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Dante, Fedele d`Amore
! ! Dante, Fedele d’Amore “Io mi senti’ svegliar dentro a lo core/uno spirito amoroso che dormia:/ E poi vidi venir da lungi Amore/allegro sì, che appena il conoscia/ dicendo: Or pensa pur di farmi onore-. (Vita Nuova XXIV 7) Nei versi di questo sonetto Dante parla del “risveglio” di uno “spirito amoroso” che non ha niente a che vedere con quella naturale inclinazione che ci fa sentire attratti da una persona o da una cosa; l’Amore di cui il Poeta parla è scritto con la lettera maiuscola e, come lui dice, viene “da lungi”. Oggi la parola “amore” è stata banalizzata, depauperata della profondità del suo vero significato, ma nell’antichità non era così. Ovidio nel suo poema “Ars amatoria”, considera l’Amore una scienza che ha strette relazioni con il mondo Divino e ne mette in evidenza tutte le più minuziose attitudini. Nasce così il mito di Cupido, il “dio-fanciullo”, figlio di Venere, dispensatore di grandi gioie e dolori, sempre chiamato in causa da divinità dell’Olimpo che vogliono riportare questo sacro “fuoco” qui sulla terra. Secondo Ovidio, ne “Le Metamorfosi”, le sue frecce vincono e domano perfino gli dei del cielo; nemmeno Giove, somma divinità dell’Olimpo, può sfuggire alla sua freccia dorata dalla “punta aguzza e splendente” che riesce a “trapassare le ossa fino al midollo”. Leggendo i versi di Dante sembra davvero che questo divino-fanciullo, allegro, dinamico e dispensatore di gioie e bellezze, gli abbia trafitto il petto; quasi una salutare medicina che arriva improvvisa predisponendo il cuore a nuove comprensioni. “Con arte è da guidarsi Amore!” afferma Ovidio nella sua “Ars amatoria”; il Sommo Poeta sembra aver ben capito quale benefico effetto gli porterà l’acuminato dardo, e con quale cura lo dovrà trattare. Gli anni che videro i natali di Dante erano quelli di una Firenze medievale organizzata in un intrico di vie strette e di case addossate tra loro, intervallate da botteghe, orti, vigneti e giardini: un insieme forse ancora disordinato, ma racchiuso da solide mura che cingevano la città su quattro fronti. 1 La Firenze di allora non si era ancora imposta per la grandiosità dei monumenti o la raffinatezza dei suoi palazzi, ma si sentiva nell’aria quel desiderio di voler primeggiare in bellezza. Verso la seconda metà del XIII secolo la città diventerà un vero cantiere a cielo aperto: si dà il via alla costruzione del Battistero di San Giovanni, si inizia l’edificazione di Santa Maria del Fiore che sorgerà sulle antiche fondamenta di Santa Reparata, poi lì accanto prenderà vita il Campanile di Giotto. Nel febbraio del 1299 si pone la prima pietra per Palazzo Vecchio e qualche anno prima si era dato inizio ai lavori per la Basilica di Santa Croce e di Santa Maria Novella. Dante Alighieri negli ultimi anni che lo vedono ancora a Firenze, osserva quei cantieri, passeggia tra quelle impalcature e, se da una parte rimane affascinato dalla grandiosità dei monumenti che stavano sorgendo, dall’altra vede in quella impennata architettonica, una “modernità” che non approva. Firenze stava diventando una città dinamica, spinta da un notevole sviluppo economico reso tale dalla venuta del Fiorino, la moneta di 24 carati d’oro, coniata nel novembre 1252, che stava diventando la principale valuta di scambio a livello internazionale. Mentre il teologo domenicano Remigio dei Girolami affermava che il fiorino era uno dei sette doni ricevuti dalla Provvidenza divina, Dante lo chiamava “maledetto fiore”, simbolo tangibile della corruzione della città. Il Sommo Poeta si trovava a dover affrontare il ruolo di personaggio di spicco nella politica interna fiorentina, ed al tempo stesso alimentava nel suo cuore l’idea di un ritorno alla Firenze di cent’anni prima, la cui vita si svolgeva dentro “le mura de la cerchia antica” quando pace e decoro vi regnavano e la giornata lavorativa terminava sul suono delle campane della Badia. 