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Scarica Società di comodo _ Giurisprudenza_Commerciale
GIURISPRUDENZA COMMERCIALE
AnnoNXLNFasc.N2N-N2013
ISSNN0390-2269
LucaNPeverini
SOCIETÀ DI COMODO E
IMPOSTA PATRIMONIALE: IL
CONTRASTO TRIBUTARIO
ALL'UTILIZZO DISTORTO DELLA
FORMA SOCIETARIA
Estratto
MilanoN•NGiuffrèNEditore
Società di comodo e imposta patrimoniale: il contrasto tributario
all’utilizzo distorto della forma societaria
SOMMARIO: 1. Lo svolgimento di una attività economica quale elemento costitutivo del
contratto di società. — 2. La natura patrimoniale dell’imposta sulle società di comodo
(che abbia prodotto un reddito inferiore a determinate soglie) e l’inesistenza di una
“presunzione di reddito minimo”. — 2.1. Nell’individuare l’indice di capacità contributiva assoggettata ad imposizione l’interprete non è vincolato in alcun modo al nomen
iuris adottato nella disposizione normativa. — 2.2. Alternatività tra imposta sul reddito
ed imposta sul patrimonio. — 2.3. (segue) Quando la società non operativa produce un
reddito superiore al “reddito minimo”, l’indice di capacità contributiva colpito torna ad
essere il reddito. — 2.4. L’assoggettamento ad imposta patrimoniale delle sole società di
comodo non viola il principio di eguaglianza. — 3. (segue) Analisi e confutazione di
alcune possibili obiezioni. — 4. Ulteriori conferme circa la finalità dissuasiva svolta dalla
disciplina sulle società di comodo. — 5. Riflessi applicativi delle considerazioni sin qui
svolte. — 5.1. La previsione del comma 3 dell’art. 30 e la salvezza dell’“ordinario potere
di accertamento”. — 5.2. L’interpello disapplicativo previsto dal comma 4-bis dell’art.
30. — 6. Le recenti modifiche apportate dalla c.d. “Manovra bis 2011”: brevi considerazioni. — 6.1. L’inasprimento delle aliquote per le società non operative. — 6.2. Le
disposizioni volte a coordinare il regime delle società di comodo con l’istituto della
trasparenza: profili di costituzionalità. — 6.3. La nuova presunzione di non operatività
conseguente alla realizzazione di perdite fiscali.
1. Lo svolgimento di una attività economica quale elemento costitutivo del contratto di società. — Con il presente lavoro si intende dimostrare
(per poi valutare le conseguenze di tale assunto) che la disciplina sulle società
di comodo introduce, nonostante la diversa terminologia utilizzata dal legislatore che fa riferimento al “reddito”, un’imposta di tipo patrimoniale.
Tale forma di imposizione si spiega con l’obiettivo di scoraggiare
l’utilizzo della forma societaria per svolgere attività di mero godimento. È
opportuno ricordare infatti che, ai sensi dell’art. 2247 c.c., “con il contratto
di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in
comune di un’attività economica allo scopo di dividere gli utili”. L’esercizio
di un’attività economica si configura quindi come elemento costitutivo del
contratto di società.
Ciononostante, il fenomeno delle società che non svolgono alcuna
attività economica, da intendersi come attività produttiva volta alla creazione di nuova ricchezza (1), è un fenomeno piuttosto diffuso nella realtà,
( ) Come spiega con grande chiarezza ABBADESSA, La disposizioni generali sulle società,
in Trattato di diritto privato, diretto da Pietro Rescigno, XVI, Torino, Utet, 1985, 14 s.,
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con il quale la dottrina giuscommercialistica si è confrontata senza approdare tuttavia a soluzioni univoche.
Da un lato si deve registrare la posizione espressa da una parte della
dottrina civilistica e condivisa da parte della dottrina tributaria che ha
affermato la natura “neutrale” del contratto societario (2) (3) “intesa come
possibilità di ricorrere ad esso per funzioni anche diverse da quella prevista
nell’art. 2247 c.c. e giustificabile, oltre che dalla diffusione del fenomeno
nella realtà, anche dalla mancanza, nel nostro ordinamento, di appositi
strumenti volti ad impedire che l’attività economico-produttiva programmata non venga, poi, in concreto, esercitata” (4). Si tratta di una tesi non
priva di argomenti a proprio sostegno tra i quali si segnala, in particolare,
quello fondato sull’art. 2332 c.c. che individua dei casi tassativi di “nullità
della società”, tra i quali non sarebbe annoverato il mancato esercizio
effettivo di un’attività economica (5).
l’“attività economica” a cui si riferisce l’art. 2247 c.c. deve essere intesa come “quella
particolare forma di attività economica che è l’attività produttiva”. Ciò emerge, prosegue
l’Autore, “sia da un passo testuale della Relazione al cod. (n. 923), sia dal coordinamento
sistematico fra gli artt. 2247 e 2248. Come è noto, quest’ultima norma stabilisce che il
semplice godimento di uno o più beni da parte di una pluralità di soggetti non ricade nella
sfera della società, ma in quella della comunione. Poiché nessuno dubita che anche il
godimento è attività economica e considerato che esso si concretizza nel percepire le utilità
finali o di scambio proprie di un certo bene, si può tranquillamente argomentare che l’art.
2247 prende in considerazione soltanto un particolare tipo di attività economica, e precisamente quella che, in contrapposizione al godimento, risulta specificamente intesa alla creazione di nuova ricchezza: in altre parole, l’attività produttiva”.
( ) Nella dottrina civilistica si veda DI SABATO, Manuale delle società, Torino, Utet,
1992, 24 ss.. Ancora prima, SANTINI, Tramonto dello scopo lucrativo nelle società di capitali,
in Riv. dir. civ., 1973, 151 ss. il quale, analizzando quanto accadeva nella realtà, affermava già
allora che le società di capitali erano divenute “pura struttura” prestandosi “a corrispondere
non solo alla funzione tipica lucrativa, che ne rappresenta l’origine storica, ma ad altre
funzioni diverse ed eterogenee tra loro”. Nel rinviare allo scritto di tale Autore per gli
argomenti da esso addotti a sostegno della sua tesi, vale la pena di sottolineare che tale scritto
è del 1973. Il fenomeno a cui l’Autore fa riferimento era quindi già osservabile al momento
dell’entrata in vigore della riforma tributaria degli anni 70, dalla quale emerge la scelta di
considerare soggetti passivi Irpeg le società di capitali e di considerare il reddito da queste
prodotto come reddito di impresa (cfr. rispettivamente gli artt. 2 e 5 del d.p.r. 29 settembre
1973, n. 598). Questo potrebbe far pensare che il legislatore tributario non abbia voluto
riferirsi alle società come a soggetti che svolgono necessariamente attività economiche, ma
abbia semplicemente voluto riferirsi alla “pura struttura” (per utilizzare l’espressione di
Santini). Sennonché una tale ipotesi appare poco probabile. Per poco che si mediti infatti,
sarebbe singolare pensare che il legislatore, se avesse ritenuto che la scelta di costituire una
società di capitali è di per sé neutra rispetto alla scelta di esercitare un’attività economica,
avrebbe adottato per tali soggetti una regola diversa da quella adottata per gli enti non
societari i quali, come è ben noto, producono interamente reddito di impresa soltanto se
svolgono in misura prevalente una attività commerciale.
( ) Nella dottrina tributaria si veda VIGNOLI, Le società di mero godimento tra assegnazione agevolata a trasformazione in società semplice, in Rass. tribut., 1998, 750 ss.
( ) VIGNOLI, (nt. 3), 754.
( ) L’argomento è utilizzato da SANTINI, (nt. 2), 159 e ripreso da VIGNOLI, (nt. 3), 754
la quale adduce, come ulteriore argomento, “la mancata conversione in legge del progetto De
Gregorio il quale prevedeva come causa di scioglimento della società il mancato esercizio di
un’attività imprenditoriale”. A questo argomento si deve obiettare che, come si spiegherà
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D’altro canto però, non si possono non registrare i contrari orientamenti espressi da autorevole dottrina che ha ritenuto nullo (6), oppure
simulato (7) il contratto di società in caso di mancato esercizio di un’attività economica (8).
In effetti i tentativi di valorizzare il riferimento operato dall’art. 2247
c.c. allo svolgimento dell’attività economica, pur con le difficoltà che tale
tentativo comporta (9), sembrano più convincenti, destando perplessità
l’idea che manchino nel nostro ordinamento strumenti volti a garantire il
rispetto di tale disposizione. In altri termini, se l’art. 2247 c.c. individua —
come sembra fare — gli elementi costitutivi del contratto di società, si deve
ritenere che in mancanza di tali elementi (tra i quali rientra appunto lo
svolgimento di una attività economica) la fattispecie non dovrebbe essere
riconducibile nella previsione astratta di cui all’art. 2247 c.c.
Del resto, se vi sono difficoltà ad individuare i rimedi attivabili in caso
di società che contenga nell’atto costitutivo il riferimento all’attività economica, ma non svolga in concreto alcuna attività, meno problematica
risulta essere l’ipotesi della società che fin dall’atto costitutivo dichiari di
voler svolgere una attività di mero godimento (10). In questo caso, è stato
affermato senza indugio da autorevole dottrina, è impedita “l’omologazione e quindi l’acquisizione della personalità giuridica” (11). Affermare ciò
meglio in nota 63, esercizio di una attività economica non significa esercizio di attività
imprenditoriale essendo, lo svolgimento di una attività economica, solo uno degli elementi
necessari a ravvisare l’esistenza di un’attività d’impresa.
( ) GALGANO, Diritto commerciale, L’imprenditore. Le società, Bologna, Zanichelli,
2008, 92 s.
( ) MARASÀ, Le società. Società in generale, in Trattato di diritto privato, a cura di
Iudica e Zatti, Milano, Giuffrè, 2000, 206 ss.; STOLFI, Rilievi in tema di società fittizie, in Riv.
dir. comm., 1976, I, 324 ss. In giurisprudenza, la tesi della simulazione è stata sostenuta da
Cass. civ., Sez. III, 1° dicembre 1987, n. 8939.
( ) In questo senso si veda, oltre alla dottrina citata nelle precedenti note 7 ed 8,
ABBADESSA, (nt. 1), 13 ss. Per un’ampia analisi della dottrina e della giurisprudenza sul tema
si veda inoltre BERTOLOTTI, Disposizioni generali sulle società, in Trattato di diritto privato, II
ed., diretto da Rescigno, Torino, Utet, 2008, 165 ss.
( ) Sulle quali si veda ancora BERTOLOTTI, (nt. 8), 165 ss.
( ) Per una chiara distinzione — e per una analisi dei relativi effetti — tra l’ipotesi in
cui l’“oggetto sociale si esaurisce nell’indicazione, testuale, di un’attività di mero godimento”
dal caso in cui l’“atto costitutivo indica un’attività commerciale (come, ad esempio, quella
edilizia) che i soci non intendono svolgere o non esercitano, limitandosi, invece, al solo
godimento di quanto apportato” si veda GHIONNI, Società di mero godimento tra teoria
generale e nuovo diritto societario, in Riv. soc., 2008, 1319 ss.
( ) Così MARASÀ, (nt. 7), 191; GRIPPO -MORANDI, Art. 2247 c.c., in Commentario delle
società, a cura di Grippo, Torino, Utet, 2009, 12. È bene tuttavia ricordare per completezza
che, a seguito della riforma apportata dalla legge n. 340/2000, per l’iscrizione nel registro
delle imprese è stato soppresso il controllo omologatorio del tribunale. La stessa legge «ha
altresì provveduto ad introdurre nella l. n. 89/13 (legge notarile) l’art. 138-bis aggravando in
questo modo, rispetto a quanto previsto dall’art. 28 della stessa legge, la responsabilità del
notaio che abbia richiesto “l’iscrizione [...] di un atto costitutivo di società di capitali [...]
quando risultino manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge”. Disposizione,
questa, che in considerazione, anche, dei poteri di controllo attribuiti al notaio con riguardo
alle delibere modificative dello statuto ha indotto la prevalente dottrina ad equiparare il suo
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equivale a considerare lo svolgimento dell’attività economica quale elemento ineliminabile del contratto di società (12). Il problema è esclusivamente quello della carenza o insufficienza delle misure di contrasto. Ma ciò
non appare un valido argomento per sostenere che il contratto di società sia
di per sé neutro rispetto al tipo di attività (economica o di mero godimento) (13) che attraverso tale società i soci intendono svolgere. In altri
termini, la mancanza di misure di contrasto può essere vista come una
mancanza del legislatore (voluta o non voluta che sia), ma non si può non
tenere conto del fatto che nell’art. 2247 c.c. l’attività economica è indicata
come un elemento costitutivo del contratto di società.
2. La natura patrimoniale dell’imposta sulle società di comodo (che
abbia prodotto un reddito inferiore a determinate soglie) e l’inesistenza di
una “presunzione di reddito minimo”.
2.1. Nell’individuare l’indice di capacità contributiva assoggettata
ad imposizione l’interprete non è vincolato in alcun modo al nomen iuris
adottato nella disposizione normativa. — Le considerazioni svolte nel
precedente paragrafo ci consentono di identificare la ratio della disciplina
fiscale delle società di comodo, che è una disciplina volta appunto a
scoraggiare tale fenomeno (14).
Del resto, quando il legislatore tributario stabilisce che le società
debbano essere assoggettate ad un determinato regime tributario, effettua
un richiamo alla “società” disciplinata nel codice civile. Pertanto, quando
nel Tuir si stabilisce che il reddito prodotto dalle società deve essere
misurato attraverso le regole previste per il reddito di impresa, ciò è frutto
controllo a quello tradizionalmente svolto dal tribunale in sede di omologazione». Così
MARTUCCI, Le società di godimento nel diritto italiano d’oggi, in Riv. dir. civ., 2009, I, 472 alla
quale si rinvia per gli opportuni riferimenti bibliografici. È doveroso però precisare che tale
Autrice dissente dalla tesi della dottrina maggioritaria cui essa stessa fa riferimento nel passo
appena trascritto.
( ) Che l’esercizio di un’attività economica sia un elemento essenziale del contratto di
società emerge pure dalla giurisprudenza formatasi in tema di “società di fatto”. In particolare
si veda per tutte Cass., Sez. trib., 20 gennaio 2006, n. 1127 dalla quale si evince, non soltanto
che lo svolgimento dell’attività economica è un connotato essenziale del contratto di società,
ma anche che il mero godimento di beni non potrebbe mai essere assunto ad elemento dal
quale argomentare in ordine all’esistenza di una società di fatto, e ciò proprio perché,
appunto, lo svolgimento della attività economica è un requisito imprescindibile del contratto
di società. Negli stessi termini si è espressa pure Cass., Sez. trib., 20 gennaio 2006, n. 1131.
( ) Chi scrive è consapevole del fatto che l’espressione “attività di mero godimento” è
ossimorica. Verrà tuttavia utilizzata nel testo per semplificare l’esposizione tenuto conto del
fatto tale espressione ricorre spesso negli scritti della dottrina.
( ) È questa la corretta chiave di lettura anche per TASSANI, Autonomia statutaria delle
società di capitali e imposizione sui redditi, Milano, Giuffrè, 2007, 154; STEVANATO, Società di
comodo e intenti pedagogici del legislatore tributario, in Dial. dir. trib., 2006, 1326 s.; ID., La
disciplina sulle “società di comodo” come incentivo all’abbandono dello schermo societario
per attività di mero godimento, in Dial. dir. trib., 2006, 1439.
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di una scelta fatta con riferimento a determinati soggetti che, ex positivo
iure, debbono (o dovrebbero) svolgere una attività economica (arg. da art.
2247 c.c.).
Ed allora, la difficoltà — di cui si è parlato nel paragrafo precedente —
di individuare strumenti di contrasto a tale fenomeno di abuso dello
strumento societario (15) trova nel diritto tributario una parziale soluzione.
La soluzione è parziale nel senso che la scelta non è quella, radicale, di
colpire con un rimedio civilistico, quale potrebbe essere quello della
“nullità” del contratto di società, ma è quella, più moderata, di “scoraggiare” l’utilizzo della società per porre in essere una mera attività di
godimento.
Tale obiettivo viene perseguito in primo luogo attraverso l’art. 30 della
legge 23 dicembre 1994, n. 724 (16) che — come è noto — ha introdotto
una disciplina penalizzante (17) per le società utilizzate come meri contenitori patrimoniali presumendo un “reddito” minimo di tali soggetti — ma
si vedrà subito dopo che, nonostante il tenore letterale della norma, non si
tratta di una presunzione volta a quantificare il “reddito” —, commisurato
al valore delle attività patrimoniali.
Se è vero, pertanto, che il legislatore non ha scelto la strada del
disconoscimento della natura societaria del soggetto che non svolge alcuna
attività economica, è anche vero che esso è intervenuto — per la verità già
prima del 1994 — con una disciplina di contrasto del fenomeno delle
società di comodo (18) mostrando chiaramente di considerare coerenti con
la disciplina del reddito di impresa, soltanto le società che rispettano i
requisiti individuati dall’art. 2247 c.c. (19).
( ) LIBONATI, Caratteri generali, nozione e tipi, in Diritto delle società. Manuale breve,
Milano, Giuffrè, 2004, 16 parla appunto di “utilizzazioni funzionalmente distorte dello
strumento societario e, in particolare, delle società di forma commerciale” (corsivo mio).
Nella dottrina tributaristica si veda, nello stesso senso, PERRONE, Società immobiliari (diritto
tributario), in Riv. dir. trib., 1993, I, 1015.
( ) In questo senso si veda pure la circolare 2 febbraio 2007, n. 5/E.
( ) Cfr. in questo senso LUPI, Diritto tributario, parte speciale, Milano, Giuffrè, 2005,
89.
( ) Cui ha fatto da contraltare, in un determinato momento, la disciplina agevolata
prevista, per lo scioglimento o la trasformazione delle “società considerate non operative nel
periodo di imposta in corso alla data del 4 luglio 2006” dall’art. 1, commi 111-118 della legge
27 dicembre 2006, n. 296. Su tale disciplina si veda, per tutti, TRIVELLIN, L’uscita dal regime
delle società di comodo. Analisi di un’agevolazione fortemente discutibile sul piano della
ragionevolezza e cenni ad alcune problematiche applicative, in Le società di comodo, a cura
di Tosi, Padova, Cedam, 2008, 15 ss.
( ) In questo senso, con riferimento alla normativa tributaria prevista, per le società di
comodo, dall’allora vigente art. 3, comma 21 del d.l. 19 dicembre 1984, n. 853 (c.d. legge
Visentini), conv. dalla legge 17 febbraio 1985, n. 17, BRACCINI, Le società di comodo nella
recente legislazione tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1986, I, 58. Con riguardo alla disciplina
attualmente vigente si veda, per un analogo ordine di riflessioni, NUSSI, L’imputazione del
reddito nel diritto tributario, Padova, Cedam, 1996, 531; TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su
basi forfettarie, Milano, Giuffrè, 1999, 362 ss. nonché, più recentemente, CERMIGNANI, Il
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La disciplina delle società di comodo determina infatti una tassazione
delle stesse, nelle ipotesi in cui il reddito sia inferiore alle soglie previste dal
comma 3 dell’art. 30 (20), non più attraverso l’applicazione delle regole del
reddito d’impresa, ma attraverso un diverso meccanismo consistente nell’assoggettare ad imposizione il valore di determinati beni della società cui
si applicano determinate aliquote (21). Si parla generalmente presunzione
di reddito minimo (22) ma si vedrà subito dopo che, quello assoggettato ad
imposizione, non è reddito.
Già la previsione di un reddito minimo basterebbe a far propendere
per la tesi che ci si trovi in presenza di una disciplina penalizzante per i
soggetti destinatari della stessa. Ma l’idea che il fenomeno delle società di
comodo sia visto con disfavore dal legislatore tributario è viepiù rafforzata
se si tiene conto del fatto che si è in presenza di un’imposta che, più che
avere i caratteri di una imposta sul reddito, si presenta come un’imposta di
tipo patrimoniale (23). È al patrimonio della società che si ha riguardo
regime fiscale delle società di comodo: ratio, attualità e prospettive, in Dir. prat. trib., 2011,
I, 260. Per un excursus storico e per l’individuazione delle ragioni alla base delle varie norme
che si sono succedute nel tempo, riguardanti le società di comodo si veda CROSTAROSA
GUICCIARDI, Le società di comodo tra diritto commerciale e diritto tributario, in Le società di
comodo. Regime fiscale e scioglimento agevolato, allegato a Il Fisco, n. 22/1995, 13 ss.
( ) Le ragioni di questo inciso verranno spiegate più avanti nel testo.
( ) Il “reddito” così calcolato sarà ricondotto nell’ambito della categoria del reddito di
impresa ma alla sua determinazione si sarà giunti applicando appunto regole diverse da quelle
previste per tale categoria. Il fatto che si rimanga comunque nell’ambito del reddito d’impresa
aveva indotto autorevole dottrina a ritenere “ragionevolmente prevedibile l’accoglimento di
un’eccezione di illegittimità costituzionale che prospetti l’irrazionalità della duplice presunzione: una società non operativa che produce reddito d’impresa”. Così BATISTONI FERRARA,
L’imposizione sulle “società di comodo”: riflessioni agre, in Rass. tribut., 1994, 1699. Si
tenterà di dimostrare più avanti nel corso del presente lavoro che la presunzione è una
soltanto: quella sulla non operatività della società, non esistendo alcuna presunzione di
produzione di reddito nonostante la formulazione letterale della norma deponga in senso
contrario.
