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Guardare oltre - Meltemi Editore

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Guardare oltre - Meltemi Editore
meltemi.edu
96
fotografia / critica letteraria
Copyright © 2008 Meltemi editore, Roma
ISBN
978-88-8353-608-3
Questo volume è pubblicato con un contributo
del Miur, Fondi Prin 2005
È vietata la riproduzione, anche parziale,
con qualsiasi mezzo effettuata compresa la fotocopia,
anche a uso interno o didattico, non autorizzata.
Meltemi editore
via Merulana, 38 – 00185 Roma
tel. 06 4741063 – fax 06 4741407
[email protected]
www.meltemieditore.it
a cura di
Silvia Albertazzi
e Ferdinando Amigoni
Guardare oltre
Letteratura,
fotografia e altri territori
MELTEMI
Indice
p.
7
Premessa generale
Silvia Albertazzi, Michele Cometa, Massimo Fusillo
9
Introduzione
Silvia Albertazzi
Parte prima
Guardare l’Europa / guardare in Europa
15
Due scrittori davanti all’obiettivo: Capuana e Verga
Giuseppe Sorbello
31
Nero su bianco: narrazione e fotografia nella (contro)sfera
pubblica
Paola Zaccaria
51
Il flâneur e le città di Praga
Matteo Colombi
69
Il dubbio sulla fotografia: Brecht, Bachmann, Handke
Maria Luisa Wandruszka
89
Paradigma indiziario e fotografia: Sebald, Modiano, Perec
Carlo Mazza Galanti
107
Gli strani grovigli del vedere: Luigi Ghirri e Gianni Celati
Ferdinando Amigoni
125
Michel Tournier e la didascalia, tra immagine, realtà e
scrittura
Elena Cappellini
141
“Un mucchio di distruzioni”: divagazioni su David Hockney
Silvia Albertazzi
161
Sophie Calle: tra fotografia e parola
Donata Meneghelli
177
Confini non ovvi: Ornela Vorpsi e Julia Kristeva
Francesco Cattani
Parte seconda
Guardare oltre l’Europa
195
Intermittenti presenze: la traccia, l’immagine, il subalterno
Roberto Vecchi
215
Scritture di luce: Wright Morris e l’invenzione del phototext
Maria Vera Speciale
233
Juan Rulfo fotografo: narrare in bianco e nero
Cristina Fiallega
251
Storia di un’immagine congelata: un racconto di Alice
Munro
Héliane Ventura
269
La bellezza convulsa di Francesca Woodman
Claudia Calavetta
279
“Lo spostamento della realtà nelle fotografie”: tecnologie
e trasmissioni della memoria
Rita Monticelli
295
Letteratura e pubblicità nel Novecento: dalla parola
all’immagine
Francesco Ghelli
313
Yvonne Vera: segni, immagini e visioni del reale
Federica Zullo
329
Il teatro in bianco e nero: scatti sulla scena della drammaturgia africana
Tiziana Morosetti
343
Gli scrittori della créolité e l’uso della fotografia
Francesca Torchi
Premessa generale
Silvia Albertazzi, Michele Cometa, Massimo Fusillo
La ricerca sugli intrecci tra letteratura e cultura visuale ha ormai una consolidata tradizione internazionale e notevoli ricadute anche in Italia. In particolare, negli ultimi
decenni del Novecento si è assistito a una ripresa del dibattito sulla “reciproca illuminazione tra le arti”, stimolato ovviamente dal ruolo sempre crescente che le immagini hanno “per” la letteratura (la questione della descrizione), “nella” letteratura (le questioni poste da produzioni esplicitamente intermediali) e nel “sistema-letteratura” (distribuzione, circolazione, ricezione dei testi e
delle immagini). Su questa consolidata e fertile tradizione di studi si innesta oggi, almeno a partire dal celebre Visual Culture Questionnaire apparso sulla rivista «October»
nel 1996, una considerevole tradizione disciplinare che coniuga studio delle letterature (con forte prevalenza degli
approcci comparatistici e transnazionali), della visualità e
delle tecnologie della visione (dalla camera oscura al panorama, dalla fotografia al cinema, dalle immagini digitali
alla videoart). La Visual Culture contemporanea è per altro interessata a uno studio contestuale delle immagini, dei
mezzi che le producono (tipicamente i media, ma anche
i dispositivi della visione più tradizionali) e delle forme
della loro ricezione (lo sguardo individuale e collettivo).
Il presente volume fa parte di una serie di pubblicazioni che rappresentano il prodotto di una Ricerca scientifica di rilevante interesse nazionale finanziata con fon-