2 Come scrive Marco Santagata, studioso di letteratura italiana, Dante era convinto che Firenze avrebbe ritrovato la salvezza solo nel ritornare ai sani costumi, “all’epoca in cui la cristianità poggiava sull’equilibrio tra ‘due soli’ (papato e impero)” e su un aspetto sociale stabile fondato sulla nobiltà feudale; per Dante, tornare a quel tempo voleva dire ritrovare un mondo antico, “garantito da un disegno istituzionale immutabile” che aveva strette somiglianze con “l’eterna corte celeste del Paradiso”. Giovanni Villani, nella sua “Cronica” parla di una “nobile corte” vestita di bianco che sfila in corteo dietro ad “un signore detto dell’Amore” durante la festa di San Giovanni Battista nella Firenze del giugno 1283. Quella “nobile corte”, così amata da Dante, trovò il suo epicentro nella fratellanza militante dei Fedeli d’Amore, un’associazione segreta di tipo iniziatico alla quale si ritiene che il Poeta sia stato affiliato in quegli anni. I Fedeli d’Amore, nati sulla scia della lirica provenzale trobadorica, ravvisarono nell’Amore quel “fuoco celeste”, che gli ermetisti chiamavano “Fuoco dei Filosofi”, capace di conferire una forza spirituale nuova, Divina, che trascende la condizione umana, apportando Amore ed un nuovo Sapere. Quest’“amore cortese”, sentimento profondo ed al tempo stesso delicato, capace di affinare e nobilitare l’uomo, nacque nelle corti francesi di Aquitania e Provenza tra l’XI ed il XII secolo, al tempo della prima Crociata, e subito si diffuse anche in Italia ed in Germania. Il termine “troubadour” proviene dal provenzale “trobar” che vuol dire “poetare” ed all’inizio furono proprio i poeti provenzali, menestrelli ed itineranti a diffondere liriche che parlavano di Cavalieri valorosi, di “arti poetiche” e di “joc d’amor”. Nascono in quegli anni poemi allegorici pieni di intimi significati la cui matrice è sempre la stessa: la visione tra sogno e realtà di una donna bellissima di cui il cavaliere perdutamente s’innamora e tutte le difficoltà da affrontare e superare per avvicinarla, non saranno altro che “prove” di tipo iniziatico di grande valore. 3 Quando si parla di una Donna “unica” nella sua perfezione e bellezza spirituale, l’analogia con la Vergine e con la Sapienza Santa salta agli occhi evidente: “...io l’amerò per lei, cioè l’onorerò e celebrerò il suo nome e la sua fama, e sarò custode del suo onore” cantava Montaudon, nobile monaco e trovatore - e dietro a queste parole si capiva che la donna, alla quale si rivolgeva, doveva rispecchiare delle caratteristiche celestiali. Tali tematiche, che trovano una loro radice ancora più antica nella poesia musulmana-andalusa, portarono una nuova concezione dell’Amore. Questo sentimento non avveniva all’interno di un vincolo matrimoniale e non era soggetto a passioni smodate e contingenti, ma si caricava di tutta la trepidazione che provoca un desiderio ostacolato. Il personaggio femminile, che diveniva oggetto di ogni attenzione, era di solito una donna di rango elevato per la quale il Cavaliere provava un’adorazione segreta,“intimo vagheggiamento” e dedizione completa. Francesco da Barberino, poeta toscano coetaneo a Dante, viaggiò per corti spagnole e francesi per poi portare “per certi suoi amici gentili uomini di Toscana”, quello stesso pensiero. Nel suo “Documenti d’Amore”, testo non ben tollerato dalla Chiesa di Roma, nascose dietro a versi ed illustrazioni dal carattere