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IL SOGGETTO VUOTO: PSICOSI NON SCATENATE

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IL SOGGETTO VUOTO: PSICOSI NON SCATENATE
IL SOGGETTO VUOTO: PSICOSI NON SCATENATE NELLE NUOVE FORME DEL
SINTOMO *
Di Massimo Recalcati
* Questo testo riprende in forma sintetica e per questo inevitabilmente amputata il mio
insegnamento tenuto nell’ambito della Sezione Clinica di Milano nel corso dell’anno 1998-‘99.
1. Psicosi non scatenate
Il concetto di psicosi non scatenate implica come suo presupposto ovvio la disgiunzione tra la
temporalità della psicosi e quella del suo scatenamento. È, infatti, lo scatenamento che rivela come
tale e senza alcun dubbio diagnostico l’esistenza di una struttura psicotica del soggetto. Ma, come
vedremo, l’insegnamento di Lacan sulle psicosi, sin dal Seminario III, ha mantenuto distinte la
dimensione psicotica del soggetto da quella del suo effettivo scatenamento.
Col concetto di psicosi non scatenate (o psicosi “fuori scatenamento”, “non-conclamate”,
“compensate”, “chiuse”, “bianche”, “fredde”, “non deliranti”) s’intende, dunque, definire un
funzionamento psicotico del soggetto senza che però sia rintracciabile un effettivo momento di
scatenamento della psicosi. Se, infatti, lo scatenamento è il prodotto di una congiuntura determinata
che produce l’effetto di aprire – di scatenare appunto – la psicosi, la categoria di “psicosi non
scatenate” prescinde dallo scatenamento e dagli effetti clinicamente tipici che esso innesca
(allucinazioni e deliri). In particolare la clinica delle cosiddette nuove forme del sintomo
(tossicodipendenza, anoressia-bulimia, depressione) mette in evidenza la frequenza di psicosi
chiuse, non scatenate, compensate, dove queste nuove organizzazioni del godimento, quali sono in
particolare anoressia-bulimia e tossicodipendenza, si precisano, appunto, come modalità soggettive
di chiusura e di compensazione della psicosi; modalità attraverso le quali il soggetto allontana la
possibilità dello scatenamento ovvero, come afferma Lacan, si mantiene al di qua del buco della
psicosi, sul bordo della psicosi senza però caderci dentro.
La categoria clinica delle psicosi non scatenate implica, in questa prospettiva, almeno due altre
categorie fondamentali: quella di compensazione immaginaria e quella di supplenza, nel senso che
la compensazione immaginaria e la supplenza si configurano a loro volta come modi particolari di
saldatura del buco psicotico. In questo senso compensazione e supplenza condividono la stessa
funzione. Per un altro verso però esse si mantengono differenziate poiché se questa saldatura
stabilizzatrice avviene nel caso della compensazione tramite un’identificazione immaginaria al
simile di tipo narcisistico, nel caso della supplenza si tratta invece della messa in opera di una vera e
propria azione di significantizzazione del godimento in eccesso. In questa prospettiva la supplenza
si caratterizza come una forma soggettiva di stabilizzazione della psicosi assai più articolata della
compensazione immaginaria. Non a caso il concetto di supplenza viene introdotto da Lacan negli
anni settanta a partire dalla sua riflessione su Joyce, la cui opera viene considerata come il
paradigma straordinario di questo concetto.
2. L’origine del problema
Una delle categorie classiche che può essere individuata come un antecedente teorico
significativo della problematica delle psicosi fuori scatenamento è il concetto di psicosi latente
formulato, tra gli altri, da Paul Federn.1 Pioniere nel trattamento psicoanalitico delle psicosi, Federn
fu uno dei primi psicoanalisti a porre con un certo rigore il problema delle scompensazioni
psicotiche in soggetti apparentemente nevrotici. Constatando che negli anni ’30-‘40 non era affatto
1
P. Federn, Psicosi e psicologia dell’io, cit., p.136.
1
frequente per uno psicoanalista occuparsi di psicosi, ironicamente scrive che gli psicoanalisti che
analizzavano gli psicotici erano per lo più coloro che avevano sbagliato diagnosi e consideravano
questi pazienti nevrotici!2 Nondimeno questo errore diagnostico rivelava una difficoltà
nell’individuazione di una struttura psicotica del soggetto laddove la nevrosi veniva utilizzata come
uno schermo protettivo per la psicosi stessa. È per questa via empirica che Federn incontra, proprio
a partire dalla sua pratica di psicoanalista, il problema delle psicosi latenti.
Nell’articolo Analisi delle psicosi dove affronta esplicitamente la questione, egli fa riferimento a
quelle analisi di nevrotici condotte nel rispetto assoluto delle regole analitiche classiche (divano,
associazione libera, regressione, ecc.) che, ad un certo punto del trattamento, manifestano delle
scompensazioni psicotiche. Da questo fenomeno clinico che potremmo chiamare fenomeno delle
“scompensazioni psicotiche sotto transfert” Federn deduce la possibilità che esistano delle psicosi
strutturali mascherate da nevrosi. In questo senso la psicosi resta latente mentre la nevrosi
fenomenica è ciò che si rende visibile, salvo che il suo trattamento può diventare un fattore di
slatentizzazione della psicosi stessa. Per questa ragione Federn arriva a distinguere un
funzionamento strutturale di tipo psicotico del soggetto oscurato da una nevrosi che è invece
l’indice di una sorta di autoterapia da parte del soggetto della sua psicosi. Si capisce bene allora
come la psicoanalisi stessa può diventare un fattore di scatenamento della psicosi se la “diagnosi di
psicosi non è fatta tempestivamente”.3
Ecco come a partire da una sua esperienza clinica Federn incontra il problema:
Nel 1912 il Professor Freud mandò da me una studentessa di filologia moderna, ventenne. Era
una ragazza graziosa e intelligente, che uno stato ossessivo danneggiava in tutte le sue attività. La
sua nevrosi era peggiorata due anni prima in seguito ad un amore infelice. Suo padre era un maestro
di scuola onesto e rigido, che non aveva comprensione né per l’isteria della moglie, che aveva
divorziato da lui, né per la nevrosi della figlia… La psicoanalisi procedeva incontrando una
resistenza “troppo debole”. La paziente perse la maggior parte delle sue ossessioni troppo presto.
