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Dal Mandylion alla Veronica
DAL MANDYLION ALLA VERONICA
Relazione di Massimo Centini
La “Veronica” è una presenza ricorrente nell’iconografia della religiosità popolare, che pur
appartenendo all’universo extra-canonico occupa un ruolo “scenografico” di rilievo nel patrimonio
culturale della devozione: dalla sacra rappresentazione all’arte visiva, dalla letteratura fino al
linguaggio del cinema.
Prima di provare a analizzare le sfaccettature storico-cultuali del soggetto che definiamo
genericamente “Veronica”, dobbiamo mettere subito in chiaro che quel “volto” legato alla donna
che convenzionalmente dà il nome al velo qui indicato, ha origine in una tradizione “recente” che
trova radici più arcaiche nell’immagine e nella storia del Mandylion, archetipo delle immagini
achiropite
Ricordiamo che la parola akeiropoietos (non fatta da mano umana) è piuttosto rara: in questo
termine può essere individuata l’influenza del Libro di Daniele in cui si narra di una pietra che si
staccò da un monte “senza l’azione di alcuna mano” (in aramaico dì-là vìdayin, “che né per mano”),
tradotta nei Settanta e dalla Vulgata con aneu cheiron, sine manibus (Dn 2,34).
Il termine achiropita entrò nella storia nell'anno 752, a Roma, quando papa Stefano II portò sulle
proprie spalle in processione la celebre immagine della cappella Sancta Sanctorum di Palazzo
Lateranense.
Accanto al più noto Velo delle Veronica, conosciuto per la sua ampia affermazione nella religiosità
popolare, ci sono achiropite che hanno cambiato il corso della storia, come il Mandylion di Edessa.
Secondo alcuni perduto durante la grande persecuzione iconoclasta, secondo altri riapparso
miracolosamente e che molti studiosi ritengono fosse la Sindone ripiegata come un lenzuolo, così
da porre in evidenza solo il volto della discussa figura formatasi sul sudario.
Da Gerusalemme ad Edessa fino a Costantinopoli, e poi attraverso mezza Europa, il viaggio di
queste misteriose immagini è contrassegnato da colpi di scena, sparizioni, riapparizioni, miracoli e
inquietanti collegamenti con presunti culti “pagani”...
Le immagini achiropite più discusse e ancora oggi visibili, sono il noto Santo Volto della chiesa di
San Bartolomeo degli Armeni di Genova, quella della Sala della Contessa Matilde dei Palazzi
Vaticani, la Sainte Face de Laon e il Velo della Veronica custodito in San Pietro.
A questi reperti, che da secoli impegnano gli studiosi, bisogna aggiungerne altri di più complessa
valutazione, come il Sudario di Oviedo, il Volto Santo di Manoppello e naturalmente la Sindone di
Torino. Inoltre, svolgono un ruolo storico importantissimo anche delle achiropite scomparse, o
“trasformatesi”.
Insomma, abbiamo la certezza che oggi vi sono alcuni “Volti” che possono essere posti in relazione
allo storico Mandylion di Edessa e al più noto Velo della Veronica.
Prima di ricordare le testimonianze maggiormente emblematiche, è però necessario tracciare una
rapida panoramica sulla Veronica, vale a dire sul reperto in sé e sulla figura femminile omonima.
Veronica: una donna, un velo…
Il Velo della Veronica è l’archetipo per eccellenza: un volto miracoloso che è entrato a far parte
della tradizione devozionale soprattutto nel cattolicesimo occidentale. La reliquia, in quanto
oggetto, si lega principalmente alla figura di donna tradizionalmente asciugò il volto di Cristo lungo
la via dolorosa. Per metonimia quel nome corrisponde all’icona raffigurante il Volto Santo di Cristo
e conservato tra le reliquie più importanti della basilica di San Pietro in Vaticano. Va aggiunto che,
al di là della tradizione ampiamente diffusa, il nome Veronica non andrebbe posto in relazione ad
1
un personaggio ben definito, ma collegato ad un’interpretazione etimologica sorta da un’impropria
unione del latino “vera” con il greco “eicon”, così da formare: Vera-Icona (foneticamente è però
impossibile che dall’unione di queste due parole sia sorto l’etimo Veronica).
In alcuni testi apocrifi, Veronica è il nome dell’emorroissa guarita da Gesù, come si evince nel
Vangelo di Nicodemo; Ciclo di Pilato, risalente alla fine I secolo, con interpolazioni più recenti
(Vangelo di Nicodemo / Memorie di Nicodemo in L. Moraldi, 1994, pagg. 593-611, cfr. Mt 9,20-22;
Mc 5,25-34; Lc 8,43-48).
