Sezione III Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti
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Sezione III Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti
Sezione III Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti Palazzo Pitti, e in misura minore le ville già medicee intorno a Firenze, conservano un numero cospicuo di manufatti artistici giapponesi (più di duecento), tra lacche e porcellane, databili tra l'inizio del XVII e la metà del XVIII secolo. Sopravvissuti agli eventi della storia, essi facevano parte delle collezioni dei membri delle dinastie Medici, Lorena e Savoia che abitarono Palazzo Pitti fino al 1911, anno in cui la Reggia fu musealizzata. Nelle schede che seguono se ne presenta una selezione, con i pezzi più significativi per qualità artistica e storia fiorentina. In occasione di questa mostra si è scelto di farli rimanere nelle loro ubicazioni usuali e storicizzate, ovvero nella cosiddetta ‘Sala delle Porcellane’ del Museo degli Argenti, negli Appartamenti Reali al piano nobile e nel Salotto Cinese nel Quartiere d'Inverno al secondo piano, per gran parte quindi visibili al pubblico lungo i percorsi museali. 360 361 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 1 Vassoio con versatoio periodo Edo, terzo quarto del XVII secolo legno laccato e dorato, h. cm 29 (versatoio); diam. cm 53 (vassoio) Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv MPP 1911 n. 17172 La presenza di questo oggetto nelle collezioni granducali si può accertare solo dal 1815, allorché esso risulta presente nell’inventario dei Magazzini di Palazzo Vecchio compilato in quell’anno (Morena 2005, p. 258, n. 203, tav. XL, con bibliografia precedente). Tuttavia, è molto probabile che esso appartenesse alle collezioni medicee, conservato quindi nei palazzi granducali già prima del 1737. Esso infatti non faceva parte di quel gruppo di lacche giapponesi giunte a Firenze da Würzburg (v. cat. III.21-III.33), nonostante le affinità stilistiche con alcune di quelle, che pure furono registrate nell’inventario di Magazzino del 1815, in una sezione però ben distinta del documento nel quale compare anche questo vassoio con versatoio. Nel 1842 fu trasferito a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese nel Quartiere d’Inverno, che in quell’anno si completava. L’attuale sua sistemazione nel Museo degli Argenti risale perciò a un momento posteriore al 1911, anno in cui fu compilato l’ultimo inventario generale di Palazzo Pitti nel quale ancora era registrato tra gli arredi del Salotto Cinese. Questo manufatto si compone di due pezzi autonomi ma complementari, ovvero un vassoio circolare e un versatoio con manico e beccuccio. Il piede circolare del contenitore si inserisce perfettamente nell’apposita sede ubicata al centro del vassoio. La decorazione in oro e altre polveri metalliche che orna entrambi i pezzi è stata applicata principalmente con la tecnica dell’hiramaki-e (“pittura cosparsa piatta”). Sul basso cavetto arrotondato e sulla tesa piatta e inclinata del vassoio si svolgono altrettante bande con serti fogliati di vena naturalistica. Sulla superficie del fondo del vassoio, tutt’intorno al medaglione circolare con bordo rialzato posto al centro, si sviluppa una scena di paesaggio lacustre, con rocce, alberi, abitazioni, un ponte, uccellini e alcune figure umane. Un simile scorcio di paesaggio si vede anche sull’esterno della caraffa: tra gli elementi di cui si compone risalta il cono del Monte Fuji. Il manico è ornato di un tralcio fogliato, mentre l’interno risplende di un fondo nashiji, “a buccia di pera”. Questo insieme è esemplare di una tipologia di lacche da esportazione prodotta a partire dal quarto decennio circa del XVII secolo, all’epoca in cui il commercio con il Giappone era gestito esclusivamente dalla Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC). Lo stile di questa seconda ondata di lacche giapponesi destinate al mercato europeo è definito ‘pittorico’ negli studi specialistici su questo argomento, soprattutto per distinguerlo dallo stile che invece caratterizza i manufatti laccati per l’esportazione realizzati tra il 1580 e il 1620 circa, definiti come Nanban e in genere riconoscibili per la diffusa presenza di intarsi di scaglie di madreperla. Per forme e decorazioni le lacche da esportazione di stile ‘pittorico’ si distinguono per la combinazione di spunti di gusto più puramente giapponese con elementi di evidente ispirazione europea. Nel caso di questo vassoio con versatoio le scene paesaggistiche hanno un palese afflato giapponese, mentre l’ornato fitomorfo riecheggia con forza gli arabeschi dell’ornato dell’arte occidentale del primo Barocco. Del tutto europea è invece la loro forma. Essi sono infatti ispirati 362 a modelli occidentali del XVI secolo, realizzati prevalentemente in metallo (argento, peltro o rame). Versatoi con vassoio di questo genere furono realizzati in Giappone già nel periodo Momoyama (15731615), com’è testimoniato in alcuni documenti risalenti al 1616 e al 1618. In questa fase le lacche erano decorate con una certa profusione di madreperla, come usava allora, ovvero in stile Nanban: di questa tipologia più antica sono noti alcuni pezzi, tra i quali quello conservato nel Victoria & Albert di Londra (Impey-Jörg 2005, pp. 162-163, fig. 373). Si conoscono almeno altri tre esemplari del tutto analoghi a questo di Palazzo Pitti, per forma, dimensioni, tecnica e stile di decorazione. Uno privo di versatoio in collezione privata (Kyoto 1995, n. 200). Uno nel Peabody Essex Museum di Salem (Impey-Jörg 2005, fig. 374). Un altro nell’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig (Diesinger 1990, n. 210). I primi due si caratterizzano per una decorazione con una veduta di Kyoto, nella quale è presente anche la raffigurazione del tempio Kiyomizu. Nel terzo si vede un paesaggio lacustre molto simile a quello presente nel pezzo di Palazzo Pitti. L’esemplare nel museo tedesco ha una storia europea molto antica, facendo in origine parte della collezione di lacche giapponesi del duca Anton Ulrich von Braunschweig (regno 1685-1714), formata quindi tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo (Diesinger 1990; Ströber 2002). Nello stesso museo è conservato pure un vassoio, che in origine era accoppiato ad un versatoio, del tutto analogo a questo di Palazzo Pitti, per forma, tipo di decorazione paesaggistica e anche per le dimensioni (diam. cm 54,5) (Diesinger 1990, n. 103). Francesco Morena 363 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 2 Tazza periodo Edo, seconda metà del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, cm 8×7 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17171 Questa tazza molto probabilmente apparteneva al Gran Principe Ferdinando de’ Medici (1663-1713), registrata nell’inventario dei suoi beni compilato nel 1713, anno della sua morte. In questo documento compaiono infatti non pochi oggetti laccati di manifattura estremo-orientale (Morena 2005, pp. 167168), tra i quali “Sei chicchere di legno di vernice nera di Giappone, miniate in parte di fiori d’oro”. L’intera eredità del Gran Principe fu presa in carico immediatamente dopo la sua morte dalla Guardaroba di Palazzo Vecchio. Nell’inventario di questi Magazzini, proprio tra gli oggetti appartenuti al defunto Ferdinando, compare anche una “Chicchera da Cioccolata Lavoro dell’Indie, vernicata di nero, e rabescata d’oro”. Quest’ultima descrizione sembra proprio riferirsi alla tazza ancora oggi a Palazzo Pitti e qui discussa. La sua storia più recente si lega all’allestimento del Salotto Cinese voluto dalla Granduchessa Maria Ferdinanda (1796-1865) nel 1842, ambiente nel quale è tuttora conservata (Morena 2001, p. 52; Impey-Jörg 2005, p. 305; Morena, in Firenze 2005, p. 109; Morena 2005, p. 259, n. 204; Morena, in Firenze 2006a, p. 270, n. 139). Posante su piede ad anello, con corpo cilindrico, la cui ampiezza è maggiore nei pressi della bocca, questa tazza era evidentemente usata per contenere cioccolata liquida. Forse in origine poteva essere dotata anche di piattino e coperchio, così come avevano piattino e coperchio le analoghe tazze cinesi e giapponesi in porcellana che in Europa erano usate per la cioccolata, esemplari delle quali sono presenti nella stessa collezione di Palazzo Pitti (Morena 2005, nn. 95-96, 242, 244, 263, 330, 343, 368). Per alcuni versi, si possono notare certe affinità tra questa tazza in lacca e le contemporanee porcellane cinesi e giapponesi anche in riferimento alla decorazione (v. cat. III.37). Applicata con la tecnica del togidashi maki-e, cioè levigando lo strato superficiale della lacca fino a portare in superficie la sottostante decorazione a oro, essa consiste di un semplice tralcio fiorito su fondo nero (rōiro-nuri). Dodici tazze in tutto simili a questa di Palazzo Pitti sono conservate nell’Herzog Anton Ulrich-Museum di Braunschweig (Diesinger 1990, nn. 166-177; Kopplin, in Münster 2003, p. 59, n. 21 a,b,c; Impey-Jörg 2005, p. 161, fig. 365). Queste tazze del museo tedesco appartenevano in origine al duca Anton Ulrich von Braunschweig (1633-1714), collezionate quindi tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Tuttavia, furono registrate per la prima volta in un inventario compilato solo nel 1784, nel quale sono descritte come ‘tazze da cioccolata’, secondo la stessa definizione con cui era citata la tazza di Palazzo Pitti. Francesco Morena III. 3 Tazza periodo Edo, seconda metà del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, cm 7×12,5 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17166 La storia fiorentina di questa tazza si segue con linearità fino al 1804, anno in cui è registrata con certezza in un inventario dei Magazzini della Guardaroba di Palazzo Vecchio. Tuttavia, è molto probabile che essa fosse giunta a Firenze durante il Granducato dei Medici, quindi prima del 1737. Negli inventari medicei compilati tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo compaiono spesso descrizioni di manufatti di vario genere in lacca giapponese, alcune delle quali possono benissimo riferirsi a questa tazza. Da Palazzo Vecchio la coppetta fu trasferita nel 1869 a Palazzo Pitti, per entrare a far parte degli arredi del Salotto Cinese, ambiente nel quale tuttora si trova (Morena 2001, nota 18 a p. 54; Morena 2005, p. 260, n. 206; Morena, in Firenze 2006a, p. 270, n. 138). Posante su base ad anello, ha sezione circolare che raggiunge la massima ampiezza nei pressi della bocca, leggermente svasata. La decorazione, in oro e altre polveri metalliche applicate con la tecnica dell’hiramaki-e (“pittura cosparsa piatta”), consiste in piccoli rametti fogliati, disposti sia all’esterno sia all’interno della tazza. Pur essendo un prodotto destinato all’esportazione verso l’Occidente, questo contenitore si caratterizza per una forma che si può dire di gusto giapponese. Altre due tazze analoghe a questa per forma e dimensioni, decorate similmente, sono conservate nello stesso Salotto Cinese di Palazzo Pitti (Morena 2005, p. 260, nn. 207-208). Francesco Morena 364 365 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 4 Due piattini periodo Edo, seconda metà del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 14,2 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 nn. 17164-17165 I due piattini si possono rintracciare con certezza negli inventari granducali fino al 1804 (Morena 2004b, p. 82; Morena 2005, p. 261, n. 82; Morena, in Firenze 2006a, p. 270, n. 137). Allora si trovavano nei Magazzini della Guardaroba di Palazzo Vecchio. Tuttavia, è molto probabile che essi appartenessero alle collezioni dei Medici, presenti perciò a Firenze già prima del 1743, anno della morte di Anna Maria Luisa (1667-1743) con il quale si concluse la lunga storia della dinastia fiorentina. Descrizioni di oggetti in lacca giapponese simili a questi si ritrovano in abbondanza nelle fonti del tempo; inoltre, evidenti sono le affinità stilistiche tra questo pezzo e altri ancora conservati a Palazzo Pitti, come la tazza da cioccolato (cat. III.2), la cui provenienza medicea è quasi certa. Comunque sia, poco dopo la metà dell’Ottocento questi due piattini furono trasferiti da Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti per arredare il Salotto Cinese, ambiente nel quale tuttora si trovano. Analoghi per forma, dimensioni e decorazione, i due piattini circolari posano su bassissimo piede ad anello. La decorazione, a oro applicato con la tecnica dell’hiramaki-e (“pittura cosparsa piatta”), si svolge sulla superficie a vista, al centro del fondo con un rametto fogliato e fruttato, sul cavetto arrotondato con un sottile girale fitomorfo. Una serie di quattro piattini molto simili a questi due è conservata nell’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig (Impey-Jörg, 2005, fig. 422). Questi esemplari appartenevano in origine alla collezione di lacche giapponesi del duca Anton Ulrich von Braunschweig (1633-1714), formata quindi tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo (Diesinger 1990; Ströber 2002). Francesco Morena III. 5 Due piattini periodo Edo, seconda metà del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 14 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 nn. 17162-17163 La storia fiorentina di questi due piattini si può ricostruire con certezza fino all’inventario della Guardaroba di Palazzo Vecchio del 1804 (Morena 2005, pp. 261-262, nn. 210-211; Roma 2007, p. 60). È molto probabile però che entrambi facessero parte della collezione medicea, giunti a Firenze prima del 1743, poiché descrizioni di oggetti simili si ritrovano copiosamente negli inventari compilati tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Nella seconda metà dell’Ottocento furono trasferiti da Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti, per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese. Con basso piede circolare, breve cavetto arrotondato e tesa piatta leggermente inclinata, i due piattini costituiscono una coppia, per analogie nelle dimensioni, nella forma e nella decorazione. L’ornato, realizzato con profusione d’oro con la tecnica del maki-e (“pittura cosparsa”) nelle varianti hiramaki (“piatta”), takamaki (“a rilievo”), nashiji (“a buccia di pera”) e kirikane (“ritagli d’oro”), si compone di un girale fitomorfo di tipo karakusa (letteralmente “erba cinese”) sulla tesa e di uno scorcio di paesaggio sul fondo, con rocce, alberi, erbe e un corso d’acqua; nell’esemplare n. 17162 è pure presente una casa, mentre nel n. 17163 si vede una breve staccionata. Una serie di quattro piattini molto simili a questi due è conservata nell’Herzog Anton Ulrich Museum di Braunschweig (Diesinger 1990, pp. 168-169, nn. 121-124). Questi esemplari nel museo tedesco appartenevano in origine alla collezione di lacche giapponesi del duca Anton Ulrich von Braunschweig (1633-1714), formata quindi tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. Un’analoga decorazione caratterizza anche due piatti, più grandi di questi, conservati nel Musée d’Orbigny-Bernon a La Rochelle. Giunti in Francia nel periodo napoleonico, essi appartenevano in origine alla collezione del principe Elettore di Hesse-Kassel, già registrati nell’inventario di quella raccolta compilato nel 1777 (Lacambre 2010, p. 107, nn. 40-41). Nelle raccolte di Palazzo Pitti esiste anche un altro piattino non dissimile da questi due per decoro e stile della decorazione, solo di minori dimensioni, anch’esso di probabile provenienza medicea (Morena 2005, p. 262, n. 212; Morena, in Firenze 2006a, p. 270, n. 136). Francesco Morena 366 367 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 6 III. 7 Dieci tazzine Sei piattini periodo Edo, seconda metà del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, h. cm 3,5 e 4; diam. cm 6,5 e 7 Firenze, Palazzo Pitti: Quartiere d’Inverno (Salotto Cinese) e Museo degli Argenti, Inv MPP 1911 nn. 17151-17160 La registrazione più antica negli inventari granducali che riguarda queste tazzine risale al 1804, allorché esse erano conservate nei Magazzini della Guardaroba di Palazzo Vecchio (Morena 2001, p. 52; Morena 2005, pp. 263-265, n. 214; Roma 2007, pp. 60-61). Tuttavia, la nostra opinione è che esse facessero parte della collezione medicea, presenti perciò a Firenze già prima del 1743, anno in cui quella famiglia si estinse. Non mancano, infatti, nei documenti medicei descrizioni di tazzine in lacca giapponese, generalmente però troppo succinte e generiche perché si possano relazione con certezza a questi esemplari. Il gruppo fu trasferito nel 1869 da Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti, sistemato nel Salotto Cinese, ambiente che tuttora ne accoglie gran parte. Tre di loro (17154, 17157, 17160) furono spostate nel Museo degli Argenti sicuramente dopo il 1911. Le dieci tazzine hanno forma analoga, dimensioni simili e sono decorate con motivi affini. L’ornato in oro su fondo nero è applicato con la tecnica del maki-e (“pittura cosparsa”), nelle varianti “piatta” (hiramaki) e a rilievo takamaki; su alcuni pezzi si nota la presenza di ritagli di lamina d’oro e d’argento (kirikane). I motivi sono prevalentemente paesaggistici, con corsi d’acqua, alberi, rocce, erbe di vario genere e case. In un solo esemplare è presente una figura di uomo, in cammino con un ombrello chiuso sulla spalla. All’interno di tutte, sul fondo, si vedono gruppi di fiorellini, erbe e foglie. Pur essendo esemplari di una tipologia di lacca giapponese destinata all’esportazione verso l’Europa, queste tazzine hanno una forma che rientra nel repertorio di contenitori utilizzati dagli stessi giapponesi. Nel caso specifico, oggetti simili – per lo più in porcellana – erano usati per bere sake. Questo genere di tazzina è presente in alcune collezioni storiche europee, tra cui quella appartenuta al duca Anton Ulrich von Braunschweig (1633-1714), formata quindi tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo (Diesinger 1990, pp. 186-189, nn. 149-159; Kopplin, 368 periodo Edo, seconda metà del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 11,5 Firenze, Palazzo Pitti: Quartiere d’Inverno (Salotto Cinese) e Museo degli Argenti, Inv MPP 1911 nn. 17144-17148, 17150 in Münster 2003, p. 59, n. 22), e quella attualmente conservata nello Schloss Friedenstein di Gotha (Bräutigam 1998, pp. 85-87, nn. 133-141). È molto probabile che queste tazzine siano da mettere in relazione ai sei piattini alla scheda successiva (cat. III.7), per evidenti affinità nel decoro, se si esclude la bordura geometrica che compare sulla tesa dei piattini non presente nelle tazzine, e per compatibilità nelle dimensioni. Esistono, infatti, alcuni insiemi di questo tipo conservati in collezioni storiche europee, tra cui quella svedese di Drottiningholm (Setterwall-Fogelmarck-Gyllensvård 1974, p. 317), quella tedesca