Nel 1914 dovetti allontanarmi da Vienna per andare a New York, e la lasciai in grado di proseguire
i suoi studi. Quando tornai, quattro mesi dopo, mi accolse con uno sguardo orgoglioso e timoroso
insieme, e mi confidò che era amata da un grande attore e che la voce di Friedrich Nietzsche le
aveva parlato.4
Come si vede in questo caso la partenza dell’analista (dunque uno sfaldamento della
compensazione garantita dal transfert immaginario) agisce come elemento determinante per la
scompensazione psicotica della giovane paziente. Senza entrare nel merito delle osservazioni
interessanti che Federn sviluppa a partire da questi fenomeni di scompensazione psicotica sotto
transfert5, ciò che si deve isolare è l’esistenza di psicosi che sembrano nevrosi e che in determinate
condizioni (tra le quali Federn include consapevolmente lo stesso trattamento psicoanalitico anche
se, diversamente da Lacan, non possiede una teoria in grado di giustificare perché l’incontro con un
analista possa produrre drammaticamente una congiuntura di scatenamento della psicosi) possono
rivelare, appunto, dissolta la nevrosi di superficie, una psicosi vera e propria.
3. La formula della psicosi non conclamata
2
Ivi, p.124.
Ivi, p.130.
4
Ivi, p.136.
5
Sulle caratteristiche empiriche che può assumere una psicosi compensata sotto transfert, Federn segnala, con molta
saggezza clinica, l’“accettazione e traduzione intuitiva dei simboli e comprensione dei propri processi primari senza
resistenza; scomparsa rapida, persino improvvisa, di gravi sintomi nevrotici”. Cfr. ivi, p.13.
3
2
Jacques-Alain Miller ha formalizzato il problema delle psicosi non conclamate con questa
formula:6
C (NdP)
NdP
Po
Leggiamo questo schema dal basso verso l’alto. Alla sua base c’è Po che sta ad indicare, nella
dottrina di Lacan sulla psicosi, la forclusione del Nome-del-Padre. Ovvero il significante che dà
ordine a tutti gli altri significanti (il Nome-del-Padre, appunto) è stato escluso, non si è iscritto
simbolicamente nell’inconscio del soggetto. Al posto di questa iscrizione c’è, dunque, un buco: Po.
Il Nome-del-Padre non è operativo, non è in grado di normare il godimento e di articolarlo alla
Legge. Per questa ragione, nella psicosi, il godimento – non castrato, non significantizzato – ritorna
investendo il corpo del soggetto (schizofrenia) o identificandosi al luogo dell’Altro dando vita a
fenomeni nei quali è l’Altro a perseguitare il soggetto (paranoia).
Questa esclusione del significante fondamentale del Nome-del-Padre non è una rimozione, nel
senso che l’esclusione, l’azzeramento del Nome-del-Padre prodotto dalla forclusione, non è affatto
omogenea all’esclusione prodotta dalla rimozione. Dobbiamo cioè poter considerare due generi di
esclusione strutturalmente differenti; esiste, infatti, una differenza profonda tra l’esclusione del
Nome-del-Padre dall’inconscio del soggetto rispetto all’esclusione del rimosso dalla coscienza del
soggetto. Mentre in questo secondo caso ciò che viene escluso – il rimosso – può dare luogo ad un
processo di riappropriazione da parte del soggetto – è ciò che Freud definisce come lo scopo del
trattamento analitico delle nevrosi: togliere la sbarra della rimozione –, nel caso della forclusione
l’esclusione impedisce ogni possibilità di riappropriazione soggettiva. In gioco è, in altri termini,
un’esclusione totalmente inerte e irreversibile.
Mentre la prima è un’esclusione dialettica – ciò che è escluso appartiene in realtà all’essenza del
soggetto – la seconda è un’esclusione priva di dialettica – ciò che è escluso non appartiene al
soggetto perché non si è mai iscritto in esso. Questo diverso statuto dell’esclusione nella forclusione
e nella rimozione dà anche ragione delle diverse modalità di ritorno dell’escluso. Mentre nella
rimozione esso ritorna nelle forme simboliche delle formazioni dell’inconscio (sogno, sintomo, atto
mancato, lapsus...), nella forclusione non c’è ritorno dell’escluso nelle forme simboliche, ma un suo
ritorno direttamente nel reale. Mentre il sintomo mantiene rispetto al soggetto uno statuto di
estimità, di interno-esterno (territorio straniero interno per Freud), i fenomeni elementari della
psicosi (allucinazione, delirio) s’impongono al soggetto come provenienti dall’esterno.
Se saliamo al secondo gradino dello schema di Miller troviamo NdP. Questo indica l’effetto
principale della forclusione come mancata iscrizione simbolica del significante principale del NdP,
ovvero la non operatività del Nome-del-Padre la cui efficacia, nella dottrina classica della Questione
preliminare, si esplica nella cosiddetta metafora paterna. Il NdP barrato significa che nelle psicosi
non v’è stata metafora paterna e, dunque, che il desiderio della madre non è stato limitato
dall’azione normativizzante del NdP. Gli effetti sul soggetto sono quelli di un suo declassamento ad
oggetto reale del godimento dell’Altro.
Ma il punto chiave dello schema di Miller non è tanto la messa in connessione tra la forclusione
del NdP e la non operatività della metafora paterna, quanto la funzione del terzo gradino grazie al
quale il soggetto rimedia, per così dire, al buco strutturale che lo abita attraverso una
compensazione immaginaria (C) che impedisce alla psicosi di conclamarsi come tale.
La connessione della forclusione – come causa strutturale della psicosi – con la non operatività
del NdP non è infatti sufficiente a produrre lo scatenamento di una psicosi. La compensazione
immaginaria prende qui infatti il posto del NdP nel senso che è ciò che assicura al soggetto una
certa stabilità. Essa mantiene chiusa la psicosi garantendo al soggetto un sostegno narcisistico
attraverso un’identificazione al simile.
6
J.A. Miller, “Della natura dei sembianti”, Corso tenuto al Dipartimento di psicoanalisi di Parigi VIII (1990-91), in La
Psicoanalisi, n.13, Astrolabio, Roma 1994, pp. 200-202.
3
4. Teoria della compensazione immaginaria e scatenamento della psicosi
Perché, dunque, la forclusione come causa strutturale delle psicosi non è di per sé sufficiente per
provocare lo scatenamento della psicosi? Sappiamo che la compensazione immaginaria può operare
come un cerotto e tenere chiusa la psicosi. È questa la teoria che Lacan sviluppa nel corso del
Seminario III attraverso la metafora del soggetto-sgabello7. Ciò che dà stabilità ad uno sgabello è
che vi sia un punto di appoggio esterno ai due piedi (ovvero alla coppia immaginaria). Un terzo
piede che dia garanzia di stabilità ai due. Non esiste infatti uno sgabello a due piedi perché il due
non consente una distribuzione ordinata del peso. Ce ne vogliono quattro o minimo tre per garantire
l’equilibrio. Ma se ve ne sono tre, precisa Lacan, “non può più mancarne uno, altrimenti va male”.8
Nelle psicosi dobbiamo, dunque, supporre l’assenza di questo terzo piede. Del piede simbolico.
