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Criminalità organizzata ed economia illegale.
Criminalità organizzata ed economia illegale. (Risoluzione del 24 luglio 2002) Il Consiglio superiore della magistratura nella seduta del 24 luglio 2002 ha adottato la seguente risoluzione: 1. Premessa: ambito dell’argomento e finalità dell’intervento Negli ultimi anni è maturata la consapevolezza che i fenomeni criminali – primo fra tutti quello della mafia – devono essere affrontati anche sul versante economico e finanziario. Nel campo delle politiche della prevenzione e della repressione ciò impone significative innovazioni delle normative e delle prassi, un adeguamento delle professionalità e delle strutture, prima fra tutte quella giudiziaria, ed una continua verifica dei risultati. L’espansione dei mercati illegali, accentuata dall’insorgere di forme di criminalità transnazionale, ha evidenziato i crescenti pericoli derivanti dall’accumulazione di immensi capitali di origine criminale, in grado di inquinare l’economia e le istituzioni politiche e finanziarie sia nei paesi progrediti sia in quelli in via di sviluppo. Sempre più spesso, perciò, negli ultimi anni si è sentito dire – in sedi istituzionali e non – che è divenuta necessità indifferibile, dopo aver indagato a lungo soprattutto sulle “mafie” militari, affrontare questo versante del crimine, misurandosi sulla ben più impegnativa frontiera dei circuiti del riciclaggio locale ed internazionale. Il problema del riciclaggio (e, in generale, dell’inquinamento del sistema finanziario ad opera di capitali di origine illecita), impostosi all’attenzione delle autorità italiane e comunitarie all’inizio degli anni Novanta, è giunto pertanto a costituire uno dei temi più caldi tanto nelle sedi istituzionali quanto nell’opinione pubblica. Nel riciclaggio dei proventi illeciti va riconosciuto il ruolo primario della criminalità organizzata che, in Italia come nel resto del mondo, controlla ricchezze ingentissime e le impiega nei circuiti finanzia ri ed economici grazie ad una fitta trama di collusioni con professionisti ed intermediari, ambienti della pubblica amministrazione, affaristi e manager interessati e compiacenti. Alla riscoperta della criminalità dei colletti bianchi e delle sue interazioni con il crimine organizzato si affianca la diffusa consapevolezza che la stessa criminalità mafiosa, entrando in “mercati” ad essa tradizionalmente estranei, si appropria dei modelli operativi della criminalità economica e finanziaria, adattandoli ai pr opri, in un combinato esercizio di corruzione, minaccia e violenza. Questo denaro sporco segue i percorsi tradizionalmente adoperati dalla criminalità degli affari per assicurarsi i proventi dei reati economici (frodi, bancarotte, etc.) in primo luogo le frodi fiscali. E non di rado si verificano alleanze e sinergie nel riciclaggio dei proventi delle più disparate attività illecite e si scopre che i medesimi canali vengono utilizzati da proventi della droga e di traffici contrabbandieri, da prezzi di corruzioni, da proventi di frodi fiscali e da illecite captazioni di risorse pubbliche. Gli ultimi avvenimenti della scena mondiale hanno, infine, evidenziato che anche le organizzazioni terroristiche si finanziano con i profitti di attività criminali e ne sfruttano la rete finanziaria. La reazione a tutte queste forme di illecito comporta quindi un approccio unitario, attese le analogie delle condotte e delle minacce all’integrità dei mercati. Nel nostro paese le organizzazioni criminali tradizionali (così come le cd. mafie emergenti) non hanno tardato a cogliere le opportunità derivanti dalla finanziarizzazione della ricchezza, perseguendo sofisticate tecniche di occultamento e gestione dei propri proventi. Ma, insieme a queste forme più evolute di anonimizzazione del denaro sporco, si ritrova una vasta gamma di reimpieghi ed investimenti “tradizionali” dei proventi criminali. Il quadro che ne deriva è quanto mai articolato e frammentato: agiscono e si espandono uno accanto all’altro “mercati criminali” diversi, tradizione ed innovazione, attività parassitarie ed imprenditorialità mafiosa, investimenti tradizionali ed operazioni in sofisticati prodotti finanziari. Un dato è certo: le “politiche” di riciclaggio e di reimpiego del denaro, dei beni e delle altre utilità di provenienza delittuosa costituiscono una ragione e un obiettivo primari dell’agire di qualsivoglia soggetto criminale, con una caratteristica costante: per conseguire questa finalità viene perseguita e sviluppata una politica di alleanze (fondata su collusioni e corruzione) con il coinvolgimento di soggetti e ambienti apparentemente estranei agli ambienti degli autori dei reati da cui i proventi illeciti derivano. Poiché questa vocazione economica e finanziaria della criminalità è un elemento unificante di svariate forme di delittuosità, è andata crescendo, sia nelle sedi internazionali (Onu, Gafi, UE) sia nel dibattito interno, la consapevolezza di dover affrontare il fenomeno del riciclaggio dei proventi criminali in relazione a tutte le più gravi manifestazioni, con il superamento della originaria delimitazione dell’ambito dei cd. reati presupposti. Al tempo stesso sono state messe in discussione alcune scelte di politica criminale non più attuali, come ad esempio il principio della non punibilità dell’autore del reato presupposto, scaturito – nell’ordinamento interno – dalla collocazione tradizionale dei delitti di riciclaggio tra i reati contro il patrimonio, mentre è apparsa indifferibile l’adozione di una legislazione premiale specificamente orientata a questo settore. Si è poi aperto tra gli esperti un importante confronto sull’efficacia del dispositivo antiriciclaggio vigente, sulla qualità delle risposte investigative e giudiziarie e sull’efficienza degli organismi amministrativi (Tesoro, UIC, etc.). I pericoli derivanti dall’ingresso nel mercato legale dei proventi criminali dei grandi traffici illeciti vengono pienamente avvertiti dall’opinione pubblica, che coglie anche le insidie provenienti da fenomenologie proprie della cd. criminalità degli affari (frodi fiscali, abusi degli amministratori, insider, bancarotte, corruzione, etc.) anch’esse produttive di rilevantissimi proventi bisognosi di essere “ripuliti” (in passato lungamente sottovalutate e relegate all’ambito della cd. cifra oscura della criminalità economica). Può dirsi, comunque, che il riciclaggio rimane nel suo complesso una realtà polivalente, che tuttora è spesso trattata in maniera non adeguata. Esso, infatti, non è fenomeno in cui possa pensarsi di esaurire l’azione di contrasto nel campo della sola normazione e dell’investigazione. Ed invero, nella letteratura e nei documenti specialistici sull’argomento (1 ) sono riscontrabili almeno tre significati diversi del termine in parola: Ø riciclaggio inteso come condotta; Ø riciclaggio inteso come risultato; Ø riciclaggio inteso come processo. Il primo (riciclaggio come condotta) poggia sulla definizione che ne dà la legge penale e può essere considerato l’approccio naturale di coloro che operano nelle istituzioni preposte dall’ordinamento al contrasto del fenomeno. Il secondo significato (riciclaggio come risultato ) concentra l’attenzione sul momento di separazione del provento criminoso dalla sua origine, indipendentemente dal modo in cui l’evento si realizza. Tale ultimo aspetto è definito “stratificazione” (layering), ovvero momento di <separazione dei proventi illeciti dalla loro origine>. La terza accezione (riciclaggio come processo) dà conto di molti aspetti che i due precedenti approcci tralasciano di evidenziare. Essa individua globalmente <l’insieme di alternative di scelta> che si offrono al criminale -riciclatore, accomunate fra loro soltanto dal fatto di essere volte alla legalizzazione del provento illecito per un suo successivo investimento. Questa fase, detta di “integrazione” (integration), serve ad <introdurre la ricchezza di origine criminale nell’economia legale> ed è quella più pericolosa, giacché dopo questo passaggio si perde ogni traccia della originaria natura illecita. Tutti gli esperti concordano, comunque, nel dire che l’obbiettivo del contrasto al riciclaggio può essere tanto più efficace quanto maggiore è la conoscenza del fenomeno nel suo complesso. Un elemento fondamentale per qualsiasi approfondimento è costituito in modo certo, intanto, dalla individuazione delle dimensioni quantitative del sistema nel cui ambito possono realizzarsi condotte di riciclaggio. 1 Cfr., R. Righetti: “Tecniche di occultamento della ricchezza da parte delle organizzazioni criminali”, in I soldi della mafia – Rapporto ’98 (a cura di L. Violante), Ed. Laterza, 1998, pag. 61 segg. A tal fine, appare opportuno segnalare che, secondo una stima del 1997 fatta dal Fondo Monetario Internazionale, la cd. industria del crimine muoverebbe ogni anno circa 500 miliardi di dollari USA (pari al 2% del PIL mondiale). Giova anche precisare che, ovviamente, in tale stima sono ricomprese tutte le attività connesse alla utilizzazione di capitali illegali, senza distinzione alcuna tra fondi di origine propriamente criminale e fondi di semplice provenienza “oscura”. Comunque, anche con tali limiti oggettivi, la stima possiede un indubbio valore intrinseco, consistente nella perimetrazione dell’ordine di grandezza del problema, per il cui migliore apprezzamento sembra utile soggiungere – a titolo comparativo – che la “movimentazione complessiva” annua (entrate-uscite) dell’intero sistema italiano degli intermediari abilitati ad operare è pari, ad esempio, a soli 37.500.000 miliardi di vecchie lire (2 ). Ancora in tema di percezione delle dimensioni quantitative del fenomeno, va pure indicato che il “giro d’affari” delle associazioni mafiose “storiche” italiane è stato quantificato (al 1997) in 108.100 miliardi di vecchie lire (3 ), così suddiv iso per tipologia di attività economiche: • • • • • • (in miliardi) droga 50.200 impresa 14.000 prostituzione 4.340 estorsione-usura 11.500 armi 4.060 altro 24.000 totale 108.100 (4 ). Un altro elemento meritevole di evidenziazione consiste nel fatto che l’attività di contrasto incontra la basilare difficoltà nascente dalla estrema varietà delle modalità operative concrete delle condotte di riciclaggio, circostanza che impone quindi, di volta in volta, una verifica empirica. Si vuole dire che non si riscontra un modello costante per occultare l’origine dei fondi criminosi, bensì una serie di strumenti operativi mutevoli e spesso combinati fra loro. La crescente complessità dei mercati finanziari, poi, fornisce al criminale innumerevoli percorsi ed opzioni utilizzabili per lo scopo. In conseguenza di ciò, la stessa nozione penale di riciclaggio si è ampliata, passando da un contesto di specifico “contrasto al riciclaggio dei proventi dell’attività della criminalità organizzata ” ad una più generale accezione di “contrasto al riciclaggio dei proventi di qualunque forma di illecito produttivo di ricchezza”, che possa essere destinata all’inserimento nei circuiti finanziari ( 5 ). In tal modo, reati quali concussione, corruzione, malversazione, falso in bilancio, evasione fiscale hanno fatto il loro ingresso nel sistema repressivo e di vigilanza anti-riciclaggio, rendendo sempre più difficoltoso scindere i casi collegati all’attività propria della criminalità organizzata da quelli riconducibili ad altre forme di illecito. I capitali caldi (hot money) che circolano sui mercati non sono formati, quindi, solo di profitti accumulati dalle associazioni criminali, ma anche di molti altri flussi di diversa origine illegale. Giova sottolineare, però, che i percorsi di tali flussi non si differenziano in relazione all’origine dei capitali, in quanto il sistema economico-finanziario è sostanzialmente neutro rispetto alle diverse origini e finalità. 2 cfr. R. Righetti, op. cit., pag. 64. fonte: <Il Mondo>, n° 21, 31.5.1997. 4 La ripartizione del totale (108.100 miliardi di vecchie lire) tra le organizzazioni criminali italiane è la seguente: 1) Camorra - 36.200 mld.; 2) ‘Ndrangheta – 33.500 mld.; 3) Cosa nostra – 31.520 mld.; 4) Nuova Sacra corona unita – 6.880 mld. (fonte: <Il Mondo> cit.). 5 Basta confrontare, sul punto, il testo dell’art. 648 bis c.p. (ex lege 19.3.1990 n° 55) “chiunque sostituisce denaro, beni o altre utilità provenienti dai delitti di rapina aggravata, di estorsione aggravata, di sequestro di persona a scopo di estorsione o dai delitti concernenti la produzione o il traffico di sostanze stupefacenti….” con il vigente testo dello stesso articolo (ex lege 9.8.1993 n° 328) “chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo ….” per cogliere la profonda trasformazione concettuale sottostante. 3 Preso atto, pertanto, dell’assenza di un modello unitario dell’attività di riciclaggio, appare sempre più necessario concentrare l’azione di contrasto nella ricerca empirica di singoli modelli specifici. Da un tale scenario discende la necessità di un approccio tendenzialmente unitario alla cd. economia criminale ed alle sue più insidiose manifestazioni, quali – ad esempio – quelle rappresentate dall’impresa mafiosa. In questo contesto, dunque, trae origine e si dispiega l’iniziativa della Xª Commissione, scaturita appunto dall’opportunità di affrontare l’impatto sulle strutture giudiziarie di tali complessi fenomeni, i cui risultati saranno riportati in prosieguo. 1.1 Delineato questo complesso quadro, la Xª Commissione deliberava l’apertura della presente pratica, per la cui istruzione ha proceduto a numerose audizioni di magistrati e di altri soggetti istituzionali (sia in Roma sia nelle sedi giudiziarie locali), all’acquisizione di copiosa documentazione già prodotta sull’argomento nonché ad un accurato monitoraggio presso tutte le D.D.A. sulla base di un formulario di domande, che compendiava parametri ritenuti importanti. A tal fine, si riprometteva di monitorare la situazione negli uffici giudiziari per verificare, da un lato, il grado di consapevolezza del problema (e di conseguente organizzazione) soprattutto nel settore delle D.D.A.; e, dall’altro, per promuovere interventi volti a socializzare eventuali prassi virtuose ed a migliorare l’organizzazione ed il funzionamento degli uffici preposti dall’ordinamento a contrastare il fenomeno. I lavori della Commissione sono consistiti, in special modo, in una lunga attività di audizione nel corso della quale sono stati ascoltati (soprattutto nel primo semestre dell’anno 2001) i seguenti esperti e magistrati: 1. il Dott. ………., Dirigente del Servizio di Vigilanza della Banca d’Italia; 2. il Dott. ……………, Capo del Servizio Antiriciclaggio dell’Ufficio Italiano Cambi; 3. il Procuratore Nazionale Antimafia dott. Piero Luigi Vigna ed il Sostituto D.N.A. dott. Pier Luigi Maria Dell’Osso; 4. il Procuratore della Repubblica di Milano, dott. Gerardo D’Ambrosio, ed il Procuratore Aggiunto (delegato alla D.D.A.) dott. Ferdinando Pomarici; 5. il Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano, dott.ssa Giuliana Merola; 6. il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Brescia, dott. Giancarlo Tarquini; 7. il Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Brescia , dott. Roberto Pallini; 8. il Procuratore Aggiunto di Torino, delegato alla D.D.A., dott. Maurizio Laudi; 9. il dott. Alberto Bernardi, Presidente della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Torino; 10. il Procuratore Aggiunto di Venezia, dott. Michele Dalla Costa, delegato alla D.D.A.; 11. il Procuratore della Repubblica di Genova, dott. Francesco Meloni, il Procuratore Aggiunto dott. Giancarlo Pellegrino ed i sostituti D.D.A. dott.sse Canepa e Nanni; 12. il Presidente del Tribunale di Genova, dott. Antonino Di Mundo, ed il Presidente di sezione dott. Fenizia; 13. il Procuratore Aggiunto di Bologna, dott. Italo Materia, delegato alla D.D.A.; 14. il Presidente del Tribunale di Bologna, dott. Antonio Cricchio ed il dott. Luigi Di Bari, giudice nello stesso Tribunale; 15. il Procuratore della Repubblica di Firenze, dott. Antonino Guttadauro ed il sostituto D.D.A. dott. Luca Turco; 16. il Presidente del Tribunale di Firenze, dott. Antonio Maci; 17. il Procuratore della Repubblica di Roma, dott. Salvatore Vecchione e la dott.ssa Lucia Lotti, sostituto D.D.A.; 18. il Presidente del Tribunale di Roma, dott. Luigi Scotti; 19. il dott. Felice Di Persia, Procuratore Aggiunto, delegato alla D.D.A. di Napoli; 20. il dott. Antonio Gialanella, giudice della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Napoli; 21. il dott. Luigi Apicella, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Salerno (mentre il Presidente del Tribunale di Salerno, dott. Francesco Vitiello, si è limitato ad inviare una relazione scritta); 22. il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Bari, dott. Emilio Marzano ed il Procuratore Aggiunto, dott. Giovanni Colangelo; 23. il dott. Angelo Domenico De Palma, Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Bari; 24. il dott. Rosario Colonna, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lecce ed il Procuratore Aggiunto, delegato alla D.D.A., dott. Cataldo Motta; 25. il Presidente del Tribunale di Lecce, dott. Giuseppe Tuccari ed il Presidente di sezione dott. Elio Romano; 26. il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Calabria, dott. Antonino Catanese ed il sostituto D.D.A. dott. Nicola Gratteri; 27. il Presidente del Tribunale di Reggio Calabria, dott. Giuseppe Lo Presti ed il Presidente della Sezione Misure di Prevenzione dott. Giacomo Foti; 28. il Procuratore Aggiunto della Repubblica di Catanzaro, dott. Vincenzo Calderazzo; 29. il Procuratore della Repubblica di Palermo, dott. Pietro Grasso; 30. il Presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, dott. Cesare Vincenti; 31. il Procuratore Aggiunto della Repubblica di Caltanissetta, dott. Francesco Paolo Giordano; 32. il Presidente del Tribunale di Caltanissetta, dott. Vittorio Eraclide Lo Presti ed i Presidenti di sezione che si occupano delle misure di prevenzione, dott.ri Pietro Falcone e Carmelo Zuccaro; 33. il Procuratore della Repubblica di Catania, dott. Mario Busacca ed il Procuratore Aggiunto dott. Vincenzo D’Agata; 34. il Presidente del Tribunale di Catania, dott. Benito Vergari ed il Presidente della sezione misure di prevenzione dott. Antonino Giurato; 35. il dott. Luigi Croce, Procuratore della Repubblica di Messina; 36. il Presidente del Tribunale di Messina, dott. Giuseppe Suraci ed il giudice della Sezione misure di prevenzione dott.ssa Maria Pino. Venivano poi attentamente analizzate le risposte al questionario sopra ricordato, inviate dalle D.D.A. di Trieste, Trento, Cagliari, Ancona, Perugia, L’Aquila, Campobasso e Potenza, i cui rappresentanti non era stato possibile, purtroppo, audire per mancanza di date utili ad una visita. Si è, pertanto, raccolta una notevole mole di informazioni sullo stato attuale della criminalità economica (in senso ampio), con riguardo alle diverse forme di manifestazione in cui la stessa si espleta ed alle differenti caratteristiche di operatività territoriale, e l’indagine ha costituito, altresì, l’occasione per fare il punto sulle modalità del contrasto posto in essere dalle Forze dell’Ordine e dalla Magistratura nei singoli distretti (senza perdere l’occasione per verificare l’idoneità degli organici a fronteggiare il fenomeno). 1.2 Ciò premesso, al fine di meglio rappresentare le principali problematiche in modo ordinato, appare opportuno muovere dalla presentazione del fenomeno dell’impresa mafiosa, chiarendo il significato intrinseco del concetto, gli assetti giuridici di cui si serve nonché i vantaggi prodotti dal suo operare. Ci si concentrerà, poi, sul fenomeno del riciclaggio, di cui si evidenzieranno le dimensioni giuridiche e sociali, non omettendo di fare il punto sulla normativa esistente al fine di suggerire possibili integrazioni ed aggiustamenti legislativi. Seguirà una analisi dello stato attuale del fenomeno (sempre da considerarsi in rapporto di species a genus nell’ambito della criminalità economica) della pressione della criminalità organizzata sull’economia legale, la quale si concreta soprattutto nei delitti di usura ed estorsione, spesso connessi tra di loro. Per ognuno dei considerati fenomeni verranno messe in luce le caratteristiche peculiari legate al territorio in cui essi prendono corpo, il che – come si vedrà – consentirà di affermare che, se unico è il modello legale di delitto, molteplici possono essere le forme di estrinsecazione concreta dello stesso e che dette forme, negli aspetti quantitativi e qualitativi, mutano per lo più al variare della zona geografica teatro dei fatti. A tali aspetti si accompagnerà un’attenta verifica di quale sia al momento (e di quale sia stata negli ultimi anni) la risposta sul piano della prevenzione, con riferimento soprattutto all’impiego, da parte degli addetti ai lavori, delle misure preventive di carattere patrimoniale; avendo sempre riguardo a tutte le aree geografiche italiane ed avendo cura di distinguerle in tre fasce territoriali. Allo studio dell’esistente seguirà un tentativo di individuazione delle principali carenze del sistema attuale, con naturale e consequenziale finalità di sensibilizzare le competenti istituzioni per porvi rimedio. 2. Le imprese mafiose: multiformità del concetto Il termine “impresa mafiosa” non esprime un concetto unitario ma una variegata tipologia di situazioni che si tenterà, appresso, di schematizzare. Innanzitutto, il termine può indicare le imprese costituite (o acquisite) per iniziativa di una organizzazione criminale, la quale ne ha la gestione ed a cui poi vengono destinati i proventi al fine di finanziarne le esigenze organizzative e compensare i singoli consociati. In una seconda accezione, esso può individuare le imprese gestite (in modo diretto od indiretto) da un singolo criminale mafioso nel proprio esclusivo interesse, il quale utilizza nell’impresa le risorse ed i proventi, di sua esclusiva spettanza, derivantigli dall’attività criminale dell’organizzazione alla quale è affiliato. In una terza accezione, si può parlare di impresa mafiosa per indicare la cd. “società ad infiltrazione mafiosa”, nella quale l’imprenditore, pur estraneo all’organizzazione criminale, instaura con questa rapporti stabili di cointeressenza, accettandone i “servizi” (che possono spaziare dalla protezione, all’assistenza in situazioni conflittuali interne od esterne; dall’azione di supporto per la penetrazione nel mercato alla dissuasione della concorrenza o perfino ai finanziamenti diretti). Detti favori sono ricambiati da questo imprenditore con erogazioni di denaro ovvero offrendo all’organizzazione criminale servizi ed attività complementari a quelle dell'impresa. E’ giusto però precisare che, a volte, l’instaurazione di rapporti di cointeressenza con un’organizzazione criminale è “necessitata”, in quanto – in caso contrario – l’imprenditore finirebbe con l’essere escluso dal mercato. Si pensi, ad esempio, al settore degli appalti in alcune realtà territoriali della Campania, della Calabria o della Sicilia, dove l’imprenditore, qualora non accettasse di essere inserito in un circuito di assegnazione “a rotazione” degli appalti (predefinito e gestito dai clans mafiosi), nella più favorevole delle ipotesi non sarebbe più assegnatario di alcuna opera pubblica, e, nella peggiore, vedrebbe distrutti sistematicamente i beni aziendali e messa in pericolo l’incolumità propria e dei suoi familiari. Vi sono infine, in un’ultima accezione, imprese che entrano in rapporti più o meno stabili con le organizzazioni criminali, pur senza essere in esse inserite o “contigue”, solo al fine di concludere affari vantaggiosi. 2.1 I principali settori di insediamento delle imprese mafiose I settori produttivi in cui sono risultate operare le “imprese mafiose” come sopra qualificate sono i più molteplici e vanno da que llo edile a quello commerciale, dagli appalti pubblici al mercato alimentare e dell'abbigliamento, dall’industria dello svago (night clubs, discoteche, sale giochi, agenzie di viaggi) a quello della ristorazione ed ospitalità (alberghi, ristoranti, tavole calde), dal settore agro-alimentare a quello della carne, dall’industria conserviera a quella dello smaltimento dei rifiuti. 2.2 Gli assetti giuridici preferiti Per quanto riguarda l’assetto giuridico di tali imprese, negli ultimi anni appare sempre più diffusa la società di capitali e, segnatamente, la s.r.l., nella quale figurano come soci persone collegate ad esponenti delle consorterie criminali. Tale veste giuridica è quella apparsa maggiormente confacente all’interesse primario delle organizzazioni criminali, che è quello di rendere il più possibile difficile e complicato l’accertamento del collegamento tra l’impresa e l’organizzazione mafiosa e, quindi, l’effettiva gestione della prima da parte della seconda. Tale veste giuridica tende, naturalmente, ad evitare non solo le attenzioni delle forze di polizia (e quindi dell’A.G.) ma, soprattutto, le conseguenze di esse, vale a dire i provvedimenti di confisca e sequestro degli ingenti patrimoni accumulati. Anche l’impresa a carattere individuale è, comunque, abbastanza diffusa: della stessa, per ovvi motivi di cautela, figura essere titolare generalmente un prestanome di fiducia dell’organizzazione oppure un imprenditore non inserito organicamente nell’organizzazione mafiosa (ma a questa indissolubilmente legato per necessità, motivi di interesse economico o perché a ciò costretto). Alla luce di tali moderni assetti giuridici va scomparendo – secondo il pensiero delle persone ascoltate – il classico ruolo della cd. “famiglia di sangue”, per quanto esso continui ad essere diffuso in Calabria, in Puglia ed in alcune realtà territoriali della Campania, dove i clans ritengono di continuare a privilegiare quel rapporto fiduciario assoluto che possono garantire soltanto i componenti della “famiglia di sangue”, sia pure consapevoli degli effetti negativi derivanti dalla visibilità esterna del collegamento con l’impresa. 2.3 I vantaggi differenziali indebiti goduti dalle imprese mafiose Il quid pluris differenziale (ed indebito) di cui godono le imprese mafiose rispetto a quelle legali è molteplice e di varia natura. Anzitutto, l’impresa mafiosa può contare su di un flusso consistente di capitali illeciti, per cui essa non è costretta a ricorrere a finanziamenti, mutui, aperture di credito per procedere ai necessari investimenti che ogni attività imprenditoriale richiede. In alcuni casi, tuttavia, l’impresa mafiosa ricorre, pur non avendone necessità economica, ai finanziamenti da parte di istituti di credito all’esclusivo fine di giustificare nei propri bilanci l’esistenza di capitali d’impresa che, altrimenti, non avrebbero alcuna causale lecita e plausibile. Le somme ottenute con tali finanziamenti vengono – a dire degli esperti – investite in attività finanziarie ed economiche, a breve o medio termine, che consentono (una volta restituito il capitale e corrisposti gli interessi agli istituti di credito eroganti) un ulteriore lauto margine guadagno. In secondo luogo, tali “imprese mafiose” non sono tenute al pagamento del “pizzo” richiesto da coloro che gestiscono il racket delle estorsioni. Se si tiene conto del fatto che il fenomeno delle estorsioni, soprattutto nelle regioni meridionali, è praticato dalle organizzazioni criminali in misura diffusa e capillare, tanto da rendere il “pizzo” una sorta di inevitabile “imposta” che i rassegnati imprenditori onesti ormai ascrivono ai costi correnti di impresa, si può ben comprendere che non si tratta di un risparmio di poca entità, al quale – tra l’altro – va aggiunto il valore psicologico della “tranquillità” garantita nel territorio in cui si opera. Le imprese mafiose, inoltre, fanno ricorso anche al lavoro “nero” ed a quello sottopagato, potendo spesso contare sulla complicità e la collusione, ottenute con la corruzione o con le minacce, di quei rappresentanti della Pubblica Amministrazione che sarebbero tenuti ai relativi controlli. Del resto, i “favori” da parte di questi settori della P.A., ottenuti nei modi sopra indicati, si sostanziano anche in permessi, concessioni, autorizzazioni ed altri provvedimenti amministrativi favorevoli, che le imprese mafiose possono ottenere con facilità e senza problemi rispetto alle altre imprese; come pure in mancati controlli (o in controlli puramente formali), che non fanno emergere le palesi violazioni alle norme contro gli infortuni sul lavoro, alle norme previdenziali e a quelle fiscali. Inoltre l’impresa mafiosa ha il vantaggio ulteriore di non avere alcuna conflittualità interna, la quale nelle altre imprese si evidenzia con scioperi o trova espressione nel contenzioso di natura amministrativa e giudiziaria con i dipendenti. La maggior parte dei lavoratori che vivono detta realtà mafiosa, infatti, soprattutto nel meridione (dove vi è un tasso di disoccupazione doppio rispetto alla media nazionale) ben si guarderebbe dal sollevare conflitti quali quelli descritti. E’ pertanto chiaro ed inevitabile che un tale numero di “vantaggi” fa sì che l’impresa mafiosa goda, in alcuni ambiti locali, di una “rendita di posizione” sul mercato che le altre imprese legali non possono contrastare (alla luce anche dei maggiori costi complessivi di gestione), finendo col rendere assolutamente apparente la libertà nella concorrenza. 3. Analisi della differenziata distribuzione sul territorio nazionale dell’imprenditoria mafiosa Solo un approfondito esame delle diverse situazioni locali può contribuire ad una più adeguata e meno generalizzata visione del fenomeno “impresa mafiosa”, il quale assume connotazioni differenti a seconda delle diverse realtà geografiche nelle quali si manifesta. 