( ) Il verbo “presumere” ed il termine “reddito” sono in effetti utilizzati dal comma 3
dell’art. 30 della legge n. 724/1994.
( ) Come è ben noto la differenza tra patrimonio e reddito consiste nel fatto che “il
patrimonio è uno stock di rapporti giuridici individuabile facendo riferimento ad una data”
mentre «il reddito è un accrescimento (“flusso” di nuovo patrimonio) formatosi in un lasso di
tempo, più o meno lungo, ma avente una durata [...]”. Così, per tutti, FALSITTA, Manuale di
diritto tributario. Parte speciale, Padova, Cedam, 2010, 6. Dal punto di vista giuridico, il
diritto tributario non conosce una nozione di patrimonio, talché può considerarsi ancora
valida l’affermazione di A.D. GIANNINI, Il rapporto giuridico d’imposta, Milano, Giuffrè, 1937,
165, secondo cui la nozione di patrimonio, nel diritto tributario, “è quella stessa del diritto
civile” (conf. FALSITTA, op. cit., 6. E nel diritto civile “Il termine patrimonio (dal giustinianeo
patrimonium) designa un’entità composita, formata dall’insieme di situazioni soggettive
suscettibili di valutazione economica (intesa come estimabilità pecuniaria), dalla legge unificate in considerazione della loro appartenenza a un soggetto o della loro destinazione
unitaria”. Così DURANTE, voce Patrimonio (dir. civ.), in Enc. giur., XXII, Roma, 1990, 1 il
quale avverte pure che si tratta di un dato dell’esperienza giuridica “che vale a descrivere una
pluralità di situazioni e soluzioni — eterogenee nelle strutture, nelle ragioni e nelle finalità —,
la rilevanza e i regimi giuridici delle quali appaiono irriducibili a un unitario schema teorico”.
Per un’analisi dei tratti essenziali del concetto di patrimonio nel diritto civile si veda MARELLO,
Contributo allo studio delle imposte sul patrimonio, Milano, Giuffrè, 2006, 8 ss. alla cui
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infatti per determinare, attraverso l’applicazione di determinati coefficienti, quello che l’art. 30 della legge n. 724/1994 identifica come “reddito” (24).
Sembra a chi scrive che per stabilire quale sia la natura di un’imposta
(sul reddito, sul patrimonio, sul consumo ecc.) si debba aver riguardo, non
certo alle qualificazioni operate in tal senso dal legislatore, quanto piuttosto all’indice di capacità contributiva posto alla base dell’imposta dovuta (25). Orbene, essendo la base imponibile costituita, nel caso di specie,
dai “valori dei beni posseduti nell’esercizio” ed indicati nell’art. 30, comma
3 della legge n. 724/1994, non si può negare che l’imposta che la società
non operativa sarà tenuta a pagare è parametrata ad una ricchezza che,
nella distinzione tra reddito e patrimonio accolta nella nostra materia, deve
monografia si rinvia, più in generale, per un approfondito studio delle imposte sul patrimonio.
( ) Il comma 3 dell’art. 30 della legge n. 724/1994 prevede infatti che:
“Fermo l’ordinario potere di accertamento, ai fini dell’imposta personale sul reddito per
le società e per gli enti non operativi indicati nel comma 1 si presume che il reddito del periodo
di imposta non sia inferiore all’ammontare della somma degli importi derivanti dall’applicazione, ai valori dei beni posseduti nell’esercizio, delle seguenti percentuali:
a) l’1,50 per cento sul valore dei beni indicati nella lettera a) del comma 1;
b) il 4,75 per cento sul valore delle immobilizzazioni costituite da beni immobili e da
beni indicati nell’articolo 8-bis, primo comma lettera a), del decreto del Presidente della
Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, anche in locazione finanziaria
per le immobilizzazioni costituite da beni immobili a destinazione abitativa acquisiti o
rivalutati nell’esercizio e nei due precedenti la predetta percentuale è ridotta al 3 per cento;
per gli immobili classificati nella categoria catastale A/10, la predetta percentuale è ulteriormente ridotta al 4 per cento; per tutti gli immobili situati in comuni con popolazione inferiore
a 1.000 abitanti la percentuale è dello 0,9 per cento;
c) il 12 per cento sul valore complessivo delle altre immobilizzazioni anche in
locazione finanziaria. Le perdite di esercizi precedenti possono essere computate soltanto in
diminuzione della parte di reddito eccedente quello minimo di cui al presente comma”.
( ) Le caratteristiche ontologiche di un “ente” non mutano al mutare del nome che gli
si attribuisce, perché attengono appunto all’ente in sé e prescindono dal nome. Per esprimere
chiaramente tale concetto può essere utile riportare le parole di GHIO, voce Nominale, in
Enciclopedia filosofica, III, Istituto per la collaborazione culturale Venezia-Roma, Firenze,
1957, il quale, dopo aver affermato che il termine “nominale” presuppone “la distinzione non
solo tra la realtà in sé e la sua conoscenza concettuale, ma anche tra il concetto e la sua
espressione verbale” aggiunge che “la definizione nominale è la spiegazione del significato di
un nome: essa determina semplicemente ciò che si deve intendere con una data espressione;
la definizione reale, invece, si riferisce al valore intrinseco (essenza) del definendo”. In
argomento si veda pure la voce Definizione, del Dizionario critico di filosofia, Milano, Isedi,
1971, 188 ss., spec. 193 dove, citando i filosofi Hamilton e Krug, si ricorda che essi
distinguono «tra definizioni nominali, reali, e genetiche “according as they are conservant with
the meaning of a term, with the nature of a thing, or with its rise or productions” (“a seconda
che esse riguardino o il significato di un termine, o la natura di una cosa, o la sua genesi o
produzione”)».
Ricorrendo alla distinzione tra “definizione nominale” e “definizione reale” possiamo
dunque affermare che, quando sosteniamo che l’imposta gravante sulle società di comodo è
un’imposta patrimoniale, intendiamo riferirci alla “definizione reale” dell’indice di capacità
contributiva colpito dal tributo. Non rileva ai nostri fini il fatto che la “definizione nominale”
del termine “reddito”, utilizzato nell’art. 30 della legge n. 724/1994, non corrisponde alla
“definizione reale” dell’indice di capacità contributiva colpito dalla medesima disposizione.
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266/I
essere collocata nella seconda categoria (26). E tali conclusioni non mutano
se anche si tiene conto del fatto che, in sede di dichiarazione e di
versamento, questo tributo viene formalmente considerato imposta sul
reddito.
Chi scrive non ignora il fatto che, a favore della tesi (qui avversata)
della natura reddituale dell’imposta, si potrebbe osservare che il legislatore
parte dalla considerazione che “il capitale è, in generale, fattore oggettivamente e potenzialmente fruttifero in virtù dei meccanismi complessivi del
processo economico di circolazione/accumulazione, che ne determinano
tendenzialmente l’incremento di valore nel tempo” (27).
Sennonché, pare contradittorio ritenere che vi sia una redditività del
capitale se si parte dal presupposto che non vi è lo svolgimento di una
attività economica (28).
Questa affermazione necessita di un’immediata precisazione per scongiurare possibili equivoci. Si è consapevoli del fatto che, nel nostro ordinamento, determinati beni, in particolare gli immobili — che sono appunto
una delle categorie di beni prese in considerazione dal comma 3 dell’art. 30
e sui quali concentreremo per un attimo l’attenzione al fine di desumerne
tuttavia conclusioni di carattere generale, non limitate a tali beni —
possono al tempo stesso costituire il patrimonio del contribuente (e quindi
essere oggetto di imposizione patrimoniale) ma anche la fonte da cui
scaturisce il reddito (29) (30). Sennonché, se si ritiene — contrariamente
( ) Per l’affermazione che la struttura dell’art. 30 appare “fortemente sbilanciata sul
versante patrimoniale” si veda BEGHIN, Gli enti collettivi di ogni tipo «non operativi», in
Manuale di diritto tributario, (nt. 23), 699 il quale però continua a considerare tale imposta
come imposta sul reddito. Di forme “neanche tanto larvate di imposizione patrimoniale” e di
“imposizione di natura sostanzialmente patrimoniale” parla TOSI, Relazione introduttiva: la
disciplina delle società di comodo, in La società di comodo, (nt. 18), rispettivamente pagg. 2
e 8.
( ) Così CERMIGNANI, (nt. 19), 259. Nello stesso senso si veda pure STEVANATO, Società
di comodo, (nt. 14), 1326-1327; MASTROBERTI, Note minime sui rapporti tra disciplina delle
società di comodo e reddito del gruppo consolidato, in Rass. tribut., 2011, 1556.
( ) Definiscono infatti “curioso” il ragionamento per cui “si presume un reddito
minimo dal fatto che la società non abbia operato (mentre a rigore, il fatto che la società non
sia operativa dovrebbe far presumere l’esatto contrario, e cioè che la società non produca
redditi)” MARONGIU-MARCHESELLI, Lezioni di diritto tributario, Torino, Giappichelli, 2010, 196.
Sembra a chi scrive che tale incongruenza sia soltanto apparente trovandoci in presenza —
come si è già sostenuto nel testo — di un’imposta patrimoniale, e non di un’imposta sul
reddito e non essendovi in realtà alcuna presunzione di reddito minimo.
( ) Osserva FEDELE, L’imposizione immobiliare. Dalla metafora della “fonte” all’intenzionalità del risultato produttivo, in Riv. dir. trib., 2011, I, 544 — aggiungendo rispetto a
quanto detto nel testo anche le imposte sul consumo — che «il sistema tributario non esclude
affatto la concorrente applicazione di imposte sul patrimonio, sul reddito e sul consumo in
relazione a determinati beni o diritti, ai conseguenti “frutti” o altre componenti reddituali, alla
loro “destinazione al consumo”».
( ) È giunto il momento di fare una precisazione. L’argomento addotto nel testo per
dimostrare che si è in presenza di un’imposta patrimoniale, si fonda sulle regole di determinazione della base imponibile non sul presupposto del tributo. Se si accoglie la nozione
tradizionale di presupposto del tributo inteso come il fatto che determina la nascita dell’ob26
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30
267/I
alla tesi sostenuta nel presente lavoro — che l’art. 30 della legge n.
724/1994 intende presumere davvero l’esistenza di un reddito, le alternative sono due: o il reddito è quello che scaturisce direttamente dall’immobile; oppure l’art. 30 è volto a commisurare il risultato reddituale complessivo della società al valore di determinati beni stabilendo appunto una
proporzione tra patrimonio della stessa e risultati complessivi della attività
economica (31).
Se l’alternativa accolta dal legislatore fosse la prima, allora — lungi dal
fare ricorso alle presunzioni — per quanto riguarda i beni immobili si
sarebbe dovuto coerentemente adottare il metodo di calcolo della base
imponibile adottato per i beni immobili dell’impresa e cioè, di regola, il
metodo di determinazione dei redditi fondiari per i beni non strumentali
(art. 90 Tuir), il metodo costi-ricavi-rimanenze per gli immobili qualificabili come beni-merce ed, infine, il metodo valevole per i beni strumentali in
tutti gli altri casi (32) (33). Sennonché il legislatore non ha affatto seguito
tali regole ma ha stabilito, nel comma 3 dell’art. 30 della legge n. 724/
1994, che la base imponibile si determina avendo riguardo al valore dei
beni. Si tratta — con riguardo ai beni immobili — di una scelta incomprensibile se si ritiene che lo scopo della disciplina di cui ci stiamo
occupando sia quello di determinare il reddito prodotto da un determinato
bene (34). Anche se questa aporia emerge solo con riguardo ai beni immobligazione tributaria (per tale distinzione si veda per tutti MANZONI-VANZ, Il diritto tributario,
Torino, Giappichelli, 2007, 163) ci si rende conto di come, avendo riguardo al solo
presupposto non sia possibile, in alcuni casi, trarre delle conclusioni in ordine alla natura del
tributo. Una certa relazione giuridica con un determinato bene (ad es. proprietà dell’immobile) può costituire il presupposto tanto di un’imposta patrimoniale quanto di un’imposta
reddituale. Se, nell’analizzare un tributo che assume a presupposto la proprietà di un bene
immobile ci fermiamo a tale dato (la proprietà, da parte di un soggetto, del bene immobile),
non siamo ancora in grado di stabilire se si è in presenza di un’imposta sul reddito o di
un’imposta sul patrimonio. Per stabilire ciò, vi è bisogno di un ulteriore elemento. Tale
elemento è dato, ad avviso di chi scrive, dalle regole di determinazione della base imponibile.
Se esse sono volte ad individuare la “novella ricchezza” (che sia effettiva, o figurativa tramite
un sistema come quello catastale), saremo in presenza di un’imposta sul reddito. Se invece la
base imponibile è data dal valore del bene immobile, saremo in presenza di un’imposta
patrimoniale.
Sulla distinzione tra i concetti di “presupposto di fatto” del tributo e di “base imponibile” si veda per tutti, FEDELE, Le imposte ipotecarie, Milano, Giuffrè, 1968, 84 ss. Per una
recente rivisitazione del concetto di presupposto di fatto del tributo si veda invece FRANSONI,
Il presupposto dei tributi regionali e locali. Dal precetto costituzionale alla legge delega, in
Riv. dir. trib., 2011, I, 267 ss.
( ) Si spiegherà tra poco nel testo perché tale ipotesi implica necessariamente lo
svolgimento della attività economica.
( ) Per quanto poi, se la premessa è che la società non svolge attività economica,
l’unico caso ipotizzabile è quello dell’immobile qualificabile come bene non strumentale.
( ) Per la distinzione tra queste tre ipotesi cfr. per tutti FEDELE, (nt. 29), 548 ss.
( ) Incomprensibile sotto un duplice profilo: a) perché non si vede per quale ragione
in questo caso il calcolo del reddito derivante dal bene immobile dovrebbe soggiacere a regole
diverse da quelle ordinarie; b) perché non si vede per quale ragione si dovrebbe ricorrere alla
categoria delle “presunzioni”.
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268/I
bili, essa pare di per sé sufficiente a dimostrare che la premessa del
ragionamento (consistente nel ritenere che con l’art. 30 si vuole individuare
il reddito prodotto dai beni contemplati da tale disposizione) non può
essere accettata.
Se invece l’alternativa fosse la seconda (dato un certo patrimonio della
società si presume che a questo corrisponda un certo reddito complessivamente prodotto) allora si ricadrebbe — come si dimostrerà subito dopo —
nella contraddizione cui facevamo riferimento sopra in quanto si ipotizzerebbe, da un lato, che vi è un risultato reddituale prodotto da una attività
economica e, dall’altro lato, che si è in presenza di una società che non
svolge attività economica. Questa seconda alternativa presuppone infatti, a
differenza della prima, che vi sia una “attività” dalla quale scaturisce il
reddito. Ed infatti, se il reddito che si misura con la presunzione del comma
3 dell’art. 30 non è quello che scaturisce direttamente dai beni ivi indicati,
si deve abbandonare l’idea della gestione statica (mero godimento), e si
deve ammettere che tale ipotesi implica la presenza di una gestione
dinamica (del complesso dei beni) da cui scaturisce il reddito. Questa
gestione dinamica è l’attività economica. Sennonché una tale conclusione
non può convivere, per la contraddizione che non lo consente, con la
premessa adottata espressamente dalla norma: l’essere in presenza di una
società “non operativa”.
Entrambe le ipotesi dunque, presentano difficoltà insormontabili.
L’unico modo per uscire da tale impasse è quello di ritenere che, se
quella posta dal comma 1° è (come è) una presunzione di non operatività,
quella posta dal comma 3 dell’art. 30 non è (nonostante le espressioni
utilizzate dal legislatore) una presunzione di reddito minimo. Il comma 3
detta invece le regole di determinazione della base imponibile di un’imposta patrimoniale (35).
2.2. Alternatività tra imposta sul reddito ed imposta sul patrimonio.
— Una conseguenza di tale ricostruzione, sulla quale si vuole porre
l’accento, è che nessuna prova contraria può essere offerta in relazione
all’inesistenza del reddito minimo (36).
( ) Resta fermo che, a rigor di logica, la natura patrimoniale deve essere dimostrata
direttamente e non può essere desunta semplicemente dal fatto che, solo considerando come
patrimoniale l’imposta che stiamo analizzando, viene meno la contraddizione altrimenti
ravvisabile nell’art. 30 della legge n. 724/1994 ed appena evidenziata nel testo. Il venir meno
della contraddizione è l’effetto della ricostruzione dell’imposta come patrimoniale, non la sua
causa. E l’argomento a cui si è fatto ricorso nel testo per dimostrare la natura patrimoniale del
tributo è quello fondato sulle regole di determinazione della base imponibile dello stesso.
( ) L’unica presunzione prevista dalla norma è quella, come si dirà dopo nel testo,
relativa alla non operatività della società. In senso contrario, per la tesi che si sia in presenza
di una presunzione legale di reddito minimo si veda BATISTONI FERRARA, (nt. 21), 1699; TESAURO,
Prefazione, in Le società di comodo. Regime fiscale e scioglimento agevolato, (nt. 19), 9 ss.;
ivi MINERVINI, La figura delle società non operative o di comodo. I casi di esclusione e la prova
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36
269/I
Il fenomeno cui questa disciplina dà vita presenta certamente tratti di
originalità rispetto al nostro panorama legislativo non soltanto perché,
come si è appena affermato, ci si troverebbe di fronte ad un’imposta che
colpisce il patrimonio e non il reddito nonostante il legislatore la qualifichi
come imposta sul reddito, ma anche e soprattutto perché questa imposta
patrimoniale si presenta in effetti come un’imposta “alternativa” rispetto
all’imposta sul reddito tutte le volte in cui un reddito, seppure inferiore alle
soglie previste dall’art. 30, comma 1°, vi sia stato. In questo caso infatti,
pur essendovi la produzione di un reddito (ancorché relativamente basso)
l’unica imposta dovuta è quella (che qui si è definita imposta patrimoniale)
calcolata secondo i criteri previsti dal comma 3 dell’art. 30 e cioè applicando determinate aliquote al valore di determinati beni della società.
Cambia dunque l’indice di capacità contributiva assoggettato ad imposizione e proprio per tale ragione sembra più corretto parlare di “alternatività” che non di regime fiscale sostitutivo (37) purché si precisi che si tratta
contraria, 38 ss.; STEVANATO, Società di comodo, (nt. 14), 1326 ss. Vi è poi chi ritiene che
quella introdotta dall’art. 30 della legge n. 724/1994 sia una presunzione di reddito minimo
di natura “assoluta” essendo divenuta tale a seguito della “espunzione della possibilità di
prova contraria invece espressamente contenuta nella disciplina previgente”. Così NUSSI, La
disciplina impositiva delle società di comodo tra esigenze di disincentivazione e rimedi
incoerenti, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2010, I, 508 ss. In verità, come si dirà più avanti nel testo,
il riferimento alla “prova contraria” che è stato eliminato dalla legge art. 1°, comma 109, lett.
a) della legge n. 296 del 2006 e che era contenuto nel primo comma dell’art. 30, era relativo
alla non operatività della società e non al reddito prodotto. Talché, come pure si dirà dopo nel
testo, di presunzione legale relativa si può parlare (ad avviso di chi scrive anche dopo
l’eliminazione del riferimento alla “prova contraria”) soltanto in relazione alla non operatività
della società e non anche in relazione alla produzione del reddito minimo. Prima del venir
meno del riferimento alla “prova contraria” aveva affermato che si fosse in presenza di una
presunzione di reddito minimo, e che quella sulle società di comodo fosse quindi una norma
antievasiva, LUPI, Le società di comodo come disciplina antievasiva, in Dial. dir. trib., 2006,
1102, il quale ha quindi considerato corretta, “pena l’illegittimità costituzionale della norma”,
la previsione del diritto alla prova contraria. Prova contraria che, secondo Lupi, avrebbe
dovuto riguardare “l’oggettiva inidoneità del patrimonio posseduto a generare reddito” (p.
1105). Si tratta di una lettura che, a sommesso avviso di chi scrive e per le ragioni che
verranno indicate nel testo, non era corretta neppure quando vigeva la disposizione sulla
prova contraria. In particolare è bene per chiarezza anticipare fin da ora che dall’analisi
dell’art. 30 della legge n. 724/1994 emerge che ciò che il contribuente dovrà dimostrare per
ottenere la disapplicazione della disciplina in esso contenuta, è che la società svolge un’attività
economica ma, pur svolgendola, essa non ha prodotto risultati in grado di superare le soglie
previste dal comma 1° del citato art. 30. È da condividere invece la posizione di chi parla di
“apparente” presunzione di reddito. Così SCHIAVOLIN, Considerazioni di ordine sistematico sul
regime delle società di comodo, in La società di comodo, (nt. 18), 68.
