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«Gott mit uns», dicevano ma non salvò l`Austria
Il Museo civico di Pola ha ricordato la fine di un’epoca «Gott mit uns», dicevano ma non salvò l’Austria di Arletta Fonio Grubiša M entre l’austriaco imperator inneggiava “Gott mit uns” (Dio è con noi) e generali tuonavano ancora “Heil dem Kaiser! Heil dem Lande! Oesterreich Wird ewig stehn” (Saluto all’imperatore! Saluto al Paese! L’Austria sarà eterna!), il grande impero dell’aquila bicibite stava proprio per chinare tristemente il capo. Era il tramonto di un’epoca, l’agonia dei popoli sotto la Monarchia multinazionale piegata dal peso immane della prima guerra mondiale. Un conflitto bellico che rivoluzionò la carta politica del mondo, fece cessare di esistere gli imperi, nascere nuovi stati, morire milioni di persone, scomparire altrettante e tutto ancora non è servito da monito all’umanità. Successe 90 anni fa. L’anniversario della cessazione del primo conflitto bellico su scala mondiale è stato celebrato dal Museo storico istriano di Pola con un’autentica iniziativa: niente indagini sulle operazioni belliche, niente statistiche o menzione di quel quadro bellico offuscato subito dall’attentato di Sarajevo ma un vero e proprio ritratto degli umori da imperial e regia era, una storia che si racconta attraverso tante piccole storie di squisiti oggettini anche tipicamente kitsch di illustre marchio K.u.K.. Sono stati esposti a centinaia al pubblico, da quest’estate in qua, al museo sul Colle Castello di Pola – mostra intitolata “Per l’imperatore e la patria (1914-1918)” – ed ora, da dicembre 2008, si trovano catalogati con tanto di narrazione sulla nobile o meno nobile funzione loro affidata per cercare di salvare la Monarchia e i suoi popoli in condizioni belliche. Finalità strategiche erano quelle di mobilitare tutte le risorse ufficiali dello stato al fine di garantire i mezzi per finanziare la guerra, mantenere riuniti i popoli della Monarchia, prepararli alle sfide ed ai sacrifici, alle cattive notizie dai campi di battaglia. È per questo che dei neo-istituiti uffici di stato idearono tutta una produzione e smercio di oggetti-souvenir da beneficienza. Nelle 360 pagine dello splendido catalogo appena pubblicato – redattore Davor Mandić, direttore dell’istituzione museale, autrice Katarina Pocedić con il contributo di Gordana Milaković – si trova concentrato un repertorio rappresentante una particolare espressione di solidarietà al popolo e devozione al sovrano e alla patria. Niente pretesa di analisi, come specificato dalla prefazione, ma disponibilità a mostrare una piccola parte di ricordi risalenti a tempi di sventura, di disgrazie e distruzione di beni di ogni genere, a partire dalle vite umane; illustrare l’altra faccia della guerra, il movimento della solidarietà dei soccorsi, l’impegno sociale nelle retrovie, una realtà caratterizzata da tutte le sue contraddizioni – aiutare la guerra e aiutare i propri soldati, gli infortunati civili. Fino al paradosso: il ministro alla guerra Franz Freiher von Schönaich, era anche amministratore del Fondo per l’aiuto alle vedove e agli orfani di guerra. IN QUESTO NUMERO Nell’autunno-inverno dell’anno appena concluso sono stati promossi diversi eventi per ricordare il 90.esimo anniversario della fine della Grande Guerra. Un conflitto sanguinoso – un’inutile strage, come la definì Benedetto XV – che rivoluzionò la carta politica del mondo, fece cessare di esistere gli imperi, nascere nuovi stati, morire milioni di persone, scomparire altrettante e tutto ancora non è servito da monito all’umanità. E che per le nostre terre, l’Istria, il Quarnero e la Dalmazia, sancì il tramonto definitivo del grande impero dell’aquila bicibite. L’anniversario è stato celebrato dal Museo storico istriano di Pola con una pregevole iniziativa, di cui ci parla in apertura e nelle pagine centrali di questo numero Arletta Fonio Grubiša. “Storia & Ricerca” di gennaio 2009 contiene però anche altri, si auspica altrettanto gustosi e interessanti, assaggi di opere volte al recupero della nostra memoria: Kristjan Knez (pagine 2 e 3) propone una serie di ricordi piranesi che parlano della vita e della storia di una cittadina – raccolti da Lidia Predonzani e tramandati ai posteri grazie a una pubblicazione promossa dalla “Famea Piranesa” –, mentre Denis Visintin (pagina 7) presenta tutti i pregi e l’importanza del “Vocabolario della parlata di Buie d’Istria”, fresco di stampa (Centro di Ricerche storiche di Rovigno). Marco Grilli si sofferma invece sulle fortune e la disgrazia dei principi di Veglia. In conclusione, un’altro anniversario, quello della Rivoluzione cubana. Buona lettura. La sofferenza della gente La guerra non si è mai limitata al fronte. Oltre alle vittime militari, portò la sofferenza della popolazione civile, lasciò dietro orfani, vedove di guerra, vecchi e feriti, soli e deboli, la rovina dei beni materiali. Il numero della popolazione colpita cresceva ininterrottamente alla pari delle spese per le operazioni sul fronte. È per questo motivo che – come raccontato nel catalogo – le strutture statali della Monarchia, costituirono già alla fine del 1914 delle organizzazioni specifiche per la raccolta di aiuti. DEL POPOLO Segue nelle pagine 4 e 5 e oc av r/l it.h .ed www storia e ricerca An no V • n. 35 • Lu 2009 nedì, 5 gennaio 2 storia e ricerca Lunedì, 5 gennaio 2009 INIZIATIVE Pagine in cui si ritrovano le chiese, le scuole, i negozi, le attività lavo Ricordi piranesi che parlano della Lidia Predonzani descrive situazioni ed aspetti che ormai sono di Kristjan Knez L’ espulsione della popolazione italiana dalle contrade dell’Istria, nel corso del secondo dopoguerra, ha provocato una frattura e una ferita che tuttora rappresentano una funesta pagina per tantissime persone. Perduti per sempre beni, averi, amicizie e la cornice in cui si è nati e cresciuti, non rimane altro che la memoria storica, impressa in ogni individuo. Per evitare che tanti aspetti del vivere quotidiano di un tempo cadano nell’oblio per sempre, la scorsa primavera è stato edito il volume “Ricordi. I ricordi sono come semi: possono germogliare…” (a cura della “Famea Piranesa”, pagine 189, Trieste 2008), un’opera di grande formato che raccoglie i testi di Lidia Predon- zani Izzo, la cui lettura rappresenta un percorso a ritroso tra le calli e le persone della Pirano che fu. “I ricordi sono pagine della nostra vita: e quelle liete si sovrappongono a quelle più tristi, le une e le altre formano la trama della nostra esistenza” (p. 128). Si apre così uno dei tanti scritti pubblicati dall’autrice, tra la metà degli anni Settanta ed i primi anni Novanta del seco- lo scorso, con l’intento di offrire ai Piranesi sparsi per il mondo alcune pagine di vita vissuta relative alla patria di Tartini. Si tratta di racconti, di storie “minori” e di note che per molti anni vennero pubblicati su “La Voce di San Giorgio”, la storica testata della parrocchia piranese che, a seguito degli eventi verificatisi nel secondo dopoguerra, a Trieste si era trasformata nel periodico degli esuli piranesi. Profondamente legata alla propria terra Lidia Predonzani (19181993) nasce a Pirano e trascorre gli anni della sua infanzia tra la città di San Giorgio e Portorose, ove suo padre, Giovanni, aveva fatto costruire l’“Hotel all’Antico Portorose” e che gestiva con particolare successo. Lidia abbandona gli studi per aiutare il babbo, mentre successivamente, con non poca fatica, decide di frequentare la scuola serale privata diretta dal prof. Antonio Sema, e grazie alla severa preparazione a Trieste può superare brillantemente l’esame. Nel 1939 sposa l’istruttore pilota Antonio Izzo con il quale rimarrà legata per tutta la vita. Nel 1949 avviene lo strappo definitivo dalla terra natia e ripara a Trieste assieme alla sua famiglia; nel 1954 accoglie anche l’anziana madre, mentre il padre era già passato a miglior vita. Come leggiamo nella nota curata dalla figlia Milli Izzo Caschi, sulla terza di copertina, la mamma si dedicava completamente alla famiglia ma al contempo sentiva il bisogno di rivedere la sua gente, quella stessa che era stata segnata dalle vicende dell’esodo, e proprio per tale ragione “sente l’impulso di scrivere di getto i ricordi, le sensazioni, tutto ciò che, a dispetto degli impegni quotidiani, le si affaccia continuamente e prepotentemente dal profondo dell’anima facendole rivivere il tempo ed i luoghi irrimediabilmente perduti ma incancellabili”. Mariuccia Pagliaro, sulla seconda di copertina, scrive: “leggendo quegli articoli, sembra di parlare con un amico con