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La meravigliosa storia del volto di Cristo - 759845

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La meravigliosa storia del volto di Cristo - 759845
LIBRO
IN
ASSAGGIO
LA MERAVIGLIOSA
STORIA DEL VOLTO DI
CRISTO
DI AAVV
LA MERAVIGLIOSA STORIA DEL VOLTO DI CRISTO
PRIMA PARTE: IL VOLTO DI CRISTO NEI VA NGELI E NELLA STORIA
1
TRE TELI CON L’IMMAGINE DI CRISTO
(O FORSE DUE, O FORSE MOLTI…)
Personalizzare Chiunque pensi a Cristo, lo preghi, ne mediti l’opera e la vita non può fare
a meno di «immaginarlo»; nella tradizione cristiana questa immaginazione ha trovato molte
espressioni: da quelle pittoriche e scultoriche a quelle letterarie. Ma, in mezzo a tutte queste
«costruzioni della fantasia» riguardo a Gesù, alcune testimonianze si stagliano fra tutte: sono
quelle che la tradizione ci consegna indicandole come le «vere» immagini del volto di Gesù;
«vere» perché, sempre secondo la tradizione, direttamente legate alla sua vita terrena, alla sua
presenza nel mondo; «vere» perché non semplicemente ritratti fatti da mano d’uomo, ma
raffigurazioni impresse in teli, in panni, in veli direttamente dal corpo stesso e dal volto stesso
del Messia.
Stiamo parlando della sindone conservata a Torino, certo, ma anche di molti altri «sudari»
più o meno noti: dal mandylion di Edessa, al Velo della Veronica conservato a Manoppello,
dal Volto Santo di Besançon a quello di Oviedo… Qualcuna di queste immagini non esiste più;
qualche altra è nascosta e, forse, è più una leggenda che una presenza.
In ogni caso, con diverse prospettive e attraverso diverse storie, ciascuna di queste
rappresentazioni «testimonia e interpreta» il Volto del Salvatore.
Una seconda cosa va aggiunta ed è una delle poche cose cortissime in questa indagine: le
immagini di Gesù che la tradizione ci ha conservato ci «parlano» tutte della sua passione e
morte. Già questa considerazione è importante come abbrivio: le immagini del fondatore del
cristianesimo, tutte riguardano i giorni del suo dolore.
Di cosa stiamo parlando
La leggenda del «mandylion»
Quella che va sotto il nome di «mandylion» di Edessa è una delle primissime testimonianze
di una raffigurazione del volto di Gesù e risale al IV secolo: è questa, infatti, l’epoca in cui
appare nella città di Edessa (oggi Urfa, in Turchia) un’immagine «acheropita» (= non fatta da
uomo) delle sembianze del Messia nazareno. A questa immagine è collegata una leggenda
che lo storico cristiano Eusebio di Cesarea (265-340) riporta nella sua Storia Ecclesiastica.
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In questa leggenda si narrava che Abgar V Ukama, re di Edessa all’epoca di Cristo, era
ammalato di lebbra. Venuto a conoscenza del potere taumaturgico di Gesù e del fatto che
aveva già guarito molti lebbrosi, il re gli mandò un inviato per domandargli di recarsi da lui e,
così, di poterlo guarire. Eusebio conclude la storia affermando che Gesù non andò, ma inviò
una lettera di risposta al re. Su questa tradizione se ne innestò un’altra, secondo la quale il
messaggero inviato da Abgar era anche pittore; non avendo potuto convincere Gesù a recarsi
dal proprio sovrano, e volendo comunque almeno portare un immagine del Messia, aveva
tentato di dipingere il suo volto su di una stoffa. L’impresa s’era rivelata impossibile anche per
un pittore del suo calibro: non riusciva a dare forma allo splendore della Gloria divina che
vedeva sul volto di Gesù.
Gesù stesso, allora, prese il telo del pittore e vi poggiò il proprio volto imprimendovi
l’immagine. Questa «impressione» sarebbe quella riprodotta nel mandylion conservato a
Edessa fin dal 544 dopo Cristo.
Ma anche questo riferimento, per quanto leggendario, apre problemi più che chiuderne:
infatti del mandylion a noi non è rimasta che la tradizione, scritta e pittorica.
Quel velo, se pure è esistito, che fine ha fatto?
La questione della Sindone
Della Sindone oggi conservata a Torino diamo qui soltanto qualche accenno:
riprenderemo in seguito ampiamente: di essa abbiamo notizie certe soltanto a partire dal XIV
secolo. Anche in questo caso si pone una immediata domanda: e prima di allora?