( ) Sembra infatti corretto distinguere, come fa SCHIAVOLIN, “Sostitutive (imposte)”, in
Dig. disc. priv., Sez. comm., XV, Torino, Utet, 1998, 52, tra il fenomeno della alternatività tra
tributi e quello dei regimi fiscali sostitutivi osservando che “l’elemento caratterizzante delle
imposte sostitutive consiste nella loro funzione di colpire la medesima manifestazione di
capacità contributiva espressa dai presupposti di quelle sostituite”. Il carattere sostitutivo,
afferma Schiavolin, «deve essere inteso in modo tale da giustificare la qualificazione dei tributi
surrogati come regime “ordinario” e dell’imposta de quo come disciplina “speciale”, senza
risolversi nella mera inapplicabilità di altre imposte, a prescindere dalla specifica ratio della
regola di esonero. Altrimenti, non si vedrebbe la differenza dalle ipotesi di alternatività [...]
o comunque dai casi in cui il legislatore voglia semplicemente evitare un eccessivo carico
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270/I
di una particolare ipotesi di alternatività in cui l’imposta alternativa (id est,
quella sul patrimonio) è dovuta non soltanto quando il presupposto dell’altra imposta si sia verificato (e cioè vi sia il possesso del reddito anche se
inferiore a determinate soglie), ma anche nel caso in cui il presupposto
dell’imposta alternativa non si sia verificato (e cioè non vi sia alcun
reddito). In quest’ultimo caso, a ben vedere, è più corretto abbandonare la
categoria della alternatività potendo, a rigor di logica, tale categoria essere
invocata soltanto quando si sono verificati i presupposti di entrambe le
imposte.
Ma non basta. Un’ulteriore peculiarità di tale imposta “alternativa”
consiste nel fatto che ciò che cambia tra le due imposte è soltanto la base
imponibile (e, quindi, l’indice di capacità contributiva colpito). Per il resto,
il fatto che il legislatore consideri formalmente come imposta sul reddito
tale imposta sul patrimonio comporta — essendo questa la scelta del
legislatore — che troverà applicazione, per quanto non previsto dalla
specifica disciplina sulle società di comodo ed in quanto compatibile con la
natura patrimoniale dell’imposta, la disciplina dell’Ires (38). In altri termini
la natura delle due imposte è differente perché differente è l’indice di
fiscale su certe vicende o attività economiche, derivante dal cumulo di tributi del tutto
eterogenei». Tale distinzione sembra implicitamente tracciata anche da P. RUSSO, Manuale di
diritto tributario - Parte generale, Milano, Giuffrè, 2007, 142-143.
Le considerazioni di Schiavolin suggeriscono anche un’ulteriore argomentazione (che in
un certo senso altro non è che una riformulazione di quanto già affermato chiaramente da tale
Autore) che è la seguente. Se l’indice di capacità contributiva “colpito” dalle due imposte è
diverso (come avviene nell’ipotesi di cui ci stiamo occupando) non può parlarsi di effetto
“sostitutivo” perché non vi è una sovrapposizione che permetta, una volta che si sia stabilito
normativamente che “se l’imposta X è dovuta, allora non è dovuta l’imposta Y”, di affermare
che l’imposta X ha sostituito l’imposta Y. Due o più imposte che colpiscono diversi indici di
capacità contributiva possono coesistere (ed è quello che avviene in qualsiasi ordinamento
tributario). Se la norma prevede (esplicitamente o, come avviene per le società di comodo,
implicitamente) che quando si realizzano i diversi presupposti di due imposte che colpiscono
diversi indici di capacità contributiva soltanto una delle due imposte è dovuta, ciò risponde ad
una scelta del legislatore di instaurare tra i due tributi un rapporto di alternatività, ma non è
frutto di una esigenza di sostituirne uno con l’altro in quanto, l’essere diverso l’indice di
capacità contributiva, implica che non vi sia un rapporto di reciproca esclusione tra di essi.
Tornando al caso dell’imposta sulle società di comodo la ragione per cui il legislatore ha
evitato il cumulo non è quella di non svantaggiare troppo il contribuente — essendo questo,
come si è detto, esattamente lo scopo della disciplina “dissuasiva” su tali società — ma risiede,
più banalmente, nel fatto che, come si è spiegato nel testo, il legislatore ha qualificato (forse
inconsapevolmente) tale imposta patrimoniale come imposta sul reddito con la conseguenza
che non avrebbe certo potuto prevedere l’obbligo di pagare due volte una imposta denominata
sempre Ires (e, prima del 2004, Irpeg), e calcolata una volta sul reddito (inferiore alle soglie
minime previste dall’art. 30 della legge n. 724/1994) ed una volta sul valore di determinati
beni della società. Ma al di là di questa ragione formalistica, in generale nulla impedirebbe al
legislatore di prevedere, in capo ad un medesimo soggetto, tanto un’imposizione sul reddito
quanto una sul patrimonio.
( ) Quanto ai profili sostanziali si vedrà nel paragrafo finale del presente lavoro come,
ad esempio, il legislatore consideri scontata l’applicazione anche per le società di comodo del
principio di trasparenza ed intervenga, laddove ritenuto necessario, con delle norme derogatorie. Quanto ai profili procedimentali troveranno applicazione le norme sulla dichiarazione
Ires e quelle sull’accertamento in materia di imposte sui redditi.
38
271/I
capacità contributiva colpito — il che ci incoraggia a parlare di imposte tra
loro diverse ed alternative —, ciò non toglie tuttavia che la relativa
disciplina resta in buona parte la medesima (39).
Seppure questi aspetti si traducono, come si è detto, in una disciplina
con forti tratti di originalità, non sembrano tuttavia in grado di indebolire
la validità dell’impostazione proposta in quanto, riepilogando: a) il fatto
che un’imposta sia qualificata dal legislatore come imposta sul reddito non
impedisce certo di prendere atto che, ciononostante, la capacità contributiva da essa colpita è il patrimonio e non il reddito (40); b) il fatto che vi sia
alternatività tra imposta sul reddito (qualora un reddito seppur minimo sia
prodotto) ed un’imposta che colpisce il patrimonio, non pone particolari
problemi essendo il fenomeno della alternatività ben noto nella nostra
materia (41).
( ) Ciò non si verifica ordinariamente nelle altre ipotesi di alternatività tra imposte
previste nel nostro ordinamento in quanto ciascuna delle due imposte alternative ha una sua
autonoma disciplina (si pensi all’alternatività Iva-Registro). Il fatto che ciò non accada nel
caso dell’imposta patrimoniale sulle società di comodo, la quale non ha una sua autonoma
disciplina, ma si “innesta” sulla disciplina dell’Ires, non dovrebbe far cadere la tesi della
alternatività. Il presupposto minimo perché si possa parlare di alternatività è che vi siano due
imposte autonome, e non che le due imposte autonome abbiano una disciplina differente. Nel
caso di cui ci stiamo occupando l’autonomia sussiste perché diverso è l’indice di capacità
contributiva colpito e ciò impedisce di ritenere che ci si trovi di fronte ad una medesima
imposta. L’indice di capacità contributiva colpito è infatti ciò che, più di ogni altro elemento,
caratterizza l’imposta (che può dirsi tale solo se è dovuta in ragione di una specifica
manifestazione di capacità contributiva). Se si vuole operare una distinzione all’interno della
categoria generale dell’“imposta”, tale distinzione non può che essere tracciata avendo
riguardo agli indici di capacità contributiva volta per volta colpiti.
( ) Per l’affermazione, largamente accettata in dottrina, che il patrimonio sia un valido
indice di capacità contributiva si veda per tutti MOSCHETTI, Introduzione dell’imposta sul
patrimonio e duplicazione d’imposta, in L’imposta patrimoniale, a cura di G. Muraro,
Padova, Cedam, 1987, 193 ss. nonché, nello stesso testo, MAFFEZZONI, Funzioni e limiti
dell’imposta sul patrimonio, 197 ss.
( ) È interessante notare che è invece (peraltro per espressa previsione normativa) una
vera e propria imposta sostitutiva quella prevista dall’art. 29 della legge 27 dicembre 1997, n.
449 il quale ha introdotto (per un periodo di tempo limitato) un regime agevolativo per
l’estromissione dal patrimonio della società di taluni beni mediante, appunto, il pagamento di
tale imposta in luogo dell’imposta sui redditi e dell’Irap. Come osservato dalla dottrina,
attraverso tale regime sostitutivo “il legislatore persegue l’obiettivo di eliminare dal patrimonio della società, quei beni che, essendo sganciati dal ciclo produttivo, rispondono ad una
logica di mero godimento piuttosto che ad una logica di produzione di ricchezza”. Così
BEGHIN, “Società di comodo”, assegnazioni agevolate ai soci e pagamento dell’imposta
sostitutiva: note sulla disciplina di cui all’art. 29 della L. 27 dicembre 1997, n. 449, in Rass.
trib., 1999, 1391. Si tratta quindi di una ratio analoga a quella sottesa all’art. 30 della legge
n. 724/1994 anche se l’obiettivo di fare in modo che le società vengano deputate allo
svolgimento di attività economiche viene perseguito questa volta non con una disciplina
sfavorevole (come è quella dettata dal predetto art. 30), ma con una disciplina agevolativa (di
disciplina agevolativa parla pure la circ. 112/E del 21 maggio 1999). La differenza che qui ci
interessa evidenziare per fare un parallelismo con quanto si è affermato nel testo consiste nel
fatto che, quella prevista dall’art. 29 della legge n. 449/1997, non è un’imposta patrimoniale
ma è una imposta avente natura reddituale che si “sostituisce” all’ordinaria imposta sul
reddito (di qui la possibilità di qualificarla come imposta sostitutiva dell’imposta sul reddito
sempre che si presti consenso alla distinzione tracciata da Schiavolin ed indicata sopra in nota
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272/I
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte appare quindi agevole
superare l’eventuale obiezione che potrebbe essere mossa rilevando che, se
il legislatore ha qualificato tale imposta come imposta sul reddito, probabilmente l’intenzione dello stesso era proprio quella di assoggettare ad
imposizione il reddito e non il patrimonio. È certamente possibile che il
legislatore abbia avuto questa “intenzione”, ma ciò non ci esime dal rilevare
che, se anche così fosse, di fatto di imposta sul reddito non si può parlare
dovendosi parlare di imposta sul patrimonio (42). E ciò — lo si ribadisce —
per la semplice ragione che l’indice di capacità contributiva sul quale viene
calcolata l’imposta applicando determinate aliquote è dato in questo caso
dal patrimonio e non dal reddito. Se si accoglie questa ricostruzione, si può
senz’altro osservare che il legislatore ha inopportunamente utilizzato il
termine reddito ed ha inopportunamente ricondotto tale imposta nell’ambito dell’Ires facendo così un torto alle categorie giuridiche elaborate dagli
studiosi del diritto tributario, ma nulla di più (43).
37). La base imponibile è costituita infatti dalla differenza tra il valore normale dei beni
assegnati ai soci ed il costo fiscalmente riconosciuto. Come ben spiegato da attenta dottrina
“la base imponibile che è stata quantificata in occasione dell’assegnazione [...] esprime ricavi
o plusvalenze che, nella disciplina del reddito ordinaria, concorrerebbero alla formazione del
reddito della società”. Così ancora, BEGHIN, op. cit., 1397.
( ) A tal proposito risulta illuminante la distinzione operata da MODUGNO, Appunti
dalle lezioni di teoria dell’interpretazione, Padova, Cedam, 1998, 70 ss. il quale, affrontando
il tema dell’argomento fondato sulla intenzione del legislatore, distingue tra il legislatore
“storico o concreto” ed il legislatore “inteso come entità astratta”. Il primo è il legislatore “in
carne ed ossa” rappresentato da quei soggetti “che storicamente hanno concorso alla redazione e approvazione del documento normativo da interpretare”, il secondo «“parla” attraverso il testo della legge». Riferendosi al legislatore concreto Modugno osserva che non può
«presumersi affatto che il legislatore riesca effettivamente a “volere” quello che “dichiara” o
riesca effettivamente a “dichiarare” quello che “vuole”». La distinzione tra legislatore in
“carne ed ossa” e legislatore inteso come entità astratta è tracciata, come ricorda lo stesso
Modugno, da GUASTINI, Le fonti del diritto e l’interpretazione, Milano, Giuffrè, 1993, 367 s.
Considerando ora quanto affermato nel testo alla luce di tale distinzione, si deve
osservare che è certamente plausibile l’ipotesi che il legislatore concreto volesse introdurre
una imposta sul reddito. Del resto l’imposta sulle società di comodo è espressamente
qualificata come imposta sul reddito e tale dato non può essere ignorato. Ciò che conta ai
nostri fini è però che tale volontà non ha trovato attuazione sotto questo profilo in quanto, pur
non rendendosene (probabilmente) conto, il legislatore concreto ha introdotto una imposta
avente natura di imposta sul patrimonio. Parafrasando Modugno possiamo dire che il
legislatore non ha dichiarato ciò che voleva (precisando però che qui quando diciamo che
“non ha dichiarato” non intendiamo riferirci al tenore letterale dell’art. 30 della legge n.
724/1994 che pure parla di reddito, ma intendiamo riferirci a ciò che implicitamente viene
“dichiarato” nella norma quando si prevede che la base imponibile del tributo è rappresentata
dal patrimonio).
( ) Discorso a parte merita la previsione contenuta nel comma 3-bis dell’art. 30 e volta
ad introdurre una presunzione valida ai fini Irap. Anche in questo caso si può affermare che
l’indice di capacità contributiva assoggettato ad imposizione non è più quello che ordinariamente è colpito dall’Irap. La tecnica utilizzata dal legislatore è la stessa del comma 3. Si parla
infatti di presunzione del “valore della produzione netta” ma poi si fa sempre riferimento
(tramite un rinvio al comma 3) ai “valori dei beni posseduti nell’esercizio” dalla società. La
differenza risiede nel fatto che, nel caso dell’Irap, a questa base imponibile, di tipo patrimoniale, si sommano una serie di componenti reddituali. Ai sensi del comma 3-bis la base
imponibile data dall’applicazione del comma 3 va infatti aumentata delle retribuzioni soste42
43
273/I
2.3. (segue) Quando la società non operativa produce un reddito
superiore al “reddito minimo”, l’indice di capacità contributiva colpito
torna ad essere il reddito.
2.3.1. Le considerazioni sin qui svolte sulla natura patrimoniale
dell’imposta sulle società non operative necessitano di una precisazione
della massima rilevanza ai fini del corretto inquadramento della disciplina
di cui ci stiamo occupando.
In particolare, vi è insita nell’art. 30 della legge n. 724/1994 anche
un’altra ipotesi rispetto a quella, sin qui presa in considerazione, della
società che si presume non operativa ai sensi del comma 1 dell’art. 30 e
che, al contempo, produce un reddito inferiore a quello risultante dall’applicazione delle regole contenute nel comma 3 del medesimo art. 30.
Il caso è quello della società che si presume non operativa ma che
abbia prodotto un reddito superiore a quello delle soglie individuate
applicando il comma 3. In questo caso le regole di determinazione della
base imponibile tornano ad essere quelle proprie delle imposte sui redditi,
ed in particolare quelle del reddito di impresa. La determinazione della
base imponibile ai sensi del comma 3 “scatta”, infatti, soltanto nel caso in
cui il reddito sia inferiore a quello risultante dall’applicazione dello stesso.
Pertanto quanto sin qui affermato in ordine alla alternatività tra
imposta sul reddito ed imposta sul patrimonio deve essere così precisato: si
ha applicazione dell’imposta sul patrimonio, in alternativa a quella sul
reddito, quando ricorrono due condizioni: a) la società è non operativa; b)
la società ha prodotto un reddito inferiore alla base imponibile di tipo
patrimoniale risultante dall’applicazione del comma 3 dell’art. 30.
Queste considerazioni, lo si deve ammettere, indeboliscono in parte la
tesi (sostenuta nel presente lavoro) della finalità dissuasiva svolta dalla
particolare disciplina rispetto al fenomeno dell’utilizzo di società al solo
fine di svolgere attività di mero godimento. Si finisce infatti per trattare
diversamente — quantomeno ai fini delle imposte sui redditi — da tutte le
nute per il personale dipendente, dei compensi spettanti ai collaboratori coordinati e continuativi, di quelli per prestazioni di lavoro autonomo non esercitate abitualmente, e degli
interessi passivi. Si aprirebbe qui un discorso molto lungo che non può essere affrontato in
questa sede. Va soltanto osservato che il legislatore mostra, attraverso l’introduzione del
comma 3-bis, da un lato di ritenere che effettivamente la base imponibile individuata nel
comma 3 sia data dal reddito (non rendendosi conto che reddito non è), e dall’altro lato di
considerare l’Irap come una imposta sul reddito nella quale semplicemente non si tiene conto
di determinati elementi negativi (quelli appunto individuati nel comma 3-bis). Una tale
considerazione è gravida di conseguenze, che tuttavia fuoriescono dal campo di indagine del
presente lavoro. Ciò che preme in questa sede rilevare è che, se si concorda con la tesi qui
sostenuta della natura patrimoniale della ricchezza assoggettata ad imposizione dal comma 3
della legge n. 724/1994, si deve allora ritenere che quando il comma 3-bis prevede che alla
base imponibile determinata ai sensi del comma 3 si debbano sommare alcuni elementi
negativi di reddito, sta creando un’imposta la cui base imponibile è il risultato di una
sommatoria di componenti patrimoniali e reddituali.
274/I
altre società, non tutte le società non operative, ma soltanto quelle che
producono un reddito inferiore a determinate soglie (44).
L’obiezione è senz’altro corretta, ma soltanto con riguardo alla disciplina anteriore all’entrata in vigore del d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (conv.
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148). Con l’art. 2, comma 36-quinquies
del suddetto decreto, come si dirà meglio più avanti, è stata infatti
introdotta una maggiorazione di aliquota del 10,5 per cento rispetto a
quella ordinaria dell’Ires. La maggiorazione si applica ai “soggetti indicati
nell’art. 30, comma 1” della legge n. 724/1994 e, quindi, a tutte le società
non operative e non soltanto a quelle che producono un reddito inferiore
alle soglie minime.
Ad oggi, successivamente all’entrata in vigore del d.l. n. 138/2011,
può dunque dirsi che la funzione dissuasiva della disciplina tributaria
rispetto al società di comodo è svolta nei confronti di tutte le società
qualificabili come tali a prescindere dal reddito da esse prodotto.
Certo è che i rimedi sono diversi. Nel caso in cui vi sia un reddito
inferiore alle soglie indicate nel comma 3 dell’art. 30, si avrà l’applicazione
di un’imposta sul patrimonio la cui aliquota è quella dell’Ires maggiorata
del 10,5 per cento, mentre nel caso in cui il reddito sia superiore alle
medesime soglie si avrà un’imposta sul reddito la cui aliquota è, ancora una
volta, quella dell’Ires maggiorata del 10,5 per cento.
Le ragioni del differente trattamento appena descritto — ed in particolare della scelta di tornare ad assoggettare ad imposizione il reddito
quando è superiore a quello “minimo” — dovrebbero risiedere in una mera
logica di soddisfacimento di esigenze di cassa. Si vuole in altri termini
garantire che le società di comodo concorrano alle spese pubbliche in
ragione di una base imponibile “minima”. Se manca il reddito (minimo),
tale base imponibile sarà costituita dal patrimonio, se invece il reddito
(minimo) c’è, non vi è ragione di assoggettare ad imposizione “grandezze”
diverse dal reddito (nella specie, il patrimonio).
2.3.2. Fatte queste precisazioni, e continuando a concentrare l’attenzione sull’ipotesi della società che si presume non operativa ai sensi del
comma 1° dell’art. 30, ma che produce un reddito superiore a quello
minimo individuato dal comma 3 dell’art. 30, si intende ora analizzare
l’ultimo periodo del comma 3 dell’art. 30 in base al quale “le perdite di
esercizi precedenti possono essere computate soltanto in diminuzione della
parte di reddito eccedente quello minimo di cui al presente comma”.
Orbene, se quello individuato dal comma 3 come “reddito minimo” fosse
( ) Con riguardo all’Iva invece, la penalizzazione consistente nella impossibilità di
chiedere il rimborso o di ricorrere all’istituto della compensazione (art. 30, comma 4), opera
per tutte le società non operative, a prescindere dal reddito prodotto.
44
275/I
realmente “reddito” (se il legislatore utilizzasse cioè tale termine correttamente), ben poco senso avrebbe una disposizione che riconosce da un lato
il riporto delle perdite e dall’altro lato non consente di “abbattere” con tali
perdite il reddito individuato dallo stesso comma 3. Non si ravviserebbero
ragioni per le quali questo limite dovrebbe operare (45).
La previsione invece ben si spiega se si accetta l’idea che la base
imponibile individuata dal comma 3 non è di natura reddituale, ma
patrimoniale. Come si è già osservato, se la società, pur avendo i requisiti
del comma 1° dell’art. 30 (che fanno scattare la presunzione di non
operatività), per qualsiasi ragione produce un reddito superiore a determinate soglie, l’imposta sarà un’imposta sul reddito. Ma se il reddito è
inferiore, l’imposta si calcola sul patrimonio della società. Ed allora, se
negli esercizi precedenti è stata prodotta una perdita, questa, ai sensi
dell’ultimo periodo del comma 3, può abbattere il reddito, ma non anche la
base imponibile calcolata sul patrimonio della società. Se la capacità
contributiva è data dal patrimonio, essa non può essere misurata valorizzando le perdite che sono un elemento di natura reddituale.
La questione può poi essere impostata anche in termini diversi o, se si
preferisce, può essere guardata da una diversa prospettiva: dimenticando
per un momento che la norma pone il limite di operatività della perdita si
potrebbe affermare che la perdita opera anche oltre il limite del reddito
minimo ma, quando abbatte la soglia del reddito minimo, fa scattare
l’obbligo di corrispondere l’imposta patrimoniale anziché l’imposta sul
reddito (46).