cui si condividono le memorie degli episodi che costellavano una quotidianità piena di fervore di vita. Una consolazione, o forse, l’illusione di far rivivere Pirano con la sua gente, con le sue usanze, per far conoscere anche ai più giovani il mondo che ci è stato tolto”. Così – sempre secondo la Pagliaro – ritroviamo Pirano, con le chiese, le scuole, i negozi, le attività lavorative, l’attracco dei vaporetti, e tante caratteristiche descritte ‘dal di dentro’” ma anche “(…) evoca gli affetti familiari, descrive i protagonisti di umili mestieri di una cittadina garrula, vivace che si evolveva nel tempo. Nella sofferenza nostalgica dell’esodo ha sentito il bisogno di rituffarsi nelle memorie con sentimento e struggimento per documentare, attraverso gli episodi, una realtà perduta per sempre”. La realtà quotidiana I testi proposti parlano della vita quotidiana, delle attività tipiche della zona, si soffermano sulla realtà di quella cittadina istriana “… in meso a l’onde / Come spinta da un martel”, come recita la nota melodia. Tanti sono gli argomenti e le storie toccati dalla nostra; in questa recensione non possiamo certo ricordarli tutti, ci limiteremo Franco Viezzoli, presidente della «Famea Piranesa», associazione che ha promosso questo È stato fatto un grande lavoro di recupero: riemerge tutto il «nos Per saperne di più sul volume contenente gli scritti di Lidia Predonzani, a Trieste abbiamo incontrato Franco Viezzoli, presidente della “Famea Piranesa”, al quale abbiamo chiesto di spiegarci i motivi che hanno portato la sua associazione a impegnarsi in un tale progetto editoriale nonché di indicarci quali sono i valori racchiusi in quei testi e quanto sia importante tramandare il ricordo della terra d’origine. Come nasce l’idea di pubblicare questo volume? “Questi racconti della signora Lidia Predonzani Izzo (scomparsa nel 1993) sono stati pubblicati periodicamente e per molti anni da ‘La Voce di San Giorgio’ ed erano ormai persi nel tempo, nel senso che erano chiusi nelle vecchie annate di quel giornale, perciò abbiamo ritenuto opportuno riproporli ai Piranesi e farli conoscere anche ad un pubblico più vasto. Io posseggo la raccolta del periodico, ho letto i suoi racconti e mi hanno colpito per la validità, per la puntualità nella ricostruzione del nostro mondo piranese prima dell’esodo, e subito ho avuto l’idea di pubbli- care questa antologia per valorizzare questo patrimonio che altrimenti, sicuramente, sarebbe stato dimenticato.” Avete incontrato particolari difficoltà nel confezionarlo? “No, per quanto riguarda i testi è stato un lavoro di recupero, e poi è stato fatto un lavoro di recupero anche dal punto di vista dell’immagine perché nel volume si contano circa 350 fotografie della nostra vita e della Pirano di un tempo, quindi è stata fatta una ricerca delle foto da abbinare ai testi. Questo è stato l’unico lavoro più impegnativo, per il resto abbiamo riportato i testi esattamente come sono stati pubblicati dall’autrice.” Gli scritti da voi riproposti per lunghi anni vennero pubblicati su “La Voce di San Giorgio”, con questa operazione editoriale li avete riuniti in una sorta di antologia, ma qual è il valore di questi contributi? “Il nostro piccolo mondo antico è proprio quello che abbiamo perso. Questo è il valore, il filo rosso che accompagna l’opera. Questo libro di ricordi, riporta ciò che noi quotidianamente vivevamo a Pira- no, e tutti i Piranesi dell’esodo si ritrovano in quegli scritti.” Quali sono i filoni preferiti da Lidia Predonzani? “In generale si tratta di ricordi: di scuola, delle amicizie, delle abitudini, degli usi e costumi, delle feste (il Natale, la Pasqua, San Giorgio, ecc.). È quasi una sorta di reportage di vita vissuta, che oggi ha ancora più valore perché è persa; se noi andiamo ad analizzare la dimensione che lei ha descritto, ci accorgiamo che essa non esiste più. Probabilmente non esisterebbe nemmeno se noi fossimo rimasti a Pirano, perché si sta parlando di un mondo di sessanta anni fa. Io stesso, che sono del 1937, mi ritrovo perfettamente in quegli scritti, certamente non vi si ritrovano le mie figlie e nemmeno le giovani generazioni che oggi vivono a Pirano in quanto quella era un’altra vita.” Qual è il messaggio, se c’è, che traspare da questi scritti? “Il messaggio principale è quello che si sarebbe dovuto evitare di far subire a questa gente, che era radicata in quelle terre da secoli, il dolore dell’esodo, perché per quel dolore molti anziani sono morti, anche di crepacuore. Vivere nella propria casa, nella propria campagna, cioè nel proprio habitat, e subito dopo ritrovarsi in un campo profughi credo sia uno shock non indifferente, che noi giovani abbiamo superato perché la vita poi ci ha portato a creare qualcosa di nuovo, mentre quelli più avanti con l’età si sono portati un dolore dentro che è perdurato per tutta la vita.” Il dolore dell’esodo e lo strappo che esso aveva generato viene affrontato dall’autrice? “L’autrice ne parla chiaramente. Lei stessa aveva vissuto una vita borghese, suo padre era proprietario di un piccolo albergo a Portorose, quindi, in un certo qual modo, era una benestante. Vedersi requisito l’albergo, dover venire a Trieste e lasciare tutto, e ritrovarsi a dormire tutti in una stanza, è stato un dramma per la sua famiglia, anche perché aveva rappresentato una vita che terminava bruscamente.” Con questo volume la “Famea Piranesa” ha contribuito a divulgare pagine altrimenti di difficile accesso. Qual è stato il riscontro che avete attenuto? “Per il momento il volume è stato diffuso solo tra i Piranesi dell’esodo, lo abbiamo inviato in Australia, in Canada, negli Stati Uniti, a tutti coloro che sono sparsi in Italia e poi lo abbiamo fatto avere anche alle biblioteche e agli istituti di ricerca. Il riscontro è stato ottimo, di grande gradimento, la gente si è complimentata con noi, in quanto era una cosa che si doveva fare. Non facendola si perdeva uno spaccato di vita piranese che è impossibile recuperare al un altro modo, e si può fare solo scrivendo.” Oltre al volume di ricordi la Famea Piranesa ha pubblicato anche il libro con gli schizzi piranesi del prof. Guido La Pasquala, si può parlare quindi di un’iniziativa volta a tramandare la memoria storica di Pirano oppure sono solo iniziative estemporanee? “No, direi che tutte le opere editoriali, sia de ‘La Voce di San Giorgio’ prima sia della ‘Famea’ ora, si inseriscano nel filone teso a registrare il passato, perché non ci storia e ricerca 3 Lunedì, 5 gennaio 2009 rative, l’attracco dei vaporetti e tante caratteristiche descritte «dal di dentro» vita e della storia di una cittadina tramontati del tutto, spazzati via dalla modernità a segnalare quelli che, a nostro avviso, si presentano come preziosi contributi per comprendere i tempi andati a Pirano oppure reputiamo siano testimonianze importanti che rimandano ad un mondo scomparso per sempre, poiché il venir meno della popolazione autoctona aveva alterato per sempre la fisionomia di quel centro adriatico, travolgendo così la società ivi residente con il suo patrimonio materiale ed immateriale. Quelle riflessioni pertanto esprimono un valore intrinseco, sono la testimonianza tangibile di una comunità e del- la sua secolare presenza, abbarbicata tra il colle di Mogoron e la Punta, accanto alla chiesetta della Madonna della Salute. L’autrice dedica i suoi scritti alla tradizionale tratta dei cefali, quando d’inverno, invocando Sant’Andrea, le barche si sistemavano a semicerchio e veniva calata la tratta, ossia una grande rete. Si trattava di un evento che per i pescatori piranesi rappresentava una vera e propria festa. Vengono presentati anche certi mestieri che oggi sono pressoché scomparsi, come “el gua”, cioè l’arrotino, lo stagnino, l’ombrel- progetto editoriale tro piccolo mondo antico» sono altri sistemi fuorché la scrittura. Anche nel nostro foglio trimestrale, ‘L’Eco de Piram’, rivolgiamo la nostra attenzione sì alle cose di attualità, nell’ultimo numero si parla, ad esempio, della beatificazione di don Francesco Bonifacio, ma ci soffermiamo soprattutto sui ricordi più che parlare del futuro, giacché il futuro è quello di tutti quanti, e non si scinde dal resto della popolazione d’Italia, mentre il passato si differenzia eccome, proprio per il fatto che noi abbiamo avuto una vicenda diversa.” Il titolo dell’opera recita “I ricordi sono come semi, possono germogliare”. Il volume è pertanto rivolto solo ai Piranesi dell’esodo, e si propongono determinati segmenti di vista vissuta con l’auspicio di far “germogliare i loro ricordi”, appunto, oppure è nel vostro interesse