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«Gott mit uns», dicevano ma non salvò l`Austria

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«Gott mit uns», dicevano ma non salvò l`Austria
Il Museo civico di Pola ha ricordato la fine di un’epoca
«Gott mit uns», dicevano
ma non salvò l’Austria
di Arletta Fonio Grubiša
M
entre l’austriaco imperator inneggiava “Gott
mit uns” (Dio è con noi) e generali tuonavano ancora “Heil dem Kaiser! Heil dem Lande! Oesterreich Wird ewig stehn” (Saluto all’imperatore! Saluto al Paese! L’Austria sarà eterna!), il grande impero dell’aquila bicibite stava proprio per chinare tristemente il capo. Era il tramonto di un’epoca,
l’agonia dei popoli sotto la Monarchia multinazionale piegata dal peso immane della prima guerra mondiale. Un conflitto bellico che rivoluzionò la carta
politica del mondo, fece cessare di esistere gli imperi, nascere nuovi stati, morire milioni di persone,
scomparire altrettante e tutto ancora non è servito da
monito all’umanità. Successe 90 anni fa.
L’anniversario della cessazione del primo conflitto bellico su scala mondiale è stato celebrato dal Museo storico istriano di Pola con un’autentica iniziativa: niente indagini sulle operazioni belliche, niente
statistiche o menzione di quel quadro bellico offuscato subito dall’attentato di Sarajevo ma un vero e
proprio ritratto degli umori da imperial e regia era,
una storia che si racconta attraverso tante piccole
storie di squisiti oggettini anche tipicamente kitsch
di illustre marchio K.u.K.. Sono stati esposti a centinaia al pubblico, da quest’estate in qua, al museo sul
Colle Castello di Pola – mostra intitolata “Per l’imperatore e la patria (1914-1918)” – ed ora, da dicembre 2008, si trovano catalogati con tanto di narrazione sulla nobile o meno nobile funzione loro affidata
per cercare di salvare la Monarchia e i suoi popoli in
condizioni belliche. Finalità strategiche erano quelle di mobilitare tutte le risorse ufficiali dello stato
al fine di garantire i mezzi per finanziare la guerra,
mantenere riuniti i popoli della Monarchia, prepararli alle sfide ed ai sacrifici, alle cattive notizie dai campi di battaglia. È per questo che dei neo-istituiti uffici
di stato idearono tutta una produzione e smercio di
oggetti-souvenir da beneficienza. Nelle 360 pagine
dello splendido catalogo appena pubblicato – redattore Davor Mandić, direttore dell’istituzione museale, autrice Katarina Pocedić con il contributo di Gordana Milaković – si trova concentrato un repertorio
rappresentante una particolare espressione di solidarietà al popolo e devozione al sovrano e alla patria.
Niente pretesa di analisi, come specificato dalla prefazione, ma disponibilità a mostrare una piccola parte di ricordi risalenti a tempi di sventura, di disgrazie
e distruzione di beni di ogni genere, a partire dalle
vite umane; illustrare l’altra faccia della guerra, il
movimento della solidarietà dei soccorsi, l’impegno
sociale nelle retrovie, una realtà caratterizzata da tutte le sue contraddizioni – aiutare la guerra e aiutare i
propri soldati, gli infortunati civili. Fino al paradosso: il ministro alla guerra Franz Freiher von Schönaich, era anche amministratore del Fondo per l’aiuto
alle vedove e agli orfani di guerra.
IN QUESTO NUMERO
Nell’autunno-inverno dell’anno appena concluso sono stati promossi diversi eventi per ricordare il 90.esimo anniversario della fine della Grande Guerra. Un conflitto sanguinoso
– un’inutile strage, come la definì Benedetto XV – che rivoluzionò la carta politica del mondo, fece cessare di esistere gli imperi, nascere nuovi stati, morire milioni di persone, scomparire
altrettante e tutto ancora non è servito da monito all’umanità. E
che per le nostre terre, l’Istria, il Quarnero e la Dalmazia, sancì il tramonto definitivo del grande impero dell’aquila bicibite.
L’anniversario è stato celebrato dal Museo storico istriano di
Pola con una pregevole iniziativa, di cui ci parla in apertura e
nelle pagine centrali di questo numero Arletta Fonio Grubiša.
“Storia & Ricerca” di gennaio 2009 contiene però anche altri, si auspica altrettanto gustosi e interessanti, assaggi di opere
volte al recupero della nostra memoria: Kristjan Knez (pagine 2
e 3) propone una serie di ricordi piranesi che parlano della vita
e della storia di una cittadina – raccolti da Lidia Predonzani e
tramandati ai posteri grazie a una pubblicazione promossa dalla
“Famea Piranesa” –, mentre Denis Visintin (pagina 7) presenta
tutti i pregi e l’importanza del “Vocabolario della parlata di Buie
d’Istria”, fresco di stampa (Centro di Ricerche storiche di Rovigno). Marco Grilli si sofferma invece sulle fortune e la disgrazia dei principi di Veglia. In conclusione, un’altro anniversario,
quello della Rivoluzione cubana. Buona lettura.
La sofferenza della gente
La guerra non si è mai limitata al fronte.
Oltre alle vittime militari, portò la sofferenza della popolazione civile, lasciò dietro
orfani, vedove di guerra, vecchi e feriti, soli e deboli, la rovina dei beni materiali. Il numero della popolazione
colpita cresceva ininterrottamente
alla pari delle spese per le operazioni sul fronte. È per questo motivo
che – come raccontato nel catalogo
– le strutture statali della Monarchia, costituirono già alla fine del
1914 delle organizzazioni specifiche per la raccolta di aiuti.
DEL POPOLO
Segue nelle pagine 4 e 5
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Lunedì, 5 gennaio 2009
INIZIATIVE Pagine in cui si ritrovano le chiese, le scuole, i negozi, le attività lavo
Ricordi piranesi che parlano della
Lidia Predonzani descrive situazioni ed aspetti che ormai sono
di Kristjan Knez
L’
espulsione della popolazione italiana dalle
contrade dell’Istria, nel
corso del secondo dopoguerra,
ha provocato una frattura e una
ferita che tuttora rappresentano
una funesta pagina per tantissime persone. Perduti per sempre
beni, averi, amicizie e la cornice in cui si è nati e cresciuti, non
rimane altro che la memoria storica, impressa in ogni individuo.
Per evitare che tanti aspetti del
vivere quotidiano di un tempo
cadano nell’oblio per sempre, la
scorsa primavera è stato edito il
volume “Ricordi. I ricordi sono
come semi: possono germogliare…” (a cura della “Famea Piranesa”, pagine 189, Trieste 2008),
un’opera di grande formato che
raccoglie i testi di Lidia Predon-
zani Izzo, la cui lettura rappresenta un percorso a ritroso tra
le calli e le persone della Pirano che fu. “I ricordi sono pagine
della nostra vita: e quelle liete si
sovrappongono a quelle più tristi, le une e le altre formano la
trama della nostra esistenza” (p.
128). Si apre così uno dei tanti
scritti pubblicati dall’autrice, tra
la metà degli anni Settanta ed i
primi anni Novanta del seco-
lo scorso, con l’intento di offrire ai Piranesi sparsi per il mondo alcune pagine di vita vissuta
relative alla patria di Tartini. Si
tratta di racconti, di storie “minori” e di note che per molti anni
vennero pubblicati su “La Voce
di San Giorgio”, la storica testata della parrocchia piranese che,
a seguito degli eventi verificatisi
nel secondo dopoguerra, a Trieste si era trasformata nel periodico degli esuli piranesi.
Profondamente legata
alla propria terra
Lidia Predonzani (19181993) nasce a Pirano e trascorre
gli anni della sua infanzia tra la
città di San Giorgio e Portorose,
ove suo padre, Giovanni, aveva
fatto costruire l’“Hotel all’Antico Portorose” e che gestiva con
particolare successo. Lidia abbandona gli studi per aiutare il
babbo, mentre successivamente, con non poca fatica, decide
di frequentare la scuola serale
privata diretta dal prof. Antonio Sema, e grazie alla severa
preparazione a Trieste può superare brillantemente l’esame.
Nel 1939 sposa l’istruttore pilota Antonio Izzo con il quale
rimarrà legata per tutta la vita.
Nel 1949 avviene lo strappo definitivo dalla terra natia e ripara a Trieste assieme alla sua famiglia; nel 1954 accoglie anche
l’anziana madre, mentre il padre
era già passato a miglior vita.
Come leggiamo nella nota curata dalla figlia Milli Izzo Caschi,
sulla terza di copertina, la mamma si dedicava completamente
alla famiglia ma al contempo
sentiva il bisogno di rivedere la
sua gente, quella stessa che era
stata segnata dalle vicende dell’esodo, e proprio per tale ragione “sente l’impulso di scrivere
di getto i ricordi, le sensazioni,
tutto ciò che, a dispetto degli
impegni quotidiani, le si affaccia continuamente e prepotentemente dal profondo dell’anima
facendole rivivere il tempo ed i
luoghi irrimediabilmente perduti ma incancellabili”.