Ricordiamo che la versione delle Memorie di Nicodemo (Papiro copto di Torino 4,4; 5,6) è
praticamente identica alla recensione latina 7,1; mentre non appare il nome della Veronica nella
recensione greca. Sostanzialmente simile alle prime due versioni, la narrazione contenuta nel Ciclo
di Pilato / Vendetta del Salvatore 6.
L’abbinamento Veronica/Emorroissa suggerito da Clemente Alessandrino (Omelie, III, 73) fu
accolto da Gervasio di Tilbury (+1214), che negli Otia imperialia indicava in Veronica la donna
sofferente per lunga perturbazione dovuta al flusso di sangue.
In alcuni apocrifi (Atti di Pilatio) e altre fonti si rinviene il nome Berenice, derivante con ogni
probabilità da Pherenike, composto da phere e nike, cioè portatrice di vittoria. In lingua copta
Berenike significa Veronica: di questa identificazione abbiamo traccia nell’apocrifo Atti di Pilato e
nell’Apocritus di Macario di Magnesia.
Nelle Omelie di San Clemente, Berenice è indicata come la figlia della cananea posseduta dai
demoni e liberata da Cristo. Pherenice è un nome che ben si adatta al ruolo di questa donna, di
fatto portatrice della “vittoria” rappresentata da Cristo. In alcune fonti più tarde troviamo anche
Vasilla o Basilla.
Nella tradizione gnostica, l’emorroissa è chiamata Prunice - con numerose derivazioni - in genere a
questa figura erano riconosciuti significati simbolici che la connettevano alla Sophia (saggezza).
Questo ruolo di Prunice nella meccanica teologica gnostica, appare soprattutto nei trattati cristiani
contro gli eretici. Origene, in Contra Celsum, si riferisce ad una “certa vergine Prùnicos” nome che
“i Valentiniani (gnostici valentiniani, n.d.a.) assegnano ad una certa Sapienza (…) essi vogliono
simbolicamente indicare con la donna che da dodici anni soffriva di perdite di sangue” (Origine,
Contra Celsum, VI, 35).
Le leggende sulla Veronica, che probabilmente videro la loro genesi intorno al VI secolo, si
svilupparono soprattutto sui rapporti tra Veronica/emorroissa e Cristo.
Nelle versioni più recenti (XII secolo), in cui il perno del racconto è costituito dalla vicenda della
guarigione di Tiberio (attraverso l’achiropita portata a Roma dalla Veronica), l’attenzione si pone
prevalentemente sull’origine e il potere soprannaturale dell’immagine.
Ricordiamo ancora una volta che, dalla razionalizzazione delle fonti più note, la sorprendente
effigie conservata da Veronica (sia essa l'Emorrissa, la Maddalena, una donna del popolo, o altra
persona) ha un’origine che sostanzialmente presenta quattro motivi ricorrenti: 1. Cristo formò il
proprio ritratto su una tela che Veronica aveva affidato ad un pittore perché dipingesse il volto del
Maestro; 2. Cristo produsse il ritratto asciugandosi il volto durante un incontro con Veronica
(versione più antica); 3. il ritratto si formò lungo la salita al Golgota, quando Veronica nettò il volto
a Cristo (versione del XII secolo); 4. l'autore del ritratto è ritenuto San Luca (fonte più tarda).
Secondo la leggenda fu dunque Veronica a portare la reliquia a Roma: resta il fatto che da quel
giorno il misterioso fazzoletto non abbandonò più la città italiana, trovando una definitiva
collocazione in San Pietro.
Come abbiamo visto, le versioni sulle cause che portarono Veronica a Roma sono molteplici: in
genere, nelle tradizioni apocrife, il suo viaggio fu determinato da un invito o dall'ordine di un
imperatore pagano, che esigeva di conoscere i poteri taumaturgici attribuiti alla reliquia.
La versione più diffusa specifica che la reliquia fu portata a Roma per guarire Tiberio: nelle singole
trascrizioni la natura della sua malattia cambia. Di notevole interesse è una variante in cui si dice
“che l'imperatore era ammalato di lebbra. Per guarirlo gli si portava il sudario della Veronica con
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l'immagine di Cristo e l'imperatore doveva stendersi con tutto il corpo sul lino che portava
l'impronta di tutto il corpo di Cristo” (H. Pfeiffer, 1982, pag. 37).
