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Oggi come ieri cercano le loro figlie desaparecidas Reportage da

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Oggi come ieri cercano le loro figlie desaparecidas Reportage da
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BUENOS AIRES
INIZIO È SOLTANTO un post-it
colorato, dall’aspetto innocuo, con il disegno di Betty
Boop, l’eroina dei cartoon sexy degli anni Trenta, un indirizzo e un numero di telefono. Un’immagine
che riempie le pareti dei muri lungo le vie del
microcentro di Buenos Aires, l’area pedonale della capitale argentina più frequentata
dai turisti, tra librerie e negozi alla moda. È
la pubblicità dei bordelli, ufficialmente illegali, in realtà molto diffusi in tutto il Paese.
Soltanto a Buenos Aires, fra i locali vip di Corrientes o Santa Fe e i miserabili postriboli
dell’immensa periferia, ce ne sarebbero oltre un migliaio. E sono, insieme allo spaccio
di droga, uno dei grandi affari della criminali-
tà locale. L’altra immagine, apparentemente lontana, sono i cartelli con le foto segnaletiche delle ragazze scomparse. Nei negozi, nelle stazioni, negli aeroporti. Un nome, l’età,
l’ultimo luogo in cui l’adolescente in foto è
stata vista. Un telefono di contatto. Si confondono con le indicazioni stradali, i manifesti
pubblicitari, le insegne, come un urlo di orrore che si perde nei rumori della metropoli.
L’ultima ragazza hanno provato a rapirla l’altra sera. Usciva dall’università, dopo un corso serale alla facoltà di medicina, in piazza
Houssay, a Recoleta, il quartiere più borghese di Buenos Aires. Due uomini e un coltello
appoggiato dietro la schiena. Si è salvata grazie a un passante coraggioso che si è avvicinato a chiedere cosa stesse accadendo.
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UELLO DELLE CASE CHIUSE», spiega Margarita, «è un affare
milionario nel quale sono coinvolti tutti. Poliziotti, politici, giudici, funzionari statali. Dividono gli incassi con le
bande dei narcos. L’ipocrisia maschile fa dire loro, e persino credere, che le ragazze si prostituiscono per loro scelta.
Invece nei bordelli sono tutte prigioniere. Tutte, nessuna
esclusa. Sono schiave. Sono state sequestrate o ingannate. Le picchiano, le drogano e le minacciano per evitare
che scappino». Margarita ha sessantasei anni. Ha perso
una figlia, Susi. L’ha cercata per anni dopo che era scomparsa finché non l’ha ritrovata morta. L’hanno assassinata dopo averla trasferita da un locale a un altro per tutto il
Paese. A Costitución, uno dei quartieri degradati di Buenos Aires, Margarita ha costruito una mensa per i
poveri. La manda avanti grazie a qualche contributo pubblico e a molti contributi privati. Ma, nella sua battaglia contro la “Tratta” delle ragazze che alimenta il mercato della prostituzione, ha fondato una associazione di Madri che ricorda da vicino un’altra agghiacciante tragedia dell’Argentina, i trentamila EFTBQBSF
DJEPT della dittatura militare. Le ribelli di Margarita, che sfidano la catena di silenzi e complicità, sono le
nuove Madri di Plaza de Mayo. Si riuniscono per sfilare, il terzo venerdì di ogni mese, sulla famosa piazza di
Buenos Aires, davanti al palazzo presidenziale della Casa Rosada, con le foto delle loro figlie scomparse appese sul petto. Come Hebe de Bonafini e Estela Carlotto
fecero quarant’anni fa.
Quello della USBUB è un business che nel ranking della
criminalità è secondo soltanto al traffico della droga e
delle armi secondo l’Organizzazione mondiale per le migrazioni (Oim), che nei suoi dossier conferma anche
quanto denunciato dalle .BESFT: “Vi sono implicati in
forma ricorrente funzionari pubblici e politici...”. Ogni
anno scompaiono quasi mille ragazze, forse di più. Spes-
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TBQBSFDJEBT nello stesso modo. Alcune vengono rapite, altre, all’inizio, semplicemente
ingannate. Altre ancora vengono vendute
ai trafficanti da un familiare o da un’amica.
O finiscono nel giro perché comprano droga.
Molte sono povere, alcune sono ragazze-madri. Sonia e Fabiola vengono dal vicino Paraguay. A Sonia, che oggi ha trentanove anni,
le promisero un lavoro artistico a Buenos Aires quando faceva la cameriera in un bar. Attraversò la frontiera senza documenti ma
nessuno la fermò perché avevano corrotto i
doganieri. La sfruttarono per dodici anni,
quattordici clienti al giorno. Fabiola venne
invece venduta dal fratello, le fece credere
che avrebbe lavorato in Argentina come baby sitter.
Le connessioni della rete sono internazionali. Ci sono ragazze vendute ai narcos messicani. In Perù, in Spagna. Margarita dice
che un locale o un appartamento con sei o
sette ragazze può fruttare fino a centomila
euro di incassi al mese. Di più se le giovani sono minorenni. Denaro che crea un network
di connivenze e complicità. Dall’agente di
polizia del quartiere ai politici locali che con
le mazzette della prostituzione finanziano
perfino le campagne elettorali. «Quando
scomparve mia figlia Susi», racconta Margarita, «io ero una militante peronista. Iniziai
a cercarla e mi accorsi che dirigenti politici
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comunali che conoscevo erano complici della Tratta: prendevano denaro in cambio di
permessi che firmavano per l’apertura di locali. Mia figlia fu costretta a prostituirsi anche in un nigth club, si chiamava “Shampoo”, poi venne chiuso per le denunce di alcune ragazze. Il proprietario, Gabriel Conde, è latitante in Messico, a Cancun. È figlio
di Luis Conde, un vicepresidente della squadra di calcio Boca Juniores, morto qualche
anno fa. Politica, pallone, servizi di sicurezza, tutti hanno affari nella Tratta e sono favoreggiatori dei criminali».
Il gioiello dell’Associazione delle Madri è
“MFRVJQPEFSFTDBUF”, un gruppo di familiari
delle vittime, tutti uomini, che assaltano i
bordelli per liberare le ragazze quando qualcuna di loro riesce a comunicare l’indirizzo e
chiede aiuto. «Quando una ragazza viene sequestrata è essenziale agire il più presto possibile», sottolinea Margarita, «perché iniziano subito a drogarle, e diventano tossicodipedenti, oppure le trasferiscono in altre città». È successo poco tempo fa alla figlia di
una famiglia benestante della capitale. Lei
voleva comprare droga e la ragazza che gliela vendeva l’ha portata in una “WJMMBNJTF
SJB”, una baraccopoli del Gran Buenos Aires, la provincia. L’ha consegnata a un gruppo di narcos. Amici e familiari, insieme al
HSVQPEFSFTDBUF di Margarita sono entrati
armati nella baraccopoli e sono riusciti a li-
berarla. «Se aspettavamo la polizia, non l’avremmo ritrovata più». Aveva il corpo pieno
di piccole bruciature rotonde. È la tortura tipica dei narcos, che per domare le ragazze
rapite gli spengono le sigarette sulla pelle.
Ma non va sempre così. Una storia emblematica è quella di Nora. A diciassette anni scappò di casa. Sua madre riuscì a rintracciarla
dopo qualche tempo in un postribolo nella
zona di Tucuman, nel nord del Paese. Era prigioniera e l’aiutò a fuggire. Ma ormai era diventata tossicodipendente, tossica di Paco,
la “droga dei poveri” in America Latina, uno
scarto della lavorazione della cocaina che si
fuma e produce assuefazione in pochissimo
tempo. Dopo qualche giorno a casa di sua
madre si presentò un sedicente «fidanzato»
di Nora, accompagnato da un agente di polizia. Convinsero Nora a testimoniare davanti
a un giudice contro la madre e se la portarono via. Schiava loro e della droga. Per questo
le Madri oggi chiedono allo Stato assistenza
medica e pedagogica gratuita per le figlie ritrovate, e una casa dove possano proteggerle mentre escono dall’inferno.