3.1 Il nord Nel distretto di Milano operano imprese che, per i legami dell’imprenditore con i gruppi criminali, per la provenienza illecita dei capitali utilizzati e per le caratteristiche delle modalità operative, possono definirsi mafiose. I settori produttivi ed economici nei quali operano le imprese in questione sono, sulla base delle indagini compiute, prevalentemente i seguenti: - il settore dell’edilizia sia nel centro cittadino sia nell’hinterland (in particolare, Monza, Cologno Monzese, Peschiera Borromeo, Cernusco sul Naviglio e zona sud-est di Milano). Detto comparto ricomprende anche le attività di intermediazione poste in essere dalle agenzie immobiliari e da altre attività specificamente connesse a quella edilizia, con specifico riguardo alle imprese di “movimento terra”, scavi e trasporto dei materiali di scavo; il settore delle forniture di prodotti alimentari (con particolare riguardo ai prodotti ortofrutticoli), segmento economico che è in via di sviluppo con la crescita delle iniziative di apertura ex novo o di sub-ingresso in centri commerciali di media e grande distribuzione, che si sviluppano anche in zone collocate nelle province di Lodi, Pavia e Voghera; il settore dell’abbigliamento, legato all’acquisizione dei grandi punti di vendita all’ingrosso in Milano e provincia; il settore dei servizi, sia quelli legati alla ristorazione in senso lato (bar, self services, pasticcerie e ristoranti) spesso esercitata in locali siti nel centro di Milano, sia quelli connessi all’esercizio di parcheggi e garages, sia quelli di facchinaggio (costituite, in genere, sotto forma di “S.c.a.r.l.”). La costituzione di queste ultime società ha avuto inizio nei primi anni Ottanta ad opera di esponenti di spicco della ‘ndrangheta calabrese e della mafia siciliana, tra cui in particolare Pasquale Latella, Gaetano Coppola, Antonino Currò, Natale Sartori, Giuseppe Porto, Daniele Formisano (nipote di Vittorio Mangano), Cinzia e Loredana Mangano (figlie dello stesso Mangano), Enrico Di Grusa (genero del Mangano). Dette cooperative, prevalentemente appoggiate presso alcuni studi di commercialisti milanesi (tra cui in particolare lo studio Selma di Maurizio Pierro, assassinato nel 1997), furono costituite inizialmente con funzioni di mera copertura e con ruoli del tutto secondari rispetto ad ulteriori e diverse attività criminali, quali rapine e traffico di sostanze stupefacenti. Sono poi diventate, però, un formidabile strumento di creazione e moltiplicazione di ricchezza illegale che via via ha determinato la distribuzione del mercato tra pochi consorzi di cooperative, con estromissione delle cooperative di servizi vere, che operavano in modo legale. Inoltre, ulteriori ambiti operativi delle imprese mafiose sono risultati essere: il settore delle società di vendita di autovetture, nuove ed usate; il settore delle agenzie dei servizi di sicurezza (in particolare, a Milano, ma anche a Como e Bergamo), con speciale riguardo alle agenzie per la sicurezza nei locali pubblici e nelle discoteche; il settore degli appalti pubblici, con particolare riguardo a quelli concernenti attività edilizia, gestione e rifornimento di mense scolastiche. In genere, gli appartenenti alla “famiglia di sangue” non svolgono un ruolo diretto nella gestione delle imprese, riservando tale funzione ad esponenti di gruppi contigui a quelli mafiosi (numerosi messinesi, ad esempio, commercialisti o ragionieri legati ai gruppi criminali di quella città, sono stati scelti da personaggi del famigerato paese calabro di Africo per la gestione delle attività). Inoltre, gli esponenti della “famiglia di sangue” risultano solo inizialmente negli assetti proprietari, sino a quando non riescono ad innescare il meccanismo dell’interposizione fittizia. I vantaggi “differenziali” indebiti di cui risultano godere le cd. imprese mafiose sono costituiti anzitutto dalla creazione di una situazione di sostanziale monopolio in determinate zone, come è emerso per le imprese operanti nel settore dell’edilizia, in quello dei servizi di sicurezza ed in quello relativo ai servizi di ristorazione. Inoltre, nel settore degli appalti pubblici le imprese in questione hanno usufruito, ed in parte tuttora usufruiscono, di una vantaggiosa e proficua contiguità con le amministrazioni locali, protrattasi per decenni, ottenendo la sistematica aggiudicazione dei lavori per la costruzione e la manutenzione di strade, cimiteri o per altre opere. Risultato, questo, che viene conseguito con il ricorso alla licitazione privata anche nei casi per i quali non sussistono i presupposti di legge e con gare di appalto nelle quali le offerte al ribasso sono conosciute prima della apertura delle relative buste sigillate; o, ancora, con la partecipazione sempre limitata alle stesse ditte, che, in ipotesi di aggiudicazione della gara, sono comunque vincolate ad effettuare i lavori sub-appaltandoli alle imprese mafiose. L’impresa mafiosa, inoltre, ha costi di esercizio e di produzione molto bassi, sicuramente di molto inferiori a quelli delle imprese legali, facendo sistematico ricorso al lavoro “nero” sottopagato ed alle false fatturazioni finalizzate ad evadere il fisco. Infine, tali imprese si auto-finanziano continuamente con capitali di provenienza illecita, non necessitando ovviamente del ricorso ad approvvigionamento bancario e, conseguentemente, non sopportano neppure il pagamento di interessi. Tutto ciò spiega, tra l’altro, perché l’impresa mafiosa spesso finisca con l’operare in una situazione di monopolio, visto che le imprese legali – specialmente se medio-piccole – non sono in grado di competere con soggetti economici che hanno dei costi bassissimi e possono contare su risorse finanziarie illecite e dunque tendenzialmente illimitate. In tema, sono stati segnalati alcuni processi, svoltisi a Milano nell’ultimo quinquennio, nel corso dei quali è stata accertata l’esistenza di una imprenditoria riconducibile alla ‘ndrangheta calabrese, ed in particolare: a) il procedimento a carico di Talia Leo, Criaco Bruno, Criaco Giuseppe, Modafferi Pasquale e Modafferi Paolo, tutti appartenenti alla cosca dei Morabito di Africo, per il reato di cui all’art. 74 D.P.R. 309/90 ed altro, conclusosi con condanna definitiva pronunciata il 2.7.1997; b) il procedimento nei confronti di Morabito Giuseppe, Bruzzaniti Natale, Talia Bruno e altri per i delitti di cui agli artt. 416 bis c.p. e 74 D.P.R. 309/90; c) il procedimento a carico di Mollica Domenico, Morabito Leo, Morabito Rocco ed altri, sempre appartenenti alla cosca di Africo, per i delitti di cui all’art. 416 bis c.p. e 74 D.P.R. 309/90, conclusosi con sentenza di condanna divenuta definitiva il 4.11.2000; d) il procedimento a carico di Morabito Francesco ed altri per gli artt. 416 bis c.p. e 74 D.P.R. 309/90. Nel processo di cui al punto a) si è potuto accertare che il gruppo facente capo al Talia Leo, attraverso prestanomi, ha di fatto gestito presso l’Ortomercato di Milano (collocato nella zona sud-est della città, tradizionalmente dominata dalla cosca) società – poi confiscate con sentenza definitiva – titolari di stands per il commercio e l’importazione, soprattutto dalla Slovenia, di prodotti ortofrutticoli, in stretto collegamento con imprese analoghe operanti presso l’ortomercato di Vittoria (Ragusa). Inoltre, il gruppo in questione mirava ad avere il controllo delle imprese operanti nel settore dei servizi di sicurezza, che offrono le loro prestazioni a tutti i supermercati e le gioiellerie collocate nella zona compresa tra Como, Varese e Milano. Nel corso del dibattimento relativo al procedimento di cui al punto b) è emerso che imprese facenti capo alla ‘ndrangheta, operanti nel settore dell’edilizia, “movimento terra” e scavi, si erano insediate nelle zone di Monza, Cologno Monzese, Vimodrone, Peschiera Borromeo, Cernusco sul Naviglio nonché nella zona nord di Milano (Piazzale Loreto, via Padova e viale Monza). Si è anche potuto accertare che in tutta la zona compresa tra Cologno Monzese, Vimodrone e Bernareggio vi è stato un notevolissimo sviluppo edilizio, realizzato da imprese facenti capo a personaggi delle cosche o comunque a soggetti collegati a queste, che hanno in tale modo riciclato il denaro proveniente dalle attività illecite. Nei due processi da ultimo citati ai punti c) e d), è emersa la progressiva espansione della cosca di Africo nel “cuore economico-finanziario” di Milano, vale a dire nella zona compresa tra Piazza del Duomo ed il Palazzo di Giustizia, con l’acquisizione ed il controllo, attraverso una fitta rete di prestanome (il cui subingresso nelle licenze è stato reso possibile dalla sistematica omissione di controllo da parte degli amministratori pubblici) nel settore della ristorazione nonché nel settore dei garages e delle concessionarie di auto, con realizzazione di modalità di riciclaggio attraverso i finanziamenti concessi dalle società di leasing. Le imprese in questione non perseguivano alcuno scopo imprenditoriale ma agivano al fine di effettuare frequenti movimentazioni di denaro contante, sicuramente non proveniente dalle aziende di proprietà delle società acquisite, come si è potuto riscontrare dall’esame della documentazione contabile delle società stesse (che ha, tra l’altro, rivelato l’esistenza di conti bancari “paralleli” e non registrati). Ancora più significativa è, poi, la circostanza che i movimenti finanziari delle società avvenivano quasi esclusivamente “per cassa” e per importi mai superiori ai venti milioni di lire. Di particolare interesse nel processo Talia Leo ed altri è il fatto che l’organizzazione criminale avesse tentato di impossessarsi di un gruppo economico di grande rilievo, a cui fanno capo varie società tessili e di vernici del bresciano (gruppo Rivelli), attraverso una fiduciaria della Banca San Paolo di Brescia, presso la quale il gruppo economico era in sofferenza per vari miliardi di lire. La fiduciaria avrebbe dovuto effettuare una operazione di salvataggio del gruppo legale, con un finanziamento garantito da grossi capitali di cui la cosca disponeva presso banche estere. Si trattava, ovviamente, di un’operazione tipica di riciclaggio, in quanto il salvataggio di società in difficoltà, tramite l’apporto di capitali di provenienza illecita, impedisce di ricostruire la reale origine di questi ultimi. Può sicuramente affermarsi che il rilevamento di grandi gruppi economici in difficoltà avviene da parte della ‘ndrangheta in attuazione di una precisa strategia di acquisizione, utilizzando l’opera di soggetti che, in virtù dell’attività svolta, possono contare su numerose e qualificate conoscenze nel mondo degli affari, finanziario e bancario. In genere, il professionista che opera per conto dell’organizzazione criminale contatta la società in difficoltà economica, proponendo un piano di risanamento da realizzarsi con la concessione immediata di liquidità o comunque attraverso finanziamenti che si concretizzano mediante aperture di credito a nome della società, garantite da fideiussioni avallate e confermate da istituti di credito e da società finanziarie riconducibili alla stessa organizzazione criminale. A questo punto, la società che precedentemente si trovava in difficoltà assume una posizione di dipendenza rispetto a chi ne ha permesso il risanamento, e, conseguentemente – più o meno gradualmente – l’associazione delinquenziale subentra di fatto all’originario imprenditore, esercitando il controllo sulla società. Nel distretto di Brescia operano alcune imprese che possono qualificarsi come imprese controllate e gestite, direttamente od indirettamente, dalla criminalità organizzata di stampo camorristico (la cui presenza nel territorio bresciano risale agli anni 1977/78). Tali imprese operano nei settori della ristorazione (ristoranti, pizzerie, bar), dell’intrattenimento (discoteche e nights) e del commercio (autoveicoli, tappeti, alimentari). Gli assetti giuridici adottati normalmente sono quelli preesistenti alla espropriazione dell’impresa, operata mediante usura ed estorsione in pregiudizio del precedente imprenditore, costretto a cedere la propria attività. In genere, viene adottato l’assetto societario della s.r.l., con nomina di un amministratore (e legale rappresentante) individuato tra taluni imprenditori bresciani ritenuti particolarmente disponibili, il quale viene successivamente reclutato appositamente dall’organizzazione ed a cui vengono intestate fittiziamente anche le quote societarie. Questi prestanome (alcune volte si tratta degli stessi imprenditori rimasti vittime dell’usura e dell’estorsione) agiscono in nome e per conto dell’organizzazione, investendo nel settore immobiliare e mobiliare le ingenti somme di denaro contante versate dai vertici dell’organizzazione criminale brescia na di stampo camorristico o dalle principali famiglie della cd. “alleanza di Secondigliano“, a cui l’organizzazione locale è strettamente legata. In taluni casi è stata accertata la titolarità, in capo a membri (affiliati) delle storiche “famiglie di sangue” camorristiche, di quote societarie di imprese commerciali operanti nel distretto. I differenziali indebiti di cui godono le imprese mafiose operanti nella zona sono risultati essere, in particolare, l’autofinanziamento con capitali di provenienza illecita e l’acquisto di beni sottocosto o addirittura a “costo zero”, a seguito delle attività usurarie e successivamente estorsive. Nell’arco dell’ultimo quinquennio vi sono state indagini che hanno evidenziato l’esistenza di una imprenditoria camorristica, in stretto rapporto con la cd. “alleanza di Secondigliano”, collegata ad alcune imprese medio-piccole aventi natura lecita. Particolarmente significativo, al riguardo, è un procedimento, in relazione al delitto di cui all’art. 416 bis c.p., nei confronti di: § Pagano Oreste, co-promotore e fondatore dell’associazione di stampo camorristico bresciana, operante al vertice della stessa unitamente a Palma Oronzio fino al 1988, allorché il Pagano si diede alla latitanza, espatriando dapprima in Sud America e quindi in Canada, da dove, nel dicembre 1999, è stato estradato in Italia, divenendo collaboratore di giustizia; § Palma Oronzio, operante al vertice della stessa organizzazione criminale sino alla morte, avvenuta a Salò nel 1997; § Buono Luigi, succeduto al Palma alla guida dell’associazione criminale bresciana, principale referente dei gruppi camorristici napoletani; § Russo Ciro, organizzatore e socio della ditta Iodama Group di Iodice Luigi (quest’ultimo affiliato alla “alleanza di Secondigliano“), organizzatore di trasporti di stupefacenti da Brescia a Napoli; § Medeghini Umberto, associato, intestatario nel bresciano di imprese ed attività commerciali per conto del gruppo criminale, incaricato sia della gestione finanziaria dei proventi delle attività illegali sia della movimentazione illegale di titoli; § Tiritelli Arturo, intermediario nella attività usuraie realizzate dal Medeghini; § Bertanza Lucilio, imprenditore diventato per necessità intestatario fittizio di beni e licenze per conto dell’associazione criminale , nonché gestore di attività commerciali riferibili alla stessa (ed altri). Nel corso delle indagini relative a tale procedimento sarebbe emerso, tra l’altro, che il gruppo criminale in questione agiva al fine di acquisire – in modo diretto od indiretto, ricorrendo anche all’intestazione fittizia – la gestione ed il controllo di imprese commerciali, che venivano sottratte, espropriandole con la forza e la minaccia, ad imprenditori (vittime di episodi di usura ed estorsione aggravata) costretti a cedere per pochi soldi le loro attività commerciali. In particolare, è stato possibile accertare e documentare l’acquisto, o le trattative commerciali per l’acquisto, da parte dell’organizzazione camorristica, di ristoranti e locali notturni ubicati nella zona del lago di Garda, di un albergo in Val Camonica, di una grande discoteca nel Lazio, di un complesso immobiliare in Campania, di ricevitorie del totocalcio e del lotto, di autosaloni per la vendita di veicoli, di negozi ubicati nelle vie centrali cittadine nonché di numerosi e lussuosi appartamenti in Brescia. Nel distretto di Torino non si evidenzia l’esistenza di vere proprie imprese mafiose né di dati da cui possano desumersi significativi collegamenti tra la criminalità organizzata e gli ambienti imprenditoriali, economici e finanziari locali. Pur operando nell’ambito del territorio organizzazioni di stampo mafioso, l’attività delle stesse è indirizzata verso i tradizionali settori criminali del commercio di stupefacenti, traffico di armi, rapine ed estorsioni. Un episodio (peraltro marginale) di infiltrazione nel tessuto economico ebbe a verificarsi agli inizi degli anni Novanta, allorquando si scoprì che un imprenditore, titolare di una piccola impresa nella zona del vercellese, aveva associato nella conduzione dell’azienda alcuni soggetti appartenenti ad una “stidda.” siciliana, il cui principale esponente era tale Grassonelli, originario di Porto Empedocle (AG). Costoro, in effetti, avevano acquisito un interesse nella gestione dell’impresa, occupandosi tuttavia (più che altro) del recupero dei crediti che l’azienda vantava nei confronti di suoi clienti. Il relativo procedimento penale si è concluso con sentenza di condanna nei confronti di tutti gli imputati. Di particolare interesse sotto il profilo investigativo, nell’ambito di tale procedimento, fu l’accertato contrasto tra i citati appartenenti alla “stidda” e la maggiore organizzazione mafiosa in quel periodo operante nel territorio, che faceva capo a Salvatore Belfiore, soggetto di spicco della criminalità organizzata, che - pur essendo di origine calabrese e affiliato alla ‘ndrangheta - aveva stretto una alleanza con personaggi legati alla mafia siciliana. Il gruppo criminale di Belfiore aveva acquisito il controllo assolutamente prevalente di tutte le attività delinquenziali nell’ambito del distretto, con particolare riferimento a Torino ed al suo hinterland. Proprio in seguito al conflitto tra le due organizzazioni criminali sono stati instaurati diversi procedimenti penali, ormai tutti definiti. Nel territorio della Val di Susa e nella zona del Canavese (tra Ivrea e la Valle d’Aosta), di recente sono, tuttavia, emersi segnali inquietanti che lascerebbero presagire un tentativo di infiltrazione di organismi criminali facenti capo alla ‘ndrangheta negli ambienti imprenditoriali. Nella Val di Susa, infatti, i titolari di alcune imprese, operanti nel comparto dell’edilizia e del “movimento terra” nell’ambito dei lavori anche rilevanti per la realizzazione di strade, sono soggetti provenienti dalla Calabria e vi è il fondato sospetto che queste aziende possano utilizzare (o avere utilizzato), soprattutto all’inizio della loro attività, capitali di provenienza illecita. A tal proposito, appaiono indizianti alcuni episodi di intimidazione di cui sarebbero stati vittime concessionari di appalti di opere pubbliche onde costringerli ad avvalersi delle suddette imprese, gestite appunto da calabresi. Anche nel territorio del Canavese si è potuto accertare che alcuni personaggi, già coinvolti in indagini per gravi reati, come sequestri di persona a scopo di estorsione, risultano titolari di imprese edili. In Veneto è stato essenzialmente solo uno il procedimento da segnalare in tema. Esso risale ad indagini avviate nell’anno 1995, ed ha consentito di accertare che il referente territoriale di Felice Maniero – capo della cd. “mala del Brenta” – nel controllo di traffico di droga nel centro storico di Venezia aveva progressivamente acquisito la gestione, per il tramite di “teste di legno”, di svariate s.r.l. aventi come oggetto sociale la rivendita dei vetri artistici di Murano. Tali società venivano depauperate e poste in stato di decozione sino al successivo e preventivato fallimento. Nell’indagine sono stati coinvolti anche due commercialisti, che fornivano le direttive tecniche. L’ideatore di tale fenomeno criminale, Giovanni Giada, è stato condannato con sentenza definitiva per il delitto di omicidio ai danni di un suo acquirente di stupefacenti, che era contemporaneamente socio in due delle citate società. Un altro procedimento nasceva da una complessa attività investigativa, attualmente ancora in corso, intrapresa nei confronti di cittadini di nazionalità russa insediatisi in Veneto (ed in modo particolare nel trevigiano) per porre in essere presunte attività di riciclaggio ed altre attività criminose a questa connesse. L’esistenza di una intensa mobilità internazionale di uno di detti soggetti (in paesi quali Israele, Cipro, Grecia, Russia, Gran Bretagna, Principato di Monaco, Croazia, Austria, Svizzera, Francia, Germania, Polonia e Finlandia) non ha trovato giustificazione in quella che dovrebbe essere la sua attività imprenditoriale in Italia, ed in particolare nel trevigiano, quale legale rappresentante, nonché socio (insieme ad altri suoi connazionali), di una società che negli ultimi anni ha avuto un fatturato di decine di miliardi di lire. In particolare, è emerso che la citata società, dopo avere acquistato mobili presso aziende nazionali del settore – con denaro proveniente da società estere ubicate verosimilmente nei cd. paradisi fiscali – su precise indicazioni, prevalentemente provenienti da Mosca, destina la merce in Russia secondo due diverse modalità. La prima mediante il materiale trasporto della merce in Russia; la seconda attraverso una sorta di triangolazione “cartolare”, attuata attraverso la vendita della merce dalla sede di Mansuè (TV) alla società cipriota Penford Trading Ltd., che provvede a sua volta a rivenderla ai clienti della sede di Mosca della medesima società. Fatto significativo è apparso che dagli anni 1997-1998 la Penford Trading Ltd. ha ricevuto dalla società veneta centinaia di fatture per l’esorbitante importo complessivo di circa 41 miliardi di lire, mentre è stato ritenuto poco credibile che le fatture emesse in tali anni dalla Penford fossero soltanto nove. Oltre alle società aventi sede nel trevigiano, il cittadino russo indagato risulta avere partecipazioni in una società di Silea (TV), che gestisce una discoteca. I fenomeni di una certa consistenza nei settori del riciclaggio, dell’usura e delle estorsioni, riconducibili alla criminalità organizzata, sono inerenti al passato (dal 1982 al 1993) e sono riferibili prevalentemente alla cd. “mala del Brenta”, organizzazione attualmente sgominata completamente. In Liguria le organizzazioni criminali operanti sono orientate non tanto ad ottenere un diretto ed immediato controllo del territorio (reso, peraltro, problematico dalla resistenza delle strutture economiche e sociali alle infiltrazioni di tipo mafioso), quanto piuttosto a conseguire spazi di mercato nella gestione di traffici illeciti tradizionali (spaccio di stupefacenti, contrabbando, sfruttamento della prostituzione, gioco d’azzardo e usura). Tale dato di fatto non è, tuttavia, incompatibile con l’insediamento di associazioni criminose che – per origine (siciliana e calabrese), per collegamenti persistenti con le aggregazioni di stampo mafioso esistenti in quelle regioni e per modalità operative (ricorso all’intimidazione ed alla violenza) – presentano le caratteristiche tipiche delle associazioni di stampo mafioso. Particolarmente significativi in tal senso sono stati – negli ultimi anni – i procedimenti nei confronti dell’articolazione genovese della “famiglia” Madonia di Caltanissetta, facente capo ai fratelli Fiandaca: le sentenze della Corte di Assise di Appello di Genova (del 31.12.1997) e del GUP di Genova (del 20.12.2000) hanno affermato l’esistenza di una associazione di stampo mafioso dedita allo spaccio di stupefacenti ed al controllo del gioco d’azzardo in tutte le sue articolazioni (bische clandestine, toto e lotto clandestino, gestione delle apparecchiature di video-poker negli esercizi pubblici). Tale associazione, al fine di imporre e mantenere la propria supremazia nel territorio genovese, ha fatto ricorso ai classici metodi mafiosi (intimidazioni, estromissioni dei precedenti fornitori ed operatori, imposizione ai commercianti delle apparecchiature fornite dall’organizzazione) fino a giungere all’omicidio dei possibili concorrenti. Altre indagini hanno consentito di accertare l’interessamento di gruppi di criminalità organizzata di origine calabrese per il “mercato” del gioco d’azzardo, attraverso apparecchiature installate negli esercizi commerciali e attraverso agenzie di scommesse apparentemente legali. E’ stata inoltre segnalata la partecipazione di gruppi di criminalità organizzata (sotto forma di finanziamento) a società di gestione di scommesse legali. Appare comunque in atto una tendenza da parte delle organizzazioni più forti nel territorio ad abbandonare (o quantomeno a delegare) ad altri gruppi criminali le attività più rischiose (come ad esempio lo spaccio di stupefacenti), investendo i profitti in attività – quali il gioco d’azzardo (clandestino e non) – di forte resa economic a e di minimo rischio sotto il profilo della sanzione penale. 3.2 Il centro Mentre in Emilia Romagna non vi sono fenomeni tali da far ritenere operanti imprese mafiose, in Toscana dal 1996 in poi si è registrata, invece, una massiccia presenza di imprese di provenienza siciliana nelle gare di appalto, in particolare indette da enti di piccoli comuni per importi non significativi e, quindi, scarsamente visibili. Nel corso delle indagini si è potuto accertare che molti dei soggetti che rappresentavano le ditte aggiudicatarie degli appalti erano collegati direttamente o indirettamente a Cosa Nostra. E’ peraltro significativo che a queste gare di appalto partecipino massicciamente imprese siciliane (per la singola gara si registrano, a volte, partecipazioni che arrivano al 70-80%), il che consente di determinare – con alta probabilità – l’aggiudicazione ad una di tali imprese. Ben diversa è la situazione nel Lazio. Ed infatti, nell’ambito del distretto di Roma, il fenomeno delle imprese che possano qualificarsi mafiose ha una notevole consistenza. Al riguardo, le possibilità di intervento nell’ampio tessuto economico del territorio laziale e la facilità di accesso e mimetizzazione nel relativo mercato rendono quanto mai appetibile e lucroso l’utilizzo in imprese, specie del settore commerciale, dei ricchi proventi delle attività criminali. Né va dimenticata la contiguità territoriale con la Campania, che ha favorito il radicarsi di famiglie camorristiche, in particolare nella parte meridionale del Lazio. Tale convinzione trova, peraltro, solo parziale conferma nelle risultanze investigative e processuali. Sono emerse tracce processuali di persone con precedenti penali per associazione per delinquere di stampo mafioso, che, pur risultando disoccupate e senza reddito ufficiale, gestiscono, tramite prestanome, imprese nelle quali sono stati utilizzati capitali di illecita provenienza. Tali imprese, a carattere individuale, operano nel settore dei servizi. I vantaggi differenziali di cui queste godono possono individuarsi in atteggiamenti di favore da parte di settori della pubblica amministrazione nella aggiudicazione degli appalti pubblici, ottenuti tramite attività di corruzione; nel controllo della manodopera “in nero”; nell’autofinanziamento attraverso capitali di illecita provenienza. Sono, altresì, emerse tracce di imprese gestite e controllate da persone notoriamente affiliate a famiglie mafiose del trapanese, più volte denunciate per traffico internazionale di stupefacenti. Dette imprese operano nel settore dell’importazione e della vendita di materiali di telefonia mobile ed hanno prevalentemente la struttura di s.r.l.. Esse, per molte operazioni, si avvalgono dell’apparente intermediazione di ditte individuali intestate ad extracomunitari. I vantaggi differenziali dei quali beneficiano questi soggetti sono costituiti – grazie ad un giro di fatture compiacenti tra società riconducibili ai medesimi soggetti – dalla sistematica evasione dell’IVA e dalla conseguente vendita di merci a prezzi significativamente inferiori a quelli di mercato. Nell’ultimo quinquennio vi sono stati processi nei quali è emerso che persone ritenute legate o collegate alla criminalità organizzata calabrese, siciliana e laziale hanno ottenuto finanziamenti da società finanziarie. Altre indagini hanno consentito di capire che vi è un’attività di infiltrazione imprenditoriale nel territorio di Pomezia da parte di soggetti legati ad organizzazioni mafiose, che si sarebbero avvalsi, per il raggiungimento dei loro scopi, di rapporti di contiguità con settori dell’amministrazione locale. L’indagine è stata incentrata su una società immobiliare, artefice di una serie di costruzioni destinate ad abitazione, realizzate tutte in palese violazione della concessione a suo tempo rilasciata. Parte delle quote sociali è stata ceduta a società rappresentate da un personaggio collegato a gruppi mafiosi, con successive cessioni di gran parte del patrimonio immobiliare e di quote sociali a società in cui svolgono un ruolo rilevante personaggi mafiosi. 3.3 Il sud Di grande rilievo è il fenomeno dell’impresa mafiosa in questa parte della penisola. Innanzitutto, nell’area del distretto di Napoli il problema è particolarmente sentito e vivo. Sul punto, a guisa di rapida ricostruzione delle fasi evolutive dell’imprenditoria camorristica, giova ricordare che inizialmente quest’ultima faceva direttamente capo all’esponente dell’associazione criminale, che, spesso senza neppure ricorrere all’interposizione fittizia, entrava nel mercato con imprese destinate a vincere agevolmente la concorrenza, attraverso l’intimidazione e la dissuasione. Dopo questa fase, che è durata fino all’entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre del 1982, ne è subentrata un’altra decisamente più moderna. L’imprenditore camorrista ha avuto la capacità’ di comprendere come la moltiplicazione delle risorse finanziarie, che la camorra riusciva a conquistare in maniera molto dinamica, potesse consentire di compiere un salto di qualità e cioè di atteggiarsi concretamente come un imprenditore dal “colletto bianco”, camorrista più per le fonti del finanziamento che per la metodologia nell’esercizio dell’impresa. Anzi, quest’ultima è diventata così raffinata da consentire allo stesso di diventare un interlocutore diretto del potere politic o-amministrativo. In altri termini la situazione del mercato campano, quale si era venuta a delineare soprattutto nell’epoca successiva al terremoto del 1980 con l’afflusso straordinario di ingenti capitali pubblici, ha consentito all’imprenditore-camorrista di comprendere che quel mercato era in gran parte senza regole e che le condizioni di accesso allo stesso erano risolvibili semplicemente con una rilevante capacità di liquidità, perché nessuna forma di controllo (né amministrativo né politico) in quegli anni era stata posta per frenare l’ingresso nel mercato di imprese di natura non lecita. Quindi, l’imprenditore-camorrista è entrato in quel mercato, ha versato nel caos dei capitali di quegli anni il suo denaro “sporco”, ha stabilito, come altri imprenditori non mafiosi, il suo contatto con il potere politicoamministrativo, con il quale è stato capace di venire a patti e, addirittura, in un momento successivo, di condizionarlo. In effetti, non c’è stato più soltanto l’accordo, ma in molti casi persino la sostituzione dei soggetti politicoamministrativi con soggetti che erano espressione diretta della camorra. Questa nuova impresa camorrista ha peraltro una grande capacità di penetrazione sul mercato e di internazionalizzarsi. In molti procedimenti in materia di misure di prevenzione, in effetti, il Tribunale di Napoli ha potuto seguire le tracce di diramazioni internazionali delle imprese camorriste; anzi l’imprenditore-camorrista più evoluto, pur non abbandonando il territorio di origine – che è pur sempre la fonte primaria del suo potere economico – tende ad esportare la sua capacità imprenditoriale verso l’estero. Una terza fase dell’evoluzione dell’imprenditoria camorrista segna la tendenza a reinvestire i profitti illeciti servendosi dell’imprenditoria legale in un modo nuovo e diverso. Si assiste infatti, in maniera sempre più frequente, a casi nei quali il camorrista non ha più un interesse preciso, sul territorio nazionale, ad acquisire il controllo diretto delle quote di società che abbiano per oggetto aziende anche particolarmente complesse ma, piuttosto, tende a stringere accordi strategici con imprenditori disponibili a diventare canale di finanziamento di proventi illeciti. Il rapporto tra il camorrista e l’imprenditore non camorrista tende ad atteggiarsi nel senso che il primo investe nell’impresa i suoi mezzi finanziari di origine illecita ed il secondo consente che la propria impresa diventi uno strumento di utilizzo di questi mezzi finanziari illeciti. Il camorrista non controlla l’impresa, non ne è il titolare indiretto attraverso l’interposizione fittizia dell’imprenditore non mafioso; ma investe in senso proprio, in cambio di un profitto che molto spesso è di carattere economico (ma può consistere anche in acquisizione di quote dell’impresa), senza che tuttavia l’imprenditore non mafioso possa essere considerato soltanto una testa di legno. L’imprenditore non mafioso, in tal modo, gestisce effettivamente l’impresa presente sul mercato, impresa che spesso è accompagnata, dall’esterno, dalla protezione del mafioso, che crea le condizioni di una prosperità di questa senza tuttavia mai acquisirne il controllo diretto. Quanto al momento attuale, va detto che nell’area della città di Napoli ha assunto preponderante rilievo l’organizzazione camorristica denominata “Alleanza di Secondigliano”. Su tale consorteria criminale la Procura di Napoli ha svolto numerose indagini fin dal 1997. La sua esistenza è stata di recente riconosciuta dalla Corte di Assise di Napoli, la quale – con sentenza pronunciata il 7 novembre 2000 – ha condannato, per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e per concorso in omicidio volontario in danno di un esponente di rilievo di un clan avversario, alcuni dei capi e dirigenti di tale gruppo criminale . Nella citata sentenza, la Corte d’Assise ha riconosciuto l’esistenza di numerose e consistenti prove sulle attività illecite del sodalizio, caratterizzate dal traffico di stupefacenti, dall’organizzazione del gioco clandestino e dalla consumazione di estorsioni in danno di commercianti ed imprenditori. L’enorme disponibilità economica che è derivata dal sistematico svolgimento di tali attività ha consentito all’organizzazione di reinvestire i ricavi in attività commerciali, realizzate in