introduzione forzata dell’appellativo cittadino, tanto caro alla retorica nominalistica del giacobinismo. In quel tempo il termine paisà e il suo corrispondente italiano paesano furono pesantemente svalutati e da allora soffrono di un’accezione pesantemente negativa. Un tempo infatti la voce paisà indicava indifferentemente sia l’abitante di un paese sia il contadino. Un nobile possidente, volendo riferirsi ai contadini che lavoravano il suo podere, diceva: I mé paisà. E l’abitante di un paese era definito paisà; di uno che abitava nello stesso paese si soleva dire: L’è ü mé paisà. Si sottintendeva così una comunanza di sentimento e di abitudini data non solo dal luogo ma anche dalla conoscenza e dalla frequentazione personale. Generosi di ciò che non costa niente, fra un colpo di ghigliottina e l’altro i rivoluzionari regalarono la qualifica di cittadino a tutti, oves et boves, se così è lecito dire. E gli abitanti delle città, soprattutto i borghesi emergenti, si sentirono allora in diritto di distinguersi da quelli del contado attribuendo alla voce paesano un senso fortemente negativo. Ma è ormai tempo di restituire agli abitanti dei paesi ciò che fu loro sottratto perché non si sentano da meno di quelli delle città. Nel 1995 il Comune di Rivalta Bormida conferì a Norberto Bobbio la cittadinanza onoraria. Per quella circostanza il noto pensatore dettò alcune riflessioni, fra le quali si legge: “È bene mantenere le proprie radici. Guai agli sradicati. Le radici si hanno nel paese d’origine, nella terra, non nel cemento della città. Solo nel paese esiste il prossimo”. L’anonimato della città non può di certo favorire la vita comunitaria e se questa manca, si regredisce nell’individualismo, si disperde il patrimonio dei valori fondanti, che si diffusero in secoli lontani da una contrada all’altra della Penisola italiana e dell’intera Europa. Quei valori unificanti, che si propagarono in una realtà policentrica e multilingue, sono la linfa vitale che ha irrobustito le radici della nostra civiltà. Cerchiamo allora di salvare le radici che ci sono rimaste, anziché calpestarle e reciderle. Tutto il mondo è paese. Verissimo. Ma si ha pure il diritto di avere una propria terra e di dire: ol mé paìs. Tra gnach e petàch. ‘Né di qua né di là’. È la locuzione dell’indecisione. Si dice quando non si sa che cosa scegliere fra due partiti che non entusiasmano. L’asino di Buridano, che morì per non sapere quale dei due mucchi di fieno mangiare per primo, era proprio tra gnach e petàch. Del resto, avendo riguardo alla semantica, la scelta è ben misera perché va fatta tra gnach, ‘neanche’, e petàch, parola che si usa solo in questa locuzione e che appare formata sull’antico lemma pet-, ‘pezzetto’, ‘frammento’. Trà in ària ’l capèl. Questa locuzione oggi si ode raramente, forse perché sono pochi gli uomini che portano il cappello per proteggersi dai rigori invernali evitando così raffreddori, sinusiti e otiti. Si crede di essere più disinvolti ed eleganti senza cappello e non si considera che un copricapo scelto bene non può che migliorare l’aspetto di una persona. Del resto per ogni volto c’è un cappello o un berretto con la foggia adatta. La locuzione trà in ària ’l capèl appare in un sonetto bergamasco dell’avvocato Sereno Locatelli Milesi, che vi accosta un’altra locuzione: girà ’l mónd. Lanciare in aria il cappello è gesto festevole, che esprime gioia incontenibile; i bergamaschi – non si sa bene quando – decisero di andare ben oltre e di associare al gesto di giubilo del cappello lanciato in aria l’idea di partire per un viaggio di piacere. Occorre pensare che un tempo pochissime persone potevano concedersi il lusso di assentarsi per darsi alla bella vita o anche solo per trascorrere una ritemprante villeggiatura. Dunque, per i bergamaschi trà in ària ’l capèl vuol proprio dire ‘partire per un viaggio di piacere’, ‘andare per diporto in qualche località amena e trascorrervi qualche tempo nella spensieratezza’. Desiderio di evasione, nomadismo ed esotismo si fondono oggi nella diffusa abitudine di concedersi una vacanza compiendo un viaggio in una località lontana. Pensando alle condizioni nelle quali si vive nei centri abitati (ritmi di lavoro incalzanti che conducono allo stress e alla nevrosi, abitudini alimentari che danneggiano la salute, inquinamento atmosferico e acustico, odori sgradevoli, circolazione caotica, sporcizia lungo le strade, maleducazione diffusa, delinquenza ovunque e conseguente mancanza di sicurezza per i cittadini onesti, che sono la stragrande maggioranza) non ci si deve meravigliare se c’è chi, a costo di spendere somme non indifferenti, viaggia per diporto pur di sottrarsi ad una realtà che non ha nulla di roseo e di rasserenante. D’altra parte non tutti hanno l’animo imperturbabile del filosofo o l’equilibrio interiore che indusse Marco Aurelio a scrivere nei suoi “Pensieri”: “Alcuni cercano luoghi solitari, dimore fra i campi, sulle rive del mare, sui monti; ma quando lo si desidera, è possibile ritrovarsi soli con se stessi in ogni istante”. Si tenta di riacquisire una dimensione umana quando si è in vacanza ma si rinunzia a dare un volto meno problematico