fin troppo semplice ed ingenuo, idee che celavano un messaggio ermetico inteso solo da pochi eletti. Quei Documenti divenivano dei veri e propri “Insegnamenti d’Amore”, di solida formazione eticospirituale, adatti al Cavaliere idoneo a riceverli. Quei versi “intesi da alcuni di quelli che sono con noi e non da altri” sembrano degli innocenti giochi di parole ed invece parlano delle dodici virtù da risvegliare in base ad un programma ascetico di spiccata marca ermetico-alchimista. Secondo il Barberino le prime tre virtù subito da realizzare sono Docilità, 4 Industria e Costanza: “docilità” intesa come prima virtù iniziatica, per farsi docili all’azione modellante e santificante della Grazia ; “industria” concepita come dedizione totale ad un lavoro intimo che condurrà alla scoperta di “cose preziose”; infine “costanza” per perseverare fino alla fine al volere Divino. Per Francesco da Barberino è la Chiesa corrotta, che continua a vivere nell’errore, ad aver fatto addormentare le coscienze e la relazione allegorica con la Morte risulta evidente; sotto un linguaggio simbolico, ben occultato, il poeta invita a non volgere più verso di lei il vero amore perché ormai il suo cuore è diventato “pietra tombale”. Ecco che da questo importante documento nascono i primi germi di quella “vita nuova” che i Fedeli d’Amore auspicano per l’uomo che, da giovane neofita o “fanciullo”, crescerà in Amore e Sapienza fino a diventare l’Iniziato capace di intraprendere un cammino spirituale di grande levatura. Se il Barberino attinse queste idee dalle corti d’Amore provenzali vuol dire che anche i trovatori di Francia non erano certo estranei a questo movimento mistico-iniziatico che si avvicinava, per l’alto Ideale cristico e per il particolare culto verso la Vergine, all’Ordine Templare presente sulla scena del mondo in quegli anni. Gli stessi temi a carattere allegorico-iniziatico del Barberino, furono condivisi da Dante Alighieri. Fu Brunetto Latini, suo maestro, profondo conoscitore di “stile” e di Sapere, a trasmettergli le conoscenze dei testi più importanti di letteratura araba e di letteratura francese antica, che lo condurranno a mettersi in contatto con una cerchia di eruditi, filosofi e giuristi che si esprimevano con una poesia dall’espressione “dolce” e pura, ma al tempo stesso sorretta da profondi contenuti a carattere mistico. Il risveglio salutare di quello “spirito amoroso che dormia”, di cui Dante parla nella Vita Nuova, trova dunque riferimento con la sua affiliazione all’associazione segreta dei Fedeli d’Amore che a Firenze iniziò a riunire il fior fiore della cultura italiana dal XIII al XIV secolo. 5 Il loro intento era di esporre i propri pensieri attraverso uno “stile” di scrittura “nuovo”, nobile e raffinato, dando così vita ad una produzione letteraria di carattere qualitativo ed intellettuale elevato, ricca di metafore e di simbolismi: il “dolce stil novo”. L’ancoraggio ad idee precostituite e la presenza del tribunale d’Inquisizione che in Francia ed in Italia stava mietendo le sue prime vittime, avvicinò quella fratellanza di “militanti d’Amore” ad un’associazione “settaria” che tramava nell’ombra contro la gerarchia ecclesiastica di Roma, ma se andiamo ad indagare sul significato etimologico della parola “setta”, capiamo come anche questo termine nel tempo è stato depauperato del suo vero significato. Come scrive Alfonso Ricolfi nel suo “Studio sui Fedeli d’Amore” il termine latino “secta” deriva da “sequor” che vuol dire “seguire”, “andar dietro” “aderire” ad una determinata dottrina, e non da “secare” che porta con sé il significato di drastica divisione e di isolamento. Il concetto dunque che ne deriva è quello