di Braunschweig (Diesinger 1990, nn. 144-159), quella di Schloss Weissenstein e quella nel National Museum di Copenaghen (Impey-Jörg 2005, p. 161). I pezzi del museo danese provengono dalla raccolta di Augusto il Forte (1670-1733) a Dresda (Impey-Jörg 2005, figg. 604, 606: i due studiosi, nello stesso volume a p. 46, fig. 41, illustrano un gruppo di dieci piattini con altrettante tazzine del tutto analoghi a questi di Palazzo Pitti). Un’altra tazzina molto simile si trova nel Castello Velké Meziřiči (Praga-Brno 2002, pp. 126-127, n. 35) e un’altra, col suo piattino, è nel Museo Antoine Vivenel di Compiègne (Lacambre 2010, p. 106, n. 38.1). Di un certo interesse per il collezionismo italiano sono due tazzine simili a queste passate per Sotheby’s nel 1980, usate per sostenere un candeliere in bronzo dorato con reggicandele in porcellana in una composizione francese della metà circa del XVIII secolo: registrate nell’inventario del Palazzo Ducale di Parma del 1811, è molto probabile che facessero parte delle collezioni borboniche già da qualche decennio (González-Palacios 1995, p. 82, fig. 92). Ancora francese è la complessa montatura che arricchisce una serie di tazzine di questo genere passate per Sotheby’s Londra il 5 luglio 1985, lot 82 (ImpeyJörg 2005, fig. 366). Rintracciati con certezza fino all’inventario dei Magazzini di Palazzo Vecchio del 1815, a nostro avviso però questi piattini facevano parte della raccolta medicea (Morena 2005, p. 266, nn. 215-216; Roma 2007, p. 61). Registrazioni di oggetti simili a questi compaiono infatti frequentemente negli inventari della famiglia granducale estintasi nel 1743. Nell’Ottocento il gruppo fu trasferito da Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti per entrare a far parte degli arredi del Salotto Cinese allestito nel 1842, ambiente nel quale tre di loro tuttora si trovano. Gli altri tre (17144-6) furono spostati nel Museo degli Argenti nel Novecento (dopo il 1911). Cinque dei sei piattini hanno in comune un’analoga bordura sulla tesa con il motivo della moneta (shippō-tsunagi); uno solo, il n. 17146, presenta invece questo stesso ornato tagliato però a metà. Tuttavia, anche questo esemplare, come gli altri cinque, presenta sul fondo una scena di paesaggio lacustre, con rocce, alberi, piante e un’abitazione. Tale decorazione in oro è stata applicata con la tecnica del maki-e (“pittura cosparsa”), nelle varianti dell’hiramaki (piatta) e del takamaki (a rilievo). Esemplari simili a questi si trovano nel Castello Velké Meziřiči (Praga-Brno 2002, pp. 126-127, n. 35), nel Museo Antoine Vivenel di Compiègne (Lacambre 2010, p. 106, n. 38.2) e nel Groninger Museum (Impey-Jörg 2005, fig. 420). Gli stessi Oliver Impey e Christiaan Jörg (2005, p. 46, fig. 41) illustrano un gruppo completo formato da dieci tazzine e altrettanti piattini del tutto analoghi a questi di Palazzo Pitti, provando così che, nonostante il fregio geometrico dei piattini sia assente nelle tazzine, già in origine era previsto che i contenitori avessero un proprio piattino (v. cat. III.6). Per analogie nella forma e nella decorazione si prestano al confronto con il piatto più grande alla scheda III.22. Francesco Morena Francesco Morena 369 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 8 III. 9 Due suonatori di tamburo Dama Arita, periodo Edo, ultimo quarto del XVII secolo porcellana di stile Kakiemon dipinta a smalti policromi sopra coperta, h. cm 15 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv OdA 1911 n. 8 Arita, periodo Edo, 16701685 circa porcellana di stile Kakiemon dipinta a smalti policromi sopra coperta, h. cm 12,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv OdA 1911 nn. 4-5 Queste due statuette sono riconoscibili con assoluta certezza negli inventari fiorentini fino a quello dei Magazzini di Palazzo Vecchio compilato nel 1815 (Morena 2005, p. 232, n. 158, tav. XXXII). Negli inventari più antichi le loro tracce si perdono, a causa principalmente dell’interruzione nel periodo napoleonico della ‘catena’ inventariale e per la vaghezza delle descrizioni nei documenti settecenteschi. Tuttavia, è lecito supporre che questa coppia di piccole sculture facesse parte delle collezioni fiorentine da molti decenni, molto probabilmente già dal tempo dei Medici (ante 1743). In una precedente occasione (Morena, in Firenze 2006a, p. 258, n. 113), infatti, si è anche ipotizzato esse abbiano per un certo periodo fatto parte della raccolta di porcellane orientali di Anna Maria Luisa de’ Medici (1667-1743). Le due statuette sono pressoché identiche tra loro, e differiscono solo per qualche minimo dettaglio. Entrambe raffigurano un giovinetto stante impegnato a tenere con le mani un piccolo tamburo all’altezza del ventre. Vestiti di abiti larghi e comodi, hanno i capelli corvini acconciati in due crocchie disposte sui lati del cranio. Questo particolare permette di identificare queste figure come “bambini cinesi” (karako), personaggi ispirati all’iconografia cinese e molto popolari nella cultura giapponese, soprattutto nel periodo Edo (1615-1868). Come in Cina, anche in Giappone i karako erano considerati emblemi di prosperità e augurio per una famiglia numerosa. Nel caso delle due statuette di Palazzo Pitti, i due ‘bambini cinesi’ rappresentano una sorta di parodia giocosa di altrettanti musicisti, in particolare dei percussionisti che facevano parte dell’orchestra di accompagnamento del teatro Kabuki. Il tipo di smalti (verde, indaco, nero e rosso stesi al di sopra dell’invetriatura trasparente) che dettaglia e ravviva queste due piccole sculture si fa appartenere alla tavolozza tipica dello stile ‘Kakiemon’. 370 È questa una tipologia di porcellana giapponese caratterizzata da pasta ceramica particolarmente bianca e raffinata e da smalti dai toni molto brillanti. Per queste sue qualità fu molto apprezzata in Europa già dalla seconda metà del Seicento. Cotta in particolari fornaci e decorata in botteghe specializzate, costituiva il miglior prodotto destinato all’esportazione realizzato ad Arita, cittadina nell’isola di Kyūshū, non lontana da Nagasaki, dove erano ubicate le più importanti fabbriche di porcellane del Giappone. Il tema del karako è stato più volte utilizzato dai ceramisti di Arita, in particolare nella tipologia decorativa Kakiemon. La datazione di queste sculture in porcellana viene posta solitamente tra il 1670 e il 1685, ovvero qualche lustro prima del 1688, anno in cui una statuetta di karako di tipo Kakiemon è registrata con certezza nell’inventario dei beni di Burghley House (Stamford 1983, p. 38, n. 95; Londra 1990, p. 180, n. 162) (v. cat. II.46). Tralasciando in questa occasione di fornire ulteriori riferimenti bibliografici su i molti altri pezzi Kakiemon con karako conservati in collezioni private e musei del mondo, vogliamo però segnalare l’esistenza di un esemplare di grandissima qualità nei Musei Civici del Castello Sforzesco di Milano (inv. G33; Bertoldi 1997, fig. 13 a p. 109), giunto in Italia nel tardo Ottocento, e della coppia analoga nel Museo Duca di Martina di Napoli (Ambrosio 1984, n. I.3; Caterina 1999, pp. 120, 122). Infine, è giusto far notare che, a parte la rottura e ricomposizione del pezzo di Palazzo Pitti al n. inv. 4, la qualità di questi due esemplari fiorentini non è alta, soprattutto se messa a confronto con quella invece altissima di altri esemplari noti di questa tipologia. Questa statuetta ha certamente provenienza granducale, rintracciata nell’inventario dei Magazzini di Palazzo Vecchio del 1815. Riguardo alla sua storia fiorentina precedente si possono fare solo delle ipotesi, poiché la ‘catena’ inventariale si interrompe durante l’occupazione napoleonica della Toscana e le descrizioni negli inventari settecenteschi sono troppo succinte e generiche perché si possano associare senza dubbi a specifici oggetti. Tuttavia, come suggerito in altre occasioni, la nostra sensazione è che questa sculturina facesse parte delle collezioni medicee (Morena 2005, p. 233, n. 160, tav. XXXIV; Morena, in Firenze 2006a, p. 258, n. 114). La statuetta – in porcellana molto bianca modellata a tutto tondo, rivestita di invetriatura trasparente e decorata a smalti rosso, verde, indaco, giallo e nero stesi al di sopra della coperta vetrosa – raffigura una dama giapponese stante, vestita di ampio soprabito di tipo uchikake (v. cat. I.60). Sull’abito si dispongono alcuni decori floreali e macchie di colore che simulano un ornato tessile più complesso. Per il tipo di smalti e per il tipo di pasta ceramica, questa sculturina è esemplare della cosiddetta tipologia Kakiemon. Prodotta anch’essa in alcune delle numerose fornaci e botteghe di decoratori nell’area di Arita (antica provincia di Hizen, isola di Kyūshū), la porcellana Kakiemon rappresenta una delle migliori produzioni ceramiche del Giappone. Per la sua elevatissima qualità essa fu particolarmente apprezzata in Europa fin dal settimo-ottavo decennio del Seicento, epoca in cui iniziò ad essere importata grazie ai traffici della Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC). Nei decenni successivi, e per tutto il Settecento, numerose fabbriche europee di ceramiche prima e di porcellane dopo, inserirono nei loro repertori decorativi motivi desunti dal Kakiemon giapponese. Cio è vero anche per le fabbriche italiane, pressoché tutte, da Vezzi e Cozzi di Venezia a Ginori di Firenze, da Capodimonte alle manifatture faentine. Tuttavia, a onor del vero, si deve notare che questa sculturina delle collezioni fiorentine non rende giusto merito alla qualità altissima della produzione Kakiemon. Contemporaneamente, si può però affermare che il soggetto della ‘Dama giapponese’ non è tra quelli più comuni nella pur varia tematica presa in considerazione dagli artisti del Kakiemon; molto più spesso esso fu trattato nella piccola stuatuaria di stile ‘Imari’ (v. cat. III.35). Francesco Morena Francesco Morena 371 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 10 Asceta buddhista Arita, periodo Edo, seconda metà del XVII secolo porcellana ‘biscuit’, parzialmente invetriata, h. cm 16 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv OdA 1911 n. 11 Questa scultura è descritta con certezza negli inventari granducali dal 1815, anno in cui si trovava nei Magazzini di Palazzo Vecchio (Morena 2005, p. 232, n. 159). Tuttavia, è molto probabile che essa fosse presente nelle collezioni fiorentine già da molto tempo prima. Come si è ipotizzato in un’altra occasione (Morena, in Firenze 2006a, p. 258, n. 115), è possibile che essa facesse parte delle collezioni medicee e che, per un periodo, si trovasse nella raccolta di Anna Maria Luisa de’ Medici (1667-1743). La statuetta raffigura un uomo seduto, con la gamba destra sollevata al ginocchio sui cui si posa la mano destra, mentre il braccio sinistro è disteso. Il personaggio, vestito di una semplice stola che lascia nudi gran parte del torso e del ventre e il braccio sinistro, ha corpo smagrito fino a sembrare emaciato; nonostante ciò, sul volto non rasato si apre un grande sorriso a bocca aperta; calvo, ha orecchie molto grandi dai lobi allungati. Per il suo parco abbigliamento e per le sue tipiche caratteristiche fisiche, si può riconoscere nel personaggio raffigurato un rakan. I rakan (in cinese lohan e in sanscrito arhat) sono santi asceti della dottrina buddhista che, pur avendo raggiunto l’Illuminazione attraverso le pratiche della meditazione e del romitaggio, hanno rinunciato a ascendere al Paradiso per restare sulla terra aspettando l’arrivo di Maitreya (in giapponese Miroku), il Buddha del Futuro. Nel loro eterno soggiorno terreno i rakan si dedicano alla diffusione della Legge e dei precetti della dottrina: la loro buona condotta e i loro giusti comportamenti sono considerati esemplari dai fedeli. Nell’ambito della tradizione artistica, il tema del rakan ha avuto nei secoli passati un grande successo, dapprima in Cina e quindi in Giappone. Gli artisti e gli artigiani che lo hanno affrontato hanno sperimentato le possibilità artistiche delle contorsioni anatomiche e delle variegazioni estreme delle espressioni facciali. I muscoli in tensione, le ossa sporgenti e i tratti distorti del volto, sono elementi che hanno ispirato moltissime opere d’arte dell’Estremo Oriente, dipinti e sculture nei materiali più vari, dal legno alla pietra, dal metallo ai materiali organici (v. cat. I.95 e I.96). Forse i rakan più celebri nell’intera storia dell’arte giapponese sono quelli che compongono, insieme a molte altre figure del pantheon buddhista, la scena di Nirvana all’interno della Pagoda del tempio Hōryūji (non lontano da Nara), completata nel 711. Queste straordinarie figure, di superba espressività, sono modellate in argilla su scheletro di legno e tessuti. Gli anonimi artisti che realizzarono questo capolavoro preferirono l’argilla poiché essa, tra tutti i materiali a loro disposizione, era quello che meglio si prestava a rendere le contorsioni corporali e mimiche dei rakan. Per la stessa ragione, forse, i ceramisti giapponesi hanno inserito nel loro repertorio la figura dell’asceta buddhista, potendo contare sulla malleabilità della porcellana cruda per dettagliare le distorsioni di corpi segnati dalla sofferenza fisica. La combinazione in un unico oggetto ceramico di zone ‘a biscuit’ (ovvero non invetriate) e zone ricoperte di invetriatura verde di tipo ‘céladon’ è un’invenzione dei ceramisti cinesi di Longquan messa a punto in epoca Song (960-1279), utilizzata in epoca Yuan (1279-1368) anche per piccole statuette modellate a tutto tondo. Tale tecnica fu quindi ripresa dai ceramisti giapponesi nel Seicento, per la realizzazione di piccole sculture come questa di Palazzo Pitti. D’altronde, l’alternarsi del tono aranciato e la ruvidezza, caratteristici del ‘biscuit’ destinato alle parti carnose del corpo del personaggio, con la liscia vetrina verde riservata alla stola, ben rende, con realismo, le peculiarità iconografiche di questo soggetto. Le tecniche per l’invetriatura céladon furono sperimentate dai ceramisti giapponesi intorno alla metà del XVII secolo, in particolare nelle fornaci di Maruo e di Hasami, ubicate nell’area di Arita, cittadina nell’antica provincia di Hizen (isola di Kyūshū) dove si producevano soprattutto porcellane destinate all’esportazione verso gli altri paesi asiatici e verso l’Europa. I céladon giapponesi di Arita erano esportati quasi esclusivamente verso l’area indonesiana, e solo pochi pezzi raggiunsero allora l’Occidente. Tale fortuna ‘pan-asiatica’ delle porcellane giapponesi con invetriatura céladon è conseguenza anche del drastico calo di produzione delle fornaci della Cina, a quel tempo sconvolta per tutto il suo territorio da crisi militari, politiche, economiche e sociali dovute all’avvicendamento tra le dinastie Ming (13681644) e Qing (1644-1911). Per una serie di riferimenti bibliografici riguardanti sculture analoghe a questa si legga Morena 2005, p. 232, n. 159. Fancesco Morena 372 373 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 11 Piattino Arita, periodo Edo, ultimo quarto del XVII secolo porcellana di stile Kakiemon dipinta a smalti policromi sopra coperta, diam. cm 11,7 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv AcE 1911 n. 312 La storia fiorentina di questo piattino, e dell’altro esemplare con cui costituisce coppia anch’esso conservato nel Museo degli Argenti con lo stesso numero di inventario, è nota con certezza solo fino al 1883, anno in cui compare registrato nell’inventario della Frutteria di Palazzo. In quest’ultimo documento risulta un rimando numerico a un precedente inventario non ancora individuato (Morena 2005, p. 234, n. 162). Tuttavia, è molto probabile che questi due piattini facessero parte delle collezioni granducali già da lungo tempo, molto probabilmente dal periodo mediceo (ante 1743). Questo tipo di piattino, infatti, cominciò a raggiungere l’Europa già prima della fine del XVII secolo. Allora il traffico della porcellana giapponese era gestito esclusivamente dai rappresentanti della Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC), unici occidentali ai quali il governo nipponico aveva concesso il permesso di intrattenere rapporti commerciali nell’arcipelago. Le basi logistiche degli olandesi in Giappone si trovavano sulla piccola isola di Dejima, nel golfo di Nagasaki (v. cat. II.43-II.44). Non lontano quindi da Arita, cittadina nella quale erano ubicate le cave per l’estrazione delle terre porcellanose, le fornaci, le botteghe dei decoratori e i negozi nei quali si vendevano le porcellane giapponesi destinate all’esportazione verso il Sud Est asiatico e l’Europa. Per il tipo di pasta ceramica e per la particolare selezione di smalti usati per la decorazione (blu, verde, rosso, giallo, nero, stesi al di sopra dell’invetriatura trasparente), questo piattino è esemplare della cosiddetta tipologia ‘Kakiemon’. Secondo un’antica tradizione giapponese, questo nome deriverebbe da quello di Sakaida Kakiemon (1596-1666), un ceramista al quale si attribuisce un precoce utilizzo della tecnica della pittura a smalti policromi, presunto inventore di una caratteristica tavolozza di grande brillantezza. A parte queste notizie, quel che è certo è che in alcune fornaci di Arita, e in particolare in quelle ubicate nei pressi di Nangawara, negli anni settanta del Seicento si cominciò a produrre un vasellame dalla finissima pasta di porcellana, conosciuta come nigoshide (letteralmente “bianco latte”), decorato a smalti policromi stesi al di sopra di una coperta vetrosa perfettamente trasparente. La qualità della porcellana ‘Kakiemon’ è solitamente superba, senz’altro la migliore che sia stata prodotta ad Arita tra la fine del XVII e i primi decenni del XVIII secolo. Esportata in grandi quantità in Europa, fu da subito apprezzata per le sue peculiarità, tanto che nel Settecento molte manifatture ceramiche occidentali inserirono nei loro repertori prodotti che la imitavano. Dal punto di vista dell’ornato, la porcellana ‘Kakiemon’ si distingue dalle altre coeve tipologie di vasellame giapponese da esportazione per alcune sue specifiche caratteristiche. Prima di tutto un certo gusto ‘pittorico’ dei suoi decori. Quasi mai, infatti, le composizioni sui pezzi ‘Kakiemon’ si dispongono sulla superficie con scopo riempitivo; esse hanno, invece, una personalità propria, con una suddivisione degli spazi, tra pieni e vuoti, che ricorda molto da vicino le regole estetiche della pittura estremo-orientale. Si guardi, ad esempio, la scena che orna il fondo di questo piattino di Palazzo Pitti: gran parte degli elementi (un ramo di pruno fiorito, altri fiorellini, rocce e il piano terroso) si trovano sulla sinistra, mentre lo spazio destro è occupato solo da un uccellino in volo. Eppure, proprio in questo evidente alternarsi di ‘pieno’ e ‘vuoto’ risiede l’equilibrio della composizione, di