Quando la deumanizzazione ferisce: Attribuzioni di umanità e violenza
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Quando la deumanizzazione ferisce: Attribuzioni di umanità e violenza In-Mind Italia IV, 14–19 http://it.in-mind.org ISSN 2240-2454 Gian Antonio Di Bernardo, Dora Capozza, Elena Trifiletti, e Rossella Falvo Università degli Studi di Padova Keywords Deumanizzazione, violenza, pregiudizio implicito, funzioni esecutive Tutto ciò che rende gli altri meno umani rende meno umani anche noi. (Desmond Tutu, 1999) Nel Febbraio 1999, a New York, Amadou Diallo, un giovane africano immigrato negli Stati Uniti, fu ucciso da quattro poliziotti che spararono 41 colpi di pistola, colpendo Diallo per 19 volte. L’unico oggetto ritrovato addosso al ragazzo fu un portafogli; con tutta probabilità, Diallo lo stava estraendo per mostrare i documenti. Nel 2008, a Parma, Emmanuel Bonsu, un ragazzo ghanese di 22 anni, fu aggredito da sette agenti di polizia municipale, che, durante un’operazione antispaccio in borghese, lo avevano scambiato per il palo di un pusher. Il giovane stava solo passeggiando nel parco di fronte alla sua scuola, in attesa che cominciasse l’ora di lezione. Episodi come questi fanno emergere diversi interrogativi. In primo luogo, come mai le vittime sono spesso persone appartenenti a gruppi svantaggiati? Se Amadou Diallo fosse stato bianco i poliziotti avrebbero sparato senza esitare? Se Emmannuel Bonsu non fosse stato nero, gli agenti lo avrebbero picchiato? Probabilmente, questi episodi sono dipesi dal fatto che Amadou e Emmanuel appartenevano a gruppi stigmatizzati. E ancora, perché le reazioni sono così estreme? La ricerca in Psicologia Sociale ha cercato di spiegare fenomeni come quelli prima descritti; si è trovato che il pregiudizio, le percezioni di minaccia (Correll, Park, Judd, & Wittenbrink, 2002; Payne 2001) e l’esposizione ai mass media (Latrofa, Vaes, & Arcuri, 2012) influenzano significativamente l’inclinazione alla violenza verso gruppi svantaggiati. Comunque, il ruolo dei processi di deumanizzazione negli episodi di violenza è stato poco indagato. Alcuni autori (vedi Bandura, 1999; Opotow, Fig. 1. Non-violence, Carl Fredrik Reuterswärd. 1990) hanno proposto che la negazione di umanità agli altri possa costituire una strategia efficace per giustificare azioni violente in contesti caratterizzati da intenso conflitto. Tuttavia, studi recenti (ad es., Pereira, Vala, & Leyens, 2009) hanno mostrato come l’attribuzione di una minore umanità possa portare a comportamenti discriminativi anche in assenza di conflitti manifesti. Obbiettivo di questo contributo è di analizzare la relazione tra attribuzioni di umanità e violenza nei confronti di membri di gruppi estranei. Corrispondenza: Gian Antonio Di Bernardo Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata Università degli Studi di Padova Via Venezia 8, 35131 Padova E-mail: [email protected] Deumanizzazione e violenza Attribuzioni di umanità nei rapporti intergruppi Recentemente in Psicologia Sociale è cresciuto l’interesse per una forma particolare di pregiudizio: la deumanizzazione di gruppi e persone. Deumanizzare significa percepire l’altro come non pienamente definito da tratti che sono esclusivi degli esseri umani. Numerose ricerche (si veda Leyens, Demoulin, Vaes, Gaunt, & Paladino, 2007) hanno mostrato come le persone tendano ad assegnare più umanità al proprio gruppo (ingroup) che ai gruppi estranei (outgroup). Questo sembra essere un processo universale, sottile e inconsapevole, che accompagna gli individui nella quotidianità (si veda, ad es, Eyssel & Ribas, 2012; Leyens et al., 2007). L’attribuzione agli outgroup di uno status umano inferiore è stata rilevata con vari metodi: all’outgroup si assega un numero inferiore di emozioni unicamente umane (ad es., malinconia, orgoglio; vedi Leyens et al., 2007); all’outgroup si assegnano meno i tratti distintivi dell’umanità (ad es., razionalità, moralità; si veda Capozza, Trifiletti, Vezzali, & Favara, 2012); all’outgroup si assegnano meno i tratti fondamentali della natura umana (ad es., emotività, calore; Haslam, Loughnan, Kashima, & Bain, 2008). Oltre ad essere percepiti meno umani, i gruppi estranei possono essere addirittura assimilati all’animalità (Boccato, Capozza, Falvo, & Durante, 2008; Capozza, Andrighetto, Di