Una Veronica è conservata nella cappella Matilde del Vaticano, mentre un’altra analoga è presente
nel Museo di Storia dell’Arte di Vienna (A. M. Amman, 1967, pagg. 185-194).
Di certo è il volto conservato in San Pietro ad essere considerato, nella tradizione devozionale,
come quello “autentico”: è presente in quella sede dal X secolo; in un documento del 1018, è
indicato come “Beronica”.
Il culto alimentato da questa reliquia è stato notevolissimo: pellegrinaggi, ostensioni e indulgenze
ne hanno accompagnato la fortuna; la sua eco ha assunto nel medioevo livelli così elevati da entrare
a far parte della storia della letteratura attraverso il linguaggio poetico di Dante e Petrarca.
L’estensione del culto determinò anche la diffusione vastissima di riproduzioni che, come si è
verificato per la Sindone di Torino, se da un lato hanno favorito la devozione nei confronti di una
determinata reliquia, dall’altra possono aver indotto distorsioni notevoli, creando false piste e
producendo un certo stordimento nel ricercatore. Senza dubbio le copie furono numerosissime e
molto richieste, al punto tale che nel medioevo il “pittore di Veroniche” era un professionista molto
diffuso a Roma. In certi casi le copie erano sacralizzate ponendole a contatto con l’originale.
La “moda” assunse livelli tali da sfuggire ai rigori del culto cattolico, così che Paolo V (1603-1621)
e Urbano VIII (1623-1644) furono costretti ad imporre il divieto di riprodurre il “volto della
Veronica”; papa Urbano VIII, nel 1629, ordinò addirittura la distruzione di tutte le copie esistenti:
ordine che, possiamo immaginare, fu in parte disatteso, come sembrerebbe confermare la presenza
in seno al culto cristiano di icone riferibili all’originale del Vaticano. Nella chiesa romana del Gesù
è custodita una riproduzione in seta del Volto della Veronica: si tratta di una copia realizzata con
permesso papale di Gregorio XV (1621-1623).
Nel 1616, anche Paolo V fece eseguire una copia del Velo della Veronica per Maria Costanza
d’Austria, moglie di Sigismondo III di Polonia. Nello stesso anno furono realizzate altre quattro
copie: una per il papa, una per il cardinale Ubaldini, una per la sacrestia di San Pietro e una per il
granduca di Toscana. Immediatamente dopo, Paolo V proibì l’esecuzione di altre copie: malgrado
ciò le copie si moltiplicarono e, come abbiamo visto, Urbano VIII fu costretto ad ordinare la
distruzione di tutte quelle conosciute.
Gregorio XV concesse un permesso speciale per due riproduzioni: una diretta alla duchessa Sforza
e una per Lavinia Albergati, duchessa di Fiano; dopo questa parentesi il divieto di eseguire copie fu
rinnovato, pena la scomunica.
La duchessa Sforza donò la sua copia, la più antica pervenutaci (1621), quella della già citata chiesa
del Gesù di Roma. In seguito le copie continuarono ad essere realizzate su carta e stoffa fino ai
giorni nostri.
Dell’immagine di San Pietro non abbiamo sufficienti informazioni tecniche, visto anche il suo stato
di deterioramento.
Da una descrizione del 1892, proposta da monsignor Antonio Wal (1894) apprendiamo quanto
segue: “una cornice moderna d’argento, collo stemma di Gregorio XVI, alta 63 centimetri e larga
51 conserva sotto vetro un’antica lastra di metallo dorato, sopra la quale è una rete di filo d’argento
finissima. La lastra dorata ha all’ingiro alcune piccole decorazioni, dal cui carattere non si può
formare un giudizio dell’antichità. Sulla piastra d’oro è una apertura in cui appare il volto: l’ovale
emerge da una capigliatura bruno-scura della larghezza di due dita; vi è la barba divisa in tre punte,
e si vede una macchia irregolare sulla guancia sinistra; non si riconoscono gli occhi, il naso e la
barba; non si riesce a determinare di quale materiale sia fatta. Degli occhi e del naso, non si vede
affatto niente” (riportato da P. Baima Bollone, 1985, pag. 100).
La reliquia romana era conservata in un’edicola posta nell’ultima navata destra dell’antica basilica
di San Pietro: dal Chronicon del monaco Benedetto da Sant’Andrea si afferma che papa Giovanni
VII (705-707) fece costruire nella basilica di San Pietro una cappella dedicata alla Madonna
“davanti al luogo in cui si conserva la Veronica”; dalle piante antiche dell’edificio si rileva con
chiarezza il luogo in cui si trova questo ambiente.