Italia, in Europa ed in molti paesi extraeuropei. In particolare, come emerso dai contributi di alcuni collaboratori di giustizia, i gruppi federati intorno al clan Licciardi hanno da tempo investito gran parte delle loro disponibilità in attività commerciali e, segnatamente, nella produzione e vendita all'ingrosso ed al dettaglio di capi di abbigliamento in finta pelle. Autonome e diverse investigazioni, peraltro, hanno segnalato altre imprese che commerciano prodotti alimentari, utensili ed altro. Le indagini svolte al fine di individuare coloro che si occupano della concreta gestione di tali attività economiche hanno evidenziato sicuri collegamenti con esponenti della consorteria criminale, sicché tali imprese possono sicuramente essere definite “mafiose”. Deve, inoltre, essere segnalata altra indagine nei confronti di imprenditori organicamente inseriti nella citata "alleanza di Secondigliano", legati in particolare al gruppo che fa capo ad Edoardo Contini. Si tratta di soggetti i cui stabili rapporti con gli esponenti di rilievo del clan, oltre ad essere indicati da alcuni collaboratori di giustizia, sono stati evidenziati da intercettazioni telefoniche ed ambientali. Le imprese, di rilevanti dimensioni, di cui tali imprenditori hanno la titolarità (per lo più operanti nel settore della vendita di mobili) sono attualmente sottoposte a sequestro preventivo disposto dal GIP del Tribunale di Napoli. Per quanto concerne l’assetto giuridico di tali imprese, si riscontrano sia società di persone (in particolare società in accomandita semplice) che società di capitali (in particolare società a responsabilità limitata). Non si sarebbe, sino ad ora, riscontrata una diretta conduzione della famiglia di sangue camorristica nell'esercizio di tali imprese. Esse vengono per lo più gestite comunque da persone strettamente legate all’originario gruppo criminale, in favore del quale prestano i propri servigi, anche contribuendo a favorire la latitanza di esponenti di assoluto rilievo dell’organizzazione. Si è quindi in presenza di un consolidato legame tra capi del sodalizio, gregari destinati al controllo “militare” del territorio, e coloro cui è affidata la cura degli interessi economici del gruppo criminale. Questi ultimi possono poi essere sia soggetti incensurati sia persone pienamente organiche all’associazione camorristica sia, infine, soggetti che vivono, loro malgrado, un rapporto di sudditanza nei confronti di tale organizzazione. Il carattere “mafioso” delle imprese in questione si evidenzia nell’esercizio di un vero e proprio monopolio (che si intende espandere anche all’estero) per lo svolgimento delle loro attività. Le indagini in corso, infatti, starebbero dimostrando che la penetrazione commerciale di tali imprese nei più nuovi ed appetibili mercati (come i paesi dell’est europeo, ma anche gli U.S.A., dove vengono prescelti settori non interessati dalla criminalità organizzata locale) avviene attraverso l’intervento iniziale di un qualche esponente di rilievo dell’organizzazione, che impone, con la forza di intimidazione del clan, la presenza dominante dell’impresa mafiosa. Per quanto riguarda la zona di Nola e di Marano, alcuni procedimenti già definiti in sede dibattimentale hanno evidenziato una prevalente presenza di imprese camorristiche nel campo delle forniture di calcestruzzo e dei conglomerati bituminosi (soprattutto collegate con i clan Autorino e Russo), che hanno fortemente condizionato il mercato, riuscendo ad estromettere quelle ditte che non erano loro direttamente collegate. Operatività di imprese camorristiche è stata riscontrata anche nell’area di Castellammare di Stabia , soprattutto con riferimento ai lavori di ampliamento dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e di raddoppio dei binari della Circumvesuviana. Fenomeni analoghi a quelli citati sarebbero stati rilevati anche nell’area di Marano e di Quarto, territorio dominato dal clan Polverino. Anche in questo caso si è accertato, con riferimento ai lavori di ammodernamento della S.E.P.S.A., società esercente trasporti ferroviari, la pesante interferenza del clan Nuvoletta-Polverino nell’imposizione delle ditte destinate allo svolgimento dei lavori ed alla esecuzione delle forniture, mediante atti di intimidazione cui non sarebbero rimasti estranei, sia pure in qualità di mandanti, gli stessi titolari delle ditte avvantaggiate. Del resto, il diretto coinvolgimento, sia pure a mezzo di prestanome, della famiglia Nuvoletta e dei Polverino nel settore del calcestruzzo è cosa ampiamente nota e risalente nel tempo. Indagini già svolte avrebbero, inoltre, posto in evidenza la gestione monopolistica attuata da parte del clan Polverino, con specifico riferimento al mercato della carne e della panificazione, attraverso il diretto controllo, talora anche mediante familiari del capo-clan, di imprese svolgenti tale tipo di attività. Spazi di estremo interesse avrebbe offerto a tale tipo di imprese l’eliminazione dei controlli doganali nell’ambito dei paesi dell’Unione Europea. Attraverso l’importazione della quasi totalità della merce in evasione delle imposte dirette, e mediante il controllo dei territori di vendita, sono state realizzate, infatti, situazioni di vero e proprio monopolio, favorite dai prezzi concorrenziali che tali imprese riescono a praticare. La notorietà dei legami di tali imprese con le associazioni criminali che controllano la aree in cui queste si trovano ad operare scoraggia efficacemente gli altri imprenditori, i quali, nell’impossibilità di esercitare una normale concorrenza, finiscono con l’abbandonare il settore di mercato “inquinato”. Nondimeno, agli operatori che sono costretti a rivolgersi alle imprese mafiose vengono praticate condizioni così favorevoli che si evita qualsiasi forma di resistenza, rendendo superfluo pertanto il ricorso, nei confronti dei clienti, a pratiche di natura estorsiva. Di estrema varietà si presentano, invece, gli interessi economici del clan Nuvoletta. Essi spaziano, in forme assolutamente legali, nei più variegati settori imprenditoriali: dall’edilizia all’industria del divertimento (attraverso la gestione di locali notturni). Le indagini hanno rivelato l’estrema diversificazione di tali interessi economici sia in Italia sia in numerosi stati della U.E.. Le imprese gestite dal clan, operanti in assoluta legalità e, salvo che nell’area di Marano, neppure in regime di monopolio mafioso, consentono d’altra parte una straordinaria opportunità di riciclaggio degli ingenti profitti che i Nuvoletta si procurano attraverso il traffico di stupefacenti. Sono quindi le condizioni praticate che determinano il prevalere di tali imprese sul mercato. La molteplicità dei settori investiti dall’economia criminale di stampo camorristico è attestata anche dalle risultanze delle indagini riguardanti la ricostruzione delle illecite attività del clan Fontanella di S. Antonio Abate, nato dal disciolto clan Imparato di Castellammare di Stabia. Le attività di indagine, avviate nel settembre 1997, avrebbero consentito l’individuazione dell’ampio ventaglio delle attività illecite del sodalizio criminoso, attività che vanno dalla sistematica imposizione di pretese estorsive agli industriali conservieri, agli imprenditori che si occupano del trasporto di prodotti conservieri ed a quelli che si occupano della produzione e commercializzazione dello “scatolame vuoto” nel territorio di S. Antonio Abate e dintorni, fino al tentativo di acquisire il monopolio delle attività di mediazione nel settore dei trasporti e della commercializzazione dei prodotti conservieri, attraverso comportamenti tipicamente camorristici, tendenti a scoraggiare la concorrenza di altri imprenditori. Per il conseguimento di simili obiettivi, il gruppo Fontanella aveva costituito la società “F.M. s.r.l.”, che – per quanto detto – può senz’altro definirsi una vera e propria impresa mafiosa. Inoltre, uno dei suoi esponenti di rilievo, Giuseppe Fontanella (fratello del capo della cosca, Gioacchino), era riuscito ad infiltrarsi nel sindacato degli autotrasportatori, facendosi designare quale vice presidente della Federazione Autotrasportatori Italiani (tale vicenda è stata menzionata dalla Commissione Parlamentare Antimafia nella relazione proposta all’esame del Parlamento nel luglio 2000). Il metodo mafioso accertato consisteva, peraltro, nell’imporre lo sciopero come strumento di pressione per ottenere l’aumento del prezzo dei trasporti da imporre agli acquirenti e nell'esercitare notevoli pressioni sugli autotrasportatori, che non erano decisi a partecipare agli scioperi indetti dalla federazione. In questo caso, infatti, il capo-cosca dava mandato ai propri affiliati di danneggiare, mediante incendio, i camion degli autotrasportatori riottosi. Dagli accertamenti svolti è altresì emerso che l’impresa mafiosa dei Fontanella non ha esitato a sopprimere i titolari di imprese svolgenti la medesima attività nel settore, al fine di acquisire il monopolio nella gestione di tale servizio nell’area che va da S. Antonio Abate fino al porto di Salerno. Analoghi interessi sono stati posti in luce dalle investigazioni che hanno riguardato il sodalizio criminoso Mollo-Veneruso, operante nella zona di Volla, popoloso comune nella immediata periferia di Napoli e sede individuata per la localizzazione del mercato ortofrutticolo provinciale. Il clan in questione aveva programmato, per dare veste giuridica stabile e formalmente legale alla propria iniziativa criminale, la costituzione di una agenzia, alla quale i commercianti del costituendo mercato ortofrutticolo napoletano avrebbero dovuto necessariamente rivolgersi, per i servizi di facchinaggio, trasporto, assicurazione, stoccaggio, deposito, custodia e vigilanza, connessi con la commercializzazione dei prodotti ortofrutticoli. Particolarmente preoccupante e pericoloso è il fenomeno della contiguità di molte imprese “pulite” a quelle collegate alla criminalità organizzata. Tra queste particolarmente importante è la “Calcobit” S.p.A. di Vincenzo e Francesco Tuccillo, con sede in Casoria, fornitrice di calcestruzzo in tutti i più importanti appalti regionali. Detta impresa, con altre del gruppo, è tuttora operante, in quanto gli originari titolari hanno ceduto la conduzione a figli ed altri parenti nel 1997. Anche nel clan Alfieri, che sino al 1992 controllava, salvo qualche eccezione, tutto il territorio della provincia napoletana, erano inseriti elementi criminali che vantavano anche un passato imprenditoriale di grande significatività, quali la famiglia Galasso di Poggiomarino (settore edile, trasporti, immobiliare) e quella dei Magliulo di Afragola (settore edile). Alcuni esponenti di queste due famiglie hanno collaborato con la giustizia, e hanno avuto il loro patrimonio sequestrato e confiscato. Gli altri esponenti di spicco dell’organizzazione (e lo stesso Carmine Alfieri) hanno assicurato vantaggi economici ad una serie di imprenditori, che avevano fatto la loro fortuna parallelamente a quella dell’organizzazione di riferimento. E’ stato processualmente accertato che, dall’epoca dello storico sequestro Cirillo in poi, alcuni politici, imprenditori ed esponenti della “Nuova Camorra Organizzata” prima, e dell’organizzazione dei cosiddetti “casalesi” e del clan Alfieri poi, stabilirono un vero e proprio rapporto sinallagmatico per la gestione del potere e soprattutto per l’acquisizione di enormi profitti illeciti. In sostanza, sarebbe emerso che i politici, attraverso la camorra, si garantivano un sistematico controllo del voto e, attraverso le imprese, un continuo flusso di finanziamenti. Il sistema degli appalti pubblici risulta, in maniera molto chiara, essere quello che Pasquale Galasso, capo dell’omonima famiglia (divenuto poi collaboratore di giustizia), già nel dicembre 1992 aveva rivelato. Questo sistema sarebbe incentrato sul fatto che il politico, che gestisce il finanziamento e l’assegnazione dell’appalto, fa da mediatore tra la ditta – quasi sempre del settentrione o del centro Italia e di notevolissime dimensioni – e la camorra. Tale mediazione avviene imponendo all’impresa sia una tangente indirizzata allo stesso politico che si è interessato dell’appalto (o ai suoi rappresentanti diretti) sia mediante l’assegnazione di subappalti a ditte controllate direttamente dalle organizzazioni camorristiche. Neppure le grandi imprese operanti nel settore degli appalti pubblici, e concessionarie delle opere di maggior rilievo, hanno costituito un argine a questo meccanismo di diffusione del controllo della camorra sulle imprese edili; tali imprese, anzi, ricevuta la commissione, entravano, quasi sempre in contatto con le imprese accreditate dalla camorra, spesso cedendo loro la realizzazione dell’intera opera oggetto dell’appalto, trasformandosi così da soggetti produttori a semplici mediatori finanziari. Questo meccanismo perverso è stato disvelato all’esito di diverse indagini, tra le quali quella relativa alla costruzione della terza corsia dell’autostrada Roma-Napoli e quella sugli appalti indetti dal compartimento di Napoli delle Ferrovie dello Stato. Una indagine che ha rivelato ulteriori enormi interessi della criminalità camorristica è quella relativa all'importazione dall'estero (per lo più dalla Francia e dalla Germania) di partite di carne, con interposizione di società fittizie, in violazione della normativa finanziaria e sanitaria. Sul punto, i Carabinieri del ROS di Napoli hanno potuto accertare che le partite di carne entravano in Italia senza controlli al confine ed erano dirette a società di comodo: in realtà le carni venivano scaricate in località del napoletano e prelevate da acquirenti rimasti ignoti, venendo vendute senza alcun controllo sanitario. L’introduzione in Italia avveniva con l’utilizzo di false fatture intestate a società fittizie. Considerando l’attuale pericolo di espansione di alcune gravi epidemie, risultano evidenti i gravissimi pericoli per la salute pubblica derivanti da questa attività clandestina. Pure nell’ambito di più indagini attivate sul territorio della provincia di Caserta è stata accertata l’esistenza di imprese che possono essere definite mafiose. Emblematica sarebbe la vicenda dei lavori per la realizzazione della linea ferroviaria ad alta velocità, caratterizzata da azioni intimidatorie poste in essere nei confronti della “Calcestruzzi S.p.A.” (società capofila dell’A.T.I.), fornitrice di calcestruzzo per le ditte impegnate nei suddetti lavori, da parte del clan camorristico facente capo a Mariniello Gennaro, e dall’organizzazione dei “casale si”, facente capo a Narciso Gaetano, ex assessore al comune di Acerra. Dette azioni intimidatorie erano finalizzate all’affidamento in subappalto dei lavori a delle imprese che avrebbero poi dovuto trasferire una parte percentuale dei corrispettivi alle organizzazioni criminali. Di particolare rilievo ed interesse si sarebbero poi dimostrate le indagini concernenti il settore dei rifiuti. Si sarebbe infatti accertata la diretta titolarità da parte di personaggi appartenenti al clan dei “casalesi” di una fitta rete di imprese dedite, in perfetta sinergia e secondo consolidati percorsi, alle lucrosissime attività di raccolta, trasporto, intermediazione commerciale, stoccaggio intermedio e smaltimento finale abusivo di tutte le tipologie dei rifiuti sull’intero territorio nazionale, particolarmente negli anni intercorrenti tra il 1994 ed il 1997. L’attività è stata effettuata in regime di monopolio da parte dell’organizzazione camorristica dei “casalesi” ed offriva agli imprenditori produttori dei rifiuti condizioni più vantaggiose con riferimento ai costi elevatissimi che gli stessi avrebbero dovuto sopportare per le legali attività di smaltimento, relativo all’enorme percentuale di scorie che si generano sistematicamente dai processi industriali di lavorazione (circa il 50-60% della materia prima). Nel circondario di Avellino operano due principali gruppi camorristici: il sodalizio capeggiato dalla famiglia Pagnozzi, attivo nella Valle Caudina, ed il clan Genovese, operante in Avellino e nei comuni del solofrano. Per quanto concerne il clan Pagnozzi, lo stesso si è distinto, in modo particolare, per la gestione monopolistica dei prestiti usurari; ciò ha consentito al sodalizio, tra l’altro, di acquisire imprese ed esercizi commerciali, i cui titolari vengono a trovarsi nell’impossibilità di fare fronte alle scadenze, trasformando la titolarità dell’usurato da effettiva in fittizia. I settori produttivi coincidono con quelli di maggiore espansione territoriale: lavorazione dei prodotti agricoli e dei capi di bestiame allevati, il commercio e l’edilizia. Venendo al clan Genovese, occorre anzitutto porre in risalto il carattere prettamente imprenditoriale del sodalizio; si tratta infatti di un clan che ha affermato la propria egemonia in primo luogo proprio sul terreno imprenditoriale maggiormente lucrativo nella città di Avellino, che è quello del movimento-terra e del cemento, connesso alla esecuzione di opere pubbliche e alle principali commesse dei privati. L’acquisizione del controllo oligopolistico in tale settore è avvenuto attraverso l’eliminazione, anche cruenta, di potenziali concorrenti, il condizionamento delle procedure di aggiudicazione e soprattutto dell’affidamento dei subappalti e dei noli, l’assoggettamento di altri imprenditori, costretti a riconoscere percentuali sugli importi dei lavori ovvero ad assumere maestranze imposte dal clan. L’attività di indagine ha condotto all’emissione di misure coercitive. Anche a Salerno e provincia la criminalità organizzata è radicata nel territorio in modo composito e con aggregazioni o clan che controllano le attività illecite di determinate aree. Il fenomeno è caratterizzato da una continua fluidità e da un continuo movimento, nel senso che i vari clan, pur se colpiti da provvedimenti restrittivi, si riaggregano o si ricostituiscono con i superstiti, continuando la loro attività delittuosa. L’attività investigativa ha individuato la presenza nel territorio di quindici clan, le cui attività criminali spaziano dalle estorsioni all’usura, dal traffico di stupefacenti al controllo della prostituzione, dalla gestione degli appalti al controllo dei giochi e delle scommesse clandestine, dal contrabbando alla gestione di attività commerciali finanziate da proventi illeciti. Nel territorio del distretto salernitano operano numerose imprese che possono essere qualificate mafiose. Alcune sono state costituite da appartenenti ai clan, che in esse investono i proventi delle attività criminali. Altre, pur non impiegando capitali dei clan camorristici, utilizzano la forza intimidatrice delle organizzazioni criminali per acquisire appalti, commesse e per vincere la concorrenza delle altre imprese. Molteplici sono i settori produttivi nei quali operano le suddette imprese. Il più importante può ritenersi quello della edilizia pubblica e privata, sia per i capitali investiti che per i ricavi conseguiti. Esso comprende la fornitura dei calcestruzzi e dei conglomerati bituminosi, il movimento-terra, la costruzione di opere pubbliche appaltate. Altro settore interessato dall’attività delle imprese mafiose è quello della gestione di locali commerciali, come bar, ristoranti, night nei quali avviene anche un capillare spaccio di stupefacenti; risulta che alcuni clan hanno ristrutturato bar investendo centinaia di milioni per ricavarne maggiori utili. I clan hanno poi acquisito il completo controllo delle forniture ai vari esercizi di video– poker, attraverso i quali conseguono notevoli ricavi. Si sono evidenziati anche casi di gestione di attività di trasporto e di attività conserviere. Gli assetti giuridici normalmente adottati sono quelli delle società a responsabilità limitata, di società in nome collettivo e di imprese individuali. Vi è, a volte, un ruolo della famiglia di sangue nella conduzione e gestione delle suddette imprese, sempre che non sia possibile il ricorso al rapporto fiduciario o al rapporto di costrizione. I vantaggi differenziali indebiti di cui godono le imprese mafiose rispetto alle altre sono di vario aspetto. Si sono rilevati casi nei quali le imprese mafiose, con attività intimidatoria dei clan di appartenenza, hanno ottenuto (sostituendosi nella completa gestione dell’appalto) subappalti di opere pubbliche dall’impresa appaltatrice. A volte, i clan hanno vinto la concorrenza di altre imprese nell’acquisto di aziende. Si sono verificati anche episodi in cui l’impresa mafiosa è stata costretta a pagare una “tangente concordata” per gestire gli appalti vinti in zone controllate da altri clan. Tra i procedimenti penali svoltisi nell’ultimo quinquennio nei quali è emersa l’esistenza di imprenditoria mafiosa, si devono ricordare i seguenti: § procedimento a carico di Cammarota Vincenzo per concorso in estorsione in danno di altri imprenditori, unitamente ad esponenti della criminalità organizzata operante nella zona di Nocera Inferiore; § procedimento contro Citarella Giovanni, figlio di Citarella Gennaro, capo-camorra nella zona di Nocera Inferiore, per concorso in tentato omicidio, concorso in estorsione; § procedimento contro Lanzetta Gennaro per associazione a delinquere di stampo camorristico, con sequestro preventivo di beni per un valore di circa 400 miliardi; § procedimento contro Picentino Bruno, imprenditore in prevalenza fornitore di movimento-terra, per associazione a delinquere di stampo camorristico; § procedimento contro De Rosa Antonio, fornitore di mezzi e di movimento-terra, per associazione a delinquere di stampo camorristico ed estorsione; § procedimento contro Meluzio Antonio e Meluzio Angelo, per associazione a delinquere di stampo camorristico, estorsione e riciclaggio di ingenti capitali dei clan. Sarebbero emersi collegamenti di tipo personale, economico e giuridico, tra le organizzazioni criminali di stampo mafioso e settori dell’imprenditoria. In molti casi, più che di collegamenti si è riscontrata una vera e propria cointeressenza, essendo gli stessi imprenditori compartecipi dell’organizzazione criminale. Nell’area barese, si registra la presenza di imprese mafiose, così qualificabili per le modalità operative dei componenti, per i loro precedenti giudiziari, oltre che per la provenienza dei capitali. I settori produttivi in cui dette imprese operano sono quelli della commercializzazione delle carni (come avviene nella zona di Foggia) e della commercializzazione di apparecchiature destinate alla pratica del gioco d'azzardo (come avviene nella zona barese). L’assetto giuridico privilegia sostanzialmente quello delle ditte individuali, in quanto la conduzione di tali imprese è essenzialmente familistico, spesso affidata com’è a parenti dei capi del sodalizio criminoso. I vantaggi differenziali indebiti derivano dalla capacità dissuasiva della concorrenza, oltre che dall’assenza di conflittualità interna all’azienda, fenomeno peraltro sempre meno presente anche nelle attività legali. L’autofinanzia mento origina prevalentemente da attività estorsive e da capitali illecitamente costituiti con i reati-fine dell’organizzazione criminale (quali contrabbando, traffico di stupefacenti ed altro). Parimenti, nel distretto di Lecce vi sono imprese che possono essere qualificate mafiose ed operano nei settori produttivi dei supermercati alimentari, dell’abbigliamento, del commercio, dei videogiochi, della produzione dei giocattoli, dell’edilizia, degli autotrasporti, del settore immobiliare. Si tratta sia di imprese individuali che di società di capitali; tuttavia spesso le attività imprenditoriali sono condotte e gestite su base essenzialmente familiare. I più frequenti vantaggi di cui godono tali imprese sono, in linea di massima, sia la creazione di situazioni di monopolio locale sia l’assenza di conflittualità interna sia l’esenzione da richieste estorsive. Nell’arco dell’ultimo quinquennio vi sono stati indagini e processi che hanno dimostrato l’esistenza di collegamenti tra gruppi criminali e settori dell’imprenditoria ed intrecci tra la criminalità organizzata ed attività economiche legali. Sono stati segnalati i seguenti procedimenti particolarmente significativi: § il processo n° 8070/94, cd. “Cahors”, nell’ambito del quale è stato accertato che l’organizzazione criminale facente capo alla famiglia Scarci aveva investito in attività di ogni genere e realizzato un vero e proprio impero economico, con collegamenti con le più potenti organizzazioni mafiose nazionali (tra cui il clan della Magliana), processo in cui sono stati sequestrati beni ed imprese del valore complessivo di circa 70 miliardi; § il processo n° 10179/94, cd. “Orrilo”, nell’ambito del quale si è potuto accertare che il clan Martera– Cesario–Cianciaruso aveva costituito la cooperativa “Stella Azzurra” (società di vendita ed intermediazione di prodotti ittici con sede in Taranto) non solo come struttura per il riciclaggio dei proventi illeciti, ma anche per offrire attività lavorative lecite ai sodali, progettando inoltre di costringere con l’intimidazione mafiosa tutti i pescatori e mitilicoltori a versare alla cooperativa i frutti della loro attività; § il processo n° 298/95, nell’ambito del quale sono state individuate otto aziende (in provincia di Lecce, di Brindisi e Rimini) nel settore immobiliare ed in quello dell’abbigliamento, facenti capo ad un unico imprenditore, contiguo ad uno dei principali capi della “Sacra Corona Unita” brindisina (che in tali attività aveva investito ingenti somme provenienti dal contrabbando di sigarette); § il processo 1961/97, che ha consentito di individuare una fabbrica di giocattoli di modeste dimensioni, nel sud del Salento, che un clan mafioso intendeva utilizzare come copertura per le sue attività illecite; § il procedimento n° 61/99, che ha consentito di svelare che un gruppo mafioso operante a Lecce aveva impiegato i propri proventi illeciti nell’acquisto di numerosi esercizi commerciali in diversi settori; § il procedimento n° 4463/00, cd. “Tir”, nell’ambito del quale è stato accertato che due organizzazioni mafiose operanti ad occidente della città di Taranto (clan Coronese–Caporosso e clan Putignano) avevano costituito, nel settore dell’autotrasporto, delle società a carattere prevalentemente familiare, agendo in posizione di monopolio con l’esclusione dal mercato delle aziende concorrenti. Anche a Reggio Calabria vi sono imprese che possono essere qualificate come imprese mafiose. Queste operano prevalentemente nel settore edilizio e commerciale sotto forma sia di imprese commerciali che di società a responsabilità limitata, con il coinvolgimento diretto della famiglia mafiosa di appartenenza nella gestione e conduzione delle stesse. I più frequenti vantaggi differenziali indebiti di cui godono le imprese mafiose rispetto alle altre sono rappresentati da: a) esenzione da richieste estorsive; b) lavoro nero; c) mancanza di controlli amministrativi. Vi sono stati negli ultimi cinque anni indagini giudiziarie, nel corso delle quali si è potuta riscontrare l’esistenza di una imprenditoria mafiosa, operante nel territorio di Reggio Calabria e della provincia mediante la commissione di estorsioni, trasferimento fraudolento di valori e turbative d’asta. In particolare, nel campo degli appalti pubblici la ‘ndrangheta ha ormai raggiunto, attraverso le sue diramazioni locali, la capacità di controllare quasi capillarmente le procedure d’asta di gran parte dei comuni del distretto, riuscendo a condizionarle in modo tale da far risultare aggiudicatarie degli appalti imprese, direttamente o indirettamente, da lei controllate oppure riuscendo comunque, tramite intimidazioni poste in essere nei confronti degli imprenditori aggiudicatari che operano nella legalità, ad ottenere per le “sue” imprese quantomeno il subappalto dei lavori. Tale situazione sarebbe talmente consolidata, estesa e sostanzialmente accettata con rassegnazione anche da quei soggetti (imprenditori onesti e pubblici funzionari non collusi) che tendenzialmente nulla vorrebbero avere a che fare con la ‘ndrangheta. Questo stato di cose sarebbe emerso con chia rezza, da ultimo, in indagini che hanno riguardato le A.S.L. di Reggio Calabria (cd. “Sanitopoli”), nelle indagini denominate “decreto Reggio” (dal provvedimento che ha stanziato diversi miliardi per opere da realizzare nel capoluogo calabrese e nella provincia) e nelle indagini relative al porto di Gioia Tauro. Nell’area di Catanzaro, sulla scorta di dati processuali ed investigativi, si ritiene che sul territorio operino imprese mafiose, anche se occorre distinguere tra imprese di riferimento di una o più organizzazioni criminali ed imprese di diretta espressione delle stesse organizzazioni mafiose. Tali imprese operano nella cantieristica in genere (produzione, posa e fornitura di materiali cementizi, inerti, bituminosi) e sono tutte impegnate in la vori pubblici. Le stesse hanno la veste giuridica di società a responsabilità limitata. Il dato che accomuna le imprese mafiose in questione è quello della presenza di cd. “vincoli di comparaggio” tra l’imprenditore ed il boss mafioso. E’ emerso come le imprese mafiose ottengano rilevanti vantaggi indebiti nell’ambito della categoria, specie nel momento attuale in cui sono in corso di esecuzione importanti opere pubbliche. Trattasi di vantaggi che si concretizzano nelle situazioni di monopolio locale per le forniture di materiali e/o nei subappalti, nella tranquillità di cui godono rispetto alle note attività estorsive, nei comprovati atteggiamenti di favore da parte di pubblici amministratori nella fase di aggiudicazione delle gare e nella dissuasione di altri imprenditori dalla ordinaria concorrenza. Con riferimento all’ultimo quinquennio sono state segnalate le emergenze del processo “Ciak” svoltosi davanti al Tribunale di Cosenza, in relazione a decine di estorsioni consumate dai clan mafiosi sul territorio dal 1990 al 1994. In particolare, è risultato provato come un imprenditore, già legato indissolubilmente da anni al boss Franco Perna, abbia condizionato l’andamento di alcuni importanti opere pubbliche appaltate nel territorio, attraverso il ricorso all’interposizione di personaggi mafiosi che hanno gestito l’affidamento dei subappalti da parte dell’impresa appaltatrice all’impresa di riferimento, con notevole condizionamento della libertà di autodeterminazione. La presenza mafiosa, inoltre, è servita per impedire contestazioni sulla quantità e qualità delle forniture, nonché per condizionare il sistema delle verifiche delle opere eseguite. L’impresa mafiosa, perciò, si è assicurata illegalmente le forniture, senza timore di alcuna concorrenza, mentre il clan di riferimento ha estorto ingenti somme di denaro a titolo di protezione sul cantiere. Inoltre, attraverso il complicato e perfetto sistema delle sovra-fatturazioni, l’impresa mafiosa ha ottenuto il riconoscimento di varianti in corso d’opera che, in realtà, sono servite solo per giustificare la lievitazione di costi; in altri casi essa ha ottenuto il riconoscimento di costi ulteriori rispetto a quelli preventivati, senza contestazione alcuna da parte di chi, addetto ai controlli, è stato minacciato dai mafiosi o è stato da questi corrotto. Recenti indagini confermano tali emergenze con l’ulteriore specializzazione delle condotte criminose nel senso di evitare il ricorso alle varianti in corso d’opera ed alle sovra-fatturazioni. Da esse è emersa l’esistenza di collegamenti a carattere economico tra appartenenti ad organizzazioni criminali e settori imprenditoriali. Risultano altresì intrecci tra attività economiche riferibili alla ‘ndrangheta ed attività economiche legali, in specie rappresentate da appartenenti alle organizzazioni titolari in proprio o per interposta persona, imprese cioè anche di tipo individuale che, forti dell’appartenenza al clan, si aggiudicano forniture o prestazioni di servizi per altre imprese (è il caso della cd. estorsione mascherata dall’apparente liceità dei rapporti tra imprese). Anche nel distretto di Palermo vi sono imprese che possono definirsi mafiose, che operano soprattutto nei settori dell'edilizia e degli appalti pubblici; settori nei quali Cosa Nostra è riuscita a creare condizioni assai prossime a quelle di un regime