2.4. L’assoggettamento ad imposta patrimoniale delle sole società di
comodo non viola il principio di eguaglianza. — Fatte queste premesse, e
( ) Anche volendo aderire (ma non è questa la sede per occuparsi di un così delicato
problema) alla tesi della Corte costituzionale secondo cui l’art. 53, comma 1° Cost. non impone
che il legislatore riconosca il riporto in avanti delle perdite (sul punto cfr. per tutti ZIZZO,
Considerazioni sistematiche in tema di utilizzo delle perdite fiscali, in Rass. tribut., 2008, 929
ss.) resta il fatto che la regola prevista nel nostro ordinamento, per la determinazione del reddito
d’impresa, è quella di consentire entro certi limiti ed a certe condizioni l’utilizzo delle perdite.
Non si vede perché, lo si ribadisce, tale regola non dovrebbe operare per le società di comodo
se davvero fossimo in presenza di una presunzione di reddito minimo.
( ) Un esempio può aiutare a comprendere meglio. Si assuma che in un dato periodo
di imposta la base imponibile scaturente dall’art. 30, comma 3 della legge n. 724/1994 (c.d.
reddito minimo) è 100, che il reddito prodotto dalla società è 110 e che vi sia la possibilità di
computare in diminuzione del reddito l’importo di 20 per perdite prodotte negli esercizi
precedenti. Se al reddito di 110 si sottrae 20 esso scende a 90; in questo caso la perdita ha
fatto sì che il reddito dichiarato sia inferiore a quello minimo e ciò determina il passaggio
all’imposta patrimoniale nel senso che il tributo dovuto non si dovrà più calcolare sul reddito
di 90, ma si calcolerà assumendo come base imponibile il valore dei beni così come
determinato ai sensi dell’art. 30, comma 3. Tale valore sarà appunto pari a 100 ma ciò non
sarà frutto della non operatività della perdita. La perdita in questo caso ha operato (cioè ha
prodotto effetti giuridici) nel senso che ha determinato il passaggio all’imposta alternativa sul
patrimonio.
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276/I
tornando al profilo di nostro interesse, se si condivide l’impostazione
adottata si coglie marcatamente lo sfavore con cui tali soggetti (id est, le
società che non svolgono attività economica) vengono considerati dal
legislatore (47).
In altri termini, un conto è presumere che un determinato soggetto
produca un reddito senza dichiararlo. In questo caso sarebbe senz’altro
corretto trovare il modo di assoggettare ad imposizione tale reddito, anche
introducendo una presunzione legale, purché relativa (48). Tuttavia una
siffatta previsione non sarebbe volta a svantaggiare un certo tipo di utilizzo
della forma societaria, ma sarebbe semplicemente volta a reprimere l’evasione fiscale (49).
Ben diverso è invece prevedere — ed è ciò che si verifica con l’art. 30
della legge n. 724/1994 — una discriminazione all’interno di una determinata categoria di soggetti (nella specie le società) stabilendo che solo quelli
che hanno determinati requisiti saranno tenuti al pagamento di un’imposta
patrimoniale. La particolarità di una siffatta scelta legislativa risiede nel
fatto che la capacità contributiva colpita da tale imposta di tipo patrimoniale, il cui indice è rappresentato dai “beni posseduti nell’esercizio” ed
indicati nel comma 3 dell’art. 30, si realizza anche in capo alle società che
esercitano concretamente un’attività economica le quali pure possono
possedere tali beni.
Si tratta di una particolarità certamente non priva di significato, che
tuttavia non sembra far emergere profili di incostituzionalità.
Ed infatti, se da un lato, con l’art. 30 della legge n. 724/1994 il
legislatore mostra chiaramente il disfavore nei confronti delle società che
non svolgono una effettiva attività d’impresa, dall’altro lato la disciplina
delle società di comodo non sembra implicare una violazione del principio
di uguaglianza potendo, l’utilizzo anomalo che si è fatto dello strumento
societario, essere assunto quale fattore di disomogeneità tra le due ipotesi
( ) Nel testo ci si è occupati della alternatività tra imposta sul reddito ed imposta sul
patrimonio. Analoghe considerazioni possono poi essere svolte con riguardo all’Irap introducendo, il comma 3-bis dell’art. 30, un meccanismo esattamente identico a quello previsto dal
comma 3 per le imposte sui redditi. Non si deve infine dimenticare (come si è già ricordato
nella precedente nota 44) che alla società non operativa, che produca un reddito superiore a
quello “minimo”, sarà comunque preclusa la possibilità di chiedere il rimborso o di ricorrere
all’istituto della compensazione per l’eccedenza del credito Iva (art. 30, comma 4). Tale
penalizzazione opera appunto per tutte le società non operative, a prescindere dalla quantità
di reddito da esse prodotto, e costituisce quindi un ulteriore argomento per sostenere la tesi
secondo cui il legislatore intende disincentivare tutte le società non operative senza alcuna
distinzione.
( ) Si veda la successiva nota 69.
( ) L’idea che le presunzioni legali relative possono svolgere una funzione “integrativa
e rafforzativa dell’accertamento [...] costituendone un prezioso supporto applicativo che
implica una inversione dell’onere della prova dal Fisco al contribuente” è stata espressa da
GALLO, Accertamento e garanzie del contribuente: prospettive di riforma, in Dir. prat. trib.,
1989, I, 58.
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277/I
(id est, quella della società che svolge una attività economica rispetto a
quella della società di mero godimento) (50) (51).
Non solo, un ulteriore fattore di differenziazione — ancor più rilevante
di quello appena individuato che potrebbe essere ricondotto più a logiche
“sanzionatorie” che di concorso alle spese pubbliche attraverso l’individuazione di indici di capacità contributiva — è dato dal fatto che i beni che
vengono presi in considerazione per determinare la base imponibile sono
beni che, se resta confermata la presunzione di non operatività della norma
(cioè se il contribuente non la supera con la prova contraria), non sono
utilizzati dal contribuente in funzione dello svolgimento di una attività
economica. Questo aspetto ben può giustificare — sotto il profilo del
rispetto del principio di uguaglianza — il diverso trattamento impositivo
tra società non operative (assoggettate ad una imposta patrimoniale) e
società operative (non assoggettate ad alcuna imposta patrimoniale). L’assumere come base imponibile di un’imposta patrimoniale il valore di
determinati beni solo nel caso in cui essi non siano (e non potranno mai
essere in quanto manca l’attività economica) strumentali all’attività economica è una scelta che ben può fare il legislatore non essendo tale
situazione “omogenea” a quella che si ha quando i beni vengono utilizzati
(o comunque possono essere utilizzati) in funzione dell’attività economica.
Si tratta di differenze in grado di giustificare (da un punto di vista della
conformità alla Costituzione) la scelta di un diverso trattamento tributario
a prescindere dal fatto che i medesimi beni potrebbero rappresentare un
valido indice di capacità contributiva anche per la società operativa (52).
( ) Il legislatore cioè, tratterebbe in modo diverso le società operative da quelle non
operative partendo dalla considerazione che si è in presenza di due situazioni non omogenee
in quanto nel caso delle società non operative si è scelto di utilizzare la “società” laddove non
ve ne sarebbero stati i presupposti (mancando appunto il requisito dello svolgimento
dell’attività economica previsto dall’art. 2247 c.c.), presumibilmente anche al fine di godere
di un regime tributario più vantaggioso. Le differenze tra le due fattispecie messe a raffronto
sono quindi di due tipi. Di tipo soggettivo, nel senso che la società di comodo è società
formalmente, ma non ha i requisiti della società prevista dal codice civile; di tipo oggettivo
perché diversa è la fonte del reddito (ammesso che un reddito vi sia): nel caso della società di
comodo, a differenza che per tutte le altre società, la fonte non è data dall’attività economica
(su quest’ultimo profilo si rinvia alle considerazioni che verranno svolte subito dopo nel
testo).
( ) È appena il caso di precisare che, se si accetta la tesi per cui quella della società di
godimento non è una fattispecie “omogenea” a quella della società che invece svolge una
attività economica, allora il problema della violazione dell’art. 3 Cost. non si dovrebbe porre
neppure per il fatto che, come si è osservato nel testo, la società di godimento sarà tenuta al
pagamento dell’imposta patrimoniale ma non (a differenza di tutte le altre società) all’imposta
sul reddito anche se un reddito (seppure inferiore alle soglie individuate dall’art. 30) potrebbe
averlo prodotto.
( ) Tali considerazioni dovrebbero essere sufficienti per giustificare il diverso trattamento tra società di comodo e società che svolgono una effettiva attività di impresa senza
incorrere nella violazione dell’art. 3 Cost. Naturalmente l’assoggettamento ad imposizione
delle società di comodo deve pur sempre trovare fondamento in un valido indice di capacità
contributiva, pena la violazione dell’art. 53 Cost. Ma una volta che tale indice sia ravvisabile
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278/I
3. (Segue) Analisi e confutazione di alcune possibili obiezioni. —
Giunti a questo punto della trattazione è opportuno prendere posizione in
ordine ad una possibile obiezione che si potrebbe muovere in relazione a
quanto sin qui affermato. Si potrebbe cioè sostenere che, per come è
“costruita” la disciplina tributaria delle società di comodo nell’ambito
dell’art. 30 della n. 724/1994, ad essere assoggettate ad imposizione
secondo il meccanismo ivi previsto non sono tanto le società che non
svolgono attività economica, quanto più semplicemente quelle che non
hanno prodotto un sufficiente livello di ricavi che gli consenta di superare
il test di operatività previsto dal comma 1° dell’art. 30 (53). Ai sensi di tale
disposizione infatti, sono considerate società “non operative” quelle il cui
“ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei
proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico” sia
inferiore alla somma degli importi che risultano dall’applicazione delle
percentuali indicate nel medesimo art. 30.
In effetti, che il mancato superamento delle soglie previste dall’art. 30,
comma 1 della legge n. 724/1994 non sia necessariamente sinonimo di mancato svolgimento di un’attività economica non pare possa essere negato.
Stando così le cose si potrebbe osservare che la disciplina delle società
di comodo non può essere utilizzata — come si è invece fatto sopra — per
sostenere la tesi che l’intento è quello di scoraggiare le società di mero
godimento.
In altri termini, se si parte dal presupposto che alla disciplina delle
società di comodo possono soggiacere anche società che svolgono una
effettiva attività economica, tutto il ragionamento sopra svolto in ordine
alla funzione dissuasiva del fenomeno delle società di mero godimento
svolta dall’art. 30 della legge n. 724/1994 sarebbe gravemente indebolito.
— come accade nel caso di specie dove si assoggetta ad imposizione il patrimonio — non
sembra a chi scrive che il principio di uguaglianza possa vincolare il legislatore a porre sullo
stesso piano due fenomeni che (per le ragioni indicate nel testo) sono tra loro differenti. Si
deve segnalare che, in senso esattamente opposto alla tesi appena espressa, LUPI, Modifiche
alle società di comodo, tra antievasione, pedagogia e scioglimento “agevolato”, in Dial. dir.
trib., 2006, 1434 ss. ha ritenuto che sia proprio l’ipotesi dell’imposta di tipo patrimoniale a
destare i maggiori dubbi di illegittimità costituzionale (sotto il profilo della disparità di
trattamento) con la conclusione che dovrebbe preferirsi la tesi in base alla quale ci si trova in
presenza di una presunzione di reddito minimo. Ritiene inoltre lo stesso Lupi che tale
presunzione — dopo l’eliminazione del riferimento alla “prova contraria” che era originariamente contenuto nell’art. 30 della legge n. 724/1994 — dovrebbe qualificarsi come presunzione “quasi assoluta” essendo ammessa la prova contraria in sede di interpello, ma non in
sede giurisdizionale. Tale impedimento sarebbe — secondo Lupi — in contrasto con l’art. 24
Cost. Quest’ultima considerazione è pienamente condivisibile ma dovrebbe indurre, ad avviso
di chi scrive, ed al contrario di quanto afferma Lupi, a ritenere preferibile la tesi dell’imposta
patrimoniale i cui dubbi di incostituzionalità per violazione dell’art. 3 Cost. appaiono (come
si è detto sopra in questa nota) superabili, a differenza di quelli che derivano dall’accoglimento della tesi che ravvisa l’esistenza di una presunzione assoluta di reddito minimo (ipotesi
contrastante appunto, secondo lo stesso Lupi, con l’art. 24, comma 2, Cost.).
( ) In questo senso BEGHIN, (nt. 26), 628 ss.
53
279/I
A tal proposito si deve rilevare in primo luogo che, se lo scopo della
norma fosse davvero quello di penalizzare i soggetti che non producono un
sufficiente livello di ricavi pur svolgendo una attività economica, sulla
norma graverebbe un più che fondato sospetto di incostituzionalità (54).
Non sussistono infatti valide ragioni per assoggettare ad imposizione, con
un’imposta di tipo patrimoniale, soltanto i soggetti che non riescono a
raggiungere determinati risultati reddituali (55) in un certo periodo di
imposta.
L’unica interpretazione conforme alla Costituzione consiste pertanto
nel ritenere che, con il comma 1° dell’art. 30 della legge n. 724/1994, il
legislatore ha introdotto una presunzione legale relativa in ordine alla non
operatività della società e che lo scopo della norma è quello di individuare
gli indici di mancato svolgimento di una attività economica da parte della
stessa. Tale lettura trova una conferma nella previsione, contenuta nel
comma 4-bis dell’art. 30 della legge n. 724/1994, della possibilità di
proporre un interpello disapplicativo (della disciplina sulle società di
comodo) dimostrando che ricorrono “oggettive situazioni che hanno reso
impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei
proventi nonché del reddito determinati ai sensi del presente articolo...”.
Orbene, tale disposizione, nella parte in cui si riferisce alle “oggettive
situazioni” sembra proprio volersi riferire alle ipotesi di società che, pur
non essendo di mero godimento, ma essendo società che svolgono effettivamente un’attività economica, non hanno di fatto superato le soglie di cui
al comma 1° dell’art. 30 (56) (57).
Le soglie di ricavi, incrementi delle rimanenze o proventi previste nel
comma 1 dell’art. 30 servono a qualificare eventualmente una società come
“non operativa”. È quindi evidente che quando il comma 4-bis fa riferimento alla possibilità di dimostrare che vi sono “oggettive situazioni che
( ) Se invece lo scopo è quello di penalizzare il soggetto che utilizzi in modo distorto
lo strumento della “società” allora il diverso trattamento tributario non sembra possa essere
considerato incostituzionale. Si rinvia sul punto a quanto osservato sopra nel testo.
( ) Con questa espressione si intende qui fare riferimento non al reddito in quanto
tale, ma alle componenti di reddito indicate nel comma 1° dell’art. 30.
( ) In questo senso si veda NUSSI, (nt. 36), 497.
( ) Né si potrebbe sostenere che il comma 4-bis faccia riferimento alle ipotesi di
esclusione della disciplina previste dall’ultima parte dello stesso comma 1 dell’art. 30 (soggetti
ai quali per la particolare attività svolta, è fatto obbligo di costituirsi in forma di società di
capitali; soggetti che si trovano nel primo periodo di imposta; società in amministrazione
controllata o straordinaria [...]). Se il legislatore avesse inteso riferirsi a tali ipotesi lo avrebbe
fatto espressamente e non avrebbe utilizzato una espressione generica come quella utilizzata
nel comma 4-bis (“oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi
[...]”). La stessa Agenzia delle Entrate, nella circolare 5/E del 2 febbraio 2007, ha espressamente affermato che qualora ricorrano le ipotesi di esclusione previste dal comma 1 dell’art.
30, l’esclusione stessa opera in modo automatico non dovendo dunque il contribuente
presentare alcun interpello per ottenere la disapplicazione della disciplina sulle società di
comodo.
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280/I
hanno reso impossibile” il superamento di dette soglie, tali situazioni
dovranno essere alternative alla “non operatività”. Ed infatti, se la società
è non operativa, troverà necessariamente applicazione la disciplina delle
società di comodo (58).
Se da un lato quanto appena affermato vale a ribadire la tesi della
finalità dissuasiva della disciplina sulle società di comodo, dall’altro lato
tocca un ulteriore aspetto di cui ci siamo occupati nel presente lavoro: il
riferimento è alla tesi, che pure si è sostenuta nel presente lavoro, secondo
cui l’unica presunzione legale relativa introdotta dall’art. 30 è quella di non
operatività (non essendovi, al di là del tenore letterale della norma, alcuna
presunzione di reddito minimo). Anche rispetto a tale affermazione sussiste un ostacolo che tuttavia, come si vedrà di seguito, appare superabile.
Tale ostacolo è rappresentato dal comma 4-bis dell’art. 30 il quale, nel
disciplinare l’istituto dell’interpello (sul quale si tornerà più avanti), sembra offrire un argomento letterale molto forte per sostenere la tesi che la
prova contraria (finalizzata ad ottenere la disapplicazione del medesimo
art. 30) può essere relativa tanto alla operatività della società quanto alla
produzione di un reddito minimo. Tale disposizione si riferisce infatti alle
“oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei
ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito
determinati ai sensi del presente articolo” (59). Una simile previsione
potrebbe in effetti far pensare che l’art. 30 della legge n. 724/1994
introduca anche una presunzione legale di reddito minimo.
Sennonché, vi è un altro dato letterale del comma 4-bis che deve altresì
essere valorizzato: il riferimento è appunto alla “impossibilità” di conseguire i ricavi o il reddito. Orbene, se di impossibilità deve trattarsi, non si
vede come questa possa adattarsi alla situazione in cui si trova una società
non operativa. Le situazioni che rendono impossibile il conseguimento di
un reddito minimo sembrano potersi ipotizzare solo nel caso della società
che svolga attività economica (60). Se non vi è svolgimento di alcuna
( ) Disciplina che, è il caso di sottolinearlo, non è soltanto contenuta nell’art. 30 della
legge n. 724/1994. Come si ricorderà nella parte finale del presente lavoro e come si è già
accennato in parte nel testo, di recente le società di comodo sono state oggetto di ulteriori
interventi normativi ad opera dell’art. 2, commi 36-quinquies e ss. del d.l. 13 agosto 2011, n.
138 (conv. con modificazioni dalla l. 14 settembre 2011, n. 148).
( ) In questo senso la disposizione è stata valorizzata da TASSANI, La disciplina delle
«società non operative» (dopo la legge finanziaria 2008), Studio n. 20-2008/T, in www.
notariato.it, 16 il quale ha affermato che “La formulazione del comma 4-bis dell’art. 30,
legge 724/94, è molto chiara nel riconoscere che la prova contraria del contribuente possa
riguardare sia la condizione di non operatività (individuata in base al confronto con i ricavi,
gli incrementi di rimanenze ed i proventi), sia il reddito minimo [...]”.
( ) La stessa Agenzia delle Entrate sembra riferirsi soltanto alla possibilità di superare
la presunzione di non operatività di cui al comma 1° dell’art. 30 non prendendo in considerazione la possibilità che una società non operativa possa dimostrare di avere un reddito
inferiore a quello minimo individuato dall’art. 30. Nella parte in cui si occupa dei presupposti
per la disapplicazione della disciplina sulle società non operative, l’Agenzia delle Entrate
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281/I
attività, il mancato raggiungimento del reddito minimo non deriva da cause
impeditive che ne rendono “impossibile” il conseguimento, ma è la naturale
conseguenza della inattività del soggetto.
Del resto, se si ritenesse che il comma 4-bis dell’art. 30 intende offrire,
anche alla società non operativa, la possibilità di provare che questa ha
prodotto il reddito effettivamente dichiarato (che è appunto inferiore a
quello “minimo” individuato dall’art. 30), sarebbe difficile comprendere la
ratio dell’intera disciplina che si fonda su un doppio livello: il primo,
consistente nell’effettuare il test di operatività di cui al comma 1° ed il
secondo consistente nell’individuare la base imponibile sulla quale applicare l’imposta. In altri termini, se si riduce l’intera disciplina ad una
disciplina presuntiva volta a ricostruire il reddito di determinati soggetti,
non si comprende che senso avrebbe il previo test di operatività individuato
dal comma 1 dell’art. 30 della legge n. 724/1994 il quale detta le condizioni
in presenza delle quali i soggetti indicati dallo stesso comma 1° si considerano “non operativi”. Tali condizioni consistono nel confrontare “l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei
proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico” con gli
importi che risultano applicando determinate percentuali al valore di
determinate componenti patrimoniali. Se i primi sono inferiori ai secondi,
allora si applica la disciplina dell’art. 30. Ma se lo scopo fosse soltanto
quello di “presumere” l’esistenza di un reddito minimo, semplicemente il
legislatore avrebbe potuto farlo applicando la presunzione prevista dal
comma 3 dell’art. 30, in base al quale si presume che il reddito minimo sia
non inferiore a quello scaturente dall’applicazione di altre percentuali
(diverse da quelle del comma 1°) a determinati beni della società.
La limitazione dell’applicazione del comma 3 (che consente di individuare la base imponibile) alle condizioni di cui al comma 1° è finalizzata a
selezionare, tra tutte le società, quelle che, secondo la valutazione fatta dal
legislatore, presentano i requisiti per essere considerate, fino a prova
contraria, società che non svolgono attività economica. Solo in questo
modo la articolata previsione normativa sembra acquistare un senso.
Tornando al comma 4-bis dell’art. 30 sembra quindi doversi concludere che — nonostante la ambigua formulazione di tale disposizione — la
disciplina delle società di comodo sia inapplicabile soltanto nell’ipotesi in
cui una società che svolge attività economica si sia trovata in situazioni che
hanno reso impossibile il superamento di determinate soglie (61). Si deve
afferma (circolare 2 febbraio 2007, n. 5/E, § 4) che con apposito interpello la società “può
chiedere la disapplicazione delle norme in commento rappresentando le oggettive situazioni
che, nel caso specifico, non le hanno consentito di superare il test di operatività” (corsivo
mio).