di una riunione di persone che, pur facendo parte della medesima comunità religiosa, decidono di riportare in vita, con vero intento riformatore, antiche conoscenze e ritualità mistico-iniziatiche che nei secoli la Chiesa ufficiale aveva perso. I Fedeli d’Amore erano personaggi di spicco della cultura fiorentina che, animati da un nuovo vigore innovativo, portavano nella società due tipi di messaggio: quello essoterico di una poesia d’Amore raffinata e galante che tutti potevano comprendere, e quello esoterico di un messaggio mistico-iniziatico ideato solo per coloro che erano in grado di recepirlo. “O voi ch’avete li ’ntelletti sani,/mirate la dottrina che s’asconde/sotto ’l velame de li versi strani”, dirà Dante nel Canto IX dell’Inferno - e poi ancora: “aguzza qui, lettor, ben li occhi al vero,/che’l velo è ora ben tanto sottile,/certo che ‘l trapassar dentro ‘e leggero”: 6 scriverà Dante nel Canto VIII del Purgatorio, facendo intendere quanto quel linguaggio pieno di intimi significati non fosse adatto a tutti. Dante Alighieri quindi insieme al Barberino, al Cavalcanti, al Guinizzelli, a Cino da Pistoia, a Cecco d’Ascoli e ad altri grandi nomi della cultura di quel tempo, divenne segreto interprete di un Cristianesimo esoterico, ben discosto da quello più popolare, proprio in uno dei momenti storico-religiosi più difficili che avevano visto il papato e l’ impero mettere in atto due terribili stragi: quella degli Albigesi e quella dei Cavalieri Templari. Ecco che in un momento così pericoloso per coloro che dissentivano totalmente da quelle feroci repressioni, nasce questo linguaggio nuovo, nascosto, ben distinto dalla lingua volgare, per diffondere idee politico-religiose di ampio respiro che si fondavano sull’Amore, la fratellanza, e la fede nell’aiuto Divino. L’Amore al quale ci si riferiva era dunque di alta levatura e la Donna, vista nella sua bellezza e perfezione, divenne anche per Dante la custode del Fuoco sacro da difendere e di un Sapere che avrebbe innalzato l’uomo verso grandi mete spirituali. Dante, nella “Vita Nuova”, nomina per ben sette volte i Fedeli d’Amore, ma solo pochi, negli anni, capirono che il vero significato di quella ripetuta citazione non aveva niente a che fare con esperienze galanti condivise da un nutrito numero di amici; stessa cosa anche per la figura di Beatrice, elemento femminile misterioso, che attraversa tutta l’opera per poi trionfare nei canti finali del Paradiso. La “Vita Nuova”, che si compone del succedersi di presagi, sogni e rivelazioni raccolte in prosa e poesia, è interamente pervasa da simboli ed allegorie, tanto da far addirittura pensare che la figura femminile, da lui perdutamente amata, non fosse del tutto reale. Al contrario Beatrice, figlia di Folco Portinari, nasce in una delle famiglie più illustri della città nella seconda metà del Duecento e appare nella vita del Sommo Poeta, quale “angiola giovanissima”, vestita di rosso e talmente bella da suscitare in lui un 7 immediato innamoramento. La trama della “Vita Nuova” si può riassumere in tre momenti fondamentali della vita di Dante: il primo incontro con Beatrice all’età di nove anni, il rivederla nove anni dopo, ed infine il dolore per la sua giovane e prematura morte. Dante, conquistato dalla dolcezza del suo sguardo, l’amò secondo i canoni dell’“amor cortese” come creatura talmente idealizzata da far sì che quella vista suscitasse subito in lui un mistico risveglio. Beatrice diventerà colei che saprà elargire ogni beatitudine e se nella Vita Nuova la sua persona sarà ispiratrice di un intimo lavoro di introspezione e crescita spirituale, nella Divina Commedia apparirà come “maestra di verità”, capace di