di tipo monopolistico. Le indagini svolte in numerosi procedimenti hanno consentito di evidenziare taluni canoni comportamentali degli appartenenti a Cosa Nostra e dei soggetti ad essa contigui, nello specifico settore dell’economia e dei rapporti con le istituzioni creditizie. Tali canoni comportamentali sono stati spiegati, innanzitutto, da numerosi collaboratori di giustizia, che – nel delineare la struttura, gli scopi, e le modalità operative dell’associazione mafiosa – si sono soffermati, in particolare, sul rapporto tra Cosa Nostra e le realtà imprenditoriali operanti sul territorio da essa controllato. Secondo i dati forniti da collaboratori quali Gaspare Mutolo, Francesco Paolo Anzelmo, Calogero Ganci e Salvatore Cucuzza (che, una volta adeguatamente riscontrati, hanno consentito l’emissione di provvedimenti di sequestro di beni di ingente valore, nell’ambito di vari procedimenti penali), l’associazione criminale penetra il tessuto sociale ed economico del territorio nel quale agisce, avvalendosi, a tale fine, anche del contributo di soggetti che, pur se non formalmente inseriti nella stessa, sono comunque disponibili a svolgere ruoli di importanza vitale per l’associazione. Il settore più tradizionale di intervento di Cosa Nostra è quello dell’imprenditoria edile, in cui gli uomini d’onore progressivamente penetrano, dapprima chiedendo il pagamento del “pizzo” in relazione ai vari stadi di avanzamento dei lavori di costruzione, e, successivamente, instaurando un rapporto stabile e duraturo di “società di fatto”. In questa seconda forma evolutiva del rapporto (società di fatto) gli uomini d’onore e gli imprenditori edili concordano le modalità di costituzione e di finanziamento del sodalizio, con reciproci vantaggi ed accorgimenti. In particolare, l’imprenditore-socio (dell’uomo d’onore) viene finanziato con denaro contante ed è in condizione di pagare la manodopera e le forniture limitando l’esposizione bancaria al minimo indispensabile. E ciò, fermo restando il sistematico ricorso ai mutui bancari, ovviamente richiesti in misura superiore al fabbisogno necessario, giacché l’erogazione degli stessi consente all’imprenditore di giustificare, in caso di indagini bancarie, una disponibilità finanziaria altrimenti non giustificabile, e comunque di impiegarla per scopi diversi da quelli per i quali formalmente è stata conseguita. A causa dell’introduzione di capitali di provenienza illecita, le imprese sane presenti sul mercato sono poco alla volta costrette a cedere spazio alle imprese controllate da Cosa Nostra, le quali pertanto, ad un certo punto, finiscono per operare in regime di monopolio (o di oligopolio). L’imprenditore in rapporto di affari con Cosa Nostra gode, inoltre, di agevolazioni nell’acquisto di terreni edificabili: se intende costruire nel territorio della famiglia mafiosa, gli uomini d’onore suoi soci si preoccupano di risolvere i problemi che dovessero eventualmente insorgere nel corso delle trattative di acquisto. Analogamente – se il progetto edile riguarda un territorio di pertinenza di famiglia diversa da quella con la quale l’imprenditore ha rapporti di affari – saranno sempre i soci occulti ad interessarsi presso la famiglia “competente”, al fine di agevolarlo il più possibile e di fargli ottenere uno “sconto” sulla somma che egli è comunque tenuto a corrispondere alla famiglia che controlla il territorio nel quale egli va ad edificare. Sulla base di indagini svolte sin dagli anni Novanta, è stata accertata l’esistenza di una imprenditoria mafiosa nel settore degli appalti pubblici; settore nel quale Cosa Nostra ha perseguito non soltanto il consolidamento della sua potenza economica, ma anche il tentativo – peraltro riuscito – di instaurare proficue relazioni con importanti espressioni dell’imprenditoria, della finanza e della pubblica amministrazione. Anche in questo campo si sono rivelate preziose le dichiarazioni, peraltro riscontrate, di alcuni collaboratori di giustizia quali Leonardo Messina, Giuseppe Marchese, Giovanni Drago e Baldassarre Di Maggio. In buona sostanza, vi è stata una graduale evoluzione da una fase in cui Cosa Nostra si limitava solo ad uno sfruttamento parassitario del mondo imprenditoriale, ad un’altra in cui l’organizzazione criminale viene ad assumere un ruolo, sempre più rilevante, di co-protagonismo nei lavori pubblici in Sicilia, tramite l’impiego di alcuni personaggi-chiave rivelatisi indispensabili per conseguire il controllo del settore. Va infatti considerato che, mentre l’imposizione di una tangente o di un sub-appalto si esaurisce in un rapporto bilaterale e può essere realizzato con semplici atti di forza e senza la necessità di alcuna competenza tecnica, l’inserimento nel complesso sistema di “governo spartitorio” degli appalti pubblici comporta una approfondita conoscenza dei sofisticati meccanismi di pilotaggio delle gare di appalto, il possesso di una solida rete di relazioni con il mondo imprenditoriale, con esponenti politici, con pubblici funzionari nonché grandi capacità di mediazione. L’infiltrazione di Cosa Nostra nel sistema è stata, quindi, attuata mediante alcuni personaggi organicamente collegati all’associazione mafiosa, i quali, per essere dotati dei necessari requisiti (know how tecnico, dislocazione in punti chiave del sistema, patrimonio di relazioni personali) erano in grado di svolgere l’infungibile e delicata funzione di “interfaccia” tra Cosa Nostra e mondo imprenditoriale. Si tratta, normalmente, di imprenditori che operano nel settore dei lavori pubblici, che mettono a disposizione dell’organizzazione mafiosa l’esperienza acquisita ed il loro corredo di relazioni, consentendo quindi a Cosa Nostra di coordinare la partecipazione alle gare e le offerte delle imprese partecipanti per realizzare una regolamentazione del mercato che comporta notevoli vantaggi economici attraverso una sostanziale soppressione del regime di libera concorrenza. Mediante un sistema di “rotazione programmata” tutte le imprese sottoposte alla “regia” di Cosa Nostra hanno la garanzia di ottenere, a turno, l’aggiudicazione di appalti pubblici, offrendo il minimo ribasso (6 ). Il notevole incremento dei margini di profitto consente alle imprese di lucrare un maggiore guadagno e di erogare maggiori tangenti a Cosa Nostra ed ai politici. Inoltre, il sistema della turnazione evita scontenti e l’innescarsi di pericolosi conflitti, consentendo a Cosa Nostra di favorire le imprese più vicine all’organizzazione. Questo metodo (originariamente proposto da Angelo Siino, poi diventato collaboratore di giustizia nel 1997) venne fatto proprio dai vertici di Cosa Nostra e sperimentato inizialmente nell’ambito ristretto degli appalti banditi dalla Amministrazione provinciale di Palermo; successivamente esso si estese a quelli banditi da altri enti pubblici e poi si è trasformato , dalla seconda metà degli anni Ottanta, in un sistema globale di controllo verticale degli appalti pubblici sull’intero territorio dell’isola. L’analisi di tale situazione è stata integralmente confermata da numerose e complesse indagini svolte dal 1993 a tutt’oggi, in molteplici procedimenti dettagliatamente indicati nella relazione inviata alla Xª Commissione. Dalle suddette indagini sono stati acquisiti elementi probatori tali da far ragionevolmente presumere la sistematic a disponibilità manifestata anche da gruppi imprenditoriali nazionali ad intrattenere rapporti economici intensi (e per importi assai significativi) con soggetti legati a Cosa Nostra, in modo da consentire a questi ultimi il re-investimento di ingenti capitali e la gestione, diretta o indiretta, di importanti affari (come investimenti immobiliari, appalti di opere pubbliche, realizzazione di grandi complessi edilizi, forniture di calcestruzzi) dietro al comodo paravento del nome prestigioso di una “holding” di valenza nazionale ed internazionale, e, quindi, al riparo da eventuali ripercussioni negative derivanti dalla legislazione penale e da quella in materia di misure di prevenzione. Oltre ai settori sopra riferiti le imprese mafiose operano anche: nel campo del settore agro-alimentare (oggetto di interesse anche per la possibilità di beneficiare dei cospicui finanziamenti CEE); nel campo sanitario (in particolare attraverso la costituzione di società aventi ad oggetto forniture di apparecchiature per strutture ospedaliere); nel settore delle società finanziarie (aventi il fine di riciclare denaro di provenienza illecita); nel settore dello smaltimento dei rifiuti. Per quanto riguarda l’assetto giuridico di tali imprese, al modello tradizionale dell’impresa individuale o della società a responsabilità limitata è subentrato sempre più frequentemente quello della società per azioni, con una conseguente maggiore difficoltà di individuare, nella compagine sociale, i soggetti direttamente collegati alla compagine mafiosa. Altro strumento giuridico frequentemente adottato è quello delle associazioni temporanee di imprese (cd. ATI), attraverso il quale società o ditte individuali, che non possiedono i requisiti richiesti per partecipare a particolari gare di appalto, si associano in maniera fittizia, con imprese "insospettabili" in possesso dei requisiti richiesti. Nella gestione di dette imprese il ruolo della “famiglia di sangue” appare ancora preminente. Non meno allarmante si presenta la situazione nelle altre aree siciliane. In particolare, a Caltanissetta operano delle imprese, soprattutto nel settore degli appalti pubblici, che possono essere definite mafiose, sia pure con delle caratteristiche diverse in relazione alla natura ed intensità dei rapporti con Cosa Nostra. Sostanzialmente (come risulta da dichiarazioni di collaboratori di giustizia, ad esempio Leonardo Messina) esistono tre tipologie di imprese: 6 Nel corso di una audizione effettuata dalla X Commissione a Palermo il 24-25 maggio 2002, è emerso da parte della D.D.A. del capoluogo che, grazie ad una legge regionale della Sicilia del 1998, il 98% circa degli appalti pubblici entro i 5 miliardi di (vecchie) lire è stato aggiudicato con ribassi inferiori all’1% (a fronte di una media nazionale per questa categoria di opere del 15% circa). a) b) c) imprese organicamente inserite nella organizzazione mafiosa, che ne dispone per il controllo delle gare di appalto; imprese vicine all’organizzazione, che ricevono vantaggi in cambio di protezione; imprese che entrano in relazione con l’organizzazione mafiosa, senza essere inserite nella stessa né ad essa “vicine”. Cosa Nostra prevede un duplice livello di “interferenza”. In primo luogo, quando si tratta di scegliere a chi debba essere aggiudicata questa o quella gara di appalto. A tale fine, a seconda dell’importanza (regionale, provinciale o comunale) dell’opera pubblica è incaricato un uomo d’onore, che ha il compito di dare esecuzione alle determinazioni che, di volta in volta, assume l’organizzazione. Tale attività fiduciaria si espleta mediante varie condotte, che vanno dal coinvolgimento di imprese organicamente inserite nell’associazione mafiosa alle intimidazioni ed imposizioni verso le imprese più restie a soggiacere alle decisioni dell’organizzazione criminale, a comportamenti fraudolenti, come la manomissione dei documenti per determinare l’esclusione di ditte. In un secondo livello, l’associazione mafiosa interviene dopo l’aggiudicazione degli appalti imponendo, con varie forme, le imprese sub-appaltatrici, le guardianie, l’assunzione di manodopera nonché la fornitura di materiali e la prestazione dei servizi di noleggio e trasporto. Tale situazione è emersa in numerosi procedimenti penali, quali il procedimento cd. “Leopardo”, conclusosi in grado di appello nel 1999; il procedimento cd. “mafia ed appalti a Bagheria e Mussomeli”, conclusosi con sentenza di primo grado nel 1998. In tali procedimenti erano imputati, oltre ad elementi di Cosa Nostra, anche numerosi imprenditori. I vantaggi indebiti di cui usufruiscono le imprese mafiose sono costituiti dalla possibilità di dissuadere gli altri imprenditori dal libero esercizio della concorrenza, nonché dalla possibilità di imporre le proprie forniture nell’esecuzione degli appalti. Nell’ambito del procedimento “mafia ed appalti”, si è riscontrato il sistema del cartello di imprese, cioè della rotazione concordata nella aggiudicazione degli appalti, tramite il cd. “tavolo di accordi”. Inoltre, attraverso il raggruppamento di imprese, o attraverso l’associazione temporanea di imprese per la partecipazione a gare di appalto, l’impresa legale spesso mette a disposizione di altra impresa, coinvolta nell’associazione mafiosa, la specifica iscrizione all’Albo dei costruttori, di cui l’impresa mafiosa è priva. Gli assetti societari di tali imprese sono di tipo misto; accanto a ditte individuali vi sono società di capitali (non quotate in borsa e quasi sempre riconducibili ad imprenditori individuali o a gruppi familiari). Assenti sono le società in accomandita, mentre molto rare le società di persone. A Catania , invece, non vi sono imprese mafiose in senso stretto, intendendo per tali quelle imprese costituite od acquisite per iniziativa di una organizzazione criminale, che ne ha la gestione ed alla quale vengono poi destinati i proventi per finanziarne le esigenze organizzative e ricompensare i singoli consociati. Esistono, piuttosto, imprese gestite in modo diretto od indiretto da un singolo mafioso, nel proprio esclusivo interesse, utilizzando anche le risorse ed i proventi, di sua esclusiva spettanza, derivanti dall’attività criminale dell’organizzazione. Esistono, inoltre, imprese ad infiltrazione mafiosa, nelle quali l’imprenditore estraneo all’organizzazione criminale instaura con questa rapporti di cointeressenza, accettandone i “servizi” (quali protezione, assistenza in situazioni conflittuali interne o esterne, azione di supporto per la penetrazione nel mercato etc.) e/o apporti economici, contraccambiati con erogazioni di denaro ovvero con servizi ed attività complementari a quelle dell’impresa (quali subappalti, trasporti, distribuzione, etc.). I settori produttivi in cui operano le suddette imprese spaziano da quello industriale (si pensi a trasporti, edilizia, partecipazione ad appalti pubblici) a quelli commerciali (dal piccolo negozio al dettaglio alla grande distribuzione). Le forme giuridiche sono le più varie e vanno dall’impresa individ uale alle società di persone e capitali. La “famiglia di sangue” non appare oggi avere un ruolo imprenditoriale diretto nelle imprese mafiose. I vantaggi indebiti che tali imprese conseguono (rispetto alle altre) consistono soprattutto in finanziamenti bancari non garantiti, in atteggiamenti di favore da parte della pubblica amministrazione sia in tema di aggiudicazione di appalti sia per il rilascio di concessioni ed autorizzazioni sia ancora in tema di controllo e repressione di illeciti di qualsiasi tip o. Spesso, infine, nella situazione di sostanziale monopolio in cui operano sul mercato. A Messina vi sono delle imprese che possono ritenersi mafiose in ragione delle consistenti ingerenze che hanno all’interno delle stesse le organizzazioni criminali di stampo mafioso o i soggetti ad esse collegati. I settori produttivi in cui esse operano sono quelli dell’edilizia, delle attività commerciali, dei trasporti e dei servizi alle imprese ed ai privati. Gli assetti giuridici prevalentemente adottati sono quelli dell’impresa individuale o della società a responsabilità limitata. Non è infrequente rilevare che al vertice dell’impresa mafiosa siano collocate persone legate da vincoli di parentela con il vero “dominus” dell’impresa. I vantaggi differenziali indebiti di cui godono tali imprese consistono, soprattutto: nelle frequenti aggiudicazioni di gare di appalto che i titolari delle imprese mafiose condizionano sia attraverso illeciti accordi interni con le altre imprese partecipanti sia attraverso ’lintimidazione derivante dai collegamenti con gli esponenti di vertice delle organizzazioni mafiose; nella disponibilità di enormi risorse finanziarie a “costo zero”, in quanto provenienti da attività criminali; nella possibilità di reperire fuori dai circuiti legali forza-lavoro disposta ad accettare bassi salari, riduzione dei diritti e della professionalità; nella riduzione (o addirittura eliminazione) della concorrenza degli altri imprenditori, ottenuta con la minaccia e, se necessario, con la violenza; nella esenzione da richieste estorsive e da danneggiamenti. Nel periodo gennaio 1996-dicembre 2000 sono state condotte dalla D.D.A. diverse indagini preliminari per i reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, turbativa d’asta e corruzione, attraverso le quali è emersa l’esistenza di una imprenditoria mafiosa. I fatti oggetto d’indagine sono stati quelli relativi alla metanizzazione del territorio di Milazzo, alla costruzione di alcuni lotti dell’autostrada Messina-Palermo, al servizio di pulizia presso l’Università di Messina, nonché a diversi appalti banditi dal Comune di Messina per lavori di edilizia urbana. Le aree territoriali di insediamento delle imprese mafiose sono soprattutto quelle della fascia tirrenica (che comprende Barcellona P.G., Patti, Gioiosa Marea, Brolo, Terme Vigliatore, Tortorici, S. Agata di Militello, Tusa, Mistretta). Da altre indagini risultano collegamenti, di tipo personale ed economico, tra imprenditori ed appartenenti ad organizzazioni mafiose nonché intrecci tra attività economiche riconducibili ad organizzazioni mafiose ed attività economiche legali. I collegamenti tra tali due attività si sono concretizzati in finanziamenti nonché in rapporti di subappalto e di forniture di materiali e servizi. 4. Il riciclaggio Nel quadro della cd. economia illegale un grande rilievo ha, evidentemente, il riciclaggio. Ribadita, come ampiamente detto nella Premessa, l’assenza di un modello unitario nell’attività di riciclaggio, appare sempre più necessario concentrare l’obbiettivo del contrasto nella ricerca empirica di singoli modelli specifici di detto fenomeno per tentare di tracciarne delle tipologie tendenziali. 4.1 Il fenomeno in cifre Un elemento fondamentale per la conoscenza di esso è costituito, indubitabilmente, dalle dimensioni quantitative del sistema nel cui ambito possono verificarsi condotte di riciclaggio. Anche su questo punto, appare opportuno fare rimando alle stime ed alle comparazioni indicate nella parte introduttiva della relazione. 4.2 La normativa antiriciclaggio Giova, inizialmente, fare un excursus sulla evoluzione della normativa antiriciclaggio nel nostro Paese. Nel 1991, con la legge n° 197, il legislatore ha inteso coniugare l’esigenza repressiva del fenomeno criminoso con quella preventiva, prevedendo una serie di meccanismi e procedure volti appunto a scoraggiare o, quantomeno, a rendere più difficile l’attività di riciclaggio. Significativi, al riguardo, sono gli artt. 1, 2 e 3, con i quali: § sono state introdotte limitazioni nell’uso del contante e dei titoli al portatore; § è stato previsto l’obbligo di identificazione e di registrazione del soggetto (persona fisica o giuridica) che compie operazioni di importo superiore a venti milioni di (vecchie) lire; § è stato introdotto il dovere, da parte dei soggetti pubblici o privati che operano (anche come intermediari) nell’ambito creditizio e finanziario, di segnalare le cd. operazioni sospette; § sono state previste sanzioni, sia penali sia amministrative, per chi non adempie agli obblighi suddetti (art. 5 della legge). Una carenza della legge era, tuttavia, costituita dal fatto che non era stata pensata, in relazione alla segnalazione di operazioni sospette, una analisi finanziaria delle stesse da parte di un ente o di una struttura professionalmente qualificata. L’affidamento preveduto dalla legge della prima analisi delle operazioni sospette al Questore, che poi doveva trasmetterle alla D.I.A. ed alla Guardia di Finanza, non rispondeva, infatti, a tale esigenza. Nell’ambito della legge 197/1991, le autorità di settore – quali la Banca d’Italia, la CONSOB, l’ISVAP e l’Ufficio Italiano Cambi – avevano esclusivamente compiti di generico controllo dell’attuazione della normativa, senza potere dare alcun contributo concreto in tema di analis i delle operazioni e di valutazione delle stesse a fini di indagini preliminari. Con il D. Lgv. 26 maggio 1997 n° 153 (attuativo della direttiva CEE 91/308 in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita) si è ovviato a tale carenza, nel senso che il trattamento delle segnalazioni di operazioni sospette è stato affidato, anziché al Questore del luogo dell’operazione, all’UIC, sotto la vigilanza di un’apposita commissione istituita presso il Ministero del Tesoro. L’UIC, infatti, può effettuare gli approfondimenti necessari, avvalendosi di varie fonti informative (quali i propri archivi, l’anagrafe conti e depositi, il contributo dei rappresentanti degli organi di vigilanza di settore, i risultati delle analisi statistiche effettuate ex art. 5, comma 10, della legge n° 197/91, e le analisi delle anomalie rilevate attraverso procedure informatizzate). Al termine di questa istruttoria, l’UIC deve trasmettere le segnalazioni (corredate di una relazione tecnica) alla D.I.A. ed al Nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di Finanza, che ne informano il Procuratore nazionale antimafia, qualora le segnalazioni siano attinenti alla criminalità organizzata. Viene, dunque, previsto un nuovo e più incisivo ruolo dell’UIC, che diviene una sorta di “cerniera” tra l’attività di controllo e di auto-tutela del sistema finanziario e l’attività investigativa degli organi di polizia e giudiziari. Con gli artt. 150 e 151 della legge 23 dicembre 2000 n° 388 (cd. legge finanziaria 2001) vi è stata un’ulteriore evoluzione della razionalizzazione di sinergie tra autorità amministrativa ed autorità giudiziaria, essendosi introdotta la possibilità per l’UIC di archiviare (ex se) le segnalazioni di operazioni sospette ritenute palesemente infondate. Si è così data soluzione ad uno dei principali problemi del sistema di segnalazione di operazioni sospette, individuato nell’esigenza di incentivare la crescita del numero di dette segnalazioni e di stimolare una collaborazione sempre maggiore da parte degli intermediari nonché di fare in modo che le indagini investigative non siano ingolfate da un numero enorme di segnalazioni (spesso) scarsamente significative. Con il sistema attuale l’UIC segnalerà, invece, agli organismi di polizia competenti ed alla autorità giudiziaria soltanto quelle operazioni che, sulla base di una valutazione tecnica, appaiono meritevoli di un approfondimento investigativo. In questo contesto di razionalizzazione si inserisce, cronologicamente, anche l’emanazione da parte di Bankitalia delle nuove “Istruzioni applicative per l’individuazione delle operazioni sospette”, emanate dal Governatore FAZIO in data 12 gennaio 2001. La caratteristica di fondo di questo “decalogo” consiste nel fatto che sono fornite istruzioni di tipo amministrativo. La legge 153/1997, infatti, ha stabilito che le istruzioni per l’individuazione delle operazioni sospette siano emanate dalla Banca d’Italia sia nella sua veste di organo di controllo dell’intero sistema finanziario sia nella sua veste di Banca centrale (che le consente di avere una visione d’insieme del sistema economico nazionale). Queste istruzioni - come del resto per il passato - hanno una forte connotazione organizzativa, in quanto costituiscono delle regole vincolanti per le banche e per gli intermediari finanziari, ai quali vengono forniti anche degli “indici” per individuare la operazioni sospette da segnalare. Quanto agli accorgimenti volti a rafforzare i rapporti di interscambio informativo tra l’autorità giudiziaria e la Banca d’Italia (quale autorità di vigilanza), soprattutto nel caso in cui operazioni di criminalità economica o fatti molto gravi di riciclaggio abbiano coinvolto direttamente intermediari, banche, finanziarie e società di intermediazione mobiliare, va detto che già dal 1991 - nella stagione cioè che ha dato il via alla legge 197, nel contesto della legge contro i sequestri di persona (D. Lgs. n° 8/91) - vi è una norma che stabilisce la necessità che vi sia un doveroso scambio di informazioni sui casi di riciclaggio tra il Governatore della Banca d’Italia e l’autorità giudiziaria. Si tratta di uno scambio bi-direzionale, nel senso che è previsto che il Governatore sia informato di tali coinvolgimenti affinché possa adottare i provvedimenti di sua competenza; ma vi è anche l’obbligo, da parte della Banca d’Italia, di informare l’autorità giudiziaria su quanto sia stato fatto sul piano amministrativo di competenza. Questo meccanismo, peraltro, è stato attivato in numerose circostanze nel corso di questi anni ed ha dimostrato di essere molto efficace. L’idea di un “sistema bancario” ineccepibile - come ha precisato il dott. ……, Dirigente del Servizio di Vigilanza della Banca d’Italia - è comunque illusoria o utopistica, anche se analoga considerazione può essere fatta per altri settori dell’economia e della società. Nonostante ciò, tuttavia, è lecito non cessare di studiare nuove forme per elevare il più possibile il livello di prevenzione e di auto-tutela. Quanto all’UIC, va detto che questo organo lavora non solo sulle segnalazioni di operazioni sospette provenienti dagli intermediari - cioè dai soggetti che animano il mercato finanziario - ma anche sui dati in possesso nei propri archivi ancorché non aventi la caratteristica della segnalazione. In particolare - come ha spiegato il dott. ……….., Capo del Servizio Antiriciclaggio dell’Ufficio Italiano Cambi - l’Ufficio ha cominciato a riflettere sulle “tipologie comportamentali” desumibili dalle notizie pervenutegli per individuare prassi operative ricorrenti, investendo molte risorse soprattutto sull’analisi dei “dati aggregati” per identificare possibili casi di riciclaggio a livello territoriale. In altri termini, l’UIC ha cercato di estrapolare una sorta di modus operandi del potenziale riciclatore, soprattutto per quanto riguarda le cd. regioni a rischio, puntando molto sulla “collaborazione attiva” delle banche e sul metodo - impostato tutto sulla logica - del know your customer (“conosci il tuo cliente”) per evitare il coinvolgimento errato in certe tipologie sospette di operatori corretti e perbene. Al riguardo, appare utile riportare testualmente quanto ha riferito il dott. …….., Capo del Servizio Antiriciclaggio dell’Ufficio Italiano Cambi, nell’audizione del 20 febbraio 2001: Dott. …….., Capo del Servizio Antiriciclaggio dell’Ufficio Italiano Cambi: Il discorso sui modelli è il seguente. Noi abbiamo due punti di osservazione, il primo dei quali è rappresentato dalle operazioni sospette che arrivano dal sistema. Allora, in base a quello che abbiamo imposto alle banche, queste segnalano sia le operazioni di che trattasi (contanti, assegni circolari, bonifici), sia il motivo del sospetto (usura oppure riciclaggio, a volte lo chiamano proprio riciclaggio, altre volte il motivo del sospetto è molto generico, cioè "incongruenza fra profilo finanziario e volumi movimentati "). Lo vedrete nella relazione, dove sono indicate le percentuali esatte. Questa è un’osservazione che noi conduciamo su ciò che le banche ci segnalano. facciamo in questo caso qualcosa di più, che è stato molto utile, mi risulta, sia agli investigatori, sia alla magistratura: riusciamo a cogliere anche una serie di elementi, che altrimenti sfuggirebbero. Spesso siamo riusciti a rimettere in fila una serie cose, che erano state inviate già alla polizia valutaria e alla DIA, e che noi abbiamo rimesso insieme e abbiamo riproposto in una visione... sì, in un contesto più ampio e in una visione coordinata. A noi sembra che questo sia anche doveroso, giacché siamo i primi a ricevere e gli unici a detenere tutto l'archivio. Vorrei poi dirvi che abbiamo un'altra fonte di informazione, proveniente da quelli che prima definivo i cosiddetti dati aggregati. La legge antiriciclaggio stabilisce che all'Ufficio pervenga una serie di informazioni. Alcune di esse pervengono dagli intermediari. Tra queste una è precisa, cioè la segnalazione sospetta. Dico precisa, perché riguarda un caso specifico, che la banca di sua iniziativa segnala; l'altra invece è una segnalazione, che la banca è obbligata a fare e che riguarda i flussi che attraversano la banca stessa, sia domestici, sia internazionali. Sono flussi che riguardano l’operatività della clientela, non della banca, ahimé, e riguardano operatività superiori ai venti milioni. Sono flussi aggregati perché, secondo una logica a cui si è ispirato prima il legislatore primario e poi quello secondario, è evidente che non si può chiedere alle banche di segnalare tutte le operazioni che passano mensilmente senza aggregarle, a seconda di causali sensibili per chi contrasta il riciclaggio: questo significherebbe dire al sistema di segnalare cinquanta milioni di operazioni al mese all’Ufficio Italiano Cambi e, quindi, significherebbe chiedere un’operazione ingestibile. Noi traiamo da quest’altra informazione indicazioni che ci consentono di affermare che in quella particolare zona c’è un flusso anomalo che, non essendo spiegabile altrimenti, potrebbe essere ricondotto al riciclaggio. Vi assicuro che tutto questo è molto complesso, anche se è meraviglioso dal punto di vista intellettuale. Essendo stato io per primo a nutrire scetticismo nei confronti di questo tipo di approccio, non devo essere sospettato se oggi, a distanza di dieci anni da quando la legge ha attribuito questo compito all’Ufficio, e di sei anni dalla costituzione del servizio di cui sono stato messo a capo, dico che forse stiamo per operare una svolta. Innanzitutto, perché abbiamo “pulito” i dati; per lungo tempo, infatti, abbiamo operato con “dati sporchi” e, d’altra parte, una legge che impone alle banche di mandare dei dati e non impone una sanzione per chi li manda sbagliati o non li manda, è carente, imperfetta. Poi ci siamo accorti che queste aggregazioni che riducevano quei cinquanta milioni di informazioni a due milioni erano troppo vaste. Allora abbiamo cercato di individuare tra quei cinquanta milioni di informazioni quelle che erano non significative e abbiamo compreso il limite che comportava una richiesta aggregata. Infatti, quando io chiedevo al mio collaboratore di calcolarmi, ad esempio, quanti erano i libretti al portatore in una determinata provincia o quanti i certificati di deposito, mi sentivo replicare che il dato era aggregato alle azioni o alle obbligazioni e, quindi, difficile da isolare. Vorrei leggervi uno stralcio di una relazione della Commissione parlamentare antimafia, che non è sospettabile di avere simpatie finanziarie : “Appare indispensabile a tal fine” - cioè per migliorare il sistema - “eliminare effettivamente e definitivamente ogni residua burocratica sottovalutazione dell’aspetto finanziario nella conoscenza e nell’azione di prevenzione antiriciclaggio ”. Il termine “burocratico” è eufemistico, perché indica qualcosa che è trasversale ai partiti e che si annida nelle varie burocrazie. In altri tempi lo avremmo chiamato in modo diverso! Adesso siamo finalmente riusciti a modificare le causali e, senza aumentare esponenzialmente il numero delle informazioni, oggi abbiamo non più causali sintetiche, ma analitiche. Quindi, possiamo iniziare a fare quel ragionamento che appartiene alla seconda parte dei modelli. La prima parte sono i modelli che io definirei “prassi operative” o “schemi operativi”, che ricaviamo dalle stesse segnalazioni di operazioni di operazioni sospette. Qui andiamo oltre. Quello è un metodo baconiano, che nessuno ci può contestare perché rappresenta l’osservazione diretta di quello che è segnalato. (….) Tornando poi alla sfida, devo dire che noi stiamo cercando di costruire i modelli di riciclaggio sulla base dell’altro tipo di informazione, perché tutto quello che abbiamo detto - dal decalogo alla segnalazione di operazioni sospette - si sta riferendo prevalentemente alla fase del placement. Sapete che idealmente il riciclaggio finanziario va distinto in tre fasi temporali, il placement, la fase cioè in cui il detentore di soldi sporchi tenta di inserirli