Un caso che ha commosso l’Argentina fu
quello di Marita Veron, EFTBQBSFDJEB a ventitré anni un pomeriggio di aprile del 2002.
Dopo anni di battaglie, sua madre, Susana
Trimarco, riuscì a portare sul banco degli imputati i suoi sequestratori. Al processo, alla
fine del 2012, nonostante le molte testimo-
nianze, furono tutti assolti. Susana denunciò che i giudici erano stati corrotti dai rapitori di Marita e l’onda di sdegno che attraversò il Paese convinse, qualche mese più
tardi, la Corte Suprema a rivedere la sentenza, condannando la maggior parte degli imputati. Susana non ha mai ritrovato Marita
e oggi dirige una Fondazione, “Maria de los
angeles”, che combatte in Argentina la piaga sociale della Tratta.
Allo Stato le Madri chiedono che il sequestro delle ragazze legato allo sfruttamento
della prostituzione diventi un reato di lesa
umanità, affinché non sia mai possibile archiviarlo. E chiedono l’istituzione di una Banca di impronte digitali e del Dna, come per i
EFTBQBSFDJEPT della dittatura militare.
«Non solo le adolescenti che fuggono dalle
case chiuse», aggiunge Margarita, «e rischiano la morte perché possono denunciare i loro carcerieri e i loro clienti. Anche le altre ragazze, quando invecchiano e non servono più, possono essere assassinate. A Buenos Aires le buttano in fondo ai pozzi per l’acqua in una zona periferica, a Temperly. Spesso quando si ritrovano i corpi vengono seppelliti come quelli di persone senza identità
perché nessuno apre l’inchiesta».
Oggi in Argentina sono scomparse altre
due ragazze. Altre due scompariranno domani.
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rica» commenta un altro mentre cambia idea a proposito del selfie che si
voleva scattare con lui. Già perché il nuovo Capitano non ha più gli occhi
azzurri e i capelli biondi del “vecchio” Steve Rogers: si chiama Sam Wilson ed è nero. In realtà si tratta di una vecchia conoscenza che con Capitan America in passato ha vissuto molte avventure: il suo nome precedente era “Falcon” ed è stato il primo supereroe Marvel afroamericano (settembre 1969). Il passaggio di consegna, anzi di scudo a stelle e strisce, oggi non è casuale: Steve Rogers è invecchiato, non è più al passo coi tempi e
il nuovo “Cap” (come viene chiamato confidenzialmente dai fan) deve risolvere i problemi della vita di tutti i giorni. Non è più un’icona indiscutibile, l’opinione pubblica è divisa nei suoi confronti e deve vedersela anche
sui social network tra sostenitori e haters. I due hanno anche litigato per questioni politiche: nonostante
Rogers sia sempre stato un liberal, Falcon è decisamente più a sinistra e mette continuamente in gioco il
tema delle discriminazioni razziali passate e presenti. Sam Wilson di fatto è il Capitan America delle minoranze, voterebbe Bernie Sanders mentre Rogers starebbe con Hillary Clinton.
Marvel ha una grande tradizione liberal: è la casa in cui appare il primo supereroe nativo africano della
storia, Black Panther (luglio 1966), la prima eroina donna di colore, Tempesta (1975), e dove vediamo il
primo coming out gay in un fumetto (Northstar nel 1992) che culminerà qualche anno dopo nel primo matrimonio gay tra supereroi (Northstar e Kyle Jinadu nel 2012) e tra poco ci sarà un bacio tra la nuova Thor
e Cap (!). Proprio per questo ha destato un incredibile clamore la donazione di un milione di dollari dell’amministratore delegato della Marvel, Isaac Perlmutter, in favore di Donald Trump, lo scorso gennaio, mentre era in corso la più grande rivoluzione della storia della casa editrice che trasformava radicalmente i
suoi eroi adattandoli alla nuova realtà multirazziale e multiculturale seguendo le richieste che da molto
tempo arrivavano dai lettori. Un atto quello di Perlmutter che ha provocato le loro reazioni inferocite: Marvel si contraddistingue infatti da sempre dalla rivale DC Comics per la sua tradizione liberal, sottolineata
dal celeberrimo motto “supereroi con superproblemi”. I suoi eroi sono caratterizzati dal doversi con- americana e i superpoteri, che non sono altro che
frontare con difficoltà di ogni genere e da una pro- una metafora del suo corpo di adolescente in mutafonda introspezione psicologica a distinguersi dai zione: sono poteri buffi come la capacità di ingranpersonaggi della DC come il monolitico Superman dirsi una mano o un piede. La sua sceneggiatrice,
o il cupo Batman, spesso accusato a torto o a ragio- Willow Wilson, scrittrice e figura pubblica convertine di essere una sorta di “vigilante” pseudofascista. ta all’Islam, tra l’altro non ha esitato a dire cosa penMa il mondo attuale non offre più soluzioni sem- sa della donazione di Perlmutter a Trump sul suo siplici e, che la rivoluzione dei personaggi Marvel sia to Tumblr: «Non possiamo non chiederci che cosa sidovuta a ragioni meramente economiche, oppure gnifichi questa cosa per i fan della Marvel. La donadi “politicamente corretto”, di fatto ci troviamo da- zione viene dalla sua fortuna privata o i soldi che i
vanti a un cambiamento epocale che ridefinisce tut- lettori spendono per comprare i comics sono finiti a
ti gli eroi: l’universo precedente infatti scompare e supportare un candidato politico che vuole deportatutte le testate ripartono da zero. E il nuovo pan- re milioni di immigranti, costruire un muro ai confitheon è sorprendente, scolpito sulla base di quella ni col Messico e costringere le minoranze religiose
che gli americani definiscono “diversity”, ovvero a portare un badge d’identificazione?».