alla vita di tutti i giorni. Peraltro, il trovarsi spesso con la valigia in mano non è una condizione ideale di vita. Trà in monéda. Ai bergamaschi non piace menare il can per l’aia e soprattutto non piace essere presi in giro: amano parlare chiaro e tondo e dire le cose come effettivamente stanno. Tràla in monéda, ‘convertire in moneta sonante’, vuol dire uscir di metafora e fare i conti con la realtà. Lo spirito di concretezza induce sempre a quantificare, a monetizzare, a pervenire a conclusioni inequivoche, come quando si fa un conto e si arriva al totale, fossero anche spese minute che obbligherebbero a maneggiare una caterva di centesimi, ritornati in auge con l’adozione dell’euro come unica moneta europea. La tanto rimpianta liretta si prestava troppo agli arrotondamenti, applicati con il pretesto di fare cifra tonda ma che erano per lo più sfavorevoli all’acquirente, a costo di provocare un movimento inflativo. A proposito, chissà perché si tende a scrivere inflattivo con il raddoppio meridionalistico della dentale? È un errore ma finirà per essere accettato dai lessicografi in quando di uso comune, un uso imposto dai mezzi busti televisivi, che non sanno esprimersi in italiano corretto e che dovrebbero essere cacciati. Così va il mondo. Trà ’l sàmbel. Nella pratica dell’uccellagione con il roccolo il sàmbel era l’uccello da richiamo, che con il suo canto invitava i volatili di passaggio a posarsi nel piano in cui era stata distesa la rete per la cattura. Se di un tale si dice che i gh’à tràcc ol sàmbel significa che è stato allettato e lusingato tanto da essere coinvolto in un affare a lui sfavorevole. Trà ’l sàmbel, letteralmente: ‘Lanciare lo zimbello’; significa insomma: ‘Ingannare con lusinghe’. Il bergamasco sàmbel discende dal latino classico cymbalum, sia pure attraverso la mediazione del provenzale cembel, ‘piffero’. Trènta piö ü vintü. L’età delle donne sfugge spesso all’ordine dell’aritmetica. Ecco perché quando una trentenne raggiunge i trentuno si sente autorizzata a dichiararne ventuno (alla faccia dell’anagrafe). Troà l’America. Se una persona trova un’ottima occupazione o una buona sistemazione diciamo che l’à troàt l’Amèrica. Già nel Seicento l’America era un continente favoloso nel quale si andava a far fortuna e risale a quel tempo la locuzione Valere un Perù, perché dalle miniere del Perù proveniva l’oro che i pigri e panciuti galeoni spagnoli attraverso l’Atlantico recavano al tesoro della corona spagnola, permettendolo inglesi e pirati. Ma la locuzione evoca anche l’ingente flusso migratorio degli anni successivi all’unificazione politica della Penisola, quando le classi popolari pagarono lo scotto delle politiche improvvide di un ceto dirigente inadeguato, presuntuoso e di corte vedute. Per un emigrante che dopo tanto tempo ritornava al paese natio con il suo gruzzolo quanti rimanevano a vivere una vita grama di sacrifici in terra straniera, al di là dell’oceano! Nell’immaginario collettivo l’America era, nonostante tutto, il paese in cui si andava a far fortuna. “Mamma mia, dammi cento lire che in America voglio andar”, diceva la canzone popolare, che si concludeva con la tragedia di un naufragio. Troppo sfavillanti le luci di Broadway e di Hollywood, troppo evidenti l’opulenza dei mezzi e la ricchezza delle risorse per non credere al mito, rafforzato nel 1945 dai liberatori, che alla nostra gente affamata e prostrata da cinque anni di guerra lanciavano dagli autoblindi pacchetti di sigarette e tavolette di cioccolato. Pochi ricordano che furono loro a rovinare il potere di acquisto della nostra moneta mettendo in circolazione le am-lire, carta straccia che non era sostenuta da alcun corrispettivo aureo. A proposito di oro, non lo è tutto ciò che risplende: da tempo ormai abbiamo imparato che l’America non è il paese di Bengodi e che il benessere del continente nordamericano ha le sue luci e le sue ombre. “È qui da voi l’America”, mi disse una volta una nostra suora missionaria rientrata in Italia dagli Stati Uniti descrivendomi i risvolti sociali negativi di un’economia fondata essenzialmente sul progresso consumistico. E un anziano signore di Zogno mi narrò che da ragazzo una volta aveva detto a suo padre, il quale lo invitava a seguirlo nel lavoro dei campi: “Öle ’ndà in Amèrica, mé!”. E il padre, che in America era stato davvero, porgendogli la falce e indicandogli l’erba da segare, gli rispose: “A té bambo! Te la dó mé l’Amèrica!”. Troà la tèta buna. Si dice quando si trova una buona fonte di guadagno o si capita in una situazione favorevole, che si presta ad essere sfruttata. È locuzione fortemente realistica. Tròpa gràssia, Sant Antóne! È noto l’aneddoto dell’uomo corpacciuto che per il suo peso non riusciva a salire in groppa al cavallo. Invocò allora Sant’Antonio, indi con tutta l’energia di cui disponeva si diede a montare la cavalcatura ma per lo slancio non riuscì a fermarsi a cavalcioni e cadde dall’altra parte. Rialzatosi dolorante per la caduta, mormorò: “Troppa grazia, Sant’Antonio!”