nel sistema legale attraverso l’intimidazione, la corruzione, l’operazione fasulla o altri mezzi. Quello di cui abbiamo parlato fino ad adesso è un sistema che presta molta attenzione a questa fase, perché essa è la più debole, quella in cui le difese del riciclatore sono meno agguerrite. (…) La fase di immissione è ciò di cui fino ad ora abbiamo parlato dal punto di vista del contrasto; ad esempio, il bancario che dovrebbe conoscere il cliente, oppure la stessa auto rità di vigilanza che si accorge che la procedura di immissione non è corretta. A questa fase di immissione segue quella della stratificazione, nel senso che inizia una girandola sulla transazione iniziale, che ha come scopo esclusivo quello di allontanare la somma dal titolare. E’ evidente che ciò avviene già nel circuito bancario, ma su questo non c’è una grande attenzione. Come dicevo prima, la banca è incapace di cogliere una complessità del genere, anche perché ne interviene un’altra e poi un’altra ancora. Ci stiamo rendendo conto che in questa fase è possibile trovare una debolezza del riciclatore, che prescinde dalla delazione, ma che emerge dai numeri. E’ come se io, dovendomi recare a Napoli, passassi tutte le volte per Bari; una volta avrò una ragione, un’altra volta avrò una ragione diversa, ma se questo comportamento diventa un’abitudine, vuol dire che faccio un percorso ridondante. Tutto ciò per noi si traduce in numero di operazioni, per cui se, ad esempio, esaminando due banche, rese analoghe in virtù di filtri (è evidente che una banca che opera al sud tendenzialmente svolge un’attività di tipo diverso di una che opera al nord), ci rendiamo conto che a fronte della stessa operatività mentre la prima fa “n” movimenti, la seconda fa “n2” movimenti. In questo caso è evidente che la seconda banca sta facendo stratificazione. La cosa più importante che abbiamo scoperto è che chi fa stratificazione non solo compie operazioni irrazionali da un punto di vista finanziario, ma in genere utilizza contemporaneamente causali incompatibili tra loro. Per fare un esempio, è come se una persona vendesse e comprasse nello stesso momento lo stesso titolo: è evidente che si tratterebbe di un’operazione tesa a nascondere qualche altra cosa. Il nostro è un sistema di contrasto fortemente operativo, nel senso che a fronte di circa 12 mila operazioni abbiamo inviato 11 mila relazioni alla polizia; abbiamo inoltre avviato importanti collaborazioni con la magistratura in Calabria, Palermo, Milano, di cui ci ha dato atto anche la Commissione antimafia. Abbiamo consentito l’arresto ed il sequestro in numerosissimi casi e quindi la Commissione, in questo momento, non sta ascoltando la relazione del capo di un servizio che fa solo studi, progetti, eccetera. Noi siamo impegnati sul campo al cento per cento. Ci tengo a sottolinearlo perché non vorrei che alla fine del mio discorso si pensasse che la nostra è una sorta di accademia. Noi siamo operativi con i nostri funzionari (…) abbiamo mandato in galera diverse persone, tra cui direttori di banca, senza guardare in faccia nessuno; non è facile nel nostro ambiente essere, per così dire, spietati. Ho indirizzati i miei funzionari su questa linea, d’accordo ovviamente con la direzione generale. Devo dire che tengo molto a questo aspetto scientifico-tecnico delle analisi, perché alla fine la battaglia si vince su quel fronte. Credo che le esperienze fatte sul campo ci consentano di migliorare quel tipo di approccio. PRESIDENTE. C’è una terza fase dopo quella della immissione e della stratificazione? Dott. …….., Capo del Servizio Antiriciclaggio dell’Ufficio Italiano Cambi: C’è la terza fase dell’integrazione, che si persegue con il reinvestimento del denaro immesso nel sistema e poi pulito. A quel punto, tanto vale investirlo in attività finanziarie pulite. Si tratta dell’operazione più difficile. Questo è un fenomeno che ci ha riguardato e che rientra nel più vasto problema del cosiddetto Russiagate, che sia pure marginalmente ha coinvolto il nostro paese con operazioni di investimento finale delle somme sottratte al fondo e riciclate dalla Bank of New York. Questa è la terza fase. Un punto debole del nostro sistema, che pure è stato giudicato tra i migliori dal GAFI (do per scontato quello che è buono perché immagino che la Commissione sia più interessata a vedere le carenze), sta nel fatto che non abbiamo nessun ritorno. PRESIDENTE. Questo problema è già stato segnalato ieri dal dottor ……. Dott. …….., Capo del Servizio Antiriciclaggio dell’Ufficio Italiano Cambi: Devo fare una confessione che è mortificante. A volte capita che qualche mio collaboratore torni dalla riunione internazionale riferendomi di nostre analisi sfociate in indagini giudiziarie con esiti positivi per le quali non ci risulta nessun cenno da parte dell’Autorità Giudiziaria procedente. Questo succede decine e decine di volte, ma noi non sappiamo niente. Comprendo che, una volta che l'investigatore inizia un'attività investigativa dopo la nostra relazione e poi addirittura coinvolge l'attività dell'autorità inquirente, gli atti siano coperti dal segreto istruttorio. Questo mi sta bene. Si potrebbe anche stabilire, però, un diverso rapporto con l'autorità antiriciclaggio: non siamo un'agenzia di investigazione privata, perseguiamo un obiettivo preciso, anzi la legge finanziaria sollecita questo colloquio. Lasciamo perdere questo, ma perché leggerlo sui comunicati stampa, sulla stampa? Lo dico non per un discorso di lesa maestà, ci mancherebbe altro, ma se non mi si dà un ritorno, non miglioro, non so se ho fatto bene, se c'è qualcosa che va migliorato. E che non sappiamo nulla è una cosa gravissima, anche perché non possiamo dare il giusto feedback al sistema bancario. Anche questo migliorerebbe i meccanismi delle segnalazioni. Non guardiamo solo ai numeri, guardiamo ai contenuti. Io so che la legge stabilisce un obbligo per le autorità e gli organismi investigativi di comunicare solo nel caso in cui non accertino niente e archivino loro. C’è un altro aspetto che si inserisce in questo quadro, però mentre del primo sono sicuro, questo è emerso soltanto negli ultimi giorni e mi ha lasciato stupefatto. Ripeto, non ne sono sicuro. Spero che sia una indicazione sbagliata. Succederebbe che noi mandiamo le segnalazioni bancarie e la nostra relazione finanziaria alla polizia valutaria e alla DIA. In ogni occasione in cui ho parlato con il magistrato - abbiamo fatto anche molte consulenze, ma questo è un altro discorso - quest’ultimo ha chiesto di conoscere se su quel soggetto c'erano segnalazioni; quando ha visto le nostre relazioni ha provato entusiasmo. Sembrerebbe che invece gli investigatori non mandino né la segnalazione, né la relazione al magistrato, ma un riassunto. Questo è inconcepibile! Quando si arriva al rapporto, bisogna metterci dentro tutti gli elementi. La nostra è come una perizia tecnica, come si fa a non metterla nel rapporto? Ho visto come lavorano i magistrati, ci ho lavorato insieme tanto tempo. Hanno centinaia di cose da fare, alla fine è chiaro che debbono stabilire delle priorità. Succede che arriva loro un banale rapporto di un agente di polizia giudiziaria che non ha saputo riassumere bene, a fronte di un lavoro complesso e articolato del funzionario UIC. Questo è un grande problema. Non ne sono sicuro, ma se è così, è grave. Se è così, darei direttiva di compilare solo modelli ex 331. Sarebbe opportuno un contatto diretto con il magistrato, a questo punto. PRESIDENTE. Il mod. 331 sarebbe una segnalazione diretta all'autorità giudiziaria? Dott. …….., Capo del Servizio Antiriciclaggio dell’Ufficio Italiano Cambi: È chiaro che la mia è una provocazione. Per fare questo debbo avere gli estremi, però sarebbe avvilente se quello che ho detto fosse confermato: come si fa a non tenere conto di una perizia tecnica dove sono contenuti rilievi tecnici? Poi facciamo valutare al magistrato se tutto questo comporti un’attività ulteriore di indagine oppure debba essere archiviato. (…) PRESIDENTE. Debbo rivolgerle due ultime domande. La prima è la seguente. Esiste una cosiddetta black-list dei paesi verso i quali si indirizzano operazioni, che già quindi mettono sotto osservazione l'operatore? L'ultima domanda, così Lei le può riassumere nella risposta, è se fate delle analisi socio-economiche della zona in cui si origina l'operazione, perché da esperienze siciliane venivano fuori delle operazioni con causali di tipo ABI, che erano assolutamente incompatibili con la struttura economica della zona siciliana in cui l'operazione nasceva. In quel caso sembrerebbe facile con il senno di poi dire: "Come può pensare che si faccia commercio di questo prodotto, se non esiste neppure lontanamente la struttura che dovrebbe porlo sul mercato?". Dott. …….., Capo del Servizio Antiriciclaggio dell’Ufficio Italiano Cambi: Per quanto riguarda la prima delle domande, in realtà il GAFI recentemente, nel corso del 2000, nel giugno, ha indicato la lista di 15 dei paesi off-shore “non cooperativi”. Questo significa che tali paesi non hanno una legislazione antiriciclaggio che consenta a noi di considerarli in qualche modo dalla stessa parte della barricata. Debbo aggiungere, in via del tutto informale, che qui parliamo di una battaglia politica. Posso dirlo perché la presidenza di uno dei gruppi che dovrà valutare se alcuni paesi erano o meno cooperativi è spettata all'Ufficio italiano cambi e a me in particolare. Dicevo che si tratta di una battaglia politica, perché molto spesso ci sono delle nazioni che spingono perché le loro ex colonie o paesi a loro vicini non siano inseriti fra i paesi “non cooperativi”. Ad ogni modo, alla fine la lista di questi quindici paesi è uscita ed è stata inclusa anche nel decalogo. Sono paesi nei confronti dei quali è sospetto operare. Bisognerebbe aggiungere qualcosa di più, perché fra questi paesi c'è anche la Russia. Allora, se mi segnalano come sospette tutte le operazioni fatte con la Russia, significa non operare più! (…) Per completare la risposta alla sua prima domanda, voglio aggiungere che il GAFI non ha finito di esaminare l'insieme dei paesi, nel senso da alcuni sono stati giudic ati a posto, altri sono stati giudicati inseribili nella cosiddetta black -list (sono i quindici che stanno anche nel decalogo), altri sono tuttora sotto esame. Per esempio, il gruppo che fa capo all’Italia B e per l’Italia l’Ufficio italiano cambi B ha come compito quello di esaminare i Paesi del medio oriente e quelli africani. Si tratta di un compito delicatissimo perché stiamo parlando di paesi particolari, dal Libano, alla Nigeria, ad Israele. Vedremo poi cosa accadrà. Tenete presente: i Paesi “non cooperativi” sono tali perché l’economia non consente al momento di prevedere delle regole specifiche. Un conto è parlare del Libano, di Israele, della Russia, delle Filippine, altra cosa è parlare delle Marshall, del Liechtenstein, delle Bahamas! Per quanto riguarda la seconda domanda che Lei mi ha posto, io ho omesso la discussione sui modelli, ma forse era importante dire che una delle fasi cruciali nell’individuazione delle ipotesi di riciclaggio sulla base di modelli precostituiti è proprio l’analisi territoriale. Noi lo stiamo facendo adesso in alcune macro-province del sud! Lì, in sostanza, si tratta di mettere a confronto i dati dell’economia reale con quelli che provengono a noi. Infatti B e questo fatto non va sottovalutato B a noi arrivano, per ragioni di antiriciclaggio, tutte le informazioni necessarie sui flussi finanziari del paese; per cui sarebbe nostra intenzione, dal momento che fino ad adesso lo abbiamo verificato soltanto a livello intellettuale, cercare di capire il “delta” che si viene a verificare tra quello che è il dato relativo alla economia reale e le segnalazioni che riguardano i flussi a noi indirizzati. Ci può essere un pezzo di errore, un pezzo di evasione fiscale, un pezzo di “nero”; ma se il divario è troppo grande, possiamo ritenere che in quel “delta” ci sia qualche altra cosa. Allora, siccome noi in base al contatto con le realtà territoriali abbiamo fatto un programma che ci consente di vedere questo “delta” su quali realtà economico-finanziarie si colloca, partendo da un’aggregazione e disaggregando, potremo arrivare ad individuare una operatività finanziaria che non corrisponde a nessun tessuto sottostante. Noi siamo avviati su questa strada e stiamo cercando, con l’aiuto della Banca d’Italia (che, ovviamente, per quanto riguarda la conoscenza delle grandezze reali sul territorio non ha rivali), a mettere insieme le nostre conoscenze per individuare proprio queste anomalie. L’UIC lavora, quindi, sulle segnalazioni che gli provengono dagli organi di vigilanza, che – nell’ambito della loro attività istituzionale – si imbattano in operazioni che sembrano sospette, a prescindere dal fatto che le banche le abbiano segnalate. L’Ufficio si attiva anche sulla base di segnalazioni provenienti da omologhe istituzioni estere (agenzie di informazione finanziaria o agenzie antiriciclaggio). Il primo incombente che l’UIC deve compiere è valutare se ricorra il caso di sospendere l’operazione. Tra i suoi poteri, infatti, vi è anche quello di sospendere l’operazione per 48 ore. La sospensione presuppone alcune condizioni: anzitutto, che si tratti di un’operazione ancora non del tutto espletata; in secondo luogo, che la sospensione sia ritenuta utile ed opportuna dagli organi inquirenti, giacché la sospensione ha un senso soltanto se viene seguita da un provvedimento di sequestro giudiziario (dal settembre 1997 al febbraio 2001 questa facoltà dell’UIC è stata esercitata circa 15 volte e, tranne che in un caso, le sospensioni si sono sempre trasformate in sequestri. In pratica, tuttavia, la segnalazione di operazioni non ancora eseguite avviene molto raramente, sia per la difficoltà di giustificare ai clienti l’interruzione delle stesse sia perché – in ambiti territoriali in cui operano organizzazioni criminali – l’incaricato della banca si esporrebbe a rischi personali facilmente intuibili). Le segnalazioni vengono effettuate secondo uno schema tecnico, un software che l’UIC ha da tempo consegnato ai soggetti segnalanti. L’Ufficio esamina poi queste segnalazioni anche sulla base delle informazioni che possiede, come detto, in altri archivi. Si passa, quindi, alla fase dell’approfondimento, che si estrinseca in una interlocuzione con il soggetto che ha segnalato; fase che avviene a volte soltanto per via telefonica e con l’invio della opportuna documentazione, mentre altre volte, quando la complessità della vicenda lo renda necessario, con una visita “in loco”. Effettuato l’approfondimento, viene redatta una relazione che, unitamente alla segnalazione, viene inviata alla DIA ed alla Guardia di Finanza. Nel caso in cui ci si renda conto che la segnalazione non è rappresentativa di un reato presupposto, scatta il meccanismo della archiviazione, nel senso che l’Ufficio non procede ad alcun approfondimento finanziario, fatto salvo comunque l’obbligo di darne comunicazione agli organismi investigativi. E’ peraltro da rilevare che gli istituti di credito si sono dotati di un programma informatico - denominato “G.i.an.o.s” (Gestione Indici Anomalia Operazioni Sospette) - che, sulla base degli indici di anomalia stabiliti dalla Banca d’Italia, è in grado di estrapolare le operazioni sospette suscettibili di segnalazione, ovviamente dopo che le stesse sono state effettuate. Detto sistema presenta il duplice vantaggio di tutelare da possibili “ritorsioni” il dipendente che effettua l’operazione e, allo stesso tempo, mette al riparo da eventuali inerzie od omissioni, di qualunque natura, da parte di quest’ultimo. Successivamente, prima dell’inoltro della segnalazione all’UIC, viene svolto un approfondimento istruttorio dal direttore della filiale e quindi dall’organismo individuato dal consiglio di amministrazione della banca quale responsabile dell’antiriciclaggio per l’azienda, di modo che la segnalazione possa essere il più possibile completa ed esaustiva. 4.3 I possibili miglioramenti della normativa Naturalmente, l’assetto normativo finora descritto è suscettibile di miglioramenti, alcuni dei quali da considerare urgenti. Giova, in proposito, segnalare una interessante iniziativa adottata in Francia con la legge 2.7.1998, n° 98. In tale paese, con la suddetta legge, è stata introdotta la figura degli “assistenti specializzati”, che consente a funzionari o persone diplomate, che vantano una esperienza in materia economico-finanziaria, di essere posti a disposizione dei magistrati, che operano in questo settore. Lo scopo della legge è di permettere agli uffici giudiziari di disporre, in materie contrassegnate da alto tecnicismo ed estremamente complesse, di una équipe stabile e sinergica di collaboratori, al fine di facilitare il lavoro dei magistrati inquirenti. I compiti degli “assistenti specializzati” consistono, in Francia, nell’analisi dei dossiers complessi, nella redazione di note di sintesi che facilitino la comprensione del dossier e dei meccanismi di frode nonché nella predisposizione di specifiche deleghe per la polizia giudiziaria. I giudizi raccolti presso i magistrati francesi su tale esperienza - pur nel breve tempo trascorso dal suo inizio - sono stati decisamente positivi. La figura degli “assistenti specializzati” (se del caso opportunamente rimodellata) potrebbe essere introdotta anche in Italia, specialmente come supporto ai pool di magistrati che indagano sulla criminalità economico-finanziaria. Va, inoltre, osservato che è la stessa formulazione del delitto di riciclaggio ad essere suscettibile di miglioramenti. Esso, infatti, è inserito tra i delitti contro il patrimonio nel presupposto che si tratterebbe di una sorta di ricettazione, sia pure avente caratteristiche peculiari; mentre, le odierne forme di riciclaggio nulla hanno a che vedere con i delitti contro il patrimonio (si pensi, ad esempio, ai riciclaggi effettuati dalle organizzazioni criminali che operano nel nostro territorio, per i quali appare davvero problematico individuare la persona offesa). Per tali aspetti il riciclaggio, oggi, per le sue dimensioni e per il riflesso negativo che assume nell’economia nazionale, andrebbe piuttosto collocato in un titolo contro l’ordine pubblico economico. Altre preoccupazioni possono nascere, inoltre, dall’avvenuta introduzione, ormai stabilmente a far data dal 1° marzo 2002, dell’euro. Dette preoccupazioni degli analisti sulla introduzione della moneta unica europea sono articolate su di una pluralità di profili. Il primo è che la presenza di una valuta unica nell’ambito dei paesi che aderiscono alla Unione Monetaria Europea, non rendendo più necessari i cambi di valute nazionali, fa venire meno le tracce che, in qualche modo, erano lasciate quando si procedeva al cambio; tracce che possono, a volte, costituire un utile input per l’inizio di investigazioni. Il secondo punto è che la nuova valuta potrebbe porsi in concorrenza con il dollaro e lo yen (il che è attualissimo, atteso che il rapporto euro-dollaro al luglio del 2002 ha superato addirittura la parità) e quindi travalicare il suo uso oltre i limiti territoriali continentali, fungendo, in questo caso, da “moltiplicatore” delle possibilità di riciclaggio. Del resto, il Governatore della Banca d’Italia, nelle sue ultime “Istruzioni” agli operatori finanziari, aveva già richiamato l’attenzione su di un terzo punto, vale a dire sui cambi di moneta nazionale in euro, che sono stati effettuati nel periodo di transizione della cd. doppia circolazione (gennaio-febbraio 2002). Vi era, infatti, il pericolo che chi intendesse “ripulire il denaro sporco” potesse approfittare di tale periodo “caldo”, nel quale il numero delle transazioni poteva obbiettivamente essere elevatissimo ed il livello di controllo, conseguentemente, poteva diminuire. Vi è, infine, a prescindere da detti rilievi tecnici, l’esigenza di potenziare le risorse umane, tecnologiche ed ausiliarie delle forze di polizia e degli organismi di controllo, se non si vuole condannare ad un bilancio negativo un sistema - quale quello dell’obbligo di rilevazione e di segnalazione - che non deve essere circoscritto al solo sistema bancario (pur importante) ma deve essere esteso a tutto il comparto degli intermediari finanziari ed a quello di alcuni settori particolari, come - ad esempio - quelli dell’oro, dell’antiquariato e dei beni di lusso, che si prestano perfettamente ad essere “territorio” di riciclaggio. Inoltre, il sempre più massiccio ricorso alle transazioni telematiche (problema che richiederebbe un discorso a parte, che non è possibile svolgere in questa sede) rende indifferibile l’adeguamento della normativa - che certamente non appare al passo con i tempi - al fine di accrescere il numero delle informazioni inserite nei sistemi elettronici di trasferimento dei fondi. Infine, va detto sul tema dell’importante attuazione della cd. Anagrafe dei conti e dei depositi che, pur essendo stato pubblicato sulla GURI del 2.10.2000 il regolamento attuativo (che prevede presso il Ministero del Tesoro un Centro operativo al quale i soggetti legittimati potranno inoltrare richieste volte a conoscere l’esistenza di rapporti di qualsiasi tipo presso sportelli bancari, postali, s.i.m. o altre società finanziarie), l’entrata in funzione del sistema è tuttora in attesa di ulteriori disposizioni regolamentari, le quali, pur previste per il febbraio 2002, non sono state ancora emanate. 4.4 Ricognizione ed analisi del riciclaggio sul territorio nazionale Per avere chiare le dimensioni qualitative del fenomeno giova senz’altro - come si è fatto per l’impresa mafiosa e come si farà appresso per l’usura e le estorsioni (anche in ossequio a principi di economia e di ordine espositivi) - distinguere il territorio italiano in tre fasce geografiche, analizzando le differenti realtà. Il nord Per l’area milanese risulta che si è passati da forme “rudimentali” di trasporto all’estero di denaro proveniente da attività illecite, per il tramite di “spalloni” ovvero di “frontalieri” (spesso direttamente collegati a banche svizzere), a forme più “moderne”, che hanno caratterizzato il periodo compreso fra gli anni 1988-1994, per finire a tecniche attuali molto più sofisticate. Per quanto concerne il periodo citato, risultano emblematici il processo nei confronti di Orio Umberto ed altri (per i delitti di cui agli artt. 74 D.P.R. 309/90 e 648 bis c.p.), conclusosi con sentenza passata in giudicato, nonché il procedimento a carico di Ippolito Vincenzo ed altri, per gli stessi reati, attualmente in fase dibattimentale innanzi al Tribunale di Milano. Da tali procedimenti è stato possibile rilevare che la principale attività criminosa nella quale si realizza l’accumulazione di ricchezza illecita è il traffico di stupefacenti, al quale si accompagna talvolta l’attività di prestito ad interessi. Le tecniche di riciclaggio emerse da tali procedimenti sono le più tradizionali, storicamente e processualmente accertate: accadeva, cioè, che presso gli istituti di credito venisse utilizzato il “registro unico cartaceo” delle operazioni di importo superiore ai venti milioni di lire (giacché le banche non si erano ancora dotate del “registro unico informatico”) e si procedesse ad una serie di operazioni, ovviamente di importo inferiore al limite predetto, con capitali che venivano immessi nel circuito bancario ed in tal modo ripuliti. A questa tecnica di riciclaggio corrispondeva una precisa fenomenologia di comportamento dei funzionari operanti negli istituti di credito. Il funzionario, di solito ricoprente incarichi direttivi in agenzie medio-piccole, sfrutta tali enormi flussi di denaro che confluiscono sulla sua banca, se ne avvale per alzare la raccolta dell’agenzia e, pertanto, agevola al massimo tali operazioni, anche prestandosi a registrazioni in favore di nominativi inesistenti, all’uso artificioso del cd. “conto transitorio” della banca per appoggiare sullo stesso somme ingenti da far confluire su altre banche o da trasformare in contanti, così prestandosi all’alterazione del “registro unico cartaceo”. Tale tecnica ha caratterizzato le operazioni presso la Banca San Paolo di Brescia, alla quale si è giunti seguendo il flusso di denaro del gruppo Ciulla -Orio, che arrivava presso le banche di San Marino e da queste ritornava, attraverso società di prestanome, presso banche di Milano e di Brescia (in particolare, presso la Banca San Paolo), dalle quali ripartiva sotto forma di assegni circolari che si spalmavano sulla Cassa di Risparmio di Torino, sulla Deutsche Bank e sulla Banca Agricola Mantovana. In tutti gli istituti di credito utilizzati dal gruppo Ciulla-Orio è stato individuato almeno un funzionario che ha operato, ben consapevole della provenienza illecita del denaro, come referente del gruppo criminale ed in diretto contatto con gli esponenti dell’associazione, in qualità di addetto alla gestione dei rapporti bancari per conto del gruppo stesso, apponendo firme di persone inesistenti ed utilizzando in modo spregiudicato il “conto transitorio” della banca per impedire la ricostruzione delle operazioni. Dai già citati processi a carico di Mollica Domenico e Morabito Francesco si è avuta conferma che, tuttora, il traffico di stupefacenti costituisce la principale fonte di accumulazione di ricchezza illecita delle organizzazioni criminali, volta non più al prestito ad interessi ma alla acquisizione sistematica di attività economiche. Viceversa - come accennato - le tecniche di riciclaggio sono molto più sofisticate e poste in essere con modalità diverse presso gli istituti di credito bancari. Per l’attuazione di queste nuove tecniche non è più sufficie nte ricorrere al singolo funzionario infedele, ma è necessaria la connivenza (se non la complicità) degli stessi organismi di vertice degli istituti bancari (normalmente si tratta di piccole banche, quali Casse Rurali, Istituti di credito cooperativo o altre). La banca concede affidamenti all’imprenditore vicino all’organizzazione criminale, senza garanzie o accettando come garanzia atti fittizi (quali, ad esempio, vendite simulate), consentendo poi sistematicamente operazioni eccedenti il plafond inizialmente stabilito, esponendosi a perdite rilevanti e non dando corso ai solleciti provenienti dalla Banca d’Italia affinché tali crediti passino “in sofferenza”. La banca, in tal modo, corre un rischio patrimoniale notevole, che può condurla addirittura alla chiusura. Si verifica, quindi, il rientro dall’esposizione con capitali forniti all’imprenditore-debitore dalla cosca, per il tramite di soggetti fiduciari della stessa. Molto spesso l’affidamento è solo apparentemente “in sofferenza”, in quanto la banca contestualmente si garantisce altrove, presso altre banche, attraverso depositi di titoli o, sia pure in misura minore, con grandi investimenti immobiliari; in altre parole, la banca si cautela con garanzie non palesi ed in modo occulto. Queste metodologie che si attuano non più con il solo appoggio del singolo funzionario, ma anche con quello del vertice dirigenziale della banca, rappresentano un ulteriore segno della capacità dei gruppi mafiosi di infiltrarsi negli istituti di credito per perseguire i propri fini illeciti. Un’altra modalità di riciclaggio, sempre nell’area milanese, è il ricorso a metodi, strumenti e canali, che sono stati (e sono) utilizzati per altri fenomeni delittuosi esulanti dall’ambito della criminalità organizzata. Da alcune indagini è infatti emerso che, da parte di organizzazioni di stampo mafioso, per l’attività di riciclaggio di proventi di attività illecite sono stati attivati canali già utilizzati, per analogo fine, da soggetti coinvolti in indagini per reati contro la P.A. e per i reati di contrabbando di tabacchi lavorati esteri, tanto da fare ritenere probabile l’ipotesi dell’esistenza di una sorta di “agenzia di servizi”, cui può rivolgersi chiunque abbia la necessita di ripulire denaro “sporco”. Nessuna delle indagin i intraprese in materia di riciclaggio, tuttavia, ha avuto origine in seguito a segnalazione dell'Ufficio italiano cambi. Nel bresciano si è riscontrato come in molteplici occasioni i gruppi malavitosi abbiano investito le proprie risorse economiche (derivanti dal narco-traffico attuato su vasta scala, nonché dalla gestione del gioco d’azzardo e dell’usura), finanziando, in modo alternativo al canale bancario e non soltanto con prestiti riconducibili all’usura, attività economiche legali gestite da imprenditori bresciani, il più delle volte consapevoli della provenienza del denaro. I settori economici verso i quali sono stati dirottati significativi capitali gestiti da gruppi camorristici sono quelli della ristorazione, quello alberghiero, quello dell’intrattenimento, nonché il commercio di autovetture e la gestione delle ricevitorie. In un procedimento per la fattispecie delittuosa di cui all’art. 648 bis c.p. nei confronti del gruppo criminale Grano, collegato con la famiglia camorrista napoletana Laezza, si è potuto accertare un cospicuo investimento di proventi del traffico di sostanze stupefacenti nella realtà imprenditoriale del sud Garda, nel territorio di Desenzano, con riferimento soprattutto ai locali pubblici. Per quanto concerne i procedimenti di cui agli artt. 648 bis e 648 ter c.p. trattati dalla Procura di Torino sono stati forniti alla Commissione alcuni dati statistici, che sono i seguenti: anno 1998: 47 procedimenti, per complessivi 130 indagati; anno 1999: 73 procedimenti, per complessivi 139 indagati; anno 2000: 39 procedimenti, per complessivi 200 indagati. La stragrande maggioranza di tali procedimenti non è, tuttavia, relativa ad attività di riciclaggio posta in essere da organizzazioni criminali di stampo mafioso, ma sono inerenti a soggetti singoli, con riferimento a proventi di reati di natura fiscale e fallimentare. In realtà, solo tre procedimenti sono riconducibili alla tipologia dell’attività di riciclaggio realizzata da organizzazioni criminali. Il primo rientra nel comple sso delle attività criminali del già citato gruppo facente capo a Salvatore Belfiore. Questi, unitamente a tale Saverio Saffiotti (poi assassinato da un gruppo rivale), aveva costituito una società finanziaria denominata “Safe”, nella quale venivano investiti i proventi delle attività illecite. Il secondo riguarda una associazione dedita al traffico internazionale di stupefacenti, che - attraverso un soggetto esterno all’organizzazione stessa - intendeva trasferire una somma (ammontante a circa un miliardo e mezzo di vecchie lire) dalla Spagna all’Italia e quindi dall’Italia su un conto aperto presso una banca svizzera del gruppo Rothschild in Lugano, al fine di riversare ulteriormente la suddetta cifra, frazionandola, su conti correnti di banche estere. Il terzo procedimento riguarda tale Rocco Pronestì, personaggio legato alla ‘ndrangheta, che, attraverso suoi familiari e persone comunque a lui collegate, aveva acquisito il controllo di una s.r.l. (investendo in tale operazione i proventi delle attività criminali poste in essere nel torinese) con sede in Milano, proprietaria di un ipermercato di abbigliamento e di un ristorante-pizzeria nella zona di Orbassano. In Emilia-Romagna, infine, ugualmente si sono registrati alcuni procedimenti particolarmente significativi. Il primo concerne una grossa azienda, leader nel settore della produzione di materassi, che negli anni Novanta aveva avuto una forte espansione, tanto da diventare la più affermata in campo nazionale in questo specifico settore. I titolari di questa azienda erano i fratelli Commendatore (entrambi già condannati per sequestro di persona a scopo di estorsione), i quali provenivano dalla natia Catania e si erano installati in Budrio (Bo), dove impiantarono una piccola fabbrica, denominata “Centroflex”. Le indagini, a suo tempo svolte, misero in evidenza il collegamento tra questi soggetti e Riina Giacomo (zio del più noto Totò Riina), soggetto già condannato per associazione a delinquere mafiosa, che si trovava a Budrio in soggiorno obbligato. Il Riina venne assunto dalla azienda, in qualità di contabile, avendo così la possibilità di controllare e gestire i flussi economici dell’impresa. Nell’anno 1997 la Procura