l’attenzione massima alla razza e al genere sessuaNon mancano infine i personaggi destinati a un
le. Una sorta di incubo per il mondo come lo vorreb- pubblico hipster come la bizzarra Squirrel Girl, la
be Donald Trump. Nella “Nuovissima Marvel” co- ragazza scoiattolo. «Con lei abbiamo creato un nuome è stata ribattezzata, la crisi economica ha colpi- vo tipo di pubblico», spiega Alex Alonso, direttore
to duro: Tony Stark/Iron Man è in bancarotta, i Ven- generale Marvel Usa «ma in generale questa rivoludicatori non hanno più né uno stipendio, né una se- zione è stata trascendentalmente positiva, oltre
de e la loro popolarità è in caduta libera. Anche un ogni aspettativa. Finalmente tutti possono riconoaltro personaggio simbolo, da sempre il più vendu- scersi: i miei nipotini per esempio, che sono coreato, Spiderman, è cambiato: si chiama Miles Mora- no-americani, impazziscono per il nuovo Hulk». Anles ed è un ispanico afroamericano giovanissimo che i media hanno seguito il cambiamento con
mentre l’Uomo Ragno originale è diventato il Ceo grande attenzione. «Sì, per loro è un grande tema,
di un’azienda ipertecnologica e progressista (in soprattutto in tempi di elezioni. La Marvel è semuno dei primi numeri si celebra il matrimonio tra pre stata ”avanti” del resto: già il tema dei mutanti
uno dei capi della sua corporation e il suo compa- guardava alla diversità, che peraltro è ampiamengno), una specie di Steve Jobs. Neanche gli dei ven- te rappresentata all’interno del nostro staff editogono risparmiati: il “potente” Thor, il biondissimo riale». Peccato che l’amministratore delegato “Ike”
eroe tratto dalle saghe nordiche è addirittura diven- Perlmutter non la pensi così ma anche questa è detato donna (la testata ora si chiama “la potente mocrazia: Marvel alla fine sembra seguire i suoi letThor”) e per di più, quando si trova nella sua forma tori, non i suoi amministratori. Del resto il vero fatumana, ammalata di cancro e in chemioterapia. tore determinante delle scelte è sempre il denaro e
Ogni volta che si trasforma in Thor accorcia la sua i risultati di tutti questi cambiamenti non sono
vita umana perché la trasformazione annulla gli mancati: al momento della “rivoluzione” a ottobre
agenti chimici delle chemio, ponendo dunque un ul- 2015, la Marvel ha ottenuto un market share del
teriore tema di riflessione. Intanto il suo storico ne- 43,65 per cento (contro la DC che aveva il 21,85),
mico Loki è di volta in volta uomo o donna, un muta- piazzando dieci titoli su dieci in top ten, tutti o quaforma dall’orientamento sessuale liquido. C’è an- si oltre le centomila copie. Una trasformazione che
che una donna ragno, Jessica Drew, che però è in- ha risvolti sociali e politici su cui il direttore generacinta e per la prima volta mostra le difficoltà di esse- le Alonso si smarca: «Per noi la politica non è mai
re una superoina in dolce attesa: si capisce bene stata un tabù. A volte abbiamo affrontato un tema
quanto possa essere attuale nei suoi risvolti. Il nuo- di petto, altre usando delle metafore, come quando
vissimo Hulk è invece un teenager di origine asiati- abbiamo fatto $JWJM8BS, che è stata la storia più
ca dall’intelligenza e... gli ormoni molto sviluppati. venduta di sempre e di cui è appena uscito un film
Uno dei personaggi su cui si punta di più per il futu- che ha incassato oltre un miliardo di dollari solo nero è Black Panther: la sceneggiatura è stata affidata gli Usa. Anche in $JWJM8BS si affrontano due fazioa un team “all black” guidato da Ta Neisi-Cohates, ni: una guidata da Iron Man che vuole che gli eroi si
uno degli scrittori contemporanei più influenti de- registrino legalmente, l’altra da Capitan America
gli Stati Uniti. “Black Panther è sempre stato consi- che è contrario e diventa un fuorilegge. E da giugno
derato un sogno nero, una negazione vivente dell’i- uscirà $JWJM8BS**». Insomma, riuscirà il mondo
dea suprematista bianca” ha dichiarato in proposi- dell’apparente leggerezza, dell’intattenimento,
to. Il primo numero della sua nuova serie è stato un dei comics a vincere la ricetta altrettanto pop (o mesuccesso epico: 250mila copie vendute per un incas- glio, trash) e iper-reazionaria di Donald Trump? La
so di quasi un milione e mezzo di dollari.
battaglia è aperta ma non sottovalutate il geek-poUn altro tema caldo è l’Islam a cui viene dedicata wer: il popolo dei lettori di fumetti e giocatori di viaddirittura la testata che contiene il nome della ca- deogame ha già da tempo preso in mano il potere
sa editrice: .T.BSWFM. Che in questa nuova incarna- economico. E se non in questa, nella prossima tornazione è una ragazzina pachistana di sedici anni, Ka- ta elettorale è molto probabile che potremmo vedemala Khan, che si trova a vivere le contraddizioni re al potere il primo presidente “geek”.
tra i dettami della tradizione familiare, la società
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HIEDE UN PASSANTE: «QUELLO È CAPITAN AMERICA?». «Non il mio Capitan Ame-
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O CONFESSO: odio il supereroe.
E lo odio anche se
politicamente corretto, se
nero, donna, musulmano o
gay. Certamente ho un fatto
personale con Superman, che noi
ragazzi italiani chiamavamo Nembo
Kid, forse per becera invidia di
giornalista, da quando “coprivo” la
Stazione Centrale di Milano per conto di
un quotidiano della sera. Lui,
kryptoniano piovuto dal cielo
nell’Indiana, poteva trasformarsi in
superuomo e mandare i servizi volando,
senza quel maledetto gettone del
telefono. Se io, piovuto a Milano dalla
terra della Bassa emiliana, avessi
provato a spogliarmi in una cabina del
telefono, prima sarei stato arrestato
dalla Polfer per atti osceni e poi
licenziato. Non mi pare neppure giusto
che con tutte le porcherie tossiche
ingerite, respirate, bevute, assorbite in
decenni di vita nelle città più inquinate
del mondo, da Tokyo a Mosca, da Milano
al Kuwait, io oggi mi ritrovi
semplicemente pieno di acciacchi e
ancora incapace di arrampicarmi sulle
vetrate come Spiderman. Essendo poi
timido e imbranato con le donne fin da
piccolo, il pensiero di trovarmi a cena
con Superwoman distrugge quel poco
che rimane della mia vanità maschile.
Tolleravo l’ormai dimenticato
Mandrake, l’illusionista politicamente
scorrettissimo accompagnato dal
nerboruto servo africano Lothar, perché
almeno riconoscevo in lui la realtà della
politica e della vita, dove generazioni di
incantatori di serpenti e ipnotizzatori di
polli si susseguono, facendoci credere di
essere il nuovo che avanza. E uno che si
avventura nella giungla in smoking,
cilindro e foulard rosso, anziché in
calzamaglie attillate con ridicole S
stampate sul petto , o leggings da
ballerino del Bolshoi, per combattere i
malfattori senza mai sporcarsi, merita il
rispetto di noi mortali con la cravatta
macchiata dal sugo della pasta.
Ammiro i meravigliosi disegnatori,
anzi, gli artisti, che li hanno fatti vivere
dagli anni Trenta in poi e hanno risposto
con la fantasia al bisogno individualista
e ottimista dell’America nei momenti
peggiori della sua storia, dalla Grande
Depressione alla Guerra alla torbida
paura del Terrorismo. Tutti loro, con
l’eccezione di Batman, sono organismi
geneticamente modificati, ma
psicologicamente rattrappiti e immaturi
come Superman, incapace di diventare
adulto nella sua eterna adolescenza di
Peter Pan alieno. Ma se devo temere il
grano Ogm perchè dovrei aver fiducia in
un supereroe Ogm? Invidia la mia, alla
fine, di pedestre pedone, schiacciato
dalla gravità, incastrato nell’ingorgo,
padre incapace di risparmiare ai figli
l’immancabile caduta dalla biciclettina
con il ginocchio sbucciato, mentre loro
salvano fanciulle che precipitano da
grattacieli e ripescano transatlantici dal
naufragio. Vorrei lasciarmi coccolare
anche io dalle loro avventure e dalla loro
forza mentre ancora cerco invano nella
tasca l’ultimo fottuto gettone per finire
di dettare il pezzo in cronaca da una
cabina telefonica.
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quanto Proust trovasse
deludenti le fotografie che ritraggono
i nostri cari, sarebbe rimasto forse stupefatto dall’effetto di idolatria che i
suoi ritratti fotografici o quelli degli
amici più stretti suscitano oggi tra i
suoi ammiratori. Qualche giorno fa da
Sotheby’s, a Parigi, sono andate all’asta con grande successo più di centoventi tra fotografie, lettere, manoscritti con varianti e testi inediti, un piccolo tesoro scoperto dalla pronipote Patricia Mante-Proust all’interno di una valigia mentre ripuliva la cantina del padre. L’eccezionalità del ritrovamento risiede nel fatto che
questo materiale non è stato raccolto qua e là da un collezionista, ma
proviene «dalle mani stesse di Marcel» come scrive Jean-Yves Tadie,
curatore del catalogo d’asta e autore di una sua monumentale biografia (Mondadori): era cioè stato messo da parte da Proust e dunque si
può considerare un sorta di scrigno dei ricordi. La sola visione del catalogo permette di ripercorrere piacevolmente e velocemente la vita
più intima dell’autore della 3FDIFSDIF: molte foto sono legate ai suoi
amori, ci sono tutti i più importanti tranne Agostinelli, il segretario-autista a cui regalò un aereo.