perfetto gusto giapponese. Francesco Morena 374 375 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 12 Piatto Arita, periodo Edo, inizio del XVIII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, diam. cm 49 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv AcE 1911 n. 1302 Questo piatto, insieme a quello simile con cui costituisce coppia (inv. AcE 1911 n. 1303: Firenze 1980, p. 138, n. 3) anch’esso conservato a Palazzo Pitti, è stato rintracciato con certezza fino all’inventario di Confettureria del 1816 (Morena 2005, p. 234, n. 163, tav. XXXV). Per periodi precedenti le sue tracce si perdono, a causa soprattutto dell’interruzione della ‘catena’ inventariale durante gli anni dell’occupazione napoleonica della Toscana. Tuttavia, è molto probabile che esso facesse parte delle collezioni granducali già da molto, forse anche dal tempo dei Medici (ante 1743). Il piatto ha grandi dimensioni. Otto lievi spigolature si susseguono lungo l’orlo così che la sua forma da circolare si fa ottagonale. La decorazione è stata dipinta in blu di cobalto (in varie gradazioni di tono) al di sotto dell’invetriatura trasparente, smalto rosso e diffusi tocchi di oro stesi al di sopra della coperta vetrosa. La scena raffigurata si svolge sull’intera superficie a vista del piatto, senza soluzioni di continuità. Consiste in alcune figure all’aperto, intorno alle quali si dispongono tre alberi di ciliegio fastosamente in fiore. Il gruppo è protetto dagli sguardi indiscreti da una cortina in tessuto tenuta alta da una serie di pilastrini. Oltre questo riparo, in lontananza, si distende un paesaggio collinare con alberi e alcuni padiglioni. I personaggi sono tutti impegnati in varie e piacevoli occupazioni: due uomini distesi ascoltano la dolce musica di uno shamisen (v. cat. I.76) suonato da una dama, mentre un’altra figura femminile porge una tazzina di sake a un altro uomo; nei pressi dei due, a debita distanza, una giovane attendente osserva la scena pronta ad intervenire se richiestole; vicino, un’altra coppia di uomo e donna scaldano la bevanda utilizzando alcuni contenitori e un braciere; un cagnetto si gode la scena. Gli alberi, la campagna, le posizioni rilassate, la musica, le vivande, tutti gli elementi della scena riportano l’osservatore odierno a un giorno di una primavera di circa trecento anni fa, durante il quale un gruppetto di gaudenti giapponesi si recò in campagna per godersi lo spettacolo naturale della fioritura dei ciliegi. Come loro, e come allora ora, moltissimi giapponesi considerano l’hanami, la scampagnata per osservare la fioritura, un evento imperdibile dell’anno, per rendere onore alla straordinaria bellezza della Natura e nel contempo per condividere insieme i piaceri mondani del cibo, delle bevande, del riposo e della musica. Il tema delle scampagnate all’aperto fu uno dei prediletti dai protagonisti dell’Ukiyo-e (letteralmente “le immagini del mondo fluttuante”), movimento artistico sviluppatosi in epoca Edo (1615-1868) (v. cat. I. 68I.72). I pittori dell’Ukiyo-e raccontarono attraverso immagini esplicite la vita gaudente degli abitanti delle maggiori città del paese, i quali amavano più di tutto frequentare case di prostituzione e teatri di Kabuki, tanto noncuranti del futuro quanto invece immersi nell’attimo irripetibile del presente. Per questo, essi non mancarono di inserire nel proprio repertorio di immagini le scampagnate dell’hanami, organizzate spessissimo dai vivaci viveurs giapponesi, i quali si facevano accompagnare da intrattenitrici professioniste, geisha che erano abili nel far trascorre piacevolmente il tempo libero di coloro i quali potevano permettersi di ingaggiarle. La scena raffigurata su questo piatto di Palazzo Pitti appartiene al repertorio dell’Ukiyo-e non solo per il tema trattato ma, soprattutto, per il suo stile pittorico. Si notano infatti stringenti affinità compositive e stilistiche tra questa scena e l’Ukiyo-e, in particolare con l’opera di Hishikawa Moronobu (?-1694) che di questo genere artistico fu uno dei principali protagonisti, e che in più occasioni trattò proprio il tema dell’hanami. La sensazione che la scena su questo piatto possa essere stata ispirata, almeno nei suoi tratti generali, da una composizione di Moronobu, o di uno dei numerosi suoi allievi, imitatori e seguaci, è d’altronde plausibile anche per questioni cronologiche, considerando che questa porcellana fu dipinta verso l’inizio del Settecento, qualche anno dopo la morte del pittore. Il piatto fu realizzato in una delle numerose fornaci di Arita (antica provincia di Hizen, isola di Kyūshū), cittadina nella quale – tra la metà del Seicento e i primi decenni del Settecento – si produceva soprattutto vasellame destinato all’esportazione verso gli altri paesi dell’Asia orientale e verso l’Europa. Nel repertorio dei ceramisti di Arita i temi dell’Ukiyo-e trovarono adeguato spazio, anche se non furono mai prevalenti. Soprattutto ebbe successo il tema della bijin, ovvero la “beltà femminile” (v. cat. III.40), con la figura isolata di una dama, anche in compagnia di un’altra figura femminile, in un’ambientazione all’aperto; il soggetto della dama fu usato dagli stessi ceramisti anche nella piccola statuaria (v. cat. III.8, III.35). Più raro è invece l’utilizzo di immagini così complesse e circostanziate come quella che compare nel piatto ora in discussione. Per questo, ancora, è possibile che una scena del genere sia la riproduzione di una specifica opera dell’Ukiyo-e, o almeno una rivisitazione molto vicina all’originale. Francesco Morena 376 377 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 13 III. 14 Piatto Piatto Arita, periodo Edo, inizio del XVIII secolo porcellana di tipo Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, diam. cm 36 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv AcE 1911 n. 1288 Nei documenti fiorentini la storia di questo piatto, e di quello analogo con cui costituisce coppia (inv. AcE 1911 n. 1289), anch’esso conservato nel Museo degli Argenti di Palazzo Pitti, si segue nei dettagli solo fino all’inventario di Confettureria del 1840. Per i periodi precedenti essi sono registrati insieme in un gruppo di molti esemplari, alcuni dei quali provenienti dai Magazzini di Palazzo Vecchio, altri da Pisa. Queste descrizioni più antiche sono però troppo generiche perché si possano fare affermazioni certe sulla provenienza specifica dei piatti (Morena 2005, p. 237, n. 169). Si può comunque essere certi che essi abbiano una provenienza granducale, ed è probabile che siano a Firenze dal tempo dei Medici (ante 1743). Per il tipo di decorazione questo piatto è esemplare della tipologia ‘Imari’, cosiddetta dal nome del porto nei pressi di Nagasaki dal quale salpavano le navi cariche di questo vasellame alla volta degli altri porti commerciali del Giappone prima, quindi verso quegli asiatici e infine verso l’Europa. Questa porcellana da esportazione era prodotta nelle fornaci della non lontana cittadina di Arita (antica provincia di Hizen, isola di Kyūshū). L’intera sua superficie è dipinta in blu di cobalto sotto coperta, al quale si aggiungono ampie campiture di smalto rosso, radi tocchi di nero e diffusi tocchi di oro, tutti stesi al di sopra dell’invetriatura trasparente. La pagina decorativa si compone di un grande medaglione al centro, intorno al quale si dispongono radialmente otto pannelli ornati con composizioni floreali e tappeti geometrici con due damine a sovrapporsi. Al centro del fondo, tra rametti fioriti, si vede uno scudo di tipo araldico sormontato da un pomposo serto di foglie barocche. 378 Arita, periodo Edo, fine del XVII - inizio del XVIII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, diam. cm 24,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv AcE 1911 n. 1279 Pur non potendo essere associato a alcuna specifica famiglia o compagnia europea, proprio lo scudo araldico costituisce l’elemento di maggiore interesse di questo piatto. Mentre infatti le porcellane cinesi con stemmi di famiglie europee sono numerosissime, il vasellame giapponese con armi occidentali è estremamente raro. Solitamente i decoratori giapponesi ai quali veniva richiesto un vasellame con blasoni si limitavano a realizzare tutta la cornice ornamentale e il perimetro dello scudo. Quest’ultimo, veniva poi completato in Europa, utilizzando prevalentemente smalti a freddo. Spesso questo procedimento era usato anche dai ceramisti cinesi. A conferma di ciò, esistono alcuni piatti di porcellana giapponese nei quali l’alloggiamento per lo stemma è rimasto vuoto (vedi, ad esempio: Londra 1990, n. 232; Arita 2000, p. 45, n. 64; Jörg 2003b, pp. 231-232, n. 294), mentre tra i pezzi nei quali questo è stato riempito si ricorda quello con lo stemma dei Van Baren conservato nel museo di Groningen (Londra 1990, p. 220, n. 231) e quello con un blasone non identificato nel Metropolitan Museum di New York (New York 1989, p. 93, n. 65), oltre ad un certo numero di esemplari con lo stemma della Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC) (v. fig. 1 a p. 256). Tuttavia, non è certo che lo stemma su questo piatto di Palazzo Pitti sia in origine stato concepito per essere poi completato in Europa, considerando che nello scudo già compaiono ornati floreali di gusto giapponese che nulla hanno a che vedere con l’araldica europea. Potrebbe essere infatti che i decoratori nipponici si siano ispirati autonomamente ai blasoni occidentali solo per realizzare una composizione ornamentale di gusto europeo, senza specifica commissione. Francesco Morena Questo piatto ha provenienza granducale, rintracciato con certezza fino all’inventario dei magazzini di Palazzo Vecchio compilato nel 1815 (Morena 2005, p. 238, n. 171). Per periodi precedenti la sua identificazione è piuttosto problematica, in primis a causa dell’interruzione della ‘catena’ inventariale durante il periodo napoleonico, quindi per la genericità delle descrizioni delle porcellane negli inventari settecenteschi. Tuttavia, è molto probabile che esso si trovi a Firenze da molto tempo, forse dal periodo dei Medici (ante 1743). A sezione circolare, con parete curva e orlo leggermente estroflesso, il piatto è dipinto in blu di cobalto al di sotto della coperta vetrosa, smalto rosso e diffusi tocchi d’oro stesi al di sopra dell’invetriatura trasparente. I toni del blu e del rosso sono più o meno diluiti per la resa di diverse gradazioni e sfumature. La decorazione si svolge prevalentemente sulla superficie interna. Al centro del fondo è presente un medaglione circolare ornato con tralci di crisantemo (kiku), sul quale si sovrappone una riserva a contorno polilobato che ospita uno scorcio di paesaggio con cascata, case e alberi. Due altre riserve di forma simile si vedono anche sulla parete, anch’esse ornate con analoghi paesaggi. Tutt’intorno, sul resto della superficie della parete, si dispongono composizioni di peonie (botan) e altri fiori, alle quali si aggiungono due foglietti di carta oblunghi, simili a quelli (tanzaku) usati per scrivere poesie. Per tipo d’impaginazione, scelta degli elementi della decorazione e uso di toni cromatici piuttosto tenui, questo piatto mostra caratteristiche ornamentali di gusto accentuatamente giapponese. Tuttavia, esso era un prodotto destinato all’esportazione verso l’Europa, realizzato tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento in una delle fornaci di Arita, cittadina nell’isola di Kyūshū (antica provincia di Hizen) che da sempre ospita le maggiori manifatture di porcellane del Giappone. Per il tipo di colori utilizzati (blu, rosso e oro), questo piatto è esemplare della famiglia ‘Imari’, cosiddetta dal nome del porto nei pressi di Nagasaki, non lontano da Arita, dal quale salpavano le navi cariche di questo vasellame alla volta degli altri paesi dell’Asia orientale e poi verso l’Europa. Questo commercio era allora gestito quasi esclusivamente dagli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali (VOC), unici occidentali ai quali il governo giapponese aveva concesso l’autorizzazione a svolgere un certo volume di traffici con gli isolani. Tra la metà del XVII e i primi decenni del XVIII secolo, enormi quantità di porcellane giapponesi raggiunsero Amsterdam. Dall’Olanda venivano poi smistate in tutta Europa, entrando a far parte dell’arredo di moltissime residenze nobiliari. Il successo in Europa di questa porcellana giapponese fu straordinario, soprattutto perché i suoi colori, le sue forme e le sue ricche decorazioni ben si accordavano con il fastoso gusto barocco che allora andava per la maggiore. Francesco Morena 379 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 15 Bacile Arita, periodo Edo, inizio del XVIII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, h. cm 9,5, diam. cm 21,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv AcE 1911 n. 1174 La storia fiorentina di questo bacile si segue con certezza solo fino al 1840, anno in cui è registrata nell’inventario di Confettureria in un gruppo di diciannove esemplari, alcuni dei quali provenienti dai magazzini di Palazzo Vecchio, altri da Pisa (Morena 2005, p. 241, n. 176; Morena, in Firenze 2006a, p. 262, n. 123). Per i periodi precedenti la ricostruzione si complica, sia per l’interruzione della ‘catena’ inventariale durante l’occupazione napoleonica della Toscana, sia per la difficoltà di interpretare le generiche e succinte descrizioni delle porcellane negli inventari settecenteschi. Tuttavia, è molto probabile che esso fosse presente a Firenze da molti decenni, forse anche dal tempo dei Medici (ante 1743). Posante su base ad anello, il bacile ha pareti e orlo sagomati in una serie di sgonfi dall’andamento regolare. All’interno e all’esterno si dispone una decorazione floreale dipinta in blu di cobalto al di sotto della coperta vetrosa, smalti rosso, verde in due tonalità, giallo e nero stesi al di sopra dell’invetriatura trasparente, ai quali si aggiungono diffusi tocchi d’oro. Tra i fiori si riconoscono peonie (botan), crisantemi (kiku), pruno (ume), loto (hasu) e miglio (awa), tutti dipinti con evidente piglio naturalistico. La qualità della pittura e della pasta ceramica, perfettamente bianca, sottile e molto sonora, fanno di questo bacile un esempio di quale livello artistico potessero raggiungere i ceramisti giapponesi di Arita, cittadina nell’isola di Kyūshū (antica provincia di Hizen) nella quale erano ubicate le maggiori manifatture di porcellana del paese. Esso appartiene alla tipologia ‘Imari’, cosiddetta dal nome del porto non lontano da Arita, dal quale salpavano le navi cariche di questa porcellana alla volta dapprima di altri porti del Giappone, quindi di altre località marittime dell’Asia orientale e infine dell’Europa. Questo commercio era allora quasi esclusivamente gestito dagli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali (VOC), unici occidentali ai quali il governo giapponese aveva concesso di condurre un certo volume di traffici con gli isolani. La presenza degli smalti verde, giallo e nero – combinati con il blu, il rosso e l’oro, colori che compongono la più classica tavolozza dell’‘Imari’ – è un evidente elemento di affinità con la porcellana cinese della ‘famiglia verde’, prodotta prevalentemente tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, durante il regno dell’imperatore Kangxi (regno 1662-1722), nello stesso periodo in cui venne realizzato anche questo bacile di Palazzo Pitti. Dopo alcuni decenni di difficoltà, coincidenti con la crisi politica, economica e militare causata dall’avvicendamento tra i regnanti della dinastia Ming (1368-1644) e quelli della dinastia Qing (1644-1911), le fornaci cinesi di Jingdezhen (provincia dello Jiangxi), da sempre le più importanti del paese, ripresero alacremente la produzione, riconquistando in breve quel mercato dell’esportazione che nel precedente lasso di tempo era stato gestito dai ceramisti giapponesi. All’inizio del Settecento le manifatture cinesi si imposero sia con alcuni prodotti, come l’‘Imari cinese’, che imitavano esplicitamente le porcellane giapponesi, venduti però a prezzi notevolmente inferiori, sia con alcune produzioni caratterizzate da novità tecniche e stilistiche messe a punto in proprio. La ‘famiglia verde’ è un’evoluzione di prodotti ceramici della dinastia Ming come la famiglia wucai (letteralmente “cinque colori”), e insieme il frutto di una mirata ricerca di migliorie per soddisfare il gusto degli acquirenti occidentali. All’inizio del XVIII secolo, i ceramisti giapponesi mostrarono un certo interesse per questa produzione cinese, realizzando una certa mole di vasellame simile a quella per alcuni spunti decorativi. Pur restando un prodotto fermamente giapponese per gusto ornamentale e qualità ceramica, questo bacile è testimonianza di questo continuo scambio stilistico con la vicina Cina. Francesco Morena 380 381 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 16 III. 17 Vaso Vaso Arita, periodo Edo, fine del XVII - inizio del XVIII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, h. cm 30 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Camera della Regina, Inv OdA 1911 n. 1302 Si può ripercorrere a ritroso con certezza la storia nelle collezioni fiorentine di questo vaso fino al 1785-1786, allorché esso – oppure il suo gemello (inv. OdA 1911 n. 1303) anch’esso conservato a Palazzo Pitti – fu utilizzato dal pittore Antonio Cioci (1732 circa-1792) come modello per una Natura morta con vasi (Firenze, Museo dell’Opificio delle Pietre Dure) (Morena 2004a, pp. 53-54; Morena 2005, p. 255, n. 198). Questa composizione fu qualche tempo dopo trasposta dagli artisti della Galleria dei Lavori su un piano in pietre dure, posato su un tavolo da parete oggi ubicato nella Sala dei Pappagalli negli Appartamenti Reali di Palazzo Pitti (inv. Mobili Artistici 1911, n. 780: Colle, in Firenze 2006b, n. 104). Tuttavia, è probabilissimo che questa coppia di vasi facesse già parte delle collezioni medicee; forse, come si è ipotizzato altrove (Morena, in Firenze 2006a, p. 266, n. 132), appartenne per un periodo a Anna Maria Luisa de’ Medici (1667-1743), Elettrice Palatina. Questo vaso esemplifica la produzione delle fornaci di Arita tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento destinata all’esportazione verso l’Europa. Ubicata nell’isola di Kyūshū e non lontana da Nagasaki, Arita divenne nel volgere di pochi decenni il maggior centro di produzione di porcellane del Giappone. Dal 1650 circa iniziarono gli ordini di porcellane della Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC). La mole di vasellame giapponese che raggiunse l’Europa nel periodo compreso tra la metà del Seicento e i primi due decenni del Settecento fu impressionante, con molte migliaia di pezzi movimentati ogni anno. Da Arita queste porcellane venivano dapprima spostate nel non lontano porto di