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Dell’ultimo altare, risalente al 1193 e voluto da papa Celestino III, possiamo scorgere alcune
indicazioni nelle incisioni che raffigurano le Mirabilia Urbis, che furono tra le attrattive principali
per i pellegrini.
Più precise sono le informazioni provenienti da Jacopo Grimaldi e contenute nell’Opusculum de
Sacrosancto Veronicae Sudario Salvatoris, risalente al 1621. Si tratta di un monumento a due piani,
sorretto inferiormente da quattro colonne, che aveva come dorsale una raffigurazione della
Veronica con il sudario, con al suo fianco i santi Pietro e Paolo. Il piano superiore, che aveva la
funzione di ballatoio per l’esposizione della reliquia in occasione delle feste stabilite dal calendario
liturgico romano, ospitava un altare sul quale era posto un tabernacolo protetto da un’inferriata: in
occasione delle celebrazioni solenni il Velo era estratto dal tabernacolo e mostrato ai fedeli.
Quando la basilica di San Pietro fu restaurata, il Velo della Veronica (con il legno della croce, la
lancia di Longino e la testa di sant’Andrea) fu posta in un nuovo monumento ricavato dal pilone di
sinistra della cupola michelangiolesca e rinchiusa all’interno di tre teche d’argento protette da un
cristallo. Sappiamo che la reliquia di Veronica giunse poi in Vaticano dopo essere stata conservata
nella chiesa romana di San Silvestro in Capite, ma di certo vi furono altri spostamenti, che però è
abbastanza difficile ricomporre. È interessante osservare che il Santo Volto conservato in San
Silvestro in Capite era anche indicato con il nome Abgarus: termine direttamente derivante dal re
Abgar di Edessa.
Già lo storico Giraldo Cambrensis (1146-1220), nella sua opera Speculum ecclesiae, fa riferimento
alla presenza di due “Veroniche” a Roma: la prima, venerata a San Salvatore in Laterano, sarebbe
stata dipinta da san Luca, a cui la Vergine avrebbe chiesto un ritratto del Figlio; mentre quella in
San Pietro era attribuita alla “matrona Veronica”.
Abbiamo inoltre notizia relativa alla “Veronica” custodita in Santa Maria ad Praesepe giunta da
Gregorio di Tilbury, che, tra la fine del XII secolo e l’inizio del successivo, la chiamava “pictura
Domini vera”, descrivendola come un’opera che però, dalle poche indicazioni contenute, non
sembrava mostrasse solo il volto ma anche le spalle e una parte del torace. Questa immagine, che
avrebbe forse costituito un importante contributo per lo studio dell’iconografia della Sindone di
Torino, andò perduta nel 1572. A livello di semplice osservazione va detto che, dal XIII secolo, gli
illustratori realizzavano copie del Santo Volto dipingendo immagini del Velo della Veronica con il
collo e in alcuni casi anche parte del torace.
Ritornando a San Pietro, ricordiamo che nel 1287 giunse a Roma un monaco siriaco, Rabban
Sauma, il quale tra varie reliquie ebbe modo di vedere “il pezzo di lino puro sul quale il Signore
avrebbe impresso la sua immagine per inviarla al re Abgar di Edessa” (E. Dobschutz, 1899, pag.
189).
Qualche anno prima, Vincenzo di Beauvais affermò che l’immagine di Edessa, dopo essere stata
conservata a Gerusalemme, giunse a Roma: “ipsa quidem Sindon Roman pervenit, ubi et usque
hodie esse videtur”.
In una lezione del II Notturno della festa del Santo Volto del Breviario Ambrosiano, risalente al
1513, apprendiamo che papa Clemente I (88-97) avrebbe lasciato la reliquia, con indicazione
testamentaria, alla Chiesa di Roma, città in cui si trovava dai primi anni del secolo! È evidente che
si tratta di racconti senza alcuna base storica, destinati ad alimentare con i toni del mito una vicenda
caratterizzata da numerosissimi punti oscuri e con salti cronologici difficilmente colmabili.
Sappiamo che il Velo della Veronica fu distrutto in occasione del sacco di Roma, come si evince da
due lettere private inviate dalla duchessa di Urbino il 14 e il 21 maggio 1527 da un non meglio
identificato “messer Urbano” e da una lettera del Cardinal Salviati dell’8 giugno 1527. Anche in
questo caso siamo ai limiti della leggenda metropolitana, poiché altre fonti raccolte dal
Rodocanachi sembrerebbero indicare esattamente il contrario (E.P. Rodocanachi, 1912, pag. 432).