I prezzi erano accessibili, buoni per sognare, poi si sono più che decuplicati: il manoscritto di "MMPNCSBEFMMFGBODJVMMFJOGJPSF con correzioni è stato bandito per 111mila euro, poco meno della metà (65mila) per %BMMBQBSUFEJ4XBOO con una lunga dedica a Walter Berry, l’americano che gli fece scoprire la bellezza delle pitture preistoriche;
venduto a 47mila euro il disegno della cattedrale d’Amiens. Ma l’impressione di quanto sia profondo il culto per Proust si è avuto con le fotografie. Quella di lui seduto con, in piedi, Lucien Daudet e Robert de
Flers, imbarazzante per l’epoca perché Daudet lo cinge e gli rivolge
uno sguardo pieno d’amore, tanto che la sua famiglia gli impose di ritirare tutte le copie, è passata da cinquemila a diciottomila euro (nella posa Proust un po’ già sorride, consapevole di quanto sia trasgressiva); diciassettemila euro per la foto dello scrittore a Venezia ritratto
su un pontile col cappello in testa mentre sta osservando la laguna (e
noi la guardiamo avendo negli occhi le pagine stratosferiche che scrisse su Venezia nella 3FDIFSDIF con la descrizione del Canal Grande coONSIDERANDO
me coste frastagliate frutto non della natura ma della cultura). Identico destino l’hanno avuto le istantanee di Proust bambino al parc
Mousseau o al liceo Condorcet, quelle delle duchesse che fingeva di
corteggiare amandone invece figli o spasimanti, e soprattutto le fotografie degli amati, come Reynaldo Hahn che suona il pianoforte, Jacques Bizet (l’amico che lo respinse), di Robert de Montesquiou, con
una dedica che è la migliore descrizione di cosa sia un dandy: “Io sono
il sovrano delle cose effimere”; e quelle a Lucien Daudet, tra cui una
del 1909, con citazione da Virgilio, “quanto sei cambiato da allora”, e
una del 1896 con annotazione in latino e un anagramma non del tutto decriptato dove si parla della razza dannata di Sodoma. Tutti elementi che nelle riproduzioni delle foto pubblicate in altri libri erano
mancanti: insieme a lettere inedite o al poema in prosa sui fiori che
chiedono di diventare immortali (di cui qui traduciamo un frammento), si scopre anche che la famosissima foto sul piazzale delle Jeu de
Paume, con Proust col bastone che va a vedere, come poi Bergotte, la
mostra su Vermeer, è stata tagliata: c’era qualcuno accanto a lui. Tutto ciò è quanto di più proustiano esista, perché entriamo dentro il
tempo e vediamo questi oggetti compresi della loro aura, ci sono i segni — la sforbiciata di una foto, la dedica, l’annotazione segreta —
che restituiscono una polifonia, una tridimensionalità rispetto alla riproduzione piatta, nuda e cruda: ci ricordano come le cose siano più
piene di tempo rispetto a come le immaginavamo.
Lo stesso catalogo dell’asta è anch’esso un’esperienza proustiana,
costringe al feticismo, trasforma le cose in icone da possedere — in
fondo nella sua magnificenza, la 3FDIFSDIF è anche un catalogo, di
persone, cappellini, profumi, odori, dei suoni del proprio tempo, e il
narratore procede come un raccoglitore di feticci, con la crudeltà che
tutto andrà all’asta, cioè che saranno perdute. Per Proust la foto della
persona amata era sempre inanimata, fredda, priva di profondità in
confronto alla ricchezza dei ricordi presenti nella nostra camera oscura, che creano un flusso continuo; allo stesso tempo, una foto poteva
essere rivelatrice, e certo crudele, perché liberandoti dal vortice visivo degli affetti ti mostra particolari e verità che non hai saputo cogliere. Le foto dell’asta, invece, non sono una cristallizzazione del tempo
di Proust ma del tempo che noi lettori abbiamo trascorso con lui, e
dunque sono state comprate a suon di rilanci non perché rare: perché
sacre.
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RA LE FOTO CONSERVATE da Proust, ci sono foto di
attrici con dedica al padre, il dottor Proust, che
era medico dell’Opéra Comique. Come quella
che compare qui a destra: la deliziosa soprano Marie van
Zandt, ventitré anni, e in abiti maschili (fu Cherubino
nelle “Nozze di Figaro”), dedica la foto “Al mio buon
amico il dottor Proust. Il ricordo molto affettuoso di
M.v.Z”. Alphonse de Rothschild era pazzo di lei: ma
scrive Proust, in un testo non pubblicato in cui imita i
pettegoli diaristi Goncourt, che il finanziere frequentava
solo donne da quaranta soldi, per la disperazione di tutte
le cocottes.
Il dottor Proust profittava delle sue belle pazienti, e si
lamentava: “Avanti di questo passo, e dovremo pagarle”.
Madame Proust non sapeva nulla. In un passaggio
abbandonato della “Recherche”, Proust però racconta
che la moglie del dottore ha un dolore atroce scoprendo,
nelle lettere del marito, che aveva una relazione con
Odette — che durante le visite si chinava a soddisfarlo:
“Le restava, nell’esecuzione delle carezze, qualcosa di
troppo conservatorio… una serie di fioriture… Da vecchio
cliente, lui pagava un prezzo ridicolo”. Quando Proust
ritrae Odette come Miss Sacripant vestita da uomo,
descrive proprio questa foto: e forse si identifica con
“l’ambiguità del sesso” dell’immagine (“un giovane
effeminato?”), ritenendo di aver anche lui fatto soffrire
la madre con la sua omosessualità.
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RISTI D’ESSERE BELLI per così breve tempo, in
giardini che dopo averli visti nascere li
vedevano morire così presto, i fiori erano
inconsolabili e non smettevano di versare nel cuore
dei loro calici tutte le lacrime della rugiada. Un giorno
la violetta, levando un poco la sua testolina al di sopra
della terra, ebbe l’idea che ci si sarebbe potuti
rivolgere al buon Dio. Le viole del pensiero
cominciarono a rifletterci seriamente e a interrogarsi
tra loro sulla soluzione migliore socchiudendo un poco
i loro occhi neri: alla fine si decise di inoltrare una
richiesta ufficiale. La dalia, che con il gran colletto
della sua corolla possiede tutta la gravità che occorre
in queste occasioni, fu incaricata di redigerla: la dalia
cerimoniosa e rigida nel suo bel colletto a gorgiera.
Per la consegna al buon Dio si decise di affidarla al
dente di leone. Al primo vento favorevole che avrebbe
scompaginato i suoi gambi, la richiesta sarebbe salita
leggera trasportata dalla polvere bianca del suo fiore.
E la richiesta giunge ai piedi del buon Dio. «O Signore
Benedetto» — avevano scritto i gigli — «a che serve la
nostra splendida purezza [il nostro vestito candido è
splendido, lo sarebbe ancor più se fosse duraturo.
Invece in un attimo sfiorisce e si perde. Questo è un
male]. Noi siamo tristi di morire così giovani. Sarebbe
caso mai un problema per Lei, poterci far vivere per
sempre?».
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accesso ai
suoi archivi, non avevamo
idea di quanto materiale avesse in magazzino. La verità è
che dal 1963 a oggi non si è
mai disfatto di nulla. Qui però
non ha mai messo piede. Tutto questo per lui è ieri. Ha la testa da un’altra parte», disse
Geoffrey Marsh, uno dei curatori di %BWJE#PXJF*T, all’inaugurazione della mostra al Victoria & Albert di Londra, la stessa che vedremo al MAMbo di Bologna dal 14 luglio al 13 novembre. Era il 2013, Bowie aveva altro da fare, stava preparando
la sua definitiva uscita di scena. Per il mondo era un genio in ritiro, per amici e
familiari un uomo malato, determinato a programmare nei minimi dettagli
gli ultimi mesi — le incisioni, il testamento artistico, la fine assistita quando il
fisico minato non sarebbe stato più in grado di sopportare le terapie palliative.
Una dipartita silenziosa, eppure in qualche modo clamorosa; più scioccante
perché priva di lacrime — il giorno prima sorridente, impeccabile nel suo completo di Thom Browne davanti alla palazzina newyorchese in mattoni rossi, il
giorno dopo un corpo esanime pronto per la cremazione col rito buddista.