Bernardo, & Falvo, 2012; Capozza, Boccato, Andrighetto, & Falvo, 2009) o a macchine e robot (Loughnan, Haslam, & Kashima, 2009). Deumanizzazione e percezione di pericolosità Spinti dal clamore che la morte di Amadou Diallo ha suscitato nell’opinione pubblica americana, alcuni studiosi hanno tentato di indagare i processi psico-sociali sottostanti. Payne (2001) ha ideato un compito al computer, il Weapon Task (si veda glossario), in cui ai partecipanti si richiede di discriminare tra immagini di pistole e di arnesi, premendo due tasti diversi. Ciascuna immagine è preceduta dalla presentazione del volto di un bianco o di un afro-americano. Diversi studi che hanno impiegato questo compito hanno mostrato che i rispondenti identificano le pistole più velocemente e accuratamente quando sono precedute dal volto di un afroamericano, ma identificano gli arnesi più velocemente e accuratamente quando sono precedute dal volto di un bianco (Amodio et al., 2004; Judd, Blair, & Chapleau, 2004; Payne, 2001; Payne, Lambert, & Jacoby, 2002). Gli afro-americani sono più associati 15 alle armi e, quindi, percepiti come più pericolosi. Questa differenza è stata riscontrata anche in relazione alla decisione di “sparare.” In una simulazione al computer, Correll e collaboratori (2002) chiedevano ai partecipanti di “sparare” a target armati (bianchi o afro-americani), premendo un tasto, e di “non sparare” a target non armati (che impugnavano, cioè, oggetti inoffensivi), premendo un altro tasto. Coerentemente con i risultati di Payne (2001), i partecipanti erano più veloci a “sparare” a target armati afro-americani, e più veloci a “non sparare” a target non armati bianchi. Correll et al. hanno denominato questa differenza sistematica shooter bias. I risultati di Correll et al. indicano, inoltre, che lo shooter bias dipende dallo stereotipo culturale degli afro-americani come violenti, pericolosi e aggressivi (si veda anche Correll, Park, Judd, & Wittenbrink, 2007), e che la percezione di questo gruppo come minaccioso media tale relazione (Correll, Urland, & Ito, 2006). Nel nostro primo studio intendiamo verificare se la deumanizzazione possa essere associata alla percezione di pericolosità. Percepire l’outgroup come meno umano significa considerarlo meno capace di moralità e quindi pericoloso, incline alla violenza. Per testare questa ipotesi abbiamo condotto uno studio considerando come outgroup gli immigrati marocchini (una minoranza numerosa e stigmatizzata in Italia). L’esperimento, svolto in laboratorio con studenti universitari italiani, era diviso in due parti completate in giorni separati. Nella prima, erano somministrate le misure di umanità; si sono usati: tratti unicamente umani (ad es., razionalità, raziocinio) e tratti non unicamente umani (ad es., istinto, pulsione; vedi Capozza et al., 2012) e una prova al computer, il Il Go/No-go Association Task (GNAT; Nosek & Banaji, 2001; si veda glossario). Per quanto riguarda i tratti, i partecipanti dovevano indicare, per ognuno, se caratterizzasse o no gli immigrati marocchini; nella scala di risposta a 7 gradi, quanto più elevato il punteggio tanto più il tratto era percepito caratteristico dei marocchini. Lo GNAT consente di misurare la forza dell’associazione mentale fra il gruppo target (nel nostro caso, gli immigrati marocchini) e concetti di umanità (ad es., umano, cittadino) e di animalità (ad es., animali, fauna). Si ottengono due misure: una esprime l’associazione dei marocchini con l’umanità, l’altra l’associazione dei marocchini con l’animalità. Nella seconda parte dell’esperimento, i partecipanti eseguivano il Weapon Task (Payne, 2001; si veda glossario) Nel nostro studio, prima della presentazione delle immagini di pistole o arnesi, venivano mostrati dei volti di persone italiane o volti di marocchini. Da questa prova si ricava una misura di 16 pericolosità percepita dei marocchini, definita weapon bias; tale misura si ottiene calcolando la differenza tra il tempo di risposta nel riconoscere le armi quando precedute da volti italiani e quando precedute da volti marocchini. Punteggi elevati indicano che il rispondente riconosce più facilmente le armi quando precedute da volti dell’outgroup. In altre parole, quanto più elevato il punteggio di weapon bias tanto maggiore è l’associazione dell’outgroup alla pericolosità. I