di Bologna tornò ad investigare sulla “Eminflex” per verificare la sussistenza di una associazione finalizzata al riciclaggio. Si sospettava, infatti, che l’azienda avesse aumentato notevolmente il fatturato per mascherare i profitti illeciti con i quali si sarebbe alimentata. L’indagine, tuttavia, non ha avuto sbocchi positivi ed il relativo procedimento è stato archiviato. Parimenti, si sono svolte indagini dirette a verificare l’eventuale impiego, da parte della cd. mafia cinese, dei proventi derivanti dalla immigrazione clandestina, in attività di aziende operanti nel settore dell’abbigliamento. Tale linea di tendenza è stata confermata dal momento che uno degli indagati (di nazionalità cinese) risulta avere avuto, negli ultimi quattro–cinque anni, almeno sei o sette attività commerciali nel settore tessile, tutte distribuite nel nord-est d’Italia, e da ultimo era al vertice di una piccola azienda, nella quale erano occupati tantissimi immigrati, alcuni dei quali clandestini. Un’altra importante indagine in tema di riciclaggio – segnalata dalla D.D.A. di Bologna – è stata quella relativa alla cd. “mafia russa”, in cui si è seguita l’ipotesi che quest’ultima, al fine di riciclare il proprio denaro “sporco”, provento di attività criminali, abbia investito ed acquistato in Italia tantissimi beni, prevalentemente mobili, per trasferirli in Russia. (Si tratta, come noto, di un’indagine molto estesa e “di sostanza”, che ha avuto significativi sviluppi giudiziari proprio nei primi giorni del giugno 2002). Il centro Nel Lazio, dalle indagini e dai processi svoltisi nell’ultimo quinquennio è emersa pienamente l’imponenza di fenomeni di riciclaggio che si verificano, in modo sempre più massiccio, a Roma e nelle province limitrofe. In effetti, il territorio in questione – attesi l’assetto diversificato delle attività economiche, l’elevato livello di illegalità diffusa che lo pervade, la presenza di soggetti in grado di operare in molteplici settori criminali e di interconnettere interessi, operazioni e persone nei più diversi settori – costituisce un terreno estremamente fertile per il reinvestimento di proventi illeciti. La capitale si presenta come un’enorme “agenzia” ove si possono rinvenire le strutture ed i servizi più adeguati per chi deve collocare, reimpiegare o ripulire disponibilità finanziarie illegalmente accumulate. La lontananza dalle zone di “produzione” di tali disponibilità rende appetibile tale reimpiego, nella consapevolezza che è limitato il rischio di una ricostruzione adeguata e puntuale dei diversi passaggi e di una precisa individuazione delle fonti. Le interrelazioni a fini di riciclaggio sono, inoltre, ampiamente favorite dal progressivo radicarsi nel territorio di insediamenti provenienti da aree fortemente interessate dalla criminalità mafiosa e camorristica. Tali presenze garantiscono rapporti, conoscenze e veicoli di interscambio che favoriscono le movimentazioni di capitale tra territori diversi. Si constata, in particolare, come sempre più frequentemente vengono individuate strutture organizzate che vedono la compresenza di soggetti criminali romani con soggetti di origine diversa, appartenenti ad organizzazioni criminali estremamente “qualificate”. Esistono anche concreti elementi per ritenere che il reinvestimento riguardi soprattutto proventi da traffico di sostanze stupefacenti. A volte, il riciclaggio avviene attraverso società, anche con sede all’estero, collegate agli autori dei reati presupposti. Nell’area pontina e in quella del litorale romano si assiste, invece, all’acquisizione (mediante prestanome) di attività commerciali e di servizi pubblici, che poi costituiscono oggetto, a fini evidenti di “ripulitura”, di successive e reiterate compravendite. Anche l’area romana è interessata al fenomeno, con un notevole numero di imprese commerciali (supermercati, autosaloni) riferibili a organizzazioni camorristiche. Quanto al coinvolgimento di soggetti esterni e all’eventuale collusione di operatori finanziari nell’attività di riciclaggio, sono pure emersi dati concreti. In un caso, è stato, per esempio, accertato che un istituto bancario ha fornito copia di assegni richiesti dalla A.G., occultando nella fotocopiatura il nominativo di uno dei “giranti”. Il Sud Nell’area napoletana sono state svolte specifiche indagini sui sistemi di riciclaggio adoperati dalle organizzazioni criminali per ripulire il denaro derivante dalle attività illecite, anche se con esiti non sempre positivi, a causa della difficoltà di prova degli elementi costitutivi della fattispecie tipica di cui all’art. 648 bis c.p.. Le indagini svolte hanno consentito di accertare che i proventi delle attività delittuose vengono riciclati attraverso operazioni simulate di esportazione di fiori all’estero, con la complicità di operatori olandesi compiacenti, che trasferiscono i relativi importi attraverso bonifici su conti correnti di imprenditori mafiosi. Ulteriori specifiche indagini si sono svolte sulle modalità di fornitura agli operatori economici stranieri della provvista economica necessaria per l’effettuazione dei pagamenti e sarebbe stato finora individuato il coinvolgimento nelle operazioni di istituti di credito inglesi ed austriaci. Quanto al coinvolgimento di operatori finanziari nelle attività di riciclaggio va osservato che, nel medesimo procedimento, è emerso il concorso di appartenenti alla Banca di Roma nelle operazioni di trasferimento all’estero di capitali di sicura matrice illecita (provenienti da patrimoni di soggetti appartenenti organicamente al clan Cesarano). Sono stati acquisiti elementi che dimostrano come i guadagni percepiti grazie alle operazioni commerciali svolte all’estero vengano immediatamente monetizzati; il denaro viene portato in Italia dai cd. “magliari” e successivamente convertito in valuta estera; infine, la valuta torna in Italia attraverso accrediti su conti bancari intestati a persone appartenenti all’organizzazione. I professionisti (commercialisti, ragionieri o altro) coinvolti in tali operazioni, più che esterni alla stessa organizzazione, appaiono in essa pienamente inseriti per la frequente e completa disponibilità manifestata. Soggetti estranei al clan, ma di cui il sodalizio criminale si avvale per il perseguimento dei suoi fini illeciti, sono i funzionari degli istituti di credito coinvolti in tali operazioni. § § Nell’area casertana sono emersi notevoli fenomeni di reimpiego di capitali illeciti in attività economiche, anche se per tali vicende si sono operate contestazioni direttamente in termini di partecipazione all’associazione camorristica. In un caso si è ipotizzato che una banca locale fosse veicolo primario del riciclaggio, tanto che i titolari della medesima sono stati sottoposti ad indagine per partecipazione ad associazione camorristica, e successivamente anche a misure di prevenzione personali e patrimoniali. In molti casi sono state individuate ipotesi di intestazioni fittizie di beni, per i quali è stata utilizzata la disposizione di cui all’art. 12 quinquies della legge 356/92. Anche nel territorio di Salerno, nell’ultimo quinquennio, vi sono state indagini che hanno evidenziato fatti di riciclaggio da parte delle organizzazioni criminali. Ad esempio, nei procedimenti penali contro Procida Roberto e Meluzio Antonio si è accertato il riciclaggio da parte di imprese di mezzi finanziari provenienti dai clan. Le tecniche ed i canali utilizzati per il riciclaggio sono l’usura, l’acquisizione (per il tramite di prestanome o di familiari) di aziende, di attività commerciali e di immobili. Il coinvolgimento dei soggetti esterni alle organizzazioni criminali viene realizzato attraverso rapporti fiduciari difficilmente accertabili ovvero con la creazione di imprese o società controllate da persone legate da vincoli di parentela o legame malavitoso con i vari clan. Allo stato, le indagini svolte non hanno però rivelato comportamenti di collusione o connivenza con gruppi camorristic i in fatti di riciclaggio da parte di operatori economici e finanziari. Anche nel distretto di Lecce, nell’arco dell’ultimo quinquennio, vi sono stati indagini e processi per fatti di riciclaggio. Le principali attività criminose nelle quali si realizza l’accumulazione di ricchezze illecite sono quelle del traffico di stupefacenti, dell’usura, delle estorsioni e, più recentemente, del favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e, in genere, del traffico di esseri umani. I canali di riciclaggio sono que lli degli investimenti commerciali ed imprenditoriali in genere, oltre ai tradizionali investimenti patrimoniali non produttivi, di norma attraverso prestanomi e fittizie intestazioni. Peraltro, nessuna segnalazione di operazioni sospette, degna di nota, è pervenuta attraverso i canali istituzionali da parte dell’Ufficio italiano cambi. In Calabria la ‘ndrangheta, prima e meglio delle altre mafie, ha compreso l’importanza e la vantaggiosità dell’investimento dei proventi del crimine in attività economiche e finanziarie. Enormi, infatti, sono gli investimenti operati dall’organizzazione criminale non solo in Italia (soprattutto nel centro-nord), ma anche in Europa (specie nei paesi dell’Est) e più in generale nel mondo. Essa, non a caso, dispone di ottimi operatori finanziari che le consentono di effettuare investimenti oltremodo proficui, con caratteristiche tali da rendere quasi impossibile ricollegare gli stessi agli effettivi beneficiari. Il fenomeno, allo stato già molto preoccupante, costituisce probabilmente soltanto la punta di un iceberg di una realtà di dimensioni tali da non potere essere facilmente immaginabile. I principali canali dello stesso sono principalmente bancari, commerciali e imprenditoriali in genere. Sono state anche accertate collusioni e connivenze di operatori economici e finanziari. Scarsa, però, è risultata la collaborazione nelle indagini degli istituti di credito. Nessuna segnalazione di rilievo, tuttavia, è pervenuta da parte dell’Ufficio italiano cambi. In Sicilia, segnatamente a Palermo, le indagini compiute negli ultimi anni hanno consentito di acquisire via via sempre maggiori elementi di conoscenza (e comunque di interpretazione) del fenomeno, ancora in gran parte inesplorato, del reinvestimento in attività produttive ed economiche, degli illeciti capitali accumulati dagli appartenenti a Cosa Nostra. Dal complesso degli elementi progressivamente acquisiti in vari procedimenti ancora in corso è emersa l’esistenza di almeno due versanti del riciclaggio: uno interno, locale, legato alla logica del controllo del territorio; uno esterno, indipendente dall’insediamento territoriale, legato ai grandi circuiti finanziari nazionali ed internazionali. Per quanto concerne il versante interno, le indagini hanno confermato che i canali di reimpiego maggiormente utilizzati da Cosa Nostra sono stati, ed in parte continuano ancora oggi ad essere, quelli dell’edilizia e degli appalti pubblici. Tale realtà è emersa sia da informazioni fornite dai collaboranti sia da indagini bancarie e societarie. Per quanto concerne il versante esterno, indagini molto complesse, svolte grazie ad una proficua collaborazione internazionale nel settore del traffico di stupefacenti, hanno dimostrato che ingenti flussi di 1. 2. 3. 4. § § § denaro “sporco”, inizialmente ricavato negli USA dallo smercio della droga, sono pervenuti in Italia ai trafficanti mafiosi che avevano curato la spedizione e la raffinazione della droga secondo una sequenza così costituita: trasferimento dei fondi per via bancaria su conti cifrati svizzeri di pertinenza di operatori economici italiani; rientro in Italia di tale valuta, quale apparente corrispettivo di esportazioni precedentemente effettuate da quegli operatori verso soggetti esteri; esportazioni in realtà inesistenti, ovvero (secondo una tecnica più raffinata) solo parzialmente esistenti perché sovraffatturate; trasferimento terminale, in Italia, dei fondi ai reali destinatari del crimine organizzato, mediante ulteriori operazioni commerciali fittizie. Sono state così adattate, a scopo di riciclaggio, tecniche in passato ampiamente sperimentate per illeciti valutari in termini esattamente invertiti (costituiti in quel caso dalla sottofatturazione delle esportazioni e dalla sovraffatturazione delle importazioni). Questa tecnica ha fatto registrare, sempre per i trasferimenti transnazionali, un’altra variante: quella delle “compensazioni delle valute”, cui si è fatto ricorso in passato quando l’operatore italiano (contiguo all’organizzazione criminale o comunque da questa costretto) intendeva perseguire un fine valutario all’estero. In questo caso la sequenza si articola nelle seguenti fasi: l’organizzazione accredita il denaro “sporco” su conti svizzeri intestati all’operatore economico italiano; contemporaneamente l’operatore economico italiano mette a disposizione dell’organizzazione il controvalore in Italia; l’operatore maschera in bilancio l’uscita di quel controvalore mediante operazioni economiche fittizie. Dalle compiute investigazioni sono emersi gravi indizi di colpevolezza a carico di personaggi che, dietro una apparente facciata di rispettabilità, hanno invece per lunghi anni intrattenuto con pericolosissimi rappresentanti di Cosa Nostra rapporti d’affari, traendone reciproco vantaggio. E’ emersa, in altri termini, una insospettabile categoria di operatori economici che - dall’appoggio di importanti esponenti collocati ai vertici di Cosa Nostra - hanno tratto grandi vantaggi, inserendosi nel sistema illecito degli appalti pubblici e distraendo il credito loro fornito da aziende bancarie. Infine - in ambedue i cennati versanti del riciclaggio – sono state riscontrate collusioni tra esponenti di Cosa Nostra e soggetti terzi (talvolta semplici advisors finanziari, talaltra stabilmente incaricati di provvedere alle continue necessità d’investimento del sodalizio criminoso) professionalmente specializzati ed inseriti in apposite strutture. A Caltanissetta sono state svolte indagini, anche in collaborazione con organismi investigativi esteri, per verificare le dichiarazioni di un colla borante circa la sussistenza di investimenti e vari interessi economici di alcuni esponenti di Cosa Nostra, in paesi quali Inghilterra, Francia, Ungheria, Stato Uniti ed Austria. Sono stati comunque riscontrati investimenti immobiliari ed imprenditoriali riconducibili ad esponenti della mafia ed aventi le caratteristiche già evidenziate nel corso di altre audizioni. Nel passato sono state avviate due indagini su segnalazione dell’UIC, che tuttavia non hanno portato a risultati apprezzabili. Nel distretto di Catania, negli ultimi cinque anni, la D.D.A. ha condotto diverse indagini concernenti i reati di cui agli artt. 648 bis e 648 ter c.p., in particolare per fatti riconducibili alle organizzazioni criminali Santapaola e Laudani. Per quanto è stato possib ile rilevare da indagini e procedimenti svolti nel distretto, i mafiosi individualmente beneficiari di profitti illeciti reinvestono gli stessi soprattutto nel settore della speculazione immobiliare ed in quello della intermediazione commerciale. Nel primo settore si è constatato come l’attività speculativa, esercitata sempre tramite prestanome, viene realizzata operando nel comparto delle costruzioni edilizie, ovvero attraverso l’acquisto di consistenti appezzamenti di terreno in località turistiche nella previsione di renderne possibile la lottizzazione e l’edificabilità, sfruttando la possibilità di esercitare pressioni sulla P.A. attraverso le infiltrazioni mafiose presenti nella stessa. Nel settore della intermediazione commerciale, invece, si è accertato che i capitali illeciti vengono immessi nel circuito economico, anche in questo caso tramite prestanome, per l’acquisto e la commercializzazione di beni primari (ad esempio nel settore ittico) da parte di soggetti che si avvalgono delle “prestazioni” di soggetti mafiosi. Non mancano collusioni e/o connivenze da parte di operatori economici o finanziari. Ad esempio, nel procedimento n° 438/95 a carico di Spampinato Giuseppe ed altri, si è constatato che il direttore di un istituto di credito aveva cons igliato personalmente la frammentazione in più libretti al portatore, per somme inferiori ai 20 milioni di lire, di maggiori importi (dell’ammontare complessivo di circa 2 miliardi di lire), provento di attività illecita, anche in violazione di norme fiscali e contabili. A Messina i casi di riciclaggio oggetto d’indagini sono stati realizzati con metodologie che vanno dall’impiego di denaro proveniente da elementi legati alla criminalità organizzata ad opera di un costruttore all’impiego di denaro derivante dall’annotazione di fatture per operazioni inesistenti per l’acquisto di immobili e imbarcazioni, attraverso un operatore finanziario estero. Il coinvolgimento dei soggetti esterni alle organizzazioni criminali si realizza utilizzando persone - di solito incensurate ed in gravi difficoltà economiche - come “teste di legno” per l’esercizio di attività imprenditoriali in cui vengono impiegate le risorse finanziarie provenienti dalle attività illecite. 5. Le forme di pressione della criminalità organizzata sull’economia legale La criminalità organizzata, laddove non raggiunga forme tanto raffinate di azione da porsi come protagonista dell’attività economica illecita, assumendo le vesti della cd. impresa mafiosa, sopra ampiamente illustrata sia nei suoi aspetti generali sia per il modo in cui essa si cala nella varie realtà territoriali, riesce spesso a lucrare (agendo ab externo) dalle attività economiche di altri soggetti, portate avanti lecitamente o illecitamente. I modi classici di intervento, a proposito di tale ultima forma di manifestazione, sono quelli ampiamente noti dell’usura e dell’estorsione, delitti questi che, compiuti su larga scala territoriale e nel medio o lungo periodo, portano all’accumulo di notevoli fondi illeciti in capo ai partecipi delle associazioni che hanno la commissione di tali reati come scopo sociale e, nel contempo, assumono una notevole incidenza sugli assetti economici del paese, tanto più evidenti nelle zone in cui molteplici esercizi commerciali sono costretti a chiudere i battenti in quanto vinti o “strozzati” dai dilaganti fenomeni in parola. Più che una disamina teorica di questi ultimi appare utile dare un quadro sintetico di come si atteggino nel paese le citate attività illecite, ancora una volta distinguendo per aree territoriali. Detto quadro dovrebbe avere, pur nella sua sommarietà, almeno il pregio dell’attualità. Il nord I fenomeni indicati sono presenti in tutte le aree italiane ma restano, tuttavia, meno accentuati al nord. Nel bresciano, ad esempio, è stato positivamente accertato come l’organizzazione camorristica si occupi, su vasta scala, della gestione del prestito ad usura. Detta attività risulta particolarmente prolifica nel distretto, in considerazione della straordinaria concentrazione di imprese medio-piccole, che frequentemente si trovano a fronteggiare crisi finanziarie. La gestione dell’usura viene attuata tramite soggetti specificamente delegati, ben inseriti nel settore economico e commerciale (come imprenditori e commercialisti) e non può certamente considerarsi una entrata marginale nel variegato panorama delle attività illecite della camorra insediata nel bresciano. Le modalità operative di tale attività consistono nell’affidare in “gestione controllata ”, generalmente ad una persona insospettabile e ben inserita nel mondo commerciale, l’attività di prestito del denaro ad un tasso di interesse solitamente del 10% mensile, con l’applicazione costante dell’anatocismo. L’organizzazione criminale solitamente non prende contatto diretto con l’ usurato, se non quando si rende necessario “sollecitare” il pagamento delle rate attraverso minacce o danneggiamenti. Una peculiarità di tale attività consiste nell’obbligare l’usurato, non più ulteriormente sfruttabile, a cedere la propria attività commerciale, senza il pagamento di alcun corrispettivo, ad imprenditori che fittiziamente si intestano tale attività, versandone i profitti all’organizzazione criminale. Per il compimento delle suddette operazioni commerciali la criminalità del bresciano si avva le solitamente dell’opera di professionisti (come, appunto, ragionieri o commercialisti), vicini all’organizzazione, incaricati della individuazione e della realizzazione dell’assetto societario ritenuto più conveniente per la gestione delle imprese acquis ite. Nell’ambito di un’inchiesta è stato accertato che le estorsioni attuate dal gruppo camorristico bresciano sono sempre scaturite da un pregresso rapporto usurario, tramutatosi successivamente in estorsione. Attraverso l’estorsione il gruppo criminale non si limita a richiedere il pagamento costante di una somma di denaro ma mira ad appropriarsi dell’intera attività economica, che viene lasciata in gestione al precedente titolare, il quale diventa un mero amministratore stipendiato dalla camorra, oppure viene affidata ad altro imprenditore vicino od intraneo all’organizzazione. Gli imprenditori bresciani, vittime dell’usura e dell’estorsione, hanno, fino all’estate del 2000, tenuto un atteggiamento di sostanziale acquiescenza omertosa, evitando di sporgere denuncia e cercando, in alcuni casi, addirittura di trattare con l’organizzazione criminale. Successivamente agli arresti di quel periodo, si è fortunatamente verificato – a dire degli auditi – un incremento di denunce da parte dei commercianti taglieggiati, attraverso le quali è stato possibile fare luce su di uno spaccato criminale sino ad allora soltanto ipotizzato. Si è saputo, inoltre, che l’associazione criminale bresciana, per il tramite degli affiliati ancora in libertà, ha ripreso a gestire l’attività usuraria, minacciando di morte gli imprenditori che, successivamente all’operazione di polizia del luglio 2000, avevano ritardato i pagamenti. E’ stato inoltre accertato come in molti casi i commercianti siano stati costretti a rendere false dichia razioni alla p.g. in ordine alla causale dei titoli sequestrati in occasione di perquisizioni effettuate nei confronti di componenti dell’organizzazione arrestati. Nel distretto di Bologna, poi, nel campo dell’usura non risulta la presenza di gruppi o soggetti appartenenti o comunque riconducibili ad organizzazioni di stampo mafioso. Per quanto concerne le estorsioni, invece, vi sono state e vi sono indagini e processi relativi ad attività delittuose attuate da persone legate alla associazione camorristica dei “casalesi”. Il centro Nel Lazio il fenomeno dell’usura interessa capillarmente la vita economica del territorio, tanto da costituire un vero e proprio sistema alternativo al credito, con destinatarie principali le imprese. Ciò può trovare spiegazione: a) nella sedimentazione storica del fenomeno, che risale a tempi remoti e che garantisce un’offerta di mercato alla quale è possibile accedere con facilità; b) nella presenza diffusa di piccole e medie imprese artigiane e commerciali, sovente interessate da crisi di mercato; c) nella presenza di una “incultura” economico-finanziaria, tale da ingenerare la convinzione che il ricorso al finanziamento ad opera di privati sia soluzione sostanzialmente positiva per ovviare, in tempi rapidi, ai problemi finanziari; d) nella presenza di fenomeni di appoggio, se non di vera e propria collusione, da parte di funzionari infedeli degli istituti bancari, sia in termini di supporto alle attività finanziarie illegali (omessa segnalazione di operazioni sospette, pur in presenza di indici di anomalia) sia in termini di individuazione della possibile clientela. La vastità del fenomeno è testimoniata dall’elevatissimo numero di procedimenti iscritti dal 1992 ad oggi. Ancora adesso si assiste all’individuazione di nuovi soggetti, operanti a livello organizzato e non, nonché alla ripresa dell’attività usuraria da parte di soggetti già noti, non frenati da pregressi coinvolgimenti giudiziari. Va rilevato anche che il settore, sempre più frequentemente, vede l’intervento di soggetti provenienti da altre aree geografiche, soprattutto campane: in diversi casi, infatti, si sono riscontrate movimentazioni di ingenti capitali, provenienti da tali zone, investiti a Roma, e quindi nuovamente transitati, con i conseguenti incrementi, presso le aree di provenienza. Le indagini dell’ultimo decennio sembrano aver dimostrato che i principali soggetti criminali operanti nel territorio hanno costantemente coltivato, accanto ad altre attività illecite, l’usura, ritenuta altamente remunerativa e con livelli di rischio contenuti. In tale contesto, la Procura di Roma ha individuato diversi gruppi criminali, organizzati secondo moduli ricorrenti, che fanno capo, in genere, ad un unico soggetto “forte” (sempre, peraltro, coadiuvato da • • • • componenti di gruppi familiari come i clan Nicoletti, Fasciani e Terribile), che raccoglie e controlla le disponibilità finanziarie necessarie all’impiego illecito. Le fonti che alimentano tali disponibilità sono molteplici: apporti finanziari di soggetti non tradizionalmente legati ad attività criminali, ma che intendono investire con lauti profitti le loro risorse; accumuli di capitali derivanti da altre attività illecite, tra cui i proventi della stessa attività usuraria; disponibilità patrimoniali provenienti da altri ambiti territoriali (soprattutto dal napoletano); disponibilità finanziarie ottenute mediante linee di credito concesse da istituti bancari. E’ da notare, al riguardo, che sovente chi opera nel mercato finanziario illegale è considerato un ottimo cliente per la banca, in ragione dell’ampiezza delle movimentazioni finanziarie operate direttamente o indirettamente, e del presentarsi come soggetto solvibile (si sarebbero registrati anche casi di vero e proprio “asservimento” di primarie agenzie di istituti di credito). In genere, nei casi in questione, si assiste alla predisposizione di strutture operative finalizzate alla gestione del finanziamento usurario. A tal fine, il soggetto “forte” si avvale di numerosi intermediari (che acquisiscono disponibilità finanziarie concordando la propria percentuale di guadagno, di norma il 3% mensile) e quindi (direttamente o tramite altri intermediari) gestisce le operazioni finanziarie verso i destinatari finali. Peraltro, in tempi recenti, si registra una particolare accortezza nel dissimulare il passaggio finanziario tra il dominus e gli intermediari, allo scopo di impedire la ricostruzione del rapporto associativo. E’ altresì rilevante l’attenzione, da parte dei principali gruppi criminali, alla possibilità di acquisizioni patrimoniali diverse dal semplice flusso finanziario. Accanto alle acquisizioni immobiliari si può verificare il caso di acquisizioni delle stesse attività economiche delle vittime dell’usura (operazione che, di solito, avviene attraverso passaggi progressivi: costituzione delle quote sociali in garanzia, cessione delle quote, patti di garanzia comunque riguardanti l’azienda). Ovviamente, l’interesse all’acquisizione di imprese è finalizzato all’intento di utilizzare l’attività economica lecita come strumento di reimpiego dei proventi delle attività usurarie o di copertura e come base di appoggio per lo svolgimento di altre attività illecite. Si è anche verificato il caso di un’originaria vittima, privata di capacità di autodeterminazione economica, che ha continuato a prestare formalmente la propria opera, garantendo una parvenza di regolarità e continuità nella gestione delle imprese. Per quanto concerne le estorsioni, si tratta di attività criminale relativamente diffusa nel territorio di Roma, ma molto più marcatamente presente in città quali Latina, Frosinone e Cassino, dove la stessa è riconducibile ad organizzazioni criminali di stampo camorristico. E’ da porre in rilievo che, in genere, i commercianti sporgono denuncia a carico di ignoti. In alcuni casi è stato accertato che le vittime avevano dichiarato mendacemente alla P.G. di non conoscere gli autori degli atti intimidatori. Nelle altre zone del centro, invece, in relazione ai reati di usura ed estorsione non vi sono risultati di indagini che consentano di inquadrare tali attività delittuose nel campo di azione delle organizzazioni criminali di stampo mafioso. Il sud Nell’area vesuviana l’usura costituisce da sempre uno dei campi tradizionali di intervento delle associazioni di stampo camorristico. I tradizionali metodi operativi delle organizzazioni criminali consistono nel praticare tassi di interesse superiori a quelli del sistema creditizio, e tali da essere considerati usurari, senza peraltro raggiungere la soglia di quelli praticati dagli usurai non inseriti in circuiti organizzati. Le modalità operative dei gruppi criminali appaiono essere quelle di vere e proprie finanziarie, ma non presuppongono, secondo quanto si è potuto accertare, la gestione di finanziarie. La indiscussa disponibilità di ingenti capitali da parte dei clan camorristici consente loro di fungere da terminale delle richieste di imprese anche di medie dimensioni (sono stati accertati finanziamenti anche per somme vicine al miliardo di lire). Prove specifiche dello svolgimento di tale attività sono state acquisite nell’ambito delle indagini sui clan Cesarano e Nuvoletta, anche se non sono stati accertati fenomeni di acquisizione di imprese legali attraverso l’attività usuraria. Con riferimento alla specifica realtà della città di Napoli, i risultati provvisoriamente raggiunti sulla base delle indagini evidenziano che quando, specie per gli esercizi commerciali, il costo dell’estorsione diviene troppo alto, la stessa organizzazione interviene con prestiti a tassi usurari, che non potranno mai essere rimborsati e che inevitabilmente portano alla sottrazione dell’impresa al suo proprietario. Il quale, pur restando formalmente titolare della stessa, in realtà non esercita più alcun controllo sulla effettiva gestione. L’usura – nella realtà metropolitana, a differenza di quanto si verifica nell’area provinciale – rappresenta senz’altro un veicolo di acquisizione di imprese legali, da parte delle organizzazioni criminali federate nella “alleanza di Secondigliano”. Per quanto attiene alla criminalità organizzata nel casertano, mentre nel passato essa non sembrava occuparsi particolarmente di attività usuraria, le indagini più recenti avrebbero rivelato un suo diretto interesse anche per questa forma di attività illecita; in particolare per quella che vede destinatario il mondo dell’imprenditoria. Anche perché, in tal modo, viene perseguito un duplice obiettivo: riciclaggio di denaro di provenienza delittuosa e controllo indiretto delle attività economiche. Quasi sempre, poi, i delitti di usura posti in essere in questa area sono collegati alle estorsioni. Per quanto riguarda l’area avellinese-beneventana, un ruolo preminente nell’attività di usura viene svolto dal clan Pagnozzi, che, attraverso la stessa, ha acquisito il controllo su imprese ed esercizi commerciali. L’attività di indagine e, soprattutto, le istruttor ie dibattimentali di diversi processi hanno fatto registrare un contesto di impenetrabile omertà nel quale è risultato evanescente il confine tra condizione di assoggettamento e consapevole fiancheggiamento. In relazione al clan Genovese, l’attività usuraria, pur non assumendo un ruolo centrale nell’economia del sodalizio, costituisce uno strumento di pressione su imprenditori in difficoltà, al fine soprattutto di utilizzare i canali bancari di quest’ultimi per la collocazione dei profitti delittuosi. L’attività estorsiva delle organizzazioni criminali operanti nella provincia di Napoli presenta tratti profondamente differenti rispetto al passato, allorquando essa si esplicava, essenzialmente, nella acquisizione di lavori per le imprese controllate dalla camorra, e prevedeva la rinuncia al taglieggiamento sistematico di imprese commerciali, anche al fine di evitare di suscitare reazioni nella società civile che avrebbero potuto attivare l’attenzione delle forze dell’ordine. Attualmente, invece, tutte le attività economiche, anche di modeste dimensioni, sono sottoposte ad estorsione, come si rileva da investigazioni aventi ad oggetto i clan: Autorino, operante nella