SILVIA ALBERTAZZI, MICHELE COMETA, MASSIMO FUSILLO
di PRIN 2005 (Letteratura e cultura visuale: dall’era prefotografica all’era del cinema) (www.visualstudies.it), promossa dalle Università di Palermo, Bologna e L’Aquila e
coordinata da Michele Cometa.
La ricerca – che si è articolata in una serie di seminari
e incontri nazionali ed internazionali – ha inteso porre le
basi metodologiche per uno studio comparato di letteratura e cultura visuale, che appare decisivo sia sul fronte della teoria letteraria, da sempre interessata ai rapporti tra verbale e visuale, sia per la ridefinizione del ruolo che la letteratura può e deve avere nell’ambito degli studi culturali e delle scienze della comunicazione. In quest’ottica, lo
studio comparato di alfabetizzazione letteraria e alfabetizzazione visuale può contribuire a ribadire il ruolo della letteratura nella costituzione dei paradigmi interpretativi della società in cui viviamo, non isolandola dal contesto più ampio e fecondo dello studio delle culture e della
comunicazione.
Introduzione
Silvia Albertazzi
Il presente volume costituisce il risultato della ricerca
compiuta dall’unità di Bologna nell’ambito del PRIN Letteratura e cultura visuale, diretto in sede nazionale da Michele Cometa, e comprendente, oltre all’unità bolognese,
che lavorava su letteratura e cultura visuale nell’era della
fotografia, coordinata da chi scrive, ricercatori di Palermo,
coordinati dallo stesso Cometa sul tema dei dispositivi
della visione in letteratura nell’età pre-fotografica e studiosi
de L’Aquila, che hanno analizzato, sotto la guida di Massimo Fusillo, il rapporto tra letteratura e cultura visuale
nell’era del cinema. Parte, dunque, di una trilogia critica
pressoché inscindibile, in quanto scaturita da analoghe
premesse metodologiche e da incontri, seminari, convegni
e discussioni collettive sulla cultura visuale, Guardare oltre riflette il lavoro di due intensi anni di ricerca, non solo da parte di investigatori dell’Alma Mater Studiorum, ma
anche di esperti italiani e stranieri aggregatisi al progetto
con incredibile entusiasmo, spinti dall’interesse per la tematica trattata.
Fin dall’inizio dei loro incontri, tenutisi con sempre
maggiore frequenza, nell’arco di due anni, sotto l’egida del
CITELC (Centro Interdipartimentale di Teoria e Storia
Comparata della Letteratura) di Bologna, i ricercatori si
sono trovati a individuare la necessità di porsi a confronto con la propria tematica su tre piani: facendo riferimento, in primo luogo, allo sguardo, ovvero analizzan-

SILVIA ALBERTAZZI
do l’uso della fotografia e della sua descrizione nei testi;
poi, rimandando alle tecnologie, ovvero al modo in cui la
fotografia in quanto dispositivo della visione influenza la
scrittura; infine, rapportandosi all’immagine stessa, ovvero alla lettura della fotografia come narrazione. Si trattava, dunque, innanzitutto di non limitarsi a specifiche categorie d’interesse, ma di vedere la storia oltre l’immagine, ovvero di riflettere sul passato, attraverso la fotografia “scritta”, per prevedere il futuro, di ricollocare “la foto nel tempo – ma non nel suo tempo originario, perché
è impossibile – ma nel tempo narrato” (Berger 1980, p.
68). In una parola, la sfida accettata dagli studiosi dell’unità bolognese era sondare “il significato e l’enigma
della stessa visibilità” (p. 46), al di là di ogni tentativo di
ekphrasis, descrizione, discussione.
In tal modo, i venti saggi raccolti in questo volume, che
potrebbero essere suddivisi in tre filoni di ricerca tra loro
intersecantisi – fotografia e scrittura, fotografia e memoria e lettura dell’immagine come testo – rispondono tutti,
seppur in modi e maniere differenti, ad analoghe questioni, ognuno di essi raffrontandosi con comuni problematiche.
1) Rispetto al modo in cui la tecnica della fotografia influenza la scrittura pongono a confronto il tempo dell’esposizione con il tempo della vita; si rapportano con l’impossibilità di concepire la durata; mettono a contrasto il
momento fotografato con gli altri momenti dell’esistenza;
confrontano l’abolizione del continuum e l’atomizzazione
della realtà in serie di istanti così come appaiono nella fotografia e in letteratura; si rifanno alla teoria della traccia,
della foto come impronta e alle sue derive letterarie soprattutto postcoloniali; indagano sulla violenza della rimozione dell’immagine dal suo contesto, ma anche sulla
spettacolarizzazione ideologica dell’immagine medesima
e, per contro, sull’irruzione del privato nel pubblico, sulla pubblicità del privato.
INTRODUZIONE