Eppure – come ci ha indicato la formula milleriana della psicosi non conclamata – lo sgabello che
manca del piede simbolico (NdP) può trovare comunque un suo equilibrio. È questa precisamente la
funzione assegnata da Lacan alla “compensazione identificatoria”: una sorta di protesi immaginaria
di questo piede simbolico assente che sortisce l’effetto di stabilizzare la posizione del soggettosgabello. L’effetto di questa protesi immaginaria è, infatti, quello di garantire al soggetto un’identità
che possa supplire all’“Edipo assente”. Nondimeno se la compensazione immaginaria risponde
all’assenza dell’Edipo – ovvero all’assenza della metafora paterna – questa risposta non è
sufficiente a garantire una triangolazione simbolica effettiva. Il soggetto resta come prigioniero
della relazione speculare, la sua identità è priva di una soggettivazione effettiva essendo il prodotto
di un’identificazione narcisistica al simile posto come Io ideale. Di qui il carattere rigido e massivo
di questa identificazione che non è, come nell’isteria, l’identificazione ad un tratto ma piuttosto
un’identificazione mimetica, generalizzata che tende a riprodurre integralmente, senza alcun scarto,
l’oggetto dell’identificazione.
Nel Seminario III Lacan affronta apertamente il problema delle psicosi compensate nel
paragrafo intitolato, assai emblematicamente, da Jacques-Alain Miller Dei significanti primordiali e
della mancanza di Uno.9 In particolare segnala tre elementi fondamentali:
a) Katan ha definito con il termine di pre-psicosi la posizione di quei soggetti che vivono una
condizione di pre-scatenamento senza che però lo scatenamento come tale si sia ancora
verificato; condizione che la psichiatria classica ha definito anche come “atmosfera
schizofrenica” contrassegnata dalla percezione di uno svanimento progressivo dei punti di
riferimento simbolici, da una instabilità, da un disequilibrio di fondo, da una atmosfera
contrassegnata da uno stupore perplesso… Lacan riassume questa condizione pre-psicotica del
soggetto come un “arrivare al bordo del buco”.10 Dove il buco a cui si riferisce è quello aperto
dall’assenza forclusiva del Nome-del-Padre.
b) Ciò che può impedire che il soggetto precipiti nel buco è la compensazione immaginaria la cui
funzione viene definita come risposta del soggetto allo “spossessamento primitivo del
significante” promosso dalla Verwerfung e la cui operatività è assimilata a quelle di una vera e
propria “stampella immaginaria”.11
7
J. Lacan, Il Seminario. Libro III. Le psicosi, cit., p. 239.
Ibidem.
9
Ivi, pp.231-243.
10
Ivi, p. 239.
11
Ivi, p. 242.
8
4
c) La compensazione immaginaria tende a darsi in una serie. Si tratta di quella serie ben isolata dai
lavori di Helene Deutsch sulle cosiddette “personalità come se” e che Lacan stesso definisce
come “serie di identificazioni puramente conformiste a personaggi che gli daranno (al soggetto)
il senso di quello che bisogna fare per essere un uomo”.12
L’identificazione che presiede la compensazione immaginaria dell’Edipo assente ha, dunque,
come sua caratteristica di fondo quella di essere un’identificazione adesiva, integrale, immediata,
mimetica, non dialettica, non ternaria, seriale: identificazione del soggetto ad un suo simile posto
come Io ideale.
L’ipotesi winnicottiana del “falso Sé” e soprattutto le ricerche di Helene Deutsch sulle
personalità “come se” forniscono delle precisazioni preziose sulle caratteristiche della
compensazione immaginaria. I concetti di “falso Sé” o di “personalità come se”, elaborati
rispettivamente da Winnicott e da Helene Deutsch, indicano quella dimensione del soggetto nella
quale l’identificazione immaginaria compensa un vuoto d’essere fondamentale stabilendo una
continuità d’essere – per usare l’espressione winnicottiana – assolutamente artificiale, costruita sulla
sabbia, perché, in realtà, priva del supporto simbolico offerto dal Nome-del-Padre.
Attraverso il concetto di “falso sé” Winnicott ha inteso descrivere uno “stato clinico” particolare
caratterizzato da una scissione tra l’essere del soggetto (“vero Sé”) e la sua maschera sociale.
Quest’ultima che svolge una funzione positiva di riparo e di nascondimento dell’essere del soggetto,
dunque di mediazione rispetto alle esigenze del mondo esterno, può patologicamente irretirsi sino a
produrre una vera e propria alienazione del soggetto. Essa si “costituisce su una base di
compiacenza” nella quale il soggetto realizza una “coesione” di Sé che cerca di porre rimedio
all’assenza nella prima infanzia di un desiderio dell’Altro capace di simbolizzare l’esistenza del
soggetto come particolare. Fallita questa particolarizzazione primaria – ciò che Winnicotto descrive
come l’effetto dell’azione di holding, di sostegno e di contenimento della “madre sufficientemente
buona”, al soggetto rimane solo la possibilità di raggiungere un’identità attraverso la
moltiplicazione di identificazioni mimetiche all’altro, “mostrandosi compiacente verso le richieste
ambientali”. Di qui la caratteristica principale delle false personalità, ovvero quella di sentire la
propria vita come circondata da un alone di “irrealtà”, di “futilità”, di “vuoto” e di “non
esistenza”13.
E’ in particolare nell’articolo Sulle personalità come se del 1934 che Helene Deutsch mostra
come in certi soggetti che appaiono come assolutamente normali e nei quali spicca una alta capacità
di adattamento sociale – che Helene Deutsch paragona ad una sorta di “mimetismo psichico” –
manca, in realtà, qualunque autenticità soggettiva. È come essere di fronte ad un attore dotato di
grande tecnica recitativa ma senza alcuna capacità di dare vita al personaggio che interpreta. Questa
tecnica vuota è il fulcro della personalità “come se”, nella quale l’identificazione all’oggetto ricopre
un vuoto d’essere fondamentale. Essere come gli altri, mostrare un adattamento sociale adeguato,
presentarsi come identificati a dei ruoli determinati in modo tale che “qualsiasi oggetto potrà
funzionare come trampolino per un’identificazione” sono delle modalità tipiche delle personalità
“come se” per occultare il vuoto interiore che le pervade14.