Infatti, il rito di mostrare la Veronica in San Pietro a Pasqua, fu osservato anche dopo il sacco di
Roma (6 maggio 1527) nel 1533, 1535, 1536 e alla chiusura della Porta Santa; inoltre, il
trasferimento della reliquia nell’attuale tiburio della cupola, avvenuto il 21 maggio 1606 e le
conseguenti ostensioni (2° domenica dopo l’Epifania; gli ultimi quattro giorni della Settimana
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Santa; Pasqua; Lunedì dell’Angelo; Pentecoste; 22 febbraio; 3 maggio; 18 novembre)
sembrerebbero di fatto confermare che le voci relative alla distruzione in occasione del sacco di
Roma potrebbero essere frutto di illazioni sorte all’indomani di uno dei tanti episodi oscuri e
violenti perpetrati contro i tesori più toccanti e venerati della Chiesa romana: “Fu rubato e messo in
vendita nelle osterie di Roma il sudario della Veronica cotanto venerato per tutto il Medioevo” (L.
von Pastor, 1958, vol. IV, pag. 264). Poiché la Veronica di San Pietro non è mai stata esaminata da
vicino e con strumenti scientifici idonei, è difficile – anche in relazione al suo stato di
conservazione – farsi un’idea precisa dei rapporti stilistici tra questa immagine ed altre opere
analoghe.
Fu visionata, nel 1907, da Joseph Wilpert che così sintetizzava la descrizione: “una sezione
quadrata di materiale ocra chiaro, piuttosto sbiadito dal tempo. Che recava due indistinte macchie
marrone-ruggine, collegate l’una all’altra” (in I. Wilson, 2000, pagg. 14-16).
Le fattezze del Volto si distinguono pochissimo e sono oltremodo difficili da scorgere con la dovuta
precisione, anche perché la reliquia è racchiusa in tre teche d’argento e protetta da uno spesso
cristallo. Gli occhi di Cristo sono chiusi e ciò risulta in contrasto con altri Volti Santi noti e studiati,
ad esempio quello di Genova o di Manoppello.
Come già più volte posto in rilievo, il problematico stato di conservazione del Velo della Veronica
di San Pietro non ha di certo contribuito a facilitare lo studio del reperto e neppure a definire una
sua precisa contestualizzazione storica.
Sono sorte molte ipotesi: c’è chi ha supposto che la Veronica romana sia stata sostituita dopo il
sacco; altri invece ipotizzano che la reliquia comunque non presentasse alcuna immagine, vi è
inoltre chi sostiene che sull’attuale reperto in effetti siano presenti solo delle macchie.
Secondo il parere di padre Heinrick Pfeiffer, che fu docente di Storia dell’Arte Cristiana
all’Università Gregoriana di Roma, il Velo della Veronica romano sarebbe il noto Velo di
Manoppello. Secondo lo studioso, quando nel 1608 Paolo V ordinò la demolizione della cappella
dove era conservata la reliquia, il Velo originale scomparve e riaffiorò a Manoppello, dove ancora
si trova.
Per avere almeno un’indicazione su che cosa effettivamente avessero visto i fedeli, in particolare
dal XIII al XVI secolo, potremmo riferirci, con tutte le cautele del caso, alle riproduzioni artistiche
che hanno come soggetto il Volto Santo, sorretto dalla donna chiamata tradizionalmente Veronica.
Un dato importante riguarda la tipologia delle riproduzioni: fino a circa il sacco di Roma, il Volto
proposto dai tanti “Veli” era generalmente privo delle ferite prodotte dalla corona di spine, mentre
in seguito tale caratteristica fa la sua comparsa, divenendo motivo iconografico ricorrente. Ciò
potrebbe significare che solo dopo quel periodo il Velo della Veronica fu associato alla salita al
Calvario, mentre prima di allora probabilmente l’unica versione diffusa sull’origine del Santo
Volto, che ebbe ricadute notevoli anche nell’arte, era quella relativa alla formazione miracolosa del
ritratto di Cristo su un telo/asciugamano durante il periodo della sua predicazione, come peraltro
indicano le fonti apocrife più antiche.
Prima della Veronica
Come abbiamo indicato in apertura di queste note, conosciamo, attraverso fonti di vario tipo, tutta
una serie di immagini achiropite collocabili in un periodo precedete a quello in cui andrebbe posta
la più nota vicenda della Veronica.