Imari, nel quale si caricavano le navi dirette verso gli altri porti giapponesi, tra cui quello di Nagasaki dove sostavano i velieri olandesi. Caricato il vasellame, le navi olandesi salpavano per altri importanti porti dell’Asia orientale, nei quali le porcellane erano smistate, in parte dirette verso l’Europa e in parte verso varie zone dell’Estremo Oriente. La più comune definizione per questa tipologia di vasellame giapponese da esportazione è proprio ‘Imari’, dal nome di quel porto nella provincia di Hizen. La tavolozza cromatica utilizzata per la decorazione di questo vaso è quella più tipica della famiglia ‘Imari’: blu di cobalto al di sotto dell’invetriatura trasparente, smalto rosso e diffusi tocchi d’oro stesi invece al di sopra della coperta vetrosa. Anche i motivi che lo ornano sono tra quelli più caratteristici di questo tipo di porcellana giapponese: tappeti floreali con corolle di peonia raccordate da esuberanti racemi, sui quali si dispongono ampie riserve a cornice polilobata con composizioni di fiori in vaso oppure scorci di paesaggi lacustri, con padiglioni, barchette e alberi. La loro forma, invece, è piuttosto rara nell’ambito della produzione ‘Imari’, con sezione quadrata che ha massima ampiezza verso la bocca. Solitamente, infatti, le forme di questi vasi giapponesi sono quella ‘a cornetto’ oppure quella della ‘potiche’, esemplari delle quali formavano insieme le cosiddette garniture de cheminée (v. cat. III.18-III.19). Francesco Morena 382 Arita, periodo Edo, fine del XVII secolo - inizio del XVIII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, h. cm 54 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv OdA 1911 n. 1286 Questo vaso è documentato con certezza a Palazzo Pitti fin dal 1815 (Morena 2004a, pp. 50-51, fig. 6; Morena 2005, p. 255, n. 197). Tuttavia, si può affermare che esso facesse parte delle raccolte fiorentine già da prima, quasi sicuramente dal tempo dei Medici. A sezione circolare, il suo diametro si amplia gradualmente fino a divenire massimo nei pressi della spalla; poi riprende a restringersi verso il collo, che ha forma cilindrica. In origine aveva sicuramente un coperchio di forma emisferica, a tutt’oggi però non rintracciato. La decorazione è dipinta in blu di cobalto sotto coperta, smalti rosso, verde, melanzana e nero applicati al di sopra dell’invetriatura trasparente, ai quali si aggiungono diffuse stesure dorate. L’esuberante motivo ornamentale consiste in un tappeto di fiori di vario genere sul quale, in corrispondenza del corpo, si sovrappongono quattro grandi riserve a cornice polilobata. All’interno di ognuna di queste ultime si svolgono altrettante composizioni floreali di vario genere. Verso il piede si vede una banda di foglie lanceolate, mentre sulla spalla si dispongono rami fioriti di ciliegio. Il collo ha una serie di corolle di crisantemo stilizzate sovrapposte a un tappeto geometrico di losanghe. Questo vaso esemplifica al meglio la porcellana giapponese di tipo ‘Imari’, così nota dal nome del porto dal quale salpavano le navi cariche di questo tipo di vasellame, destinato agli altri paesi dell’Asia orientale e, principalmente, all’Europa. Imari si trova non distante da Arita, la cittadina nell’isola di Kyūshū nella quale erano ubicate le cave per l’estrazione della terra porcellanosa, le fornaci per la cottura e le botteghe per la decorazione di questo prodotto ceramico da esportazione. Questo esemplare si distingue per la presenza di diversi smalti colorati che accompagnano i toni più comuni della porcellana ‘Imari’, ovvero il blu, il rosso e l’oro. La scelta di questi colori supplementari fu molto probabilmente ispirata ai decoratori nipponici dalle contemporanee evoluzioni della porcellana cinese, realizzata a Jingdezhen (provincia dello Jiangxi) durante il regno dell’imperatore Kangxi (regno 1662-1722). Non si possono infatti non notare le evidenti affinità tra la tavolozza usata per questo vaso giapponese di Palazzo Pitti e quella utilizzata per il vasellame cinese della ‘famiglia verde’, cosiddetto per un certo prevalere nella decorazione degli smalti di tonalità verde, ai quali si affiancano altri smalti policromi per composizioni di grande esuberanza cromatica. Francesco Morena 383 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 18 Garniture con tre vasi Arita, periodo Edo, inizio del XVIII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, h. cm 64 (nn. 730 e 731) e h. cm 60 (n. 190) Firenze, Palazzo Pitti: Museo degli Argenti, Inv AsE 1912 n. 190; Appartamenti Reali, Sala del Trono, Inv OdA 1911 nn. 730-731 Si può affermare con un certo margine di certezza che in origine questi tre vasi non solo siano stati concepiti insieme in Giappone, ma che abbiano condiviso analoghe vicende storiche subito dopo aver raggiunto Firenze. Tuttavia, negli inventari fiorentini in cui sono stati individuati essi non sono descritti negli stessi ambienti di Palazzo Pitti. I due vasi a spalla bombata risultano in alcune sale di rappresentanza (il Salone di Giovanni da San Giovanni, attuale Museo degli Argenti, e le Stanze di Pietro da Cortona, attuale Galleria Palatina) per lo meno dal 1791, mentre il vaso ‘a tromba’ si trovava in Frutteria nel 1878, ‘scaricato’ da un altro inventario più antico finora non individuato (Morena 2005, pp. 248-249, nn. 185-186). Non v’è motivo però di dubitare che essi si trovassero nella reggia fiorentina da molto tempo prima, quasi certamente appartenuti alla famiglia Medici, come già ipotizzato in altra occasione (Morena 2004b, p. 81). A Palazzo Pitti è presente anche un altro vaso bombato del tutto analogo per misure e decorazione ai due qui analizzati, con i quali condivide anche la medesima storia fiorentina (Appartamento degli Arazzi, inv. OdA 1911 n. 1129: Morena 2005, p. 248, n. 185). Possiamo perciò desumere che un tempo esistesse anche un altro vaso ‘a tromba’ simile al n. 190 qui discusso, purtroppo non rintracciato. I cinque vasi insieme avrebbero in origine costituito una cosiddetta garniture de cheminée. Questa definizione identifica un gruppo di vasi di porcellana che durante il periodo estivo era sistemato all’interno della bocca dei grandi camini spenti delle residenze nobiliari europee, solitamente posizionato sui piani dei tavoli da parete durante l’inverno, quando invece i camini erano accesi. Di questo genere di alloggiamento nei camini abbiamo numerose testimonianze in documenti e incisioni del tempo, come ad esempio nei disegni di ‘Stanze delle Porcellane’ di Daniel Marot (1661-1752) e di Eosander von Göthe (1669-1728) (Londra 1990, figg. 12 e 14). A giudicare da queste immagini, i vasi che componevano una garniture non dovevano per forza appartenere a specifiche tipologie formali, e sappiamo anche che il loro numero non era fisso. Tuttavia, solitamente, esse si componevano di un minimo di tre pezzi fino ad un massimo di sette, quindi un numero dispari; le forme usate erano generalmente due, il vaso bombato e quello troncoconico. Il nucleo di tre vasi di Palazzo Pitti virtualmente ricostituito in questa occasione forma dunque una garniture che si può dire completa, nonostante l’ipotesi è che essa fosse in origine composta da almeno cinque pezzi. L’impressione conclusiva doveva essere straordinaria, per generosità delle forme e esuberanza ornamentale, qualità che certo ben si integravano con i fastosi allestimenti barocchi in voga in tutta Europa tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo. I ceramisti giapponesi concepirono questo genere di vasi ‘da esibizione’ su esplicita richiesta degli acquirenti olandesi della Compagnia delle Indie Orientali (VOC), unici occidentali ai quali il governo giapponese aveva concesso il permesso di svolgere una certa mole di traffici con i mercanti nipponici. Relegati nella piccola isola di Dejima, nel golfo di Nagasaki (v. cat. II.43, II.44), gli olandesi si rifornivano di questo vasellame dalla non lontana Arita (odierna prefettura di Saga), cittadina nella quale erano ubicate le più importanti fornaci di porcellana del paese. Le navi cariche di questa ceramica salpavano dal non lontano porto di Imari per dirigersi dapprima verso gli altri porti giapponesi, quindi alla volta di altri paesi dell’Asia orientale, e infine verso l’Europa. Per questo, per convenzione, questo genere di vasellame giapponese da esportazione è noto anche con il nome di ‘Imari’. La tavolozza cromatica più tipica dell’‘Imari’ giapponese si compone di blu di cobalto usato al di sotto della coperta vetrosa, smalto rosso e diffusi tocchi di oro stesi invece al di sopra dell’invetriatura trasparente. Colori che compaiono anche sui tre vasi che qui si discutono. La ricca decorazione mostra rigogliosi tralci di fiori di vario tipo, con crisantemi (kiku), peonie (botan), melograni (zakuro) e magnolie (mokuren), tra i quali si inserisce una staccionata di fusti di bambù (take) su cui si posano gru (tsuru) dal nobile portamento. Verso la base, sulla spalla e sul collo si dispongono fasce di pannelli a forma di toppa di serratura, anch’essi ornati all’interno con tappeti floreali di vario genere (Zenone Padula, in Appartamenti Reali 1993, pp. 236-237, n. III.18, nn. 730-731; Zenone Padula 1997, p. 40, nn. 730-731). Fino al più recente inventario di Palazzo Pitti del 1911, questi due vasi bombati (e anche l’altro analogo non illustrato in questa occasione) erano dotati di altrettanti coperchi dotati di presa a “leoncino tutto dorato”. Questi coperchi dovevano quindi avere forma emisferica, tesa leggermente inclinata verso il basso e presa a tutto tondo costituita da roccia sulla quale si posa un “leone cinese” (karashishi), di un tipo abbastanza comune nell’ambito della porcellana giapponese da esportazione. Francesco Morena 384 385 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 19 Garniture con tre vasi Arita, periodo Edo, inizio del XVIII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, h. cm 83 (n. 743) e 58 (nn. 1229912300) Firenze, Palazzo Pitti, Appartamenti Reali, Salotto Celeste, Inv OdA 1911 n. 743; Firenze, Villa della Petraia, Sala da Gioco, Inv MPP nn. 12299-12300 I tre vasi hanno tutti provenienza granducale e, molto probabilmente, si trovano nelle collezioni fiorentine fin dal tempo dei Medici (ante 1743) (Morena 2005, pp. 252-253, nn. 191 e 193). La storia della potiche si segue senza intoppi fino al 1815. Nell’Ottocento essa è sempre registrata insieme ad un altro esemplare analogo, con il quale ancora oggi costituisce coppia (Appartamenti Reali, Salotto Cinese, inv. OdA 1911 n. 744: Zenone Padula, in Appartamenti Reali 1993, p. 242, n. IV.24). Secondo gli inventari di Palazzo Pitti della prima metà dell’Ottocento questi due vasi furono sistemati per un periodo nel Salone di Giovanni da San Giovanni e prima in una delle stanze dipinte da Pietro da Cortona (odierna Galleria Palatina). Insieme a loro, nelle sale di rappresentanza della reggia fiorentina, vi erano anche altri simili vasi ‘da esibizione’, tra cui uno caratterizzato per identico decoro, oggi nella Sala del Trono degli Appartamenti Reali (inv. OdA 1911, n. 732), dotato però di coperchio diverso e non pertinente (Morena 2005, p. 252, n. 192). Di quest’ultimo esemplare si sa con certezza che è presente a Palazzo Pitti almeno dal 1791. I tre vasi condivisero quindi le loro vicende storiche per un lungo periodo. E possiamo ipotizzare, pur senza prove certe, che nei periodi più antichi essi fossero ubicati negli stessi ambienti che ospitavano i due vasi a tromba qui discussi. I cinque vasi insieme, ovvero le tre potiches e i due vasi cilindrici, costituivano quindi una cosiddetta garniture de cheminée davvero spettacolare. L’insieme fu smantellato prima del 31 ottobre 1856. Quel giorno, infatti, l’intagliatore Angiolo Barbetti e la ditta dei fratelli Cremoncini consegnarono a Palazzo Pitti “due grandiosi candelabri formati con quattro vasi del Giappone ciascuno e rapporti di legno intagliati e dorati, sono tenuti assieme detti candelabri da un pernio di ferro fatto a vite, servono nel Salone Benvenuti” (Morena 2005, p. 253, n. 193). Per realizzare i due candelabri furono quindi usati otto vasi in quattro coppie: due erano i due vasi a tromba oggi nella Villa della Petraia e qui analizzati, due erano le potiches giapponesi di stile ‘Imari’ oggi nel Museo degli Argenti (Morena 2005, pp. 245-246, n. 181), due erano i vasi di porcellana cinese della ‘famiglia verde’ anch’essi nel Museo degli Argenti (Morena 2005, p. 214, n. 131), infine, gli ultimi due erano una coppia di vasi a tromba di tipo ‘Imari’, forse quella oggi conservata nella Villa della Petraia (Morena 2005, p. 248, n. 184). Simili gruppi di vasi cinesi o giapponesi sono detti garniture de cheminée (v. cat. III.18) poiché nel SeiSettecento si usava esporli nelle bocche dei camini durante i periodi estivi, a fuochi spenti. Per il resto dell’anno essi erano sistemati su mensole oppure sul piano di tavoli da parete. Tali fastose composizioni di porcellane erano dunque allestite solo per il grande effetto ornamentale con cui si inserivano negli allestimenti barocchi allora in voga. E così successe anche a Palazzo Pitti. La decorazione sui tre vasi è del tutto analoga, solo adeguandosi alle due diverse forme del vaso bombato e del vaso a tromba. Essa si costituisce prevalentemente di un fitto tappeto di fiori di peonia (botan), sul quale si sovrappongono ampie riserve con i lati superiore e inferiore polilobati. All’interno di ognuna di queste si vedono dettagliati scorci di paesaggi, con montagne, rocce, alberi, specchi d’acqua, cascate e piccole abitazioni. I colori utilizzati sono il blu di cobalto, usato sotto coperta, gli smalti rosso e verde stesi al di sopra dell’invetriatura trasparente, ai quali si aggiungono diffuse campiture e tratteggi in oro. Questa tavolozza cromatica è quella più tipica della cosiddetta porcellana ‘Imari’. Imari è il nome del porto nell’isola di Kyūshū nel quale venivano caricate le navi del vasellame ceramico realizzato nelle non lontane fornaci di Arita, il più importante centro di produzione di porcellane del paese. Una parte consistente di questi manufatti era già in origine destinata all’esportazione verso l’Europa. Da parte occidentale questo commercio era gestito esclusivamente dagli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali (VOC) i quali, per ordine delle autorità giapponesi, potevano risiedere solo nella piccola isoletta di Dejima, nel golfo naturale di Nagasaki (v. cat. II.43, II.44). Tra la metà del Seicento e i primi decenni del Settecento enormi quantità di porcellane di Arita raggiunsero Amsterdam, da dove venivano poi smerciate in tutt’Europa. Francesco Morena 386 387 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 20 Cassettone a sportelli Francia, terzo quarto del XVIII secolo; Giappone, periodo Momoyama, fine del XVI - inizio del XVII secolo, con integrazioni del XIX secolo legno laccato e parzialmente dorato, madreperla, bronzo e marmo verde, cm 84×118×54 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17094 388 Questo straordinario arredo compare per la prima volta tra i mobili di Palazzo Pitti nel 1771, registrato in un inventario compilato in quell’anno (Morena 2004a, p. 47; Impey-Jörg 2005, p. 123, fig. 231 e p. 301, fig. 590; Morena 2005, p. 324, n. 291, tav. XLVI). Da allora è sempre rimasto nella reggia fiorentina. Faceva parte dell’originale allestimento del Salotto Cinese del Quartiere d’Inverno, messo in opera nel 1842 per esplicito volere della Granduchessa Maria Ferdinanda (1796-1865). Proprio nell’occasione di quell’utilizzo, questo mobile fu oggetto di un restauro portato a termine da Luigi Manetti (Colle 1992, p. 68, n. 4): segni dell’intervento sono tuttora ben visibili, soprattutto come reintegro delle scaglie di madreperla. L’arredo giunse quindi in Toscana, nelle collezioni granducali, poco tempo dopo la sua realizzazione, che si situa cronologicamente intorno alla metà del Settecento, esemplare di un incipiente gusto neoclassico evidente nelle linee sobrie della forma, ancora però memore delle divagazioni rocaille ben visibili nella cornice bronzea sul davanti. Molte delle caratteristiche di questo mobile fanno pensare che esso sia stato eseguito in Francia. Tuttavia, non è del tutto impossibile che possa trattarsi di una produzione italiana (Colle 1991, p. 54). Senz’altro europee sono però la struttura principale e le sue finiture in bronzo dorato. I pannelli che ornano il lato anteriore e i due fianchi sono invece di manifattura giapponese del periodo Momoyama (1573-1615), appartenenti a quel genere di lacche destinate al mercato dell’esportazione verso l’Occidente. La diffusa presenza di scaglie di madreperla nella decorazione di questi pannelli è una caratteristica specifica della fase più antica della produzione di “lacche per i Barbari del Sud” (Nanbannuri). Ovviamente le parti giapponesi di questo mobile facevano in origine parte di un altro genere di oggetto. I due laterali erano altrettante parti, frontali o laterali, di uno stipo, mentre il pannello centrale, diviso al centro per esigenze funzionali e sagomato lungo il perimetro per rientrare nella cornice in bronzo, molto probabilmente era in origine il grande sportello anteriore di uno stipo, di una ben nota tipologia di mobile giapponese per l’esportazione, solitamente caratterizzata per la presenza di un certo numero di cassettini. La pratica di inserire pannelli in lacca di produzione estremo-orientale in scheletri lignei di manifattura europea ebbe grande diffusione nel Settecento, soprattutto in Francia. Tuttavia, il più antico esemplare conosciuto di questa tipologia di arredo è la suite composta da specchiera, tavolino e due guéridons conservata nel Victoria & Albert di Londra (inv. W74A/1-1981), realizzata intorno al 1680 per la residenza di Althorp (Northamptonshire) di Robert Spencer (1641-1702), secondo conte di Sunderland, da artigiani inglesi che utilizzarono parti di lacche cinesi di tipo Coromandel e di lacche giapponesi Nanban. Anche gli ebanisti francesi cominciarono a sperimentare queste nuove soluzioni tecniche e estetiche verso la fine del Seicento. A tutt’oggi, però, non si conoscono arredi francesi di quel periodo nei quali siano incorporate parti di lacche estremo-orientali. Il più antico mobile continentale di questo tipo è perciò il cassettone attualmente conservato nel Louvre di Parigi, realizzato nel 1737 dall’ebanista Bernard II van Riesenburgh (1696-1766 circa) per le stanze della regina Maria Leszczynska nella reggia di Fontainebleau (Pradère 1989, pp. 194-195, fig. 187). La moda di adattare pannelli di lacca estremo-orientale in strutture di mobili europei non declinò per tutto il Settecento nonostante gli importanti cambiamenti di gusto che si successero in questo secolo, dal pomposo Barocco al sobrio Neoclassicismo, passando attraverso la leggerezza