( ) Sembra quindi a chi scrive che non sia condivisibile quanto affermato da TASSANI,
(nt. 59), 20 il quale ritiene che il comma 4-bis dell’art. 30, “non ha la funzione di distinguere
61
282/I
pertanto ritenere che il riferimento alle oggettive situazioni che hanno reso
impossibile il conseguimento del reddito minimo sia frutto di un errore del
legislatore perché individua una situazione che, nella logica della norma,
non ha alcun senso. Come si è detto infatti, se la società si presume “non
operativa” ai sensi del comma 1° dell’art. 30, non ha alcun senso fornire la
prova delle situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento del
reddito minimo perché comunque l’imposta verrà determinata ai sensi del
comma 3 dell’art. 30.
4. Ulteriori conferme circa la finalità dissuasiva svolta dalla disciplina sulle società di comodo. — Si è sin qui detto, più volte, che l’unica
presunzione contenuta nell’art. 30 è la presunzione di non operatività della
società.
Che quella prevista dall’art. 30, comma 1° sia una presunzione legale
relativa trovava in passato una palese conferma nel fatto che il comma 1°
dell’art. 30 prevedeva espressamente la possibilità di fornire la “prova
contraria” circa la “non operatività” della società. L’eliminazione di tale
inciso — avvenuta ad opera dell’art. 1°, comma 109, della legge 27
dicembre 2006, n. 296 — potrebbe far pensare che non sia più possibile
fornire la prova contraria in ordine alla non operatività. Se così fosse, la
presunzione legale relativa si sarebbe trasformata in una presunzione legale
assoluta.
Tale conclusione è smentita proprio dal fatto che il comma 4-bis
prevede la possibilità di dimostrare, tramite l’interpello disapplicativo, che
ricorrono “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del
reddito determinati ai sensi del presente articolo...”.
La prova contraria è dunque ancora ammissibile, ed il fatto che ad essa
non faccia più riferimento il comma 1° dell’art. 30, ma che ad essa si
riferisca implicitamente il comma 4-bis che disciplina l’interpello, potrebbe
tutt’al più essere utilizzato come argomento per sostenere la tesi che il
legislatore ha inteso porre dei limiti alla possibilità di fornire la prova
tra cause esterne, che si impongono al soggetto e cause esterne che derivano (anche in parte)
da libere determinazioni di quest’ultimo, ma quella di richiedere che quest’ultimo sia in grado
di dimostrare oggettivamente la non fittizietà di quanto dichiarato e, quindi, delle stesse
risultanze contabili” (corsivo mio). Se si condivide quanto affermato nel testo si deve ritenere
che, qualora la società non riesca a fornire la prova della operatività, sarà vana la dimostrazione della fedeltà della dichiarazione. Se il reddito è realmente inferiore al reddito minimo
individuato dall’art. 30, non per questo la società cessa di essere società di comodo (ed anzi,
se è di comodo facilmente avrà un reddito inferiore a tali soglie). Ma se la società non cessa
di essere società di comodo, la disciplina dell’art. 30 della legge n. 724/1994 trova applicazione con la conseguenza che l’imposta (che in questo lavoro si ritiene essere) patrimoniale,
sarà comunque dovuta.
283/I
contraria individuando l’interpello come unico strumento utilizzabile in tal
senso.
Tale questione verrà trattata più avanti (al par. 5.2). Ciò che interessa
ora rilevare è che, se è consentita la disapplicazione del regime delle società
di comodo nelle ipotesi in cui una società, pur non avendo raggiunto le
soglie di ricavi previste dall’art. 30, comma 1°, svolga comunque una
effettiva attività d’impresa, ciò significa che lo scopo di tale norma è
appunto quello di colpire, svantaggiandole, le (sole) società che non
svolgono alcuna attività economica.
Del resto anche ulteriori argomenti, rispetto a quello che fa leva
sull’istituto dell’interpello (62), depongono in tal senso.
In primo luogo tale lettura è, per le ragioni sopra individuate (par. 3),
l’unica conforme alla Costituzione.
Ancora, che con l’art. 30 si siano volute “colpire” le società che non
svolgono un’effettiva attività economica sembra trovare conferma nel fatto
che ciò a cui “guarda” la norma per qualificare una società come “non
operativa” non è il reddito tout court, ma sono i ricavi e gli incrementi delle
rimanenze e dei proventi (esclusi quelli straordinari) risultanti dal conto
economico, cioè dei componenti di reddito che indicano che vi è una
gestione dinamica della società (63).
Inoltre, il fatto che il comma 4-bis, che disciplina l’interpello disapplicativo, consideri espressamente “antielusive” le disposizioni sul trattamento
fiscale delle società di comodo rafforza l’idea che per il legislatore ciò che
( ) Si veda retro § 3.
( ) Per quanto riguarda i ricavi poi, essi denotano in modo diretto che vi è un’attività
rivolta al mercato. Requisito questo che, come è noto, costituisce un aspetto qualificante
dell’attività economica. In passato avevano ritenuto configurabile l’“impresa per conto
proprio”, cioè l’impresa in cui mancasse un’attività di destinazione al mercato di beni o
servizi, BIGIAVI, La professionalità dell’imprenditore, Padova, Cedam, 1948, 119 ss. e OPPO,
Note preliminari sulla commercialità dell’impresa, in Riv. dir. civ., 1967, I, 566. Contra,
ASQUINI, Profili dell’impresa, in Riv. dir. comm., 1943, I, 2 e 8. Nella odierna dottrina
l’opinione dominante è nel senso di considerare attività economica (e quindi attività d’impresa) soltanto quella destinata al mercato. Così RAGUSA MAGGIORE, Il registro delle imprese, in
Il codice civile commentato, diretto da Schlesinger, Milano, Giuffrè, 2002, 200 ss.; FERRI,
Diritto commerciale, Torino, Utet, 1996, 46; GALGANO, L’impresa, in Trattato di diritto
commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da Galgano, Padova, Cedam, 1978,
64 ss.; PANUCCIO, Impresa. Dir. priv., in Enc. dir., XX, Milano, Giuffrè, 1970, 621.
Si rende a questo punto necessaria una precisazione. Il fatto che l’art. 2247 c.c. faccia
riferimento all’attività economica, e che l’economicità sia un connotato dell’attività d’impresa,
non significa necessariamente che la società debba svolgere anche attività d’impresa. Se così
fosse non sarebbe ad esempio ammissibile, al contrario di quanto ritiene parte della dottrina
giuscommercialistica, il fenomeno delle società occasionali dovendo l’impresa essere esercitata, ai sensi dell’art. 2082 c.c., professionalmente e, quindi, abitualmente. Non è questa la
sede per occuparsi di tale questione (per la quale si rinvia a ABBADESSA, (nt. 1), 19 s.). Ciò che
interessa precisare è che, se anche si aderisce alla tesi secondo cui può esservi società senza
impresa, non vi sono ragioni per ritenere che il concetto di attività economica, che è elemento
costitutivo tanto del contratto di società quanto della figura dell’imprenditore, debba essere
diverso nelle due ipotesi. Di qui la possibilità di riferirsi agli studi sull’impresa per delineare
la nozione di “attività economica” cui fa riferimento l’art. 2247 c.c.
62
63
284/I
rileva perché si possa disapplicare la disciplina sulle società di comodo, è che
non vi sia stato un aggiramento di norme per ottenere un vantaggio fiscale (64). Ed allora non può certo considerarsi elusivo il comportamento di
chi, pur svolgendo una attività economica, non abbia raggiunto determinate
soglie di ricavi. Ben più verosimile è che il legislatore, attraverso il riferimento
all’elusione, abbia inteso riferirsi al comportamento di chi utilizzi lo strumento della “società” pur mancando un requisito essenziale ai sensi dell’art.
2247 c.c. (id est, lo svolgimento dell’attività economica), al fine di sottoporsi
al più favorevole trattamento tributario risultante dall’applicazione delle
norme sul reddito d’impresa (65).
In conclusione, se si accetta tale impostazione, si deve pure concordare
con quanto detto sopra in ordine al fatto che la disciplina delle società di
comodo è finalizzata a contrastare le società di mero godimento e non le
società che, pur svolgendo una effettiva attività economica, non ottengono
nel periodo di imposta determinati risultati (66).
5.
Riflessi applicativi delle considerazioni sin qui svolte.
5.1. La previsione del comma 3 dell’art. 30 e la salvezza dell’“ordinario potere di accertamento”. — Si è sostenuta fin qui la tesi che l’art. 30
della legge n. 724/1994 non contiene alcuna presunzione legale relativa in
( ) Non è certo questa la sede per soffermarsi sul concetto di elusione per il quale si
veda, per tutti, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario. Parte generale, Torino, Utet, 2009,
239 ss.
( ) Non interessa in questa sede stabilire se un certo utilizzo della società possa concretamente comportare dei vantaggi fiscali e se possa, quella dettata dall’art. 30 della legge n.
724/1994, essere considerata una disciplina antielusiva. Ciò che interessa rilevare (dovendo
comprendere quale sia la ratio legis) che — a torto o a ragione — così è considerata dal legislatore.
È comunque opportuno ricordare che, in dottrina, ha sottolineato la mancanza del requisito del
“vantaggio fiscale indebito” sostenendo quindi che non si può parlare di disciplina antielusiva
LUPI, (nt. 36), 1098; MELIS, Disciplina sulle società di comodo e presunzione di evasione, in Dial.
dir. trib., 2006, 1323. Osserva SCHIAVOLIN, (nt. 36), 66 s. che se proprio si vuole parlare di
elusione con riguardo alle società di comodo, questa non è l’“elusione” di tipo fiscale, “nel senso
di una sfruttamento capzioso di imperfezioni della disciplina tributaria per conseguire vantaggi
contrari al sistema di questa” bensì consiste «in un semplice uso “economicamente anomalo”
di strumenti privatistici, penalizzato mediante una tassazione più gravosa di quella che tale
sistema implicherebbe». Si è in presenza, secondo tale Autore, non di una disciplina antielusiva
(nel senso tradizionalmente inteso) ma semplicemente di una disciplina “«dissuasiva» della
scelta di utilizzare delle società come contenitori patrimoniali”. Simile, se ben se ne interpreta
il pensiero, è la posizione di PISTOLESI, L’interpello per la disapplicazione del regime sulle società
di comodo, in Corr. trib., 2007, 2988 s.
( ) Se così non fosse del resto, non si spiegherebbe quanto previsto dal medesimo
comma 1° dell’art. 30 in base al quale “Le disposizioni del primo periodo non si applicano: 1)
ai soggetti ai quali, per la particolare attività svolta, è fatto obbligo di costituirsi sotto forma
di società di capitali”. Tale disposizione conferma ancora una volta che ciò che si vuole colpire
è l’abuso della forma societaria. Abuso che si realizza quando la società non ha come fine lo
svolgimento di una attività economica. Ma se a non svolgere attività economica è un soggetto
che necessariamente, per un obbligo imposto dalla legge, doveva costituirsi sotto forma di
società di capitali, è allora evidente che di abuso non si può parlare.
64
65
66
285/I
ordine al reddito minimo. Nonostante la contraria indicazione letterale
della norma si è in presenza di una imposta patrimoniale essendo la base
imponibile rappresentata da elementi patrimoniali, e non dal reddito.
La presunzione legale relativa opera invece — si è pure sostenuto — in
relazione al profilo della “non operatività”. Al verificarsi di determinate
condizioni previste dall’art. 30, comma 1° la società si considera non
operativa.
Si tratta ora di comprendere quali siano le conseguenze di tale ricostruzione.
In primo luogo si deve chiarire che l’inciso con cui inizia il comma 3
dell’art. 30 (e cioè la disposizione che detta le regole di determinazione
della base imponibile di tale imposta patrimoniale) riferendosi alla possibilità di mantenere “fermo l’ordinario potere di accertamento” non si pone
in contrasto con quanto sin qui affermato.
È evidente che se l’essere il reddito inferiore a quello minimo è frutto
del mancato adempimento degli obblighi dichiarativi da parte del contribuente, l’A.f. potrà accertare il maggior reddito e recuperare la maggiore
imposta sui redditi.
Ciò detto, va ora osservato che il comma 3 dell’art. 30 sembra riferirsi,
quando fa salvo l’ordinario potere di accertamento, alla sola ipotesi della
società non operativa nei cui confronti l’A.f. accerti un reddito superiore
rispetto a quello dichiarato dalla società stessa e, fatto ancora più rilevante,
superiore a quello minimo individuato in base al comma 3 dell’art. 30 (67).
Più complesso è il caso in cui, attraverso il potere di accertamento (che
anche in questo caso, pur nel silenzio della norma, deve rimanere fermo)
l’A.f. accerti che la società, che sulla base della dichiarazione risulta essere
non operativa, ha prodotto ricavi superiori a quelli individuati dal comma
1° dell’art. 30 e tali da determinare la riqualificazione della stessa in società
operativa.
In questo caso, venendo meno il presupposto (costituito dalla non
operatività) dell’imposta patrimoniale (“alternativa” all’imposta sul reddito), essa non sarà più dovuta, ma sarà dovuta appunto l’imposta sul
reddito.
In conseguenza del rapporto di alternatività tra i due tributi l’A.f.
dovrà, nell’avviso di accertamento, calcolare la maggiore Ires (essendo
diverse le regole di determinazione della base imponibile delle due ipotesi)
al netto dell’imposta patrimoniale già pagata dal società che — sulla base
di quanto dichiarato — doveva considerarsi una società di comodo. Nel
caso in cui ciò non dovesse accadere e l’A.f. si limitasse semplicemente ad
accertare l’Ires dovuta dalla società, nel momento in cui l’accertamento
( ) Finché il reddito resta inferiore a quello minimo infatti, sarà dovuta sempre
l’imposta patrimoniale in luogo di quella sul reddito.
67
286/I
dovesse divenire definitivo si dovrebbe riconoscere in capo al contribuente
il diritto al rimborso per l’imposta (patrimoniale) versata ai sensi dell’art.
30 della legge n. 724/1994 che a questo punto sarebbe stata pagata
indebitamente (68).
5.2. L’interpello disapplicativo previsto dal comma 4-bis dell’art. 30.
— Ciò precisato è opportuno tornare ad incentrare l’attenzione sulla
presunzione legale relativa di non operatività.
Si tratta come già detto di una presunzione che può essere superata
con la prova contraria da parte del contribuente nonostante il fatto che, con
l’art. 1°, comma 109, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, sia stato
eliminato il riferimento alla “prova contraria” dapprima contenuto nell’art.
30, comma 1 della legge n. 724/1994.
Ed infatti, l’eliminazione del riferimento alla “prova contraria” è
avvenuto a pochi mesi di distanza dall’introduzione, ad opera dell’art. 35
del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, della possibilità di formulare istanza di
interpello al fine appunto di dimostrare che vi sono oggettive situazioni che
hanno reso impossibile alla società — che pure svolge una attività economica — di integrare le condizioni previste dal comma 1° dell’art. 30 per
essere considerata, ai sensi di tale disposizione, “operativa”.
Va peraltro notato che in un primo momento il ricorso all’interpello
era previsto in presenza di situazioni “di carattere straordinario”. Successivamente l’aggettivo “straordinario” è stato eliminato dalla legge n. 296/
2006. Questa novità sembra doversi giustificare con la consapevolezza da
parte del legislatore, della necessità di attribuire alla presunzione legale di
non operatività una natura relativa. Se si limita la prova contraria (ed è ciò
che avviene se si consente di proporre l’interpello solo in presenza di
“oggettive situazioni di carattere straordinario”) ci si sposta infatti verso
una presunzione più di tipo assoluto che relativo, con i conseguenti
problemi di costituzionalità che ciò può comportare (69).
( ) L’ipotesi del versamento indebito di un tributo è, come è ben noto, una delle
ipotesi (ma non l’unica) che attribuisce al contribuente il diritto al rimborso. Cfr. per tutti
TESAURO, (nt. 64), 293 ss.
( ) Come è ben noto si ritiene pacificamente in dottrina che, se l’esistenza del fatto
indice di capacità contributiva la si fa derivare normativamente in via presuntiva dall’esistenza
di un altro fatto, deve essere necessariamente riconosciuto il diritto alla prova contraria
(presunzione legale relativa). Qualora ciò non accada si è in presenza di una presunzione
legale assoluta e la norma che la introduce sarà in contrasto con l’art. 53, comma 1° Cost. in
quanto il fatto presunto potrebbe anche non esistere nel caso concreto e, ciononostante, esso
imporrebbe il concorso alle spese pubbliche tutte le volte in cui sia dimostrata l’esistenza del
fatto noto che “innesca” il meccanismo presuntivo. La non conformità al principio di capacità
contributiva delle norme che individuano il presupposto del tributo tramite una presunzione
legale assoluta è stata peraltro affermata, dopo un iniziale tentennamento, dalla stessa Corte
costituzionale con la storica sentenza 28 luglio 1976, n. 200. Sul tema del rapporto tra
presunzioni assolute e principio di capacità contributiva si veda per tutti MARCHESELLI, Le
presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, Torino, Giappichelli, 2008,
68
69
287/I
Ciò che conta è sottolineare che sarebbe un errore ritenere che, dal
momento in cui è venuto meno il riferimento nell’art. 30 della legge n.
724/1994 alla possibilità di fornire la prova contraria rispetto alla presunzione di non operatività, tale prova contraria non possa più essere fornita (70).
Piuttosto si deve ritenere che, con l’eliminazione del riferimento alla
prova contraria e con la (di poco precedente) introduzione dell’istituto
dell’interpello, sembra essersi introdotta una condizione imprescindibile
per poter ottenere la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo (71). Ed infatti, se si vuole dare un senso a questa doppia e quasi
51 ss. al quale si rinvia pure per le opportune indicazioni bibliografiche; DE MITA, Principi di
diritto tributario, Milano, Giuffrè, 2011, 94 ss.
( ) È appena il caso di ricordare che l’interpello cui fa riferimento il comma 4-bis
dell’art. 30 è quello previsto dall’art. 37-bis, comma 8 del d.p.r. n. 600/1973 il quale prevede,
a sua volta, che le disposizioni antielusive possano essere disapplicate qualora il contribuente
“dimostri” la non elusività dell’operazione con riguardo al particolare caso di specie. Del
resto, se fossimo in presenza di una presunzione assoluta, non si spiegherebbe per quale
ragione attraverso il comma 4-ter dell’art. 30 è stato attribuito al direttore dell’Agenzia delle
entrate il potere di emanare un provvedimento che individui determinate situazioni oggettive,
in presenza delle quali è consentito disapplicare le disposizioni recate dal medesimo art. 30
“senza dover assolvere all’onere di presentare l’istanza di interpello di cui al comma 4-bis”. È
evidente che in questo caso l’intenzione del legislatore è quella di individuare, attraverso un
provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, delle situazioni in presenza delle quali
la mancata produzione di ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi non è sintomo
del fatto che la società sia “non operativa”, ma deriva da cause diverse. Per una conferma è
sufficiente leggere il provvedimento (14 febbraio 2008, n. 23681) emanato in attuazione di
quanto disposto dal comma 4-ter dell’art. 30 in base al quale deve essere disapplicata la
disciplina sulle società di comodo, “senza dover assolvere all’onere di presentare istanza di
interpello”, per le società in stato di liquidazione, quelle in stato di fallimento, quelle
sottoposte a sequestro penale o a confisca ecc. Si tratta evidentemente di ipotesi in cui si è
ritenuto che non occorra dimostrare che la società non è una società di comodo, ed è per
questo che in tali casi non occorre presentare l’interpello.
( ) In questo senso LA ROSA, L’interpello obbligatorio, in Riv. dir. trib., 2011, I, 711 il
quale classifica quello previsto in tema di società non operative tra gli interpelli obbligatori,
riservando tale denominazione agli interpelli aventi ad oggetto “una situazione soggettiva
passiva, in prima battuta qualificabile in termini di dovere, o obbligo, ovvero ancora (e forse
più esattamente) onere”. Nello stesso senso, se ben se ne interpreta il pensiero, FRANSONI,
Efficacia ed impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo, in Elusione ed abuso del diritto tributario, a cura di Maisto, Milano, Giuffrè, 2009,
91 s. e 104.
Sono invece contrari alla tesi della natura obbligatoria di tale interpello TOSI, (nt. 26),
10-11 e TASSANI, (nt. 59), 22 il quale utilizza degli argomenti meritevoli di essere presi in seria
considerazione.