. Si dice quando ci si trova a disagio per aver ottenuto molto di più di quanto si sperava. Tròp sadól. Lo dicevano le nostre nonne ai figli svogliati e viziati. Che tròp sadól che te sé!, esclamavano in tono di rimprovero quando dovevano deplorare comportamenti inammissibili. Il rimprovero era rivolto non soltanto ai figli che mangiavano a crepapelle saziandosi oltre misura in anni nei quali c’era gente che pativa la fame ma anche e soprattutto a quelli che manifestavano una capricciosa infingardaggine per essere stati troppo vezzeggiati ed accontentati in ogni voglia. Gente satolla ce n’è sempre stata perché così va il mondo. Anche oggi se ne trova. Chi non ne è persuaso legga il saggio della scrittrice francese Viviane Forrester pubblicato in Italia alcuni anni fa da Longanesi con il titolo: “L’orrore economico”. Secondo la saggista la globalizzazione dei rapporti economici ha prodotto effetti nefasti, che da un lato favoriscono arricchimenti spropositati e dall’altro impoveriscono ulteriormente chi si trova già in condizioni precarie. Giustamente la Forrester ritiene che l’economia mondiale si fondi sullo spirito di speculazione piuttosto che sulle leggi di mercato. “Les affaire sont les affaires”, dicevano una volta i nostri cugini francesi. Ma il motto era riconducibile alla logica delle leggi di mercato, mentre ora l’applicazione indiscriminata del concetto di business sta creando problemi immensi: c’è gente a questo mondo che non sa come sfamarsi e c’è altra gente che non sa come spendere il denaro, tanto ne ha, gente tròp sadóla che ricorda tanto i bambini capricciosi, i quali a tavola rifutano di mangiare la minestra perché di nascosto dalla mamma si sono riempiti la pancia di dolci. Il guaio è che simili individui attraverso la dittatura dell’alta finanza determinano le condizioni economiche e sociali degli Stati e dei popoli. Turnàla coi fiòch. Turnà in bergamasco non significa soltanto ‘Ritornare’ ma anche ‘Rendere’, ‘Restituire’. In questa locuzione ha parecchio a che fare con il sentimento della vendetta. Se una persona poco incline al perdono ha ricevuto un torto, potete sentirla dire: Ghe la turne coi fiòch, ‘Gliela restituisco con i fiocchi’. Ricambiare un torto con un altro evidentemente non basta: occorre anche preoccuparsi che la vendetta sia studiata bene e che sia ordita con ogni cura, come un regalo contenuto in pacchetto infiocchettato. Turnà la farina ’n del sach. Significa: ‘Vendicarsi’, ‘Rendere pan per focaccia’. Se si contraccambia un sacco di farina di cattiva qualità con un sacco di farina guasta la vendetta è compiuta. Ü bèl negutì d’ór. Da bambini domandavamo che cosa ci saremmo meritati per una buona azione, che cosa ci avrebbero regalato. Ci sentivamo rispondere: Te porteró ü bèl negutì d’ór inturciàt dét in d’öna fòia de usmanì. Era un modo gentile ed eufemistico per dire: “Niente”. Si sa che ‘niente’ in bergamasco suona negóta o negót, dalla locuzione latina nec gutta quidem, ‘nemmeno una goccia’ (mentre vergóta, ‘qualcosa’, deriva da vere gutta quidem, ‘veramente una goccia’). Per effetto dell’alterazione diminutiva negóta diventa negutì, dunque un ‘nientino’, ma – intendiamoci bene – un ‘nientino’ d’oro. Per giunta ravvolto in una fogliolina di rosmarino, tanto esigua da adattarsi proprio ad un ‘nientino’. La gente un tempo campava nella frugalità, nella sobrietà, spesso nella parsimonia e nella penuria e si doveva accontentare del poco di cui poteva disporre. Capivamo bene che cosa intendevano i grandi quando ci promettevano quel bel negutì, quel ‘nientino’ insignificante e impalpabile ma fatto tutto d’oro. L’amarezza della delusione poteva cedere il posto alla fantasia, che era tutta la nostra ricchezza di allora: in quel negutì d’ór la rugiada del mattino s’imperlava di luce, un piccolo campo si mutava in una prateria sterminata e sullo smeraldo dell’erba sciami di farfalle multicolori si rincorrevano fra le corolle dei botton d’oro, l’aria aveva trasparenze irreali per i trasvoli delle rondini, sciabordavano giochi d’acqua e apparivano i colori dell’iride fra le spume delle cascate. Il negutì d’ór illuminò gli anni bui della guerra e sorresse la speranza negli anni duri della ricostruzione: castelli incantati sorgevano oltre le nubi rossastre del tramonto, si credeva nella fiaba del lampionaio che ogni sera saliva la scala del firmamento per accendere le stelle. Quel negutì d’ór che la mamma fingeva di porre nella nostra manima l’abbiamo tenuto stretto in tutti questi anni come un patrimonio prezioso da non disperdere. Ü car sènsa viandài. Di un’impresa mal condotta o di una struttura che funzioni male per l’assenza o l’incapacità dei responsabili si dice nella Bassa Bergamasca che l’è ü car sènsa viandài. La voce viandài, ‘guida’, ‘timone del carro’, è una delle tante non registrate dai recenti repertori lessicali. Ovviamente si allude al carro agricolo, che può essere mosso da un cavallo o da un trattore e che è provvisto dello sterzo per le ruote anteriori allo scopo di affrontare scorrevolmente le curve. La locuzione sembra richiamare il valore dell’esperienza maturata e trasmessa dalle generazioni, esperienza senza la quale logica e buon senso difettano in ogni lavoro. Negli anni dell’immediato dopoguerra ebbe successo un romanzo intitolato “La signora