Esempio di stile anche nel distacco. Drammatico? Solo per noi, i fan. In realtà
tutt’altro che solenne, naturale piuttosto — il più potente super-io del rock
pronto a rimettersi in sintonia con l’universo senza la mediazione di angeli e/o
demoni. Dunque, perfettamente TQBDFPEEJUZ. Troppo concentrato sul volo finale, Bowie ha lasciato agli altri la cura dei cimeli, diventati oggetti rituali più
potenti di EPSKF tibetani. Non importa se a indossare i costumi di Ziggy Stardust o Diamond Dogs o Thin White Duke o Blue Clown o Glass Spider sono manichini. Colori, tagli, combinazioni, audacia, provocazione, kitsch, ricercatezza
— gli oggetti in mostra hanno un suono, un potere, sovversivo e sofisticato,
che ha canalizzato l’avanguardia nel mainstream; William Blake, Bertolt Brecht, Nietzsche, Artaud, Dalí, Judy Garland e la Dietrich dentro Philip Glass,
Andy Warhol, Kansai Yamamoto, Kate Moss, Tilda Swinton, Alexander McQueen, Hedi Slimane e Marshall McLuhan. La storia di chi la moda non l’ha
mai seguita, l’ha fatta.
I HA DATO LIBERO
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CLETTICO,
INDEFINIBILE,
inimitabile fin
dall’inizio. Per
costruirsene una, Bowie
usava spregiudicatamente le
storie degli altri. Col risultato
che la sua era sempre la più
bella. Elevò povertà e sciatteria
del flower power col mito
prepotente del superuomo,
l’eleganza dandy di Oscar Wilde
con l’indefinibile look
dell’extraterrestre, lui che
alieno si sentiva davvero e della
diversità stava facendo arte.
Freddie Burretti fu lo stilista che
lo aiutò a trasformare il fai da te
della fine degli anni Sessanta
(scampoli di look mod,
Haight-Ashbury e stravaganze
hollywoodiane assemblati da
David insieme alla futura prima
moglie Angie) nel guardaroba
più ricco, trasgressivo, creativo e
influente di una rock star.
Burretti (al secolo Frederick
Burrett, morto a Parigi nel
2001) aveva diciannove anni
quando nel 1971 conobbe i
Bowie a “El Sombrero”, una
discoteca gay e supertrendy di
Londra. David era intrigato dalla
bellezza del ragazzo. «Ne farò il
nuovo Mick Jagger» , diceva, ma
il sogno di Burretti era lavorare
per Valentino. La
trasformazione del look da
Hunky Dory a Ziggy Stardust fu
merito del giovane sarto (e delle
micidiali, folgoranti intuizioni di
Bowie): il completo ghiaccio
concepito per Life on Mars
(1972) anticipa di molto i tagli
di John Galliano e Alexander
McQueen, ma il meglio doveva
ancora venire.
la Repubblica
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ONOSTANTE DIVERSI album già
pubblicati, Bowie non era
ancora una star quando mise
mano all’album che avrebbe
cambiato la sua vita e le sorti del rock,
“The rise and fall of Ziggy Stardust
and the Spiders from Mars”. David e
Angie succhiarono avidamente
dall’anticonformismo di Burretti, che
all’epoca lavorava per un sarto greco a
King’s Road, e della sua girlfriend
Daniella Parmar. Bowie s’ispirò al loro
taglio di capelli per il look di Ziggy,
accentuando il rosso carota, e indossò
le tutine spaziali matelassé che
Freddie gli aveva confezionato
(ispirandosi ai costumi di “Arancia
meccanica” di Kubrick) per le prime
apparizioni televisive e il lancio del
singolo “Starman”. Personaggio
misterioso Burretti: si dileguò dopo
aver disegnato i costumi per il
Diamond Dogs Tour, la sua famiglia
ne denunciò la scomparsa e fu dato
per disperso. Quando si seppe della
morte, tutti avevano dimenticato il
suo nome. Non Bowie, che scrisse: «È
stato uno dei personaggi più creativi
con i quali abbia mai lavorato. Freddie
e io costruimmo un mondo a nostra
immagine e somiglianza. Ho
conservato tutto quel che hai fatto per
me, ne avrò cura in tua memoria».
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IGGY STARDUST RUBÒ la scena a
David Bowie, lo ridusse, parole
sue, a un fragile psicopatico
schizoide preda della cocaina. L’epopea
dell’alter ego fu fulminante: dal gennaio
1972 al giugno 1973, quando in un mesto
e delirante finale di concerto all’Odeon di
Hammersmith (filmato da D. A.
Pennebaker) l’artista annunciò ai fan in
lacrime la morte di Ziggy. Per calarsi nei
panni del messia rock venuto dallo Spazio
Bowie utilizzò un complice “alieno”,
Kansai Yamamoto, il primo stilista
giapponese approdato a Londra, anni
prima di Yohji Yamamoto e Rei
Kawakubo. Con lui Bowie mise a punto
il look di una creatura dalla bellezza
inquietante e visionaria,
indefinibile sessualmente
ma non asessuata,
sospesa nel tempo e
nello spazio, star di
Broadway,
off-Broadway e
kabuki
onnagata — gli
attori che
interpretava-n
o ruoli
femminili nel
teatro
giapponese.
Glam,
transgender,
camp rock? Di più, e
oltre. I costumi
avveniristici di
Yamamoto e il make up di
Biba modellato sulle maschere
kabuki definirono una nuova forma
di cabaret rock che sconvolse la
mente di Bowie e istigò
nel giovane pubblico
una morbosità che non si ricordava
dai tempi di Elvis.
INIMALISMO E SOBRIETÀ: con la
trilogia berlinese Bowie
fece piazza pulita degli
isterismi di Ziggy, ma anche del
fragile crooner che negli anni di
“Young Americans” e “Station to
Station” si mostrava nei talk show
letteralmente divorato dalla cocaina.
Fece cinema (“L’uomo che cadde
sulla terra”,”Just a gigolo”), teatro
(“The Elephant Man”), conobbe
Lennon e Elizabeth Taylor vestito da
perfetto gentleman. Le fantasie
transgender rispuntavano qua e là,
come nel video di “Boys Keep
Swinging”, diretto da David Mallett,
in cui c’è anche un cameo della
Dietrich. Ma fu nel minifilm di “Ashes
to Ashes” che Bowie recuperò il suo
smalto di trasformista, indossando
quel magnifico costume da Pierrot
disegnato da Natasha Korniloff (che
si occupò anche del guardaroba dello
Stage Tour); in pochi minuti,
scampoli di commedia dell’arte,
suggestioni degne di Watteau e
qualche referenziale autoironia (il
Maggiore Tom di “Space Oddity” è
ora un pensionato
tossicodipendente).
EL LOOK DELLA MATURITÀ,
eleganza e stile soppiantano
stravaganza e trasgressione.
Sebbene abbia sempre continuato a
professarsi un ignorante in fatto di
moda (c’è poco da crederci, soprattutto
dopo il matrimonio con la top model
Iman Abdulmajid), Bowie era
perfettamente consapevole di aver
fornito spunti a dozzine di blasonati
couturier. Il crooner postmoderno degli
ultimi decenni poteva anche affidarsi a
questo o a quello stilista — nelle
creazioni c’era comunque la sua
impronta, che la confezione portasse la
firma di Giorgio Armani (Sound +
Vision Tour), Alexander McQueen
(Earthling; Outside Tour), Hedi
Slimane (Heathen Tour) o Deth Killers
of Bushwick (Reality Tour). Ormai
Ziggy Stardust ci aveva trasformato
tutti in guardoni. E Bowie schiavizzato
con il suo slogan, “sound + vision” .