far conoscere la Pirano che fu anche ad un pubblico più vasto che spesso è digiuno di tanti aspetti del passato istriano? “Il volume è stato pensato in primo luogo per i Piranesi, naturalmente come ogni opera editoriale anche questa va letta e va dif- laio, la venditrice di prodotti in legno, come mestoli o appendini, e l’uomo della legna da ardere. Rammenta anche i “ciosoti”, ossia quegli uomini di mare provenienti da Chioggia, che con i loro bragozzi navigavano lungo l’Adriatico portandosi seco le più diverse derrate agricole, che variavano a seconda della stagione. “Allora – ricorda la Predonzani –, erano più usuali i trasporti via mare e, per i chioggiotti, trovarsi fra gli istriani, era come trovarsi fra amici. Nella stagione invernale, si proteggevano dal freddo indossando grossi maglioni, calzettoni di vari colori lavorati a mano, e le calzature erano costituite da zoccoli di legno che portavano in tutte le stagioni: un berretto di lana completava il loro semplice ma pratico abbigliamento” (p. 20). Accanto a queste famiglie provenienti dal mare vi erano anche le donne del “Carse”, che, dalle colline circostanti e dalla zona carsica oltre il Dragogna, raggiungevano Pirano con i loro prodotti agricoli stagionali, quasi sempre contenuti in un “pianer” vale a dire in un grande cesto dal fondo piatto che le stesse appoggiavano su una apposita ciambella (la cosiddetta “sessola”) che portavano in equilibrio sul capo. I pregi dell’opera fusa poiché solo in questo modo un volume viene conosciuto dalla gente ed aumenta di valore, mentre se rimane chiuso in un cassetto vale molto di meno. Perciò se il libro passerà di mano in mano, verrà letto e sarà conosciuto noi avremo raggiunto il nostro obiettivo.” Le descrizioni dell’autrice hanno il pregio di descrivere situazioni ed aspetti della vita che sono tramontati del tutto in quanto espressioni di un mondo che non esiste più, poiché spazzato via dalla modernità e da uno stile di vita diametralmente opposto. Pertanto quelle pagine contengono importanti elementi etnografici e storico-sociali che appaiono di indubbio interesse. E, naturalmente, non omette il lavoro nelle saline, l’attività di gran lunga più importante per la popolazione di quel comune. “Molte famiglie piranese, al sopraggiungere della primavera, caricavano sul- la barca le masserizie più utili e si trasferivano in Saline. La nostra gente, non conosceva, allora, periodi di ferie, estati facili, anzi, proprio questa stagione portava più lavoro per molti e, senza dubbio, per i saliferi. Per la produzione di questo prodotto così utile, che da sempre costituiva una fonte di ricchezza, era necessario il costante lavoro dell’uomo, aiutato da tanto sole, solo così il mare concedeva questo suo tesoro! I saliferi lavoravano protetti da larghi cappelli di paglia, vigilando che tutto procedesse bene: verso sera, all’infuocato tramonto estivo, brillavano le bianche collinette del sale: il lavoro di tante famiglie doveva riempire i capaci magazzini” (p. 31). Lidia Predonzani dedica non poche pagine alle festività religiose, si sofferma sul Natale, la Pasqua, la festa di San Giorgio o il Corpus Domini. A proposito di quest’ultimo evidenzia che in quella occasione la città conosceva una sosta di tutte le attività e già nei giorni precedenti la gente si impegnava a rendere accoglienti le vie urbane attraverso le quali sarebbe passata la processione. La medesima, come apprendiamo dalle parole della scrittrice, era lunga ed interminabile e “(…) si snodava lungo le vie della cittadina accompagnata da canti sacri, sottolineati, di tanto in tanto, dall’intervento sonoro della banda. Bambine bianco vestite, spargevano fiori che traevano dai canestri. Sui due piloni della piazza erano issati i gonfaloni cui risplendevano, con il loro garrire, il gran pavese delle barche. Intervenivano molti uomini indossando, a seconda delle confraternite, cappe di vari colori: i più forti, portavano a turno, il pesante crocifisso, seguivano gli altri recando gli arredi sacri” (p. 43). Altre pagine sono dedicate, ad esempio, all’incendio dell’idroscalo della S.I.S.A., ossia la Società Italiana Servizi Aerei di Trieste, a Portorose (1926), o al freddo inverno del 1929, caratterizzato da una violenta bora e dalla neve che aveva paralizzato ogni attività, con la colonnina del mercurio che scese a - 16°, o il tradizionale pellegrinaggio a Strugnano in occasione dell’Assunta o ancora il carnevale a Pirano i cui veglioni e balli si tenevano al teatro Tartini. La lacerazione dell’esodo Gli scritti toccano, però, anche la pagina dolorosa dell’esodo, cioè la cesura definitiva con la propria piccola patria. Quella era stata un’esperienza struggente che rimembrava con non poca fatica. “Assieme a quei mobili, buttati alla rinfusa su di un camion, me ne andavo con un bagaglio di ricordi che non mi avrebbe abbandonato mai: quelli lieti e sereni, legati agli anni più importanti della mia vita ascendente, poiché le abitudini, la formazione del mio carattere, il mio modo di essere l’ho assorbito dalla nostra Terra e dalla nostra gente (…)” (p. 74). “Il grande merito dell’autrice – sottolinea Franco Viezzoli, presidente della “Famea Piranesa” – è quello di prendere letteralmente per mano il lettore e la lettrice e accompagnarli in questo ‘viaggio della memoria’ rendendoli partecipi di tutte le sue emozioni, dei suoi entusiasmi, delle sue gioie, delle sue paure, delle sue sofferenze e del suo amore per un mondo irrimediabilmente perduto” I testi sono accompagnati da alcune centinaia di immagini, d’epoca e non, messe a disposizione da Franco Viezzoli, Rino Tagliapietra e dagli archivi della Famea Piranesa nonché da “La Voce di San Giorgio”, che arricchiscono ulteriormente il volume attraverso un corredo iconografico quanto mai pertinente ai temi affrontati. 4 storia e ricerca Lunedì, 5 gennaio 2009 Lunedì, 5 gennaio 2009 5 MOSTRE Il Museo civico di Pola ha ricordato con una mostra e un catalogo il tramonto di un’epoca, le sofferenze della Grande Guerra. E le iniziative «per l’imperatore e la patria» ZLATKO MAJNARIĆ «Gott mit uns», dicevano gli Asburgo ma non salvò il loro impero multietnico» di Arletta Fonio Grubiša Dalla prima pagina Oltre alla Rotes Kreuz-Croce rossa (che si occupava dei soldati feriti e malati al fronte), l’Ufficio per i sussidi di guerra del Ministero agli affari interni (con il compito di risolvere i problemi privati, giuridici, finanziari degli ufficiali e militari lontano da casa) e l’Ufficio per l’approvvigionamento bellico del Ministero alla Guerra con la sezione per la raccolta dei viveri, la sezione per la raccolta delle materie prime e quella per la raccolta del denaro che avviarono svariate iniziative al fine di aiutare soldati, invalidi, vedove e orfani di guerra. Sono tre organizzazioni ufficiali per la guerra con simbolo l’aquila d’oro a due teste ed una croce rossa al centro. Oltre a queste operavano tutta una serie di associazioni nazionali (per gli aiuti alla Polonia, per i profughi della Galizia, della Bukovina, i militari feriti della Boemia ecc.). Tutte queste organizzazioni si occupavano di attività caritative e fornivano informazioni sulla situazione al fronte organizzando nel contempo manifestazioni pubbliche finalizzate alla raccolta di denaro molto ben accette dal popolo. Iniziative promosse nel corso di tutta la guerra (“Per i militari al fronte”, “La protezione dal freddo”, “Il Natale al fronte” ecc.) presentavano un connotato specifico, una particolare espressione di solidarietà umana che come segnalato dagli storici non trovò più eguali né durante la seconda guerra mondiale né in circostanze belliche successive. L’Austria-Ungheria non pensava solo ai propri soldati ma correva in aiuto per un pasto al fronte anche alle forze militari alleate. I generi alimentari allora più richiesti erano tè, cioccolato, biscotti, dolci vari, zucchero, fette biscottate, formaggio duro, conserve, tabacco, mentre fra gli oggetti in uso c’erano pipe, carta per tabacco, accendini, temperini, matita e carta da lettere. Articoli donati e considerati particolarmente preziosi, erano invece, il sapone, le medicine, la biancheria da letto e l’abbigliamento. Fino alla fine di marzo del 1917 furono raccolti doni per un valore di 45.583,000 corone, mentre la merce fu trasportata al fronte dentro 125.721 scatole in 978 vagoni. La guerra in Austria causò un completo collasso del commercio estero e quindi si verificarono problemi nel rifornimento delle materie prime, specialmente nell’industria della lavorazione del metallo e in quella della produzione tessile, nonché nella