Nel tempo dello scatenamento l’identificazione rigida all’altro speculare si frantuma a causa
dell’irruzione di un elemento eterogeneo. In un mio paziente, per esempio, lo scatenamento ha
coinciso con la gravidanza della sorella che ha spezzato l’identificazione speculare che lo aveva
12
Ivi.
Cfr., D.W.Winnicott, “La distorsione dell’io in rapporto al vero ed al falso Sé” e “Classificazione: esiste un
contributo psicoanalitico alla classificazione psichiatrica?”, in Sviluppo affettivo e ambiente, Armando, Roma1970,
pp.168-193
14
Cfr. H.Deutsch, Alcune forme di disturbo emozionale e la loro relazione con la schizofrenia, in AA.VV., Il
sentimento assente, Boringhieri, Torino 1992, p.55. Questa ricerca di una compensazione immaginaria come
riempimento artificiale del vuoto interiore deriva secondo la Deutsch da un Edipo il quale è anch’esso una sorta di
“forma vuota”, “nel quale l’oggetto e le emozioni erano assenti…il fatto di non avere rapporti coi genitori la portava ad
una regressione narcisistica nella fantasia, e questo processo veniva perversamente stimolato dall’assenza di relazioni
oggettuali sostitutive”. Ivi, p.59.
13
5
sostenuto sino a quel momento, introducendo, nella coppia immaginaria fratello-sorella, un
elemento terzo non assimilabile all’unità identificatoria-narcisistica della coppia; gravidanza della
sorella che confronta altresì il soggetto col significante fondamentale della paternità di cui egli
manca.
Perché vi sia lo scatenamento della psicosi non è dunque sufficiente l’esistenza della causa
strutturale della forclusione. Non è sufficiente l’assenza del significante del NdP. Lacan è preciso su
questo punto quando scrive: “Perché la psicosi si scateni, bisogna che il NdP forcluso, cioè mai
giunto al posto dell’Altro, vi sia chiamato in opposizione simbolica al soggetto” (Q.P., p. 573). Ciò
che Lacan afferma qui è che la condizione dello scatenamento è data dall’intersezione di due
causalità differenti: da una causalità strutturale e da una causalità contingente. Se la causalità
strutturale viene identificata con la forclusione del Nome-del-Padre, quella contingente viene qui
precisata come incontro del soggetto – in “opposizione simbolica” – con quel significante – il
Nome-del-Padre – “mai giunto nel luogo dell’Altro”. Se si utilizzano i termini del Seminario III
questo significa che la condizione congiunturale dello scatenamento si produce allorché il soggetto
“a un certo incrocio della sua storia biografica, viene messo a confronto con quel difetto che esiste
da sempre”.15 È questo il nucleo teorico della dottrina dello scatenamento che Lacan mette a punto
rigorosamente nel postscriptum alla Questione preliminare attraverso l’ipotesi che sia l’incontro
con “l’Un-padre” – ovvero l’incontro nel reale con quel piede simbolico che manca al soggettosgabello da sempre – che determina la congiuntura di scatenamento della psicosi.16
La causa strutturale deve dunque intersecarsi con una causa contingente. Questa intersezione
determina ciò che Lacan chiama, nella teoria classica de la Questione preliminare del 1958,
“congiuntura di scatenamento”. Nondimeno bisogna isolare un terzo elemento che caratterizza
l’ingresso nella psicosi, ovvero la dissoluzione della compensazione identificatoria che sino a quel
momento aveva sostenuto narcisisticamente il soggetto. Nel Seminario III si vede bene come Lacan
ponga in risalto nel soggetto, al momento della congiuntura dello scatenamento, l’essere chiamato
dall’Altro a rispondere in “prima persona”, a “prendere la parola”17, ovvero a soggettivare, senza
l’ausilio del partner speculare, la propria posizione in rapporto all’Altro simbolico. La
compensazione immaginaria è ciò che sino a quel momento ha protetto il soggetto da questa
impossibilità di rispondere attraverso “un pullulare immaginario di modi di essere” che si rivelano
però senza alcuna consistenza simbolica.18 Si tratta, in altri termini, di una proliferazione o di un
irrigidimento dell’Io ideale che si configura come una modalità di riparazione ad un’insufficienza
strutturale dell’Ideale dell’Io. E’ ciò che motiva la lettura basagliana dell’anoressia mentale come
una “psicopatia cenestofrenica” nel senso che lo sviluppo “abnorme” della preoccupazione per il
proprio corpo-magro (“schiavitù della persona al proprio svolgersi somatico”) si configura come
una soluzione di facciata che offre al soggetto la plasmazione della sua personalità che gli permette,
seppur abnormemente, di esistere .19
In un altro caso che ho avuto modo di seguire, il momento dello scatenamento della psicosi è
avvenuto quando il rapporto d’identificazione speculare con la sorella gemella viene interrotto al
tempo dell’iscrizione al liceo, tempo nel quale l’Altro (rappresentato in questo caso dall’istituzione
scolastica) interviene separando la coppia immaginaria e imponendo alle due ragazze iscrizioni in
classi diverse. L’angoscia psicotica è stata una prima risposta della ragazza a questa iscrizione
diversificata che la lasciava sola a rispondere, in prima persona appunto, alla chiamata dell’Altro.
15
J. Lacan, Il Seminario. Libro III, cit., p.239.
“Ma come è possibile che il Nome-del-Padre sia chiamato dal soggetto al solo posto da dove gli sia potuto venire e
dove non è mai stato? Da nient’altro che da un padre reale, per nulla necessariamente dal padre del soggetto, ma da Un
padre. Ma bisogna che questo Un-padre venga a quel posto dove prima il soggetto non l’ha potuto chiamare. A Tale
scopo basta che questo Un-padre si situi in posizione terza in qualche relazione che abbia come base la coppia
immaginaria a-a’, cioè io-oggetto o ideale-realtà, che interessa il soggetto nel campo d’aggressione erotizzato che
induce”. J.Lacan, Questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, cit., pp. 573-574.
17
J. Lacan, Il Seminario. Libro III, cit., p. 299.
18
Ivi, p. 304.
19
Cfr., F.Basaglia, L’anoressia mentale è una nevrosi o una psicopatia?, cit.,pp. 263-269
16
6
In questo caso si può pensare alla funzione della coppia gemellare come una modalità soggettiva
di organizzare una compensazione immaginaria alla mancata iscrizione del Nome-del-Padre, alla
doppia iscrizione imposta dall’Altro come un evento che destabilizza questa identificazione adesiva
al simile e all’incontro con l’Altro simbolico dell’istituzione scolastica come causa contingente che
conduce il soggetto verso il precipizio della psicosi.