2) Studiando il rapporto tra fotografia e memoria, si
confrontano con il paradosso della fotografia pubblica come immagine “della memoria di un assoluto estraneo” (p.
58), ma anche come liberazione dal peso della memoria
stessa, registrazione effettuata allo scopo di dimenticare,
o meglio di far parlare l’immagine nel silenzio (cfr. Barthes
1980): di conseguenza, e in senso del tutto originale, l’analisi del rapporto tra memoria e trauma porta non solo
alla consapevolezza dell’irrappresentabilità della traccia,
ma anche e soprattutto al tentativo di mettere in relazione i visual studies con i subaltern studies postcoloniali. Ancora una volta secondo il dettato di Berger, i ricercatori
si propongono di ricollocare le foto nel contesto dell’esperienza, rispettando il processo della memoria, consapevoli “dell’enorme numero di associazioni che portano
tutte al medesimo evento” (Berger 1980, p. 67), leggendo la foto – narrata e/o stampata – “in modo che acquisti qualcosa della sorprendente compiutezza di ciò che era
ed è” (ib.).
3) La lettura dell’immagine fotografica presuppone,
barthesianamente, da parte degli studiosi l’invenzione di
una propria, personale, accoglienza dell’immagine, ricevuta nel suo stesso scandalo, caricata di una storia da cui
lasciarsi disorganizzare, ma anche “abitata” dall’osservatore, mai semplicemente “visitata”, nella misura in cui
ogni immagine fotografica si offre all’occhio, secondo la
definizione di Roland Barthes, come “abitabile” (cfr.
Barthes 1980).
Studiosi tutti di letteratura, letterati affascinati dall’immagine fotografica, i ricercatori che hanno collaborato a questo volume si riconoscono nell’atteggiamento di
tanti autori contemporanei che hanno scritto di fotografia in narrativa. Valga per tutti l’osservazione del narratore di Coming Through Slaugher (Buddy Bolden’s Blues) di
Michael Ondaatje che, riflettendo sulla figura di Bellocq,