In particolare Tassani ricorre in primo luogo ad una argomentazione di carattere
letterale osservando che l’art. 30, comma 4-bis dispone che «il contribuente “può” presentare
l’istanza di interpello». Il medesimo argomento è stato utilizzato, ancora prima, da PISTOLESI,
(nt. 65), 2995. In verità se si legge attentamente il comma 4-bis (il quale prevede che “in
presenza di oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi [...] la
società interessata può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni antielusive ai
sensi dell’art. 37-bis, comma 8 [...]”) ci si avvede di come il “può” non vale a sancire,
attraverso il riconoscimento di un diritto anziché di un obbligo, l’alternativa tra la presentazione o la non presentazione dell’interpello, ma sta a significare semplicemente che vi è
alternativa tra l’applicazione delle norme sulle società di comodo e la loro disapplicazione
70
71
288/I
contestuale novità, non si può non ritenere che la presentazione dell’istanza
d’interpello sia una conditio sine qua non per poter ottenere la disapplicazione non soltanto da parte dell’A.f., ma eventualmente, in un secondo
(ottenibile attraverso una particolare procedura che passa attraverso la presentazione dell’istanza di interpello). Se questa è la corretta chiave di lettura il verbo “può” (esplicitato)
convive con il verbo “deve” (che è invece implicito). Se il contribuente vuole ottenere la
disapplicazione delle norme può farlo (in questo senso il legislatore riconosce un potere e non
un dovere), ma per ottenere tale risultato deve presentare istanza di interpello provando che
ricorrono le “oggettive situazioni” cui fa riferimento il comma 4-bis. È interessante a tal
proposito fare un confronto con l’art. 37-bis, comma 8, d.p.r. n. 600/1973 — al quale il
comma 4-bis dell’art. 30 peraltro rinvia espressamente — in quanto tale disposizione utilizza
il verbo “potere” quando fa riferimento, nella prima parte, alla possibilità di ottenere la
disapplicazione della norma antielusiva, ed il verbo “dovere” quando fa riferimento, nella
seconda parte, alla presentazione dell’interpello. Ed infatti, con riguardo all’art. 37-bis,
comma 8 del d.p.r. n. 600/1973 hanno ritenuto che vi fosse l’obbligo di presentazione
dell’istanza, tra gli altri, ZIZZO, Prime considerazioni sulla nuova disciplina antielusione, in
Commento agli interventi di riforma tributaria, a cura di Miccinesi, Padova, Cedam, 1999,
471 e NUSSI, Elusione tributaria ed equiparazioni al presupposto nelle imposte sui redditi, in
Riv. dir. trib., 1998, I, 523.
L’altro argomento utilizzato da Tassani è di carattere sistematico. Osserva l’Autore che
«quando il legislatore ha voluto considerare l’interpello quale “dovere” per il contribuente, lo
ha previsto espressamente (come nel caso di cui all’art. 167, comma 5, T.u.i.r.)». Anche
questo è un argomento da prendere certamente in seria considerazione, tuttavia non si può
non osservare che nasconde in sé una petizione di principio. Per affermare che il legislatore,
tutte le volte in cui vuole considerare l’interpello come obbligatorio lo prevede espressamente
bisogna aver dimostrato: a) che ci sono ipotesi in cui si prevede la doverosità dell’interpello
(e questo Tassani lo dimostra richiamando l’art. 167, comma 5, T.u.i.r.); b) che nelle ipotesi
in cui la norma non utilizza il verbo “dovere” il legislatore non ha voluto imporre obbligo
(rectius, un onere) di presentazione dell’istanza di interpello. Questa seconda affermazione
non la si può dimostrare argomentando dalla prima giacché non si può escludere che il
legislatore, talvolta prevede chiaramente ed inequivocabilmente l’obbligo ed altre volte
(peccando certamente di scarsa chiarezza) utilizza formulazioni più vaghe pur volendo
esprimere il medesimo concetto.
Né infine sembra ci si debba preoccupare della violazione dei principi costituzionali di
capacità contributiva e di difesa. Secondo Tassani infatti, la tesi secondo cui l’interpello deve
essere proposto obbligatoriamente per ottenere la disapplicazione della disciplina sulle società
di comodo «risulta contrastante con il principio di capacità contributiva e con il diritto
costituzionale di difesa, visto che implicherebbe una limitazione al diritto di prova, da parte
del contribuente, della “effettiva” capacità contributiva». Il medesimo argomento è utilizzato,
seppure con riferimento generale all’interpello ex art. 37-bis, comma 8, d.p.r. n. 600/1973, da
PISTOLESI, Tutela differita al giudice tributario in caso di risposta negativa all’interpello, in
Corr. trib., 2009, 1689 s. con l’unica differenza che tale Autore richiama soltanto il principio
costituzionale del diritto di difesa e non anche quello di capacità contributiva. Il tema è troppo
ampio per poter essere affrontato in questa sede. Basti rilevare che nessuna violazione del
diritto di difesa si ha per il solo fatto che, prima dell’accesso alla tutela giurisdizionale, siano
imposti dei passaggi procedimentali come, nel caso di specie, la presentazione dell’istanza di
interpello. Perché non sia violato l’art. 24 Cost. è necessario, e sufficiente, che la tutela
giurisdizionale sia garantita (e lo è, come si sosterrà subito dopo nel testo) dopo che l’A.f.
neghi eventualmente la disapplicazione delle disposizioni chiesta dal contribuente tramite
l’interpello obbligatorio. È assai significativo ai nostri fini quanto si legge nella sentenza della
Corte cost. del 16 giugno 1964, n. 47 che, riferendosi alla tutela giurisdizionale ha affermato:
“Questa tutela è garantita ‘sempre’ dalla Costituzione, non certo nel senso che si imponga una
sua relazione di immediatezza con il sorgere del diritto; e pertanto non ha pregio obiettare che
condizionare l’azione all’espletamento di un procedimento amministrativo è procrastinarne
l’esercizio. Questa Corte ha costantemente ritenuto la legittimità costituzionale di disposizioni
che impongono oneri diretti ad evitare l’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale (sentenze
289/I
momento, anche da parte del giudice. In altri termini, se il legislatore
avesse voluto soltanto mettere a disposizione del contribuente uno strumento in più (l’interpello, appunto, magari al fine di garantire la tutela del
legittimo affidamento al contribuente che avesse scelto liberamente di
avvalersene ottenendo così una preventiva risposta dell’A.f.), non avrebbe
dovuto eliminare il riferimento alla possibilità di offrire la prova contraria
alla presunzione di operatività (72).
L’interpello è dunque lo strumento per offrire la prova contraria,
possibilità che non è venuta meno con le modifiche apportate all’art. 30
della legge n. 724/1994 dalla legge n. 296/2006, ed è anche — lo si ripete
21 aprile 1962, n. 40; 27 aprile 1963, n. 56; 25 maggio 1963, n. 83; 27 giugno 1963, n. 113);
e si percorre la stessa via logica quando si riconoscono non pregiudizievoli all’esercizio di quel
diritto norme, come le denunciate, che vogliono evitarne, se non l’abuso, l’eccesso, e vogliono
indirizzarlo perciò verso un suo uso adeguato, ancorandolo ad una determinazione dell’opportunità di promuovere l’azione giudiziaria, che maturi dopo un apprezzamento della
fondatezza della pretesa, compiuta alla stregua delle risultanze emerse in un procedimento
preliminare di natura amministrativa” (corsivo mio). In dottrina sulla giurisdizione c.d.
“condizionata” si veda tra i tanti PERLINGIERI- CRISCUOLO, Art. 24, in Commento alla Costituzione italiana, Napoli, Esi, 2001, 132 i quali ricordano che “il non infrequente fenomeno,
comune anche agli ordinamenti di common law, della subordinazione dell’esercizio dell’azione giudiziaria al preventivo esperimento dei rimedi amministrativi” è generalmente considerato conforme all’art. 24 Cost. dalla Corte costituzionale trattandosi di un semplice
differimento, e non di un impedimento alla tutela giurisdizionale, e non esistendo “un
principio costituzionale di immediatezza della tutela”. Sul tema della giurisdizione condizionata si veda pure, per tutti, COMOGLIO, La garanzia costituzionale dell’azione ed il processo
civile, Padova, Cedam, 1970, 188 ss.. Naturalmente non ogni ipotesi di giurisdizione condizionata è necessariamente conforme alla Costituzione operando, anche in questo caso, il limite
della ragionevolezza come sottolinea DANOVI, L’art. 274 c.p.c. e gli irragionevoli ostacoli
all’esercizio del diritto di azione, in Diritto processuale civile e Corte costituzionale, a cura di
Fazzalari, Napoli, Esi, 2006, 219 ss. il quale osserva come sia necessario comprendere, volta
per volta, “se la costruzione di un filtro processuale” risponda “a finalità meritevoli di tutela”
e sia “ponderatamente funzionale all’esercizio della tutela giurisdizionale”. Nello stesso senso
CONSOLO, Spiegazioni di diritto processuale civile, Torino, Giappichelli, 2010, 38 ss. ed ivi per
l’indicazione di alcune tra le più significative sentenze della Corte costituzionale.
( ) Chi scrive si rende conto del fatto che, non essendo il riferimento alla “prova
contraria” venuto meno contestualmente all’introduzione dell’interpello ma essendo, come si
è detto nel testo, le due novità soltanto “quasi” contestuali, l’argomento a cui si è fatto ricorso
potrebbe ad una prima riflessione risultare indebolito. Tuttavia resta il dato di fatto dell’eliminazione, a poco tempo di distanza (circa sei mesi) dall’introduzione dell’istituto dell’interpello, del riferimento alla “prova contraria”. Tale scelta abrogatrice non sembra possa trovare
spiegazioni diverse da quella offerta nel testo consistente nel ritenere che la volontà del
legislatore sia stata quella di riconoscere alla presentazione dell’istanza di interpello l’efficacia
di elemento essenziale per poter ottenere la disapplicazione (eventualmente — come si dirà
subito dopo nel testo —, se non da parte dell’A.f., da parte del giudice) della disciplina sulle
società di comodo.
Pertanto, ritornando alla non contestualità delle due novità legislative (introduzione
dell’interpello e, pochi mesi dopo, abrogazione del sintagma “prova contraria”), a chi dovesse
muovere tale obiezione alla tesi qui sostenuta si dovrebbe obiettare che il fatto che il
riferimento alla prova contraria sia stato eliminato soltanto sei mesi dopo l’introduzione
dell’istituto dell’interpello, dimostra soltanto che vi è stato un limitato periodo di tempo (di
circa sei mesi) in cui tale tesi non avrebbe potuto essere sostenuta (od almeno non avrebbe
potuto essere sostenuta utilizzando l’argomento della eliminazione del riferimento alla prova
contraria).
72
290/I
— la condicio sine qua non per poter ottenere la disapplicazione della
disciplina sulle società di comodo non soltanto da parte dell’A.f., ma
eventualmente, in un secondo momento, anche da parte del giudice.
Tuttavia gli effetti preclusivi riservati all’interpello si fermano qui. Non
si può ritenere che l’unico modo per ottenere la disapplicazione di tali
norme sia anche (oltre alla sua presentazione) una risposta positiva dell’A.f. all’interpello presentato dal contribuente. Deve evidentemente essere
riconosciuta al contribuente la possibilità di far valere il proprio diritto alla
disapplicazione della disciplina sulle società di comodo anche davanti al
giudice dimostrando la non operatività della società nel caso in cui il parere
fornito dall’Amministrazione sia negativo (73). Una diversa soluzione sarebbe palesemente in contrasto con l’art. 24 della Costituzione (74).
Sulle modalità per ottenere la tutela giurisdizionale non è possibile
soffermarsi in questa sede perché ciò comporterebbe la necessità di affrontare il tema della impugnabilità del diniego espresso dall’A.f. all’interpello
disapplicativo. Basti ricordare che su quest’ultimo punto si è espressa
recentemente la S.C. la quale ha ritenuto (ma non è questa la sede, lo si
ripete, per prendere posizione sul punto) che il diniego espresso a seguito
di presentazione dell’interpello ai sensi dell’art. 37-bis, comma 8 del d.p.r.
n. 600/1973 sia un atto autonomamente impugnabile dinanzi alle Com( ) Contra LUPI, (nt. 52), 1435; STEVANATO, La disciplina sulle “società di comodo”,
(nt. 14), 1437. Entrambi gli Autori appena citati ritengono che la prova contraria, oltre a non
poter essere offerta nella fase procedimentale se non in fase di interpello, non possa poi essere
offerta nel processo e parlano a tal proposito di “presunzione assoluta”. Premesso che le
posizioni dei due Autori sembrano divergere, in quanto Lupi parla di prova contraria con
riferimento al “reddito minimo” mentre Stevanato (che sotto questo aspetto è in linea con la
tesi sostenuta nel presente lavoro) ritiene che la prova contraria sia relativa alla “presunzione
di operatività”, ciò che interessa sottolineare è che entrambe le posizioni non appaiono
condivisibili dal momento che, se nella fase processuale si fosse in presenza davvero di una
presunzione assoluta, ciò significherebbe che anche nel caso in cui si sia fornita la prova
contraria nella fase dell’interpello, ma tale prova non venga considerata sufficiente dall’ufficio,
il contribuente si troverebbe poi nell’impossibilità di dimostrare nella fase processuale la non
operatività della società. Sarebbe dunque l’A.f. l’unico soggetto in grado di decidere se la
prova è attendibile o meno. Il che è (da un punto di vista della conformità alla Costituzione)
ancora “peggio” di una presunzione assoluta perché sottrae al giudice il controllo di una
presunzione che di per sé non è assoluta, e riconosce soltanto all’A.f. il potere di accettare la
dimostrazione offerta in sede di interpello da parte del contribuente circa la non operatività.
Da questo punto di vista appare più corretta la tesi dell’Agenzia delle Entrate che, nella
circolare 2 febbraio 2007, n. 5/E, ha argomentato appunto dall’eliminazione del riferimento
alla “prova contraria” per escludere che, in caso di mancata presentazione dell’interpello, tale
“prova contraria” possa essere fornita dal contribuente “in sede di accertamento o nel corso
del contenzioso”. Nella medesima circolare si ammette però che, assolto l’onere di presentazione dell’istanza, il contribuente avrà poi la possibilità di riproporre le ragioni della
operatività della società dinanzi al giudice tributario.
In dottrina, nega che si possa parlare di presunzione assoluta PISTOLESI, (nt. 65), 2989.
( ) Vale la pena di ricordare che la Corte costituzionale, con la sentenza 2 febbraio
1982, n. 18 ha affermato che il diritto alla tutela giurisdizionale va ascritto “tra i principi
supremi del nostro ordinamento costituzionale, in cui è intimamente connesso con lo stesso
principio di democrazia l’assicurare a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice ed
un giudizio”.
73
74
291/I
missioni tributarie (75). Vale la pena tuttavia osservare che, anche nel caso
in cui si dovessero condividere le conclusioni cui è giunta la Corte di
cassazione, si dovrebbe poi compiere un ulteriore passaggio consistente nel
verificare se il principio di diritto affermato in relazione all’interpello
(rectius, al parere negativo fornito a seguito di interpello) per la disapplicazione delle norme antielusive, sia applicabile anche per l’interpello per la
disapplicazione delle norme sulle società di comodo (76); il che non sembra
possa semplicisticamente essere dimostrato argomentando dal fatto che
l’art. 30 della legge n. 724/1994 prevede al comma 4-bis che la società
interessata “può richiedere la disapplicazione delle relative disposizioni
antielusive ai sensi dell’articolo 37-bis, comma 8, del decreto del Presidente
della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600” (77). Sarà necessario invece
comprendere se, quella recata dall’art. 30 della legge n. 724/1994 sia
effettivamente una disciplina antielusiva (78). Solo in caso di soluzione
positiva a questo quesito si potrà applicare il principio di diritto affermato
dalla S.C. (fondato appunto sulla premessa della natura antielusiva delle
norme oggetto dell’interpello).
In caso contrario — e cioè sia nell’ipotesi in cui non si condivida la
conclusione cui è giunta la S.C., sia nell’ipotesi in cui si ritenga che le
conclusioni della S.C. non sono estendibili alle società di comodo — si
dovrà ritenere che il contribuente che abbia presentato un’istanza di
interpello potrà, in caso di risposta a lui sfavorevole, pagare le imposte per
poi chiedere il rimborso (impugnando successivamente l’eventuale diniego
od il silenzio rifiuto) oppure potrà non pagare l’imposta patrimoniale
gravante sulle società di comodo, ed impugnare successivamente l’avviso di
accertamento (79).
( ) In questo senso Cass., Sez. trib., 15 aprile 2011, n. 8663 in Riv. dir. trib., 2011, II,
358 ss., con nota di PISTOLESI, Impugnazione della risposta negativa all’istanza di interpello:
condizioni ed effetti.
( ) La Corte di cassazione, nella sentenza n. 8663/2011, ha sostenuto la tesi della
impugnabilità del parere negativo dell’A.f. osservando che il parere negativo per la disapplicazione delle norme antielusive si traduce in un diniego di agevolazione, ed è quindi
impugnabile ai sensi dell’art. 19, lett. h) del d.lgs. n. 546/1992.
( ) In quanto tale riferimento potrebbe anche essere volto semplicemente a richiamare
le modalità operative di presentazione dell’istanza.
( ) Per scongiurare possibili equivoci è bene sottolineare che quando nel testo (in
particolare al § 4) si è fatto riferimento alla possibilità di argomentare dal riferimento operato
dal legislatore (nel comma 4-bis dell’art. 30 della legge n. 724/1994) alla disapplicazione delle
disposizioni antielusive, non si è voluto esprimere alcun assenso in ordine alla tesi della natura
antielusiva della disciplina sulle società di comodo (si rinvia a quanto osservato in nota 65).
Ciò che interessava era semplicemente cercare di individuare quale fosse l’intenzione del
legislatore; intenzione che sembra trapelare appunto dalla considerazione della disciplina
come antielusiva. Il riferimento alla elusione, giusto o sbagliato che sia, è utile all’interprete
per comprendere quale sia la ragione della disciplina dettata dall’art. 30 della legge n.
724/1994.
( ) È appena il caso di precisare che le conclusioni raggiunte nel testo circa l’obbligatorietà della presentazione dell’istanza di interpello, non sono incompatibili con i dubbi
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292/I
6. Le recenti modifiche apportate dalla c.d. “Manovra bis 2011”:
brevi considerazioni.
6.1. L’inasprimento delle aliquote per le società non operative. — Si
tratta a questo punto di valutare la congruità di quanto sin qui affermato
con le novità introdotte di recente dall’art. 2, commi 36-quinquies e ss. del
d.l. 13 agosto 2011, n. 138 (conv. con modificazioni dalla l. 14 settembre
2011, n. 148).
In primo luogo si deve rilevare che, come già si è accennato sopra, il
comma 36-quinquies del d.l. n. 138/2011 ha previsto un inasprimento
dell’aliquota, ciò che ancora una volta dimostra lo sfavore con cui viene
guardato dal legislatore il fenomeno delle società di godimento.
Anche la previsione dell’inasprimento dell’aliquota, così come la complessiva disciplina sulle società non operative, non sembra comportare una
violazione del principio di uguaglianza atteso che, come si è già osservato,
il legislatore ben può considerare (e trattare di conseguenza come) non omogenee, la situazione in cui si trova la società che svolge un’attività economica
e quella in cui si trova la società che svolge un’attività di mero godimento.
Va poi sottolineato, ancora una volta, che la disciplina sulle società di
comodo può generare confusione dal momento che l’imposta sulle società
di comodo viene trattata come un’imposta sul reddito. Si potrebbe infatti
pensare di essere in presenza di una sorta di addizionale Ires (80) ma così
non è (81). Siamo semplicemente in presenza di un’imposta sul patrimonio
la cui base imponibile si determina ai sensi del comma 3 dell’art. 30 della
legge n. 724/1994 e la cui aliquota, che prima della recente riforma del
2011 era uguale a quella dell’Ires, ora continua ad essere parametrata a
quella dell’Ires (attraverso la tecnica del rinvio) con la previsione però che
all’aliquota prevista dal Tuir si debbano sommare 10,5 punti percentuali.
Naturalmente l’adozione di una tale tecnica normativa non è priva di
effetti e non è casuale. Non è priva di effetti perché ad ogni modifica
dell’aliquota Ires corrisponderà una modifica dell’aliquota dell’imposta
prevista dall’art. 30 della legge n. 724/1994; e non è casuale perché, così
facendo, l’aliquota dell’imposta sulle società di comodo rimane sempre
avanzati in ordine alla impugnabilità del diniego da parte dell’A.f. Non vi è infatti una
consequenzialità logica tra il considerare l’interpello come obbligatorio ed il ritenere poi che
l’eventuale risposta negativa sia impugnabile dinanzi alle commissioni tributarie. Partendo
sempre dalla premessa della obbligatorietà dell’interpello resta astrattamente aperta anche la
soluzione contraria della non impugnabilità del diniego. Se si aderisce a tale ultima ricostruzione, le conseguenze sono quelle appena individuate nel testo.
( ) È questa infatti l’idea che traspare dalla circ. n. 25/IR del 31 ottobre 2011 del
Consiglio nazionale dei dottori commercialisti e degli esperti contabili nella parte in cui si
paragona tale imposta alla Robin tax (pag. 4 della circolare reperibile in www.cndcec.it). In
dottrina sembra essere questa la tesi, se ben se ne interpreta il pensiero, di MASTROBERTI, (nt.
27), 1552 s. nonché 1562.
( ) Si veda la successiva nota 83.
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81
293/I
equidistante dall’aliquota Ires e rimane, pertanto, sempre di egual misura
(pur trattandosi di due tributi diversi) lo “svantaggio” che una società non
operativa ha nei confronti di una società operativa. Il che è perfettamente
in linea con la logica sottesa a tale tributo che è, come si è affermato più
volte nel corso del presente lavoro, quella di riservare un trattamento
penalizzante a chi utilizza le società per finalità diverse rispetto allo
svolgimento di una attività economica (82).
Preme infine precisare che considerazioni in parte diverse valgono per
l’ipotesi (di cui si è parlato sopra nel par. 2.3) in cui una società, che pure
si presume non operativa, produca un reddito superiore a quello “minimo”.
La maggiorazione del 10,5 per cento opera comunque rivolgendosi, l’art. 2,
comma 36-quinquies del d.l. n. 138/2011, soltanto ai “soggetti indicati
nell’art. 30, comma 1°, della legge 23 dicembre 1994, n. 724”, senza alcun
riferimento alla quantità di reddito da questi prodotto.