produzione della gomma, ovvero di quello di cui l’industria bellica aveva più bisogno. Il metallo si raccoglieva sui campi di guerra, le miniere precedentemente chiuse venivano riaperte. L’Ufficio avviò anche la raccolta della lana, di tessuti e caucciù. Non c’era comune nel quale non sia stato organizzato un servizio adibito allo scopo. Fu selezionata la lana per la stoffa militare, per il confezionamento di uniformi e coperte, mentre i tessuti lavorati venivano donati agli invalidi, alle famiglie dei caduti, ai profughi e ai prigionieri. Si raccoglievano le materie prime per le scarpe e si provvedeva alla loro riparazione (iniziative “Diedi l’oro per il ferro”, “Iniziativa per le scarpe nuove” ecc.) Guerra e inflazione hanno imposto anche la raccolta di denaro. I negozi e luoghi pubblici di Vienna vennero dotati di cassette per fare incetta di contributi e le famiglie si videro consegnare scatolette adibite al risparmio pro Patria. Ed è appunto con la strategia della vendita degli oggetti recanti i simboli dell’amor pa- trio che si riuscì a contribuire al sostentamento e alla sopravvivenza in guerra. Si vendevano anelli, fregi per cappelli, distintivi, medaglie, targhe, ciondoli, polsini, nastri, busti, statue, francobolli, cartoline e vari oggetti d’uso e decorativi. La popolazione amava acquistare questi oggetti tanto che l’Ufficio per l’approvvigionamento bellico aprì in breve tempo le proprie sezioni per lo smercio in tutte le maggiori città della Monarchia e così anche a Pola, principale porto di guerra austroungarico. Grossa adesione La popolazione di Pola e dell’Istria partecipò attivamente alla raccolta degli aiuti per i soldati e le loro famiglie alla pari del resto della Monarchia. La sede della Società della Croce Rossa di Pola, che si trovava al 204 di Via San Policarpo, contribuiva alla racolta di ogni genere di aiuti, alla pari delle organizzazioni viennesi, ed attraverso settimanali, informava la cittadinanza del proprio operato (denominazioni “d’effetto”usate al tempo: I doni della Croce rossa ai soldati di Pola, Ricordiamoci a Natale dei nostri eroi, Le cartoline ufficiali da guerra ecc.) Nel corso del 1914 e 1915 la racolta di denaro filò liscia, ma negli anni successivi fu un tonfo a causa dell’inflazione galoppante. Ne finirono colpite le categorie più povere della popolazione. La pensione di una vedova da guerra ammontava a 45 corone, allora appena bastevoli all’acquisto dei viveri più fondamentali. Un esempio attinto dagli autori del catalogo: il prezzo del pane bianco a Pola nel 1914 ammontava a 64 heller e verso la fine della guerra arrivò a 1,20 corone, dunque, con la pensione di cui sopra ci si poteva limitare a condurre una vita di solo pane. Si attinge a testimonianza quanto riportato su di un periodico dell’epoca (1914): “D’ora in poi l’importo di 150 cassette della sezione della Croce rossa di Pola e l’importo finora ricavato dai cinematografi “Edison”, “Leopold” e “Minerva” come pure del Club di calcio “Olimpia” e della pista di pattinaggio “Excelsior” verranno devoluti in parti uguali a favore della Croce rossa (...) per i sussidi di guerra (...) e altri doni per i soldati al fronte, da parte dei reggimenti istriani”. Gli oggetti di beneficienza venivano, venduti nei numerosi negozi e cartolerie della città. Dato che Pola era il porto principale austrougarico, la maggior parte degli oggetti recava i motivi dei marinai e delle navi da guerra. Qui si acquistavano i francobolli con le immagini dei sovrani alleati, le cartoline raffiguranti i campi di battaglia, anelli di ferro, ciondoli e molti altri oggetti ornamentali. È interessante che tutti questi avevano una duplice funzione se non contradditoria, quella umanitaria e quella di propaganda bellica, di celebrazione del Kaiser, delle alleanze, delle battaglie importanti. Gli studiosi polesi ora ne sottolineano il loro forte valore storico-culturale ed anche artistico proprio in considerazione del contesto storico in cui sono stati prodotti e utilizzati. I nastri Dal punto di vista artistico i nastri risultarono essere gli oggetti più caratteristici prodotti per le necessità dell’approvvigionamento bellico ai tempi della prima guerra. Apparvero per la prima volta a metà secolo XVIII, poi caddero nell’oblio per venire ripescati dalla Monarchia e amati quali “Vivatbänder”, nastri di saluto per celebrare i successi bellici. Venivano fabbricati con la seta industriale (all’epoca molto pregiata), in svariati colori e in serie di dieci pezzi. Motivi e scritte sui nastri seguivano il corso degli avvenimenti bellici, riportavano impressi personaggi di guerra, mezzi di trasporto e di guerra “modernissimi” (zeppelin, aerei, sommergibili). Erano un prodotto molto interessante, ma non accessibile a tutti. Un’intera serie di un determinato tipo di nastri costava 8 corone. Il museo di Pola espone 12 reperti di questo tipo oggi, molto rari da trovarsi sul mercato delle opere d’arte e per tanto più che preziosi. Le medaglie e le targhe Gli oggetti più preziosi venduti per le necessità del rifornimento bel- lico erano però le medaglie e le targhe fabbricate secondo i modelli dei migliori medagliai austriaci. Di solito sul dritto era impressa l’immagine del sovrano, di qualche comandante dell’esercito o altro personaggio importante e la data di qualche avvenimento da celebrare. L’Austria in fatto di fabbricazione di medaglie deteneva una lunga tradizione già dal XIX secolo, mentre all’inizio della guerra diede il via ad una iper-produzione. Il soggetto più rappresentato? L’imperatore Francesco Giuseppe I, figura d’identificazione della Monarchia, più tardi il suo successore Carlo I, ben presenti poi marescialli, ammiragli, i sovrani di altri paesi alleati (Guglielmo II, l’imperatore tedesco, Ferdinando I, l’imperatore bulgaro Maometto V, il Sultano turco) i ministri della guerra, generali ecc. Non solo illustri signori esistenti ma, spesso, sulle medaglie figuravano anche immagini di creature fantastiche e divine. Impressi poi nomi, slogan, destinazione della medaglia con sigla dell’autore mentre il rovescio era solitamente destinato alle scritte propagandistiche delle organizzazioni che si occupavano di rifornimenti per il fronte. Alcune, atte davvero a provocare sentimenti di beneficenza, persino immagini di feriti, vedove o orfani. Quanto alle scatole (rettangolari o quadrate) per medaglie, parlano da sè: all’inizio erano fabbricate in pelle con decorazioni in oro e velluto, più tardi prevalentemente in cartone. Stesso destino di svalutazione di materiali toccato anche alle medaglie, prima coniate in ottone o argento poi in lega di ferro e zinco, e venivano identificate come “resti del materiale da guerra”. La collezione polese conta una cinquantina di medaglie d’epoca. Decorazioni per copricapi, distintivi e ciondoli Le decorazioni per i copricapi (Kappenabzeichen) comparvero subito prima e nel corso della Prima guerra nomdiale. All’inizio erano puri ornamenti per copricapi militari e appena nel 1916 divennero ufficiali, parte integrante dell’uniforme sul campo di battaglia e nelle retrovie. Erano di gran effetto propagandistico e come tali diffusi su vasta scala dall’Ufficio per l’approvvigionamento bellico. Identica svalutazione come per le medaglie: i primi fregi erano di ottone e rame, poi in ferro e zinco. Forme prevalentemente rotonde e rettangolari ma anche di fiore, croce, scudo e altro. Data la multinazionalità della Monrachia, sulle decorazioni ci figuravano scritte in varie lingue, comunque, prevalevano il tedesco e l’ungherese. Slogan più frequenti: “Per l’imperatore e la patria”, “Viribus Unitis”, “Dio è con noi” ecc. Distintivi, ciondoli e polsini venivano realizzati nello stesso materiale con motivi e forme identici. Si ritiene che all’epoca siano stati prodotti all’incirca 2000 differenti oggettini di questo tipo. Il museo di Pola ne conserva 78, fonte singolare per svariate ricerche araldiche e storico-culturali. Oggetti d’uso e ornamentali Data la lunga durata del conflitto e la carestia di metalli la produzione di oggetti destinati alla raccolta di sussidi venne indirizzata ad altri tipi di materiale, innanzitutto, alla porcellana. Prodotti di questo materiale come quelli di vetro o legno avevano uno straordinario valore propagandistico. Venivano venduti come souvenir e quindi li troviamo per tutta la Monarchia austroungarica. All’inizio gli oggetti destinati alla beneficenza erano di porcellana pregiatissima, ornata d’oro, fabbricate nelle note manifatture austriache poi finirono per essere prodotti in fabbriche anonime con materiale più scarto, prive di logotipo