del Rococò. Tra gli arredi di questo tipo più noti vanno annoverati quelli realizzati intorno al 1783 per il Gabinetto della regina Maria Antonietta (1755-1793) a Versailles, eseguiti dall’ebanista di corte Jean-Henri Riesener (1734-1806) e oggi conservati presso il Metropolitan Museum di New York (Baulez 2001). La regina francese di origini austriache aveva una particolare predilezione per le lacche giapponesi, in particolare per oggetti di puro ‘gusto giapponese’ del XVIII secolo (Versailles-Münster 2001-2002). Nonostante ciò, per i mobili realizzati dal Riesener, e anche per il notissimo scrittoio di Adam Weisweiler (1750 circa - post 1810) (Baulez 2001, fig. 9) anch’esso destinato alle stanze di Maria Antonietta, si usarono lacche giapponesi più antiche di tipo Nanban, tra quelle conservate nelle collezioni reali che erano giunte in Francia nel Seicento e nei primi decenni del Settecento. Ciò è accaduto anche per questo cassettone di Palazzo Pitti nel quale i pannelli di lacca giapponese sono più antichi di un secolo e mezzo rispetto all’impalcatura francese del mobile. I pannelli giapponesi inseriti nei due fianchi dell’arredo del Salotto Cinese di Pitti si caratterizzano entrambi per una decorazione di “fiori e uccelli” (kachō). In uno la composizione mostra al centro una coppia di uccelli dal vistoso piumaggio (forse gazze dalle ali azzurre, Cyanopica cyana, onagadori: Roma 2007, pp. 51-52) tra un profluvio di fiori di camelia (tsubaki) e altri uccelini più piccoli. Nell’altro pannello la scena, organizzata in analoga maniera, si compone invece di un gufo e piccoli uccellini tra rami fioriti di pruno (ume). Il gufo è un soggetto insolito nell’ambito delle lacche Nanban. Lo schema decorativo degli uccelli tra i fiori è invece uno tra quelli tradizionali dell’arte giapponese, diffusissimo anche in Cina e in Corea. Più complessa è la scena che orna il pannello sul lato anteriore. Racchiusa entro una banda di motivi geometrici (tagliata per essere adattata alle volute della cornice in bronzo), essa si compone di un elegante edificio a due piani con tanto di muro di recinzione. Lo abitano alcuni personaggi che, per tratti fisiogomici e abbigliamento, sembrano essere cinesi. Un altro uomo, accompagnato da un bambino, si avvicina all’edificio trasportando delle merci sulle spalle. Tutta la scena è immersa in un’ambientazione naturale, tra alberi e fiori di vario genere; in alto si vedono tre gru e in basso, sulla destra, si contano cinque capre su una lastra di roccia. È un tipo di scena ricorrente nell’arte giapponese. Potrebbe anche avere un riferimento preciso a una qualche fonte letteraria o storica per ora non identificata. Tuttavia, le lacche Nanban ornate di scene con figure umane sono piuttosto rare. Tale caratteristica, insieme alle sue dimensioni notevoli, sono elementi che contribuiscono a rendere questo pannello un esemplare eccezionale di questa tipologia di manufatto giapponese da esportazione, nonostante lo stato lacunoso in cui è ridotto in seguito al suo utilizzo settecentesco. Un accenno infine alla lacca che riveste le parti europee di questo mobile. A fondo scuro con fiori di vena naturalistica in oro, questa vernice rappresenta una fase avanzata della sperimentazione condotta dagli europei nel tentativo di riprodurre le principali caratteristiche della lacca estremo-orientale. Pur non avendo a disposizione le resine naturali utilizzate in Cina e in Giappone, gli artigiani occidentali provarono varie soluzioni per creare dei rivestimenti che conferissero lucidità e levigatezza ai manufatti su cui erano applicati. Gli esperimenti più antichi si situano verso la metà del Cinquecento in Italia, a Venezia e quindi a Firenze. Poi, nel Seicento, provarono gli olandesi e quindi gli inglesi, nonostante ancora allora non si avesse disponibilità della linfa della Rhus verniciflua, la pianta da cui si estrae il principale ingrediente per la preparazione della lacca estremo-orientale. Contemporaneamente, in tutta Europa cominciarono a proliferare trattati su questo misterioso materiale in molti dei quali si proponevano ricette per produrre la vernice con ingredienti alternativi. Tali preparazioni divennero col tempo sempre più sofisticate e efficaci. In Francia si raggiunsero risultati notevoli, grazie ad esempio ai fratelli Martin che nel 1748 iniziarono la loro attività di manifattura reale di ‘vernis façon de la Chine’. La vernice messa a punto dai Martin fu apprezzata in tutta Europa, e i loro arredi furono giudicati degni di competere per qualità con le lacche cinesi e giapponesi. Francese era pure Jean Felix Watin, autore di L’art du peintre doreur et vernisseur, un manuale per laccatori che avrebbe rivoluzionato questa tecnica artistica. Tale testo fu però pubblicato nel 1772, quindi sicuramente dopo la realizzazione del mobile di Palazzo Pitti. Francesco Morena 389 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 21 Vassoio periodo Edo, fine del XVII inizio del XVIII secolo legno laccato e parzialmente dorato, cm 40,5×31,3 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17132 La storia fiorentina di questo vassoio è analoga a quella delle altre lacche giapponesi che formavano la collezione di Ferdinando III (1769-1824) (v. cat. III.21-III.33). Esso giunse in Toscana sul finire del 1814, allorché il Granduca lorenese terminò il suo periodo di esilio durante l’occupazione napoleonica, scontato a Vienna, Salisburgo e infine a Würzburg. Sistemato dapprima nella Guardaroba di Palazzo Vecchio, nel 1869 fu trasferito a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese, ambiente nel quale si trova tuttora (Morena 2001, p. 50; Morena 2005, p. 317, n. 282; Roma 2007, p. 58). Il vassoio ha forma ovale, basso cavetto arrotondato e tesa leggermente inclinata. Lungo il perimetro si svolge un’evidente sagomatura, il cui andamento si ritrova lungo la tesa, sia nella superficie più esterna sia nel perimetro interno. Tale modellato consiste in quattro serie di tre pannelli più piccoli, ognuna delle quali separata dall’altra da un pannello di maggiori dimensioni posto al centro di ognuno dei quattro lati del vassoio. I dodici riquadri più piccoli mostrano altrettante composizioni floreali con rocce; due dei pannelli più grandi hanno un tappeto geometrico di spirale entro losanga; gli altri due si caratterizzano per una serie di losanghe concatenate, all’interno di ognuna delle quali è una corolla di fiore stilizzata. L’intera decorazione è applicata a oro con la tecnica della “pittura cosparsa” (maki-e) su fondo di lacca scura. Al centro del fondo del vassoio, rivestito di polveri metalliche con la tecnica nashiji (“a buccia di pera”), è presente un bordino circolare. Si tratta dell’alloggiamento per un versatoio, elemento oggi purtroppo mancante. Questa caratteristica formale consente di mettere in relazione funzionale questo pezzo con il vassoio con versatoio alla scheda III.1. Si tratta dunque, anche in questo caso, di una tipologia di oggetto destinata all’esportazione verso l’Occidente, ispirata nelle forme a analoghi manufatti in metallo e ceramica realizzati in Europa. Oliver Impey e Christiaan Jörg (2005, p. 163, fig. 375), a proposito di questo vassoio, notavano non solo la sua forma originale, forse unica, ma anche la buona qualità pittorica della decorazione in oro. III. 22 Piatto periodo Edo, seconda metà del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 35 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17134 Giunto a Firenze nel 1814, questo piatto fa parte del gruppo di lacche giapponesi che Ferdinando III (1769-1824) portò con sé da Würzburg in quell’anno, al termine del periodo di esilio per l’occupazione napoleonica della Toscana (v. cat. III.21-III.33). Sistemato in un primo tempo nei Magazzini di Palazzo Vecchio, fu trasferito nel 1869 a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese, ambiente nel quale è tuttora conservato (Morena 2005, p. 317, n. 281). Il piatto ha forma circolare, cavetto arrotondato e breve tesa piatta leggermente inclinata. Verniciato di nero omogeneo (rōiro-nuri) e ornato a oro con le tecniche dell’hiramaki-e (“pittura cosparsa piatta”), del takamaki-e (“pittura cosparsa in rilievo”) e del kirikane (“oro ritagliato”), mostra sul fondo una decorazione con uno scorcio di paesaggio lacustre, con piante, alberi, rocce, alcuni padiglioni e un pontile; sulla tesa, invece, si dispone un fregio geometrico di tipo shippō-tsunagi, consistente in un cerchio al cui interno è una losanga, che a sua volta contiene la stilizzazione di una corolla di fiore. Per forma e tipo di decorazione, questo piatto è esemplare di un genere di lacche giapponesi destinato all’esportazione verso l’Europa. Un pezzo molto simile a questo, di dimensioni leggermente maggiori, è conservato nel Museo d’Orbigny-Bernon di La Rochelle, appartenuto in origine al principe Elettore di Hesse-Kassel e giunto a Parigi durante il periodo napoleonico (Lacambre 2010, p. 106, n. 39). Per evidenti analogie nell’ornato si vedano i piattini più piccoli alla scheda III.7. Francesco Morena Francesco Morena 390 391 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 23 Piatto periodo Edo, terzo quarto del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 34,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv MPP 1911 n. 17137 Questo piatto è giunto a Firenze nel 1814, e fa parte di quel nucleo di lacche giapponesi che in quell’anno Ferdinando III (1769-1824) portò con sé al ritorno da Würzburg, città nella quale aveva trascorso l’esilio durante il periodo dell’occupazione napoleonica del Granducato (v. cat. III.21-III.33). Nel 1869 fu trasferito dai Magazzini di Palazzo Vecchio, dove era stato sistemato al suo arrivo in Toscana, a Palazzo Pitti. Entrò allora a far parte degli arredi del Salotto Cinese, ambiente nel quale rimase senz’altro fino al 1911, anno di compilazione dell’ultimo inventario generale della reggia; in seguito fu inviato al Museo degli Argenti, dove tuttora si trova (Morena 2005, p. 315, n. 277; Impey-Jörg 2005, p. 182). A sezione circolare e privo di piede, il piatto ha bassissimo cavetto arrotondato e ampia tesa piatta leggermente inclinata. La decorazione, in oro e radi tocchi di lacca colorata, applicata su fondo nero con le tecniche dell’hiramaki-e (“pittura cosparsa piatta”) e del takamaki-e (“pittura cosparsa in rilievo”), si compone di un esaburante composizione vegetale, con fiori di vario genere e foglie di gusto barocco. Sul fondo, tra crisantemi (kiku) e altri fiorellini, si librano in volo due fagiani. Il retro mostra una laccatura omogenera di tipo nashiji (“a buccia di pera”). La bordura di questo piatto è del tutto analoga a quella che compare in un esemplare conservato nel Rijksmuseum di Amsterdam (diam. cm 34,5, misure identiche a quelle del pezzo di Pitti), noto soprattutto per la presenza sul fondo dell’arme di Joan Huydecoper (1625-1704) che fu direttore della Compagnia delle Indie Orientali olandese dal 1666 (Impey-Jörg 2005, fig. 21). Proprio questo piatto, con la sua storia abbastanza circostanziata, è utile anche nella datazione di questo esemplare di Pitti, che si può quindi situare nel terzo quarto del XVII secolo. Simili motivi decorativi caratterizzano anche due vasi conservati nel Castello Kynźvart, provenienti dalla collezione del principe Metternich (Suchomel 2001, pp. 62-63, fig. 5). Nelle collezioni di Palazzo Pitti esiste un altro esemplare in tutto analogo a questo (Morena 2005, p. 315, n. 276). Francesco Morena III. 24 Piatto periodo Edo, fine del XVII inizio del XVIII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 33,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv MPP 1911 n. 17135 Questo piatto fa parte del gruppo di lacche giapponesi che Ferdinando III (1769-1824) portò con sé da Würzburg nel 1814, allorché poté fare ritorno a Firenze dopo il periodo dell’esilio per l’occupazione napoleonica della Toscana (v. cat. III.21-III.33). Sistemato in un primo tempo nei Magazzini di Palazzo Vecchio, fu trasferito nel 1869 a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese. In quell’ubicazione è rimasto fino almeno al 1911, anno in cui è stato compilato l’ultimo inventario generale della reggia fiorentina; sicuramente in seguito, in un momento imprecisato, fu spostato nel Museo degli Argenti, dove si trova tuttora (Morena 2005, p. 315, n. 278). Di forma circolare, il piatto ha breve cavetto arrotondato e tesa piatta leggermente inclinata. La decorazione è in oro su fondo di lacca nera. Applicata con la tecnica del maki-e (“pittura cosparsa”), nelle varianti piatta (hiramaki-e) e a rilievo (takamaki-e), con particolari in lacca rossa e ritagli di oro (kirikane), essa si dispone sull’intera superficie a vista del piatto. Sul fondo è presente una scena con un gallo e un pulcino nei pressi di un corso d’acqua, con rocce e erbe di vario genere, mentre in secondo piano si vedono alcuni fusti fogliati di bambù. Sulla superficie che comprende tesa è cavetto si svolge un tappeto geometrico continuo di tipo shippō-tsunagi, consistente in un cerchio che racchiude una losanga al centro della quale è un fiore stilizzato. A tale ornato si sovrappongono tre riserve a cornice polilobata disposte l’una a eguale distanza dall’altra: all’interno di ognuna è presente uno scorcio di paesaggio, con rocce, alberi, specchi d’acqua e architetture. Esemplare di una tipologia di manufatto giapponese in lacca destinata al mercato dell’esportazione verso l’Europa, si caratterizza tuttavia per la presenza di motivi decorativi di gusto tipicamente giapponese, molto diffusi anche sulle coeve porcellane prodotte ad Arita. Un piatto con una bordura tra cavetto e tesa del tutto analoga a questa si trova nel Museo del Castello Sypesteyn a Loosdrecht, in Olanda (Impey-Jörg 2005, fig. 421, la scena sul fondo è invece diversa). Francesco Morena 392 393 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 25 Piatto periodo Edo, ultimo quarto del XVII secolo legno laccato, parzialmente dorato e dipinto, diam. cm 25 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17140 Il piatto, analogo per forma, dimensioni e decorazione a un altro esemplare nello stesso Palazzo Pitti, fa parte di quel gruppo di lacche giapponesi che Ferdinando III (1769-1824) portò con sé a Firenze nel 1814 al suo ritorno da Würzburg, città nella quale aveva trascorso parte del suo esilio durante l’occupazione napoleonica del Granducato toscano (v. cat. III.21-III.33). Sistemato in un primo tempo nei Magazzini di Palazzo Vecchio, nel 1869 fu trasferito a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese, dove tuttora si trova (Morena 2001, p. 52; Impey-Jörg 2005, p. 182 e fig. 425 a p. 180; Morena 2005, p. 316, n. 279; Roma 2007, p. 59). Di forma circolare, ha bassissimo cavetto arrotondato e ampia tesa piatta moderatamente inclinata. La decorazione a oro e tocchi di lacca colorata si svolge su fondo nero (rōiro-nuri), applicata con la tecnica del maki-e (“pittura cosparsa”) nella variante “a rilievo” (takamaki-e). Sul fondo si vede una scena con un gallo, una gallina e due pulcini tra gruppetti di erbe. Sulla tesa si svolge invece un rigoglioso serto di foglie e fiori di vario genere, tra i quali si riconoscono crisantemi (kiku), peonie (botan), orchidee (ran) e ciliegi (sakura). Destinato all’esportazione verso l’Occidente, questo piatto si distingue soprattutto per una forma estranea al gusto giapponese, ispirata con certezza ad analoghi manufatti europei, ad esempio in peltro. Un piatto con un’impostazione simile a questa è illustrato da Oliver Impey e Christiaan Jörg (2005, p. 180, fig. 427). Per forma e decorazione ha molte analogie con il piatto alla scheda III.26. Francesco Morena III. 26 Piatto periodo Edo, ultimo quarto del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 29,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv MPP 1911 n. 17138 Questo piatto è giunto a Firenze sul finire del 1814. Esso fa infatti parte di quel gruppo di lacche giapponesi che Ferdinando III (1769-1824) portò con sé quell’anno in Toscana al ritorno da Würzburg, città nella quale aveva trascorso parte del suo esilio durante l’occupazione napoleonica (v. cat. III.21-III.33). Sistemato in un primo tempo nei Magazzini di Palazzo Vecchio, fu trasferito nel 1869 a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese, ambiente nel quale rimase fino almeno al 1911, anno di compilazione dell’ultimo inventario topografico della reggia fiorentina. In seguito fu spostato nel Museo degli Argenti, dove si trova tuttora (Morena 2005, p. 316, n. 280). Di forma circolare, il piatto ha breve cavetto arrotondato e tesa piatta moderatamente inclinata. La decorazione, in oro e diffusi tocchi di vernice rossa su fondo di lacca nera (rōiro-nuri), è stata applicata con la tecnica del maki-e (“pittura cosparsa”), principalmente nella variante “a rilievo” (takamaki-e). Consiste di una scena con un gallo e una gallina sul fondo intorno alla quale, sulla tesa, si svolge un esuberante florilegio. Pur avendo caratteristiche tecniche e decorative di gusto giapponese, questo piatto era destinato esplicitamente al mercato occidentale. La sua forma è infatti estranea al repertorio del vasellame nipponico: deriva infatti da prototipi europei, quasi sicuramente in metallo. Per il soggetto e il tipo di impaginato decorativo ha forti analogie con il piatto alla scheda III.25. Francesco Morena 394 395 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 27 Vassoio periodo Edo, ultimo quarto del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 24,5 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17142 Anche questo vassoio fa parte del gruppo di lacche giapponesi che Ferdinando III (1769-1824) portò con sé a Firenze da Würzburg, città in cui aveva trascorso l’ultima parte dell’esilio di quindici anni al quale era stato costretto per l’occupazione napoleonica della Toscana (v. cat. III.21-III.33). Insieme a tutti gli altri oggetti in lacca di analoga provenienza, anche questo pezzo fu dapprima sistemato nei Magazzini di Palazzo Vecchio, dai quali nel 1869 fu trasferito a Palazzo Pitti, entrando così a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese, ambiente in cui tuttora si trova (Morena 2001, pp. 51-52; Impey-Jörg 2005, p. 202, fig. 485; Morena 2005, p. 318, n. 284; Roma 2007, p. 58). Analogo per forma, dimensioni e stile della decorazione all’esemplare discusso alla scheda successiva (v. scheda III.28), se ne distingue essenzialmente per la diversa composizione che occupa il fondo. In questo caso, infatti, è visibile un esuberante cespuglio di crisantemi (kiku), con rocce e altri rametti fioriti, intorno al quale volano due uccelli dal ricco piumaggio. La decorazione a oro è stata applicata con la tecnica del maki-e (“pittura cosparsa”) e l’aggiunta per certi particolari di minuti