In questo caso (quello della società non operativa che produce un
reddito superiore a quello minimo) non si è più in presenza, come si è
sostenuto sopra, di un’imposta patrimoniale ma torna ad essere applicata
una vera e propria imposta sul reddito, la quale sconterà una — questa
volta sì — addizionale (83) del 10,5 per cento. L’applicazione dell’aumento
dell’aliquota anche al caso in cui il reddito sia superiore a quello minimo
dimostra, ancora una volta, che lo scopo della disciplina è quello di colpire
le società non operative.
6.2. Le disposizioni volte a coordinare il regime delle società di
comodo con l’istituto della trasparenza: profili di costituzionalità. —
Un’ulteriore novità su cui si intende svolgere alcune brevi riflessioni (pur
( ) In fin dei conti, anche se il soggetto che giuridicamente subisce la penalizzazione
è la società, chi si finisce per penalizzare sono le persone fisiche che hanno costituito la società
per intestare ad essa beni che, tuttavia, non sono destinati allo svolgimento di una attività
economica.
( ) Osserva FALSITTA, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, Cedam,
2003, 213 che “nell’addizionale vengono applicate non due distinte imposte ad uno stesso
presupposto, ma semplicemente si incrementa di una percentuale l’aliquota di un certo
tributo”. È ciò che accade appunto quando la maggiorazione del 10,5 per cento venga
applicata sull’imposta sul reddito dovuta dalle società non operative che abbiano prodotto un
reddito superiore a quello minimo. Ma le società non operative, come si è ampiamente
sostenuto nel testo, devono un’imposta sul reddito nella sola ipotesi in cui, pur essendo
qualificate come non operative, producono un reddito superiore alle soglie individuate dal
comma 3 dell’art. 30. Non può parlarsi invece di “addizionale” quando la società di comodo
è tenuta a pagare una imposta sul patrimonio. Per questa non vi è alcuna addizionale perché
non vi è una imposta base da porre in relazione ad essa nel senso che l’imposta sul reddito
(Ires) si ha formalmente, ma non sostanzialmente. Pertanto, in questo caso, semplicemente
l’individuazione dell’aliquota avviene, anziché direttamente, con una somma algebrica consistente nell’addizionare il numero 10,5 al numero corrispondente all’aliquota Ires. Per una
definizione di “addizionale” si rinvia inoltre, senza pretesa di completezza, a P. RUSSO, (nt. 37),
143; MANZONI-VANZ, (nt. 30), 138 s.; FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, Torino,
Giappichelli, 2005, 177.
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294/I
con la consapevolezza che il tema richiederebbe un’analisi ben più ampia di
quella che può essergli riservata in questa sede) è rappresentata dalle
disposizioni volte a coordinare il regime delle società di comodo con
l’istituto della trasparenza.
Tre sono in particolare le disposizioni a cui si deve fare riferimento (84).
6.2.1. La prima è quella contenuta nel secondo periodo del comma
36-quinquies il quale prevede che “sulla quota di reddito imputata per
trasparenza ai sensi dell’articolo 5 del testo unico delle imposte sui redditi”
da una società non operativa ad un soggetto Ires, “trova comunque
applicazione detta maggiorazione”. Pertanto, se una società di persone è
qualificata come non operativa ai sensi del comma 1 dell’art. 30 della legge
n. 724/1994, il reddito imputato per trasparenza è soggetto alla maggiorazione del 10,5 per cento rispetto all’aliquota Ires.
Si tratta di una previsione per certi versi ragionevole (85), in mancanza
della quale, quando ad essere “non operativa” sia una società trasparente,
la maggiorazione prevista per le società di comodo finirebbe per non
trovare applicazione con conseguente aggiramento della relativa disciplina.
Ciò che preme sottolineare è che tale novità è relativa soltanto alla
maggiorazione del 10,5 per cento, e quindi all’aliquota, mentre il legislatore considera evidentemente scontato che l’imposta sia pagata dal socio
nel caso in cui la società di comodo sia trasparente. Il che non deve stupire
se si tiene conto del fatto che la base imponibile determinata ai sensi
dell’art. 30, comma 3 è trattata in tutto e per tutto dal legislatore come se
fosse reddito.
Sennonché, se si presta consenso alla tesi espressa in questo lavoro, e
cioè se si ritiene che (quando il reddito prodotto è inferiore alle soglie
individuate in base al comma 3 dell’art. 30) siamo in presenza non di
un’imposta sul reddito ma di un’imposta patrimoniale, non si possono non
sottolineare le peculiarità che ancora una volta emergono.
Ci troviamo infatti di fronte ad un’ipotesi in cui una società è trasparente anche ai fini di una imposta diversa dall’imposta sul reddito. Non
essendo, quella prevista per le società di comodo, un’imposta sul reddito
( ) È bene precisare che, dati i limiti del presente lavoro, il quale del resto non è
finalizzato a commentare tutte le novità recate dall’art. 2 del d.l. n. 138/2011 in ordine alle
società di comodo, verranno tralasciate le disposizioni contenute nei commi 36-sexies e 36
septies le quali contemplano rispettivamente l’ipotesi in cui la società di comodo abbia
esercitato l’opzione per il consolidato nazionale e l’ipotesi in cui un soggetto che abbia
esercitato l’opzione per il consolidato si veda imputato per trasparenza il reddito da parte di
una società di persone “non operativa”. Sul tema si veda MASTROBERTI, (nt. 27), 1551 ss.
( ) Ma che per altri versi, come si dirà più avanti, pone dei problemi di costituzionalità.
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295/I
(lo è, si è detto più volte, formalmente ma non nella sostanza (86)), non
dovrebbe trovare applicazione l’art. 5 Tuir con la conseguenza che la
società di persone “non operativa” dovrebbe essere, ai fini dell’imposta
patrimoniale prevista dall’art. 30 della legge n. 724/1994, un soggetto
passivo di imposta a tutti gli effetti (e non un soggetto trasparente, regola
prevista solo ai fini dell’imposta sul reddito). Il secondo periodo dell’art.
36-quinquies del d.l. n. 138/2011, seppure volto a disciplinare soltanto
l’aliquota, conferma ancora una volta che il legislatore mantiene in vita la
“finzione” consistente nel considerare tale imposta come una imposta sul
reddito.
Ciò pone un problema assai delicato.
Ed infatti, mentre la trasparenza delle società di persone si giustifica
sul piano costituzionale (in particolare rispetto al principio di capacità
contributiva) con la considerazione che la base imponibile dell’imposta (il
reddito) è in via di principio destinata al socio attraverso la distribuzione
degli utili (87), lo stesso non può dirsi per l’imposta sulle società di comodo.
Qui l’indice di capacità contributiva è rappresentato (art. 30, comma 3
della legge n. 724/1994) dai beni posseduti dalla società non operativa, ma
questi beni non sono suscettibili di entrare nella sfera giuridica del socio
con un meccanismo corrispondente alla distribuzione degli utili.
Si pone dunque un problema di rispetto del principio di capacità
contributiva che qui non può essere ulteriormente approfondito (ma che
certamente merita di essere quantomeno segnalato) e che deriva dal fatto
che, il socio-società che paga l’imposta prevista dall’art. 30 della legge n.
724/1994, lo fa in relazione ad una capacità contributiva che non ha e che
è invece riconducibile alla società di persone non operativa, titolare dei
beni che costituiscono la base per il calcolo dell’imposta patrimoniale.
Tale problema non si porrebbe se il legislatore prendesse atto del fatto
che quella sulle società di comodo non è un’imposta sul reddito ed evitasse
di considerare “trasparenti” le società di persone non operative (88).
( ) Con il termine “sostanza” si intende far riferimento alla natura dell’imposta e, con
l’espressione “natura dell’imposta”, si intende attribuire rilievo all’indice di capacità contributiva colpito.
( ) Sul punto cfr. per tutti P. RUSSO, I soggetti passivi dell’Ires e la determinazione
dell’imponibile, in Riv. dir. trib., 2004, I, 321.
( ) In questo caso il metodo sarebbe quello dell’esenzione operante nei confronti dei
soci delle società di capitali in tutti i casi in cui la società non operativa produca comunque
(non un reddito pari a zero ma) un reddito inferiore a quello minimo previsto dal comma 3
dell’art. 30. Su questa fattispecie vale la pena di riflettere perché è ciò che si verifica nei
rapporti tra una società di capitali non operativa, ed i propri soci. In particolare la società non
operativa (che non sia trasparente) non paga l’imposta sul reddito, ma paga un’imposta
patrimoniale alternativa all’imposta sul reddito. Il socio, a sua volta, al momento della
distribuzione degli utili percepisce un reddito parzialmente esente da imposizione (si ricordi
che stiamo ipotizzando che un reddito, seppure inferiore a quello “minimo”, vi sia stato); la
particolarità del caso deriva dal fatto che pur non avendo la società pagato l’imposta sul
reddito e non essendovi quindi, a rigore, le esigenze di eliminazione della doppia imposizione
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296/I
Ovviamente i problemi di costituzionalità appena evidenziati non si
pongono con riguardo all’ipotesi in cui la società non operativa produca un
reddito superiore a quello “minimo”. In questo caso infatti, come si è
osservato sopra, l’imposta è commisurata al reddito e non al patrimonio.
6.2.2. La seconda disposizione di nostro interesse è quella contenuta
nel primo periodo del comma 36-octies, dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011 il
quale disciplina l’ipotesi della società di comodo che, in qualità di partecipata, opti per la trasparenza ai sensi dell’art. 115 o 116 T.u.i.r.
La disposizione prevede in questo caso che la società non operativa
debba assoggettare il proprio “reddito” (89) ad imposizione e provvedere al
versamento. A differenza della fattispecie contemplata dall’ultimo periodo
del comma 36-quinquies (ed analizzata sopra), questa disposizione non è
quindi volta soltanto a fornire una disciplina dell’aliquota in quanto
prevede che la società partecipata non operativa che dovrebbe essere
“trasparente”, assoggetta ad imposizione il proprio reddito.
In questo modo si finisce per neutralizzare l’opzione per la trasparenza
perché il soggetto che dovrebbe essere trasparente, nel caso in cui sia anche
una società non operativa ai sensi dell’art. 30 della legge n. 724/1994,
torna ad essere soggetto passivo dell’imposta (90).
Pur non potendo il tema essere approfondito in questa sede, preme
rilevare che la “neutralizzazione” della opzione per trasparenza non ha un
effetto di abrogazione implicita degli interi artt. 115 e 116 T.u.i.r. Ciò che
viene meno è il metodo della trasparenza come metodo di eliminazione
della doppia imposizione economica nei rapporti tra soci e società. Se la
società torna ad essere soggetto passivo di imposta, quando al socio
dovesse essere distribuito il dividendo questo dovrà determinare la propria
base imponibile secondo le regole della participation exemption (91) (92).
Tuttavia, come si è detto, l’effetto abrogante degli artt. 115 e 116
T.u.i.r. non è totale dovendosi valutare per singoli casi la compatibilità
delle disposizioni contenute in tali articoli con il primo periodo del comma
36-octies dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011. E così, a titolo esemplificativo,
che giustificano l’adozione del c.d. metodo della esenzione, questo metodo opera perché il
legislatore considera in tutto e per tutto come “reddito” ciò che invece (ci si sta riferendo alla
ricchezza assoggettata ad imposizione in capo alla società) è patrimonio.
( ) Che reddito non è, qualora ci si trovi al di sotto delle soglie previste dal comma 3
dell’art. 30.
( ) Ovviamente però, qualora si aderisca alla tesi sostenuta nel presente lavoro si
dovrà ritenere che, anche se formalmente si è in presenza di un soggetto Ires, avendo riguardo
all’indice di capacità contributiva colpita siamo in presenza di una soggettività ai fini di
un’imposta sul patrimonio.
( ) Troverà quindi applicazione l’art. 89, comma 2, T.u.i.r. (esenzione al 95 per cento)
nel caso di socio-società e l’art. 47, comma 1° o l’art. 59 T.u.i.r. (esenzione al 60 per cento)
nel caso di socio persona fisica.
( ) Sul punto si rinvia alle considerazioni svolte retro, in nota 88.
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non sembra vi siano ragioni per cui dovrebbe venir meno la regola della
irrevocabilità della opzione per tre anni (art. 115, comma 4, T.u.i.r.).
Mentre invece, sempre a titolo esemplificativo, la regola della responsabilità solidale della società partecipata con ciascun socio per l’imposta, le
sanzioni e gli interessi conseguenti all’obbligo di imputazione del reddito,
non sembra abbia più senso atteso che, come osservato, l’imputazione per
trasparenza viene meno e la società partecipata assume le vesti del soggetto
obbligato in via principale (93).
Ciò detto, e passando ad un altro aspetto connesso alla disposizione
che stiamo commentando (e cioè il primo periodo del comma 36-octies), è
interessante domandarsi per quale ragione il legislatore abbia in questa
ipotesi adottato la soluzione di “annullare” in parte la scelta per la trasparenza effettuata dalla società di comodo. La ragione potrebbe risiedere nel
fatto che il primo periodo del comma 36-octies si riferisce tanto alle ipotesi
della trasparenza in cui il socio della società di capitali sia un’altra società
di capitali (art. 115 T.u.i.r.), quanto dell’ipotesi in cui il socio della società
di capitali sia una persona fisica (art. 116 T.u.i.r.). In quest’ultimo caso, se
si fosse adottata una soluzione analoga a quella adottata dal comma
36-quinquies ultimo periodo (e di cui si è parlato sopra), si sarebbe dovuto
applicare la maggiorazione del 10,5 per cento non sull’aliquota Ires, ma
sull’aliquota media Irpef del socio persona fisica. Soluzione che forse si è
voluto evitare per non introdurre una vistosa deroga alla regola generale —
per la verità già più volte derogata dal legislatore — della progressività
dell’Irpef (94).
Ciò detto va aggiunto che, se si ipotizza — come si è appena fatto —
che le ragioni della scelta legislativa sono da rinvenire nel fatto che in una
delle due ipotesi di trasparenza contemplate dal primo periodo del comma
36-octies i soci sono soggetti Irpef (art. 116 T.u.i.r.), allora si deve ritenere
che le ragioni dell’estensione della scelta anche all’altra fattispecie, e cioè
quella in cui i soci sono società di capitali (art. 115 T.u.i.r.), si giustifica
semplicemente con l’esigenza di non creare disparità di trattamento tra le
due fattispecie.
Disparità di trattamento che si realizza però tra l’ipotesi disciplinata
dal primo periodo del comma 36-octies (la società di comodo partecipata
( ) Mentre invece, nella responsabilità prevista dal comma 8 dell’art. 115, la società
partecipata “viene assunta come responsabile solidale dipendente per il pagamento delle
somme dovute dal socio in caso di inadempimento di quest’ultimo ai propri obblighi tributari
relativi al reddito imputato per trasparenza”. In questo senso SALVINI, La tassazione per
trasparenza, in Rass. trib., 2003, 1517 a cui si rinvia per una compiuta analisi degli artt. 115
e 116 T.u.i.r.
( ) Come è noto, pur rimanendo tuttora un’imposta progressiva, nel tempo l’Irpef è
andata sempre più perdendo tale carattere. Per un’ampia analisi sul tema si veda, PERRONE
CAPANO, L’imposizione personale a base piana tra vincoli di progressività e di coerenza del
sistema, in Diritto tributario e Corte costituzionale, a cura di Perrone e Berliri, Napoli, Esi,
339 ss.
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298/I
è una società di capitali trasparente) rispetto all’ipotesi disciplinata dal
comma 36-quinquies (la società di comodo partecipata è una società di
persone). In quest’ultimo caso, come si è osservato sopra, la società rimane
trasparente ed è il socio-società a pagare l’Ires con la maggiorazione del
10,5 per cento.
La ragione della distinzione appena evidenziata si può comprendere se
si tiene conto, da un lato, che il legislatore mantiene in vita la “finzione” che
ci si trovi in presenza di un’imposta sul reddito e, dall’altro lato, del fatto
che il comma 36-quinquies prende in considerazione una fattispecie in cui
la società partecipata è, nel nostro ordinamento, sempre trasparente (e non
a seguito di una opzione) in quanto società di persone. Avendo riguardo a
tale aspetto appare quindi comprensibile — in quanto rispettosa di un
principio ormai consolidato del nostro ordinamento — la scelta di non
trasformare la società di persone che sia anche società non operativa in un
soggetto passivo di imposta. Scelta che invece il legislatore ha fatto, lo si
ripete, nella fattispecie contemplata dal primo periodo del comma 36-octies
il quale tuttavia si occupa di società non operative che, se non fosse stato
per l’opzione prevista dagli artt. 115 e 116 T.u.i.r., non sarebbero state
trasparenti. Da questo punto di vista quindi, restituirgli la soggettività
passiva appare meno stridente con i principi generali dell’imposizione
reddituale di quanto non lo sarebbe stato per le società di persone.
È importante inoltre sottolineare che, nelle fattispecie contemplate dal
primo periodo del comma 36-octies, a differenza di quanto si è detto per il
comma 36-quinquies, non si pone il problema della violazione dell’art. 53,
comma 1° Cost. In questo caso infatti, chi è tenuto al pagamento dell’imposta patrimoniale è il medesimo soggetto titolare dei beni assunti ad
indice di capacità contributiva.
Nessun problema si pone, per le stesse ragioni, qualora il reddito
prodotto sia superiore al “reddito minimo”. Questa volta però, dal momento che la ricchezza assoggettata ad imposizione è effettivamente il
reddito, si sarebbe anche potuto lasciare operante la regola della trasparenza e ciò non avrebbe determinato problemi di costituzionalità, quantomeno nei limiti in cui non li pone la disciplina della trasparenza dettata
dagli articoli 115 e 116 T.u.i.r. (95).
6.2.3. L’ultima disposizione volta a coordinare il regime delle società
di comodo con l’istituto della trasparenza è quella contenuta nel secondo
periodo del comma 36-octies dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011 il quale
contempla l’ipotesi in cui, ad essere qualificata come società di comodo ai
( )
95
Cfr. sul punto P. RUSSO, (nt. 87), 324 ss.
299/I
sensi dell’art. 30 della legge n. 724/1994, sia la società partecipante che
abbia optato per la trasparenza ai sensi dell’art. 115 T.u.i.r. (96).
In questo caso è previsto che sia il socio-società di comodo ad
assoggettare il proprio reddito alla maggiorazione del 10,5 per cento senza
tenere conto del reddito imputato dalla società partecipata il quale sarà
assoggettato all’aliquota Ires ordinaria essendo — come si dirà meglio più
avanti — un reddito prodotto da una società “operativa”.
Anche in questo caso, come per il primo periodo del comma 36-octies,
ed a differenza di quanto si è detto per il comma 36-quinquies, non si pone
sotto il profilo analizzato un problema di violazione del principio di
capacità contributiva perché il soggetto che è tenuto al pagamento è lo
stesso titolare dell’indice di capacità contributiva assoggettato ad imposizione (e cioè una porzione del valore dei beni della società non operativa).
Il secondo periodo del comma 36-octies inoltre, a differenza di quanto
si è detto in relazione al primo periodo del medesimo comma, non
introduce una disciplina che neutralizza l’opzione per la trasparenza. La
trasparenza rimane ed il reddito imputato dalla società trasparente è
assoggettato ad Ires con l’aliquota ordinaria in capo alla partecipante “non
operativa”.
Infine, riprendendo quanto appena accennato sopra, si deve sottolineare che la scelta di prevedere che il reddito “imputato dalla società
partecipata” non sia assoggettato alla maggiorazione del 10,5 per cento è
coerente con la logica dissuasiva che è alla base della disciplina sulle società
di comodo. Se lo scopo è quello di penalizzare la scelta di utilizzare la
società per svolgere attività di mero godimento, è anche corretto che i
redditi che hanno la loro fonte nello svolgimento di un’attività economica
(e cioè quelli prodotti dalla società partecipata ed imputati per trasparenza)
siano trattati come i redditi di una normale società ed assoggettati all’ordinario regime impositivo.
6.2.4. Riepilogando, delle tre disposizioni introdotte dai commi
36-quinquies e ss. dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011 al fine di coordinare il
regime della trasparenza con quello delle società di comodo una soltanto,
quella contenuta nel comma 36-quinquies, pone un problema di rispetto
del principio di capacità contributiva perché prevede che ad essere assoggettato ad imposizione (con la maggiorazione del 10,5 per cento) sia il
socio. Ma non essendo il reddito l’indice di capacità contributiva colpito
(sempre che si aderisca alla tesi sostenuta nel presente lavoro circa la
natura patrimoniale dell’imposta), il problema deriva dal fatto che la
( ) Qui, a differenza di quanto accade nel primo periodo del comma 36-quinquies,
non è contemplato l’art. 116 T.u.i.r. per l’ovvia ragione che la disposizione si riferisce
all’ipotesi in cui ad essere “non operativo” è il socio, qualifica che non può essere attribuita
al socio persona fisica.
96
300/I
ricchezza assoggettata ad imposizione non sarà mai riconducibile al socio
(a differenza di quanto accade per il reddito che può essere distribuito sotto
forma di dividendi). Tale problema poi, non si pone nel caso in cui il
reddito prodotto dalla società di persone sia superiore a quello minimo in
quanto, in questo caso, l’indice di capacità contributiva assoggettato ad
imposizione torna ad essere il reddito e non il patrimonio.
Quanto alle altre due disposizioni e cioè quelle contenute nel comma
36-octies, si è rilevato che non pongono problemi in relazione all’art. 53,
comma 1 Cost. L’aspetto interessante è però che il primo periodo del
comma 36-octies introduce un’ipotesi di neutralizzazione (pur non trattandosi di una abrogazione tout court degli artt. 115 e 116 come si è detto
sopra) dell’opzione per la trasparenza restituendo, al soggetto che avrebbe
dovuto essere trasparente, la soggettività passiva del tributo.