5. La dimensione psicotica dell’anoressia-bulimia
Serge Cottet ha proposto di distinguere una clinica della mancanza da una clinica del vuoto.20
La prima ha come suoi riferimenti fondamentali la mancanza, il desiderio e il soggetto diviso e
concerne fondamentalmente la clinica delle nevrosi; la seconda ha come suoi riferimenti
fondamentali il godimento e il vuoto, come scadimento della mancanza, e concerne la clinica delle
psicosi.
Esiste una dottrina classica di Lacan sull’anoressia che la include, anzi la elegge a paradigma,
nella clinica della mancanza. In questa prospettiva la manovra anoressica appare finalizzata a
preservare il posto della mancanza nell’Altro e, dunque, nel soggetto. La clinica dell’anoressia
come clinica della mancanza permette a Lacan di evidenziare gli elementi seguenti:
a) il desiderio anoressico come desiderio di niente mette in luce una verità della struttura, ovvero
rivela come al cuore del desiderio umano vi sia non un oggetto – il desiderio non è mai
desiderio di un oggetto – ma il niente come oggetto, ovvero il niente che manifesta
l’inadeguatezza di ogni oggetto immaginario rispetto all’inclinazione strutturalmente
metonimica del desiderio umano.
b) L’anoressia mostra l’irriducibilità del campo del bisogno a quello del desiderio perché se il
bisogno è bisogno di qualcosa il desiderio è, appunto, desiderio di niente, di Altra cosa, è
desiderio d’Altro, dunque irriducibile, appunto, al bisogno. In questo senso lo sciopero della
fame dell’anoressica punta a mostrare la trascendenza del desiderio rispetto al bisogno di fronte
ad un Altro (sociale, familiare) che tende invece ad appiattire il primo sul secondo.
c) L’anoressia manifesta un’affinità strutturale con l’isteria poiché in entrambe il rifiuto – del
corpo, del cibo, ecc. – diviene una difesa o una manifestazione del desiderio del soggetto. Così
l’anoressia per far sopravvivere il desiderio è disposta a rinunciare – istericamente – al
godimento, ad annientare il soddisfacimento del bisogno.
d) La domanda anoressica come domanda di niente chiarisce la natura ultima della domanda
d’amore come domanda intransitiva. La domanda d’amore non è infatti domanda di qualcosa
ma domanda del segno della mancanza dell’Altro, domanda non del seno ma del segno d’amore,
come chiarisce bene Lacan nel corso del Seminario IV. Nell’anoressia la domanda d’amore si
manifesta nel suo statuto più puro in quanto è domanda non di qualcosa che l’Altro ha (cibo,
ecc.) ma di ciò che l’Altro non ha, mentre la deriva bulimica dell’anoressia mostra come
l’assenza del segno d’amore – la “frustrazione della domanda d’amore” come si esprime Lacan
– mobiliti il soggetto verso una sua compensazione reale attraverso l’oggetto di cui, appunto, la
bulimica si riempie.
Questa ricapitolazione sintetica della dottrina classica di Lacan sull’anoressia trascura di
considerare, come si vede, la dimensione non isterica ma psicotica dell’anoressia stessa. A questo
proposito potremmo introdurre due osservazioni critiche nell’intento di problematizzare il rapporto
tra anoressia-bulimia e psicosi.
20
S. Cottet, Gai savoir e triste vérité, Revue de la Cause freudienne, n. 35, 1997, p. 34.
7
La prima: l’insegnamento che la clinica dell’anoressia ci impartisce è quello di distinguere la
declinazione del desiderio come desiderio dell’Altro dal desiderio come desiderio di niente. Se
l’isteria esalta il desiderio come desiderio dell’Altro – nel senso che il soggetto isterico opera con la
propria mancanza per far sorgere la mancanza nell’Altro –, l’anoressia, nella sua dimensione
psicotica, esalta piuttosto il desiderio come desiderio di niente o, per utilizzare una formulazione
precisa di Lacan, come “appetito di morte”.21 Qui il soggetto non opera più con la mancanza per
interrogare il suo valore nel desiderio dell’Altro ma nientifica, per così dire, la mancanza stessa
riducendola ad un vuoto localizzato, al vuoto dello stomaco. Ciò che l’operazione del rifiuto
anoressico fa sopravvivere non è più il desiderio come tale ma una sorta di pseudo-mancanza.
“Pseudo” perché essa non è più in rapporto col desiderio dell’Altro ma solo con una spinta radicale
alla auto-mortificazione. Il prodotto della sconnessione tra mancanza e desiderio è, dunque, in
questi casi una specie di riduzione – ossificazione – della mancanza stessa ad un vuoto reificato,
non vitalizzato dalla significazione fallica, non significantizzabile, non metaforizzabile. Un vuoto
che si può declinare o nella forma di una nirvanizzazione del soggetto – anoressia – o in una avidità
compulsiva – bulimia.
Siamo qui di fronte ad un nuovo statuto del niente. Non si tratta più – come nella dottrina
classica di Lacan – del niente come oggetto finalizzato ad aprire il desiderio dell’Altro, del niente
come oggetto separatore, ma di un altro niente, del niente come pura nientificazione del soggetto,
del niente come annichilimento, devitalizzazione nirvanica del soggetto. In questo senso la
definizione lacaniana del desiderio anoressico come appetito di morte apre precisamente su questo
abisso, su ciò che Freud, a suo modo, indicava come disimpasto pulsionale tra Eros e Thanatos,
come espressione pura della pulsione di morte. In termini lacaniani potremmo dire che questo “altro
niente” non è più – come nella dottrina classica – in rapporto all’Altro ma in rapporto alla Cosa.
Questa nuova reificazione del niente costituisce per certi versi il principio logico del discorso
del capitalista così come Lacan lo teorizza nel 1972.22 Si tratta di quel discorso dove “tutto si
consuma”, ovvero nel quale la mancanza del soggetto è per un verso costantemente riciclata e
otturata dal consumo dell'oggetto e, per un altro verso, mantenuta costantemente sospesa dalla
continua offerta di nuovi oggetti di consumo. In questo senso il riciclo dell’oggetto perduto conduce
ad un assorbimento progressivo della mancanza nella domanda. L’epoca del discorso del capitalista
è l’epoca contemporanea, ovvero quella che fa da sfondo e determina la comparsa di nuove forme
del sintomo che manifestano la deriva patologica di questa accentuazione del carattere convulso e
infinito della domanda. In questo senso anoressia e bulimia si prestano bene a semplificare
l’incidenza del discorso del capitalista nella dimensione della clinica. Sia l’anoressia che la bulimia
evidenziano, infatti, la trasformazione della mancanza soggettiva in una pseudo mancanza
desoggettivata, ad un vuoto anatomizzato, puro vuoto reale senza alcuna relazione col desiderio.