ritagli d’oro (kirikane). Come nell’altro esemplare, anche in questo il retro è rivestito di fitte polveri metalliche con effetto “buccia di pera” (nashiji). Insieme all’altro pezzo con cui costituisce coppia, questo vassoio esemplifica una tipologia di forma di derivazione europea che nell’ambito delle lacche giapponesi da esportazione è alquanto rara. A nostra conoscenza, infatti, non esistono altri manufatti simili a questi due oggetti di Palazzo Pitti. Francesco Morena III. 28 Vassoio periodo Edo, ultimo quarto del XVII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 24,5 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17141 Giunto a Firenze nel 1814, questo vassoio fa parte di quel gruppo di lacche giapponesi che Ferdinando III (1769-1824) portò con sé da Würzburg, al termine del periodo di quindici anni trascorso in esilio durante l’occupazione napoleonica della Toscana (v. cat. III.21-III.33). Subito sistemato nei Magazzini di Palazzo Vecchio, nel 1869 fu trasferito a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese, ambiente nel quale tuttora si trova (Morena 2001, pp. 51-52; Impey-Jörg 2005, p. 202; Morena 2005, p. 318, n. 283; Roma 2007, p. 58). Di forma ottagonale, posa su analoga base con altrettanti piedi modanati. Le pareti della tesa sono leggermente arrotondate. L’intera superficie del retro è cosparsa di polveri metalliche con effetto “buccia di pera” (nashiji). La superficie a vista presenta invece un fondo omogeneo di lacca nera (rōiro-nuri), su cui si dispone una decorazione a oro e vernici rosse consistente in un rigoglioso tralcio fiorito di peonia (botan) e altre piante, intorno al quale si libra un uccellino. Rametti floreali si vedono anche all’interno degli otto lati della tesa. Nell’ambito dei manufatti giapponesi in lacca destinati all’esportazione verso l’Occidente, questo vassoio si distingue per la sua forma ottagonale, che non sembra essere testimoniata in altri esemplari. È molto probabile che essa sia stata suggerita agli artigiani giapponesi dagli acquirenti europei. Per evidenti analogie è da mettere in relazione con l’esemplare alla scheda III.27. Francesco Morena 396 397 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 29 Piatto periodo Edo, prima metà del XVIII secolo legno laccato e parzialmente dorato, diam. cm 37 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Inv MPP 1911 n. 17133 Questo piatto giunse a Firenze nel 1814, allorché il Granduca Ferdinando III di Lorena (1769-1824) ritornò in Toscana dopo il periodo di esilio per l’occupazione napoleonica trascorso in parte a Würzburg in Germania (v. cat. III.21-III.33). Sistemato in un primo momento nei Magazzini di Palazzo Vecchio, nel 1869 fu trasferito definitivamente a Palazzo Pitti, dove si trova tuttora (Morena 2001, p. 50; Impey-Jörg, 2005, p. 182, fig. 419; Morena 2005, p. 320, n. 286, tav. XLIII; Roma 2007, p. 59). Nell’ambito della produzione di manufatti giapponesi in lacca destinati all’esportazione verso l’Europa, questo piatto si può ritenere unico. Privo di piede, con parete modellata in due sgusci arrotondati, già la sua forma è piuttosto inusuale. Il decoro, realizzato con polveri d’oro cosparse (maki-e) nelle varianti “a leggero rilievo” (usuniku takamaki-e) e “a buccia di pera” (nashiji), si svolge all’interno della tesa con quattro grandi cartigli su fondo avventurina nei quali si dispone una concatenazione di losanghe. Al centro del fondo si staglia una composizione con la figura del bodhisattva (in giapponese bosatsu) Monju (in sanscrito Mañjuśrī), divinità buddhista molto venerata anche in Giappone. Vestito di un’ampia tonaca che lascia scoperto il petto nudo, con i capelli raccolti in cinque crocchie e tra le mani lo scettro jū-i (emblema di autorità monastica), Monju è qui raffigurato seduto sulla groppa di un “leone cinese” (karashishi), animale della mitologia estremo-orientale, strenuo difensore della Legge buddhista. Due aureole circolari si dispongono oltre le spalle e la testa del dio, attorniato da nubi. In alto sormonta la figura un ombrello parasole (in sanscrito chatra), uno degli Otto Emblemi di Buon Auspicio del Buddhismo, che protegge dalla sofferenza e simboleggia forza spirituale. Tutta la composizione è a sua volta posata su un basamento cilindrico al centro del quale, all’interno di una riserva polilobata, si vede un altro “leone cinese”. Monju è uno dei bodhisattva più importanti del pantheon buddhista. Secondo alcune antiche fonti sacre, tra le innumerevoli in cui compare, Mañjuśrī sarebbe stato un personaggio storico vissuto in India nel VI-V secolo a.C., forse uno dei discepoli diretti di Śākyamuni, il fondatore del Buddhismo. In ogni caso la venerazione per questa divinità si propagò presto nel resto dell’Asia orientale, dapprima in Nepal e in Tibet, quindi in Cina, nel Sud-est asiatico e in Corea, e infine in Giappone, paese in cui il suo culto era diffusissimo fin dall’VIII secolo. Monju è il bodhisattva della saggezza. I fedeli lo invocano spesso per questioni intellettuali, per la memoria, lo studio e l’eloquenza. Accompagnato quasi sempre da Samantabhadra (in giapponese Fugen), bodhisattva della compassione, Monju è solitamente raffigurato come un giovane uomo. Ricorrenti nella sua iconografia sono le cinque crocchie in cui è acconciata la sua capigliatura. Quasi sempre la figura tiene nella mano destra una spada, simbolo della conoscenza sublime che sconfigge l’ignoranza, e in quella sinistra un fiore di loto. Non è raro che questa divinità sia accompagnata dal “leone” del Buddhismo, animale che per ben due volte compare nella raffigurazione di questo piatto. Tuttavia, non poche sono le varianti iconografiche che riguardano questo bodhisattva, tra le quali si può pertanto inserire anche quella caratterizzata dalla presenza dello scettro jū-i testimoniata nella decorazione di questo piatto. I soggetti buddhisti sono tutt’altro che frequenti nell’ambito della lacca giapponese da esportazione, ed è questa la principale ragione per cui questo piatto può dirsi unico. Tale scelta decorativa si può però spiegare come un tentativo di infondere un ulteriore tocco di esotismo a un manufatto che per sopraffina tecnica di realizzazione aveva già le carte in regola per affascinare e stupire l’acquirente europeo. Francesco Morena 398 399 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 30 Vassoio periodo Edo, fine del XVII - inizio del XVIII secolo legno laccato e parzialmente dorato, cm 19×20,5 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17143 Questo vassoio giunse a Firenze sul finire del 1814. Fa parte dunque di quel gruppo di lacche giapponesi che Ferdinando III (1769-1824) acquisì durante l’esilio di quindici anni al quale era stato costretto per l’occupazione napoleonica della Toscana (v. cat. III.21-III.33). Sistemato in un primo momento nei Magazzini di Palazzo Vecchio, nel 1869 fu trasferito a Palazzo Pitti quale arredo per il Salotto Cinese, ambiente in cui tuttora si trova (Morena 2001, p. 50; Morena 2005, p. 319, n. 285; Roma 2007, p. 59). Il vassoio ha forma rettangolare, con i quattro angoli scantonati, e tesa con pareti arrotondate. Laccato di nero omogeneo (rōiro-nuri), la decorazione a oro e polveri metalliche, applicati con le tecniche del maki-e (“pittura cosparsa”), si svolge sulla superficie a vista. Essa consiste in uno scorcio di paesaggio lacustre, con rocce, piante, erbe di vario genere e un ramo di pino (matsu); in basso al centro, un uomo tiene per le redini un bufalo (ushi). Vestito di un ampio abito, con i capelli raccolti in una crocchia e un lungo pizzetto, la figura ha tutte le caratteristiche per essere riconosciuta come un cinese. Il personaggio raffigurato è Rōshi (in cinese Laozi), ovvero il fondatore della dottrina cinese del Taoismo. La tradizione vuole che sia vissuto in Cina tra il VI e il V secolo a.C. Tuttavia, è molto probabile che sia stata una figura leggendaria, ideata per legittimare le origini del Taoismo. La tradizione attribuisce a Laozi anche la compilazione del Daodejing (il “Classico della Via e della sua Potenza”), testo fondamentale della dottrina cinese, ma in realtà si tratta solo di ipotesi per ora senza fondamento storico. In Giappone la figura di Rōshi è nota da molti secoli, nonostante la dottrina del Taoismo non abbia mai attecchito tra gli abitanti dell’arcipelago. Tuttavia, proprio durante il periodo Edo (1615-1868), all’epoca in cui anche questo vassoio fu realizzato, questo personaggio attrasse un certo interesse tra gli artisti e gli artigiani giapponesi che in numerosi casi lo raffigurarono. L’iconografia di Rōshi più comune e diffusa è proprio quella in cui egli appare accompagnato dal bufalo, animale molto amato in tutto l’Estremo Oriente per la sua mitezza e per la sua forza prestata all’uomo nel lavoro dei campi. Rōshi compare insieme al bue anche nelle illustrazioni dello Yūshō ressen zenden (“Descrizione completa di eminenti immortali”), traduzione di un testo cinese (Liexian zhuan) del 1600 pubblicata in Giappone nel 1650, nel quale si raccontano le gesta di numerosi immortali (sennin) della tradizione cinese. A questa fonte, e a altre simili che apparvero all’epoca, molto probabilmente si ispirarono gli artisti giapponesi che utilizzarono il soggetto di Rōshi per ornare le proprie opere, tra i quali anche l’anonimo artigiano autore della decorazione che compare su questo vassoio di Palazzo Pitti. In origine, questo vassoietto doveva far parte di un completo in scatola per la toeletta, oppure per il gioco dell’incenso. Esso era destinato al mercato interno giapponese, non riservato perciò esplicitamente all’esportazione verso l’Europa. Identica forma e simili dimensioni caratterizzano un pezzo conservato nel Louvre di Parigi, appartenuto a Adolphe Thiers (Lacambre 2010, p. 99, n. 28). Francesco Morena 400 401 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 31 Catino periodo Edo, XVIII secolo legno laccato e parzialmente dorato, cm 14,5×33,5 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17173 Il catino è a Firenze con certezza dal 1815, anno in cui fu compilato un inventario dei Magazzini di Palazzo Vecchio nel quale è registrato. In seguito, nella seconda metà dell’Ottocento, fu trasferito a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese, ambiente nel quale tuttora si trova (Morena 2001, p. 52; Morena 2005, p. 321, n. 287, tav. XLIV; Roma 2007, p. 58). A sezione circolare, posa su piedi a mensola. Sull’esterno, nei pressi dell’orlo, è situato un bordino che corre lungo tutto il perimetro; una simile filettatura, raddoppiata, si vede anche in prossimità della base. La decorazione in oro e altre polveri metalliche è stata applicata con la tecnica del maki-e (“pittura cosparsa”), principalmente nelle varianti “piatta” (hiramaki-e) e “a buccia di pera” (nashiji). L’ornato si sviluppa su due registri, separati da una linea dall’andamento spezzato. Su una metà, all’esterno come all’interno, si vedono tralci fogliati di vario genere in sovrapposizione a un fondo di tipo nashiji. L’altra metà mostra sull’esterno una composizione con rametti di pino (matsu) e di pruno (ume) in oro su fondo di lacca nera; all’interno si sviluppa invece un tappeto di tipo muranashiji, con zone circolari a oro più densamente spruzzato rispetto al fondo. Questo tipo di partizione con linea a zig-zag, in auge nelle arti giapponesi fin dal periodo Muromachi (1333-1573), è noto con il termine katamigawari. Ebbe particolare diffusione durante il periodo Momoyama (1573-1615), ma fu utilizzato costantemente anche nel periodo Edo (1615-1868), epoca in cui questo catino fu realizzato. Questo genere di recipiente in legno laccato (tarai) era usato in Giappone per contenere acqua per lavarsi. La sua introduzione tra gli oggetti per la toeletta risale all’inizio del XVII secolo. Si tratta dunque di un tipo di manufatto non destinato all’esportazione verso l’Occidente. Esso è quindi uno di quei rari esemplari di lacca di gusto giapponese che entrarono a far parte delle raccolte europee nel XVIII secolo. La più nota di queste precocissime collezioni di lacche giapponesi di tipo non rivolto al mercato occidentale è quella appartenuta alla regina Maria Antonietta di Francia (1755-1793) (Versailles-Münster 2001-2002). A questo proposito ci sembra non superfluo ricordare che Maria Antonietta era sorella di Leopoldo (1747-1792), Granduca di Toscana fino al 1790 e poi imperatore del Sacro Romano Impero, e quindi zia di Ferdinando III di Toscana (1769-1824). Non avendo notizie documentarie più precise riguardo a questo catino, notando però analogie di gusto tra quest’ultimo e le lacche di Maria Antonietta, possiamo perciò supporre che esso sia giunto a Firenze proprio nelle collezioni di uno dei due granduchi lorenesi sopra citati, magari attraverso gli stessi intermediari commerciali presso i quali si rifornì di lacche giapponesi la regina francese. Importanti vendite all’incanto di lacche giapponesi si svolsero in Francia dalla metà del Settecento circa, alcune delle quali presentate dal noto esperto e mercante d’arte estremo-orientale Edme-François Gersaint (1694-1750). Il torai di Pitti non è l’unico che raggiunse l’Europa prima del periodo Meiji (1868-1912). Un catino di analoghe forme e maggiori dimensioni, datato al 1620 circa, è conservato nel Museé du Quai Branly di Parigi. La Lacambre (2010, n. 11) ipotizza che questo pezzo in origine possa essere appartenuto a Katharina Belgica (1578-1648), figlia di Guglielmo il Taciturno (1533-1584) e moglie di Filippo Ludovico II di Hanau (1567-1612), la quale era grande appassionata di lacche e porcellane dell’Estremo-Oriente. Forse da lei passò a sua figlia Amalia Elisabeth (1602-1651), moglie di Guglielmo V (1602-1637), Principe Elettore di Hesse-Cassel. La raccolta di manufatti asiatici di questa nobile casata europea era notevole: verso la fine del XVIII secolo la sezione di lacche giapponesi comprendeva diverse decine di esemplari. La storia francese di questo catino ora nel museo parigino inizia nel 1806, allorché fu sequestrato in Germania come bottino di guerra. L’anno dopo fu affidato alle cure di Vivant Denon, allora direttore del Louvre, che lo accompagnò alle lacche giapponesi appartenute a Maria Antonietta: già a quei tempi si sapeva che questo genere di oggetto serviva in Giappone per lavarsi. Nel 1815, anno della fine dell’Impero napoleonico, non fu restituito ai principi tedeschi come invece lo furono gli altri beni artistici impropriamente sottratti agli Hesse-Cassel. La Lacambre ipotizza che il catino nel museo parigino possa essere uno di quelli che furono acquistati a Kyoto dalla Honorable East India Company of London tra il 1616 e il 1621, secondo quanto riportato in un documento di Richard Cocks scritto il 6 settembre 1621 (Impey-Jörg 2005, p. 240). Poi avrebbe raggiunto le collezioni tedesche. La studiosa, nella stessa occasione, ricorda inoltre che due oggetti molto simili furono venduti a Parigi nell’asta Julienne del 1767 (n. 1606) e in quella Randon de Boisset del 17 febbraio 1777 (n. 767). Un altro ancora, analogo, fu venduto dal duca de Bouillon a William Beckford nel 1800 (Rutter 1822, p. 57). In ambiti diversi dalla Francia si può ricordare il torai conservato tra le storiche collezioni di Copenaghen, importato dalla Compagnia delle Indie orientali danese nel 1688 (Boyer 1959, p. 71). Questo genere di catino faceva in origine parte dei completi di manufatti laccati realizzati nel periodo Edo per le nobildonne giapponesi in occasione del loro matrimonio. Si trattava di set che arrivavano a comprendere varie decine di oggetti di diverse forme e dimensioni, da usarsi principalmente nei momenti della toeletta personale. Francesco Morena 402 403 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 32 Portavivande periodo Edo, XVIII secolo legno laccato e parzialmente dorato, metallo, cm 33,4×33,2×19,5 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17129 Questo manufatto fa parte del gruppo di lacche giapponesi che arrivarono a Firenze sul finire del 1814, tra gli oggetti che Ferdinando III (1769-1824) portò con sé in Toscana da Würzburg, una volta finito il periodo di esilio per l’occupazione napoleonica (v. cat. III.21-III.33). Sistemato dapprima nella Guardaroba di Palazzo Vecchio, nel 1869 fu trasferito a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese, ambiente nel quale tuttora si trova (Morena 2001, pp. 47-49; Morena 2005, p. 322, n. 288). Nell’inventario dei Magazzini del 1829, è registrato insieme ad altri cinque esemplari, due dei quali ancora a Palazzo Pitti (v. cat. III.33 e Morena 2005, p. 323, n. 289), gli altri tre non rintracciati . Questo genere di contenitore è noto in giapponese col termine sagejūbakō. A partire dall’inizio del periodo Edo (1615-1868), esso era usato per trasportare cibi e bevande nell’occasione di gite in campagna, tra cui soprattutto quelle organizzate per ammirare la fioritura degli alberi (hanami). Le diverse leccornie erano sistemate negli scomparti chiusi di maggiori dimensioni (quattro in questo esemplare), al lato dei quali trovavano posti gli alloggiamenti per le bottiglie di sake (due, ma non presenti, in questo pezzo); in alto, ancora un altro cassettino più piccolo e un sito circolare per un piattino. Questi portavivande erano realizzati prevalentemente in legno laccato, proprio come questo esemplare, sulla superficie esterna del quale si svolge una decorazione eseguita in hiramaki-e (“pittura cosparsa piatta”) di rami fioriti, acque correnti e una staccionata. I sagejūbakō, quindi, sono oggetti tipici della cultura giapponese e in origine non erano destinati all’esportazione verso l’Europa. Tuttavia, manufatti laccati di gusto giapponese saltuariamente arrivavano in Occidente, e con maggiore frequenza nel XVIII secolo, certamente attraverso il commercio della Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC) che sola aveva il permesso delle autorità di svolgere un certo volume di traffici con i giapponesi. Nella seconda metà del Settecento la bellezza di queste lacche giapponesi per il mercato interno venne apprezzata in particolare in Francia, dove si formarono le raffinate collezioni di Madame de Pompadour (1721-1764), che possedette per un certo tempo anche l’eccezionale “Scatola Van Diemen” (v. cat. II.45), e, soprattutto, della regina Maria Antonietta (17551793) (Versailles-Münster 2001-2002). È molto probabile che Ferdinando III di Toscana abbia acquistato questo portavivande, e gli altri oggetti in lacca giapponese poi trasferiti a Firenze, proprio in Francia, dove a quel tempo erano attivi diversi mercanti d’arte in grado di rifornire i collezionisti d’Oltralpe di manufatti estremo-orientali. Francesco Morena 404 405 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 33 Portavivande periodo Edo, XVIII secolo legno laccato e parzialmente