SILVIA ALBERTAZZI
il fotografo di Storyville che appare in veste di comprimario nel romanzo, afferma:
Chi è Bellocq?
Un fotografo. Faceva ritratti. Erano come... finestre. (…)
Eravamo una stanza ammobiliata e Bellocq era una finestra
da cui guardare fuori.
(Ondaatje 1976, p. 68)
A conclusione della nostra ricerca, possiamo davvero
concordare che i fotografi e le fotografie con cui ci siamo
confrontati in questi due anni per noi, “stanze ammobiliate” da orpelli critici accademici, sono stati grandi finestre spalancate sul mondo esterno, per “guardare fuori”,
per guardare oltre.
Bibliografia
Barthes, R., 1980, La chambre claire. Note sur la photographie, Paris, Gallimard-Seuil; trad. it. 1980, La camera chiara, Torino, Einaudi.
Berger, J., 1980, About Looking, London, Writers and Readers Published Cooperative Ltd.; trad. it. 2002, Sul guardare, Milano, Bruno
Mondadori.
Ondaatje, M., 1976, Coming Through Slaughter, Toronto, House of
Anansi Press; trad. it. 1995, Buddy Bolden Blues, Milano, Garzanti.
Parte prima
Guardare l’Europa /
guardare in Europa
Due scrittori davanti all’obiettivo: Capuana e Verga
Giuseppe Sorbello
In quel territorio di indagine che era il reale, su cui il
naturalismo di Zola avanzava un progetto totalitario di
controllo e di dominio, la fotografia, identificata come
una modalità meccanica di rappresentazione della realtà,
appariva come un concorrente da cui era necessario differenziarsi. Eppure i rapporti tra i due codici, anche se conflittuali, devono esserci stati, per il fenomeno di rottura che
l’introduzione dell’immagine analogica rappresentò durante l’Ottocento in ambito culturale oltre che sociologico (cfr. Sorlin 1997). Per il contesto letterario francese
una ricerca di questo tipo è stata già affrontata (cfr. Ortel
2002), mentre, in area italiana, la relazione tra scrittura e
nuove modalità di visione non è ancora stata adeguatamente impostata, se è vero che la produzione fotografica
di due scrittori come Luigi Capuana e Giovanni Verga, pur
qualitativamente significativa, viene ancora confinata a
semplice appendice biografica: curiosa e suggestiva senza
dubbio, ma inerte dal punto di vista critico.
Si tratta di dare dunque, in vista di uno studio organico sul rapporto tra verismo e fotografia, uno spessore alla personalità di Verga e Capuana fotografi, armonizzando l’uso della camera con la loro fisionomia intellettuale:
anche se le immagini da loro prodotte non devono essere
considerate come un semplice riflesso della loro scrittura,
ma come l’apertura di uno spazio di riflessione, da cui
possono scaturire persino nuove strategie narrative.

GIUSEPPE SORBELLO
Un ritratto del “Fu Luigi Capuana” inviato a Verga
Tutto inizia da Capuana1: se nel suo essenziale ruolo
guida di teorico egli era infatti riuscito a incanalare lo sperimentalismo narrativo di Verga nell’ambito innovativo
del verismo, così anche nella fotografia, la sua esperienza,
la sua passione, riuscirono alla fine ad attrarre verso il
mezzo fotografico la curiosità di Verga. Questo interesse
nacque a Firenze, la città degli Alinari, e si rafforzò sempre più fino a culminare, nel 1880, nella fondazione del
“Grande Atelier Fotografico in Mineo diretto dal Professor Luigi Capuana” (Zannier 1986, p. 97). Un vero e proprio laboratorio, in cui Capuana si estraniava spesso dal
consorzio sociale e letterario: De Roberto veniva cooptato come semplice ma entusiasta “apprendista” (ib.); Verga, da Milano, rimproverava invece questa lontananza dalla “vita attiva letteraria”: “Costà non farai nulla non solo,
ma ti ridurrai impotente a nulla fare, almeno di arte attiva e proficua” (Raya 1984, p. 136).
L’atelier di Capuana doveva essere un vero bazar di
provette, aggeggi più o meno impolverati, lastre, sali,
strumenti fotografici escogitati da lui stesso (cfr. De Roberto 1916, p. 28), congegni che gli consentivano di intervenire in tutte le fasi del lavoro fotografico: dalla ripresa
al fissaggio e allo sviluppo, fino ai processi di stampa. La
sua esperienza si svolgeva entro gli argini della fotografia
naturalistica europea, tuttavia la perizia tecnica e la personalità eclettica di cui era in possesso gli permettevano,
implicitamente, di riflettere sulle qualità del mezzo fotografico, di scoprirne i limiti e le potenzialità: la fotografia era per lui uno strumento di indagine della realtà, ma
di una realtà indagata secondo un’ottica scientista che
tentava di inglobare, oltre il visibile, anche le manifestazioni metapsichiche, come in alcuni esperimenti fotografici da lui compiuti che pretendevano di catturare sulla lastra apparizioni ectoplasmatiche. La stessa attitudine a ri-
DUE SCRITTORI DAVANTI ALL’OBIETTIVO: CAPUANA E VERGA