Vista la problematicità di questi reperti, i ricercatori si sono trovati spesso in disaccordo, poiché la
scienza non riesce a dare una risposta definita sulle modalità che portarono alla formazione delle
immagini e, conseguentemente, in certi casi sembrerebbe difficile scorgere solo un intervento
pittorico alla base delle singole opere.
Pittura soprannaturale quindi? Prodotti da porre in relazione alla tradizione magica? Creazioni di
tecnologie di cui sono andate perdute le metodologie?
Nell’accreditare una di queste ipotesi è necessaria molta cautela: volendo schematizzare le nostre
attuali conoscenze, possiamo porre all'origine della storia delle achiropite, il Mandylion di Edessa,
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forse conosciuto già nella prima metà del I secolo, ma ufficialmente entrato a far parte del culto nei
primi anni del VI. Passò poi a Costantinopoli e quindi raggiunse l'Europa “trasformandosi” in vari
modi.
Secondo alcuni studiosi, il Santo Volto, attualmente custodito a Genova, sarebbe l'achiropita di
Edessa, giunta in Occidente attraverso la mediazione della cultura bizantina. Per altri il Mandylion
andrebbe ricercato nel “Volto” dei Palazzi Vaticani, mentre quello di Genova sarebbe una copia
realizzata a Bisanzio.
Ricordiamo adesso alcune tra le testimonianze più significative che hanno lasciato un segno
importante nella storia del culto delle achiropite.
Sant'Epifanio di Salamina (315-403), nel 393, scrisse una lettera al vescovo Giovanni di
Gerusalemme, affermando di aver trovato, durante un pellegrinaggio verso Bethel, la probabile
immagine di Cristo su un velo. Ecco alcuni frammenti della lettera: “giunti al villaggio chiamato
Anablatha, vista una lucerna accesa e informatomi, venni a sapere che in quel luogo c'era una
chiesa. Entratovi per pregare, trovai un velo sulla porta, sul quale era raffigurato un qualcosa di
somigliante ad un uomo dall'aspetto di un fantasma; dicevano che era Cristo o un qualche santo,
non ricordo infatti che cosa ho visto. Sapendo che la presenza di siffatte cose in una chiesa sono uno
sconcio, lo strappai per lungo e consigliai di avvolgervi il cadavere di un povero” (Lettere di San
Girolamo, LI, 9)
Anche se gli studiosi osservano con cautela questa fonte, in quanto potrebbe trattarsi di un testo più
recente (VIII secolo), non va dimenticato che si tratta di una notizia importante per la nostra
indagine per almeno due motivi: l'immagine era presente su un velo con “l'aspetto di un fantasma”;
le dimensioni erano tali da indurre Epifanio a consigliare di utilizzare il velo come sudario.
Un altro interessante documento è costituito dal Velo di Camulia (o di Giustinopoli). Si tratta di
un'effigie che si diceva giunta dalla Cappadocia e considerata miracolosa: Eraclio usò l'immagine di
Camulia come “Palladium” nella sua campagna persiana (è possibile che fosse una raffigurazione
del Cristo Pantocrator affine a quella presente sull’icona custodita nel monastero di Santa Caterina
sul Sinai). La reliquia andò perduta durante le lotte iconoclaste (726-843), mentre al suo posto si
affermò l'achiropita di Edessa. Sembra che l'immagine di Camulia sia stata venerata, nel 578 a
Costantinopoli, dal futuro papa Gregorio Magno, che nel 596 ne consegnò una copia al monaco
Agostino in missione tra gli Anglosassoni. Generalmente, gli studiosi sono inclini a ritenere che
l'immagine di Camulia fosse “un dipinto su di un lino che una pagana, la quale non ha voluto
credere in Cristo se prima non lo avesse visto (cfr. Gv 12,20), ha trovato in una fontana della sua
villa. Avvolta in un vestito della donna, dice ancora la leggenda, avrebbe prodotta una seconda
immagine identica sulla stoffa del vestito. Una terza immagine achiropita è stata venerata nella
stessa zona ed è sopravvissuta all'incendio della chiesa dove era conservata” (J. Kelly, in P. CoeroBorga, 1979, pag. 397).