risultati hanno mostrato che sia l’attribuzione ai marocchini di tratti non-unicamente umani sia l’associazione mentale tra marocchini e animalità (GNAT) erano correlate positivamente con la misura di weapon bias. Quindi, l’assimilazione dell’outgroup all’animalità si collega alla sua percezione come pericoloso e propenso alla violenza. Deumanizzazione e violenza L’aspetto più insidioso della deumanizzazione è rappresentato dalle conseguenze negative che può produrre. Infatti, assegnare all’outgroup uno status umano inferiore produce una serie di effetti dannosi, come: minore empatia (Čehajić, Brown, & González, 2009), minori intenzioni di aiuto (Cuddy, Rock, Norton, 2007; Vaes, Paladino, Castelli, Leyens, & Giovanazzi, 2003), maggiore discriminazione (Pereira et al., 2009). Fra tutte le conseguenze sfavorevoli la più pericolosa è l’inclinazione a commettere atti violenti ai danni dell’outgroup deumanizzato. Le società sono regolate da una serie di norme che determinano quali comportamenti siano o meno accettabili o desiderabili. Quando l’individuo percepisce che il proprio comportamento viola gli standard morali della società si innescano una serie di sanzioni psicologiche, come vergogna e senso di colpa, che servono a riportare il comportamento in accordo con le norme morali. Deumanizzazione e violenza sono dunque due processi legati tra loro: la negazione di una piena essenza umana disinnesca le sanzioni morali, rendendo accettabile l’uso della violenza (Bandura, 1999). Castano e Giner-Sorolla (2006) hanno inoltre dimostrato che la deumanizzazione svolge la funzione di giustificare le violenze perpetrate da altri membri dell’ingroup. In tre studi, hanno presentato ai partecipanti un racconto (storico o di fantasia) in cui lo sterminio dei membri di un outgroup era attribuito all’ingroup o ad un evento accidentale (ad es., epidemia). In tutti e tre gli studi, le vittime venivano deumanizzate quando la responsabilità era attribuita all’ingroup; la negazione di una piena umanità alle vittime serviva, quindi, a proteggere l’immagine dell’ingroup e a sollevarlo da ogni responsabilità morale. Di Bernardo et al. Nel secondo studio, il nostro obbiettivo era di indagare se la deumanizzazione fosse associata ad azioni violente nei confronti dell’outgroup; si è considerato anche il ruolo che in questa relazione ha una variabile di differenza individuale: l’efficienza delle funzioni esecutive. In psicologia, con il termine “funzioni esecutive” si intende una serie di processi che sono responsabili del controllo dell’azione (Miyake & Friedman, 2012). Esse sono fondamentali nei meccanismi di regolazione del proprio comportamento. Una espressione delle funzioni esecutive è la capacità di sopprimere le risposte automatiche; ad esempio, di sopprimere l’impulso di mangiare un dolce quando si è a dieta o, nel nostro caso, l’impulso a sparare ad un target deumanizzato e percepito come violento. Ipotizziamo che la deumanizzazione sia associata all’aggressione nei confronti dell’outgroup solo nei partecipanti con un basso controllo del proprio comportamento. I partecipanti con funzioni esecutive efficienti, invece, dovrebbero essere in grado di inibire le reazioni aggressive nei confronti dell’outgroup deumanizzato. Lo studio era strutturato in due parti. Nella prima, i partecipanti eseguivano uno Stroop Task (si veda glossario), utilizzato per misurare l’efficienza delle funzioni esecutive. In questa prova, i partecipanti dovevano indicare, il più velocemente possibile, il colore con cui erano scritti stimoli target. Gli stimoli erano o nomi di colori (rosso, blu, verde, giallo) o una stringa di X. Le prove compatibili erano quelle in cui vi era coerenza tra il significato della parola e il colore in cui era scritta (ad es., ROSSO scritto in rosso). Le prove incompatibili erano quelle in cui vi era incoerenza tra significato e colore (ad es., ROSSO scritto in verde). Le prove neutre erano quelle relative alla stringa di X scritta nei quattro colori. Si calcola una misura di interferenza, che corrisponde alla differenza tra i tempi di risposta relativi alle prove incompatibili e i tempi di risposta relativi alle prove compatibili. Più elevato il punteggio, minore è la capacità di inibire il significato della parola, minore è l’efficienza delle funzioni esecutive. Nella seconda