Mariuccia Pagliaro, sulla seconda di copertina, scrive: “leggendo quegli articoli, sembra di
parlare con un amico con cui si
condividono le memorie degli
episodi che costellavano una
quotidianità piena di fervore di
vita. Una consolazione, o forse,
l’illusione di far rivivere Pirano con la sua gente, con le sue
usanze, per far conoscere anche
ai più giovani il mondo che ci è
stato tolto”. Così – sempre secondo la Pagliaro – ritroviamo
Pirano, con le chiese, le scuole,
i negozi, le attività lavorative,
l’attracco dei vaporetti, e tante
caratteristiche descritte ‘dal di
dentro’” ma anche “(…) evoca gli affetti familiari, descrive
i protagonisti di umili mestieri
di una cittadina garrula, vivace
che si evolveva nel tempo. Nella
sofferenza nostalgica dell’esodo
ha sentito il bisogno di rituffarsi
nelle memorie con sentimento e
struggimento per documentare,
attraverso gli episodi, una realtà
perduta per sempre”.
La realtà
quotidiana
I testi proposti parlano della vita quotidiana, delle attività
tipiche della zona, si soffermano sulla realtà di quella cittadina istriana “… in meso a l’onde / Come spinta da un martel”,
come recita la nota melodia.
Tanti sono gli argomenti e le storie toccati dalla nostra; in questa
recensione non possiamo certo ricordarli tutti, ci limiteremo
Franco Viezzoli, presidente della «Famea Piranesa», associazione che ha promosso questo
È stato fatto un grande lavoro di recupero: riemerge tutto il «nos
Per saperne di più sul volume
contenente gli scritti di Lidia Predonzani, a Trieste abbiamo incontrato Franco Viezzoli, presidente
della “Famea Piranesa”, al quale
abbiamo chiesto di spiegarci i motivi che hanno portato la sua associazione a impegnarsi in un tale
progetto editoriale nonché di indicarci quali sono i valori racchiusi
in quei testi e quanto sia importante tramandare il ricordo della terra
d’origine.
Come nasce l’idea di pubblicare questo volume?
“Questi racconti della signora
Lidia Predonzani Izzo (scomparsa nel 1993) sono stati pubblicati
periodicamente e per molti anni da
‘La Voce di San Giorgio’ ed erano
ormai persi nel tempo, nel senso
che erano chiusi nelle vecchie annate di quel giornale, perciò abbiamo ritenuto opportuno riproporli
ai Piranesi e farli conoscere anche
ad un pubblico più vasto. Io posseggo la raccolta del periodico, ho
letto i suoi racconti e mi hanno colpito per la validità, per la puntualità nella ricostruzione del nostro
mondo piranese prima dell’esodo,
e subito ho avuto l’idea di pubbli-
care questa antologia per valorizzare questo patrimonio che altrimenti, sicuramente, sarebbe stato
dimenticato.”
Avete incontrato particolari
difficoltà nel confezionarlo?
“No, per quanto riguarda i testi
è stato un lavoro di recupero, e poi
è stato fatto un lavoro di recupero
anche dal punto di vista dell’immagine perché nel volume si contano circa 350 fotografie della nostra vita e della Pirano di un tempo, quindi è stata fatta una ricerca
delle foto da abbinare ai testi. Questo è stato l’unico lavoro più impegnativo, per il resto abbiamo riportato i testi esattamente come sono
stati pubblicati dall’autrice.”
Gli scritti da voi riproposti
per lunghi anni vennero pubblicati su “La Voce di San Giorgio”, con questa operazione editoriale li avete riuniti in una sorta di antologia, ma qual è il valore di questi contributi?
“Il nostro piccolo mondo antico
è proprio quello che abbiamo perso. Questo è il valore, il filo rosso
che accompagna l’opera. Questo
libro di ricordi, riporta ciò che noi
quotidianamente vivevamo a Pira-
no, e tutti i Piranesi dell’esodo si
ritrovano in quegli scritti.”
Quali sono i filoni preferiti da
Lidia Predonzani?
“In generale si tratta di ricordi: di scuola, delle amicizie, delle
abitudini, degli usi e costumi, delle feste (il Natale, la Pasqua, San
Giorgio, ecc.). È quasi una sorta di
reportage di vita vissuta, che oggi
ha ancora più valore perché è persa; se noi andiamo ad analizzare la
dimensione che lei ha descritto,
ci accorgiamo che essa non esiste
più. Probabilmente non esisterebbe nemmeno se noi fossimo rimasti a Pirano, perché si sta parlando
di un mondo di sessanta anni fa. Io
stesso, che sono del 1937, mi ritrovo perfettamente in quegli scritti,
certamente non vi si ritrovano le
mie figlie e nemmeno le giovani generazioni che oggi vivono a
Pirano in quanto quella era un’altra vita.”
Qual è il messaggio, se c’è,
che traspare da questi scritti?
“Il messaggio principale è quello che si sarebbe dovuto evitare di
far subire a questa gente, che era
radicata in quelle terre da secoli, il
dolore dell’esodo, perché per quel
dolore molti anziani sono morti,
anche di crepacuore. Vivere nella
propria casa, nella propria campagna, cioè nel proprio habitat, e
subito dopo ritrovarsi in un campo profughi credo sia uno shock
non indifferente, che noi giovani
abbiamo superato perché la vita
poi ci ha portato a creare qualcosa
di nuovo, mentre quelli più avanti
con l’età si sono portati un dolore dentro che è perdurato per tutta la vita.”
Il dolore dell’esodo e lo strappo che esso aveva generato viene
affrontato dall’autrice?
“L’autrice ne parla chiaramente. Lei stessa aveva vissuto una
vita borghese, suo padre era proprietario di un piccolo albergo a
Portorose, quindi, in un certo qual
modo, era una benestante. Vedersi
requisito l’albergo, dover venire a
Trieste e lasciare tutto, e ritrovarsi
a dormire tutti in una stanza, è stato un dramma per la sua famiglia,
anche perché aveva rappresentato una vita che terminava bruscamente.”
Con questo volume la “Famea Piranesa” ha contribuito a
divulgare pagine altrimenti di
difficile accesso. Qual è stato il
riscontro che avete attenuto?
“Per il momento il volume è
stato diffuso solo tra i Piranesi dell’esodo, lo abbiamo inviato in Australia, in Canada, negli Stati Uniti, a tutti coloro che sono sparsi in
Italia e poi lo abbiamo fatto avere
anche alle biblioteche e agli istituti
di ricerca. Il riscontro è stato ottimo, di grande gradimento, la gente si è complimentata con noi, in
quanto era una cosa che si doveva fare. Non facendola si perdeva
uno spaccato di vita piranese che
è impossibile recuperare al un altro modo, e si può fare solo scrivendo.”
Oltre al volume di ricordi la
Famea Piranesa ha pubblicato anche il libro con gli schizzi
piranesi del prof. Guido La Pasquala, si può parlare quindi di
un’iniziativa volta a tramandare
la memoria storica di Pirano oppure sono solo iniziative estemporanee?
“No, direi che tutte le opere
editoriali, sia de ‘La Voce di San
Giorgio’ prima sia della ‘Famea’
ora, si inseriscano nel filone teso a
registrare il passato, perché non ci
storia e ricerca 3
Lunedì, 5 gennaio 2009
rative, l’attracco dei vaporetti e tante caratteristiche descritte «dal di dentro»
vita e della storia di una cittadina
tramontati del tutto, spazzati via dalla modernità
a segnalare quelli che, a nostro
avviso, si presentano come preziosi contributi per comprendere i tempi andati a Pirano oppure reputiamo siano testimonianze
importanti che rimandano ad un
mondo scomparso per sempre,
poiché il venir meno della popolazione autoctona aveva alterato per sempre la fisionomia di
quel centro adriatico, travolgendo così la società ivi residente
con il suo patrimonio materiale
ed immateriale. Quelle riflessioni pertanto esprimono un valore
intrinseco, sono la testimonianza
tangibile di una comunità e del-
la sua secolare presenza, abbarbicata tra il colle di Mogoron e la
Punta, accanto alla chiesetta della Madonna della Salute.
L’autrice dedica i suoi scritti
alla tradizionale tratta dei cefali, quando d’inverno, invocando
Sant’Andrea, le barche si sistemavano a semicerchio e veniva
calata la tratta, ossia una grande
rete. Si trattava di un evento che
per i pescatori piranesi rappresentava una vera e propria festa.
Vengono presentati anche certi
mestieri che oggi sono pressoché
scomparsi, come “el gua”, cioè
l’arrotino, lo stagnino, l’ombrel-
progetto editoriale
tro piccolo mondo antico»
sono altri sistemi fuorché la scrittura. Anche nel nostro foglio trimestrale, ‘L’Eco de Piram’, rivolgiamo la nostra attenzione sì alle
cose di attualità, nell’ultimo numero si parla, ad esempio, della beatificazione di don Francesco Bonifacio, ma ci soffermiamo soprattutto
sui ricordi più che parlare del futuro, giacché il futuro è quello di tutti quanti, e non si scinde dal resto
della popolazione d’Italia, mentre
il passato si differenzia eccome,
proprio per il fatto che noi abbiamo avuto una vicenda diversa.”
Il titolo dell’opera recita “I
ricordi sono come semi, possono
germogliare”. Il volume è pertanto rivolto solo ai Piranesi dell’esodo, e si propongono determinati segmenti di vista vissuta
con l’auspicio di far “germogliare i loro ricordi”, appunto, oppure è nel vostro interesse far conoscere la Pirano che fu anche ad
un pubblico più vasto che spesso
è digiuno di tanti aspetti del passato istriano?