La parola «sindón» significa semplicemente «lenzuolo»; e di un lenzuolo raffigurante Gesù
abbiamo molte testimonianze anche precedenti il XIV secolo. Ma si possono davvero
identificare quei lenzuoli, con il lenzuolo conservato oggi a Torino?
Questa è la domanda che a noi importa.
Le «Veroniche» e i «mandylion» romani
Per «Veronica» si intendeva una reliquia conservata nella Basilica di San Pietro e che
doveva avere la forma di una pezza di stoffa quadrata con impresso il Volto del Cristo. Questa
tradizione – narrata nell’apocrifo «Morte di Pilato» è espressa, a livello popolare, da una delle
Stazioni (la sesta) della Via Crucis, in cui è rappresentata una donna, Veronica appunto, che
asciuga con un panno il volto sudato e sanguinante di Gesù e ne riceve impressa l’immagine
sul panno. Nessun racconto evangelico fa mai allusione a Veronica, che piuttosto sembra
essere una specie di anagramma (che mescola una parola greca e una latina) di «vera icon».
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Una tradizione afferma che Veronica, dopo la morte di Gesù sarebbe venuta a Roma,
portando con sé la sacra reliquia; un’altra, l’apocrifo «Vindicta Salvatoris», narra invece che il
velo sarebbe giunto a Roma portato da un funzionario romano, Volusiano, che lo aveva tolto
con violenza a Veronica per portarlo all’imperatore Tiberio, malato di lebbra e guarito al
contatto con l’immagine (come si vede, le leggende cominciano ad assomigliarsi); Veronica
avrebbe allora abbandonato ogni cosa in Palestina per rintracciare il suo panno a Roma (vedi
Documenti) e, riavutolo, lo avrebbe consegnato al papa san Clemente I. In questo modo
cominciava la tradizione romana del velo.
Della presenza a Roma di questa reliquia abbiamo poi molte testimonianze a partire dal
XIV secolo: ne parla Dante e vi fanno cenno sia Petrarca che il Villani (vedi sezione
Documenti); vi sono poi moltissime raffigurazioni, la più importante delle quali è certamente la
grande statua della Veronica, opera dello scultore Francesco Mocchi (sec. XVII), posta nella
Basilica di S. Pietro in Vaticano.
Tra le testimonianze medievali, una una in particolare è per noi significativa e si riferisce al
giubileo del 1350. In quell’occasione, infatti, tre nobili veneziani, Nicolò Valentini, Bandino
de’ Guarzoni e Franceschino in Glostro, offrirono al capitolo della basilica di San Pietro una
«bellissima e mirabile tavola di cristallo con belle lamine d’argento placcate in oro», allo scopo
di custodire la venerata reliquia. Questa cornice, che è ancora custodita in Vaticano, si
presenta di forma quadrata. Una cornice settecentesca è invece rettangolare e di misure assai
diverse. Proprio a partire da questa differenza, molti ritengono che la Veronica originale sia
andata perduta durante il Sacco di Roma del 1527 e sostituita, in seguito, per non deludere la
devozione dei fedeli, con un'altra immagine. E anche in questo caso si apre un problema:
dove è finita l’immagine antica? E cosa è conservato nel reliquiario attuale?
Lo studioso Paul Badde, scriveva su «Die Welt» il 23 settembre 2004 questo risultato delle
sue ricerche sull’argomento:
«Fino all’anno 1600 [la ‘Veronica’] era custodita nella vecchia basilica costantiniana di
San Pietro ed è stata vista da milioni di persone. Ma da allora quasi nessuno ha potuto più
vedere questa “vera icona”. Nella nuova cattedrale di San Pietro l’immagine di Gesù era
custodita con tre catenacci. Il Cardinale Marchisano, arciprete della basilica, disse a ‘Die
Welt’ che “l’immagine nel corso dei secoli si è notevolmente sbiadita.” Ma non è soltanto
sbiadita, deve trattarsi piuttosto di un’imitazione (di una finta) di cui non esiste nessuna valida
fotografia. Per questa ragione, negli ultimi tempi, a coloro che desideravano venerare l’icona
di Cristo veniva mostrata un'altra immagine che si trova nella sacrestia del Papa, della quale si
dice che sia la più antica del mondo. E dal suo aspetto lo si direbbe proprio. Perché con il
tempo l’immagine è diventata quasi nera, come molti antichi dipinti in tempera su tela. La
“vera immagine” di Cristo però non presenta alcuna traccia di colore. Prima di arrivare a
Roma si trovava a Costantinopoli, e prima ancora in Oriente; infatti, un testo siriano di
Camulia in Cappadocia del VI secolo d. C. parla di un’immagine “tirata fuori dall’acqua” e
“non dipinta dalla mano dell’uomo”. Ma quando giunse a Roma attirava gli uomini come una
calamita. I pellegrini che tornavano da Gerusalemme nella prima metà dello scorso millennio si
decoravano con una palma; simbolo dei pellegrini di Santiago de Compostela fino ad oggi è
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la conchiglia; ma i pellegrini che si recavano a Roma spillavano alle loro mantelle miniature
della “Sancta Veronica Ierosolymitana”, la santa Veronica di Gerusalemme. Le fondamenta
della nuova Cattedrale di San Pietro, secondo il volere di Papa Giulio II, dovevano
comprendere anche quelle di un’enorme “camera blindata” per custodire questo tesoro unico.