dorato, madreperla e metallo, cm 28 × 30 × 18 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Salotto Cinese, Inv MPP 1911 n. 17131 Anche questo portavivande, come quello alla scheda precedente (v. cat. III.32), giunse a Firenze verso la fine del 1814, tra gli oggetti che Ferdinando III (1769-1824) portò con sé in Toscana da Würzburg, una volta finito il suo periodo di esilio per l’occupazione napoleonica (v. cat. III.21-III.33). Sistemato dapprima nella Guardaroba di Palazzo Vecchio, nel 1869 fu trasferito a Palazzo Pitti per entrare a far parte dell’allestimento del Salotto Cinese, ambiente nel quale tuttora si trova (Morena 2001, p. 49; Morena 2005, p. 324, n. 290). Nell’inventario dei Magazzini del 1829, è registrato insieme ad altri cinque esemplari analoghi, due dei quali ancora a Palazzo Pitti (v. cat. III.32 e Morena 2005, p. 323, n. 289), gli altri tre non rintracciati . A sezione polilobata, si costituisce di quattro contenitori per cibo incastrati l’uno sull’altro, di una bottiglia per il sake, di un altro piccolo contenitore più in alto sistemato di fianco a uno spazio che forse serviva ad ospitare uno o più piattini. L’intera superficie esterna è laccata e decorata in maki-e (“pittura cosparsa”) in oro e altre polveri metalliche, con un fondo di tipo nashiji (“a buccia di pera”) sul quale si dispongono fiori e uccelli di vario genere in hiramaki-e (“pittura cosparsa piatta”) e takamaki-e (“pittura cosparsa in rilievo”); composizioni dello stesso genere ma di più ampio respiro si svolgono entro riserve a cornice polilobata con fondo nero omogeneo (rōiro-nuri). Qua e là si notano minute incrostazioni in madreperla (raden) e metallo che ravvivano ulteriormente l’ornato. Nonostante questo genere di oggetto rifletta per destinazione d’uso uno tra i costumi culturali più tipici del Giappone, ovvero l’abitudine di organizzare colazioni all’aperto per ammirare la fioritura degli alberi (hanami), esistono anche jūbakō che per stile decorativo si possono considerare Nanban, per i “Barbari del Sud”, ovvero gli europei. Per avere un’idea complessiva di questo tipo di contenitore, di gusto giapponese per forma e di ‘stile esportazione’ per ornato, si veda il repertorio di Oliver Impey e Christiaan Jörg del 2005 (pp. 116-119 e 177). I due autori, a proposito di questi manufatti, escludono che fossero destinati in origine all’esportazione verso l’Europa nonostante, ad esempio, il noto portavivande nel National Museum of Denmark di Copenhagen sia presente nelle collezioni reali danesi fin dal 1665. È invece plausibile che tale tipo di oggetto fosse in realtà acquistato dagli stessi giapponesi per utilizzarlo nelle scampagnate, volendo così esibire in pubblico quanto un certo fascino per l’esotico li avesse coinvolti. Questa supposizione sembra piuttosto corretta se si prende ad esempio il famoso jūbakō del Museu Nacional de Arte Antiga di Lisbona (v. cat. II.6), in cui le figure di portoghesi, dai tratti accentuatamente caricaturali, costituivano un riferimento culturale certamente per i giapponesi ma non per gli europei. Così come il portavivande nel Namban Bunkakan di Osaka era quasi certamente destinato al mercato locale (Impey-Jörg 2005, fig. 124), nonostante lo stile e le tecniche per la sua realizzazione siano quelle utilizzate dai laccatori giapponesi per eseguire prodotti rivolti agli europei; questo caso è quindi dimostrazione che gli acquirenti nipponici non di rado gradivano anche quel gusto ornamentale che si pensava piacesse solo agli occidentali. Come per gli altri manufatti in lacca giapponese raccolti da Ferdinando III di Toscana, anche questo portavivande potrebbe essere stato acquistato in Francia, paese nel quale non solo il Granduca lorenese si recava più frequentemente, ma anche dove numerosi erano i mercanti d’arte forniti di manufatti estremo-orientali. Francesco Morena 406 407 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 34 Due sportelli di stipo periodo Edo, 1680 circa legno laccato e parzialmente dorato, metallo dorato e inciso, cm 64,4×43,5 ognuno Firenze, Palazzo Pitti, Galleria d’Arte Moderna, Inv MPP 1911 nn. 24891-24892 408 Insieme a una coppia in tutto analoga e a quattro altri pannelli di minori dimensioni, diversa funzione e inferiore qualità, questi due pannelli giunsero a Firenze dal Palazzo Reale di Parma nel 1868 (Morena 2005, pp. 342-343, n. 308, tav. XLIX). Arrivarono a Palazzo Pitti così come oggi si vedono, privi di gran parte degli stipi ai quali originariamente appartenevano. Dalla lettura degli inventari fiorentini compilati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento nei quali sono registrati si desume che, pur relegati nei depositi, erano appesi alle pareti, tenuti in considerazione quindi solo per il loro valore estetico. Riguardo alla storia di questi pannelli, precedente al loro arrivo in Toscana, si possono fare solo delle ipotesi. Come suggerito a suo tempo (Morena 2005, p. 338), è molto probabile che essi facessero un tempo parte della raccolta di Don Filippo di Borbone (1720-1765) e di sua moglie Louise-Elisabeth, duchi di Parma dal 1748. Figlia di Luigi XV (1710-1774) re di Francia, la duchessa frequentò Parigi in più occasioni anche durante il suo soggiorno in Italia, e lì si rifornì di una grande mole di manufatti artistici, sia doni del padre sia acquistati, per arredare le residenze del suo ducato. Di conseguenza, il gusto francese divenne prevalente nei palazzi di Parma e di Colorno, scelti il primo per i periodi freddi e il secondo per i periodi caldi dell’anno. A parziale conferma di ciò, si vedano ad esempio quei manufatti cinesi e giapponesi che con ogni probabilità le appartennero oggi conservati a Palazzo Pitti (Morena 2005, p. 342 e ss.): porcellane cinesi di epoca Qing (1644-1911) con elaborate montature in metallo e vasellame di forte impatto decorativo, di un tipo che ben si adattava all’esuberante gusto del Rococò francese. La nostra idea a proposito di questi pannelli giapponesi è che Louise-Elisabeth li volle per poterli poi inserire in un mobile di struttura europea, come sportelli o fianchi di una credenza, secondo una moda che proprio intorno alla metà del Settecento ebbe a Parigi le sue origini e i suoi migliori sviluppi (v. cat. III.20). Poi, per qualche motivo a noi non noto, questo progetto di ebanisteria non andò in porto e i pannelli rimasero così, inutilizzati. Questi pannelli sono esemplari di una tipologia di lacca giapponese da esportazione ormai ben definita negli studi sull’argomento. Essi erano infatti le due ante di uno stipo realizzato nella seconda metà del 409 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 35 Dama XVII secolo, quasi sicuramente entro il 1690, anno in cui gli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali (VOC) diminuirono drasticamente i loro ordini di lacca giapponese poiché i prezzi delle analoghe lacche cinesi diventarono molto più convenienti. Secondo la cronologia approntata da Impey e Jörg (2005, p. 84), queste ante di Palazzo Pitti rappresenterebbero una fase tarda di questa produzione del Seicento, intorno al 1680, per l’assenza di qualsiasi bordura alle immagini sull’esterno e per l’estrema semplicità delle decorazioni sull’interno. Per il tipo di decorazione, priva di quelle cornici geometriche tipiche della produzione tra la fine del Cinquecento e i primi tre decenni del XVII secolo, queste lacche sono note come di ‘stile pittorico’. La qualità di questa produzione ‘pittorica’ è molto varia, tra pezzi di superba raffinatezza come la “Scatola Van Diemen” (v. cat. II.45) e oggetti di qualità più corrente. Tra i soggetti più caratteristici di queste lacche destinate all’Europa si segnalano anche le composizioni con fiori e uccelli e i paesaggi ideali, analoghe a quelle che ornano questi esemplari fiorentini, realizzate con diverse varianti della tecnica del maki-e (“pittura cosparsa”). Composizioni floreali più scarne si vedono anche sulla faccia interna delle ante, mentre molto eleganti sono le cerniere in metallo dorato, percorse da sinuose incisioni a formare minuti decori floreali. Solitamente, nelle residenze barocche questi stipi giapponesi erano sistemati su tavoli da parete di manifattura europea, e spesso servivano da appoggio per esporre porcellane cinesi e giapponesi coeve (v. fig. 6 a p. 261). Questo genere di allestimento si può tuttora ammirare in alcuni nobili palazzi olandesi, tedeschi, inglesi e francesi (v. ad esempio il repertorio illustrato da Impey-Jörg 2005, pp. 130-134, con rimandi ad altre immagini pertinenti nello stesso testo) e in un dipinto di Henri Gascard (1635-1701) raffigurante Madame de Montespan (1640-1707) nella Galleria del Castello di Clagny, conservato nei depositi del Museo degli Uffizi a Firenze (Impey-Jörg 2005, p. 330, fig. 640). Riguardo alle residenze italiane, si segnala la presenza di stipi giapponesi analoghi e integri nel Palazzo Reale di Torino, probabilmente acquistati dal principe Eugenio di Savoia-Carignano a Vienna tra il 1716 e il 1724 (Caterina 2005, p. 57, tavv. I-VIII). Nella pubblicazione del 2005 (Morena 2005, pp. 342-343, n. 308) i quattro pannelli furono presentati così come furono trovati nei depositi di Palazzo Pitti, ovvero in due coppie, una con i due pannelli con uccelli, l’altra con i due pannelli con paesaggi. Composizioni troppo simmetriche, non compatibili con il gusto giapponese tendente sempre all’asimmetria (v. ad esempio gli stipi nelle collezioni dei musei bavaresi: Japanische Lackkunst 2011, nn. 8a, b, 9a, b, 11, 13a, b, 14a, b; oppure la coppia nel castello Kynžart: Praga-Brno 2002, n. 23). Perciò, una coppia delle due viene ora presentata nella corretta combinazione, formata cioé da un pannello con ‘fiori e uccelli’ con uno raffigurante un paesaggio (ringrazio Kaori Hidaka per avermi fatto notare questa imprecisione). Secondo il calcolo realizzato da Cynthia Viallé (Viallé 2011, passim), la Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC) importò in Europa nel periodo compreso tra il 1609 e il 1692 almeno 1328 stipi laccati (in olandese comptoiren). Ai quali si devono aggiungere, oltre a quelli acquistati privatamente e quindi non registrati nei documenti ufficiali, anche quelli che inizialmente furono inviati non direttamente in Europa, bensì nelle altre basi olandesi in Asia. Molti di questi, tuttavia, raggiunsero in seguito l’Europa, una volta che i loro proprietari lasciarono l’Asia per far ritorno in patria. Fino al 1659 le ordinazioni di stipi furono abbastanza sporadiche. I prezzi delle lacche giapponesi erano molto alti e intorno alla metà del secolo il commercio con l’Oriente subì un radicale ridimensionamento a causa delle guerre che imperversavano in Europa. Dal 1659, invece, il commercio riprese con grande intensità, fino al 1692, anno in cui i responsabili della Compagnia decisero di sospendere gli acquisti di lacche. La stessa studiosa (p. 43) riferisce che la prima menzione nei documenti della VOC di una “coppia di stipi” risale al 1660. Ciò non vuol dire che fossero necessariamente sempre venduti in coppia, anzi. Le lacche giapponesi erano così costose che solo alcuni potevano permettersi il loro acquisto, anche di singoli pezzi. Non ci sono indicazioni però sull’ipotesi che essi fossero realizzati con immagini a specchio. Questa coppia di pannelli di Palazzo Pitti è quindi un’interessante testimonianza dell’esistenza di coppie di stipi con decorazioni speculari. Sebbene nei documenti si faccia menzione di decori in altorilievo almeno dal 1648 (Viallé 2011, p. 43), le prime testimonianze certe riguardano il 1653, quando il Governatore richiese questo tipo di decorazione per stipi destinati a Batavia, e il 1657, allorché furono ordinati comptoiren da spedire in Olanda, ornati con la tecnica del takamaki-e. Francesco Morena 410 Arita, periodo Edo, fine del XVII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, h. cm 47 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv AcE 1911 n. 1206 Questa grande scultura in porcellana giunse a Firenze il 30 settembre 1866, proveniente dal Palazzo Reale di Parma (Morena 2004c, pp. 119-120, tav. IId; Morena 2005, p. 385, n. 377). Riguardo alla sua storia precedente si possono fare solo delle ipotesi, tenendo a mente le vicende dinastiche e collezionistiche che hanno riguardato il Ducato di Parma nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento. Divenuto re di Napoli nel 1734, Carlo di Borbone (1716-1788), figlio primogenito di Elisabetta Farnese (1692-1766) e del re di Spagna Filippo V (1683-1746), si impossessò di quasi tutto l’ingente patrimonio artistico dei Farnese di Parma trasferendolo nella città campana. Duca di Parma divenne allora suo fratello Don Filippo (1720-1765) che sposò nel 1739 Louise-Elisabeth (1727-1759), figlia di Luigi XV re di Francia (1710-1774). I due dal 1748 risiedettero stabilmente in Italia. Parma divenne allora una ‘piccola Parigi’, grazie all’opera di artisti e architetti francesi e all’arrivo di arredi dalla capitale. Oggetti artistici estremo-orientali giunsero senza dubbio nei palazzi del Ducato, poiché il gusto francese di allora aveva una certa predilezione per le porcellane e per le lacche della Cina e del Giappone. Seguì il ducato di Don Ferdinando (1751-1802), primo figlio di Filippo e Louise-Elisabeth e, dal 1796, l’occupazione napoleonica. Dal 1815 il Ducato fu assegnato a Maria Luigia d’Austria (1791-1847), figlia dell’imperatore e già sposa dal 1810 dello sconfitto Napoleone. Prima dell’Unità d’Italia, tra il 1847 e il 1859, Parma fu infine governata da Maria Luisa di Berry (1819-1864). Un certo numero di manufatti estremo-orientali di vario genere, ora conservati a Palazzo Pitti (Morena 2005, pp. 407-432, nn. 412-451), appartennero indubitabilmente alle ultime due duchesse di Parma, poiché essi sono esemplari di una produzione cinese della prima metà del XIX secolo. Con tali premesse, la statuetta giapponese ora in discussione potrebbe in origine essere forse appartenuta ad uno dei suddetti personaggi. Finora non è stato possibile identificarlo. Tuttavia, la nostra sensazione è che facesse parte della collezione di Don Filippo e Louise-Elisabeth, i quali maggiore attenzione prestarono al gusto per la Cineseria e per il collezionismo di arte cinese e giapponese. La dama raffigurata in questa scultura è una fuji-musume, una “fanciulla del glicine”, ovvero una danzatrice che esegue i suoi passi con un ramo fiorito di glicine nella mano. Altri rami di glicine si vedono anche sulla zona superiore dell’ampio soprabito, mentre più in basso, oltre ad altri fiorellini, si vedono alcune coppie di motivi a croce (forse l’abbozzo di una staccionata?). Secondo l’iconografia più usuale di questo personaggio teatrale, sulla testa doveva portare un largo cappello nero, non più presente sul capo di questa statuetta (Firenze 1980, p. 138, n. 4). Questo oggetto fu realizzato nelle fornaci di Arita (odierna prefettura di Saga, isola di Kyūshū), cittadina nella quale si trovano le più importanti manifatture di porcellane del Giappone. Tra la metà del Seicento e i primi decenni del Settecento, una parte consistente dell’intera produzione di Arita era destinata all’esportazione verso l’Occidente. Da parte europea questo traffico di vasellame era gestito esclusivamente dalla Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC), unica impresa occidentale alla quale le autorità giapponesi avevano concesso l’autorizzazione di intrattenere rapporti commerciali sull’arcipelago. Per il tipo di colori utilizzati (blu di cobalto sotto coperta, smalti rosso e nero e diffusi tocchi d’oro), essa appartiene alla tipologia ‘Imari’, cosiddetta dal nome del porto non lontano da Arita nel quale si caricavano le navi con questo vasellame. Il soggetto della dama giapponese, sia a tutto tondo come in questo e in un altro esemplare di Palazzo Pitti (v. cat. III.9), sia come ornato pittorico (v. cat. III.40), è molto diffuso nella produzione di Arita del Sei-Settecento. Questo tipo di personaggio femminile doveva infatti molto incuriosire gli europei che per lo più non avevano mai avuto la possibilità di vedere dal vivo una donna giapponese. Statuette simili a questa di Firenze si trovano, infatti, in numerose residenze antiche e nobiliari europee. Senz’altro sculture analoghe si trovavano anche a Firenze al tempo dei Medici (ante 1743), ed in particolare nel Gabinetto delle Porcellane allestito a Palazzo Pitti per volere di Anna Maria Luisa, Elettrice Palatina (16671743) (Morena 2004c, pp. 119-120). Francesco Morena 411 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 36 III. 37 Ciotola Tazza con coperchio e piattino Arita, periodo Edo, ultimo quarto del XVII secolo; Europa, XVIII secolo porcellana di stile Kakiemon, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata; bronzo dorato, cm 19×28,5 Firenze, Palazzo Pitti, Quartiere d’Inverno, Studio della Regina, Inv MPP 1911 n. 16590 La ciotola è giunta a Palazzo Pitti il 30 settembre 1867, proveniente da Sala Baganza (Morena 2004a, pp. 54-55, fig. 15; Morena 2005, p. 382, n. 374, tav. LIX; Roma 2007, pp. 57-58). Intorno alla metà degli anni Sessanta dell’Ottocento il Casino di questa cittadina, acquistato dai Borbone nel 1817, servì come punto di raccolta degli arredi che dalle altre residenze borboniche erano in procinto di essere trasferiti a Firenze, divenuta in quel periodo capitale del neonato Regno d’Italia. Non sappiamo perciò se questa ciotola facesse in origine parte dell’allestimento del Casino di Sala Baganza, o se si trovasse invece, per esempio, a Parma o a Colorno. Questa grande coppa ha sezione circolare, con ampiezza massima nei pressi della bocca, e base a anello. La decorazione è stata dipinta in blu di cobalto sotto coperta e smalti rosso, verde e nero stesi sopra l’invetriatura trasparente, ai quali si aggiungono tocchi di oro. Sull’esterno si svolgono scene ambientate all’aperto, con rocce, alberi, capanne, padiglioni, un ponticello, figure maschili e femminili e piccoli animali, come due galletti. All’interno, in alto una banda con ornato geometrico di lineette diagonali e sul fondo minuto ornato floreale. Una robusta montatura in bronzo dorato si sviluppa separatamente come base e come bordura dell’orlo con due manici. Si compone di volute ‘a orecchio’ di gusto tardo Barocco, sulle quali si attaccano foglioline sparse. Riguardo alla ciotola, essa è esemplare di una produzione delle fornaci di Arita del tardo XVII secolo. Per il tipo di smalti utilizzati appartiene alla cosiddetta tipologia Kakiemon, ovvero ad un particolare genere di vasellame prodotto in alcune fornaci nell’area di Arita, notabile per il candore e la purezza della pasta ceramica e per la brillantezza degli 412 Arita, periodo Edo, fine del XVII secolo porcellana di tipo Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata. Tazza, h. cm 