“Il volume è stato pensato in
primo luogo per i Piranesi, naturalmente come ogni opera editoriale anche questa va letta e va dif-
laio, la venditrice di prodotti in
legno, come mestoli o appendini, e l’uomo della legna da ardere. Rammenta anche i “ciosoti”, ossia quegli uomini di mare
provenienti da Chioggia, che con
i loro bragozzi navigavano lungo l’Adriatico portandosi seco le
più diverse derrate agricole, che
variavano a seconda della stagione. “Allora – ricorda la Predonzani –, erano più usuali i trasporti via mare e, per i chioggiotti,
trovarsi fra gli istriani, era come
trovarsi fra amici. Nella stagione invernale, si proteggevano dal
freddo indossando grossi maglioni, calzettoni di vari colori lavorati a mano, e le calzature erano
costituite da zoccoli di legno che
portavano in tutte le stagioni:
un berretto di lana completava
il loro semplice ma pratico abbigliamento” (p. 20). Accanto a
queste famiglie provenienti dal
mare vi erano anche le donne del
“Carse”, che, dalle colline circostanti e dalla zona carsica oltre
il Dragogna, raggiungevano Pirano con i loro prodotti agricoli
stagionali, quasi sempre contenuti in un “pianer” vale a dire in
un grande cesto dal fondo piatto che le stesse appoggiavano su
una apposita ciambella (la cosiddetta “sessola”) che portavano in
equilibrio sul capo.
I pregi dell’opera
fusa poiché solo in questo modo
un volume viene conosciuto dalla
gente ed aumenta di valore, mentre se rimane chiuso in un cassetto
vale molto di meno. Perciò se il libro passerà di mano in mano, verrà
letto e sarà conosciuto noi avremo
raggiunto il nostro obiettivo.”
Le descrizioni dell’autrice
hanno il pregio di descrivere situazioni ed aspetti della vita che
sono tramontati del tutto in quanto espressioni di un mondo che
non esiste più, poiché spazzato
via dalla modernità e da uno stile
di vita diametralmente opposto.
Pertanto quelle pagine contengono importanti elementi etnografici e storico-sociali che appaiono
di indubbio interesse. E, naturalmente, non omette il lavoro nelle saline, l’attività di gran lunga
più importante per la popolazione di quel comune. “Molte famiglie piranese, al sopraggiungere
della primavera, caricavano sul-
la barca le masserizie più utili e
si trasferivano in Saline. La nostra gente, non conosceva, allora,
periodi di ferie, estati facili, anzi,
proprio questa stagione portava
più lavoro per molti e, senza dubbio, per i saliferi. Per la produzione di questo prodotto così utile,
che da sempre costituiva una fonte di ricchezza, era necessario il
costante lavoro dell’uomo, aiutato da tanto sole, solo così il mare
concedeva questo suo tesoro! I
saliferi lavoravano protetti da larghi cappelli di paglia, vigilando
che tutto procedesse bene: verso
sera, all’infuocato tramonto estivo, brillavano le bianche collinette del sale: il lavoro di tante famiglie doveva riempire i capaci magazzini” (p. 31).
Lidia Predonzani dedica non
poche pagine alle festività religiose, si sofferma sul Natale, la
Pasqua, la festa di San Giorgio
o il Corpus Domini. A proposito di quest’ultimo evidenzia che
in quella occasione la città conosceva una sosta di tutte le attività e già nei giorni precedenti
la gente si impegnava a rendere
accoglienti le vie urbane attraverso le quali sarebbe passata la
processione. La medesima, come
apprendiamo dalle parole della
scrittrice, era lunga ed interminabile e “(…) si snodava lungo
le vie della cittadina accompagnata da canti sacri, sottolineati,
di tanto in tanto, dall’intervento sonoro della banda. Bambine
bianco vestite, spargevano fiori che traevano dai canestri. Sui
due piloni della piazza erano issati i gonfaloni cui risplendevano, con il loro garrire, il gran pavese delle barche. Intervenivano
molti uomini indossando, a seconda delle confraternite, cappe
di vari colori: i più forti, portavano a turno, il pesante crocifisso,
seguivano gli altri recando gli arredi sacri” (p. 43).
Altre pagine sono dedicate,
ad esempio, all’incendio dell’idroscalo della S.I.S.A., ossia
la Società Italiana Servizi Aerei
di Trieste, a Portorose (1926), o
al freddo inverno del 1929, caratterizzato da una violenta bora
e dalla neve che aveva paralizzato ogni attività, con la colonnina
del mercurio che scese a - 16°,
o il tradizionale pellegrinaggio a
Strugnano in occasione dell’Assunta o ancora il carnevale a Pirano i cui veglioni e balli si tenevano al teatro Tartini.
La lacerazione
dell’esodo
Gli scritti toccano, però, anche la pagina dolorosa dell’esodo, cioè la cesura definitiva con
la propria piccola patria. Quella era stata un’esperienza struggente che rimembrava con non
poca fatica. “Assieme a quei mobili, buttati alla rinfusa su di un
camion, me ne andavo con un
bagaglio di ricordi che non mi
avrebbe abbandonato mai: quelli
lieti e sereni, legati agli anni più
importanti della mia vita ascendente, poiché le abitudini, la formazione del mio carattere, il mio
modo di essere l’ho assorbito
dalla nostra Terra e dalla nostra
gente (…)” (p. 74).
“Il grande merito dell’autrice – sottolinea Franco Viezzoli,
presidente della “Famea Piranesa” – è quello di prendere letteralmente per mano il lettore e la
lettrice e accompagnarli in questo ‘viaggio della memoria’ rendendoli partecipi di tutte le sue
emozioni, dei suoi entusiasmi,
delle sue gioie, delle sue paure, delle sue sofferenze e del suo
amore per un mondo irrimediabilmente perduto”
I testi sono accompagnati da
alcune centinaia di immagini,
d’epoca e non, messe a disposizione da Franco Viezzoli, Rino
Tagliapietra e dagli archivi della Famea Piranesa nonché da “La
Voce di San Giorgio”, che arricchiscono ulteriormente il volume
attraverso un corredo iconografico quanto mai pertinente ai temi
affrontati.
4
storia e ricerca
Lunedì, 5 gennaio 2009
Lunedì, 5 gennaio 2009
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MOSTRE Il Museo civico di Pola ha ricordato con una mostra e un catalogo il tramonto di un’epoca, le sofferenze della Grande Guerra. E le iniziative «per l’imperatore e la patria»
ZLATKO MAJNARIĆ
«Gott mit uns», dicevano gli Asburgo
ma non salvò il loro impero multietnico»
di Arletta Fonio Grubiša
Dalla prima pagina
Oltre alla Rotes Kreuz-Croce
rossa (che si occupava dei soldati feriti e malati al fronte), l’Ufficio
per i sussidi di guerra del Ministero
agli affari interni (con il compito di
risolvere i problemi privati, giuridici, finanziari degli ufficiali e militari
lontano da casa) e l’Ufficio per l’approvvigionamento bellico del Ministero alla Guerra con la sezione
per la raccolta dei viveri, la sezione
per la raccolta delle materie prime e
quella per la raccolta del denaro che
avviarono svariate iniziative al fine
di aiutare soldati, invalidi, vedove e
orfani di guerra. Sono tre organizzazioni ufficiali per la guerra con simbolo l’aquila d’oro a due teste ed una
croce rossa al centro. Oltre a queste
operavano tutta una serie di associazioni nazionali (per gli aiuti alla Polonia, per i profughi della Galizia,
della Bukovina, i militari feriti della
Boemia ecc.). Tutte queste organizzazioni si occupavano di attività caritative e fornivano informazioni sulla situazione al fronte organizzando
nel contempo manifestazioni pubbliche finalizzate alla raccolta di denaro molto ben accette dal popolo. Iniziative promosse nel corso di tutta la
guerra (“Per i militari al fronte”, “La
protezione dal freddo”, “Il Natale al
fronte” ecc.) presentavano un connotato specifico, una particolare espressione di solidarietà umana che come
segnalato dagli storici non trovò più
eguali né durante la seconda guerra mondiale né in circostanze belliche successive. L’Austria-Ungheria
non pensava solo ai propri soldati
ma correva in aiuto per un pasto al
fronte anche alle forze militari alleate. I generi alimentari allora più richiesti erano tè, cioccolato, biscotti,
dolci vari, zucchero, fette biscottate,
formaggio duro, conserve, tabacco,
mentre fra gli oggetti in uso c’erano pipe, carta per tabacco, accendini, temperini, matita e carta da lettere. Articoli donati e considerati particolarmente preziosi, erano invece, il
sapone, le medicine, la biancheria da
letto e l’abbigliamento. Fino alla fine
di marzo del 1917 furono raccolti doni per un valore di 45.583,000
corone, mentre la merce fu trasportata al fronte dentro 125.721 scatole
in 978 vagoni. La guerra in Austria
causò un completo collasso del commercio estero e quindi si verificarono problemi nel rifornimento delle
materie prime, specialmente nell’industria della lavorazione del metallo
e in quella della produzione tessile,
nonché nella produzione della gomma, ovvero di quello di cui l’industria bellica aveva più bisogno. Il
metallo si raccoglieva sui campi di
guerra, le miniere precedentemente
chiuse venivano riaperte. L’Ufficio
avviò anche la raccolta della lana, di
tessuti e caucciù. Non c’era comune
nel quale non sia stato organizzato
un servizio adibito allo scopo. Fu selezionata la lana per la stoffa militare, per il confezionamento di uniformi e coperte, mentre i tessuti lavorati venivano donati agli invalidi, alle
famiglie dei caduti, ai profughi e ai
prigionieri. Si raccoglievano le materie prime per le scarpe e si provvedeva alla loro riparazione (iniziative
“Diedi l’oro per il ferro”, “Iniziativa
per le scarpe nuove” ecc.)