e decorazioni dorate. Erano articoli che si potevano acquistare come servizi o anche come singoli pezzi. I motivi erano dei sovrani mentre il resto dell’ornamentazione era rappresentata da simboli di forza, unità, longevità e potenza. Tradizionalmente usati i colori austriaci dell’imperatore (nero e giallo) e della Monarchia (rosso e bianco). Era detto simbolismo chiamato ad agire sul morale dei popoli austroungarici. Accanto agli oggetti in ceramica e vetro (tazze, bicchieri, brocche, vasi, piatti, mortai e altro) si vendevano anche oggetti di metallo (busti, statue, orologi, scatole, copie di armi, forbici, portacerini), oggetti in legno (pipe, targhe ricordo, ventagli) e oggetti di carta (carte da gioco, buoni per i contributi volontari, carta da sigarette). Quanto all’iniziativa “Diedi l’oro per il ferro” ebbe come risultato anche una grossa produzione di anelli imperiali in metallo. Il fondo da museo conta oltre il centinaio di oggetti di questo genere. Le cartoline postali Il 1.mo orttobre 1869 è data storica per la filatelia. L’amministrazione postale viennese mise in commercio la prima cartolina postale denominata “CorrespondenzKarte”, molto accessibile al popolo perchè il costo di spedizione era della metà inferiore a quello delle lettere. Nei soli primi tre mesi furono vendute tre milioni di copie. Con lo sviluppo delle tecniche fotografiche e di stampa (rilievografia, litografia, cromolitografia, fototipia e altro) le prime cartoline nude e solo con informazione scritta, cedettero il posto a quelle con l’immagine di provenienza stampate negli anni 1880. Si ritiene che l’epoca d’oro delle cartoline postali fosse durata dal 1897 al 1918. Normalmente anche gli uffici ai sussidi immisero sul mercato le loro serie propagandistiche. Risultano essere particolarmente numerose le cartoline di Pola, con i motivi del porto, del varo delle navi, della flotta da guerra austroungarica, delle manovre militari con scene di vita dei marinai (gli equipaggi, il carico di carbone sulla nave, la guardia notturna, la manutenzione dei cannoni navali, il carico e la calata in mare delle scialuppe ecc.). Dette pubblicazioni nella maggior parte dei casi hanno come modello le opere artistiche di noti pittori austroungarici “ufficiali” (Kircher, Heusser, Seits, Straka) con raffigurazioni della flotta di guerra, di fabbricazione e varo delle navi, scene di battaglie navali. L’organizzazione polese della Croce rossa era estremamente attiva nella stampa di cartoline. Anzi, gli storici di Pola specificano che l’ufficio po- lese della Croce rossa fu quello che pubblicò il maggior numero di cartoline fotografiche della Monarchia. È per questo che la collaborazione con i più noti e rinomati atellier fotografici polesi fu molto intensa. Oggetti d’occasione per vari anniversari É ai tempi del governo dell’Imperatore Francesco Giuseppe I (18481916) che fu prodotta la maggior parte degli oggetti destinati ai sussidi bellici. Qui inclusi oggetti prodotti in occasione di varie ricorrenze (gli anniversari del suo governo, quelli dell’incoronazione e quelli in memoriam dopo la sua morte). Nel corso degli ultimi due anni di guerra, la produzione di oggetti pro sussidi, inizia a decadere, si sente l’inflazione, lo stato e la società cadono in una crisi profonda, inizia la decadenza di quella che una volta era stata una gloriosa e potente Monarchia. 6 storia e ricerca Lunedì, 5 gennaio 2009 SCHEGGE Famiglia che svolse un importante ruolo politico, culturale e sociale Ascesa e declino di un nobile e noto casato i «De Frangipanibus», principi di Veglia di Marco Grilli I Frankopan, principi di Veglia (Krk), svolsero un importante ruolo politico, culturale e sociale nel medioevo croato (XIIXVII secolo). Non vi sono certezze sulle origini di questi feudatari locali, uomini d’arme e di fede, letterati e mecenati. Secondo il “De Gente Frangepana” (XVI sec.) del frate agostiniano Onofrio Panvinio, questa dinastia proverrebbe dall’antica stirpe romana Anicia; d’opinione contraria il delegato della Repubblica veneta a Veglia, Antonio Vinciguerra, che nell’”Information delle cose di Vegla” (fine ‘400) dichiarò l’origine croata e locale della famiglia. La prima residenza dei conti pare il castello di Gradec Rovoznik, presso Verbenico; il loro capostipite, Doimo, ricevette la contea dell’isola di Veglia in possesso vitalizio da Venezia, forse nel 1118. Il nome “De Frangipanibus” fu assunto solo nel 1430 circa, quando Nicola IV ricevette la notizia della discendenza romana da Papa Martino V ed i Frangipani romani autorizzarono l’uso del nome e dello stemma. L’arma antica dei Frankopan aveva fondo bianco e rosa, con stella d’oro sul fondo rosa; dal XV sec. questo stemma fu sostituito con quello dei Frangipani romani, con due leoni ritti sulle zampe posteriori che reggono due pani. I Frankopan iniziarono a firmarsi “De Frangipanibus” nei documenti latini e “De Frankapan” in quelli croati. Acquisizioni territoriali e rapporti con Venezia I principi di Veglia, svolgendo un ruolo di mediazione tra le potenze dell’epoca, Venezia e l’Ungheria, estesero ben presto i propri possedimenti territoriali. Nel 1193 il Re ungaro-croato Bela II cedette la Contea di Modrus, il Diploma del Re Bela IV (1251) confermò il possesso della Contea di Modrus e del Vinodol, mentre nel 1271 Guido IV ottenne la carica di Podestà della città di Segna. Il territorio dei Frankopan si estese all’intera Croazia occidentale e questi potenti signori del Regno ungarocroato s’imparentarono con le più importanti casate reali europee. La storia dei Frankopan è ricca d’attriti nei rapporti con la Serenissima, basti pensare alla perdita del feudo di Veglia dal 1244 al 1260, dovuta al fatto che Venezia non tollerava gli ingrandimenti territoriali dei conti ed il loro rapporto di vassallaggio con l’Ungheria. Esiste anche una fitta documentazione veneta (1261-1358) sulle violazioni degli obblighi imposti ai conti (es. giuramento di fedeltà, pagamento del tributo ecc.). I Frankopan restarono a capo dell’isola fino al 1480, anno della destituzione di Giovanni VII. I principi di Veglia intervennero spesso anche nelle lotte di successione al trono ungaro-croato ed ebbero ben sette nomine a Bano (governatore) di Croazia tra i membri della loro dinastia. Per un breve periodo ressero anche Fiume (restituita col patto del 1365) come pegno per un prestito effettuato da Bartolomeo VIII in favore di Giorgio di Ugone dei Duino, in guerra coi conti di Gorizia. Il dominio territoriale sul castello di Tersatto durò invece dal XIII sec. al 1530, anno in cui la proprietà passò agli Asburgo che nominarono i propri Capitani Reali. Il patriottismo nei fatti d’arme Come uomini d’arme i Frankopan dimostrarono sempre il loro patriottismo, schierandosi apertamente contro i Tartari prima (nel 1242 Federico I e Bartolomeo III finanziarono e composero un esercito, vittorioso a Grobnico), ed i turchi poi (nella Battaglia di Corbavia del 1493, in cui perì la miglior nobiltà croata, morì Ivan IX mentre Nicola VI fu fatto prigioniero). Dopo questo triste evento, che comportò l’esodo della popolazione dai territori della Lika e del litorale adriatico, Bernardino di Ozalj riferì sul pericolo turco alla Dieta di Norimberga (1522), definendo la Croazia scudo e porta della cristianità. Rilevante la figura del condottiero Krsto I Frankopan di Brinj (1482-1527), già generale di un corpo d’armata al servizio dell’Imperatore Massimiliano I nella guerra contro Venezia per il possesso dell’Istria e del Friuli (1508-1514), Capitano del Carso e di Adelsberg dal 1511, distintosi poi nelle battaglie contro i turchi, al servizio del re ungarocroato Ludovico II. Non va trascurato anche il ruolo culturale e giuridico dei conti di Veglia. Sotto il primo punto di vista favorirono la cultura slava scrivendo principalmente in lingua croata e con l’alfabeto glagolitico; nel secondo caso emanarono importanti Statuti in grado di regolare la vita politica, civile, sociale ed economica dei comuni medioevali. Il glagolitico, antico alfabeto slavo (fine IX sec.) derivato dai caratteri del greco corsivo, fu utilizzato nelle scritture pubbliche ed ecclesiastiche, contribuendo all’affermazione dell’individualità politico-culturale croata. Fondamentale è il Codice di Vinodol (Novi, 1288), un elenco di diritto comune croato scritto nel dialetto ciakavo ed in caratteri glagolitici, redatto da una commissione di rappresentanti dei nove comuni (Novi, Lednice, Bribir, Grizane, Drivenico, Heljin, Buccari, Tersatto e Grobnico). Il testo è oggi custodito alla Biblioteca universitaria di Zagabria Nicola IV «il