condurre Dante in Paradiso ed alla contemplazione Divina. Luigi Valli, critico letterario della fine del XIX secolo, vide in quella figura femminile non tanto la “donna” della quale addirittura mise in dubbio l’esistenza, quanto l’ideale perfetto da conseguire, ossia la Sapienza Santa. Quest’affermazione, che non è per niente fuori luogo, non deve però relegare Beatrice solo ad un’immagine simbolica. “Amor mi disse: Quell’è Primavera e quell’ha nome Amor, sì mi somiglia”, scrive Dante nella Vita Nuova, mettendo l’accento sul rinnovamento interiore che stava nascendo nel suo petto. L’ “agente magico” che porta a tale realizzazione è sempre il fuoco d’Amore, e Beatrice - specchio di ogni virtù e di celestiale bellezza - diventa per il Poeta, il tramite tra il Cielo e la Terra, tra il Divino e l’Umano; è lei “la verace luce”, la donna angelica capace di portare il risveglio ad un “nuovo sentire” che trovava le sue origini in una Tradizione ermetico-religiosa molto antica, nei secoli dimenticata, ma non persa. Ogni particolare di quegli incontri ha il suo importante significato simbolico: Dante la incontra a nove anni “vestita di nobile colore 8 umile ed onesto, sanguigno, cinta e ornata come si conveniva alla sua giovane età”; poi nove anni dopo “mirabile donna apparve a me vestita di colore bianchissimo”: due età e due colori non certo casuali. Nemmeno casuale sarà il colore del manto di Beatrice quando Dante la incontrerà di nuovo nel Canto XXX del Purgatorio, per poi guidarlo verso il Paradiso: “sovra candido vel cinta d’oliva donna m’apparve, sotto verde manto vestita di color di fiamma viva”. Non ci dimentichiamo che in epoca medievale il simbolo ed il numero erano definiti “principia individuationis” e che la loro funzione era di voler nascondere, dietro un linguaggio convenzionale non certo dissimile da quello utilizzato dai Cavalieri Templari, delle verità non recepibili dalla massa. Dante rispecchia fedelmente nel suo gergo segreto quel pensiero alchimistatemplare nel quale si fondava la vera rivelazione cristiana, rispecchiando una mentalità ed un programma architettonico-letterario di vaste proporzioni, che trovava i suoi legami con i costruttori delle Cattedrali gotiche e con i ricercatori della Tradizione Ermetica. Quei simboli erano in grado di parlare alle coscienze per operare, su coloro che se ne facevano ricettivi, un importante risveglio qualitativo. Come abbiamo già accennato, per i Fedeli d’Amore è la Sapienza che parla per mezzo di una Donna e tutte le sottigliezze amorose descritte non sono che simbolismi ed allegorie che sottintendono esperienze intime, velate dal preciso linguaggio segreto da loro adottato, per difendere dalla “gente grossa”, una finalità d’intenti che mai più troverà un simile riscontro. Sarà dunque Beatrice ad accendere l’animo del Poeta, guidandolo per un itinerario conoscitivo fatto di ardue prove. Ogni gradino rappresenterà l’espressione nuova di qualità e virtù realizzate: una scala mistico-iniziatica che Dante continuerà gradualmente a salire anche dopo la morte della sua giovane ispiratrice. Così commenta il Ricolfi nel suo “Studi sui Fedeli d’Amore”: “l’amore umano si colora di esaltazione mistica, o appassionata esperienza religiosa che si nasconde sotto il velo d’un umano dramma d’amore”. 9 Dante chiamerà Beatrice “la gloriosa donna de la mente mia” e vedrà in lei non solo l’immagine beatifica di tutte le virtù e quindi della Sapienza Santa, ma anche il simbolo della “purpurea fenice”, che rinasce dalle sue ceneri, per condurlo in alto, in cima all’Empireo, nell’armonia assoluta della Gloria Divina. !!! " ! " ! ! Dante e Beatrice e la “candida rosa” ! Paradiso Canto XXXI! 10