Guerra e inflazione hanno imposto anche la raccolta di denaro. I negozi e luoghi pubblici di Vienna vennero dotati di cassette per fare incetta
di contributi e le famiglie si videro
consegnare scatolette adibite al risparmio pro Patria. Ed è appunto con
la strategia della vendita degli oggetti recanti i simboli dell’amor pa-
trio che si riuscì a contribuire al sostentamento e alla sopravvivenza in
guerra. Si vendevano anelli, fregi per
cappelli, distintivi, medaglie, targhe,
ciondoli, polsini, nastri, busti, statue,
francobolli, cartoline e vari oggetti
d’uso e decorativi. La popolazione
amava acquistare questi oggetti tanto che l’Ufficio per l’approvvigionamento bellico aprì in breve tempo le
proprie sezioni per lo smercio in tutte le maggiori città della Monarchia
e così anche a Pola, principale porto
di guerra austroungarico.
Grossa adesione
La popolazione di Pola e dell’Istria partecipò attivamente alla
raccolta degli aiuti per i soldati e le
loro famiglie alla pari del resto della Monarchia. La sede della Società della Croce Rossa di Pola, che si
trovava al 204 di Via San Policarpo,
contribuiva alla racolta di ogni genere di aiuti, alla pari delle organizzazioni viennesi, ed attraverso settimanali, informava la cittadinanza
del proprio operato (denominazioni “d’effetto”usate al tempo: I doni
della Croce rossa ai soldati di Pola,
Ricordiamoci a Natale dei nostri
eroi, Le cartoline ufficiali da guerra ecc.) Nel corso del 1914 e 1915
la racolta di denaro filò liscia, ma
negli anni successivi fu un tonfo
a causa dell’inflazione galoppante.
Ne finirono colpite le categorie più
povere della popolazione. La pensione di una vedova da guerra ammontava a 45 corone, allora appena
bastevoli all’acquisto dei viveri più
fondamentali. Un esempio attinto
dagli autori del catalogo: il prezzo
del pane bianco a Pola nel 1914 ammontava a 64 heller e verso la fine
della guerra arrivò a 1,20 corone,
dunque, con la pensione di cui sopra
ci si poteva limitare a condurre una
vita di solo pane. Si attinge a testimonianza quanto riportato su di un
periodico dell’epoca (1914): “D’ora
in poi l’importo di 150 cassette della sezione della Croce rossa di Pola
e l’importo finora ricavato dai cinematografi “Edison”, “Leopold”
e “Minerva” come pure del Club
di calcio “Olimpia” e della pista
di pattinaggio “Excelsior” verranno devoluti in parti uguali a favore
della Croce rossa (...) per i sussidi
di guerra (...) e altri doni per i soldati al fronte, da parte dei reggimenti
istriani”. Gli oggetti di beneficienza
venivano, venduti nei numerosi negozi e cartolerie della città. Dato che
Pola era il porto principale austrougarico, la maggior parte degli oggetti recava i motivi dei marinai e delle
navi da guerra. Qui si acquistavano
i francobolli con le immagini dei sovrani alleati, le cartoline raffiguranti
i campi di battaglia, anelli di ferro,
ciondoli e molti altri oggetti ornamentali. È interessante che tutti questi avevano una duplice funzione se
non contradditoria, quella umanitaria e quella di propaganda bellica,
di celebrazione del Kaiser, delle
alleanze, delle battaglie importanti.
Gli studiosi polesi ora ne sottolineano il loro forte valore storico-culturale ed anche artistico proprio in
considerazione del contesto storico
in cui sono stati prodotti e utilizzati.
I nastri
Dal punto di vista artistico i nastri risultarono essere gli oggetti più
caratteristici prodotti per le necessità dell’approvvigionamento bellico
ai tempi della prima guerra. Apparvero per la prima volta a metà secolo XVIII, poi caddero nell’oblio
per venire ripescati dalla Monarchia
e amati quali “Vivatbänder”, nastri
di saluto per celebrare i successi bellici. Venivano fabbricati con
la seta industriale (all’epoca molto
pregiata), in svariati colori e in serie di dieci pezzi. Motivi e scritte sui
nastri seguivano il corso degli avvenimenti bellici, riportavano impressi personaggi di guerra, mezzi di
trasporto e di guerra “modernissimi” (zeppelin, aerei, sommergibili).
Erano un prodotto molto interessante, ma non accessibile a tutti. Un’intera serie di un determinato tipo di
nastri costava 8 corone. Il museo di
Pola espone 12 reperti di questo tipo
oggi, molto rari da trovarsi sul mercato delle opere d’arte e per tanto
più che preziosi.
Le medaglie
e le targhe
Gli oggetti più preziosi venduti
per le necessità del rifornimento bel-
lico erano però le medaglie e le targhe fabbricate secondo i modelli dei
migliori medagliai austriaci. Di solito sul dritto era impressa l’immagine
del sovrano, di qualche comandante
dell’esercito o altro personaggio importante e la data di qualche avvenimento da celebrare. L’Austria in fatto
di fabbricazione di medaglie deteneva una lunga tradizione già dal XIX
secolo, mentre all’inizio della guerra
diede il via ad una iper-produzione.
Il soggetto più rappresentato? L’imperatore Francesco Giuseppe I, figura d’identificazione della Monarchia,
più tardi il suo successore Carlo I,
ben presenti poi marescialli, ammiragli, i sovrani di altri paesi alleati
(Guglielmo II, l’imperatore tedesco,
Ferdinando I, l’imperatore bulgaro
Maometto V, il Sultano turco) i ministri della guerra, generali ecc. Non
solo illustri signori esistenti ma, spesso, sulle medaglie figuravano anche
immagini di creature fantastiche e
divine. Impressi poi nomi, slogan,
destinazione della medaglia con sigla dell’autore mentre il rovescio
era solitamente destinato alle scritte
propagandistiche delle organizzazioni che si occupavano di rifornimenti
per il fronte. Alcune, atte davvero a
provocare sentimenti di beneficenza,
persino immagini di feriti, vedove o
orfani. Quanto alle scatole (rettangolari o quadrate) per medaglie, parlano da sè: all’inizio erano fabbricate in pelle con decorazioni in oro e
velluto, più tardi prevalentemente in
cartone. Stesso destino di svalutazione di materiali toccato anche alle
medaglie, prima coniate in ottone o
argento poi in lega di ferro e zinco, e
venivano identificate come “resti del
materiale da guerra”. La collezione
polese conta una cinquantina di medaglie d’epoca.
Decorazioni
per copricapi,
distintivi e ciondoli
Le decorazioni per i copricapi
(Kappenabzeichen) comparvero subito prima e nel corso della Prima
guerra nomdiale. All’inizio erano
puri ornamenti per copricapi militari
e appena nel 1916 divennero ufficiali, parte integrante dell’uniforme sul
campo di battaglia e nelle retrovie.
Erano di gran effetto propagandistico e come tali diffusi su vasta scala dall’Ufficio per l’approvvigionamento bellico. Identica svalutazione
come per le medaglie: i primi fregi
erano di ottone e rame, poi in ferro
e zinco. Forme prevalentemente rotonde e rettangolari ma anche di fiore, croce, scudo e altro. Data la multinazionalità della Monrachia, sulle
decorazioni ci figuravano scritte in
varie lingue, comunque, prevalevano il tedesco e l’ungherese. Slogan
più frequenti: “Per l’imperatore e la
patria”, “Viribus Unitis”, “Dio è con
noi” ecc. Distintivi, ciondoli e polsini venivano realizzati nello stesso
materiale con motivi e forme identici. Si ritiene che all’epoca siano stati prodotti all’incirca 2000 differenti
oggettini di questo tipo. Il museo di
Pola ne conserva 78, fonte singolare
per svariate ricerche araldiche e storico-culturali.
Oggetti d’uso
e ornamentali
Data la lunga durata del conflitto e
la carestia di metalli la produzione di
oggetti destinati alla raccolta di sussidi venne indirizzata ad altri tipi di
materiale, innanzitutto, alla porcellana. Prodotti di questo materiale come
quelli di vetro o legno avevano uno
straordinario valore propagandistico. Venivano venduti come souvenir
e quindi li troviamo per tutta la Monarchia austroungarica. All’inizio gli
oggetti destinati alla beneficenza erano di porcellana pregiatissima, ornata
d’oro, fabbricate nelle note manifatture austriache poi finirono per essere prodotti in fabbriche anonime con
materiale più scarto, prive di logotipo
e decorazioni dorate. Erano articoli
che si potevano acquistare come servizi o anche come singoli pezzi. I motivi erano dei sovrani mentre il resto
dell’ornamentazione era rappresentata da simboli di forza, unità, longevità e potenza. Tradizionalmente usati i
colori austriaci dell’imperatore (nero
e giallo) e della Monarchia (rosso e
bianco). Era detto simbolismo chiamato ad agire sul morale dei popoli
austroungarici.