durre tutto in immagine concreta la ritroviamo negli
aspetti più orridi della sua produzione fotografica, come
quando riesumò il cadavere di una bambina per conservarne l’immagine, o quando, per volontà di ironica esorcizzazione, inviò alcuni scherzi fotografici agli amici scrittori. In queste immagini Capuana si ritraeva con gli occhi chiusi, come se fosse vittima di un’inerzia letteraria che
la macchina fotografica congelasse e confondesse con il
ritratto di un cadavere.
Uno di questi scherzi è raccontato da De Roberto, con
tono divertito e malinconico, in un articolo commemorativo scritto il giorno dopo la morte di Capuana:
(...) egli aveva posto a effetto la bizzarra idea di fotografarsi
nell’estremo atteggiamento, col corpo abbandonato, gli occhi stravolti, le labbra dischiuse, e aveva mandato le copie
di quel ritratto ai più intimi amici. Giovanni Verga, ricevendo
la sua, (...) ne aveva concepito l’angoscioso sospetto di qualche sciagura ed era corso a casa del suo fratello d’armi, il quale l’aveva accolto con l’espressione di quella paura con una
schietta risata (p. 27).
L’aneddoto coglie forse l’essenza che la pratica della fotografia ebbe per lo scrittore di Mineo. Inviare un ritratto a un caro amico in posa da estinto, in una scenografia
funebre, può non essere soltanto uno scherzo, peraltro di
pessimo gusto; in senso più lato, ci invita a un’ingenua (e
profonda al tempo stesso) riflessione sull’ontologia del
mezzo fotografico. Nell’ironica simulazione di autoritrarsi morto, Capuana realizza infatti un paradosso, che colora
le istanze veriste di dilemmi metafisici: egli non mette in
discussione quelle doti di verità e di documentazione che
sembravano connaturate al mezzo fotografico, ma scopre
il lato perturbante del suo potere oggettivante. Dà cioè forma visiva a quella inquietudine che si impossesserà di Roland Barthes ogni qualvolta si soffermerà a osservare un
suo ritratto fotografico:

GIUSEPPE SORBELLO
Immaginariamente, la Fotografia (quella che io assumo) rappresenta quel particolarissimo momento in cui, a dire il vero, non sono né un oggetto né un soggetto, ma piuttosto un
soggetto che si sente diventare oggetto: in quel momento io
vivo una micro-esperienza della morte (della parentesi): io
divento veramente spettro (Barthes 1980, p. 15)2.
Giovanni Verga ricevette parecchi di questi ritratti dall’amico. Uno, del 1889, con suggestivo richiamo prepirandelliano, riportava la dedica: “All’amico Verga il suo
vecchio fu Luigi Capuana. Pax! (…)” (Garra Agosta 1977,
p. 149). Quando non cadeva nello scherzo, Verga ricorreva
alla sua abituale ironia per sminuire gli eccentrici eccessi
di Capuana, soprattutto per quel che riguardava pratiche
come lo spiritismo e la fotografia, che fuorviavano l’amico dal diretto impegno letterario:
Sicché a questo punto son costretto a domandarmi da che
parte stia la superiorità psichica, e avendo sotto gli occhi una
lettera di Zola che si lamenta de l’oeuvre de tous le jours et
des luttes qui le découragent penso a te che leggi ses oeuvres,
e le gusti da raffinato seduto nella tua poltrona di faccia al
largo orizzonte della tua Piana e inventi nuovi sistemi di
zincotipia, e ti diverti colla fotografia, coll’incisione, colla botanica, col magnetismo, colla magia bianca e rosa ecc. ecc.
(…) Caro Luigi, la lettera è lunga ma l’ho scritta mediatizzato (Raya 1984, p. 224).
“Che vuoi farci? Io sono troppo di questa terra” (ib.) si
schermiva Verga, per sua natura diffidente verso quella
moda dello spiritismo con cui, durante la belle époque, “in
mancanza di nemici visibili, la borghesia prendeva piacere a spaventarsi della sua ombra” (Sartre 1964, p. 105).
Estraneo a quegli interessi culturali eversivi che la fotografia suscitava in Capuana, il percorso di Verga fotografo3 ebbe degli esiti diversi da quelli dell’amico, anche
se larga parte della produzione dei due scrittori è simile,
occupata com’è dai ritratti dei familiari, degli amici, delle loro donne, e – la più significativa – dallo spazio antro-
DUE SCRITTORI DAVANTI ALL’OBIETTIVO: CAPUANA E VERGA