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AMBIERÀ LE TASCHE E LE TESTE: il denaro digitale ci libererà dal
portafogli, e magari dalle banche, nel giro di dieci anni. Il futuro comincia oggi e siamo a un bivio. Potremmo ritrovarci
sul telefonino qualcosa di simile al bitcoin, la prima moneta
nativa digitale, che promise di essere il denaro di tutti ed è
stata profitto per pochi. Oppure possiamo scegliere un “civil
money”, un denaro digitale civico, democratizzare gli scambi, liberare freelance e precari dalla condanna del lavoro gratis. Così dice Geert Lovink immaginando il futuro insieme a
noi. Il critico dei media olandese ci ha già visto giusto nel
2012 quando dipinse le ombre di internet in 0TTFTTJPOJDPMMFU
UJWF (Egea). Ora raccoglie i frutti delle sue intuizioni e torna
in libreria con -BCJTTPEFJTPDJBMNFEJB, da noi anticipato a ottobre. Sul fronte dei social Lovink ormai è stato raggiunto da schiere di disillusi. Ma i capitoli dedicati al denaro digitale parlano di un futuro da disegnare: è presto per arrendersi al pessimismo. Non a caso il professore
ha coinvolto geek, artisti e attivisti nel progetto di ricerca MoneyLab.
Nel Regno Unito i pagamenti elettronici superano quelli in contanti. Il primo ministro indiano Narendra Modi dice di voler trasformare l’India in una società “cashless”. Quando diremo addio alla banconota?
«Sistemi di pagamento e valute diverranno in gran parte, se non del tutto, digitali. Le nuove tecnologie governeranno il nostro portafogli entro dieci o al massimo vent’anni. Il sistema
monetario non cambierà con una riforma ma con un terremoto: ci sarà una crisi, un’emergenza e le élite proveranno a imporre un nuovo sistema. Con il bitcoin è andata più o meno così: la
prima criptovaluta è stata lanciata dopo la cri2008 e al malcontento verso le istituzioni.
si del 2008».
Prometteva di liberare il denaro dal poteIl denaro digitale in un’equazione: meno
re delle banche. Chi ha avvantaggiato davStato, meno banche, più telefonini e… più
vero?
disoccupati. Perché?
«L’uso primario era criminale: droga,
«Dagli anni Settanta il legame tra Stato e
denaro si è sempre più allentato, fino alla fi- scambi illegali. Dietro la criptomoneta c’era
nanziarizzazione attuale. Il digitale promet- un gruppo di “geek”, poi sono arrivati specute di portare quel processo agli estremi libe- latori e imprenditori. Chi vuol far soldi con il
rando il denaro dall’intermediazione di Stato Btc non lo usa: lo compra e lo rivende quando
e banche: la tecnologia “blockchain” (dove il vale di più. Sarà anche senza Stato né banregistro dei conti non viene gestito dalla ban- che, ma bitcoin non è esente da scelte politica ma dalla rete, dagli utenti nel loro comples- che: è stato concepito per non superare i 21
so) consente di operare transazioni senza au- milioni di Btc e con una vocazione deflazionitorità intermediarie. Nel Sud del mondo gli stica. Bitcoin è un avatar delle classi privileoperatori telefonici fanno già le veci delle ban- giate. Dicono “via i banchieri corrotti, basta
che e i pagamenti sono sempre più via telefo- tasse” ma usano una logica da start up che
nino. Blockchain sarà un “killer” di posti di la- non ha nulla a che fare con le istanze dei movimenti sociali. Anzi puntano a accumulare vavoro nei settori bancario e amministrativo».
Il bitcoin è nato in reazione alla crisi del lore chiusi nel loro circoletto».
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L FUTURO È FINTECH. Fusione
tra
finanza e tecnologia. O forse: la
finanza divorata da nuovi attori
e piattaforme che vengono
dall’economia digitale. Ci stanno provando in molti a dare l’assalto finale al monopolio delle banche, peraltro già indebolito dal fenomeno della
disintermediazione (aziende che direttamente trovano fondi sul mercato
dei capitali; singoli individui che attra-
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verso diverse forme di “crowdfunding”
saltano il passaggio dalla banca). Bitcoin è uno dei tentativi più ambiziosi.
Punta a sostituire non solo le banche
commerciali ma anche le banche centrali, visto che crea moneta: una funzione che per secoli fu prerogativa degli
Stati sovrani. Perciò bitcoin ha avuto
fin dalle origini una constituency anarco-libertaria. Tra i suoi fan c’è una folla
di giovani tecnologi attirati dall’idea di
disintermediare tutto, grazie alla po-
Bitcoin non è un sistema democratico, dice lei. Perché?
«Non gode di fiducia sociale e non è una
vera rete paritaria “peer-to-peer”. Ha una gerarchia minatori-utenti. Per “estrarre” bitcoin bisogna risolvere problemi informatici
sempre più complessi, con apparecchiature
sempre più costose e inquinanti. Chi lo fa, i
cosiddetti “minatori”, è il vero intermediario. Opera sempre più su larga scala — è sempre più difficile diventare minatori — e ottiene il potere di condizionare il mercato».
Il nobel Paul Krugman disse che bitcoin è
il male. Altri dicono che ha potenziale ma
è troppo compromesso. E Lovink?
«Bitcoin ha troppi limiti per poter diventare la moneta alternativa. È stato un test,
una “scultura sociale” come avrebbe detto
Beyus. Ma invece di urlare che è il male, usiamone il potenziale. Certo, la tecnologia in sé
non basta a democratizzare la finanza, anche le grandi banche usano blockchain.
Ma quello stesso sistema può aiutarci a decentrare gli scambi e la rete,
ora che è in mano a pochi big. Bisogna congegnare sistemi di pagamento peer-to-peer facili da usare.
Nell’era del GSFF, la vera rivoluzione
sarà cominciare a “darci valore” da
pari a pari.
Lei quale alternativa auspica?
«Un “civil money”digitale. Denaro civico
amministrato magari non dallo Stato ma
neppure dal grande business, semmai da
terzo settore e società civile. L’Europa può
spezzare l’asse Wall Street-Silicon Valley
proponendo nuovi sistemi di pagamento decentralizzati. Immagino ad esempio un sistema digitale di micropagamenti col telefonino a favore di artisti, produttori di contenuti e della galassia di precari vittime dell’economia del GSFF. Se vogliamo ripensare il
denaro, dovremo farlo insieme a loro.»
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tenza della Rete. Eppure bitcoin rimane un fenomeno di nicchia, ancora non
è un’alternativa di massa. Non gli è riuscito il salto che in campi diversi hanno
fatto prima Amazon poi Uber e Airbnb,
i quali hanno intaccato antichi mestieri, corporazioni, categorie di servizi.
Tra i problemi che assillano bitcoin il
più grave non è l’uso da parte di criminali per il riciclaggio (quello colpisce
anche la moneta e le banche tradizionali), bensì la fiducia. La moneta è un fenomeno fiduciario, bitcoin ha convinto
solo una frangia marginale di utenti ad
abbandonare dollari, euro, yen, renminbi, sterline. I banchieri centrali
non sono ancora minacciati alla stregua di librai, tassisti, albergatori. Altri
però stanno riuscendo a sostituirsi alle
banche. PayPal è il più grosso fenomeno di disintermediazione nei sistemi di
pagamento. Dietro incalzano Apple,
Google-Android, i software di pagamento attraverso gli smartphone. Intanto le banche stesse cedono gran parte del lavoro umano all’intelligenza artificiale, anche in mansioni sofisticate
come la gestione dei portafogli d’investimento. FinTech avanza a grandi passi, un giorno le banche stesse avranno
cambiato pelle dall’interno, forse senza misurare le conseguenze.
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ONO ANCORA APERTE come un tempo/ le
osterie di fuori porta”, cantava nostalgico Francesco Guccini. Aperte e molto
ben funzionanti, da una parte all’altra
d’Italia, impermeabili a crisi economiche e mode passeggere, vuoi per la conclamata compressione dei prezzi, vuoi
perché uscendo dalle città desideri e
aspettative si semplificano assai. L’irrompere pur capriccioso dell’estate si
porta appresso la voglia di stare all’aperto. Se non è ancora vacanza, che sia
almeno breve fuga dai ritmi compressi della quotidianità lavorativa. Via dalla pazza
folla, cerchiamo paesaggi che riposino gli occhi e cibi che ci riconcilino col ritmo delle
stagioni, figli di un’agricoltura ancora ostinatamente a misura d’uomo.