parte dell’esperimento, i partecipanti completavano prima una misura implicita di umanità; si è usato, a questo proposito, il Single Category Implicit Association Test (SC-IAT; Karpinski & Steinman, 2006; si veda glossario). Successivamente, eseguivano uno Shooter Task (si veda glossario), che misurava la tendenza ad aggredire l’outgroup. Lo SC-IAT è una tecnica che consente di misurare la forza dell’associazione automatica fra il gruppo target (marocchini) e l’animalità. Più elevato il punteggio, maggiore la deumanizzazione dei marocchini. Nello Shooter Task, ai partecipanti Deumanizzazione e violenza si chiedeva di sparare a target armati (volti seguiti da immagini di armi), premendo un tasto, e di non sparare a target non armati (volti seguiti da immagini di utensili), premendo un tasto diverso. Per rendere più realistica la simulazione dell’interazione, alla pressione del tasto era associato il suono di uno sparo. Le ipotesi sono state confermate. Infatti, si è trovato che la deumanizzazione era associata ad una tendenza a sparare con maggiore rapidità a target armati dell’outgroup che a target armati dell’ingroup. Questo risultato riguardava, comunque, solo i partecipanti con basso controllo del proprio comportamento (alto punteggio nel compito Stroop). Lo stesso effetto non è emerso nei partecipanti con funzioni esecutive efficienti. Conclusioni Negli studi che abbiamo descritto, si è trovato come la negazione di una piena umanità all’outgroup si associ alla sua percezione come pericoloso, e, quindi, a comportamenti aggressivi nei suoi confronti. È stato trovato, inoltre, che la relazione deumanizzazione/violenza è valida solo per le persone con basso controllo del proprio comportamento. Grazie ai nostri risultati è possibile fornire un’interpretazione degli episodi descritti all’inizio di questo articolo. Infatti, è possibile che la percezione di Amadou Diallo e Emmanuel Bonsu come più vicini all’animalità che all’umanità abbia portato a sopravvalutarne la pericolosità innescando le ingiuste reazioni violente di cui sono stati vittima. Un limite di questo lavoro è il suo carattere correlazionale che non consente conclusioni definitive sulle relazioni causali tra le variabili in gioco. È possibile, infatti, che non sia la deumanizzazione a favorire le percezioni di pericolosità, ma siano tali percezioni a promuovere la violenza giustificandola con attribuzioni di minore umanità. I nostri lavori richiedono dunque la continuazione con studi sperimentali. Dal punto di vista dell’applicazione, i nostri risultati indicano l’esigenza di rendere consapevoli le persone della loro inclinazione spontanea a deumanizzare gli altri. Una strategia per ridurre lo shooter bias, inoltre, può essere quella di potenziare il controllo sul comportamento, ad esempio, attraverso l’addestramento. In seguito all’episodio di Diallo e ad altre morti di afro-americani in circostanze simili, sono stati avanzati dubbi sul sistema di addestramento della polizia americana (Fernandez, 2008). Uno studio che confrontava poliziotti e civili (Correll, Park, Judd, Wittenbrink, Sadler, et al., 2007) ha mostrato che i poliziotti, come i civili, sono più veloci a “sparare” a target armati afro-americani che 17 a target armati bianchi; tuttavia, diversamente dai civili, le loro decisioni di sparare non mostrano un bias sistematico legato alla razza. L’addestramento, quindi, seppur non influenzi i tempi di risposta, influenza la decisione finale. Comunque, come dimostrano Sim, Correll e Sadler (2013), l’addestramento può addirittura esacerbare lo shooting bias, come nel caso delle unità speciali che lavorano a contatto con le gang. In questo caso, l’addestramento ha l’effetto di rinforzare il legame associativo tra afro-americani e pericolosità, aumentando lo shooting bias. Glossario Go/No-go Association Task (GNAT). È una tecnica di misurazione delle associazioni mentali. Si basa sull’assunto che, nella mente degli individui, le informazioni siano organizzate in concetti e associazioni tra concetti. Quando in memoria si attiva un concetto (ad es., anziano) è probabile l’attivazione di un concetto o attributo ad esso fortemente associato (ad es., lento), non è probabile l’attivazione di un concetto o attributo ad esso debolmente associato (ad es., veloce). Il compito, svolto al computer, misura la