Miniver”, scritto dalla poetessa inglese Jan Struther; il libro descriveva la vita quotidiana di una madre di famiglia della piccola borghesia, convinta che “per dirigersi bene verso l’avvenire – cito testualmente – è necessario avere sempre davanti a sé una piccola ma nitida immagine del passato, come dallo specchietto retrovisore dell’automobile si può scorgere la strada percorsa”. Ad ogni pagina del romanzo si avverte il valore della tradizione, dell’esperienza trasmessa, del passato e dei ricordi , compresi i luoghi e gli oggetti che possono restituirne la parvenza. Se non si ha questa consapevolezza si smarriscono i punti fermi e si procede alla cieca, senz’alcuna sicurezza, come un carro senza timone. Ü dé söl pir e ün óter dé söl póm. Di persone che fanno dell’indecisione la loro norma di vita si dice che sono un giorno sul pero e il giorno dopo sul melo. Ho sentito dire anche: Ú dé söl pir e ün óter dé söl pèrsech. Che sia il pesco anziché il melo nulla cambia perché non si può dubitare di tutto ed avere oggi una opinione e domani un’altra, e dire oggi di sì a questo e domani di sì a quello. Ügì bèl, sò fradèl… Era una filastrocca che veniva canticchiata in guisa di cantilena per educare i bambini a conoscere il loro volto: Ügì bèl, sò fradèl, orègia bèla, sò sorèla, la pórta di frà, campanèl de sunà. Mentre la canticchiava, l’adulto toccava di volta in volta gli occhi, le orecchie, la bocca e il naso del bambino. Un’altra filastrocca veniva invece recitata per insegnare ai bambini a distinguere un dito dall’altro diceva: Marmelì, spusalì, mata lónga, fréga-öcc, cópa-piöcc. Alla base di marmelì, ‘mignolo’, è la voce latina minimellinus (marimellus>merimellus>menimellus>minimus). Spusalì è l’anulare, destinato a cingere l’anello nuziale. Non so che relazione abbia il medio con la voce mata, ‘ragazza’. Evidente è il realismo grottesco e ironico delle voci composte designate a indicare l’indice e il pollice, che servirebbero per sfregarsi gli occhi e per ammazzare i pidocchi. Ülìn öna prisa. Nella mia giovinezza avevo un amico un po’ eccentrico che di quando in quando traeva di tasca una tabacchiera d’argento, la apriva e m’invitava a cogliere un pizzico di tabacco da fiuto dicendomi: “Ne ölet öna prisa? A l’è mia scaièta. L’è santagiüstina”. La mia risposta era invariabilmente: “Gràssie, vusme mia”. Una volta, per farlo smettere, mi risolsi a prendere un pizzico di tabacco, accostai la presa al naso, aspirai e sternutii. Ciò mandò in solluchero l’amico, il quale mi disse: “Strenüda pör! Sét mia come l’ fà bé?”. Il tabacco da fiuto infatti produceva nel naso un acuto pizzicore che induceva a sterniture. Giunto in Europa dall’America con altri coloniali, il tabacco fu usato già nel Settecento per il fiuto e per il fumo, allora limitato ai sigari e alla pipa. L’uso di fiutare tabacco si diffuse ben presto fra i nobili e i benestanti, che sfoggiavano tabacchiere d’oro finemente cesellate. In Francia entrò nell’uso comune la locuzione prendre sa prise. Il vezzo per imitazione raggiunse gli altri ceti sociali; divenne un tratto di cortesia porgere la tabacchiera alla persona con la quale si stava conversando e domandare: “Vùsmel?”. Sono sempre stato tentato di supporre che il bergamasco usmà, ‘fiutare’, sia da mettere in relazione con il greco classico osmé, ‘odore’. Non si ha idea oggi di come un tempo le donne i vusmèss, ossia fiutasero tabacco, convinte che facesse bene alla salute. Il tabacco da fiuto era praticamente innocuo ma è stato abbandonato nel volgere di poche generazioni. Resiste purtroppo e si diffonde fra i giovani l’uso dannosissimo del tabacco da fumo, che ogni anno spedisce al cimitero centinaia di migliaia di persone. È triste constatare come tanta gente si accanisca nel fare il proprio danno. Ultà i popó in cüna. Voltare i bambini nella culla, ossia girarli in modo che non se ne veda il viso e che non si capisca a chi appartengono. È come dire che si cambiano le carte in tavola, che si è detta una cosa ma che se ne fa un’altra, che si mutano i termini di una questione per trarne un vantaggio illecito. Te me ùltet mia i popó in cüna, diciamo perciò a una persona che ci ha promesso una cosa e che vuole affibbiarcene un’altra. Ultà pàgina. Nei rapporti fra le persone e nei comportamenti succede talora che si debba mutare la disposizione d’animo, come se, finito un capitolo, si dovesse voltare la pagina per proseguire la lettura. Se si vuole andar d’accordo, occorre spiegarsi, accantonare i risentimenti e voltare pagina. Ultàs indré i màneghe. È l’atto che si compie di rivoltare le maniche della camicia quando si deve aiutare qualcuno a trasportare un mobile o altro oggetto pesante. La locuzione è espressiva della voglia di lavorare e della necessità di darsi da fare con buona disposizione d’animo. Ovvio che sia aborrita dagli scansafatiche. Il diffondersi del disimpegno, indicativo di mancanza di realismo, di immaturità e di scarso senso del dovere, è stato favorito nel mondo contemporaneo dall’appannamento quando non dall’eclissi della figura paterna. L’educazione dei figli non consiste nel permettere loro qualunque cosa, nell’alleviare ogni fatica, nel