Durante il periodo di costruzione della Cattedrale, la cui architettura sfarzosa all’epoca era
molto discussa, l’immagine sparì in modo misterioso».
Dov’è finita?
Il velo custodito a Manoppello
A Manoppello, paese in provincia di Pescara, è custodito un velo leggerissimo, in Bisso
Marino, che ritrae l'immagine di un viso maschile coi capelli lunghi e la barba divisa. I fili
orizzontali del telo sono di semplice struttura. Le misure del panno sono 17 x 24 cm; questo
telo, secondo la testimonianza di un’antica «Relatione historica» (vedi sezione Documenti)
giunse a Manoppello nel 1506, portata da uno sconosciuto pellegrino, che scomparve senza
lasciare traccia subito dopo averlo consegnato all’astrologo Giacomo Antonio Leonelli. Negli
ultimi anni, dopo gli studi del professor Pfeiffer e di suor Blandina Paschalis Schlömer, è venuto
alla ribalta e la visita di papa Benedetto XVI nel 2006 ne è stata, in qualche modo, la
consacrazione.
Ma cos’è questo velo?
Ancora Paul Badde, nel suo articolo su Die Welt ben riassume la vicenda, collegandola
proprio con quella della Veronica romana scomparsa:
«… In realtà non è scomparsa: da più di 400 anni la più preziosa reliquia della cristianità,
davanti alla quale l’Imperatore di Bisanzio si poteva inginocchiare una volta all’anno, è
conservata tra due lastre di cristallo nella piccola chiesa - spesso vuota per ore - dei frati
Cappuccini a Manoppello, un paese montano dell’Abruzzo. È l’immagine che guidava
l’Europa e che si credeva perduta. Oggi finalmente si può dire che è stata ritrovata: contro luce
sbiadisce, nell’ombra si scurisce, ma non svanisce né si rovina.
L’immagine mostra il viso barbuto di un uomo con i riccioli alle tempie, al quale è stato
rotto il naso […] La guancia destra è gonfia, la barba parzialmente strappata. Ad un più
attento esame si vede che la fronte e le labbra mostrano il colore roseo delle ferite appena
guarite. Lo sguardo di quegli occhi esprime una calma inspiegabile. Sbalordimento, stupore,
meraviglia sono nei tratti del suo volto. C’è dolce pietà, ma non c’è né disperazione, né
dolore, né ira. Sembra il viso di un uomo che si è appena svegliato dal sonno e guarda verso
un nuovo mattino. La bocca è semiaperta. Si vedono addirittura i denti. Se si volesse
determinare quale suono stanno pronunciando quelle labbra, si direbbe che stiano formando
una lieve A.
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Le proporzioni del volto dell’immagine sulla tela… sono esattamente quelle di un volto
umano. Il velo è sottilissimo e trasparente come una calza di seta. Da vicino sembra più una
diapositiva che un immagine dipinta. Contro luce è trasparente; nell’ombra, senza luce,
appare color ardesia. Una piccola scheggia di cristallo è attaccata al tessuto in basso a destra
della cornice. Alla luce delle lampadine fa apparire il sottile telo colore dorato e color miele.
Esattamente come Gertrude di Helfta nel XIII secolo ha descritto il volto di Cristo. Infatti,
soltanto con i contrasti di luce il sottile telo mostra il volto con effetti di luce tridimensionali,
quasi oleografici - su entrambi i lati, cioè sia nel recto che nel verso. Sembra tessuto in maniera
così fine che, ripiegato, potrebbe entrare in un guscio di noce.