Accanto agli oggetti in ceramica e vetro (tazze, bicchieri, brocche,
vasi, piatti, mortai e altro) si vendevano anche oggetti di metallo (busti,
statue, orologi, scatole, copie di armi,
forbici, portacerini), oggetti in legno
(pipe, targhe ricordo, ventagli) e oggetti di carta (carte da gioco, buoni
per i contributi volontari, carta da sigarette). Quanto all’iniziativa “Diedi
l’oro per il ferro” ebbe come risultato
anche una grossa produzione di anelli
imperiali in metallo. Il fondo da museo conta oltre il centinaio di oggetti
di questo genere.
Le cartoline postali
Il 1.mo orttobre 1869 è data
storica per la filatelia. L’amministrazione postale viennese mise in
commercio la prima cartolina postale denominata “CorrespondenzKarte”, molto accessibile al popolo
perchè il costo di spedizione era della metà inferiore a quello delle lettere. Nei soli primi tre mesi furono
vendute tre milioni di copie. Con lo
sviluppo delle tecniche fotografiche
e di stampa (rilievografia, litografia,
cromolitografia, fototipia e altro) le
prime cartoline nude e solo con informazione scritta, cedettero il posto
a quelle con l’immagine di provenienza stampate negli anni 1880. Si
ritiene che l’epoca d’oro delle cartoline postali fosse durata dal 1897 al
1918. Normalmente anche gli uffici
ai sussidi immisero sul mercato le
loro serie propagandistiche. Risultano essere particolarmente numerose
le cartoline di Pola, con i motivi del
porto, del varo delle navi, della flotta
da guerra austroungarica, delle manovre militari con scene di vita dei
marinai (gli equipaggi, il carico di
carbone sulla nave, la guardia notturna, la manutenzione dei cannoni
navali, il carico e la calata in mare
delle scialuppe ecc.). Dette pubblicazioni nella maggior parte dei casi
hanno come modello le opere artistiche di noti pittori austroungarici
“ufficiali” (Kircher, Heusser, Seits,
Straka) con raffigurazioni della flotta di guerra, di fabbricazione e varo
delle navi, scene di battaglie navali.
L’organizzazione polese della Croce
rossa era estremamente attiva nella
stampa di cartoline. Anzi, gli storici
di Pola specificano che l’ufficio po-
lese della Croce rossa fu quello che
pubblicò il maggior numero di cartoline fotografiche della Monarchia.
È per questo che la collaborazione
con i più noti e rinomati atellier fotografici polesi fu molto intensa.
Oggetti d’occasione
per vari anniversari
É ai tempi del governo dell’Imperatore Francesco Giuseppe I (18481916) che fu prodotta la maggior
parte degli oggetti destinati ai sussidi bellici. Qui inclusi oggetti prodotti
in occasione di varie ricorrenze (gli
anniversari del suo governo, quelli dell’incoronazione e quelli in memoriam dopo la sua morte). Nel corso degli ultimi due anni di guerra, la
produzione di oggetti pro sussidi, inizia a decadere, si sente l’inflazione, lo
stato e la società cadono in una crisi
profonda, inizia la decadenza di quella che una volta era stata una gloriosa
e potente Monarchia.
6 storia e ricerca
Lunedì, 5 gennaio 2009
SCHEGGE Famiglia che svolse un importante ruolo politico, culturale e sociale
Ascesa e declino di un nobile e noto casato
i «De Frangipanibus», principi di Veglia
di Marco Grilli
I
Frankopan, principi di Veglia
(Krk), svolsero un importante
ruolo politico, culturale e sociale nel medioevo croato (XIIXVII secolo). Non vi sono certezze sulle origini di questi feudatari
locali, uomini d’arme e di fede,
letterati e mecenati. Secondo il
“De Gente Frangepana” (XVI
sec.) del frate agostiniano Onofrio Panvinio, questa dinastia proverrebbe dall’antica stirpe romana
Anicia; d’opinione contraria il delegato della Repubblica veneta a
Veglia, Antonio Vinciguerra, che
nell’”Information delle cose di
Vegla” (fine ‘400) dichiarò l’origine croata e locale della famiglia.
La prima residenza dei conti pare
il castello di Gradec Rovoznik,
presso Verbenico; il loro capostipite, Doimo, ricevette la contea
dell’isola di Veglia in possesso vitalizio da Venezia, forse nel 1118.
Il nome “De Frangipanibus” fu
assunto solo nel 1430 circa, quando Nicola IV ricevette la notizia
della discendenza romana da Papa
Martino V ed i Frangipani romani autorizzarono l’uso del nome e
dello stemma. L’arma antica dei
Frankopan aveva fondo bianco e
rosa, con stella d’oro sul fondo
rosa; dal XV sec. questo stemma
fu sostituito con quello dei Frangipani romani, con due leoni ritti
sulle zampe posteriori che reggono due pani. I Frankopan iniziarono a firmarsi “De Frangipanibus” nei documenti latini e “De
Frankapan” in quelli croati.
Acquisizioni territoriali
e rapporti con Venezia
I principi di Veglia, svolgendo
un ruolo di mediazione tra le potenze dell’epoca, Venezia e l’Ungheria, estesero ben presto i propri
possedimenti territoriali. Nel 1193
il Re ungaro-croato Bela II cedette
la Contea di Modrus, il Diploma
del Re Bela IV (1251) confermò il
possesso della Contea di Modrus e
del Vinodol, mentre nel 1271 Guido IV ottenne la carica di Podestà
della città di Segna. Il territorio
dei Frankopan si estese all’intera
Croazia occidentale e questi potenti signori del Regno ungarocroato s’imparentarono con le più
importanti casate reali europee.
La storia dei Frankopan è ricca d’attriti nei rapporti con la Serenissima, basti pensare alla perdita del feudo di Veglia dal 1244 al
1260, dovuta al fatto che Venezia
non tollerava gli ingrandimenti
territoriali dei conti ed il loro rapporto di vassallaggio con l’Ungheria. Esiste anche una fitta documentazione veneta (1261-1358)
sulle violazioni degli obblighi imposti ai conti (es. giuramento di fedeltà, pagamento del tributo ecc.).
I Frankopan restarono a capo dell’isola fino al 1480, anno della destituzione di Giovanni VII.
I principi di Veglia intervennero spesso anche nelle lotte di successione al trono ungaro-croato ed
ebbero ben sette nomine a Bano
(governatore) di Croazia tra i
membri della loro dinastia. Per un
breve periodo ressero anche Fiume (restituita col patto del 1365)
come pegno per un prestito effettuato da Bartolomeo VIII in favore di Giorgio di Ugone dei Duino,
in guerra coi conti di Gorizia. Il
dominio territoriale sul castello di
Tersatto durò invece dal XIII sec.
al 1530, anno in cui la proprietà
passò agli Asburgo che nominarono i propri Capitani Reali.
Il patriottismo
nei fatti d’arme
Come uomini d’arme i Frankopan dimostrarono sempre il loro
patriottismo, schierandosi apertamente contro i Tartari prima (nel
1242 Federico I e Bartolomeo III
finanziarono e composero un esercito, vittorioso a Grobnico), ed i
turchi poi (nella Battaglia di Corbavia del 1493, in cui perì la miglior nobiltà croata, morì Ivan IX
mentre Nicola VI fu fatto prigioniero). Dopo questo triste evento,
che comportò l’esodo della popolazione dai territori della Lika e
del litorale adriatico, Bernardino
di Ozalj riferì sul pericolo turco
alla Dieta di Norimberga (1522),
definendo la Croazia scudo e porta
della cristianità. Rilevante la figura del condottiero Krsto I Frankopan di Brinj (1482-1527), già generale di un corpo d’armata al
servizio dell’Imperatore Massimiliano I nella guerra contro Venezia per il possesso dell’Istria e
del Friuli (1508-1514), Capitano
del Carso e di Adelsberg dal 1511,
distintosi poi nelle battaglie contro
i turchi, al servizio del re ungarocroato Ludovico II.
Non va trascurato anche il ruolo culturale e giuridico dei conti di
Veglia. Sotto il primo punto di vista favorirono la cultura slava scrivendo principalmente in lingua
croata e con l’alfabeto glagolitico;
nel secondo caso emanarono importanti Statuti in grado di regolare la vita politica, civile, sociale ed economica dei comuni medioevali. Il glagolitico, antico alfabeto slavo (fine IX sec.) derivato
dai caratteri del greco corsivo, fu
utilizzato nelle scritture pubbliche
ed ecclesiastiche, contribuendo
all’affermazione dell’individualità politico-culturale croata. Fondamentale è il Codice di Vinodol
(Novi, 1288), un elenco di diritto
comune croato scritto nel dialetto ciakavo ed in caratteri glagolitici, redatto da una commissione
di rappresentanti dei nove comuni (Novi, Lednice, Bribir, Grizane,
Drivenico, Heljin, Buccari, Tersatto e Grobnico). Il testo è oggi custodito alla Biblioteca universitaria di Zagabria
Nicola IV «il grande»
La potenza dei Frankopan fu
portata all’apice da Nicola IV “il
grande” (1352-1432) che riuscì
ad unire tutti i possedimenti territoriali (Veglia, Vinodol, Segna,
Gacka, Drzenik, Cetinje). Fondatore del Monastero paolino a
Crikvenica (1412), fu eletto Bano
nel 1426. Dopo la sua morte, nel
Convegno di Modrus (1449) prevalse la linea di Giovanni VII: il
patrimonio fu diviso in otto signorie e sorsero quattro dinastie differenti (Cetinje, Ozalj, Slunj, Trzac).