grande» La potenza dei Frankopan fu portata all’apice da Nicola IV “il grande” (1352-1432) che riuscì ad unire tutti i possedimenti territoriali (Veglia, Vinodol, Segna, Gacka, Drzenik, Cetinje). Fondatore del Monastero paolino a Crikvenica (1412), fu eletto Bano nel 1426. Dopo la sua morte, nel Convegno di Modrus (1449) prevalse la linea di Giovanni VII: il patrimonio fu diviso in otto signorie e sorsero quattro dinastie differenti (Cetinje, Ozalj, Slunj, Trzac). Per i Frankopan si avviava la decadenza, il loro ruolo politico-economico fu progressivamente rilevato dagli Zrinski, nobile famiglia originaria della Dalmazia. In seguito all’atto di successione reciproca (1544), stipulato tra Stefano IV di Ozalj e suo cognato Nicola Zrinski, nel 1577 i conti Zrinski acquisirono il Gorski Kotar e gran parte del Vinodol. Il XVI sec. vide l’estinzione di tre branche familiari dei Frankopan: Cetinja (1543), Slunj (1572) e Ozalj (1577). La rivolta e la fine della dinastia (1671) La fine della dinastia è legata alla lotta dell’aristocrazia croata al centralismo asburgico (1671). I croati, desiderosi di maggior autonomia, mal tolleravano l’assolutismo ed il mercantilismo della Corte di Vienna, che nel 1664 a Vasvar aveva stipulato una pace segreta coi turchi. Petar Zrinski, Bano di Croazia, dal 1669 preparò una rivolta armata al cui capo fu posto il cognato Fran II Krsto Frankopan. Vani furono però i vari contatti diplomatici; la congiura fu soffocata sul nascere e i due rivoltosi furono arrestati e poi decapitati (30 aprile 1671, Novo Mesto, Fortezza di Wiener Neustadt) per crimine di lesa maestà. Tutte le proprietà Zrinski-Frankopan furono confiscate dalla Camera Reale Ungherese entro l’agosto 1670; con la fine del potere dell’aristocrazia locale nel Gorski Kotar e sul Litorale svanirono anche i sogni croati d’autonomia. La morte di Petar e Fran II Krsto fu considerata dal popolo come un eroico sacrificio compiuto per la libertà. Fran II Krsto, l’ultimo Frankopan, fu anche il poeta più importante del cenacolo di Ozalj; celebri e tristemente profetici i suoi versi: “...Chi muore con onore vive per sempre”. Il suo canzoniere “Gartlica za cas kratiti” (Giardino per ingannare il tempo) univa l’ispirazione colta e l’interesse per le tradizioni popolari, conciliando le differenze dialettali (caicavo, ciacavo, stocavo) in un linguaggio comune. Ferventi cattolici I principi di Veglia,ferventi cattolici, sostennero nel corso della loro storia gli ordini religiosi. Lo testimoniano tre luoghi dell’area quarnerina: Tersatto, Crikvenica e Kosljun. Sul colle di Tersatto, dove secondo la leggenda il 10 maggio 1291 apparve la Casa della Sacra Famiglia, Nicola I Frankopan fece erigere una cappella già alla fine del XIII secolo. Martino IV, ottenuta la licenza da Papa Niccolò V, fece costruire la chiesa (1453) ed il convento dove furono ospitati i francescani del vicariato bosniaco. Oggi il Santuario di Tersatto, la “Nazareth croata”, è un’importante meta di pellegrinaggio; al suo interno si trovano le tombe di Martino IV, Nicola VI e Nicola IX mentre lo stemma Frankopan è ben visibile in cima al portale frontale destro. L’odierna Crikvenica, centro turistico del Litorale, si è sviluppata intorno ad un convento di paolini fatto costrure dai Frankopan (1395-1412). Importante nu- cleo di cultura e educazione, il convento fu chiuso nel 1786. Oggi è un moderno hotel della costa. Nell’isoletta di Košljun (Isola di Veglia) spicca invece il convento francescano; i seguaci del Santo d’Assisi vi presero dimora nel 1447 grazie al sostegno di Martino IV e Giovanni VII. La nuova chiesa fu costruita tra il 1480 ed il 1523 e fu completata grazie al lascito di mille ducati di Caterina, figlia dell’ultimo conte di Veglia Giovanni VII. Quest’ultima, morta in esilio a Venezia, è qui sepolta dal 1529 secondo la sua volontà testamentaria. La stele si trova sulla parete sinistra della chiesa; nel 1920 la tomba fu profanata dagli Arditi di D’Annunzio alla ricerca del tesoro Frankopan. Le fortezze L’area quarnerina presenta numerose fortezze appartenute ai principi di Veglia; alcune di queste (Buccari, Grobnico, Portorè, Hreljin, Drivenik, Bribir, Grizane, Ledenice, Novi Vinodolski) rientrano nel progetto regionale di salvaguardia e riqualificazione culturale economica e turistica “Le vie Frangipane. Merita una citazione il castello “NovaKraljevica Frankopan” a Portorè, voluto dal già citato Petar Zrinski nel 1650 c.a. come castello residenziale sulla penisola all’entrata della Baia di Buccari. Di piante rettangolare con torri angolari circolari, è in stile rinascimentale con dettagli barocchi, come la nota cisterna posta al centro dell’atrio che presenta il duplice stemma Frankopan e Zrinski (la torre con le ali). Molto probabilmente costruito da veneziani, il “Nova-Kraljevica Frankopan” fu arredato con grande sfarzo e rivestito di marmo bianco e nero; si ritiene che esso sia stato il centro della cospirazione del 1670. Dopo la spoliazione dell’esercito austriaco,fu impiegato come caserma, ospedale per la “Malattia di Skrljevo” (1818), sede del noviziato dei gesuiti (1883-1894) ed ancora caserma nelle due guerre mondiali. Oggi ospita RadioPortorè, vari enti ed è sede dell’“Estate Frankopan”, ricca di manifestazioni culturali. Continuare nella valorizzazione storica di questi castelli renderebbe merito alla dinastia che per lungo tempo ha caratterizzato la storia croata, incarnandone gli ideali e lo spirito. storia e ricerca 7 Lunedì, 5 gennaio 2009 LIBRI «Vocabolario della parlata di Buie d’Istria» (CRS di Rovigno) Marino Dussich, fondamentale recupero di una parlata che sta per spegnersi di Denis Visintin S eguendo una prassi ben consolidata, la nostra storiografia da tempo sta dando ampio spazio alla storia regionale ed alla microstoria locale. Stiamo così assistendo alla riscoperta o alla venuta alla luce di nuove cognizioni storiche e alla lettura e rilettura della storia secondo metodiche d’indagine fortemente attuali. E sono soprattutto gli studiosi di nuova generazione, liberi da qualsiasi pregiudizio, ad invadere gli archivi alla scoperta di notizie e documenti atti a dare una interpretazione della storia quantomai equilibrata e corretta.Tutto ciò ha portato a generare una serie di nuove conoscenze storiche, rimettendo in discussione o confermando quelle già di nostra conoscenza. “Vocabolario della parlata di Buie d’Istria” di Marino Dussich – numero 29 della collana degli Atti del Centro di Ricerche storiche di Rovigno – è un’opera d’eccelso valore, di una storia e di una cultura importanti, di una comunità con un decorso storico in cui la vita comunitaria era regolata da usi e consuetudini antiche, formatesi sotto l’influenza delle varie presenze culturali, civiche e umane che Il volume ci porta a compiere un lungo viaggio storico, geografico e culturale, che dalla cima di quel campanile il cui suono era ed è tuttora di riferimento al comprensorio, abbraccia l’orizzonte i cui casolari ricordano sia insediamenti e abitati sparsi d’antica origine, sia quelli frutto di immigrazioni, appoderamenti ed edificazioni più recenti si sono susseguite dall’antichità alle epoche recenti. Un volume che giunge quasi a coronamento di un sogno, secondo un percorso iniziato dall’autore una trentina d’anni fa. Un percorso che si è concluso felicemente grazie alla comprensione dimostrata dal prof. Giovanni Radossi e dal CRS di Rovigno che egli dirige e che ha dato alle stampe un volume fondamentale sia per i futuri studi in materia sia per chi, in un modo o nell’altro, s’impegna e s’impegnerà ancora nello studio e nella tutela del patrimonio locale. Parlare di quest’opera sembra facile ma non lo è. Infatti, essa più che un’opera dedicata alla parlata buiese, riassume le cognizioni storiche e culturali su questa località istriana. Raccolti tutti i tesselli di una realtà specifica È un’opera d’importanza fondamentale per lo studio e la comprensione della storia e della cultura buiesi, ricche di contenuti che si esprimono mediante alcuni degli elementi caratterizzanti la buiesità, il suo patrimonio culturale e l’identità storica, dei quali la parlata locale ne è l’elemento più rappresentativo. Quest’ultima si identifica in quel dialetto buiese che echeggiava fortemente sia nelle contrade che nelle campagne fino a qualche lustro fa – e che oggi si trova ahimè sulla via dell’inesorabile estinzione culturale –, ma tuttora importante veicolo di comprensione, talvolta anche, che si creda o no, internazionale. Il poeta Lino Dussi ne è testimone diretto, in quanto per farsi meglio comprendere alcuni anni fa, in