6. Il principio del Nirvana
Attraverso il ritorno a questa categoria freudiana cerco di connotare un funzionamento psicotico
del soggetto anoressico – o, se si vuole, la dimensione psicotica dell’anoressia – senza che questo
implichi la presenza effettiva di fenomeni elementari.
Per Freud la clinica della nevrosi è una clinica che si istituisce sul conflitto tra principio di
piacere e principio di realtà, ovvero tra l’esigenza della pulsione e i limiti imposti dal programma
della Civiltà. In questo senso la clinica freudiana della nevrosi implica come fondamentale la
dimensione del conflitto interno al soggetto. Nell’articolo intitolato Precisazioni intorno ai due
principi dell’accadere psichico Freud struttura il rapporto tra principio di piacere e principio di
realtà come una vera e propria sostituzione metaforica nella quale, come fa osservare Jacques-Alain
Miller, il principio di realtà sostituisce il principio di piacere. Sostituzione che, sempre seguendo
21
J. Lacan, Les complexes familiaux dans la formation de l’individu, cit., p. 35.
Sul discorso del capitalista, vedi J. Lacan, “Del discorso psicoanalitico” (Milano, 12 maggio 1972) in Lacan in Italia,
La Salamandra, Milano 1978.
22
8
Miller, possiamo accostare a quella strutturalista dove la cultura fa valere la sua predominanza sulla
natura.23 È l’idea lacaniana della simbolizzazione originaria dove perché il soggetto possa
inscriversi nel campo della realtà è necessario che qualcosa del principio di piacere debba essere
rimosso. Questa prima sostituzione può dunque essere formalizzata semplicemente come segue:
PR
PP
La sostituzione del principio di piacere non è senza residui. Per Freud, infatti, esiste una
sopravvivenza del principio di piacere anche laddove esso si piega al regime significante del
principio di realtà. Questa sopravvivenza del principio di piacere indica l’attaccamento del soggetto
alla dimensione del godimento come attaccamento strutturale. Il principio di realtà s’impone al
principio di piacere – ovvero alla tendenza del soggetto a procurarsi il proprio soddisfacimento
pulsionale – ma non senza lasciare un resto. Questa problematica tipicamente freudiana viene
ricondotta al campo lacaniano da J.-A. Miller quando ci ricorda come in Lacan sia proprio la
negativizzazione del godimento da parte dell’Altro a produrre l’oggetto piccolo (a) come residuo di
questa negativizzazione, come espressione, per dirla ancora con Freud, di ciò che del principio di
piacere non vuole subordinarsi al principio di realtà.
Scriviamo questo così:
PR
PP1
Dove con il termine PP1 indichiamo, appunto, la persistenza di un frammento di principio di
piacere non simbolizzato, non castrato dall’azione normativa del principio di realtà.
Queste due prime formalizzazioni inquadrano la clinica della nevrosi come orientata dal
conflitto tra principio di piacere e principio di realtà, dagli effetti di divisione soggettiva che questo
produce e dalla presenza di un residuo di principio di piacere (in termini lacaniani l’oggetto piccolo
a) che non si lascia includere nel principio di realtà ma che vi si mantiene, piuttosto, in una
opposizione conflittuale.
Più precisamente in Al di là del principio di piacere Freud giungerà a definire il Jenseits
Lustprinzip come ciò che travalica le cornici del principio di piacere – il soggetto punta al piacere
come luogo di un soddisfacimento edonistico –, come ciò che del principio di piacere recalcitra di
fronte alle esigenze del programma del principio di realtà. Nel senso che l’al di là del principio di
piacere è ciò che resiste alla simbolizzazione imposta dal principio di realtà: esso dunque non è
propriamente al di là del principio di piacere ma è l’indice di ciò che del principio di piacere non si
è lasciato sostituire dal principio di realtà; è, in altre parole, il resto della metaforizzazione
universale imposta dall’Altro. È il resto di godimento che residua (per Freud nella forma della
fissazione libidica) al di qua dell’operazione di metaforizzazione.
Se però cerchiamo adesso di introdurre il principio di nirvana ci accorgiamo che oltrepassiamo
la clinica delle nevrosi. Di cosa si tratta nel Principio di Nirvana? Una delle definizioni più preziose
di Freud è quella di considerare il Nirvana come una narcotizzazione del principio di piacere.24 Non
si tratta dunque di una metaforizzazione – il principio del Nirvana non sostituisce il principio di
piacere – ma di una nullificazione del principio di piacere, o, più precisamente come scrive Freud,
di una sua narcotizzazione. Come dobbiamo intendere quest’effetto di narcotizzazione?
Possiamo prendere alla lettera un enunciato frequente del soggetto anoressico: “Mi devo
narcotizzare, non devo sentire niente”. Enunciato che di per sé non può in nessun modo indicare una
psicosi ma segnala un certo modo di organizzazione dell’economia libidica del soggetto.
Narcotizzarsi, nirvanizzarsi, nientificarsi. Non a caso Freud in Il problema economico del
masochismo riprende questo termine, oltre che da Barabara Low, da Schopenhauer che, a sua volta,
23
24
J.A. Miller, Cause e consentement, cit., seduta del 5 maggio 1988 (inedito).
S. Freud, Il problema economico del masochismo, cit., p.5.
9
lo assume dalle tradizioni induiste nelle quali il Nirvana indica, com’è noto, uno stato di quiete
assoluta e di sospensione dell’inquietudine della vita. Stato nel quale le passioni si spengono e il
soggetto può raggiungere la condizione illuminata dell’impassibilità, ovvero della realizzazione in
terra di un godimento puro del nulla, rispetto al quale tutte le forme umane di soddisfazioni si
rivelano destinate ad una vanità immaginaria. Per Freud questa condizione di soppressione ascetica
di ogni forma di godimento è anch’essa una forma di godimento, di godimento della privazione,
masochistico, godimento segnato dalla disgiunzione tra la pulsione e di morte e quella di vita.
Prendiamo una pratica abbastanza diffusa nei soggetti anoressico-bulimici, ovvero quella di
verificare, attraverso l’esplorazione del vomito, che la quantità di cibo ingerita sia la stessa del cibo
evacuato. In questa pratica il soggetto deve poter verificare che niente si sia modificato, che
l’equilibrio interno al corpo non abbia subito alcuna oscillazione perché ogni, seppur minima,
oscillazione può innescare una catastrofe. Il calcolo delle calorie, la suddivisione sistematica e
teorica degli alimenti, l’attitudine a vere e proprie pratiche di purificazione del corpo,
l’eliminazione progressiva di tutto ciò che può introdurre la dimensione contingente dell’alterità,
indicano un rifiuto radicale dell’Altro e un ritorno nel reale dell’istanza del principio di piacere. Se
infatti il principio di piacere punta a realizzare un soddisfacimento equilibrato, capace di non
alterare l’inerzia interna all’apparato, la sua narcotizzazione impone una sorta di estremismo folle di
questa tendenza all’omeostasi.