Osterie e trattorie: le due parole, che un tempo identificavano tipologie di ristorazio-
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ne ben distinte — una focalizzata sul vino, l’altra sul cibo — ormai vanno a braccetto,
inglobate come sono in un’offerta a tutto tondo. Un tempo si andava a bere — preferibilmente vino sfuso, e poi solo col passare degli anni bottiglie aperte al momento —
per condividere un po’ di socialità prima di coricarsi, corrosi dalle fatiche della giornata. A volte il cibo veniva portato da casa, pratica ammessa (se non addirittura incoraggiata) dagli osti, sicuri che mangiando il consumo di vino sarebbe aumentato.
Dall’altra parte, le trattorie. Se la figura dell’oste è per tradizione maschile e solitaria, la cucina è roba di donne e la gestione strettamente famigliare. Si andava in trattoria per ritrovare, cucinati magari con un filo di attenzione in più, i piatti di casa: figli
quasi sempre di un’economia di sussistenza, eppure cari a cuore e palato per quella miscela di genialità e arte di arrangiarsi che firma da secoli la nostra cucina tradizionale.
Da una parte all’altra d’Italia, non il fil rouge di ricette codificate e istituzionalizzate
— com’è successo in Francia — ma quello delle materie prime. Che cambiano dalla Val
d’Aosta alla Sicilia, impronte gastro-geografiche pronte a segnare indissolubilmente
le preparazioni. Per esempio, uova e burro abitano i menù del nord, tra paste fresche
ripiene, fondi di cottura e dolci al cucchiaio. Olio, pasta di semola e verdure il sud, in un
trionfo di zuppe e fritti.
Le trattorie fuori porta sono generalmente bien piantate nei propri territori. Ancoraggi addirittura secolari, se la ristorazione è mestiere tramandato di generazione in
generazione insieme all’anima contadina, tra l’orto di casa e le galline a razzolare libere un passo più in là. Non aveva certo tre stelle Michelin, “Il Pescatore” di Canneto
sull’Oglio, quando la timida studentessa universitaria Nadia Santini scelse di aiutare
la suocera nella cucina del locale di famiglia, che fino a pochi anni prima si chiamava
“Osteria Vino e Pesce”. Stessa cosa per Valeria Piccini, i cui suoceri gestivano un’osteria in Maremma battezzata col nome di lui, “Carisio” detto Caino.
ll destino speciale che le accomuna dice molto del potenziale delle cucine di prossimità: dove la sapienzialità culinaria è supportata da campi, orti, frutteti, piccoli allevamenti condotti con amore e consapevolezza, la trattoria diventa il fulcro di una microeconomia virtuosa e golosa, e mangiare un piacere a trecentosessanta gradi. Se poi il
panorama è all’altezza del menù, l’unico fastidio sarà tornare al banale panino del lunedì.
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A COS’ERANO,
all’origine, queste
“osterie fuori porta”?
Posti di periferia o di
campagna
frequentati dagli abitanti della città alla
ricerca di svago, di vino, pane e salame e
compagnia. Osterie comunque fuori
dalle “porte” che i contadini all’alba
attraversavano in senso contrario per
portare in città polli e conigli, insalata,
verze e pomodori. Quando Francesco
Guccini cantò “la gente che ci andava a
bere”, specificando che “fuori o dentro”
era comunque “tutta morta”, un brivido
percorse le schiene di noi giovanotti
modenesi molto fuori porta. “Ma che
osterie ha frequentato il Maestro? Non
certo le nostre. C’erano il vino buono e
quello che fa schifo. C’erano il salame
ottimo e quello che neanche il cane…Ma
un piatto era sempre garantito:
l’allegria”.
Era il cuore del paese, l’osteria. Anche
in quei borghi con due grandi aie
circondate dalle stalle e dalle case di
braccianti e mezzadri e qualche piccolo
proprietario di terra. Una stanza lunga.
Da una parte il bancone con la Berkel
per affettare mortadella e cicciolata e la
bilancia per pesare la pasta sfusa, la
miscela di caffè e anche i chiodi e il fil di
ferro. Sigarette comprate a numero,
consegnate in una bustina di carta.
Dall’altra parte dello stanzone i tavoli
nessuno uguale all’altro e le seggiole
impagliate, come sopra. Un cavatappi a
muro in un attimo stappava le bottiglie.
Solo per i molto anziani al mattino e al
pomeriggio. Ma verso sera l’osteria
diventava la casa di tutti.
Vino e parole. La politica, il tempo che
farà, i prezzi del granoturco o dei
cocomeri. Vendere i conigli a un buon
prezzo era importante, ma meglio
ancora era poterlo raccontare
all’osteria. Come in una grande famiglia
allargata. “Tuo figlio lo mandi alle
medie?”. “Basta con la terra, vado in
fabbrica. Così in cinque o sei anni mi
faccio la casa”. I bambini sull’uscio, a
chiedere al babbo le dieci lire per una
caramella. La cena a casa e subito il
ritorno. Canottiera vietata anche ad
agosto. L’osteria era anche l’unico
“salotto” del paese, la camicia era
obbligatoria. E iniziava il rito: la partita a
briscola.
In palio, la bottiglia o le bottiglie che si
bevevano in una sera sempre lunga. Chi
giocava i soldi, andava nel paese vicino.
Meglio non fare sapere alla moglie che
avevi perso mille lire (e anche che le
avevi vinte). C’erano i jukebox ma
avevano gambe e braccia. “Renato, una
bottiglia se canti Mamma”. Dopo
mezzanotte la porta si chiudeva ma, in
estate, restava l’aia. Beniamino Gigli e
Luciano Tajoli poi le canzoni dei
partigiani. “Se non la smettete vi tiro
una schioppettata”. Poi una voce che si
sparge. “Al Botteghino hanno messo la
televisione”. Due chilometri a piedi o in
bicicletta. E l’osteria restò vuota.
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Mammone e feroce, imbranato e ribelle, l’autore culto della brutale trilogia di “Pusher” e di “Drive” ha costruito la sua carriera tra
bancarotte e premi, fischi e applausi. “Essere moderni significa
spingere l’evoluzione. L’arte è provocazione”. A otto anni, quando i
genitori si separano, segue la madre da Copenaghen a New York
(“vivevo confinato in casa, ho imparato a parlare inglese solo a tredici anni, mi sono nutrito di tv per adulti”). E ora che il suo ultimo
film è arrivato anche in Italia con- visione del mondo è sempre stata molto peculiare. «Ho un difetto congenito che
mi permette di distinguere i colori. Ciò che vedo sono solo le diverse sfumature di grigio e i contrasti». Il suo stile visivo dal segno cromatico fortissimo nasce
fessa: “Non temo la rivoluzione non
dunque da un difetto. Non il solo. «Sono fortemente dislessico. Ho conosciuto il
mondo attraverso la grammatica delle immagini». Figlio del regista Andreas
e della fotografa Vibeke Winding, quando i genitori si separarono seguì la
digitale, la accolgo a braccia Refn
madre a New York, dove è vissuto dagli otto ai diciassette anni. «Vivevo confinato
nel nostro appartamento di Manhattan. Ho imparato a parlare in inglese solo a treanni. Mi sono nutrito di tv. All’epoca in Danimarca c’era un unico canale, coaperte. Hollywood è finita, e i cri- dici
me in Europa dell’Est. Negli Stati Uniti il telecomando mi ha aperto infinite possibilità». Ha fagocitato di tutto: «Mia madre aveva regole ferree, ho inventato i miei
per bypassarle. Cambiavo canale a ogni suo ingresso, guardavo i protici con lei. Il futuro si chiama espedienti
grammi per adulti senza audio. Mi erano vietati gli horror e Ronald Reagan». È cresciuta una passione violenta per il cinema feroce, «una forma di ribellione contro
mia madre» che si è saldata alla sua attitudine ribelle. Il giovane Refn si è fatto butAmazon. E sta dentro la Rete”
tare fuori dalla scuola di recitazione: «Ho un odio radicato verso l’autorità, la consi-
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GNI VOLTA, PRIMA DI GIRARE UNA SCENA CRUENTA di morti ammazzati, Ni-
colas Winding Refn s’arrotola sui fianchi una copertina scozzese come un pareo. Segue il rito di Linus il regista danese, l’autore culto
della brutale trilogia di 1VTIFS , una delle figure più interessanti nel
panorama cinematografico mondiale. Un patchwork di contrasti.