una conferenza in Spagna, usò questa sua lingua materna. L’autore del “Vocabolario”, Marino Dussich, appartiene a una delle famiglie di antica residenza, in cui si usa tuttora questo dialetto, e nella quale, come nelle altre oggi esistenti a Buie, si è prestata e si presta ancora particolare attenzione alle tradizioni locali. E forse è stato proprio questo fatto a indurlo molto spesso ad andare “controcorrente”, intraprendendo iniziative favorevoli principalmente allo sviluppo e alla tutela del patrimonio culturale buiese. In questo contesto s’inserisce anche il fortunato e apprezzabile progetto che ha portato alla realizzazione di questo volume, dedicato a una parlata che sta lentamente togliendo il disturbo. Il progresso e i continui mutamenti linguistici, acceleratisi vorticosamente nell’ultimo secolo di storia regionale e sopratutto negli ultimi decenni, stanno cancellando un continuum storico plurisecolare. Un dialetto spesso trascurato Al dialetto buiese non sono state dedicate molte pubblicazioni. Tuttavia, le preesistenti all’odierna opera sono meritevoli di cenno. Trattasi della “Terminologia agricola di Buie d’Istria”, che valse un premio alla prof.ssa Franca Cimador al Concorso “Istria Nobilissima”, e del “Piccolo dizionario della terminologia dialettale usata particolarmente a Buie”, uscita dalla “penna” dello studioso e tutore del patrimonio sacro di Buie, Benedetto Baissero. Altrettanto importanti le opere letterarie dialettali. Si necessitava però di una marcia in più, di un qualche cosa di maggior consistenza che servisse per l’appunto a salvare almeno in parte questa parlata, e sopratutto a Buie. E questa marcia ce l’ha data appunto Marino Dussich. Questo volume rappresenta un significativo tentativo teso a delineare una fisionomia storica della comunità buiese, all’interno di un percorso che l’autore con il suo contributo intende affermare, testimoniare e riproporre sullo scenario della storia. Dall’alto di quel caparbio colle, ricordato nell’iniziale poesia di Lino Dussi, Marino ci porta a compiere un lungo viaggio storico, geografico e culturale, che dalla cima di quel campanile il cui suono era ed è tuttora di riferimento al comprensorio, abbraccia l’orizzonte i cui casolari ricordano sia insediamenti e abitati sparsi d’antica origine, che quelli frutto di immigrazioni, appoderamenti ed edificazioni più recenti. Buie ha dato vita ad una delle più importanti e meravigliose civiltà contadine della penisola, molto spesso all’avanguardia nel campo delle innovazioni agricole. Una civiltà che si esprimeva nelle proprietà di piccolo e medio spessore, la cui fisionomia agraria iniziava all’interno delle mura cittadine, sede delle abitazioni sia dei proprietari sia di gran parte dei mestieranti agricoli, e iniziava ad allargarsi esternamente nelle immediate prossimità della cinta muraria, per proseguire lungo i declivi collinari e le vallate, abbracciando tutto il territorio in cui vi erano le loro proprietà, terminando il suo percorso nelle piazze di mercato di Trieste, Pirano, Capodistria, del Friuli, della Carniola e di Venezia, in cui confluivano i pregiati frutti della terra, questi ultimi espressi nel volume con la variante terminologica locale, con nomenclature in cui si rivivono i nomi delle piante, delle erbe, degli insetti e degli animali tipici, e degli attrezzi agricoli. Espressione di una meravigliosa civiltà contadina istriana Di questa dimensione agraria nel volume si ricordano alcune importanti testimonianze della memoria storica buiese: la Cantina sociale, l’oleificio di San Giacomo, che come altri spazi urbani e architettonici di grande valore ci riportano a un tempo lontano in cui l’agro di Buie primeggiava nella penisola. La dimensione urbana e agraria si uniscono in un tutt’uno nell’elencazione toponomastica delle delle piazze, delle vie, delle contrade, delle campagne, facendo tesoro degli studi espressi da alcuni dei massimi studiosi istriani in materia. Le rivelazioni toponomastiche ben si prestano all’uso della storia, conservando i toponimi buiesi, tracce del periodo romano, bizantino, alto e basso medievale, moderno. Vengono alla luce mestieri e professioni, praticate per lo più da gente d’origine friulano-carnica, una volta vanto della località e oggi soltanto un appassito ricordo. In quest’opera Marino Dussich ripercorre la storia della sua località, riassumendone gli usi e i costumi, le tradizioni sia laiche che religiose, i giochi, l’onomastica, i soprannomi. Affronta problemi e aspetti di fondamentale importanza per la storia di Buie: l’aspetto sociale, l’assistenziale, l’economico, il culturale ed lo storiografico, insomma tutta una sfilza di temi che rasentano la complessità storica locale, e che testimoniano la vivacità della vita che si svolgeva al suo interno, creando una premessa per esaminare al meglio in un futuro, che si spera prossimo, la specificità locale, in primo luogo quella linguistica. Allo stesso tempo riassume alcuni degli aspetti profondamente esaminati e chiariti dalla storiografia, giungendo così a un punto d’arrivo, lasciando d’altra parte aperti molti interrogativi su cui sia la scienza storica sia quelle ausiliarie dovranno prima o poi soffermarsi. E qui mi riferisco agli aspetti etnografici, a quelli musicali, alle costumanze, alle consuetudini, alle usanze e al folclore, argomenti finora scarsamente considerati, e per il cui studio questo “Vocabolario” fornisce degli ottimi spunti. Un coraggioso atto d’amore In questo volume ci sono circa sei-settemila voci, tre cartine e moltissime foto d’epoca, una cronologia storica, le appendici grammaticali, l’elenco alfabetico della casata d’appartenenza del “soranomi”, alcune poesie, i proverbi ed i modi di dire buiesi. Insomma, con la pubblicazione di questo volume si viene a colmare una grossa lacuna nell’ambito della tutela del patrimonio culturale locale, sentita soprattutto dagli studiosi, che così si vedono assegnare un formidabile veicolo che li aiuterà a comprendere ancora meglio i lati nascosti della microstoria buiese, auspicando l’organizzazione di un corso dedicato al recupero di questa nostra parlata, e invitando i buiesi ad ulteriori contributi per recuperare le voci mancanti in questo Vocabolario, per giungere un giorno alla pubblicazione di una sua seconda edizione ampliata. Chiaramente, questo di Marino non è un tentativo scientifico, ma un coraggioso atto d’amore di un appassionato ricercatore innamorato della sua località. Il patrimonio e la storia di una località infatti si salvano soltanto con l’amore verso la propria cittadina, considerando che l’identità di Buie è il risultato di un lungo percorso storico. Ed in questo senso non siamo privi di esempi. Basti pensare al vecchio cimitero di San Martino ed al patrimonio sacro, che ha visto, forse unico esempio in Istria, impegnate tutte le anime buiesi. Una città senza storia e senza le tracce della sua memoria storica è una città senz’anima. Vista così la cosa, il volume che qui presentiamo assume un’importanza ancora maggiore. Rispettando i valori e la storia di una comunità si contribuisce al rinnovo dei suoi connotati, e questa pubblicazione indica con forza una strada da percorrere. 8 storia e ricerca Lunedì, 5 gennaio 2009 ANNIVERSARI Il primo gennaio ’59 Castro entrava a Cuba Cuba, ultimo baluardo del comunismo cinquant’anni fa trionfava la Revolución L a Rivoluzione cubana sta resistendo da mezzo secolo e i nuovi dirigenti annunciano che continueranno a “lottare” anche nei prossimi 50 anni, tenendo sempre presenti i più umili. Lo ha annunciato il presidente Raul Castro in occasione della celebrazione del 50.esimo anniversario della Rivoluzione, rendendo un caloroso omaggio al fratello Fidel. È infatti iniziata il 2 e continuerà fino al prossimo 8 gennaio una “carovana” che ripercorre per tutta l’isola il percorso liberatore fatto dai membri dell’Esercito Ribelle, da Santiago di Cuba, sino a L’Avana, consolidano la sconfitta della dittatura di Fulgencio Batista. Il 1.mo gennaio 1959, infatti, Batista rassegnava le dimissioni, lasciando il paese; il giorno seguente le prime colonne di guerriglieri entraravano nella capitale: quelle di Ernesto Che Guevara e di Camilo Cienfuegos a La Habana, a Santiago de Cuba quelle di liberato in seguito ad un’amnistia nel 1955 e riparerà in Messico. Assieme al fratello Raul e all’argentino Ernesto Guevara, detto “Che”, aveva dato vita al “Movimiento 26 de Julio (Movimento 26 luglio), la cui prima direzione nazionale era composta da Fidel, Melba Hernández, Haydee Santa Maria, Antonio Ñico López, Pedro Miret Prieto, José