A Menfi, in Egitto, esisteva un'immagine di Cristo su un pezzo di stoffa che il pellegrino detto
“Anonimo da Piacenza” venerò verso l'anno 570. Si trattava di un pallium lineum, con il quale Gesù
avrebbe asciugato il suo viso e l'impronta del volto sarebbe rimasta sull'asciugamano. Così al
memoria del pellegrino: “In Menfi c'era un tempio, o meglio una chiesa, una porta della quale si
chiuse davanti a nostro Signore, quando la Beata Vergine Maria con lui fuggì in Egitto e da allora
non fu più possibile aprirla. Qui vediamo anche un pallio di lino su cui dicono che in quel tempo sia
passato, e per questo motivo vi siano rimaste le sue tracce: immagine che è adorata in ogni tempo e
che anche noi adoriamo, e a causa dello splendore non possiamo volgersi verso di lei, poiché quanto
si nota in essa è immutato nei tuoi occhi” (Itinerarium Antonini Placentini, XV, XLIV).
Abbiamo inoltre notizia di un'achiropita raffigurante il volto di Cristo dopo la Passione, conosciuta
come l'effigie di Berito e descritta, in occasione del Secondo Concilio di Nicea, attraverso una
relazione attribuita a Sant'Anastasio. Il contenuto del testo sembrerebbe relativo ai rischi a cui fu
sottoposta l'icona: infatti è detto che questa effigie non avrebbe dovuto subire quanto subito da
Cristo durante la Passione. La memoria narra che dall'effigie sgorgò del sangue raccolto in ampolle
e utilizzato per guarire gli ammalati. Nelle diverse versioni del documento, in greco e latino, è
6
anche segnalato che l'effigie presentava l'intera figura di Cristo. La fonte specifica che
sull'achiropita era “fissata l'immagine del Signore Nostro Gesù Cristo dipinta (l'effigie di Berito era
considerata un'opera di Nicodemo, n.d.a.) con realismo e indica realmente la sua statura”. Si tratta
di un'informazione molto interessante per porre in relazione, sia pur solo sul piano della tradizione
iconografica, l'effigie di Berito alla Sindone. Stesso discorso per quanto riguarda il velo proveniente
dal cimitero di Antinoe, in Alto Egitto: si tratta di un velo del 500 d.C., posto sul volto del cadavere
di un cristiano. Oggi il reperto è scomparso ed è un vero peccato: il velo era ripiegato in quattro e su
ogni lato riportava l'impronta del volto del cadavere; tre lati erano particolarmente visibili, mentre il
quarto presentava un'immagine piuttosto frammentaria. Secondo il parere degli archeologi, la
formazione dell'immagine sarebbe dovuta all'azione degli aromi usati per la sepoltura.
Tra le presunte immagini achiropite ancora oggi conservate, ricordiamo il Velo di Manoppello,
un'icona conservata nel santuario dell’omonima città, in provincia di Pescara: ancora oggi è un
piccolo enigma, poiché non è noto come si sia formata l'immagine sul sottilissimo velo. Il tessuto si
presenta come una “diapositiva”, molto nitida se osservata ad una certa distanza, in positivo,
colorata e priva delle tracce di sangue visibili.
Però, osservato da alcuni metri di distanza, il Santo Volto sembra diventare trasparente e spesso, in
particolari condizioni di luce, l'immagine scompare del tutto fino a trasformarsi in una sorta di
specchio.
È di indubbio interesse il fatto che la reliquia di Manoppello coincida in modo quasi sorprendente
con il volto sindonico: accanto a questa peculiarità, vanno poste le tesi che vedono nel Velo di
Manoppello una sorta di archetipo iconografico caratterizzante il modello pantocrator di origine
sinaica, però con dipendenze formali più antiche.
Ascriverlo tra le immagini achiropite è senza dubbio “più facile” vista l’originalità del reperto; più
difficile di fatto legarlo all’esperienza della donna chiamata Veronica, anche per l’assenza di fonti
che consentano un posizionamento storico della reliquia prima del XVI secolo. Inoltre, anche la
tipologia iconografica si scosta notevolmente dai motivi ricorrenti, offrendo un modello dotato di
grande originalità, intorno al quale la scienza dovrà continuare ad interrogarsi al fine di svelarne il
mistero dell’origine.
Ricordiamo ancora la Sainte Face di Laon (Francia), una reliquia che, per quanto sia al centro di un
diffuso culto, si basa comunque su un’immagine chiaramente dipinta: di conseguenza il suo
rapporto con le achiroipite va considerato come l’effetto di relazioni espresse solo sul piano
iconografico.
La Sainte Face di Laon è un’icona che riproduce il volto di Cristo con gli occhi aperti. La testa è
senza collo di color scuro e con un nimbo a forma di croce. Sull’opera è presente una scritta in
paleoslavo generalmente così tradotta: Immago Domini in sudario e sembrerebbe sovrapposta ad
un'altra, in greco.