rendere facile ogni conquista. Innanzi alle difficoltà della vita, che non tardano ad arrivare, i figli cresciuti nella bambaglia non sanno ultàs indré i màneghe. Ün’ómbra de sul. Traduzione: ‘una parvenza di sole’. È un raro ossimoro. Ün óter pér de màneghe. Diciamo che l’è ün óter pér de màneghe quando esiste una bella differenza fra due situazioni che sono messe a confronto. La locuzione appare anche in italiano. Lo Zingarelli registra il detto: è un altro paio di maniche nel significato di ‘è tutta un’altra cosa’. Il vecchio (per certi versi glorioso) dizionario del cavalier Gian Battista Melzi, che non era toscano bensì bresciano e che morì nel 1911, riporta esso pure la locuzione è un altro paio di maniche e traduce: ‘è una cosa del tutto diversa’. Anche l’attendibilissimo Devoto-Oli registra la locuzione avvertendo che viene usata ‘a proposito di una prospettiva completamente diversa’. Per essere pignolo ho consultato anche il dizionario di Pietro Fanfani in una edizione del 1881 e ho trovato quanto trascrivo: “Questo è un altro par di maniche, significa nell’uso comune, Questa è una cosa diversa, In questi termini la cosa muta aspetto, Questo non ha qui luogo, o simili. Anche nella Celidora si legge: Ch’io poi sia vecchio è un altro par di maniche, ma ho un brio che incanta”. Beato lui, il professor Fanfani, che trovava il tempo per leggere la “Celidora”. Comunque, si deve sapere che nel Quattrocento si diffuse nei ceti agiati dell’intera Italia l’uso dei bei vestiti, confezionati con tele e stoffe assai costose, prodotte da telai manuali e con filati anch’essi ottenuti manualmente. Per un solo abito, acquistato ad un prezzo esorbitante, le dame disponevano di varie paia di maniche di ricambio e dai colori diversi. Ecco quale usanza originò il detto. E se esiste anche in bergamasco, vuol dire che le nostre dame i stàa mia indré e disponevano di vestiti lussuosi con di óter pér de màneghe. Ü piàt de buna céra. Far buon viso è indice di buona volontà e di garbo, è manifestazione di cordialità e di buona accoglienza, nell’intento di porre l’interlocutore in una condizione favorevole all’incontro piuttosto che allo scontro. Non sempre questa buona disposizione d’animo è ricambiata con altrettanta gentilezza e signorilità. Ma per buona educazione ci si rivolge al prossimo così, nella speranza di non incontrare gente gretta o villana. Céra indica l’espressione del viso e cerùs è chi atteggia il volto alla serenità e al sorriso (esiste anche la locuzione: Fà la bèla céra). Offrire ü piàt de buna céra sembra sottintendere l’atto di accogliere una persona e farla sedere al proprio desco. Chi non è in salute ha una bröta céra, chi è trascurato e malconcio ha una céra patida, chi invece ha un volto rincagnato e arcigno, dall’espressione truce, ha una céra pòrca. Meglio la buna cera, perché l’ val piö tant ü tónd de buna céra che töte i pitanse de sto mónd. In tempi nei quali solo gli assassini, i ladri, i violenti, i malvagi e gl’imbroglioni sembrano degni delle prime pagine dei quotidiani, perché non fare l’elogio della bontà? Ha scritto Giuseppe Giusti: “Altri comincerebbe dal raccomandarti lo studio, e io comincio dal raccomandarti la bontà e ti prego di custodirla nel cuore come un tesoro senza prezzo. La dottrina spesso è una vana suppellettile che poco ci serve agli usi della vita e della quale per lo più si fa pompa nei giorni di gala come dei tappeti e delle posate d’argento. Ma la bontà è un utensile di prima necessità, che dobbiamo aver tra mano ogni ora, ogni momento. Senza uomini dotti, credilo, il mondo potrebbe andare innanzi benissimo, senza uomini buoni ogni cosa sarebbe sovvertita”. Ü quach sant a l’ varderà zó. Si dice quando umanamente si è fatto tutto il possibile per scongiurare un evento negativo. Ci si affida allora alla Provvidenza, che può anche intervenire grazie all’intercessione di un santo, al quale viene rivolta la preghiera di una grazia. Si spera, insomma, che il santo ‘guardi giù’ e si ripropone così il tema arduo della fede religiosa, dell’accostamento al trascendente in un mondo arido e privo di sentimento, un mondo che si accanisce a bandire con ferocia ogni manifestazione di spiritualità. Chi no crèd al sant crède al miràcol, dice un proverbio bergamasco che può guidare la mente umana alla conquista del trascendente. Anche nei secoli passati c’era chi credeva e chi non credeva. Ma il proverbio nasce dal popolo, che possiede una cultura, una coscienza, una consapevolezza. Se si corrompe e se si travia il popolo, si oblitera il proverbio e si annulla la cultura che ha dato origine al proverbio. Se il popolo è ridotto a massa, diventa branco e dal branco, privo di consapevolezza, non nascono i proverbi. La massa non ha cultura, è acefala e come tale è attratta dagli eventi effimeri, è comandata dagli slogan. Dalla massa non possono nascere i santi e il branco non ha contezza alcuna dei miracoli: anche se li vede, non crede. Eppure, quasi senza accorgercene, ci può succedere di passare accanto ad un santo, di parlare con lui, di averlo per un tratto come compagno di strada. Può accadere che il vento impetuoso cessi improvvisamente proprio