Il Prof. Donato Vittore dell’Università di Bari e il Prof. Giulio Fanti dell’Università di Padova,
hanno scoperto dai loro studi fotografici ad alta definizione che sull’intero tessuto non ci tracce
di colore. Soltanto nel nero delle pupille le fibre sembrano quasi bruciacchiate, come se un
calore avesse leggermente fuso i fili.
Tutto questo però non è una novità! I contadini e i pescatori dell’Adriatico, da Ancona a
Taranto, nel corso dei secoli hanno sempre venerato questo velo come il “Volto Santo”, come
effige sacra. Sarebbero stati degli “Angeli” a portare l’immagine più di quattrocento anni fa,
pensano i Manoppellesi (e si riferiscono a un’antica testimonianza). Potrebbe essere così, ma
sembra più probabile che tra questi “angeli” fossero nascosti alcuni furbi che avevano
semplicemente rubato la reliquia, commettendo il più azzardato furto nel periodo delle
numerose e avventurose mascalzonate del Rinascimento. Il cristallo spezzato dall’antica cornice
della Veronica di San Pietro sembra ancora denunciare questa trafugazione. La leggenda
dunque presenta alcune caratteristiche tipiche di una farsa, di un giallo, di un romanzo
poliziesco, di un dramma – o di un quinto Vangelo per la nostra epoca pazza per le
immagini».
A Manoppello sarebbe dunque conservata la più antica immagine della cristianità?
In realtà, la questione è ancora più complessa. Ma prima di affrontarla diamo un’occhiata
alle altre «sindoni» presenti nel mondo. E non sono poche.
Il sudario di Oviedo
Nella Cattedrale di Oviedo, città della Spagna settentrionale, in uno scrigno d'argento è
conservato un sudario che si ritiene essere quello che Pietro trovò piegato in un luogo a parte
nel sepolcro di Gesù: quello che il vangelo di Giovanni indica come «il sudario che gli era
stato posto sul capo» (Gv 20,7).
Dopo aver trovato il velo, Pietro potrebbe averlo conservato presso di sé, prima che i suoi
successori lo riponessero nell’antichissimo scrigno. Questo «reliquiario» sarebbe rimasto a
Gerusalemme per seicento anni, fino all’invasione dei persiani nel 614, che costrinse i cristiani
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alla fuga. Da allora i movimenti del telo avrebbero seguito le peregrinazioni di questa
comunità cristiana: Alessandria, il Nord Africa, la Spagna; a Siviglia sarebbe stato consegnato
al grande vescovo Isidoro e, dopo la sua morte, trasferito a Toledo e, dopo altre peripezie, a
Oviedo dove, il 13 marzo 1075, lo scrigno fu aperto alla presenza di re Alfonso VI. In
quell’occasione venne fatto un inventario del contenuto, del quale resta una copia risalente al
XIII secolo conservata negli archivi della Cattedrale di Oviedo. Successivamente Alfonso VI
fece rivestire d'argento lo scrigno di legno, facendovi incidere attorno al coperchio l'elenco
delle principali reliquie custodite. Tra le altre cose si legge: «del Sepolcro del Signore e del
Suo Sudario e del Suo Santissimo Sangue».
In seguito a questa ricognizione delle reliquie Oviedo divenne un'importante meta per i
pellegrini sulla strada per Santiago de Compostela.
Il panno si presenta come un tessuto di lino con trama a taffettà, della dimensione di circa
cm 53 x 86. I soli segni visibili ad occhio nudo sono delle macchie marroncino chiaro di varia
intensità. Il microscopio ha svelato granelli di polline, tracce di aloe e mirra, ecc.
Gli studi scientifici hanno accertato che il panno era stato posto sul viso di un defunto di
sesso maschile, ripiegato e appuntato dietro alla testa.
La cosa più curiosa è una quadruplice serie di macchie composte da una parte di sangue e
da sei parti di liquido edematico polmonare; questa è una sostanza che si accumula nei
polmoni quando una persona muore di asfissia (proprio come le persone crocifisse).
Alcune macchie sono a forma di dita, attorno alla bocca e al naso: qualcuno stava cercando di arrestare il flusso di sangue dal naso dopo che il panno era stato avvolto sulla testa
della vittima?
Per quanto il sudario di Oviedo sia ancora oggi meno famoso, la sua storia è molto meglio
attestata di quella stessa della Sindone di Torino: Pelagio, vescovo a Oviedo nel XII secolo, ne
ha fin da allora ricostruito l'itinerario dalla Palestina fino in Spagna; quell’itinerario è stato
corroborato dagli attuali studi sui pollini.