Mammone e (artisticamente parlando) pornografico, imbranato e ribelle, continuamente dilaniato tra bisogni morali e esigenze di violenza estetica. Danese di
Copenhagen, a quarantacinque anni ha costruito una carriera di alti e bassi, bancarotte e premi, applausi e bordate di fischi. «Io sono i Sex Pistols del cinema», ha
esclamato all’ultimo festival di Cannes dopo la contestazione dei critici al suo 5IF
/FPO%FNPO. «L’arte è provocazione. Grazie a me il festival si è risvegliato». Giacca e calzoni al ginocchio da collegiale, la camicia troppo aperta sul petto bianco, Nicolas Winding Refn si proclama alfiere del cinema del futuro: «C’è una battaglia in
corso tra l’establishment dei critici e i ragazzi della rete, tra antico e moderno» ha
aggiunto a Milano, affiancato da Dario Argento, arringando una platea di giovani
in una masterclass alla Sky Academy.
Okey, ma essere moderni che significa? «Significa inventare qualcosa di nuovo, spingere l’evoluzione, trovare nel cambiamento il proprio punto di vista». La ribellione, dunque, come processo necessario: «Succede sempre. I miei figli si ribellano, come io ho fatto con i
miei genitori». Refn sembra avere le idee chiare, e perdipiù in un momento di trasformazione epocale per il cinema: «Non temo la rivolu-
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zione digitale, la accolgo a braccia aperte. I nuovi media alzano il livello delle possibilità. Amazon ha prodotto tanti
film, tra cui il mio per esempio. Sono loro le major del futuro,
il vecchio cinema è in fase di stagnazione, fatto di blockbuster hollywoodiani controllati da pochi giocatori». Dopo aver
sistemato l’industria, con la stessa aria serafica passa a demolire la critica: «Non c’è più bisogno di recensori, è un lavoro in disuso. Il
sistema cineasti-produttori-critici è una capsula ristretta non riproducibile in un paesaggio vasto come quello digitale. Lì non c’è nessuno che ti dice come e quando distribuire, che certifica il bello o il brutto». E ancora: i consumatori della rivoluzione digitale «sanno cosa
cercano, non si curano delle opinioni altrui. Sono guidati dall’emozione più che dalla comprensione».
Refn è stato un demolitore professionista fin dall’infanzia. La sua
dero nemica della creatività. La voglia di spaccare porte, l’istinto punk mi è rimasto dentro: l’ho convogliato nei film».
Biondo, fisico poco tonico e faccia da buono, Nicolas ha recitato nel suo primo
corto, 1VTIFS, sparando a destra e manca. Un produttore lo vide e decise di finanziarne una versione lunga. Così, a ventiquattro anni, Refn si trovò a firmare uno
dei debutti più folgoranti del cinema recente. 1VTIFS ha conquistato subito i critici danesi con una storia cruda tra droga ed emarginazione mettendo insieme il
John Woo di)BSE#PJMFE e la #BUUBHMJBEJ"MHFSJ di Pontecorvo: «Frequentando e
reclutando come attori uomini dei bassifondi di Copenhagen, ho capito che le loro
erano esistenze tristi tutt’altro che epiche». Mads Mikkelsen, uno degli interpreti,
disse che Lars Von Trier e Thomas Vinterberg avevano in testa 1VTIFS mentre
scrivevano il manifesto di %PHNB. I due registi danesi, che fondarono un nuovo
movimento cinematografico, in realtà non hanno mai confermato. Tanto più che
tra Refn e Von Trier il rapporto è sempre stato piuttosto ambiguo. Dopo la gaffe
che valse all’autore di -FPOEFEFMEFTUJOP il titolo di “persona non grata” a Cannes
(«Ho scoperto di essere nazista e sono felice di esserlo, capisco Hitler!» disse provocatoriamente salvo poi scusarsi) il giovane collega gli spedì la locandina de *SBHB[
[JWFOVUJEBM#SBTJMF, il film di Schaffner su Mengele. E proprio all’ultima edizione
del festival sempre Refn, interrogato sul suo rapporto con Von Trier, ha consegnato un esempio di umorismo scandinavo che ha gelato la platea: «Ero con lui l’altra
sera. Abbiamo chiacchierato. Ha tentato di portarsi a letto mia moglie, poi si è cercato una prostituta».
Quello dei soldi — e della loro assenza — è un altro potente leit motiv nella carriera di Refn. Dopo i successi di 1VTIFS (1996) e #MFFEFS (1999), ha tentato il salto
in America («la Danimarca è un paese socialmente evoluto ma creativamente
claustrofobico») e ha girato 'FBS9, con John Turturro. Un film dalle atmosfere lynciane molto amato dai critici e che si è rivelato un fiasco. Bancarotta dei produttori, famiglia sul lastrico costretta a tornare a casa: «Lì ho avuto paura di non riuscire a mantenere i miei figli». Poi i due sequel di 1VTIFS (nel 2004 e 2005), girati
squisitamente per esigenze alimentari,hanno estinto i debiti e curato l’amor pro-
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prio. Il successivo #SPOTPO (2008), un’"SBODJBNFDDBOJDB sulla storia vera del detenuto Michael Gordon Peterson, ha acceso un riflettore su Tom Hardy che ne interpreta il protagonista: «Al primo incontro non ci siamo piaciuti. Eravamo in un
pub, lui bevitore, io astemio. Poi il nostro conflitto si è rivelato utile». Il super divo
Ryan Gosling vide il film e volle Refn per dirigere %SJWF. Mentre giravano a vuoto
per le strade di Los Angeles, il danese si mise a cantare insieme alla radio $BOU
'JHIUUIJT'FFMJOH degli Speedwagon. E così capì che avrebbe raccontato di un taciturno cavaliere al volante nelle notti losangeline, brani pop per compagni di viaggio. Conquistato il premio per la regia a Cannes, la coppia ha poi proposto, con
meno successo, 4PMPEJPQFSEPOB (2013).
E poi? «Dopo tanti personaggi maschili e un clima omoerotico volevo
raccontare le donne, che per me sono dee. Ho sempre amato mia madre, forse l’ho anche desiderata. Mia moglie Liv (Liv Corfixen, protagonista in tre dei suoi film, OES) è stata l’unica, nella mia vita. A
ventiquattro anni ho lasciato la casa di famiglia e mi sono trasferito da lei. Oggi vivo per lei e per le mie figlie». La bellezza delle sue
donne ha partorito 5IF/FPO%FNPO (in sala ora per IIF e Koch
media): «Ho immaginato di essere una sedicenne, che è la vera
perversione di qualunque uomo». Dopo %SJWF, è il ritorno al panorama di ville e piscine blu di Los Angeles «ma solo perché
mia moglie ha detto che non sarebbe mai venuta in Giappone». Nel film Elle Fanning è una modella in carriera con quel
nonsoché che le consegna il successo e con quello la rabbia famelica, cannibale, delle colleghe. Anche qui estetica e orrore «per raccontare l’ossessione per la bellezza di cui è preda la nostra società».
Tra le fonti d’ispirazione la musica disco anni Ottanta di Giorgio Moroder e i maestri italiani. Mads Mikkelsen li elencava in #MFFEFS: Leone, Corbucci, Fulci, Lenzi, Bava, Argento, Deodato. La scena era ambientata in un videonoleggio e strizzava l’occhio all’autore di cui oggi
Refn rappresenta la nemesi: Quentin Tarantino.
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