A. “Pepe” Suárez, Pedro Celestino Aguilera, Faustino Pérez, Armando Hart, Luis Barreto Milián, Jesús Montané e Juan Manuel Marquéz. Tra gli altri esponenti che presero parte al “Movimiento” vi furono Ernesto Che Guevara, Camilo Cienfuegos, Raúl Castro, Juan Almeida Bosque, Celia Sánchez, Huber Matos, Carlos Franqui, Raúl Chibas, Abel Santamaría, Frank País, Raúl Martínez Ararás, Josué País, Efigenio Ameijeiras, Osmani Cienfuegos, Ramiro Valdés, Renato Guitart, José Pardo Llada, Teodulio Mitchel, Pedro di colore, il 2 gennaio Fidel pronunciò il primo discorso al Paese, proclamando la vittoria della rivoluzione. Non era ancora del tutto vero, ma quasi: entro una settimana le operazioni militari si concluderanno e il giorno 8 Fidel entrerà all’Avana da trionfatore. Nasceva così la Cuba che tutti conoscono, destinata a diventare l’ultimo (o quasi) baluardo del comunismo nel mondo, incubo di molti presidenti americani. Infatti, ben dieci proveranno ogni tipo di azione per abbattere la Rivoluzione cubana. Dal blocco economico ai vari tentativi effettuati dalla CIA – come comprovato da numerosi documenti ufficiali recentemente resi pubblici dagli stessi statunitensi – per assassinare Fidel Castro e altri dirigenti. A distanza di 50 anni, da quel giorno, le conquiste e le storture della Rivoluzione, continuano ancora a far discutere, accendere gli animi e nuovi interrogativi. Ora che Fidel è uscito di scena, e che il mito è decisamente ingiallito, in quale direzione proseguiranno gli “eredi” della Revolución? Fulgencio Batista, il «migliore amico» degli americani Fidel Castro. Dopo due anni di combattimenti si concretizzava il sogno di José Martí Pérez (politico, poeta e scrittore, nel gennaio del 1892 aveva fondato il Partito rivoluzionario cubano che si poneva come obiettivi l’indipendenza dell’America Latina dall’imperialismo spagnolo e statunitense, l’organizzazione della lotta armata nella guerra di liberazione e il rifiuto di ogni forma di segregazione razziale): il popolo di Cuba avrebbe potuto decidere da solo del proprio futuro. Nel 1953, centenario della nascita di Martì, il 26 luglio, uno studente universitario di nome Fidel Castro Ruz, militante del Partido Ortodoxo (riformista radicale, ma anticomunista), guidò l’assalto alla caserma Moncada di Santiago. L’attacco fallì e molti dei combattenti vennero torturati dopo la cattura ed uccisi sommariamente. Malgrado la sconfitta, l’assalto al Moncada dimostrò che a Cuba esisteva un gruppo capace di preparare e compiere un’audace azione di guerriglia, senza che la polizia di Batista, considerata onnipresente ed inattaccabile, si accorgesse di nulla. I superstiti furono condannati a pene detentive nel super carcere dell’Isola dei Pini. In occasione del suo processo Fidel Castro trasformò la sua autodifesa “La storia mi assolverà” in un atto di accusa del regime. Verrà Luis Boitel Abraham e Manuel Artime. Questo nucleo rivoluzionario si proponeva di riprendere la lotta armata nell’isola. Il 2 dicembre 1956, con un manipolo di ottanta uomini trasportati dal piccolo yacht – il mitico “Granma” –, Fidel Castro sbarcò clandestinamente nella provincia cubana di Oriente, dove stabilì una prima base guerrigliera sulla Sierra Maestra. Nonostante alcuni rovesci iniziali, il movimento guadagnò terreno nel corso del 1957, trovando appoggi tra i contadini della Sierra, colpiti dalle rappresaglie delle truppe di Batista. La svolta decisiva, che segnò il successo della rivoluzione, si dovette al fallimento della massiccia offensiva di Batista dell’estate 1958 nella Sierra Maestra, seguito dal diffondersi della guerriglia nelle province centrali e occidentali dell’isola, mentre il movimento si collegava con le forze dell’opposizione clandestina delle città. Il 7 novembre Fidel Castro lasciò la Sierra per lanciare la campagna finale contro le truppe di Batista: in poco più di un mese i partigiani castristi occuparono numerosi centri urbani iniziando l’accerchiamento di Santiago e aprendosi la strada verso L’Avana. Incalzato dagli eventi, il 1.mo gennaio 1959 Batista rassegnerà le dimissioni. A Santiago, ex-capitale e seconda città dell’isola, con popolazione a maggioranza Zucchero, sempre zucchero, null’altro che zucchero: Cuba si trasformò in un paese di monocoltura, senza mai avere il tempo e il modo di industrializzarsi. La conseguenza era che qualsiasi manufatto doveva essere acquistato all’estero. Il ricavato dall’esportazione dello zucchero era quasi completamente indirizzata verso “lo zio Sam”, per cui quanto più era lo zucchero cubano acquistato dagli USA, tanto maggiore era la quantità di beni di consumo che a sua volta Cuba poteva acquistare negli Stati Uniti, dalle Cadillac agli alimenti in scatola. Per una cinquantina d’anni, il sistema funzionò più o meno bene. Ma, negli anni ‘50 si verificò un intoppo. Il governo cubano decise di limitare la produzione di zucchero, in ragione delle restrizioni poste alle vendite all’estero: il mercato nordamericano preferiva lo zucchero prodotto localmente, dai coltivatori statunitensi di barbabietole. Tuttavia, se la produzione cubana doveva per forza di cose venire ridotta (e con essa le importazioni, poiché dipendevano strettamente dal volume delle esportazioni), la sua popolazione continuava a crescere. Pertanto, di pari passo con l’incremento demografico aumentarono i mali tradizionali dell’isola. Gli Stati Uniti, che alla fine del secolo scorso avevano costretto l’isola a produrre quasi null’altro che zucchero, proposero una “soluzione” politica ai problemi economici. E tale soluzione aveva un nome proprio: quello di Fulgencio Batista, a proposito del quale Arthur Gardner, per quattro anni ambasciatore degli Stati Uniti all’Avana, affermerà “non abbiamo mai avuto un amico migliore”. Ma chi era Fulgencio Batista agli occhi dei cubani? Il 5 settembre 1933 il sergente Batista aveva guidato il “colpo di stato dei sergenti”, rovesciando il governo provvisorio di Carlos Manuel de Céspedes, diventando Capo di stato maggiore dell’esercito; nell’ot- tobre 1940, a soli 39 anni, venne eletto presidente. La prima presidenza di Batista venne funestata dall’aggravarsi dei problemi economici, dai malumori dell’esercito, dal basso prezzo della canna da zucchero (e dall’indisponibilità statunitense ad aumentarlo), dai problemi sociali, dallo scoppio della seconda guerra mondiale. Dopo una “breve parentesi”, ritornò al potere il 10 marzo 1952, con un colpo di stato che abbatté il presidente eletto nel 1948, Carlos Prío Socárras. Il nuovo governo fu subito riconosciuto dagli Stati Uniti e superò tutti i governi precedenti dell’isola per la sottomissione e nella concessione delle ricchezze ai nordamericani. La sua politica consisteva nell’accentuare le ricchezze per i monopoli a detrimento dei settori nazionali e soprattutto della popolazione povera. I casinò, i postriboli, i clubs e i bar divennero centri di divertimento per ricchi e mafiosi provenienti dal nord. Batista stabilì un ferreo controllo su sindacati ed esercito, reprimendo ogni opposizione. Gli investimenti americani ed il fiorire del turismo diedero, in effetti, una prosperità che Cuba non aveva mai conosciuto, ma la crisi economica degli anni cinquanta, la corruzione di Batista e i rapporti che il dittatore intratteneva con la mafia fecero crescere l’opposizione al regime, soprattutto tra gli strati più poveri della popolazione, tra i favorevoli ad una democrazia liberale, che consideravano la sua dittatura illegale e tra i pensatori marxisti della classe media. Il dittatore e i suoi collaboratori fuggirono nella notte del 31 dicembre del 1958 a Miami, senza pagare mai per quei 20 mila morti uccisi durante la presidenza di Batista e il saccheggio della proprietà pubblica. Nato povero a Banes, nell’oriente cubano, il 13 gennaio del 1901, Batista morira, immensamente ricco, a 72 anni, a Marbella, in Spagna, il 6 agosto del 1973. Anno V / n. 35 del 5 gennaio 2009 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ Supplementi a cura di Errol Superina Progetto editoriale di Silvio Forza / Art director: Daria Vlahov Horvat edizione: STORIA E RICERCA Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Impaginazione: Denis Host-Silvani Collaboratori: Marco Grilli, Arletta Fonio Grubiša, Kristjan Knez e Denis Visintin Foto: Marco Grilli, Arletta Fonio Grubiša, Kristjan Knez e archivio La pubblicazione del presente supplemento viene supportata dall’Unione Italiana grazie alle risorse stanziate dal Governo italiano con la Legge 193/04, in esecuzione al Contratto N° 83 del 14 gennaio 2008, Convezione MAE-UI N° 2724 del 24 novembre 2004