Per i Frankopan si avviava la decadenza, il loro ruolo politico-economico fu progressivamente rilevato dagli Zrinski, nobile famiglia
originaria della Dalmazia.
In seguito all’atto di successione reciproca (1544), stipulato
tra Stefano IV di Ozalj e suo cognato Nicola Zrinski, nel 1577 i
conti Zrinski acquisirono il Gorski
Kotar e gran parte del Vinodol. Il
XVI sec. vide l’estinzione di tre
branche familiari dei Frankopan:
Cetinja (1543), Slunj (1572) e
Ozalj (1577).
La rivolta e la fine
della dinastia (1671)
La fine della dinastia è legata
alla lotta dell’aristocrazia croata
al centralismo asburgico (1671).
I croati, desiderosi di maggior autonomia, mal tolleravano l’assolutismo ed il mercantilismo della
Corte di Vienna, che nel 1664 a
Vasvar aveva stipulato una pace
segreta coi turchi. Petar Zrinski,
Bano di Croazia, dal 1669 preparò una rivolta armata al cui capo
fu posto il cognato Fran II Krsto
Frankopan. Vani furono però i vari
contatti diplomatici; la congiura fu
soffocata sul nascere e i due rivoltosi furono arrestati e poi decapitati (30 aprile 1671, Novo Mesto,
Fortezza di Wiener Neustadt) per
crimine di lesa maestà. Tutte le
proprietà Zrinski-Frankopan furono confiscate dalla Camera Reale Ungherese entro l’agosto 1670;
con la fine del potere dell’aristocrazia locale nel Gorski Kotar e
sul Litorale svanirono anche i sogni croati d’autonomia. La morte
di Petar e Fran II Krsto fu considerata dal popolo come un eroico sacrificio compiuto per la libertà.
Fran II Krsto, l’ultimo Frankopan, fu anche il poeta più importante del cenacolo di Ozalj; celebri
e tristemente profetici i suoi versi:
“...Chi muore con onore vive per
sempre”. Il suo canzoniere “Gartlica za cas kratiti” (Giardino per
ingannare il tempo) univa l’ispirazione colta e l’interesse per le
tradizioni popolari, conciliando
le differenze dialettali (caicavo,
ciacavo, stocavo) in un linguaggio comune.
Ferventi cattolici
I principi di Veglia,ferventi
cattolici, sostennero nel corso
della loro storia gli ordini religiosi. Lo testimoniano tre luoghi
dell’area quarnerina: Tersatto,
Crikvenica e Kosljun. Sul colle di
Tersatto, dove secondo la leggenda il 10 maggio 1291 apparve la
Casa della Sacra Famiglia, Nicola
I Frankopan fece erigere una cappella già alla fine del XIII secolo.
Martino IV, ottenuta la licenza da
Papa Niccolò V, fece costruire la
chiesa (1453) ed il convento dove
furono ospitati i francescani del
vicariato bosniaco. Oggi il Santuario di Tersatto, la “Nazareth
croata”, è un’importante meta di
pellegrinaggio; al suo interno si
trovano le tombe di Martino IV,
Nicola VI e Nicola IX mentre lo
stemma Frankopan è ben visibile
in cima al portale frontale destro.
L’odierna Crikvenica, centro
turistico del Litorale, si è sviluppata intorno ad un convento di
paolini fatto costrure dai Frankopan (1395-1412). Importante nu-
cleo di cultura e educazione, il
convento fu chiuso nel 1786.
Oggi è un moderno hotel della
costa.
Nell’isoletta di Košljun (Isola
di Veglia) spicca invece il convento francescano; i seguaci del Santo d’Assisi vi presero dimora nel
1447 grazie al sostegno di Martino IV e Giovanni VII. La nuova
chiesa fu costruita tra il 1480 ed
il 1523 e fu completata grazie al
lascito di mille ducati di Caterina,
figlia dell’ultimo conte di Veglia
Giovanni VII. Quest’ultima, morta in esilio a Venezia, è qui sepolta dal 1529 secondo la sua volontà testamentaria. La stele si trova
sulla parete sinistra della chiesa;
nel 1920 la tomba fu profanata
dagli Arditi di D’Annunzio alla
ricerca del tesoro Frankopan.
Le fortezze
L’area quarnerina presenta numerose fortezze appartenute ai
principi di Veglia; alcune di queste (Buccari, Grobnico, Portorè,
Hreljin, Drivenik, Bribir, Grizane, Ledenice, Novi Vinodolski)
rientrano nel progetto regionale
di salvaguardia e riqualificazione culturale economica e turistica “Le vie Frangipane. Merita
una citazione il castello “NovaKraljevica Frankopan” a Portorè,
voluto dal già citato Petar Zrinski
nel 1650 c.a. come castello residenziale sulla penisola all’entrata della Baia di Buccari. Di piante rettangolare con torri angolari
circolari, è in stile rinascimentale con dettagli barocchi, come
la nota cisterna posta al centro
dell’atrio che presenta il duplice
stemma Frankopan e Zrinski (la
torre con le ali).
Molto probabilmente costruito da veneziani, il “Nova-Kraljevica Frankopan” fu arredato con
grande sfarzo e rivestito di marmo
bianco e nero; si ritiene che esso
sia stato il centro della cospirazione del 1670. Dopo la spoliazione
dell’esercito austriaco,fu impiegato come caserma, ospedale per
la “Malattia di Skrljevo” (1818),
sede del noviziato dei gesuiti
(1883-1894) ed ancora caserma
nelle due guerre mondiali. Oggi
ospita RadioPortorè, vari enti ed è
sede dell’“Estate Frankopan”, ricca di manifestazioni culturali.
Continuare nella valorizzazione storica di questi castelli renderebbe merito alla dinastia che per
lungo tempo ha caratterizzato la
storia croata, incarnandone gli
ideali e lo spirito.
storia e ricerca 7
Lunedì, 5 gennaio 2009
LIBRI «Vocabolario della parlata di Buie d’Istria» (CRS di Rovigno)
Marino Dussich, fondamentale recupero
di una parlata che sta per spegnersi
di Denis Visintin
S
eguendo una prassi ben consolidata, la nostra storiografia da tempo sta dando ampio spazio alla storia regionale ed alla microstoria locale. Stiamo così
assistendo alla riscoperta o alla venuta alla luce di nuove
cognizioni storiche e alla lettura e rilettura della storia secondo metodiche d’indagine fortemente attuali. E sono soprattutto gli studiosi di nuova generazione, liberi da qualsiasi pregiudizio, ad invadere gli archivi alla scoperta di
notizie e documenti atti a dare una interpretazione della
storia quantomai equilibrata e corretta.Tutto ciò ha portato
a generare una serie di nuove conoscenze storiche, rimettendo in discussione o confermando quelle già di nostra
conoscenza.
“Vocabolario della parlata di Buie d’Istria” di Marino
Dussich – numero 29 della collana degli Atti del Centro di
Ricerche storiche di Rovigno – è un’opera d’eccelso valore, di una storia e di una cultura importanti, di una comunità con un decorso storico in cui la vita comunitaria era
regolata da usi e consuetudini antiche, formatesi sotto l’influenza delle varie presenze culturali, civiche e umane che
Il volume ci porta a compiere
un lungo viaggio storico, geografico
e culturale, che dalla cima
di quel campanile il cui suono
era ed è tuttora di riferimento
al comprensorio, abbraccia
l’orizzonte i cui casolari ricordano
sia insediamenti e abitati sparsi
d’antica origine, sia quelli frutto
di immigrazioni, appoderamenti
ed edificazioni più recenti
si sono susseguite dall’antichità alle epoche recenti. Un volume che giunge quasi a coronamento di un sogno, secondo un percorso iniziato dall’autore una trentina d’anni fa.
Un percorso che si è concluso felicemente grazie alla comprensione dimostrata dal prof. Giovanni Radossi e dal CRS
di Rovigno che egli dirige e che ha dato alle stampe un volume fondamentale sia per i futuri studi in materia sia per
chi, in un modo o nell’altro, s’impegna e s’impegnerà ancora nello studio e nella tutela del patrimonio locale. Parlare di quest’opera sembra facile ma non lo è. Infatti, essa
più che un’opera dedicata alla parlata buiese, riassume le
cognizioni storiche e culturali su questa località istriana.
Raccolti tutti i tesselli
di una realtà specifica
È un’opera d’importanza fondamentale per lo studio
e la comprensione della storia e della cultura buiesi, ricche di contenuti che si esprimono mediante alcuni degli
elementi caratterizzanti la buiesità, il suo patrimonio culturale e l’identità storica, dei quali la parlata locale ne è
l’elemento più rappresentativo. Quest’ultima si identifica
in quel dialetto buiese che echeggiava fortemente sia nelle
contrade che nelle campagne fino a qualche lustro fa – e
che oggi si trova ahimè sulla via dell’inesorabile estinzione culturale –, ma tuttora importante veicolo di comprensione, talvolta anche, che si creda o no, internazionale. Il
poeta Lino Dussi ne è testimone diretto, in quanto per farsi
meglio comprendere alcuni anni fa, in una conferenza in
Spagna, usò questa sua lingua materna.