pico del mondo siciliano. Per entrambi la fotografia fu un
“gioco”, un “diletto” (Sciascia 1983, p. 163), che valse
spesso come surrogato della letteratura nei grandi spazi
bianchi della mancanza di ispirazione, ma in cui immettere
il proprio mondo di scrittore, secondo un’autonoma fisionomia intellettuale che determinava l’angolo visuale da
cui osservare la realtà dietro l’obiettivo. Diverso fu però
il loro modo di accostarsi al mezzo.
L’attività fotografica di Verga viene di solito a coincidere, nell’immaginario della critica, con la sua ultima produzione, anche se si tratta di una restrizione eccessiva: la
prima fotografia è del 1878, l’ultima è stata scattata nel
1911. Si tratta di un arco cronologico così ampio che è possibile supporre, anche se le fotografie attestate si concentrano per lo più nell’ultimo periodo, un rapporto familiare e consueto con l’immagine analogica.
Un’idea più precisa del Verga fotografo è possibile
trarla da una brevissima lettera alla nipote Caterina del
maggio 1905, che consiste in uno stringato foglietto di
istruzioni per l’uso della macchina fotografica:
Cara Caterina,
Ti mando la macchinetta fotografica già bell’e caricata colle lastre, raccomandandoti di fare attenzione a questo:
1° che quando vuoi fotografare il sole o la luce sia dietro le
tue spalle e batta in pieno invece sull’oggetto o la persona che
vuoi ritrarre.
2° che questo oggetto o persona sieno distanti da te almeno
un paio di metri e che li veda bene per intero nel vetro smerigliato o mirino.
3° di tenere la macchinetta ben orizzontale e ferma senza
muoverla nel fare scattare la molla.
4° tirata l’immagine col far scattare la molletta s’inclina in
avanti la macchinetta e si fa agire la piccola leva pel cambio
delle lastre, rimettendola apposto [sic] quando hai sentito
che la lastra è caduta.
Divertiti e domenica mi darai la macchina chiusa, per far sviluppare i negativi4.

GIUSEPPE SORBELLO
Un semplice e sbrigativo foglietto di “istruzioni per l’uso” che non ci dà la sensazione di un fotografo ferrato, disinvolto e di mestiere. Nessun suggerimento alla nipote che
vada oltre il corretto utilizzo del mezzo, senza un accenno che riguardi, per esempio, la composizione dell’immagine, essenziale per una migliore resa estetica. È ancor
più emblematico che, in questa lettera, non emergano
prove a favore del fatto che lo scrittore stampasse personalmente le proprie fotografie, affidandosi più probabilmente a uno studio fotografico o all’aiuto di Capuana. Ed
è questo disinteresse per la stampa a marcare la più grande differenza rispetto a Capuana.
Verga era un fotografo da istantanea, poco incline a
quel tipo di fotografia privilegiata invece da Capuana, che
sperimentava il ritocco o la sofisticata stampa al carbone o su lamina. Se egli non nutriva alcun interesse per i
procedimenti di elaborazione dell’immagine, resta da
concludere che la pratica fotografica di Verga si concentrasse solamente dietro l’obiettivo, in tutto ciò che
precedeva lo scatto della “molletta”, come la scelta del
soggetto, dell’illuminazione e dell’angolo di ripresa, senza proseguire oltre, in quella fase di stampa che era invece il momento più delicato e autoriale della tecnica fotografica. La fotografia si risolveva nell’essenzialità dello sguardo, e non proseguiva in direzione di una fotografia artistica, sperimentale, come quella praticata dall’amico Capuana.
L’approccio di Verga al mezzo fotografico rientrava
dunque nell’ambito del dilettantismo: un “approccio
ingenuo e non intenzionale” (Miraglia 1981, p. 488),
privo di perizia tecnica ma molto spesso innovativo, soprattutto quando dietro l’obiettivo c’è un intellettuale
che investe la sua Weltanschauung per inquadrare il
mondo che lo circonda e che lo attrae. Le foto di Verga
esprimono un impatto diretto con la realtà, non mediato da nessun intervento, sono la verità dei volti segnati
DUE SCRITTORI DAVANTI ALL’OBIETTIVO: CAPUANA E VERGA

dal sole colti nella loro verità sociologica, sono istantanee in cui si sedimentano “tutta una serie di ricordi, di
impressioni, ma soprattutto di situazioni altrimenti non
registrabili” (p. 467). Una nuova modalità di visione di
cui potrebbe forse aver risentito anche il suo stile narrativo.
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