quando sembrava che si dovesse scatenare una tempesta. La ragione vorrebbe che non occorressero i miracoli per credere. Sta bene. Ma il sentimento popolare, che non di rado è un’arca di saggezza, sembra dirci che la fede si trova o si fortifica grazie ai miracoli. Tutto può accadere. Perché un santo non potrebbe ‘guardar giù’? Perché voler escludere in partenza che qualche volta nella nostra vita si possa incontrare una persona virtuosa e santa? Perché voler negare ad ogni costo il miracolo? Ü quarantòt. L’idea del disordine e del caos si può esprimere in bergamasco con la voce quarantòt. Se alludendo ad una certa situazione noi diciamo che l’è ü quarantòt intendiamo significarne la confusione completa e indescrivibile. Altrettanto intendiamo se descrivendo un certo fatto diciamo che gh’è egnìt fò ü quarantòt, ‘ne è sortito un grande scompiglio’. Si sa che nel 1848 in Europa divamparono le sollevazioni popolari: il 24 gennaio la rivolta di Palermo costrinse le trutte borboniche ad abbandonare la città, il 23 febbraio Parigi era piena di barricate, l’11 marzo il popolo di Praga scese in piazza rivendicando autonomia, il 13 marzo insorse Vienna costringendo Metternich alla fuga, il 15 marzo si ribellò Budapest, il 17 insorse Venezia e il 18 si sollevò Stoccolma. Lo stesso giorno fu la volta di Milano, che pose Carlo Cattaneo a capo di un consiglio di guerra. La notizia della sollevazione dei milanesi, che ergevano le barricate sulle vie per opporsi all’esercito occupante comandato dal maresciallo Radetzky, torvo e ostinato nemico dell’identità italiana, raggiunse ben presto la città di Bergamo: il 19 marzo gruppi di cittadini armati affrontarono i soldati austriaci, che infine riuscirono a fuggire da Bergamo. Intanto era giunta a Milano una colonna di trecento bergamaschi comandati da Nicola Bonorandi: questi assalirono gli austriaci in rotta incendiando Porta Tosa e determinando con il loro intervento la fine dei combattimenti delle epiche Cinque Giornate. Non c’è da stupirsi che nella coscienza popolare il ricordo del 1848 e dei suoi grandi sconvolgimenti abbia finito per rappresentare l’idea della confusione e del disordine. Ma sarà bene non perdere la memoria dell’anelito di libertà che determinò in Lombardia la ribellione aperta e la sollevazione innanzi alle prepotenze dell’assolutismo asburgico. Quanti sanno che quando alla Scala si esibiva una cantante austriaca i milanesi disertavano il loro pur tanto amato teatro? Non ci si ricorda più che all’inizio del 1848, per non arricchire l’erario austriaco, i patrioti lombardi avevano smesso di fumare e di giocare al lotto; né si ricorda che all’uscita dell’università pavese gli studenti avevano reagito con una rissa furibonda alla provocazione di vari gendarmi austriaci i quali ostentavano di fumare sigari. E non parliamo dei lanci di volantini tricolori dal loggione del Teatro Sociale in Bergamo Alta e di tanti altri episodi che attestano come il popolo di Lombardia mal tollerasse di dover dipendere dal dispotismo di un governo straniero. L’identità lombarda, da non dimenticare, risale per diversi percorsi all’entità statuale longobarda, una sorta di solida unità nazionale sorretta dal federalismo ante litteram dei ducati. Sono radici profonde e lontane che nessuno straniero in armi ha mai potuto estirpare. Ü sàcol e öna scarpa. Quando una cosa non si addice ad un’altra si usa evocare l’immagine dello zoccolo accostato alla scarpa. Usà come ü strassér. Usà, ‘vociare’, ‘sbraitare’, ‘gridare’, da ùs, ‘voce’ (che diventa vus dopo consonante; es.: chèl tenùr lé l’è amò in vus, ‘quel tenore ha ancora abbastanza voce’). È passato il tempo in cui si vedevano attorno per la città gli straccivendoli (in bergamasco strassér), che raccoglievano libri, giornali, metalli vili, abiti usati, bottiglie di vetro, tappi metallici e ogni altro genere di cose vecchie. Ne ricordo uno che al tempo della mia infanzia lanciava per le contrade il grido: Strassér! Òss e strass e piómbo! Al richiamo accorrevano le donne di casa, che avevano accantonato tutti i vecchi oggetti di cui intendevano disfarsi per cederli a misero prezzo a quell’autentico operatore ecologico ante litteram. Ma il richiamo suscitava anche la perfidia dei monelli, che con ogni sorta di buffe movenze e tenendosi a prudente distanza canzonavano lo straccivendolo cantilenando: Strassér! A l’ vènd i strass per tö moér! Fra i ricordi dei miei primi anni di vita appare in bianco e nero la figura indistinta di un omone con sacco e stadera. Raccoglieva di tutto. Il sabato sera lo trascorreva all’osteria libando a Bacco e alle undici, quando il borgo si appisolava, egli usciva dalla taverna, si dirigeva lentamente verso casa traballando e di quando in quando sostava cimentandosi a fatica e con voce ingolata sui raffinati pentagrammi di Tosti, di Tirindelli, di Denza, di Toselli, di Gastaldon… Il suo pezzo forte era “Musica proibita”. Ma all’acuto finale steccava e gli sfuggiva un’imprecazione vinosa mentre la luna ammiccava divertita. Üsàs a laurà. Un tempo ai giovani svogliati che non si dedicavano al lavoro con la necessaria solerzia si rivolgeva il perentorio invito: Üset a laurà!, ‘Abìtuati a lavorare!’