L’autore del “Vocabolario”, Marino Dussich, appartiene a una delle famiglie di antica residenza, in cui si usa
tuttora questo dialetto, e nella quale, come nelle altre oggi
esistenti a Buie, si è prestata e si presta ancora particolare attenzione alle tradizioni locali. E forse è stato proprio
questo fatto a indurlo molto spesso ad andare “controcorrente”, intraprendendo iniziative favorevoli principalmente allo sviluppo e alla tutela del patrimonio culturale
buiese. In questo contesto s’inserisce anche il fortunato e
apprezzabile progetto che ha portato alla realizzazione di
questo volume, dedicato a una parlata che sta lentamente
togliendo il disturbo. Il progresso e i continui mutamenti
linguistici, acceleratisi vorticosamente nell’ultimo secolo
di storia regionale e sopratutto negli ultimi decenni, stanno cancellando un continuum storico plurisecolare.
Un dialetto spesso trascurato
Al dialetto buiese non sono state dedicate molte pubblicazioni. Tuttavia, le preesistenti all’odierna opera sono
meritevoli di cenno. Trattasi della “Terminologia agricola
di Buie d’Istria”, che valse un premio alla prof.ssa Franca Cimador al Concorso “Istria Nobilissima”, e del “Piccolo dizionario della terminologia dialettale usata particolarmente a Buie”, uscita dalla “penna” dello studioso e
tutore del patrimonio sacro di Buie, Benedetto Baissero.
Altrettanto importanti le opere letterarie dialettali. Si necessitava però di una marcia in più, di un qualche cosa di
maggior consistenza che servisse per l’appunto a salvare
almeno in parte questa parlata, e sopratutto a Buie. E questa marcia ce l’ha data appunto Marino Dussich.
Questo volume rappresenta un significativo tentativo teso a delineare una fisionomia storica della comunità
buiese, all’interno di un percorso che l’autore con il suo
contributo intende affermare, testimoniare e riproporre
sullo scenario della storia.
Dall’alto di quel caparbio colle, ricordato nell’iniziale
poesia di Lino Dussi, Marino ci porta a compiere un lungo
viaggio storico, geografico e culturale, che dalla cima di
quel campanile il cui suono era ed è tuttora di riferimento
al comprensorio, abbraccia l’orizzonte i cui casolari ricordano sia insediamenti e abitati sparsi d’antica origine, che
quelli frutto di immigrazioni, appoderamenti ed edificazioni più recenti.
Buie ha dato vita ad una delle più importanti e meravigliose civiltà contadine della penisola, molto spesso all’avanguardia nel campo delle innovazioni agricole. Una
civiltà che si esprimeva nelle proprietà di piccolo e medio
spessore, la cui fisionomia agraria iniziava all’interno delle mura cittadine, sede delle abitazioni sia dei proprietari sia di gran parte dei mestieranti agricoli, e iniziava ad
allargarsi esternamente nelle immediate prossimità della
cinta muraria, per proseguire lungo i declivi collinari e le
vallate, abbracciando tutto il territorio in cui vi erano le
loro proprietà, terminando il suo percorso nelle piazze di
mercato di Trieste, Pirano, Capodistria, del Friuli, della
Carniola e di Venezia, in cui confluivano i pregiati frutti
della terra, questi ultimi espressi nel volume con la variante terminologica locale, con nomenclature in cui si rivivono i nomi delle piante, delle erbe, degli insetti e degli animali tipici, e degli attrezzi agricoli.
Espressione di una meravigliosa
civiltà contadina istriana
Di questa dimensione agraria nel volume si ricordano alcune importanti testimonianze della memoria storica
buiese: la Cantina sociale, l’oleificio di San Giacomo, che
come altri spazi urbani e architettonici di grande valore
ci riportano a un tempo lontano in cui l’agro di Buie primeggiava nella penisola. La dimensione urbana e agraria
si uniscono in un tutt’uno nell’elencazione toponomastica
delle delle piazze, delle vie, delle contrade, delle campagne, facendo tesoro degli studi espressi da alcuni dei massimi studiosi istriani in materia. Le rivelazioni toponomastiche ben si prestano all’uso della storia, conservando i
toponimi buiesi, tracce del periodo romano, bizantino,
alto e basso medievale, moderno. Vengono alla luce mestieri e professioni, praticate per lo più da gente d’origine
friulano-carnica, una volta vanto della località e oggi soltanto un appassito ricordo.
In quest’opera Marino Dussich ripercorre la storia della sua località, riassumendone gli usi e i costumi, le tradizioni sia laiche che religiose, i giochi, l’onomastica, i
soprannomi. Affronta problemi e aspetti di fondamentale
importanza per la storia di Buie: l’aspetto sociale, l’assistenziale, l’economico, il culturale ed lo storiografico, insomma tutta una sfilza di temi che rasentano la complessità storica locale, e che testimoniano la vivacità della vita
che si svolgeva al suo interno, creando una premessa per
esaminare al meglio in un futuro, che si spera prossimo, la
specificità locale, in primo luogo quella linguistica. Allo
stesso tempo riassume alcuni degli aspetti profondamente esaminati e chiariti dalla storiografia, giungendo così a
un punto d’arrivo, lasciando d’altra parte aperti molti interrogativi su cui sia la scienza storica sia quelle ausiliarie
dovranno prima o poi soffermarsi. E qui mi riferisco agli
aspetti etnografici, a quelli musicali, alle costumanze, alle
consuetudini, alle usanze e al folclore, argomenti finora
scarsamente considerati, e per il cui studio questo “Vocabolario” fornisce degli ottimi spunti.
Un coraggioso atto d’amore
In questo volume ci sono circa sei-settemila voci, tre
cartine e moltissime foto d’epoca, una cronologia storica,
le appendici grammaticali, l’elenco alfabetico della casata
d’appartenenza del “soranomi”, alcune poesie, i proverbi
ed i modi di dire buiesi. Insomma, con la pubblicazione di
questo volume si viene a colmare una grossa lacuna nell’ambito della tutela del patrimonio culturale locale, sentita soprattutto dagli studiosi, che così si vedono assegnare
un formidabile veicolo che li aiuterà a comprendere ancora meglio i lati nascosti della microstoria buiese, auspicando l’organizzazione di un corso dedicato al recupero
di questa nostra parlata, e invitando i buiesi ad ulteriori
contributi per recuperare le voci mancanti in questo Vocabolario, per giungere un giorno alla pubblicazione di una
sua seconda edizione ampliata.
Chiaramente, questo di Marino non è un tentativo
scientifico, ma un coraggioso atto d’amore di un appassionato ricercatore innamorato della sua località. Il patrimonio e la storia di una località infatti si salvano soltanto
con l’amore verso la propria cittadina, considerando che
l’identità di Buie è il risultato di un lungo percorso storico. Ed in questo senso non siamo privi di esempi. Basti
pensare al vecchio cimitero di San Martino ed al patrimonio sacro, che ha visto, forse unico esempio in Istria,
impegnate tutte le anime buiesi. Una città senza storia
e senza le tracce della sua memoria storica è una città
senz’anima. Vista così la cosa, il volume che qui presentiamo assume un’importanza ancora maggiore. Rispettando i valori e la storia di una comunità si contribuisce
al rinnovo dei suoi connotati, e questa pubblicazione indica con forza una strada da percorrere.
8 storia e ricerca
Lunedì, 5 gennaio 2009
ANNIVERSARI Il primo gennaio ’59 Castro entrava a Cuba
Cuba, ultimo baluardo del comunismo
cinquant’anni fa trionfava la Revolución
L
a Rivoluzione cubana sta
resistendo da mezzo secolo
e i nuovi dirigenti annunciano che continueranno a “lottare” anche nei prossimi 50 anni,
tenendo sempre presenti i più
umili. Lo ha annunciato il presidente Raul Castro in occasione
della celebrazione del 50.esimo
anniversario della Rivoluzione,
rendendo un caloroso omaggio
al fratello Fidel. È infatti iniziata il 2 e continuerà fino al prossimo 8 gennaio una “carovana” che
ripercorre per tutta l’isola il percorso liberatore fatto dai membri
dell’Esercito Ribelle, da Santiago
di Cuba, sino a L’Avana, consolidano la sconfitta della dittatura di
Fulgencio Batista.