A questo punto diventa interessante comparare i dati ematici dei due tessuti: se si riuscisse
a dimostrare che appartengono alla stessa persona si farebbe un grande passo avanti nella
comprensione del mistero del volto santo.
Gli studi condotti fino a oggi mostrano una prima coincidenza: il sangue del Sudario e
della Sindone appartengono allo stesso gruppo, l'AB; ma questo, pur essendo un elemento che
colpisce, non aggiunge moltissimo, poiché si tratta di un gruppo sanguigno molto comune in
Medio Oriente. Un elemento ulteriore viene dal fatto che le macchie di sangue sul Sudario
mostrano una notevole corrispondenza con quelle della Sindone: oltre settanta macchie di
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sangue nella zona del volto e oltre cinquanta sulla nuca e sul collo sembrano corrispondere nei
due veli. Le macchie del tessuto di Oviedo sono più estese nella parte corrispondente alla
bocca e al naso, il che sembra indicare che il Sudario era stato posto sul corpo la prima volta,
quando il sangue era ancora più fluido. Ciò conferma la pratica ebraica di coprire il volto del
deceduto con una piccola pezza, in segno di rispetto, durante i preparativi per la sepoltura. Il
panno veniva poi tolto prima di avvolgere il corpo, ma messo nella tomba, perché intriso di
sangue.
Poiché, infine, sul Sudario di Oviedo non ci sono immagini del corpo, deduciamo che non
è stato rimesso sul viso dopo la sepoltura, ma depositato nella tomba separatamente.
Altre corrispondenze numeriche si presentano fra i due tessuti: il naso sia sulla Sindone che
sul Sudario misura otto centimetri; su entrambi i panni è gonfio e spostato verso destra.
Il sudario di Besançon
Del sudario di Besançon abbiamo solo notizie, poiché non ci è rimasto il velo, bruciato
durante la Rivoluzione francese: esso, secondo quanto sappiamo, presentava l’impronta di un
uomo nudo, che aveva patito supplizi. Non vi era traccia della parte dorsale. Apparve nella
regione francese nel 1523, e probabilmente si trattava semplicemente di una copia della
sindone di Torino, che un secolo prima si trovava proprio in quella regione.
Se ne trova una raffigurazione sulle vetrate della Cappella di Perolles, a Friburgo, in
Svizzera, dove è rappresentata una sua ostensione.
Il sudario di Cadouin
L’abbazia di Cadouin è un monastero cistercense che fu fondato nel XII secolo nella zona
del Périgord. L’origine del sudario non è chiarissima: è menzionato solo da un atto di Simone
IV di Montfort, nel 1214.
Le storie che nascono nel XIII secolo attorno all’abbazia collegano il telo a leggende
antiche e questo favorisce la presenza di una folla di pellegrini che vi si fermano mentre sono
in cammino verso Santiago de Compostela.
Nel 1392, durante la Guerra dei Cent’Anni, l’abate di Cadouin fa trasportare il Santo
Volto a Tolosa, per assicurare la sua protezione alla città; e sempre per ragioni di protezione,
re Carlo VI chiede, nel 1399, che gli sia inviata a Parigi. Dopo la guerra i monaci vorrebbero
riavere la preziosa reliquia, ma i Tolosani si rifiutano. Si giunge dunque al 1455, quando
alcuni giovani monaci di Cadouin, col pretesto di studiarla, la rubano e la portano all’abbazia
di Obazine, per nasconderla dai Tolosani furiosi.
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Come in un romanzo d’appendice, la storia si ripete: e ora sono i monaci di Obazine a
non volerla restituire, per cui si giunge a un processo concluso con un arbitrato dello stesso re
Luigi XI, nel 1482.
Tornata la sindone a Cadouin, il pellegrinaggio riprende, prima di declinare nuovamente
durante le guerre di religione.
Nel 1789 il sudario sfugge all’incendio degli archivi dell’abbazia, e viene salvato dal
sindaco che lo nasconde ai girondini fino all’ostensione del 1797.
Nell’epoca moderna, dal 1901, cominciano a manifestarsi i dubbi riguardo alla sua
autenticità e nel 1934 un’indagine dimostra la falsità della reliquia: il tessuto, infatti, contiene
una serie di bande ornamentali che sono veri e propri caratteri di una scrittura risalente al V
secolo dopo Cristo e a una zona dell’Egitto musulmano: si tratta di versetti del Corano! Questa
scoperta permise di situare il lino tra il VI e l’XI secolo.
© 2006, Edizione Mondolibri S.p.A., Milano
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