zona di Nola; Cesarano, operante nella zona di Castellammare di Stabia e Pompei; Cirella, operante nella zona di Pomigliano d’Arco ed Acerra, nonché Nuvoletta. Le richieste della camorra, assolutamente capillari, hanno spesso ad oggetto somme di denaro, anche di modesta entità, e si avvalgono della capacità di controllo del territorio attraverso gli affiliati. A fronte di tale pervasività dell’agire delinquenziale non si ravvisano significativi cenni di reazione da parte del tessuto economico e produttivo, e quasi tutti i taglieggiati preferiscono pagare senza denunciare le pressioni subite. La proliferazione sul medesimo territorio di più organizzazioni criminali, conseguente alla disgregazione degli antichi cartelli di clan, determina spesso forme di concorrenza tra le varie organizzazioni nelle estorsioni ai danni delle medesime vittime. Con la conseguenza che efferati delitti hanno trovato origine proprio dalla coincidenza di più richieste aventi lo stesso oggetto. Il fenomeno estorsivo abbraccia senz’altro tutto il territorio metropolitano (oltre ovviamente ad estendersi nell’hinterland) e rig uarda esercizi commerciali, attività edili, anche di non rilevante entità, ed ogni tipo di appalto. I compiti correlati alla riscossione sono demandati prevalentemente ai più giovani affiliati, privi di precedenti penali significativi, per i quali il rischio di arresto in flagranza non è tale da pregiudicare gli assetti dell’organizzazione nell’area metropolitana di Napoli. Nelle province di Avellino e Benevento l’attività estorsiva è, unitamente all’infiltrazione nei pubblici appalti e nelle principali commesse dei privati, la fonte principale di arricchimento dei clan. A Salerno, inoltre, l’usura rappresenta un tipico terreno di azione delle organizzazioni criminali che operano nel distretto, nella quale investono i capitali accumulati con altre attività illecite. Il sistema adottato dai clan per esercitare l’usura è quello dello sconto di cambiali o del rilascio di assegni bancari nei quali è contenuto l’impegno a pagare globalmente il capitale e gli interessi. Viene fatto ricorso alla forza intimidatoria per ottenere dalle vittime il pagamento del debito. A volte, gli imprenditori che ricorrono ai prestiti usurari vengono costretti a trasferire le loro imprese ai clan. Molto diffusa e praticata è l’attività di estorsione da parte delle organizzazioni criminali. Si sono verificati casi in cui gli imprenditori, prima ancora di iniziare i lavori da eseguire, si sono rivolti al capo-zona malavitoso per concordare la tangente da versare ovvero si sono accordati immediatamente per evitare di subire attività ritorsive (chiusura coatta dei cantieri con minacce agli operai, incendi di automezzi), senza neanche la necessità che il gruppo camorristico ricorresse ad intimidazioni e minacce. Vengono richieste, in generale, somme di denaro per tangenti sugli appalti aggiudicati. Vi è un controllo del territorio da parte di ciascun clan con rispetto delle regole malavitose anche da parte delle imprese mafiose collegate ad altri clan che intendono operare nel territorio. Si è verificato un caso in cui l’impresa di Iovino Antonio, legato a clan camorristici napoletani, per operare nel territorio di Sarno ha concordato il pagamento di tangenti al clan Serino, che controlla appunto il territorio di Sarno. La reazione degli imprenditori e dei commercianti (e delle loro organizzazioni di categoria), a fronte di situazioni di radicata e reiterata attività estorsiva, è in generale di acquiescenza, con limitati casi di denunzie penali. In Puglia, segnatamente a Bari, mentre l’attività usuraria non risulta sia l’oggetto privile giato delle organizzazioni criminali, il fenomeno, tuttavia, non può definirsi marginale. Essa può ben costituire fonte di autofinanziamento ed è spesso esercitata in proprio da alcuni appartenenti di spicco della criminalità mafiosa. Nel territorio foggiano l’attività usuraria è svolta in forma tradizionale, con l’intermediazione di persone incensurate per la negoziazione dei titoli o l’accensione dei rapporti bancari. E’ possibile ipotizzare che l’usura sia stata lo strumento per l’acquisizione di imprese legali, come, ad es., l’esercizio di bar. Peraltro in un processo che è già pervenuto a giudizio nella sede barese sono stati accertati fatti di pesante condizionamento usurario ad opera di strutture criminali, fino ad indurre alcuni imprenditori locali alla fuga prima ed al suicidio poi. Le estorsioni, invece, specialmente nel foggiano, costituiscono il mezzo primario di accumulazione di proventi da parte della criminalità organizzata. Esse vengono praticate con la sistematica e capillare imposizione del “pizzo” mensile ai commercianti, e, in misura minore, nella tradizionale forma del cd. “cavallo di ritorno” (ad es., l’autovettura rubata viene riproposta al proprietario previo pagamento di una somma). Nel leccese la presenza di organizzazioni criminali di stampo mafioso nel campo dell’usura, stando alle denunce, avrebbe carattere di marginalità ma il fenomeno è, tuttavia, molto più diffuso di quanto non si creda, con una notevole percentuale di "sommerso". La gestione è, in genere, individuale, sebbene, a volte, con il supporto di gruppi mafiosi. Le modalità operative sono quelle che connotano da sempre l’attività degli usurai, gestita con metodo mafioso (diffuso ricorso ad intimidazioni e violenze), spesso condotta fino all’acquisizione dei beni produttivi degli imprenditori usurati. Ancora più diffuso è il fenomeno delle estorsioni, spesso denunciate solo se accompagnate da manifestazioni di violenza difficilmente occultabili (incendi, attentati dinamitardi o con uso di armi) ed i cui proventi rappresentano, unitamente al traffici di stupefacenti ed al contrabbando, una delle maggiori entrate delle organizzazioni criminali operanti nel distretto. Tutto il distretto è interessato dal fenomeno e nessuna attività economica e imprenditoriale si sottrae alle “attenzioni” dei gruppi criminali. Il tipo di reazione da parte di imprenditori, commercianti e cittadini è quello di una sostanziale acquiescenza, che porta in genere gli imprenditori ad accettare il pagamento ed a considerarlo una sorta di costo aggiuntivo di impresa. Anche i comitati antiracket, formatisi verso la metà degli anni Novanta, hanno avuto vita breve e, comunque, non hanno dimostrato di avere sufficiente capacità di incidere sul fenomeno in maniera efficace. In Calabria, in particolare nel distretto reggino, l’attività estorsiva, sia pure in misura inferiore rispetto al traffico internazionale di stupefacenti, costituisce una delle maggiori entrate della mafia calabrese. Essa viene praticata diffusamente dalle varie cosche, non solo a fini di lucro ma anche per manifestare il loro potere e la loro presenza nel territorio. È stato tuttavia segnalato che, negli ultimi tempi, i vari sodalizi criminosi che costituiscono l’universo della ‘ndrangheta curano di non eccedere nelle richieste estorsive per non esasperare le vittime e non correre il rischio di compromettere quel rispetto e quella considerazione che, purtroppo, essi hanno su una parte della popolazione. Nel catanzarese, inoltre, soprattutto l’attività estorsiva è indirizzata verso qualunque tipo di esercizio commerciale e nei più svariati settori dell’imprenditoria. • • Spesso l’estorsione viene praticata anche se il destinatario non ha la disponibilità di capitali ingenti e, quindi, le richieste vengono effettuate anche per somme non elevate; la tendenza di fondo è quella, comunque, di realizzare una sorta di sistematicità nel pagamento, con frequenze mensili o bimestrali. La consumazione dell’estorsione avviene sia attraverso il ricorso a metodi classici (minacce telefoniche, incendi, danneggiamenti) sia attraverso il ricorso ad intermediari (imprenditori vicini al clan o imprenditori che già pagano l’estorsione) sia attraverso la diretta presentazione dell’emissario alla vittima, emissario che, in modo esplicito, espone la convenienza del pagamento estorsivo rispetto al ricorso allo Stato o alle polizie private. La reazione delle vittime alle varie richieste estorsive è praticamente nulla. A Palermo le acquisizioni investigative hanno consentito di accertare che taluni soggetti, organicamente inseriti in Cosa Nostra, hanno iniziato ad investire i proventi illeciti di altre attività criminali nei prestiti ad usura e che vi sarebbe un interesse sempre più penetrante di esponenti di Cosa Nostra per tale redditizia attività illecita. Secondo i dati investigativi disponibili, la gestione di società finanziarie dedite (anche, ma non soltanto) all’usura può rappresentare un canale di riciclaggio di proventi di altre attività illecite. Diversamente dall’usura il settore delle estorsioni è da sempre monopolio esclusivo di Cosa Nostra, che tutela con ogni mezzo questo suo specifico spazio di “sovranità illegale” da intromissioni esterne. A Palermo, infatti, è semplicemente impossibile che soggetti estranei all’organizzazione mafiosa svolgano attività estorsiva organizzata. Per tutti è indispensabile avere l’autorizzazione di Cosa Nostra, alla quale comunque devono essere destinati i proventi dell’attività. Un’attività estorsiva posta in essere in assenza dei predetti requisiti comporta, quale sanzione, la morte. Secondo i dati offerti da tutti i processi aventi questo oggetto, infatti, l’attività di riscossione del “pizzo” costituisce per Cosa Nostra una delle attività più importanti e remunerative. E’ un dato acquisito che questo tipo di attività si connota come di interesse vitale per l’organizzazione mafiosa, al pari delle altre attività di maggiore rilievo (quali la gestione illecita degli appalti pubblici ed i traffici illeciti di stupefacenti e di armi). Attraverso le estorsioni, infatti, Cosa Nostra realizza due obiettivi fondamentali: un obiettivo economico costituito dalla costante e regolare acquisizione di notevoli profitti; un obiettivo di natura “politico-criminale”, costituito da un sistematico controllo del territorio, sul quale l’organizzazione, sostanzialmente sostituendosi allo Stato, esercita un potere illegale di “imposizione fiscale ”, in ragione dei corrispettivi servizi di “protezione”, così riuscendo ad ottenere il consenso degli stessi operatori economici vittime del fenomeno (che risparmiano il pagamento dei premi di assicurazione). La riscossione del “pizzo” avviene “a tappeto” in tutte le zone del territorio e vede coinvolte tutte le attività economiche, anche le minori, sia pure per contributi minimi. Tale capillarità rende anzitutto evidente a tutti il controllo del territorio da parte dell’organizzazione mafiosa, senza dovere ricorrere a manifestazioni violente, che inevitabilmente determinerebbero una più intensa reazione da parte dello Stato. In secondo luogo, un meccanismo “pulviscolare” di esercizio del “racket” riduce il rischio che si profila quando si effettuano richieste per somme di denaro ingenti in danno di pochi imprenditori, che potrebbero indurre talune delle vittime a rompere il muro dell’omertà. La richiesta di somme non particolarmente elevate, e comunque proporzionali alla capacità economica delle vittime, induce gli operatori economici a non denunciare il fenomeno, in quanto al timore per le ritorsioni si somma il calcolo della sopportabilità dei costi nonché la speranza di potere “convivere” con l’organizzazione mafiosa. Anche a Caltanissetta il fenomeno delle estorsioni è sentito. Per quanto concerne queste ultime, bisogna distinguere il territorio di Gela dal resto del distretto. A Gela le attività criminali di natura estorsiva vengono esercitate “a tappeto” nei confronti dei titolari di esercizi commerciali o di attività produttive. Il profitto perseguito non sempre è il denaro, ma anche utilità di vario genere, come sconti nell’acquisto di beni di consumo oppure l’accesso più vantaggioso a determinati servizi. La risposta degli imprenditori e dei commercianti gelesi è caratterizzata da una diffusa omertà. Nel resto del territorio le attività estorsive non si presentano, invece, con le stesse caratteristic he di Gela. Il fenomeno è meno totalizzante e presente soltanto in forma ciclica, in corrispondenza del verificarsi di improvvisi bisogni dell’organizzazione criminale (per effetto di arresti, per la necessità di finanziare le famiglie dei detenuti e di pagare le spese legali). A Catania, invece, mentre non si segnala all’attenzione in maniera notevole il fenomeno dell’usura, viceversa negli ultimi anni sono state numerose le indagini preliminari svolte dalla D.D.A. che hanno avuto ad oggetto reati estorsivi ed altrettanto numerose sono state le condanne irrogate in esito a dibattimenti per tali delitti. In particolare, l’attività estorsiva è praticata da tutti i gruppi criminali che operano sul territorio, costituendo una delle principali fonti di sostentamento dell’organizzazione mafiosa nel suo complesso. Sulla base della più recente esperienza al riguardo, non appare anzi azzardato parlare di una evoluzione del fenomeno, che si dirige verso criteri di gestione manageriale ed imprenditoriale. Significative, in proposito, sono infatti alcune tecniche operative riscontrate in alcuni procedimenti quali, la distribuzione dei compiti di esazione del “pizzo” tra i consociati, la predisposizione di documentazione contabile riportante l’elenco delle aziende sottoposte ad estorsione, la data di scadenza per il pagamento ed il relativo importo, la redazione di registri contenenti l’elenco e l’ammontare delle somme corrisposte mensilmente a ciascun consociato. Nonostante che negli ultimi anni si siano moltiplicate le iniziative antiracket con la promozione dell’associazionismo, sia nel capoluogo sia negli altri centri del distretto l’atteggiamento delle vittime è rimasto, purtroppo, di sostanziale e generalizzata tolleranza. Nel messinese l’attività usuraria rappresenta un consistente terreno di azione delle organizzazioni criminali. Essa spesso ha rappresentato un veicolo di acquisizione di imprese legali da parte di esponenti di gruppi criminali mafiosi. Il fenomeno dell’estorsione, inoltre, ha aspetti capillari e colpisce operatori del terziario, commercianti piccoli e grandi, imprenditori che sono aggiudicatari degli appalti per la costruzione di opere pubbliche. Le richieste sono, per lo più, di denaro in misura non esosa e comunque proporzionale alla capacità economica della vittima. In città ed in provincia sono state costituite alcune associazioni antiracket, cui aderiscono numerosi operatori economici, che non tralasciano occasione per denunciare pubblicamente la gravità della situazione. Il fenomeno, tuttavia, è certamente in aumento, pur restando pochissime le denunce. 6. Le misure di prevenzione patrimoniale come mezzo di contrasto delle attività illecite economiche Le misure di prevenzione patrimoniali, almeno in astratto, dovrebbero costituire il principale mezzo di contrasto della criminalità economica che si manifesta nelle forme dettagliatamente sin qui esposte. Vista la ben nota lentezza del processo penale così come oggi configurato, soprattutto alla luce della macchinosità e della lunghezza dei dibattimenti; valutata la farraginosità del sistema delle misure cautelari; considerata la lentezza della fase esecutiva, è evidente come proprio all’impianto delle misure di prevenzione, anche per il tempo in cui esse devono intervenire, debba essere affidato il principale ruolo di contrasto alla criminalità economica. Ne consegue che quanto più le stesse risultano regolate attraverso una normativa esaustiva e chiara, quanto più le stesse sono applicate da magistrati (possibilmente) altamente specializzati, tanto maggiore è la possibilità che dette misure raggiungano l’obbiettivo cui sono destinate. Certamente va anche dato atto del fatto che l’attività di contrasto al fenomeno de quo incontra la basilare difficoltà nascente dalla estrema varietà delle modalità operative delle condotte di riciclaggio. Si intende ribadire che non si riscontra un modello costante per occultare l’origine dei fondi criminosi, bensì una serie di strumenti operativi mutevoli e spesso combinati fra loro. La crescente complessità dei mercati finanziari, poi, fornisce al criminale innumerevoli percorsi ed opzioni utilizzabili per il raggiungimento dello scopo. Ciò premesso, nelle pagine che seguono, si tenterà di esaminare lo stato di applicazione delle misure preventive di carattere patrimoniale sull’intera penisola, senza tralasciare di mettere in rilievo le carenze della normativa attuale con l’auspicio che, in tempi brevi, il legislatore possa porvi rimedio. 6.1. Il quadro territoriale dell’applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale Anche per illustrare il quadro dell’applicazione delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale giova ordinatamente dividere il territorio nelle consuete tre fasce, sì da fornire una dimensione il più possibile analitic a del fenomeno. Il nord A Milano le misure di prevenzione patrimoniali, unitamente alle misure di prevenzione personali, vengono trattate in via esclusiva dalla D.D.A., anche quando non si tratta di procedimenti ricompresi nella competenza determinata dall’art. 51 comma 3 bis c.p.p., in quanto si è ritenuto che la materia in oggetto sia di notevole importanza per l’attività di contrasto alle varie forme di criminalità di stampo mafioso. In detto circondario si è registrato un congruo aumento delle misure proposte nel periodo 1/7/1999 – 30/6/2000 (rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente). Sono state, infatti, trasmesse al Tribunale 61 richieste (contro le 6 precedenti); di tali richieste 36 sono state decise con l’accoglimento della proposta mentre le rimanenti sono tuttora pendenti. Le richieste accolte hanno comportato la confisca di beni per l’ammontare di circa otto miliardi di lire. I destinatari delle misure risultano prevalentemente soggetti nei confronti dei quali la D.D.A. ha esercitato l’azione penale per reati ex art. 74 D.P.R. 309/90 e, in percentuale minore, per reati ex art. 416 bis c.p. e per riciclaggio. Non risultano essere mai state avanzate richieste di misure per il solo riciclaggio, mentre è più volte accaduto che soggetti terzi (persone non direttamente collegate con il proposto) abbiano subito provvedimenti di sequestro e confisca di beni. Si è altresì registrato un aumento sensibile del numero delle proposte di applicazione delle misure sia personali che patrimoniali, con conseguente aumento dei decreti emessi a definizione dei procedimenti incardinati. Si è, infatti, passati dai 73 decreti pronunciati nel 1994 ai 239 nel 1998, ai 427 nel 1999, ai 507 nel 2000. Con riferimento ai provvedimenti di sequestro e confisca, ne sono stati emessi 43 nel 1999 e 41 nel 2000. Nel solo secondo semestre del 2000, sono stati definiti 11 procedimenti attinenti a misure patrimoniali antimafia, con confische di beni per svariati miliardi di lire. A Brescia la D.D.A. ha positivamente sperimentato il ricorso sistematico alle cosiddette indagini patrimoniali a carico degli indagati dei delitti di cui agli artt. 73 e 74 D.P.R. 309/90, nonché 644, 629, 648 e 648 bis c.p., finalizzate all’ottenimento del sequestro preventivo e, successivamente, alla confisca dei beni dei condannati, ai sensi dell’art.12 sexies del D.L. n° 306/92 (convertito nella Legge n° 356/92). In particolare, è stata attuata con successo la metodologia investigativa consistente nell’abbinare l’intervento repressivo finalizzato alla individuazione e cattura degli indagati, con quello diretto al sequestro preventivo di tutti i cospicui cespiti patrimoniali, di origine non giustificata, ai sensi del citato art. 12 sexies. Detta metodologia ha permesso di ottenere, contestualmente alle misure cautelari e personali, il sequestro preventivo dei beni mobili ed immobili riferibili direttamente, o per interposta persona, agli indagati per un valore di diversi miliardi di lire. Il ricorso allo strumento dell’art. 12 sexies, e quindi alla misura patrimoniale processuale, anziché a quello delle misure di prevenzione, ha incontrato giudizi sempre positivi da parte degli organi giudicanti, che non hanno mai disatteso le richieste di confisca dei beni avanzate dalla D.D.A.. Tra i beni di maggior valore sottoposti a sequestro preventivo - e successivamente confiscati spiccano gli immobili, i veicoli di lusso, le provviste bancarie, le quote societarie e le aziende commerciali. E’ stato riscontrato come i dati e le informazioni solitamente richiesti dai giudici del distretto per l’applicazione di misure di prevenzione patrimoniali non differiscono dagli elementi probatori ritenuti necessari per l’adozione di un provvedimento di sequestro preventivo. Va poi aggiunto che le indagin i patrimoniali, ed in particolare la prova dell’esistenza di un elevato tenore di vita e della disponibilità di un patrimonio “non proporzionato” in capo all’indagato, costituiscono quasi sempre un consistente elemento di riscontro al materiale probatorio acquisito in relazione al delitto per cui si procede. Circostanza questa che, il più delle volte, rassicura ampiamente il giudice in ordine alla fondatezza della tesi accusatoria, qualora l’imputato non sia stato in grado di giustificare la provenienza della ricchezza posseduta. Da non sottovalutare, sotto il profilo della maggiore duttilità ed efficacia del sequestro preventivo rispetto alle misure di prevenzione patrimoniali, è la possibilità di ricorrere con frequenza, nel corso delle stesse indagini, all’affidamento alla polizia giudiziaria dei beni sequestrati con facoltà d’uso, previsto dall’art. 100 del D.P.R. 309/90. Con l’ulteriore possibilità per la P.G. di ottenere l’acquisizione definitiva del bene assegnato, a seguito della sentenza di condanna. La misura cautelare reale del sequestro preventivo dei beni è risultata nel distretto di Brescia maggiormente efficace, in quanto riduce sensibilmente la possibilità che i beni appresi con misura di prevenzione patrimoniale vengano, in virtù delle numerose impugnazioni esperibili e dell’assenza di una sentenza di condanna, successivamente restituiti agli interessati. Nel bresciano i procedimenti penali di maggior rilievo per l’importo dei beni sequestrati preventivamente sono stati i seguenti: - proc. 2794/98, definito con condanna e confisca in primo e secondo grado, in cui sono stati beni confiscati pari a circa trenta miliardi di lire; - proc. 545/97, con valore dei beni sequestrati preventivamente di circa settanta miliardi di lire; - proc. 13644/00, definito con richiesta di rinvio a giudizio e valore dei beni sequestrati preventivamente per circa cinque miliardi di lire; - proc. 11981/00, con beni sequestrati preventivamente per oltre quindici miliardi di lire; - proc. 2289/99, con beni monitorati dal GICO ammontanti a circa quaranta miliardi di lire. Presso la sezione specializzata del Tribunale di Brescia - dall’anno 1989 al febbraio 2001 - sono stati instaurati e definiti solo tre procedimenti per misure di prevenzione patrimoniali: uno, nel 1990, a carico di Oliviero Tognoli, soggetto noto nel mondo della criminalità nazionale ed internazionale; un altro nel 1997 ed un terzo nel 2000. Il primo (Tognoli) ha avuto accoglimento in primo grado, ma è stato riformato in appello; per gli altri due le richieste sono state rigettate e le decisioni sono diventate definitive. Negli ultimi anni, la sostanziale assenza di richieste di misure di prevenzione patrimoniale deriva dalla scelta della Procura di attivare la procedura di sequestro preventivo dei beni finalizzato alla confisca ex art. 12 sexies del d. l. 306/92, piuttosto che la procedura di prevenzione. A Torino, invece, nel periodo giugno 1992/dicembre 2000, sono state proposte misure di prevenzione patrimoniale nei confronti di 47 persone, delle quali 44 indiziate di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e 3 sospettate di derivare i loro proventi dall’attività di usura. Le procedure di prevenzione si sono concluse per 32 proposti, mentre per 15 non vi è stata ancora la pronuncia di primo grado. A seguito della pronuncia della Cassazione è diventata definitiva la confisca di 17 autovetture, 23 immobili, 4 esercizi commerciali, gioielli e quote sociali. Con riferimento a questi beni, va segnalato che il denaro è stato sempre versato nelle casse dello Stato, i beni mobili e le vetture sono stati sempre venduti, mentre in due soli casi i beni immobili sono stati assegnati (entrambi al comune di Orbassano); tutti i rimanenti immobili sono ancora da assegnare. Dai suddetti dati risulta che la quasi totalità dei proposti è costituita da indiziati di appartenere ad associazioni di stampo mafioso e solo una piccola percentuale è composta da persone dedite all’usura. Ciò si spiega non tanto perché l’usura sia poco praticata nel territorio , ma per la difficoltà oggettiva di raccogliere indizi sugli autori di questa grave forma di illecito, tanto diffusa quanto sommersa. A Venezia nel 1999 sono state formulate proposte di misure di prevenzione patrimoniale nei confronti di 24 persone, di cui 3 rigettate e tutte le altre accolte. Nell’anno 2000 sono state formulate proposte nei confronti di 20 persone per 2 sole delle quali vi è stato il rigetto del Tribunale. Molte delle persone interessate erano state, a vario titolo, coinvolte nelle indagini contro la “mala del Brenta”. I beni patrimoniali confiscati sono stati prevalentemente immobili e, in misura minore, autovetture, denaro contante o depositato in istituti di credito. A Genova va registrato che la magistratura non è stata in grado di colpire in modo significativo i beni patrimoniali acquisiti dagli organizzatori di attività criminose, che pure sono state individuate e sanzionate penalmente. In tale contesto, non può stupire infatti che nel settore delle misure di prevenzione patrimoniali l’azione della magistratura sia stata assai limitata e che i risultati siano stati poco soddisfacenti. A Bologna le misure di prevenzione patrimoniali richieste dalla Procura dal 1996 al 2000 sono state complessivamente sette. Si tratta, naturalmente, di un numero estremamente esiguo, dovuto tuttavia alla caratteristica peculiare dei procedimenti di competenza della D.D.A. di Bologna. La maggior parte di tali procedimenti, infatti, è relativa al narcotraffico, che vede in Bologna, grande nodo aeroportuale e stradale, soprattutto un luogo di transito della droga; ne consegue che la gran parte degli indagati risultano residenti in luoghi diversi e non hanno nella città, o comunque nell’ambito del distretto, beni aggredibili. A Firenze, invece, negli ultimi cinque anni non è stata avanzata da parte della Procura alcuna proposta di misura di prevenzione patrimoniale. Le ultime richieste di misure di tale genere risalgono, addirittura, all’anno 1992. Il centro Ben diversa è la situazione a Roma. Nella capitale, infatti, le misure di prevenzione patrimoniali costituiscono uno strumento particolarmente efficace sia per quanto concerne i patrimoni accumulati grazie a traffici di stupefacenti o di attività criminali riconducibili nell’ambito di associazioni di stampo mafioso, sia nell’ambito di quelle forme di illecito, quali l’usura ed il riciclaggio, che sono tipiche della realtà romana. In tale ottica, la D.D.A. ha predisposto un lavoro mirato alla specifica individuazione dei casi di maggior interesse ai fini della predisposizione di richieste per l’applicazione delle misure di prevenzione. Sono state presentate numerose richieste di misure di prevenzione patrimoniale. I procedimenti nei quali, in ogni tempo, è stato disposto il sequestro e/o la confisca sono i seguenti: § 59/90 - Nicitra Salvatore e altri (confisca definitiva per un ammontare di circa £. 8.000.000.000); § 24/92 - De Tommasi ed altri (confisca definitiva di società ed immobili); § 24/92 - Roberti Roberto (confisca definitiva per un ammontare di circa £. 170.000.000); § 87/93 - Rocchetti Giuliano (confisca definitiva per un ammontare di circa £. 2.600.000.000); § 32/94 - De Benedittis Aldo ed altri (confisca definitiva per un ammontare di circa £. 32.000.000.000); § 58/94 e 36/98 - Nicoletti Enrico (conf isca definitiva per un ammontare di circa £. 64.000.000.000); § 18/95 - Vitale Manlio (misura applicata in primo grado per circa £. 