Il 1.mo gennaio 1959, infatti,
Batista rassegnava le dimissioni,
lasciando il paese; il giorno seguente le prime colonne di guerriglieri entraravano nella capitale:
quelle di Ernesto Che Guevara e
di Camilo Cienfuegos a La Habana, a Santiago de Cuba quelle di
liberato in seguito ad un’amnistia nel 1955 e riparerà in Messico. Assieme al fratello Raul e
all’argentino Ernesto Guevara,
detto “Che”, aveva dato vita al
“Movimiento 26 de Julio (Movimento 26 luglio), la cui prima
direzione nazionale era composta da Fidel, Melba Hernández,
Haydee Santa Maria, Antonio
Ñico López, Pedro Miret
Prieto, José A. “Pepe” Suárez,
Pedro Celestino Aguilera, Faustino Pérez, Armando Hart, Luis
Barreto Milián, Jesús Montané e
Juan Manuel Marquéz. Tra gli altri esponenti che presero parte al
“Movimiento” vi furono Ernesto
Che Guevara, Camilo Cienfuegos, Raúl Castro, Juan Almeida Bosque, Celia Sánchez, Huber Matos, Carlos Franqui, Raúl
Chibas, Abel Santamaría, Frank
País, Raúl Martínez Ararás, Josué País, Efigenio Ameijeiras,
Osmani Cienfuegos, Ramiro Valdés, Renato Guitart, José Pardo
Llada, Teodulio Mitchel, Pedro
di colore, il 2 gennaio Fidel pronunciò il primo discorso al Paese,
proclamando la vittoria della rivoluzione. Non era ancora del tutto
vero, ma quasi: entro una settimana le operazioni militari si concluderanno e il giorno 8 Fidel entrerà
all’Avana da trionfatore.
Nasceva così la Cuba che tutti conoscono, destinata a diventare l’ultimo (o quasi) baluardo del
comunismo nel mondo, incubo di
molti presidenti americani. Infatti,
ben dieci proveranno ogni tipo di
azione per abbattere la Rivoluzione cubana. Dal blocco economico
ai vari tentativi effettuati dalla CIA
– come comprovato da numerosi
documenti ufficiali recentemente
resi pubblici dagli stessi statunitensi – per assassinare Fidel Castro e altri dirigenti. A distanza di
50 anni, da quel giorno, le conquiste e le storture della Rivoluzione,
continuano ancora a far discutere,
accendere gli animi e nuovi interrogativi. Ora che Fidel è uscito di
scena, e che il mito è decisamente
ingiallito, in quale direzione proseguiranno gli “eredi” della Revolución?
Fulgencio Batista, il «migliore amico» degli americani
Fidel Castro. Dopo due anni di
combattimenti si concretizzava il
sogno di José Martí Pérez (politico, poeta e scrittore, nel gennaio
del 1892 aveva fondato il Partito rivoluzionario cubano che si
poneva come obiettivi l’indipendenza dell’America Latina dall’imperialismo spagnolo e statunitense, l’organizzazione della
lotta armata nella guerra di liberazione e il rifiuto di ogni forma
di segregazione razziale): il popolo di Cuba avrebbe potuto decidere da solo del proprio futuro.
Nel 1953, centenario della nascita di Martì, il 26 luglio, uno
studente universitario di nome
Fidel Castro Ruz, militante del
Partido Ortodoxo (riformista radicale, ma anticomunista), guidò l’assalto alla caserma Moncada di Santiago. L’attacco fallì
e molti dei combattenti vennero
torturati dopo la cattura ed uccisi sommariamente. Malgrado
la sconfitta, l’assalto al Moncada dimostrò che a Cuba esisteva
un gruppo capace di preparare
e compiere un’audace azione di
guerriglia, senza che la polizia di
Batista, considerata onnipresente ed inattaccabile, si accorgesse
di nulla. I superstiti furono condannati a pene detentive nel super carcere dell’Isola dei Pini. In
occasione del suo processo Fidel
Castro trasformò la sua autodifesa “La storia mi assolverà” in un
atto di accusa del regime. Verrà
Luis Boitel Abraham e Manuel
Artime. Questo nucleo rivoluzionario si proponeva di riprendere
la lotta armata nell’isola. Il 2 dicembre 1956, con un manipolo di
ottanta uomini trasportati dal piccolo yacht – il mitico “Granma”
–, Fidel Castro sbarcò clandestinamente nella provincia cubana
di Oriente, dove stabilì una prima base guerrigliera sulla Sierra
Maestra. Nonostante alcuni rovesci iniziali, il movimento guadagnò terreno nel corso del 1957,
trovando appoggi tra i contadini
della Sierra, colpiti dalle rappresaglie delle truppe di Batista. La
svolta decisiva, che segnò il successo della rivoluzione, si dovette al fallimento della massiccia
offensiva di Batista dell’estate
1958 nella Sierra Maestra, seguito dal diffondersi della guerriglia
nelle province centrali e occidentali dell’isola, mentre il movimento si collegava con le forze
dell’opposizione clandestina delle città. Il 7 novembre Fidel Castro lasciò la Sierra per lanciare la
campagna finale contro le truppe
di Batista: in poco più di un mese
i partigiani castristi occuparono
numerosi centri urbani iniziando
l’accerchiamento di Santiago e
aprendosi la strada verso L’Avana. Incalzato dagli eventi, il 1.mo
gennaio 1959 Batista rassegnerà
le dimissioni. A Santiago, ex-capitale e seconda città dell’isola,
con popolazione a maggioranza
Zucchero, sempre zucchero, null’altro
che zucchero: Cuba si trasformò in un paese di monocoltura, senza mai avere il tempo
e il modo di industrializzarsi. La conseguenza era che qualsiasi manufatto doveva essere
acquistato all’estero. Il ricavato dall’esportazione dello zucchero era quasi completamente indirizzata verso “lo zio Sam”, per cui
quanto più era lo zucchero cubano acquistato
dagli USA, tanto maggiore era la quantità di
beni di consumo che a sua volta Cuba poteva acquistare negli Stati Uniti, dalle Cadillac
agli alimenti in scatola. Per una cinquantina
d’anni, il sistema funzionò più o meno bene.
Ma, negli anni ‘50 si verificò un intoppo. Il
governo cubano decise di limitare la produzione di zucchero, in ragione delle restrizioni
poste alle vendite all’estero: il mercato nordamericano preferiva lo zucchero prodotto localmente, dai coltivatori statunitensi di
barbabietole. Tuttavia, se la produzione cubana doveva per forza di cose venire ridotta
(e con essa le importazioni, poiché dipendevano strettamente dal volume delle esportazioni), la sua popolazione continuava a crescere. Pertanto, di pari passo con l’incremento demografico aumentarono i mali tradizionali dell’isola.
Gli Stati Uniti, che alla fine del secolo
scorso avevano costretto l’isola a produrre
quasi null’altro che zucchero, proposero una
“soluzione” politica ai problemi economici. E
tale soluzione aveva un nome proprio: quello di Fulgencio Batista, a proposito del quale
Arthur Gardner, per quattro anni ambasciatore degli Stati Uniti all’Avana, affermerà
“non abbiamo mai avuto un amico migliore”. Ma chi era Fulgencio Batista agli occhi
dei cubani? Il 5 settembre 1933 il sergente
Batista aveva guidato il “colpo di stato dei
sergenti”, rovesciando il governo provvisorio
di Carlos Manuel de Céspedes, diventando
Capo di stato maggiore dell’esercito; nell’ot-
tobre 1940, a soli 39 anni, venne eletto presidente. La prima presidenza di Batista venne
funestata dall’aggravarsi dei problemi economici, dai malumori dell’esercito, dal basso
prezzo della canna da zucchero (e dall’indisponibilità statunitense ad aumentarlo), dai
problemi sociali, dallo scoppio della seconda
guerra mondiale. Dopo una “breve parentesi”, ritornò al potere il 10 marzo 1952, con un
colpo di stato che abbatté il presidente eletto
nel 1948, Carlos Prío Socárras. Il nuovo governo fu subito riconosciuto dagli Stati Uniti
e superò tutti i governi precedenti dell’isola
per la sottomissione e nella concessione delle
ricchezze ai nordamericani.
La sua politica consisteva nell’accentuare le ricchezze per i monopoli a detrimento
dei settori nazionali e soprattutto della popolazione povera. I casinò, i postriboli, i clubs
e i bar divennero centri di divertimento per
ricchi e mafiosi provenienti dal nord. Batista stabilì un ferreo controllo su sindacati ed
esercito, reprimendo ogni opposizione. Gli
investimenti americani ed il fiorire del turismo diedero, in effetti, una prosperità che
Cuba non aveva mai conosciuto, ma la crisi
economica degli anni cinquanta, la corruzione di Batista e i rapporti che il dittatore intratteneva con la mafia fecero crescere l’opposizione al regime, soprattutto tra gli strati
più poveri della popolazione, tra i favorevoli
ad una democrazia liberale, che consideravano la sua dittatura illegale e tra i pensatori
marxisti della classe media.
Il dittatore e i suoi collaboratori fuggirono
nella notte del 31 dicembre del 1958 a Miami,
senza pagare mai per quei 20 mila morti uccisi durante la presidenza di Batista e il saccheggio della proprietà pubblica. Nato povero a Banes, nell’oriente cubano, il 13 gennaio
del 1901, Batista morira, immensamente ricco, a 72 anni, a Marbella, in Spagna, il 6 agosto del 1973.
Anno V / n. 35 del 5 gennaio 2009
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina
Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat
edizione: STORIA E RICERCA
Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Denis Host-Silvani
Collaboratori: Marco Grilli, Arletta Fonio Grubiša, Kristjan Knez e Denis Visintin
Foto: Marco Grilli, Arletta Fonio Grubiša, Kristjan Knez e archivio
La pubblicazione del presente supplemento viene supportata dall’Unione Italiana grazie alle risorse stanziate dal Governo italiano con la Legge 193/04, in esecuzione al Contratto N° 83 del 14 gennaio 2008, Convezione MAE-UI N° 2724 del 24 novembre 2004
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