. Occorrerebbe ricordare anche ai giovani del giorno d’oggi che senza lavoro non si campa e che il lavoro va svolto con la massima applicazione. La ribellione un tempo era giustificata e si manifestava soltanto in presenza di ingiustizie stridenti. Ritorna alla mente un canto delle filandaie alzanesi, che incominciavano la loro giornata lavorativa poco dopo l’alba e che uscivano dalla filanda soltanto al tramonto del sole. Il canto dice: Laùra té, padrù, / e té, padruna. / Lassìm ché mé a fà / la ligossuna. Ovvero: ‘Lavora tu, padrone, / e tu, padrona. / Lasciate qui me a fare / la lazzarona’. Ma oggi i problemi del lavoro non sono più quelli di cento anni fa. C’è da augurarsi che non venga mai meno la voglia di lavorare. Ü tat al tòch. ‘Un tanto al pezzo’. Si diceva quando si concordava il pagamento di un determinato articolo a numero di pezzi. Nel significato corrente un lavoro pagato ü tat al tòch non è detto che sia sempre eseguito a regola d’arte, anzi, proprio perché pagato un po’ alla volta, a mano a mano che si procede, non dà garanzia di perfezione. Basta sentire come si parla in italiano sulle reti nazionali della televisione per rendersi conto di come il criterio del tat al tòch, per la sua implicita approssimazione, risulti disastroso se applicato all’uso della lingua nazionale. Tempo fa un giornalista provvisto del senso dell’ironia raccolse in volume un incredibile florilegio di strafalcioni pronunziati da telecronisti, da giornalisti, da allenatori, da giocatori intervistati: un autentico stupidario. Sembra impossibile che si possano dire corbellerie come queste: La questione è se è nato prima l’uomo o la gallina. Questo è un altro paio di scarpe. Adesso dobbiamo rimboccarci le mani. Si produce in una danza triviale (voleva dire tribale). Quest’arbitro è un po’ fiscalista (già il dire fiscale sarebbe una improprietà). Non posso amputare niente ai miei giocatori. Abbiamo un allenatore e quindi fiat lux, faccia lui (meno male che non ha aggiunto: Fiat lex, faccia lei). Quest’altra è davvero inaudita: La morte lo ha colto ancora vivo. Ora che tutti presumono di saper parlare in italiano e snobbano le lingue locali misconoscendone l’autenticità, l’umanità e la ricchezza, si pronunziano con somma disinvoltura spropositi da cavallo salvo scusarsi dicendo – ciliegina sulla torta – che si è trattato di un lapis linguæ. Và a cà che l’ t’è mórt ol àsen! A una persona che s’intrometta in una discussione dimostrando di non possedere alcuna competenza dell’argomento si può rivolgere il perentorio invito: ‘Vai a casa: ti è morto l’asino!’. Chi è asino tratti con l’asino, si preoccupi dei fatti suoi e non s’impicci di materie con le quali non ha confidenza. Viva la spusa! Evviva la sposa! Non di rado per amor di rima si aggiunge: che a tocàla la ùsa, ‘che se la si tocca grida’. In un suo sonetto bergamasco (“Matrimòne”) Bortolo Belotti coglie come dal vero il dialogo di due persone che sul sagrato della chiesa sono in attesa dell’arrivo degli sposi per la celebrazione del rito matrimoniale. L’uno dice che la futura sposa ha un caratteraccio e che finirà per comandare, l’altro dice che il futuro sposo è un poco di buono, un mezzo furfante. Non fanno in tempo a concludere che si tratta di un pessimo matrimonio quando arrivano i nubendi. Ed ecco allora i due pettegoli gridare: “Eviva i spus!”, come vuole l’ipocrisia. Viva ’l rè fin quando ghe n’è! Era locuzione usata un tempo in tutta la Lombardia con qualche lieve variante. Non so dire se il motto scherzoso sia riconducibile a un ben determinato episodio storico o se esso deve la sua formulazione all’amor di rima. Che sia sorto nel Settecento, quando gli osservatori più accorti avevano intuito che la monarchia francese non avrebbe retto a lungo agli assalti della borghesia e alla pressione del pauroso deficit accumulato da una dissennata gestione centralistica? Bastò l’infame ruberia degli argenti e degli ori delle chiese italiane a riassestare il bilancio dello stato francese. Ma la testa del re era rotolata dalla ghigliottina. Viva il re fintanto che ce n’è! Motto da gente ottusa e insensibile, tratta all’indifferenza da una fame atavica e da una miseria desolante: tali erano le condizioni alle quali in ogni contrada d’Italia fu tratto il popolo a causa dell’avidità di signorotti prepotenti e dalla furia devastatrice degli eserciti stranieri. “Se non avete soldi per pagare le imposte vendete le mogli e le figlie”, rispose il cinico viceré spagnolo ai dignitari napoletani che si lagnavano per gli eccessi ai quali era giunta l’esosità del fisco. Quando la gente è costretta a sopportare simili angherie, non ci si meraviglia che possa fiorire sulle sue labbra una locuzione intrisa di fatalismo. Forse proprio questo retaggio di soprusi patiti ha indotto i governanti del dopoguerra, condizionati da una visione fortemente centralistica dello stato, a gestire la cosa pubblica con eccessiva leggerezza accumulando un deficit enorme. Zögà a sbér e làder. Quando ancora si giocava all’aria aperta un gruppo di ragazzi si divideva in due squadre di egual numero di componenti: quelli che facevano la parte dei