20.000.000.000, respinta dalla Corte d’ Appello nel giudizio di rinvio); § 79/98 - Ciarlante Matilde ed altri (confisca di socie tà, quote societarie per immobili, conti correnti, azioni, depositi amministrati); § 59/99 - Nicoletti Antonio e Massimo (confisca definitiva di conti correnti, titoli, società, immobili per Nicoletti Massimo; mentre, per Nicoletti Antonio, la Corte d’appello ha annullato la confisca di primo grado e pende ricorso per Cassazione). I destinatari delle misure (circa 25 persone) risultano in genere appartenere alla criminalità romana, facendo parte o essendo comunque collegati alla cd. “banda della Magliana”. E’ inoltre divenuta definitiva, a seguito di pronuncia della Cassazione, l’applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale nei confronti di Enrico Nicoletti - personaggio di spicco della “banda della Magliana” e punto di riferimento centrale dell’attività di riciclaggio in Roma - che ha comportato la confisca di beni per un valore complessivo di circa 200 miliardi di (vecchie) lire. Sul piano organizzativo, mentre fino al 1995 la trattazione delle misure di prevenzione era assegnata ad una sola sezione penale, allo scopo di garantire, per quanto possibile, una certa uniformità di indirizzo (ma già dal 1993 era stata creata un'unica cancelleria, esclusivamente addetta alle misure di prevenzione, in modo da concentrare tutte le attività di supporto in un solo organismo funzionale), dal gennaio 1996, essendo notevolmente aumentato il numero delle procedure, l’assegnazione è stata fatta ad una coppia di sezioni per ogni biennio, rimanendo tuttavia unica la cancelleria. Agli inizi del 1999 è stata predisposta una variazione tabellare che prevedeva la concentrazione delle procedure in una sola sezione (risultando tale assegnazione compatibile con le attribuzioni proprie di essa che, svolgendo le funzioni di tribunale del riesame, non era impegnata in dibattimenti), al fine di consentire l’impiego di professionalità specializzate e l’uniformità di indirizzo, in relazione al numero costantemente in aumento delle proposte. La carenza di organico dei magistrati ha, però, impedito la realizzazione di tale progetto ed è stato necessario tornare al sistema di turnazione biennale per coppie di sezioni. Nonostante detti rilievi, comunque, l’andamento statistico delle misure di prevenzione può considerarsi soddisfacente per numero di richieste e di provvedimenti, tipologia delle fattispecie e consistenza patrimoniale dei beni interessati, specie in rapporto al fatto che il circondario di Roma non può considerarsi “un territorio di criminalità organizzata”. In particolare, nel periodo dal 1996 al febbraio 2001, vi sono state complessive 37 richieste di misure di prevenzione patrimoniale e ne sono state accolte 18 e respinte 5, mentre le rimanenti sono tuttora pendenti dopo l’emissione del provvedimento di sequestro. La linea di tendenza delle richieste è crescente ed altrettanto quella dei provvedimenti di accoglimento. Nel periodo considerato sono stati gestiti e amministrati beni e patrimoni per centinaia di miliardi, e sono stati definiti procedimenti relativi a notevoli consistenze e a “personaggi eccellenti”, come Aldo De Benedettis, Enrico Nicoletti e Manlio Vitale (nel 1996), Marcello Speranza, Angelo Coarelli e Matilde Ciarlante (nel 1998), Andrea Belardinucci, Mauro Di Giandomenico, Antonio Nicoletti, Alessandro Battistini, Luigi De Giorni, Angelo Angeletti, Ciro Maresca, Voiko Misanovic, Fausto Pellegrinetti, Franco Gambacurta (nel 2000), Daniela Scalambra e Primo Ferrareso (nel 2001). Il sud • • • Ancora più “incandescente” è la situazione meridionale. A Napoli, in particolare, il Tribunale cittadino è l’uffic io giudiziario che ha il carico maggiore di misure di prevenzione. Al marzo del 2001, infatti, risultavano pendenti circa 1700 procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione (tra personali e patrimoniali). Con particolare riferimento alle misure di prevenzione patrimoniale, i dati statistici di cui il C.S.M. è in possesso sono i seguenti: nell’anno 1998 le procedure pendenti al 1° gennaio erano 205; nell’anno in questione sono pervenute 96 nuove procedure; i provvedimenti di sequestro sono stati 68, quelli di confisca 58; nell’anno 1999 le procedure pendenti al 1° gennaio erano 243; nell’anno in esame sono pervenute 109 nuove procedure; i provvedimenti di sequestro sono stati 63 e quelli di confisca 58; nell’anno 2000 le procedure pendenti al 1° gennaio erano 294; nell’anno citato sono pervenute 13 nuove procedure; i provvedimenti di sequestro sono stati 24 e quelli di confisca 38. I beni sequestrati e/o confiscati nell’arco del suddetto triennio ammontano ad un valore complessivo di oltre 42 milia rdi di lire. A Salerno le misure patrimoniali adottate nel distretto riguardano il sequestro preventivo di società, aziende, patrimoni immobiliari e conti correnti bancari. Le proposte di misure di prevenzione patrimoniale avanzate nel periodo 10 luglio 1998 - 31 dicembre 2000 sono state 15, di cui 10 accolte. Sono stati acquisiti immobili, società, aziende per centinaia di miliardi. I destinatari delle misure sono stati affiliati a clan camorristici ed in particolare imprenditori collegati agli stessi. Mai, però, risulta essere stata attivata alcuna indagine su segnalazione dell’Ufficio italiano cambi. Il Tribunale di Salerno nel periodo dal 1997 al marzo 2001 ha emesso, in tema di misure di prevenzione patrimoniale, 15 decreti di confisca e 6 provvedimenti di sequestro. A Bari, invece, nel quinquennio 1996-2000 la Procura è riuscita ad ottenere 66 provvedimenti di confisca di beni dal Tribunale in relazione a procedure di prevenzione patrimoniale. Il Tribunale, dal canto suo, negli ultimi anni ha adottato i seguenti provvedimenti in materia di misure di prevenzione patrimoniali: 1996: 23 sequestri e 11 confische; 1997: 21 sequestri e 6 confische; 1998: 12 sequestri e 11 confische; 1999: 25 sequestri e 16 confische; 2000: 69 sequestri e 22 confische. A Reggio Calabria , per quanto concerne le misure di prevenzione patrimoniali degli ultimi anni, relativamente al numero di persone nei cui confronti, per ogni anno, è stato proposto dalla Procura il sequestro di beni, sono emersi i seguenti dati: 1996: 37; 1997: 91; 1998: 20; 1999: 21; 2000: 21. Con riferimento, invece, ai procedimenti: nel 1998 essi sono stati 67 nei confronti di 277 proposti; nel 1999 vi sono stati 34 procedimenti nei confronti di 418 proposti; nel 2000 vi sono stati 46 procedimenti nei confronti di 202 proposti. Pur tra le molte difficoltà il Tribunale di Reggio Calabria si è mosso nell’ottica di rendere, nell’ambito del possibile, più efficienti, trasparenti ed efficaci le procedure di prevenzione patrimoniali. In detto Tribunale, infatti, la dirigenza ha istituito dei registri con l’elenco dei professionisti disposti a collaborare nella gestione dei patrimoni mafiosi; ha avviato una proficua collaborazione con circa 150 professionisti (avvocati, commercialisti, ragionie ri, agronomi, ingegneri, geometri), attuando una corretta ed oculata rotazione nel conferimento degli incarichi; si è prodigata nell’amministrazione delle aziende, cercando di evitarne l’automatica chiusura in conseguenza dei provvedimenti di prevenzione adottati; ha dettato regole trasparenti in tema di compensi agli amministratori giudiziari; ha affrontato il delicato tema dei rapporti tra amministrazioni di prevenzione e fisco, attraverso incontri e dibattiti con gli esponenti dell’amministrazione finanziaria, all’esito dei quali quest’ultima ha convenuto sul fatto che l’amministrazione giudiziaria è soggetto passivo di imposta e che pertanto compete all’amministratore l’obbligo della redazione e presentazione della dichiarazione dei redditi ed il pagamento delle imposte; ha affermato il principio secondo cui, nel caso di contestuale presenza di una amministrazione di prevenzione e di una curatela fallimentare, quest’ultima deve cedere alla prima in vista degli interessi primari che essa tende a tutelare, principio questo che ha poi trovato conferma in pronunce della Cassazione; ha avviato la prassi dello sgombero manu militari di immobili occupati sine titulo da sedicenti comodatari, poco disposti a rispettare le statuizioni dei giudici di prevenzione; ha preso posizione decisa ed intransigente nella valutazione di scritture private e di contratti preliminari, prodotti da terzi interessati a dimostrare situazioni proprietarie incompatibili con la confisca, così sventando manovre dirette ad eludere la legislazione antimafia; ha costantemente offerto collaborazione ad altre istituzioni dello Stato ed in particolare a quelle interessate ai temi della prevenzione antimafia; ha costantemente offerto collaborazione agli uffici di Procura, segnalando qualsiasi circostanza sospetta, meritevole di approfondimenti investigativi. A Catanzaro negli ultimi anni la Procura della Repubblica ha proposto al Tribunale le misure di prevenzione patrimoniale (nella misura di 3 nel 1999, di 6 nel 2000 e di 2 nel 2001) riguardanti esponenti della criminalità organizzata, le quali hanno comportato il sequestro e la confisca di immobili, autovetture, in un caso di una quota societaria e titoli. A Palermo, in maniera ben più rilevante, dal 1996 al 2000 sono state formulate complessivamente 204 proposte di misure di prevenzione a carattere patrimoniale, di cui 124 da parte della Procura della Repubblica. Risulta peraltro una attività crescente nella seconda parte del periodo in esame, tanto che - nel solo primo bimestre del 2001 - sono state formulate dalla Procura di Palermo altre 8 proposte a carattere patrimoniale. Le indagini patrimoniali, tuttavia, risultano sempre più complesse e richiedono un numero consistente di operatori particolarmente specializzati, dal momento che i componenti delle organizzazioni mafiose - in seguito ai numerosi sequestri e confische patrimoniali - sono corsi ai ripari ricorrendo ad una serie di accorgimenti che complicano notevolmente l’attività investigativa. In primo luogo hanno ampiamente diversificato le modalità di investimento delle ricchezze illecitamente accumulate, riducendo notevolmente l’acquisizione di beni immobili e privilegiando altre forme di investimento difficilmente individuabili; in secondo luogo fanno ricorso a prestanome estranei alla cerchia familiare (per i quali non valgono le presunzioni stabilite dagli artt. 2 bis e seguenti della legge 575/1965); in terzo luogo curano di mascherare e/o giustificare i movimenti di denaro con tutti i più sottili accorgimenti che possono essere suggeriti da esperti delle tecniche commerciali, tributarie, finanziarie e così via; in quarto luogo si profila una tendenza, dimostrata anche da elementi acquisiti in sede processuale, ad intensificare gli investimenti all’estero. A fronte di tale situazione vi è la difficoltà, sia per gli uffici giudiziari che per quelli di polizia giudiziaria, di destinare a questo settore risorse adeguate alle esigenze, cui si aggiunge il sostanziale non funzionamento di segnalazione delle cd. “operazioni sospette” da parte dell’UIC e la lentezza esasperante con la quale dalle banche si ottengono le informazioni richieste sui conti correnti ed i relativi movimenti. Il Tribunale di Palermo, invece, nel periodo 1995-2000 ha emesso i seguenti provvedimenti di sequestro e confisca, nell’ambito delle misure di prevenzione patrimoniale: nel 1995, sequestri 63 e confische 38; nel 1996, sequestri 24 e confische 25; nel 1997, sequestri 25 e confische 25; nel 1998, sequestri 40 e confische 10; nel 1999, sequestri 44 e confische 9; nel 2000, sequestri 43 e confische 13. Nel periodo 1993-2000 il valore approssimativo dei beni sequestrati ammonta a circa 10.000 miliardi di lire, dato questo oltremodo significativo per comprendere l’entità del fenomeno, tenuto conto che circa il 50% dei destinatari delle misure svolge attività imprenditoriali. Sul piano qualitativo le misura patrimoniali hanno riguardato, in percentuale rilevante, imprese individuali e quote societarie attraverso le quali il mafioso realizza la penetrazione nel mondo economico. Destinatari delle misure sono stati innanzitutto soggetti indiziati di appartenenza all’associazione (“organici” a Cosa Nostra), ma progressivamente anche soggetti collocabili in un area contigua all’organizzazione criminale, con funzione di riciclaggio prevalentemente nel campo dell’edilizia. Sono stati così individuati e raggiunti dal sequestro i prestanome del mafioso, via via sempre meno collegati allo stesso da rapporti di parentela o affinità, parallelamente all’azione dell’organizzazione tendente a sottrarre i beni al rischio di confisca. Anche a Caltanissetta si è operato in qualche modo sul piano del contrasto. Nel periodo dal gennaio 1986 al marzo 2001 la Procura ha, infatti, richiesto 52 misure di prevenzione patrimoniali, che hanno comportato il sequestro e la confisca, tra l’altro, di immobili e aziende. Nel giugno-luglio 1995 l’ufficio chiese ed ottenne, nell’ambito del dibattimento per la strage di Capaci della locale Corte di Assise, il sequestro di beni, per il valore di svariati miliardi, dei 41 imputati, fra cui Riina, Santapaola, Provenzano, Brusca e Madonia. Peraltro, il numero non particolarmente elevato delle richieste di misure di prevenzione patrimoniale è dovuto ad una precisa scelta strategica della Procura, che preferisce privilegiare l’istituto del sequestro preventivo (con il conseguente provvedimento di confisca all’esito del dibattimento), ritenuto uno strumento più agile e pratico rispetto al procedimento di prevenzione. Il Tribunale di Caltanissetta nel quinquennio 1996/2000 ha trattato 21 misure di prevenzione patrimoniali, definendone 15 (13 delle quali rigettate e 2 parzialmente accolte). Il dato oltremodo modesto si spiega, appunto, con la scelta della Procura di utilizzare, nell’azione di contrasto all’accumulazione di patrimoni di provenienza illecita, uno strumento giuridico diverso dal procedimento di prevenzione. I provvedimenti di confisca, comunque, sono stati emessi nei confronti di esponenti di spicco della criminalità organizzata, quali Giuseppe Madonia, Cataldo Terminio e Rosario Trubia ed hanno avuto ad oggetto beni nel complesso di scarso valore e consistenza economica (immobili di ridotte dimensioni ed appezzamenti di terreno non edificabile). A Catania i dati statistici concernenti le richieste di misure di prevenzione patrimoniali degli ultimi anni sono i seguenti: nel 1996, proposte 25, sequestri 27 e confische 3; nel 1997, proposte 37, sequestri 25 e confische 19; nel 1998, proposte 23, sequestri 14 e confische 15; nel 1999, proposte 23, sequestri 7 e confische 9; nel 2000, proposte 20, sequestri 12 e confische 4. I dati statistici sopra esposti evidenziano una diminuzione delle confische e dei sequestri, il che è conseguenza da un lato del fatto che i principali capi delle famiglie mafiose sono ormai condannati e reclusi ed i soggetti ancora in libertà sono di modesta caratura criminale, appartenendo più che altro all’ala militare dell’organizzazione (perciò essi ricoprono un ruolo che non ha consentito loro di accumulare consistenti arricchimenti); dall’altro va registrato che la diffusa applicazione delle misure di prevenzione nel recente passato ha reso maggiormente accorti i possibili destinatari delle stesse, più sofisticati i sistemi di dissimulazione della ricchezza e, conseguentemente, sempre più difficili e macchinose le indagini, che non sempre approdano a risultati positivi. La maggiore parte delle richieste avanzate riguarda patrimoni di non rilevante valore, in quanto la valutazione degli stessi solo eccezionalmente supera il miliardo di lire. In genere i patrimoni sono costituiti da beni immobili o depositi bancari in contanti o titoli; raramente da aziende, che operano soprattutto nel campo dei servizi o nel settore edile. La stragrande maggioranza delle misure patrimoniali è richiesta sulla base del sospetto di appartenenza del proposto a consorterie di tipo mafioso o di fiancheggiamento delle stesse. Tra i soggetti attualmente proposti per l’applicazione di misure patrimoniali non figurano nomi di spicco di appartenenti ad associazioni mafiose; mentre negli anni trascorsi sono diventate definitive delle confische a carico di proposti che avevano un certo rilievo in tali organizzazioni. Così, nel 1998 sono divenute definitive le pronunce di confische dei beni a carico di Mangion Francesco, D’Agata Marcello, Rannesi Girolamo e Campanella Calogero (noti esponenti di spicco del clan Santapaola) e, nel 1999, quella a carico di Ferrera Francesco (dei cd. Cavadduzzi). A Messina, dal gennaio 1996 al dicembre 2000, sono state formulate 56 richieste di misure di prevenzione patrimoniali. Nello stesso periodo il Tribunale ne ha adottate 20. E’ da evidenziare che fino al 1998 le misure richieste erano state soltanto 2. Nell’arco dell’ultimo quinquennio risultano essere stati adottati dal Tribunale di Messina 2 provvedimenti di confisca: uno nei confronti di Settineri Vincenza e l’altro nei confronti di Sollima Letterio. Le procedure in esame hanno riguardato prevalentemente beni immobili ma anche autovetture, beni aziendali, depositi bancari. Non vi sono stati terzi intervenienti diversi dai familiari dei proposti. I provvedimenti di confisca fin qui emessi risultano fondati sulla accertata sperequazione tra le fonti reddituali lecite accertate e la capacità patrimoniale e finanziaria dimostrata dai proposti. 7. Gli snodi “critici” nel sistema di misure di prevenzione patrimoniali Dal complesso delle audizioni operate dalla Xª Commissione è inequivocabilmente emerso che il sistema delle misure di prevenzione di carattere patrimoniale appare carente e lacunoso. Ma se ciò è vero, immediato deve essere da parte del Consiglio il tentativo di affrontare le ricadute di una tale presa d’atto, nel senso di proporre - in un quadro di leale cooperazione istituzionale - un intervento del legislatore finalizzato a sanare le anomalie e le omissioni normative riscontrate, pur avendo ben presenti le giuste esigenze di una riforma che tenga conto dei profili, disgiunti e nel contempo collegati, dell’organicità, della costituzionalità e dell’efficienza. Volendo accennare, quindi, agli spazi di possibile intervento legislativo sulla base delle segnalazioni ricevute (pur senza pretesa alcuna di esaustività), va innanzitutto ricordato che al momento attuale, nella trattazione dei procedimenti di prevenzione patrimoniale, vi è la difficoltà di verificare l’esistenza all’estero di elementi utili per ricostruire gli episodi di riciclaggio o l’esistenza dei redditi allegati dai proposti per giustificare l’alto tenore di vita risultante dagli atti. Difficoltà, questa, conseguente alla pratica impossibilità di collaborazione con le polizie degli stati esteri. Al riguardo, la recente istituzione di un organismo di polizia europeo - EUROPOL - porta a sperare che la professionalità da esso posseduta venga ben messa a disposizione degli uffici inquirenti e giudicanti che si occupano delle misure di prevenzione patrimoniali. Altro inconveniente, più volte verificatosi, è costituito dalla materiale impossibilità di acquisire notizie certe sulle dichiarazioni dei redditi presentate dai proposti o dai loro congiunti o conviventi negli anni immediatamente precedenti alla proposta. Le ricerche che si sono tentate, infatti, specie nella fase prodromica all'adozione dei provvedimenti di sequestro, non hanno dato alcun esito per il grande ritardo con il quale gli uffici finanziari esaminano le dichiarazioni dei redditi e provvedono a “caricare” informaticamente i relativi dati. Sul piano dell’efficacia delle misure di prevenzione patrimoniali, inoltre, va segnalato che, mentre le somme di denaro, i beni mobili ed i mobili registrati vengono di fatto sottratti alla disponibilità del proposto sin dall’inizio della procedura con il provvedimento di sequestro, non altrettanto può dirsi per i beni immobili, atteso il notevole ritardo con cui vengono eseguiti i provvedimenti di confisca. Fino al passaggio in giudicato del provvedimento di confisca, infatti, l’immobile, pur essendo sottoposto a sequestro, non può essere ceduto a terzi e pertanto resta nella disponibilità dell'occupante, che, solitamente, è il proposto. E tale disponibilità si protrae per un tempo assolutamente lungo dal momento che, tra il passaggio in giudicato del provvedimento di confisca e la concreta acquisizione dell’immobile allo Stato, trascorrono almeno quattro o cinque anni, che diventano addirittura sette od otto dalla data del sequestro. Le ragioni di una così lunga attesa - che finisce col pregiudicare l’efficacia in concreto della misura stessa - vanno ricercate nel farraginoso procedimento dettato dall’art. 2 decies L. 575/65, che richiede, per la destinazione dell’immobile, un provvedimento del direttore centrale dell’Ufficio del Demanio del Ministero delle Finanze, su proposta del competente ufficio territoriale, sulla base di una stima dell’UTE, una volta acquisiti i pareri del Prefetto e del Sindaco del luogo dove si trova l’immobile ed ascoltato l’amministratore dei beni. Si tratta, come è evidente, di una procedura amministrativa che, coinvolgendo ben sei organi ed uffici diversi, va a detrimento della rapidità e dell’efficacia, finendo con il beneficiare ingiustamente il destinatario del provvedimento di confisca. Per evitare ciò sarebbe auspicabile che fosse introdotto un meccanismo che permettesse di procedere immediatamente allo sgombero di chi occupa l’immobile (cosa che, sinora, pur in presenza di un titolo esecutivo, non è avvenuta, in assenza di indicazioni - a livello legislativo o quantomeno amministrativo - su chi sia legittimato ad intervenire). Inoltre, tali tempi lunghi determinano l’ulteriore inconveniente rappresentato dal fatto che il soggetto che detiene illegittimamente l’immobile solitamente non provvede alla manutenzione dello stesso né al pagamento delle spese condominiali e di altre simili, con il conseguente instaurarsi di contenziosi che si traducono in danni certi per l’Erario. A ciò si aggiunga che l’intero iter procedimentale risulta, talvolta, appesantito e protratto a causa di intralci documentali (ad es., il reperimento delle certificazioni catastali o di altra natura, concernenti la consistenza e lo stato di beni e compendi) o a causa dei non sempre facili rapporti con le altre amministrazioni, che considerano di fatto il Tribunale come un qualsiasi soggetto privato. Del pari, deleteria appare l’eccessiva durata che intercorre tra il provvedimento di confisca rispetto all’obiettivo finale dell’impiego (che si dispiega nelle varie fasi della presa in carico da parte dell’amministrazione finanziaria, della valutazione dei beni ai fini dell’impiego, dell’individuazione di criteri e metodologie nella scelta dell’impiego di quanto confiscato, dell’attività di supporto per la realizzazione dell’impiego scelto, dell’intrattenimento dei rapporti con le varie amministrazioni a diverso titolo interessate). Il più rilevante problema di ordine processuale nasce dall’assenza di una disciplina legislativa che regoli i rapporti tra il sequestro-confisca di prevenzione ed i procedimenti civili, con particolare riguardo al fallimento ed alla esecuzione civile. Detto problema si evidenzia ogni qualvolta oggetto del procedimento di prevenzione e di quello civile siano i medesimi beni. I terzi creditori del soggetto sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale trovano tutela, infatti, sia nel procedimento di prevenzione sia nei procedimenti civili, ma in forme diverse e con diversi presupposti. Il terzo possessore del bene, ovvero il titolare di diritti reali, può ottenere tutela partecipando al procedimento di prevenzione, nei modi previsti dall’art. 2 ter comma 6, della L. n° 575/1965, attraverso il quale riavrà il bene sequestrato a condizione che dimostri sia la terzietà rispetto al proposto (non potendo trovare tutela ovviamente chi risulti essere prestanome dello stesso) sia la buona fede (non riconoscendosi tutela a chi, ad esempio, sia divenuto creditore del proposto per averne consapevolmente finanziato l’attività criminale ovvero abbia acquistato il bene per sottrarlo alla misura di prevenzione). Nessuna tutela viene, invece, riconosciuta ai terzi creditori i cui crediti non siano sorretti da diritti reali in quanto, nei confronti di tali soggetti, sono possibili soluzioni assai diverse tra loro, che vanno dal disconoscimento del credito al pieno riconoscimento dello stesso. Ben diversa è invece, come è noto, la disciplina civilistica della tutela del creditore quando il credito sia documentato o sorretto da diritti reali di garanzia, senza che si debba o si possa effettuare alcun accertamento sui rapporti esistiti o esistenti tra il creditore ed il soggetto a carico del quale penda un procedimento di prevenzione patrimoniale. In mancanza di una espressa previsione legislativa, può verificarsi - e si verifica - che i terzi creditori, muniti di diritti reali di garanzia come l’ipoteca, non trovando tutela nel procedimento di prevenzione, in quanto ritenuti prestanome dell’indagato ovvero terzi in malafede, possono cercare di ottenere ugualmente il bene procedendo ad esecuzione immobiliare e determinando un conflitto tra i due procedimenti. Sorgono, inoltre, problemi in tema di gestione dei beni sottoposti a sequestro o confisca e procedura di esecuzione, atteso che le scelte operative dell’amministratore giudiziario e del giudice delegato (come la locazione dell’immobile oggetto di esecuzione) devono essere gestite secondo modalità tali che garantiscano di mantenere e accrescere la redditività dei beni stessi. • • • • • • • • • • Ne consegue che l’amministratore giudiziario si può trovare, da un lato, nella necessità di locare un immobile al fine di acquisire liquidità e di aumentarne il valore quando si tratti di bene strumentale per l’esercizio dell’impresa (albergo, negozio, fabbrica o altro), anche per adeguarsi alle direttive del giudice delegato; mentre, dall’altro, il giudice dell’esecuzione può inibire tali attività negoziali e gestionali nell’interesse dei creditori procedenti. Un altro problema nasce dal rapporto con le procedure concorsuali. Le misure di prevenzione patrimoniale più rilevanti hanno come oggetto prevalente quote di società, a loro volta proprietarie di beni immobili, e tale situazione rende particolarmente delicato il rapporto con le procedure concorsuali quando la società di cui siano sequestrate le quote venga dichiarata fallita. In caso di fallimento di società, le cui quote siano sequestrate o confiscate, emergono spesso contrasti tra il giudice delegato al fallimento ed il giudice delegato al procedimento di prevenzione. I più frequenti dubbi riguardano i seguenti punti: quale delle due procedure abbia diritto di disporre dei beni; chi debba procedere all’eventuale vendita dei beni; quale destinazione si debba dare al ricavato di tali vendite. E’ dunque auspicabile, come si anticipava, una normativa che regoli, in modo chiaro e sistematico, tali rapporti, tenendo conto dei diversi interessi che sono tutelati dalle due procedure. Va, comunque, rimarcato che, ad es., in assenza di dette norme, il Tribunale di Roma, dopo un periodo di oscillazione dovuto anche a contrastanti pronunce da parte della Cassazione, ha elaborato un orientamento giurisprudenziale - che ha trovato conforto in pronunce confermative in grado di appello - in base al quale, vigendo il provvedimento di sequestro delle quote o azioni della società sottoposta a procedura fallimentare, l’attivo acquisito al termine della procedura stessa dovrà essere necessariamente assegnato allo Stato quando il provvedimento di confisca diventi definitivo, previa soddisfazione dei crediti di coloro che, insinuatisi nella procedura fallimentare, siano in buona fede e titolari di diritti reali di garanzia, riconosciuti come tali nel procedimento di prevenzione in cui siano stati chiamati a svolgere le loro ragioni. Parimenti, altre lacune normative riguardano l’esecuzione dei provvedimenti di sequestro e confisca su beni esistenti in Stati esteri, attesa la difficoltà di conciliare la legislazione italiana con quella degli Stati in cui i suddetti beni si trovano, oltre che l’impossibilità concreta di fare eseguire i provvedimenti di sequestro dagli ufficiali giudiziari, a causa della difficoltà, legata ai tempi ed alla circoscritta competenza territoriale dei medesimi, di dare tempestiva esecuzione agli stessi; con la conseguente necessità di delegare l’organo proponente (vale a dire la D.D.A. o la Questura). Può, inoltre, registrarsi che i tempi di durata che caratterizzano i procedimenti di prevenzione patrimoniale sono estremamente lunghi, aggirandosi mediamente, nei tre gradi di giudizio, attorno a non meno di cinque anni. A questo periodo deve essere aggiunto quello necessario affinché venga data concreta esecuzione ai provvedimenti di confisca, all’esito di una procedura, a sua volta, lunga, farraginosa e defatigante, affidata ad organismi burocratici che normalmente non brillano per efficienza e tempestività. La causa della durata così prolungata dei procedimenti - a dire degli auditi - risiede nel fatto che le proposte, nella quasi totalità dei casi, sono carenti in ordine alla prova della provenienza illecita del bene; ciò comporta per il Tribunale la necessità di procedere ad accertamenti ed indagini, che molto spesso si rivelano lunghe e complesse, comportando a volte l’effettuazione di vere e proprie analisi aziendali. In definitiva, dunque, a guisa di rapida ricapitolazione, occorre prendere atto che la lacunosità della normativa del settore si materializza nel fatto che: essa non prevede alcuno strumento di coordinamento tra gli organi legittimati a compiere indagini patrimoniali; non regola, se non attraverso formule generiche, l’attività di gestione dei beni sequestrati e confiscati; non regola in alcun modo l’amministrazione dei beni costituiti in azienda; non disciplina l’eventuale prosecuzione delle attività delle stesse; nulla dice circa il grado di tutela da riconoscere ai terzi in buona fede, che vantino diritti creditori o di garanzia nei confronti dei soggetti proposti; nulla dice circa i rapporti della procedura di prevenzione con altre procedure di natura concorsuale; nulla dice circa i rapporti tra le amministrazioni giudiziarie ed il fisco. Urge, dunque, un largo intervento legislativo, possibilmente nelle forme ordinate e compatte del testo unico, che risponda concretamente all’esigenza di porre rimedio alle rappresentate carenze, discrasie, lacune ed omissioni. A tutte le prospettate problematiche deve essere, infine, aggiunta l’inconsistenza degli organici giudiziari ed amministrativi delle sezioni di prevenzione, che impedisce di celebrare udienze settimanali in numero congruo e proporzionato al carico di lavoro. Per lo più, le decisioni sulle misure di prevenzione sono, infatti, affidate ai magistrati che curano il dibattimento (generalmente a tutti i magistrati del tribunale in maniera circolare) con la conseguenza che questi ultimi, da un lato, finiscono col considerare residuale tale importantissima attività rispetto alla mole dei processi da celebrare, dall’altro, rischiano di non avere modo di approfondire la normativa sostanziale e processuale di settore sì da decidere senza aver raggiunto un apprezzabile grado di preparazione e professionalità sulle problematic he specifiche, la cui conoscenza profonda potrebbe portare a volte a ben diverse determinazioni. Alla luce di tale dato, appare allora auspicabile, perlomeno nei grandi centri, che tabellarmente si formino delle sezioni che curino detta materia in modo esclusivo (così come si è stabilito, fortunatamente per tempo, da almeno un quinquennio, per la funzione del riesame), magari unitamente alla materia dell’esecuzione penale, sì da favorire una specializzazione, la quale è presupposto imprescindibile per la creazione di un giudice “forte”, vale a dire proprio quel tipo di giudice cui lo Stato – in siffatto ramo della giurisdizione – non può permettersi il lusso di rinunciare. Spetterà dunque, al Ministero della Giustizia disporre un congruo aumento degli organici, che metta in condizione di realizzare gli obiettivi di fondo del sistema in questione, senza contare che sarà rimesso alla sensibilità dei dirigenti di distribuire in modo razionale ed efficace le risorse umane. 8. Conclusioni Tentando una sintetica analisi dell’ampio materiale raccolto, può dirsi che gli effetti negativi che scaturiscono dall’esistenza di economie illegali sul “fattore imprenditorialità” possono così riassumersi: gli imprenditori siano essi vittime delle organizzazioni criminali oppure siano collusi con queste organizzazioni (diverso è il caso se sono partecipi di organizzazioni criminali) subiscono sempre una distorsione nel processo di investimento. Questo è intuitivo nel caso dell’imprenditore-vittima di un’organizzazione criminale; ma anche nel caso dell’imprenditore-colluso si ha comunque un effetto depressivo sugli investimenti, perché egli sopporta dei costi impropri di produzione per avere protezione dalla violenza. Inoltre, le caratteristiche imprenditoriali di chi agisce in questo “mercato mafioso” hanno come costante presupposto il superamento violento delle regole. Si usa, in pratica, la violenza per condizionare normali rapporti economici e la corruzione per orientare quelli istituzionali e politici. Tutto ciò disarticola l’economia legale e le istituzioni, in quanto vengono meno le condizioni di base per l’emergere ed il consolidarsi di un’economia sana. Dunque, il problema fondamentale che si pone a chi voglia favorire lo sviluppo di imprese, in una situazione come quella meridionale, consiste proprio nell’abbattere queste barriere iniziali ed improprie. L’esistenza di meccanismi regolatori di tipo mafioso, come la delimitazione di territori, l’imposizione di clientele o di turni nell’aggiudicazione di appalti pubblici, si riflette in definitiva sui consumatori e sulla collettività, in quanto i primi finiscono per acquistare prodotti di più bassa qualità ad un prezzo maggiorato e la collettività finisce con il pagare a costi più alti le opere pubbliche finanziate dallo Stato. Un ulteriore danno subiscono, infine, gli imprenditori concorrenti, poiché il “cartello” creato dalle imprese mafiose (in senso ampio) è un ostacolo formidabile per gli esterni che volessero entrare in quel determinato settore economico-imprenditoriale. I meccanismi regolatori del libero mercato, pertanto, finiscono con l’essere irrimediabilmente turbati ed alterati. *** • • • • • • • • • All’esito di quanto premesso ed osservato, dunque, il Consiglio delibera l’approvazione di questa risoluzione e la sua trasmissione, per conoscenza: al Ministro della Giustizia; al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia; al Procuratore Nazionale Antimafia; al Governatore della Banca d’Italia, anche in qualità di Presidente dell’Ufficio Italiano Cambi; ai Capi degli Uffici Giudiziari, con richiesta di diffusione a tutti i magistrati in essi operanti; alla Terza Commissione affinché prenda in esame qualunque possibile iniziativa, compresa quella di disporre l’urgente pubblicazione di posti vacanti presso gli uffici di primo e di secondo grado, al fine di mettere in condizione i magistrati ivi operanti di occuparsi, con la giusta attenzione, delle problematiche legate al contrasto della criminalità economica ed affinché individui, d’intesa con il Ministero della Giustizia, le procedure più opportune per far fronte all’eccessiva lunghezza dei tempi necessari alla effettiva copertura dei posti dopo le necessarie delibere consiliari; alla Settima Commissione affinché, nelle valutazioni di sua competenza in ordine all’adeguatezza degli organi degli uffici giudiziari e delle proposte di tabella agli stessi relativi, tenga conto delle considerazioni innanzi svolte; alla Nona Commissione per la promozione di corsi di aggiornamento professionale, anche a livello decentrato, volti a favorire l’approfondimento delle più attuali tematiche legate alla cd. criminalità economica.