In altri termini, quando il principio di piacere non è articolato al principio di realtà – secondo la
legge metaforica della sostituzione – ma ritorna direttamente nel reale, senza alcuna mediazione
simbolica, esso si narcotizza nel principio del Nirvana.
Nella clinica dell’anoressia il principio di Nirvana è ciò che narcotizzando il principio di piacere
s’impone al principio di realtà come criterio e metodo d’azione del soggetto. È ciò che dà origine ad
un vero e proprio stile, a pratiche quotidiane, a elucubrazioni deliranti che hanno come motivo
comune quello di preservare il soggetto nella sua unità nirvanica, nella sua più pura stessità,
impassibilità, mantenendo a distanza il principio di alterità costituito dall’Altro. Per questo J.A.
Miller ha avuto modo di definire la posizione del soggetto tossicomane – che, come quello
anoressico-bulimico, vincola il godimento ad un partner-inumano – come segnata da un anti-amore
fondamentale.25 In effetti il farsi del tossicomane è un costituirsi nel proprio essere – un farsi essere
– senza passare dall’Altro. In questo senso è anti-amore, in quanto l’amore implica il rovescio della
logica tossicomanica, ovvero l’impossibilità di farsi essere senza passare dalla mancanza dell’Altro.
L’inclinazione psicotica della tossicomania – come dell’anoressia-bulimia – si manifesta qui
pienamente: l’essere del soggetto prescinde dall’essere dell’Altro; l’essere del soggetto è piuttosto
in antitesi, in una posizione di rifiuto, rispetto all’essere dell’Altro. È ciò che spinge Lacan a
teorizzare nel Seminario III la posizione del soggetto psicotico come contrassegnata da una
esclusione radicale dell’Altro.
7. Corpo e psicosi non scatenate
Certe forme gravi di anoressia-bulimia sembrano indicare un funzionamento psicotico del
soggetto in assenza di un vero e proprio scatenamento e dei conseguenti fenomeni elementari.
L’assenza di disturbi del linguaggio non è da considerarsi, come tale, un elemento decisivo per non
formulare una diagnosi di psicosi. Il modo particolare con il quale un soggetto struttura il suo
rapporto con l’Altro e col godimento possono consentirci di pervenire ad una diagnosi di psicosi
anche senza la presenza specifica dei disturbi del linguaggio. Nondimeno una serie di fenomeni che
investono il corpo possono funzionare come indici differenziali per indicare una posizione psicotica
del soggetto. In particolare vorrei soffermarmi su cinque “indici” che nella mia pratica con soggetti
anoressico-bulimici a struttura psicotica ho frequentemente incontrato.
Il primo è relativo alla presenza di una dimensione di mortificazione reale e non simbolica del
soggetto. Essa riguarda quello che classicamente – con Freud – potremmo definire come disimpasto
25
J.-A. Miller e E. Laurent, L’Autre qui n’existe pas et ses comitées d’ethique, cit., seduta del 20 novembre 1996.
10
pulsionale tra Eros e Thanatos. Clinicamente si esprime come una de-erotizzazione e una devitalizzazione del corpo. Ma non siamo di fronte a quel rifiuto del corpo che può contrassegnare una
modalità isterica di rapportarsi al corpo. La mortificazione reale del corpo – o, se si preferisce, la
sua devitalizzazione nirvanica – accentua non tanto la divisione tra desiderio e godimento ma una
sorta di abolizione tout court del desiderio dettata dal primato fuori discorso della pulsione di morte.
Nella clinica della nevrosi il corpo è il luogo dell’Altro, nel senso che è il trattamento
significante del corpo che lo svuota di godimento, che lo mortifica offrendo però come contropartita
a questo svuotamento una erotizzazione del corpo stesso; erotizzazione che, come insegna Freud, si
condensa in particolare nelle zone di bordo del corpo, nelle cosiddette zone erogene.
L’incorporazione del significante determina, in effetti, un principio di alterazione del corpo che da
corpo-organismo, da corpo-biologico, diventa corpo pulsionale, corpo fabbricato dai significanti
dell’Altro. Quando facciamo riferimento alla clinica del vuoto consideriamo invece che questa
incorporazione del significante non sia avvenuta; e che, di conseguenza, il corpo non si alterizza ma
si mantiene piuttosto come un Uno chiuso contro l’Altro; non incorpora il significante ma piuttosto
si scorpora, per così dire, dal significante. Il rifiuto della mortificazione significante implica
pertanto un difetto della erotizzazione del corpo, perché la condizione dell’erotizzazione è la
sottrazione di godimento con la conseguente definizione delle zone erogene come zone nelle quali il
godimento perduto lascia una sorta di traccia attiva attorno alla quale si mobilita il movimento della
pulsione. Nel funzionamento non psicotico del corpo la mortificazione significante si mantiene
perciò in una dialettica vitale con la sua stessa erotizzazione. In termini freudiani è ciò che giustifica
la tesi dell’impasto pulsionale tra Eros e Thanatos. In Lacan, in effetti, Thanatos assume la
configurazione dell’azione letale del significante sul soggetto, mentre Eros viene ripensato
attraverso la funzione del fantasma come ciò che riesce a trasformare la sottrazione in un recupero
del godimento perduto.
Nella clinica delle psicosi si assiste ad una defusione tra Eros e Thanatos. Mortificazione e
erotizzazione si slegano. Le esplosioni di aggressività, di etero e auto distruzione, i passaggi all’atto,
le operazioni di annullamento della vitalità del corpo, così tipiche di certe forme estreme di
anoressia, mostrano in atto questa defusione tra pulsione di morte e pulsione di vita.