ladri inseguiti dagli sbirri riuscivano a scampare alla cattura raggiungendo un posto designato, nel quale gl’inseguitori non potevano entrare. Il gioco ricordava così il diritto di asilo, esercitato nel Medio Evo presso i conventi o presso le dimore dei feudatari. Zögàla a crapa e crus. Giocarla a testa e croce, ossia affidarsi alla sorte lanciando in aria una moneta per vedere da che parte cade, se dalla parte della testa (il profilo del monarca) o dalla parte dello stemma, dell’emblema o del simbolo, di solito una croce (soprattutto per le monete dell’Impero Romano d’Oriente e del Sacro Romano Impero): si fa così quando per scommessa si tenta la fortuna o quando si affida una scelta al caso. Né il caso né la fortuna, che sono infine la stessa cosa, si accordano con l’intelligenza e con il buon senso ma sono sempre miglior partito di quello dell’asino di Buridano, il quale, messo fra un sacco d’avena e un sacco d’orzo, non sapendo a quale dei due rivolgersi per primo, finì per morire di fame. Esistono circostanze nelle quali l’attendismo e l’immobilismo, dettati da prudenza e da cautela, costituiscono scelte produttive. Ma spesso la mancanza di decisione è sospetta d’incapacità o di meschino tornaconto. Il lancio della moneta e l’affidamento alla sorte rappresentano dunque l’extrema ratio, perché significa che non c’è spazio per l’indagine e per il ragionamento. Le scelte importanti non devono mai dipendere dal gioco e dalle scommesse. I nostri vecchi ritenevano che fossero dei balordi e degli irresponsabili quelli che i la zögàa a crapa e crus. E li definivano pinciòch, vocabolo pressoché intraducibile, che da solo vale di più di cento parole dell’insulso italianese contemporaneo. Zó ì, sö sit. Sovviene una canzone da osteria che dice: “E anche chèst àn credìe de spusàm… e a fórsa de mès lìter gh’è riàt la fì de l’àn”… Più si beve e più si berrebbe. Il detto ammonisce ad evitare gli eccessi delle ubriacature. Oggi non è più il vino a farla da padrone nel vizio del bere, che rimane comunque una piaga sociale: sono i superalcolici ad ottundere l’intelletto e a rovinare la salute. Per leggerezza o per spavalderia (diciamo meglio, per stupidità) si assumono quantità eccessive di cognac, di whisky, di grappa, di brandy e di altre bevande ad alta gradazione senza pensare che l’aggressività dei distillati è molto più forte di quella del vino. A Erba dicono che el vin a bon mercaa el mènna l’omm a l’ospedaa. Se con il vino si può finire all’ospedale, con i superalcolici si può finire al cimitero. Che concetto e che riguardo hanno della loro vita quanti, abbandonatisi al vizio del bere, finiscono per ridursi in condizioni pietose e miserande? Zó l’am, sö ’l pèss. È un detto spiritoso ma veritiero, che si attaglia ai creduloni (in bergamasco sono detti bocalù, perché abboccano facilmente). Giù l’amo e su il pesce: si suol dire quando il pesce abbocca, quando uno scherzo architettato ai danni di qualcuno sortisce l’effetto sperato. Non è il caso che rammenti il lungo racconto di Italo Svevo dal titolo “Uno scherzo ben riuscito”. Piuttosto, pensando a come un tempo la fantasia si sbizzarrisse nel giocare degli enormi pesci d’aprile, ricordo che nel 1919 o nel 1920, quando Ciro Caversazzi, essendo assessore alla pubblica istruzione del Comune di Bergamo, seguiva con sollecitudine i lavori di restauro della Rocca di Bergamo (fu sua l’idea di allogarvi il Parco delle Rimembranze), qualcuno escogitò un pesce solenne. Il mattino del primo giorno di aprile, recandosi alla Rocca, il Caversazzi trovò innanzi all’ingresso una cinquantina di popolani che lo attendevano. Per le contrade di Bergamo Alta qualcuno il giorno prima aveva diffuso la voce che il noto studioso durante gli scavi e le operazioni di restauro della Rocca avesse rinvenuto nientemeno che la vasca da bagno di Carlomagno imperatore e che intendesse mostrarla al pubblico quella stessa mattina. Il grande erudito, che, pur avvezzo al greco di Omero e al latino di Virgilio, amava parlare in bergamasco, apostrofò gli astanti con la domanda: “Cósa ülìv pò óter?”. E si sentì rispondere: “A m’ vörèss vèd la àsca de bagn de Carlomagno imperadùr”. Uno del gruppo osò insinuare: “Di ólte mai che ergü l’ l’àbie portada vià…”. Il Caversazzi capì subito che si trattava di uno scherzo e si rivolse così alla piccola folla: “Ma quala àsca, o àsegn? Ív mia pensàt che incö l’è ’l prim de aprìl?”. E poi, mentre il crocchio a poco a poco e malinconicamente si disperdeva, soggiunse in guisa di commento: “Brae, brae, ì pròpe bocàt!”. Andati via anche gli ultimi curiosi, il Caversazzi, molto invidiato come sempre càpita a chi si estolle dalla media comune, rimase per un tratto a meditare non tanto sull’ingenuità di quei creduloni quanto piuttosto sulla malevolenza di chi aveva pensato di giocargli un simile tiro. Nelle cronache locali non è traccia dell’episodio, che mi fu raccontato tanti anni fa da una persona autorevole e degna di fede, la quale non mancò di magnificare l’illustre personalità di Ciro Caversazzi, gran galantuomo colto, alla memoria del quale la città di Bergamo dovrebbe essere assai più grata di quanto non lo sia stata finora.