Quest’immagine fu inviata, nel 1249, da Jacques Pantaléon de Troyes, il futuro papa Urbano IV, in
dono alla sorella Sybil, badessa del monastero di Monteruil-en Thiérache, e in seguito donata alla
cattedrale di Laon, dove ancora si trova nella cappella di Thomas Becket. Con questa reliquia, ben
presto la più importante dell’intera regione, il convento divenne così una rilevante meta di
pellegrinaggio e la fama dell’icona raggiunse l’apice nel corso della seconda metà del XV secolo,
continuando ad attirare molti fedeli fino alla Rivoluzione Francese.
Alcuni studiosi hanno suggerito che il Volto di Laon sia una copia del Velo della Veronica di San
Pietro: però questa tesi non regge in quanto, come abbiamo visto, l’immagine è accompagnata da
una scritta riconducibile all’area slava ed è da questa zona che l’opera proviene (A. Grabar, 1931,
pag. 87).
Il Sudario di Oviedo è una reliquia alquanto singolare: avvolta da una fitta aura miracolosa, da
alcuni secoli è oggetto di grande devozione. In tempi recenti la sua notorietà si è ampiamente
diffusa ben oltre i confini della Penisola Iberica, perché il Sudario di Oviedo potrebbe essere il
fazzoletto posto sul volto di Cristo nel tragitto fino al sepolcro dove, come indicatoci da Giovanni
(20,7; cfr. il caso di Lazzaro: 11,44), fu in seguito avvolto nella Sindone.
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Alla base della teoria vi è il fatto che l'immagine del sudario oviedano, informatizzata e studiata al
computer, presenta caratteristiche sovrapponibili al volto sindonico.
La reliquia è conservata dall’XI secolo nella cattedrale di Oviedo (capoluogo delle Asturie): è un
panno di lino di 83 x 52 centimetri e nella parte centrale presenta un gruppo di macchie brunorossiccio, raccolte all’interno di un quadrato di circa 30 centimetri di lato; le macchie si ripetono in
modo simmetrico sui due lati del tessuto. Nella parte centrale le macchie sono di sangue; sulla
superficie sono evidenti cuciture, buchi ed altri segni da porre in relazione alla vicissitudini del
reperto. Ad una prima analisi, il materiale ematico sembrerebbe relativamente recente, identico
discorso vale anche per gli altri elementi acquisiti dal lino in periodi storici non lontani.
Una posizione a sé è occupata dal citato Mandylion di Edessa la cui presenza è attestata, nel X
secolo, ad Edessa (attuale Urfa, in Turchia). Il Mandylion è il volto achiropito di Cristo giunto in
quella città da Costantinopoli attraverso vie in cui la storia si fonde con la leggenda.
Generalmente mandilion è una parola siriaca con valore semantico abbastanza ampio, può infatti
significare fazzoletto, asciugamano, ma anche sudario. In ambiente siro-palestinese del VIII secolo,
il termine mandilio indicava il velo posto sopra la testa dei decapitati: mandilyon (greco), mandìl
(arabo), mantilium (latino), mantile (italiano arcaico).
Va osservato che, in tempo di persecuzione iconoclasta, Edessa non era più parte dell'impero
bizantino e quindi l'immagine riuscì a sottrarsi al pericolo della distruzione, diventando peraltro un
valido appoggio per quanti cercavano di ostacolare la diffusione delle immagini sacre.
Non possiamo entrare nel merito dell’articolata questione del Mandylion in questa sede, poiché
l’intersecarsi delle vicende che ne caratterizzano la storia richiederebbero molto spazio.
Rimandiamo quindi alla bibliografia e ci limitiamo a ricordare che una tesi piuttosto diffusa tra gli
studiosi, indica nel volto achiropito di Edessa la Sindone ripiegata in modo tale da porre in evidenza
solo la parte superiore del lato anteriore del sudario (quella appunto del volto).
In estrema sintesi, i singoli acheropiti che concretamente o attraverso fonti di diverso tipo sono
giunte fino a noi, ci consentono di isolare due modelli iconografici:
Modello Mandylion (solo volto):
:
Mandylion di Edessa
Volti “della Veronica”
Santo Volto di Genova
Effigie di Camulia
Pallium lineum di Menfi
Volto di Manoppello
Sainte Face di Laon
Sudario di Oviedo
Velo di Antinoe
Modello Sindone (corpo intero):
Sindone di Torino
Velo di Anablatha
Effigie di Berito
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