forza dell’associazione tra una categoria (ad es., marocchini) e due attributi (ad es., umano e animale). Per ciascuna delle due associazioni (marocchini + umano e marocchini + animale) si ottiene un indice, calcolato sulla base del numero di errori che il partecipante commette nell’associare la categoria all’attributo (Teoria della Detezione del Segnale; Green & Swets, 1966). Più alto è l’indice, minore è il numero degli errori e, quindi, più forte l’associazione tra la categoria e l’attributo. In genere, comunque, questa tecnica si applica considerando due categorie (ad es., italiani e marocchini) e due attributi. Single Category IAT (SC-IAT). Questa misura, analoga alla precedente, si basa sui tempi di reazione. In particolare, si calcola la differenza tra il tempo di risposta nelle prove in cui si deve associare marocchini con umano (“prove incompatibili”) e il tempo di risposta nelle prove in cui si deve associare marocchini con animale (“prove compatibili”). Quanto più elevato questo indice, tanto più l’associazione tra marocchini e animalità è più forte di quella tra marocchini e umanità. Weapon Task. In questo compito al computer, si chiede ai partecipanti di categorizzare immagini di pistole e immagini di utensili premendo due tasti diversi; ciascuna immagine è preceduta dalla presentazione del volto di un bianco (italiano) o di un marocchino. L’indice weapon bias si calcola sottraendo il tempo di risposta nelle prove in cui le immagini di pistola sono precedute dal volto di un marocchino dal tempo medio di risposta nelle prove in cui le immagini di pistola sono precedute dal volto di un italiano. Maggiore il valore di questo indice, maggiore la percezione di pericolosità dei marocchini. Shooter Task. Nella ricerca che abbiamo presentato, questo compito è simile al Weapon Task. La differenza è che ai partecipanti viene chiesto di “sparare” a target armati (volti di italiani o marocchini seguiti da immagini di armi), premendo un tasto, e di “non sparare” a target non armati (volti di italiani o marocchini seguiti da immagini di utensili), premendo un tasto diverso. Alla 18 pressione del tasto è associato il suono di uno sparo. Il tempo di risposta nelle prove in cui i target armati sono marocchini viene sottratto dal tempo di risposta nelle prove in cui i target armati sono italiani. L’indice così ottenuto esprime la tendenza a rispondere in modo violento ai target marocchini. Stroop Task. È un compito in cui viene chiesto alle persone di indicare il colore di stimoli verbali presentati sullo schermo di un computer. In questa ricerca, gli stimoli sono nomi di quattro colori (rosso, blu, giallo e verde) o una stringa di “X”. Le prove compatibili sono quelle in cui il colore e coerente con il contenuto semantico della parola (ad es., ROSSO scritto in rosso); le prove incompatibili sono quelle in cui vi è incoerenza fra colore e contenuto semantico (ad es., ROSSO scritto in blu); le stringhe di “X” rappresentano le prove neutre. L’interferenza Stroop è calcolata come la differenza fra i tempi di risposta nelle prove incompatibili e i tempi di risposta nelle prove compatibili. Maggiore è il punteggio minore è l’efficienza delle funzioni esecutive. Riferimenti bibliografici Amodio, D. M., Harmon-Jones, E., Devine, P. G., Curtin, J. J., Hartley, S., & Covert, A. (2004). 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I suoi interessi di ricerca includono i processi di attribuzione di umanità a livello intergruppi e le conseguenze della deumanizzazione. Dora Capozza, professore di psicologia sociale presso l’Università di Padova, si occupa di stereotipi, pregiudizio e rapporti intergruppi. È membro di molte società scientifiche internazionali ed è stata nominata Fellow della Società si Psicologia Americana (APS). Elena Trifiletti è ricercatrice di psicologia sociale presso l’Università di Verona. I suoi interessi di ricerca riguardano i rapporti intergruppi, la riduzione del pregiudizio, e la deumanizzazione. È membro di importanti società scientifiche internazionali ed Assistant Editor di In-Mind Italia. Rossella Falvo, ricercatrice di psicologia sociale presso l’Università di Padova, si occupa di rapporti intergruppi, psicologia della politica e misure implicite di atteggiamenti e pregiudizio. Fa parte di importanti società scientifiche internazionali.