7,7; coperchio, diam. cm 8,5; piattino, diam. cm 14,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv AcE 1911 nn. 1152-1154 smalti. Per queste sue qualità la porcellana di tipo Kakiemon riscosse un grande successo in Europa fin dai primi tempi in cui vi fu importata, ovvero negli ultimi decenni del Seicento. La montatura, invece, è un’aggiunta europea. Questo tipo di combinazione – tra la porcellana, cinese prima e giapponese dopo, e armature occidentali in metallo adattate alla forma del contenitore ceramico – ha origini molto antiche. Si può dire anzi che alcune tra le prime porcellane cinesi giunte in Europa nel XIV-XV, come ad esempio il Vaso Gaignières-Fonthill (acquistato forse nel 1338; Dublino, National Museum of Ireland) o la coppa céladon con lo stemma Katzenelnbogen (acquisita forse nel 1433-1434; Kassel, Landesmuseum), siano state subito dotate di più o meno elaborate montature in metalli di vario tipo, per aumentarne il prestigio e il valore. Così combinato, questo vasellame esotico entrava a far parte delle ‘Camere delle Meraviglie’, che allora s’andavano allestendo nelle residenze reali di tutta Europa. La moda di guarnire le porcellane orientali con montature in metallo continuò anche nei secoli a venire. Ebbe particolare successo nel XVIII secolo, allorché lo stile delle montature si adeguò alle capricciose evoluzioni del Rococò, soprattutto di quello fiorito di provenienza francese. Riguardo alla montatura che arricchisce questa ciotola giapponese, essa ci sembra del Settecento, forse della prima metà di quel secolo. Mostra senz’altro caratteristiche stilistiche di gusto francese, ma non possiamo escludere che si tratti dell’opera di una fonderia olandese. Francesco Morena Questo ensamble, formato da tazza coperchio e piattino, proviene da Parma, giunto a Palazzo Pitti il 30 settembre 1866, all’epoca in cui Firenze era capitale del Regno d’Italia (1865-1870). Nello stesso Museo degli Argenti sono conservate altre cinque tazzine analoghe, con sei coperchi e tre piattini (M orena 2005, p. 379, n. 368). È molto probabile che queste porcellane giapponesi appartenessero un tempo ai duchi Borbone di Parma, come molte delle altre di là provenienti oggi conservate a Palazzo Pitti (v. cat. III.35III.40). Don Filippo (1720-1765) e sua moglie Louise-Elisabeth (1727-1759) infanta di Francia, sposi dal 1739 e in Italia dal 1748, acquistarono a Parigi, o ricevettero in dono da Luigi XV (1710-1774), grandi quantità di manufatti artistici per arredare le residenze di Parma e di Colorno. Tra loro non mancavano le porcellane giapponesi, come è testimoniato in alcuni documenti ancora inediti che mi sono stati messi a disposizione da Andreina d’Agliano, che qui ringrazio sentitamente. Allora, infatti, in Francia vi era grande disponibilità di oggetti estremo-orientali. Nonostante si avvicinassero i tempi della riscoperta degli stilemi della Classicità, era ancora molto diffuso il gusto Rococò, nel quale trovavano spazio numerose suggestioni provenienti dal continente asiatico. In quel periodo, verso la metà del XVIII secolo, la Compagnia delle Indie Orientali olandese (VOC) aveva già drasticamente ridotto le quantità di porcellane giapponesi importate in Europa. Tuttavia, nei decenni precedenti la mole di questo vasellame trattato dagli olandesi era stata talmente grande che il mercato ne era ancora saturo. Questo tipo di tazzina, completo di coperchio e piattino, risulta in collezioni nobiliari europee dalla fine del XVII secolo. Come riportato nei documenti del tempo, era usato per la cioccolata calda, la bevanda di origini americane più alla moda in Europa in quei decenni. Registrazioni di simili contenitori in porcellana cinese o giapponese si ritrovano numerosissime anche negli inventari medicei tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento (Morena, in Alba 2008, n. 32: la fotografia in questo catalogo illustra gli oggetti che ora si stanno discutendo, ma la scheda si riferisce ad altri manufatti analoghi cinesi, sic!). Lo stesso scopo di contenere cioccolato era assolto da tazze di forma e dimensioni analoghe in legno laccato (v. cat. III.2). Dipinti in blu di cobalto sotto coperta, smalto rosso e oro al di sopra dell’invetriatura trasparente, i tre pezzi di questo insieme sono esemplari di porcellana di tipo ‘Imari’ verso la fine del XVII secolo. Francesco Morena 413 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 38 Piatto periodo Edo, fine del XVII inizio del XVIII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalto e parzialmente dorata, diam. cm 56 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv AcE 1911 n. 411 Questo piatto è un esemplare di un gruppo di cinque pezzi, analoghi per dimensioni e decorazione, tutti conservati presso il Museo degli Argenti (inv. AcE 1911 nn. 411-415: Zenone Padula 1997, p. 38 e p. 42 note 17 e 19; Morena 2005, p. 374, n. 359, tav. LVII). I cinque piatti giunsero a Palazzo Pitti da Parma il 30 settembre 1866. La loro storia precedente rimane ancora ignota. Tuttavia, si possono fare delle ipotesi. Secondo una di queste, in verità la più plausibile, i piatti facevano parte della raccolta di porcellane di Filippo di Borbone (1720-1765) e di sua moglie Louise-Elisabeth (1727-1759), sposi dal 1739 e duchi di Parma dal 1748. Figlia di Luigi XV re di Francia (1710-1774), la duchessa allestì i suoi palazzi italiani prevalentemente con arredi acquistati in Francia. Tra questi non mancavano manufatti estremo-orientali, in particolare lacche e porcellane, poiché in Francia allora ve n’era grande disponibilità. Inserire negli allestimenti di gusto Rococò oggetti cinesi e giapponesi era in tutta Europa sinonimo di buon gusto. Così la giovane duchessa acquisì anche manufatti asiatici, molti dei quali, dopo l’Unità d’Italia (1861), furono trasferiti in altre sedi del governo sabaudo. Molti furono inviati a Firenze subito dopo che essa assurse al rango di capitale d’Italia (1865-1870), e da allora ancora si trovano a Palazzo Pitti (Morena 2005, pp. 338-340). Questo grande piatto è un magnifico esemplare di porcellana giapponese da esportazione, realizzato verso la fine del XVII secolo in una delle fornaci di Arita. In questa cittadina, ubicata nell’antica provincia di Hizen (attuale prefettura di Saga) nell’isola di Kyūshū, si produssero tra la metà del Seicento e i primi decenni del Settecento enormi quantità di vasellame in porcellana destinato all’esportazione verso l’Europa. Questo commercio era gestito esclusivamente dagli olandesi della Compagnia delle Indie orientali (VOC), unici occidentali ai quali il governo giapponese avevo concesso l’autorizzazione a svolgere traffici con gli isolani. Le porcellane di Arita venivano caricate sulle navi nel non lontano porto di Imari, per poi essere distribuite in altri luoghi dell’arcipelago nipponico. A Dejima, l’isoletta nel golfo di Nagasaki dove erano relegati dalle autorità giapponesi, gli olandesi si rifornivano di questi beni fino a riempire le stive dei loro velieri; quindi salpavano, dapprima verso gli altri porti asiatici e poi verso Amsterdam, la destinazione finale. Già nel XVII secolo i giapponesi chiamavano questa porcellana da esportazione col nome di ‘Imari’, e questa definizione è rimasta tuttora la più usata per identificare questo vasellame. Dal punto di vista della decorazione, solitamente la porcellana ‘Imari’ si distingue per l’uso contemporaneo del blu di cobalto steso al di sotto della coperta vetrosa e dello smalto rosso e dell’oro applicati al di sopra dell’invetriatura trasparente. Questo piatto di Palazzo Pitti rappresenta quindi una variante di questa tavolozza più comune. Per la sua ricchissima decorazione dipinta non è stato infatti usato lo smalto rosso, e il pittore si è limitato all’utilizzo del blu e dell’oro. Quest’ultimo però è steso con grande profusione, e anche il bianco della porcellana finisce per svolgere non solo un ruolo di base neutra per la pittura, ma si integra perfettamente nella composizione ornamentale. Il centro del fondo è occupato da un grande medaglione circolare, nel quale si situa una scena con un pino (matsu), rami fogliati bambù (take), fiori di pruno (ume) e una coppia di gru (tsuru). Sia i volatili sia le piante sono simboli di longevità molto diffusi in Giappone e, inoltre, pino, bambù e pruno insieme sono noti come i ‘Tre Amici dell’Inverno” (shōchikubai), piante che in comune hanno la capacità di resistere ai rigori dell’inverno. Nello spazio compreso tra il cavetto arrotondato e l’ampia tesa obliqua si dispone un esuberante tappeto di tralci fogliati in oro, sul quale si sovrappongono quattro riserve a cornice polilobata con delicate composizioni di fiori e uccelli all’interno di ognuna. Sul retro si isolano tre rametti fioriti di crisantemo (kiku). L’armonia con cui è stata concepita la decorazione di questo piatto risente senz’altro delle evoluzioni della pittura giapponese della Scuola Kanō, nel cui repertorio non mancavano soggetti di ‘fiori e uccelli’ di questo genere. Un esemplare del tutto analogo a questo si trova nella Porzellansammlung di Dresda, appartenuto alla raccolta di Augusto il Forte (1670-1733) (Ströber 2001, pp. 194-195, n. 88) (v. cat. II.47). E al sovrano sassone doveva appartenere anche l’esemplare ora nel Metropolitan Museum di New York (New York 1989, pp. 90, 92, n. 64). Questa comparazione tra i pezzi che furono del più grande collezionista europeo di porcellane orientali dell’antichità e gli esemplari ora a Palazzo Pitti è piuttosto significativa, testimonianza della grande diffusione di un medesimo gusto per l’arte estremo-orientale in tutte le corti d’Europa del Sei-Settecento. Francesco Morena 414 415 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 39 Piatto Arita, periodo Edo, fine del XVII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, diam. cm 54,5 Firenze, Palazzo Pitti, Museo degli Argenti, Inv AcE 1911 n. 436 Il grande piatto, insieme a un altro esemplare analogo anch’esso conservato nel Museo degli Argenti (inv. AcE 1911 n. 437, rotto e ricomposto: Morena 2005, p. 375, n. 360, tav. LVIII), giunse a Firenze il 30 settembre 1866, proveniente da Parma, nello stesso gruppo di oggetti dei quali faceva parte anche il piatto inv. AcE n. 411, alla cui scheda (v. cat. III.38) si rimanda per alcune ipotesi riguardanti la storia più antica anche dell’esemplare ora in discussione. La decorazione di questo piatto, dal basso cavetto arrotondato e tesa piatta inclinata, è oltremodo esuberante. Dipinta in blu di cobalto sotto coperta, smalti rosso, verde e nero stesi al di sopra dell’invetriatura trasparente, ai quali si aggiungono ampie campiture e tocchi d’oro, la pagina ornamentale sulla superficie a vista consiste in un tappeto di fiori di peonia (botan) raccordati da ampollosi tralci fogliati; vi si sovrappongono sei grandi riserve, tre di forma circolare e altrettante di forma lobata; in ognuno dei medaglioni a cerchio si dispone una corolla stilizzata di crisantemo (kiku) a dodici petali, ognuno dei quali ornato di tappeti floreali o geometrici; nelle altre tre riserve più grandi si vedono, sul bianco candido della porcellana, altrettante composizioni di uccelli e fiori, in particolare ciliegi (sakura), pruno (ume), pino (matsu) e melograno (zakuro). Sul retro si dispongono tre rami fioriti di peonia, eseguiti con stile compendario (Mosco-Casazza 2004, p. 217). Tale tipo di decorazione è noto con il nome giapponese di nishiki-e, letteralmente “pittura a broccato”, per mettere in evidenze le affinità stilistiche con le ricche decorazioni che contemporaneamente caratterizzavano i tessuti più eleganti (v. cat. I.58-I.65). Questo piatto esemplifica al meglio la produzione di porcellana giapponese esplicitamente destinata all’esportazione verso l’Europa. Fu realizzato verso la fine del Seicento ad Arita, cittadina nell’isola di Kyūshū (antica provincia di Hizen, attuale prefettura di Saga) nella quale erano ubicate le più importanti manifatture di porcellana del paese. Tra la metà del XVII e i primi decenni del XVIII secolo, nelle fabbriche di Arita si produsse un’ingente quantità di vasellame per gli acquirenti europei. Le transazioni erano gestite dagli olandesi della Compagnia delle Indie Orientali (VOC), che avevano base logistica nell’isoletta di Dejima, nel porto naturale di Nagasaki (v. cat. II.43, II.44). Da Arita le porcellane rifinite erano prima inviate nel non lontano porto di Imari, dal quale poi salpavano le navi cariche di questa mercanzia alla volta degli altri scali marittimi giapponesi, tra cui Nagasaki. I velieri olandesi riprendevano il mare alla volta prima degli altri porti asiatici e quindi verso Amsterdam. Già nel Seicento gli stessi giapponesi chiamavano questa porcellana da esportazione col nome di ‘Imari’, e questa definizione è rimasta la più usata anche oggi per riconoscere questo vasellame giapponese. In Europa esso ebbe uno straordinario successo: per i suoi colori vivaci, le forme opulente e la grande profusione d’oro, s’inserì perfettamente nei fastosi allestimenti barocchi che allora caratterizzavano le residenze più importanti d’Europa. Questo bellissimo piatto di Palazzo Pitti appartiene dunque alla tipologia ‘Imari’; per la sua qualità pittorica elevatissima si può considerare esemplare della migliore produzione di porcellane giapponesi da esportazione. Un esemplare di minori dimensioni dal decoro del tutto analogo a questo si trova nel Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo (Catalogue of Japanese Art in The State Hermitage Museum 1993, p. 173, n. 917). Francesco Morena 416 417 Lacche e porcellane giapponesi a Palazzo Pitti III. 40 Vaso Arita, periodo Edo, inizio del XVIII secolo porcellana di stile Imari, dipinta a smalti policromi e parzialmente dorata, h. cm 90 Firenze, Palazzo Pitti, Appartamenti Reali, Salone Verde, Inv OdA 1911 n. 728 Il vaso proviene da Parma, giunto a Palazzo Pitti il 15 aprile 1868, all’epoca in cui Firenze era capitale del Regno d’Italia (1865-1870) (Zenone Paula, in Appartamenti Reali 1993, p. 230, n. II.41). Nello stesso mandato era registrato pure l’altro vaso analogo per forma, dimensioni e decorazione ma privo di coperchio, anch’esso tuttora conservato nella reggia fiorentina (Appartamento degli Arazzi, Sala della Carità, inv. OdA 1911 n. 1130: Morena 2005, p. 381, n. 373); quest’ultimo esemplare, però, proveniva da Piacenza. La loro storia precedente rimane ancora oscura. Come per altri manufatti giapponesi provenienti dal Ducato di Parma (v. cat. III.34-III.39), si possono solo fare delle ipotesi. La più plausibile, a nostro avviso, è che gran parte degli oggetti cinesi e giapponesi provenienti da Parma facessero in origine parte degli arredi acquisiti a suo tempo da Don Filippo di Borbone (1720-1765) e Louise-Elisabeth (1727-1759) infanta di Francia, sposi dal 1739 e duchi di Parma dal 1748. Assidui frequentatori della corte parigina anche dopo il loro insediamento in Emilia, non solo ebbero lì modo di rifornirsi di arredi di ogni tipo, ma furono oltremodo influenzati dal gusto del Rococò francese, nel quale ruolo privilegiato avevano lo stile Cineseria e il collezionismo di arte estremo-orientale. Viva e rara testimonianza di questa predilezione dei duchi di Parma per il gusto ‘alla cinese’ sono i due Salottini Cinesi nella residenza di Colorno, almeno uno dei quali allestito per ospitare porcellane, secondo le indicazioni fornite dall’estroso architetto di corte Ennemond Alexandre Petitot (1727-1801) (Morena 2009a, pp. 253-256). I duchi ebbero modo di frequentare i maggiori mercanti d’arte di Parigi, presso i quali acquistarono anche porcellane e lacche cinesi e giapponesi (Morena 2005, pp. 338-340). Di queste acquisizioni è rimasta una certa documentazione d’archivio che mi è stata segnalata da Andreina d’Agliano, alla quale vanno i miei ringraziamenti. A sezione circolare, con diametro massimo nei pressi della spalla, il vaso ha collo cilindrico e coperchio a calotta emisferica, con tesa inclinata verso il basso e presa a pomello di tipo giboshi. L’intera superficie esterna è dipinta in blu di cobalto sotto la coperta vetrosa, smalti rosso e nero stesi al di sopra dell’invetriatura trasparente, ai quali si aggiungono diffusi tocchi d’oro. La complessa decorazione mostra verso la base, sulla spalla e sul collo una serie di bande a decoro fitomorfo; la zona superiore del corpo è occupata da un festone di pannelli a forma di toppa di serratura, disposti su due registri paralleli; sulla superficie rimanente si svolge una scena con due coppie di dame su una passerella sistemata al di sotto di un ricco pergolato di glicini (fuji) e di fiori di ciliegio (sakura). Ognuna di loro ha in mano un oggetto, come un rametto fiorito, una gabbietta per uccelli oppure un ventaglio. Vestite elegantemente, hanno i capelli sistemati in un’acconciatura denominata shimada-mage, molto in voga al tempo. Tra loro si dispongono edifici a tre piani, tipici delle città portuali giapponesi. Questo tipo di composizione con figure femminili e abitazioni è noto in giapponese col nome di rōkaku bijin-zu, “disegno di edifici e belle donne”. Esso compare non raramente come decoro delle porcellane realizzate ad Arita tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII secolo, tra quelle destinate all’esportazione verso l’Europa. Dipinte utilizzando i colori più tipici della tavolozza ‘Imari’, erano spesso liberamente ispirate da stampe e dipinti dell’Ukiyo-e, le “immagini del mondo fluttuante” (v. cat. I.68-I.72). Questo genere artistico prese le mosse già all’inizio del periodo Edo (1615-1868), cosiddetto dal nome della città (odierna Tokyo) in cui risiedeva lo shogunato, diffondendosi prevalentemente nei grandi centri urbani del paese e prediletto in particolare dai membri della borghesia emergente. Nell’Ukiyo-e il tema della “bella donna” (bijin) impegnava moltissimi artisti. Negli ultimi decenni del Seicento il più ammirato Maestro dell’Ukiyo-e era senz’altro Hishikawa Moronobu (?-1694) che in moltissime occasioni si confrontò con il soggetto della bijin, sia come disegni di preparazione per xilografie, sia per dipinti. Le caratteristiche del suo inconfondibile stile riecheggiano anche nelle figure femminili che compaiono in questo vaso di Palazzo Pitti. Tuttavia, si deve ricordare che Moronobu non solo ebbe numerosi discepoli diretti, ma anche un folto stuolo di imitatori, tanto che il suo modo di trattare le figure divenne nell’era Genroku (1688-1703), e oltre, una sorta di stilema. Si segnala la presenza di una composizione simile a questa del vaso in discussione su un grande piatto conservato nel Palazzo Reale di Torino (Kondo, in Torino 1986, pp. 405-406, n. 216). Inoltre, una coppia di vasi del tutto analoghi a questi di Palazzo Pitti si trova nel Museo Idemitsu di Tokyo (Idemitsu Museum 1981, p. 124, n. 470). Francesco Morena 418 419