6.2.5. Infine è opportuno osservare che tra le ipotesi possibili il
legislatore non ne ha contemplata una: quella della persona fisica che sia
socio di una società di persone non operativa (97).
In questo caso, se si dovesse giungere alla conclusione che non opera
la regola della maggiorazione del 10,5 per cento, si dovrebbe altresì
prendere atto che si è in presenza di un ingiustificato regime di favore per
le società di persone (e quindi, per i loro soci) che siano partecipate da
persone fisiche rispetto a quelle partecipate da società di capitali (in
quest’ultimo caso, l’aliquota maggiorata deve essere applicata dal sociosocietà in base al comma 36-quinquies).
Il principio di uguaglianza impone quindi di valutare, secondo il
criterio della interpretazione adeguatrice, se possa esservi una soluzione
rispettosa dello stesso. Si tratta quindi di comprendere se una delle
disposizioni dei commi 36-quinquies e ss. (dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011)
fin qui analizzate possa trovare applicazione nei confronti di tale fattispecie, che pure non è da esse esplicitamente contemplata.
A tal proposito due sembrano essere le soluzioni da prendere in
considerazione: a) si applica analogicamente la regola del comma 36quinquies, la società di persone resta trasparente ed il socio persona fisica
applica la maggiorazione del 10,5 per cento sulla propria aliquota media
Irpef; b) si applica analogicamente la regola del primo periodo del comma
36-octies, la società di persone diventa soggetto passivo di imposta ed
applica essa, sulla propria base imponibile, l’aliquota maggiorata.
Si potrebbe osservare che le due disposizioni sono equidistanti dalla
fattispecie che stiamo ipotizzando: la fattispecie presa in considerazione dal
comma 36-quinquies ha in comune con questa il fatto che la società
( ) Il comma 36-quinquies dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011 si occupa infatti soltanto
dell’ipotesi in cui la società di persone sia partecipata da un soggetto Ires.
97
301/I
partecipata è una società di persone, ma se ne discosta per il fatto che il
socio è una società mentre, nella fattispecie che stiamo ipotizzando, è una
persona fisica; la fattispecie presa in considerazione dal primo periodo del
comma 36-octies, invece, ha in comune con la fattispecie ipotizzata il fatto
che il socio è una persona fisica, ma se ne discosta per il fatto che, nel
comma 36-octies, la società partecipata è una società di capitali che ha
optato per la trasparenza, mentre il caso che stiamo analizzando è quello
della partecipata che sia società di persone.
Tuttavia, se la prima soluzione (lett. a)) comporta un effetto di
attenuazione della progressività dell’Irpef (98), la seconda soluzione (lett.
b)), consistente nel far recuperare la soggettività passiva ai fini delle
imposte sui redditi ad una società di persone, è ben più stridente con i
principi generali.
Sembra dunque preferibile ritenere applicabile il comma 36-quinquies
con la conseguenza che la società di persone (non operativa) rimarrà
trasparente, ed il socio persona fisica applicherà una maggiorazione del
10,5 per cento sulla propria aliquota Irpef.
6.3. La nuova presunzione di non operatività conseguente alla realizzazione di perdite fiscali.
6.3.1. Vi è poi la novità contenuta nel comma 36-decies dell’art. 2
del d.l. n. 138/2011 il quale introduce un’ulteriore presunzione di non
operatività: quella della società che presenta una dichiarazione in “perdita
fiscale per tre periodi di imposta consecutivi”.
Si tratta anche in questo caso di una presunzione legale relativa (99)
come è dimostrato dall’ultimo periodo del comma 36-decies citato il quale
fa salve le cause di non applicazione della disciplina della società non
operative di cui all’art. 30 della legge n. 724/1994 che a sua volta prevede
due ipotesi al verificarsi delle quali consegue la disapplicazione della
disciplina: a) quando sia fornita la prova della operatività della società
attraverso l’interpello (art. 30, comma 4-bis) (100); b) quando ci si trovi in
( ) Si veda quanto affermato sopra nel testo e nella nota 94.
( ) Sebbene il comma 30-decies dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011 preveda che tali
soggetti “sono considerati” non operativi. L’espressione è simile a quella dell’art. 30, comma
1 della legge n. 724/1994 nel quale è stabilito che le società ivi contemplate “si considerano”
non operative. Meglio avrebbe fatto il legislatore ad utilizzare l’espressione “si presumono fino
a prova contraria”. In ogni caso, se dubbi non vi sono (per le ragioni evidenziate sopra nel
testo) sul fatto che si è in presenza di una presunzione legale relativa nel caso del comma 1
dell’art. 30, non si vede perché dovrebbero esservi — anche alla luce dell’utilizzo, appena
evidenziato, di analoghe espressioni — in relazione alla fattispecie prevista dal comma
30-decies dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011.
( ) Sul punto si rinvia a quanto affermato sopra nel testo.
98
99
100
302/I
presenza di una delle “situazioni oggettive” individuate con provvedimento
del direttore dell’Agenzia delle entrate (art. 30, comma 4-ter).
Alla base di questa previsione dovrebbe esservi la considerazione che,
se una società è per lungo tempo ed ininterrottamente in perdita, non ha
senso continuare a mantenerla in vita. E non ha senso, giuridicamente,
perché in base all’art. 2247 c.c. il contratto di società è volto — come si è
ricordato più volte nel presente lavoro — all’“esercizio in comune di una
attività economica allo scopo di dividere gli utili”. La società che si trovi
costantemente in perdita non produce utili e quindi, nel lungo periodo (ed
il legislatore ha ritenuto che tre periodi di imposta siano un arco temporale
sufficiente in tal senso), ciò dovrebbe condurre verosimilmente, anche se
non necessariamente, allo scioglimento del contratto sociale ed alla liquidazione dell’attività (101). Se ciò non si verifica, è ragionevole presumere
che la società sia stata costituita per altri fini rispetto a quelli indicati
dall’art. 2247 c.c. Che questa sia la ratio della disposizione è dimostrato
dal fatto che quando si realizzano le condizioni previste dalla stessa (tre
periodi di imposta consecutivi in perdita), la società si presume non
operativa “a decorrere dal successivo quarto periodo d’imposta”.
La nostra analisi tocca a questo punto un aspetto molto interessante.
Con la previsione dei tre periodi d’imposta consecutivi in perdita
infatti, il legislatore ha spostato l’asse della sua attenzione, rispetto agli
elementi individuati dall’art. 2247 c.c., dalla “attività economica” allo
scopo di lucro (102). Ed infatti, l’essere in perdita non è di per sé un
elemento che indichi una gestione dell’attività non economica. Il requisito
della economicità è soddisfatto quando vi sia una gestione tendente almeno
(secondo la dottrina dominante) al pareggio del bilancio (103). Ma è questa
una caratteristica che si misura avendo riguardo al metodo con cui si svolge
l’attività economica e non ai risultati. In altri termini, ben può accadere che
un’attività sia svolta secondo un metodo economico (ad esempio prevedendo che i corrispettivi dei beni venduti siano tali da ricoprire almeno tutti
i costi) e ciononostante il risultato alla fine dell’esercizio sia una perdita.
( ) Il conseguimento delle perdite non integra infatti, secondo la dottrina, una causa
sopravvenuta di impossibilità di conseguire l’oggetto sociale (che, ai sensi dell’art. 2484,
comma 1°, n. 2) c.c. determina il necessario scioglimento della società). Tale fattispecie è
integrata solo quando la sopravvenuta impossibilità rivesta un “carattere di assolutezza, di
irreversibilità” (in questo senso si veda, per tutti, NICCOLINI, Le cause di scioglimento, in
Trattato delle società per azioni, diretto da Colombo e Portale, vol. 7***, Torino, Utet, 1997,
268 ss.). È tuttavia ragionevole ipotizzare che, se la società produce costantemente perdite, lo
scioglimento della società sia determinato, prima o poi, da una deliberazione dell’assemblea
(ai sensi dell’art. 2484, comma 1°, n. 6 c.c.) sempre che, ovviamente, non intervenga il
fallimento.
( ) Che pure è un elemento costitutivo, al pari dello svolgimento della attività
economica, del contratto di società. Sul punto si veda, per tutti, ABBADESSA, (nt. 1), 25 ss.
( ) Sul tema si v. per tutti CASTALDI, Gli enti non commerciali nelle imposte sui redditi,
Torino, Giappichelli, 1999, 260 ss.
101
102
103
303/I
In questo caso quindi, ed a differenza di quanto può dirsi per le
presunzioni di non operatività previste dall’art. 30 della legge n. 724/1994,
il ragionamento sotteso alla presunzione non è più quello secondo cui il
fatto noto è indice di mancanza di svolgimento di una attività economica.
In questo caso il fatto noto (tre esercizi consecutivi in perdita) indica che
si sta utilizzando la società per ragioni differenti da quelle previste dall’art.
2247 c.c. in quanto non interessa produrre utili (altrimenti non si manterrebbe in vita una società sempre in perdita) (104).
Il ragionamento è quindi meno lineare di quello previsto dall’art. 30
della legge n. 724/1994. Nell’art. 30 infatti, la non operatività, e cioè il
fatto di svolgere un’attività di mero godimento, la si desume dalla mancanza di ciò che è, da un punto di vista logico-giuridico, il suo contrario: lo
svolgimento di una attività economica.
Nel comma 36-decies dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011 invece, la non
operatività la si desume da un qualcosa che non è un indice diretto in tal
senso. Lo schema è quello della doppia presunzione: dal fatto che si
mantiene in vita una società costantemente in perdita si desume (primo
passaggio presuntivo) che non interessa ai soci produrre utili, e da questo
si desume (secondo passaggio presuntivo) che la società non è utilizzata
per gli scopi previsti dall’art. 2247 c.c., ma per uno scopo diverso: quello
del mero godimento di beni.
Vale la pena di ricordare a questo punto che le presunzioni, per essere
conformi alla Costituzione, non soltanto debbono consentire la prova
contraria quando sono utilizzare per individuare l’esistenza del presupposto di un tributo, ma debbono anche essere fondate sull’id quod plerumque
accidit (105).
( ) In altri termini, se la perdita costante nulla ci dice in ordine al metodo di
svolgimento dell’attività, può dirci qualcosa in ordine alle ragioni per le quali la società è
mantenuta in vita.
( ) Con riferimento alla materia tributaria, la Corte costituzionale ha affermato più
volte la necessità che le norme presuntive siano fondate sull’id quod plerumque accidit
riferendosi alle presunzioni legali assolute (si veda da ultimo, per tutte, la sentenza 25
febbraio 1999, n. 41). Ciò non significa però che tale criterio non debba valere anche per le
presunzioni legali relative come sembra implicitamente affermare la recente sentenza della
Corte cost., 16 aprile 2010, n. 139 la quale ha dichiarato incostituzionale dell’art. dell’art. 76,
comma 4-bis, d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e
regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti
già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene
superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la
prova contraria. Orbene, nel dichiarare incostituzionale tale norma, la Corte costituzionale ha
anche effettuato un sindacato sulla ragionevolezza della norma per verificare se essa rispondesse alle comuni regole di esperienza lasciando così intendere che, se così non fosse stato, la
disposizione non sarebbe stata dichiarata incostituzionale soltanto nella parte in cui non
ammetteva la prova contraria, ma sarebbe stata dichiarata incostituzionale nella sua interezza.
In dottrina, per l’affermazione che anche le presunzioni legali relative debbono essere fondate
sull’id quod plerumque accidit per essere conformi alla Costituzione si v. per tutti, FALSITTA,
Appunti in tema di legittimità costituzionale delle presunzioni fiscali, in Riv. dir. fin. sc. fin.,
104
105
304/I
Da questo punto di vista non sembra che la presunzione di cui ci
stiamo occupando possa considerarsi incostituzionale. È ragionevole affermare che normalmente (anche se non necessariamente) una società che sia
costantemente in perdita dovrebbe indurre i soci a desistere dal mantenerla
in vita.
Ovviamente poi, trattandosi di presunzione legale relativa, la società
potrà dimostrare che le ragioni di tali risultati in perdita non risiedono nella
non operatività.
È chiaro che non sarà sufficiente (e nemmeno necessario), ai fini di tale
prova contraria, la dimostrazione che vi sono stati livelli di ricavi, incrementi delle rimanenze e proventi, superiori rispetto alle soglie previste
dall’art. 30 della legge n. 724/1994.
Una volta che la società sia costantemente in perdita divengono
irrilevanti ai fini della qualificazione della società come “operativa” i
requisiti in presenza dei quali, in base all’art. 30, comma 1° della legge n.
724/1994, la società si considera tale. Se così non fosse infatti, la previsione di cui al comma 36-decies dell’art. 2 del d.l. n. 138/2011 sarebbe
inutiliter data perché non aggiungerebbe nulla a quanto previsto dal
comma 1 dell’art. 30. Ma al di là di tale argomento di carattere logico, a
rendere evidente che questa sia la corretta interpretazione, è proprio il dato
testuale. Il comma 36-decies prevede infatti che la presunzione opera “Pur
non ricorrendo i presupposti di cui all’art. 30, comma 1” della legge n.
724/1994.
1968, II, 39 s.; DE MITA, Sulla costituzionalità delle presunzioni fiscali, in Interesse fiscale e
tutela del contribuente, Milano, Giuffrè, 2000, 297; ID., (nt. 69), 94; MARCHESELLI, (nt. 69),
121.
Quanto al fatto che ci si trova in presenza di una doppia presunzione, tale profilo non
sembra creare particolari problemi perché, se anche si riuscisse a dimostrare che esiste nel
nostro ordinamento il divieto del praesumptum de praesumpto, si dovrebbe poi dimostrare
che tale limite opera non solo in capo al giudice con riguardo alle presunzioni semplici, ma
anche in capo al legislatore impedendo a questo di introdurre presunzioni legali di tale natura.
Quanto alla possibilità di avvalersi di presunzioni semplici a catena va osservato — seppure
l’argomento meriterebbe ben altro approfondimento che non è possibile effettuare in questa
sede — che non vi è alcun limite in tal senso desumibile dalla legge richiedendo il codice civile,
quale unica condizione, la sussistenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza e
potendo tali elementi caratterizzare anche una presunzione di secondo o di terzo grado (in
questo senso si veda, nella dottrina tributaristica, LUPI, Metodi induttivi e presunzioni
nell’accertamento tributario, Milano, Giuffrè, 1988, 215 ss. e CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, Cedam, 2005, 451 ss. al quale si rinvia per gli opportuni
riferimenti bibliografici). Ma se è quantomeno dubbio che esista il divieto del preasumptum
de praesumpto con riguardo alle presunzioni semplici, è ancor più difficile dimostrare che
esiste in capo al legislatore il divieto di introdurre delle presunzioni legali relative “doppie” o
“a catena”. Non vi è infatti nella Costituzione un espresso limite in tal senso. Deve invece
ritenersi che la presunzione legale sarà incostituzionale non per il fatto in sé di essere
“doppia”, ma semplicemente, come per tutte le presunzioni legali relative, nel caso in cui non
rispecchi le regole di comune esperienza. Si torna insomma al limite dell’id quod plerumque
accidit.
305/I
Si deve quindi ritenere che in tale fattispecie altri dovranno essere gli
elementi probatori addotti dal contribuente.
6.3.2. Per completare l’analisi va posta brevemente l’attenzione sul
successivo comma 36-undecies il quale è inspirato ad una logica “mista” in
quanto, ponendo in essere un’ulteriore presunzione legale di non operatività, stabilisce che il comma 36-decies trova applicazione anche per le
società che abbiano conseguito perdite per due periodi di imposta (anziché
tre) ed in uno abbiano dichiarato un reddito inferiore all’ammontare
determinato ai sensi dell’art. 30, comma 3 della legge n. 724/1994.
In questo caso il legislatore mantiene lo schema della doppia presunzione sopra descritto, consistente nel desumere la non operatività dalla
chiusura dell’esercizio in perdita, ma dal momento che riduce a due i
periodi di imposta a cui aver riguardo, compensa tale riduzione prevedendo
che in un terzo periodo di imposta non deve essere stata raggiunga la soglia
di reddito minimo prevista dall’art. 30, comma 3.
Il comma 36-undecies fa riferimento all’“arco temporale” di cui al
comma 36-decies, dal che sembra doversi ritenere, da un lato, che si deve
aver riguardo a tre esercizi consecutivi e, dall’altro, che i due periodi in
perdita possono essere variamente combinati all’interno di questo arco
temporale con il periodo in cui si è prodotto un reddito inferiore al
minimo (106).
Ci si deve chiedere se, con riguardo al periodo di imposta (dei tre presi
in considerazione dalla norma) nel quale la società ha prodotto un reddito
inferiore a quello minimo debbano essere soddisfatti anche i requisiti che,
ai sensi dell’art. 30, comma 1°, servono a qualificare una società come non
operativa (107).
La risposta sembra dover essere affermativa in quanto, a differenza
della perdita, la produzione di un reddito di modesta entità è del tutto priva
di significato ai fini della elaborazione di un ragionamento presuntivo se
non viene collegata ad elementi — quali quelli previsti dall’art. 30, comma
1 della legge n. 724/1994 — volti a denotare (sempre in chiave presuntiva)
la non operatività della società. In altri termini nella logica dell’art. 30 il
reddito minimo non ha alcun valore ai fini della presunzione di non
operatività. Ciò che denota la non operatività della società è il mancato
raggiungimento delle soglie di ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei
proventi previste dal comma 1 dell’art. 30. È questo il fatto noto da cui si
desume la non operatività, e non la produzione del reddito inferiore al
( ) Nel senso che il periodo di imposta in cui si è prodotto un reddito inferiore al
minimo potrà essere sia il primo, che il secondo, che il terzo dei tre periodi di imposta
considerati.
( ) Si è osservato sopra nel testo che tali requisiti sono irrilevanti quando opera la
presunzione di cui all’art. 2, comma 36-decies del d.l. n. 138/2011.
106
107
306/I
minimo. Nel comma 36-decies quindi, il fatto della perdita prende il posto,
se si vuole usare questa immagine, degli indici di non operatività previsti
dal comma 1º dell’art. 30. Sono queste oggi le due classi di fatti noti dai
quali si desume, in via presuntiva, la non operatività di una società (108).
L’obiezione alla soluzione interpretativa appena prospettata potrebbe
essere la seguente: se per il periodo in cui la società non ha prodotto il
reddito minimo devono essere anche integrate le condizioni per la qualificazione della società come non operativa, allora in relazione a quel periodo
d’imposta la previsione di cui al comma 36-undecies è inutiliter data in
quanto sarebbe sufficiente l’art. 30 della legge n. 724/1994.
Ad una simile obiezione si dovrebbe replicare che ciò che tramite essa
viene affermato è in parte corretto, ma vale a dimostrare non che l’interpretazione sopra prospettata sia sbagliata, ma che il comma 36-undecies ha
come obiettivo quello di qualificare come non operativa la società non per
tutti i tre periodi di imposta (in quanto per uno, come si è detto, è
sufficiente l’art. 30) ma per i due periodi d’imposta in cui la società abbia
prodotto delle perdite.
Peraltro si è detto poc’anzi che considerare inutiliter data la disposizione
di cui al comma 36-undecies con riguardo al periodo di imposta in cui non
vi è la perdita, ma vi è un reddito inferiore a quello minimo, sarebbe corretto
solo “in parte”. La ragione di tale parziale riconoscimento di correttezza
risiede nel fatto che, l’essere il periodo di imposta in cui non vi è la perdita
preso in considerazione da tale disposizione, è funzionale a consentire di
considerare la società come non operativa per gli altri due periodi di imposta
in cui la perdita si è prodotta. Se la previsione del comma 36-undecies avesse
contemplato soltanto la fattispecie di una società con due periodi di imposta
consecutivi in perdita, essa sarebbe stata nettamente antinomica rispetto alla
disposizione del comma precedente (36-decies) in base alla quale i periodi
di imposta consecutivi in cui si realizza la perdita debbono essere, ai fini della
presunzione di non operatività, almeno tre.
LUCA PEVERINI
( ) Delle due, la prima in ordine di tempo, quella di cui all’art. 30, comma 1° della
legge n. 724/1994, è considerata dal legislatore come maggiormente in grado di rivelare
l’esistenza della non operatività visto che essa è posta a base della presunzione anche quando
si verifica per un solo periodo di imposta. La perdita invece (comma 36-decies) deve ripetersi
per tre periodi di imposta consecutivi affinché possa scattare la presunzione di non operatività
la quale peraltro opera, a differenza di quanto accade con l’art. 30, comma 1, solo a decorrere
dal successivo quarto periodo di imposta. Le ragioni di tali differenze vanno ricercate nel fatto
che, come si è spiegato sopra nel testo, quella prevista dal comma 36-decies è una presunzione
di secondo grado nel senso che la perdita di per sé, in assenza di un ulteriore passaggio
presuntivo, non è significativa del mancato svolgimento di una attività economica.
108
307/I
Abstract
The purpose of this paper is to demonstrate that the tax which affects the
companies that do not perform economic actvities is not, despite the terminology
used by the legislator, an income tax, but it is a property tax. Such form of taxation
is aimed to discourage the use — fairly common in practice — of corporate form to
carry out a mere enjoyment of goods. After demonstrating the property nature of
such tax, it will be analysed the legal consequences of this assumption.
308/I
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