Il secondo “indice” concerne una sorta di trasformazione della mancanza in un buco del corpo
avvertito come reale da parte del soggetto. Non si tratta della sensazione di avere un buco nello
stomaco, ma di quella di avere un buco nel corpo, o, meglio, di percepire i buchi del corpo – per
esempio la cavità orale o quella anale – come buchi che si spalancano, che s’impongono al soggetto
come delle specie di voragini viventi. Così un mio paziente, gravemente bulimico, mangiava per
riempire un buco reale nel corpo che altrimenti l’avrebbe inghiottito. L’abbuffata bulimica in questo
caso non risponde al criterio nevrotico della trasgressione e della fallicizzazione immaginaria
dell’oggetto cibo, quanto si piuttosto tende a configurarsi come una pratica finalizzata a mantenere
chiuso il buco simbolico nella struttura del soggetto. Questa dimensione del dover mangiare per
riempire un buco del corpo avvertito come reale è frequente nelle forme di anoressia-bulimia
psicotiche. Il soggetto sembra trasformare il buco simbolico della forclusione in un buco del corpo
che si fa sentire come tale, come assolutamente reale, non significantizzato. Si tratta di un indice
preciso della non-localizzazione del godimento nelle zone erogene poiché la significazione fallica
non ordina simbolicamente il quadrato degli oggetti pulsionali (orale, anale, vocale, scopico).
Il terzo “indice” riguarda l’uso anaclitico dell’immagine dell’altro. La presenza costante nella
storia del soggetto di incollamenti identificatori, di “coppie immaginarie” che hanno funzionato
come supporti narcisistici. La frequenza di queste compensazioni immaginarie indica una modalità
di risposta del soggetto all’assenza forclusiva del piede simbolico del Nome-del-Padre. Il corpo del
soggetto si regola per intero sul corpo dell’altro speculare fino a raggiungere vere e proprie
rappresentazioni mimetiche dell’altro. In queste coppie gemellari manca, in effetti, ogni forma di
triangolazione simbolica; il soggetto aderisce integralmente, non ad un tratto dell’altro, ma per
intero alla sua immagine, come se fosse un calco, una copia speculare appunto. Questa presa diretta
dell’altro sul corpo del soggetto, questa identificazione massiva, generalizzata, non localizzata,
questa sorta di mimesi identificatoria segnala il vuoto d’essere che abita il soggetto psicotico e il
11
suo tentativo di riempirlo attraverso l’uso anaclitico dell’immagine ideale dell’altro. In questi casi è
facile reperire l’insorgenza dello scatenamento proprio in coincidenza con un disfarsi della coppia
immaginaria, con una sua lacerazione.
Il quarto “indice” riguarda la presenza di pratiche o di operazioni sul corpo che hanno come
finalità ultima quella di introdurre nel reale la funzione della castrazione poiché essa non si è potuta
esercitare simbolicamente. Queste pratiche sono frequenti nei soggetti psicotici “fuori
scatenamento” che utilizzano l’anoressia-bulimia stessa come modalità di realizzazione della
castrazione. La privazione anoressica introduce infatti nel reale – per esempio, come si è visto in
precedenza, nella forma del principio del Nirvana – una devitalizzazione del corpo che realizza a
suo modo una sorta di castrazione agita del godimento in eccesso, del godimento che il significante
non ha staccato dal corpo. Nel caso della bulimia la castrazione prende soprattutto le forme reali del
vomito o dell’abuso di lassativi come operazioni che – grazie all’ausilio di una tecnica – consentono
al soggetto di esteriorizzare un godimento maligno che ristagna nel corpo. Nella tossicodipendenza
è ancora la tecnica – “la tecnica del buco” l’aveva definita un paziente – che sembra offrire al
soggetto psicotico una certa padronanza sul godimento che altrimenti ritornerebbe sul corpo senza
alcuna mediazione. Interessante in questo senso è il particolare utilizzo che una mia paziente
psicotica faceva della siringa prima di diventare tossicodipendente e successivamente bulimica.
Essa sottoponeva il proprio corpo a veri e propri cicli di iniezioni di soluzioni fisiologiche, non per
iniettarsi qualcosa – la sostanza della droga per esempio – ma per “bucare” letteralmente il corpo.
Bucarsi non è aggiungere al corpo del godimento supplementare ma svuotare il corpo di godimento
in eccesso, dove però questo svuotamento avviene non attraverso il significante ma attraverso la
pratica delle iniezioni.
Il quinto “indice” è relativo alla presenza nella storia del soggetto di una serie continua di
sradicamenti, di cambi improvvisi di direzione, di trasformazioni, di erranze, di difficoltà di
inscriversi in un legame sociale stabile. Questo indice può prendere anche la configurazione di
metamorfosi continue della propria immagine (fenomeno, questo, assai tipico anche nell’isteria). Si
tratta, in generale, di una disinserzione, di uno sganciamento del soggetto dal suo rapporto con
l’Altro26, nella quale il soggetto sfilaccia progressivamente il suo legame sociale con l’Altro,
ritrovandosi in una condizione di isolamento progressivo. In questo senso l’anoressia-bulimia non
indica tanto un discorso quanto il fallimento stesso del discorso come modalità di mantenere in una
connessione possibile il godimento col significante. Si tratta, in altre parole, di una sorta di
metonimia non-simbolica che spostando costantemente il soggetto da un oggetto verso un altro
corrode ogni possibilità di un suo attecchimento simbolico.
8. Trattamento del buco simbolico: compensazione immaginaria, metafora delirante e supplenza
Lacan ha individuato diverse forme possibili del godimento. La sua prospettiva è, in questo
senso, come ha fatto notare una volta Jacques-Alain Miller, aristotelica: esistono molteplici modi
per declinare la sostanza del godimento, così come per Aristotele esistono molteplici modi di dire
l’unità dell’essere. Il luogo del soggetto si specifica allora come investito dalla necessità di trattare
il reale del godimento. Ciò che, infatti, impegna il soggetto nella sua struttura è il rapporto col reale
del godimento, è il confronto col proprio essere di godimento.
Lo strutturalismo di Lacan ha posto innanzitutto in evidenza come la forma fondamentale di
trattamento del godimento sia quella del linguaggio. Abitare la casa del linguaggio significa abitare
una casa di cui non siamo i padroni ma solamente gli ospiti. Il linguaggio detta le condizioni
all’essere di godimento del soggetto. Ma il godimento non rispetta integralmente l’azione del
linguaggio. Il ritorno del godimento sul soggetto indica infatti che v’è del godimento che la stessa
azione negativizzante del linguaggio non è riuscita a simbolizzare in una modalità esaustiva. Di qui
il problema dei diversi “modi secondari” – se consideriamo quello del linguaggio come quello
26
Sul concetto di disinserzione o di “disancoraggio”, di “sconnessione” (debranchement), vedi IRMA, La
Conversazione di Arcachon. Casi rari: gli inclassificabili nella clinica, Astrolabio, Roma 1999, p. 132.
12
primario – di trattare questi ritorni del godimento che, come tali, non definiscono la posizione del
soggetto psicotico ma del soggetto umano come tale, come essere che abita il linguaggio.
A questo punto è però possibile introdurre una demarcazione generale: esiste, in effetti, un
trattamento soggettivo del godimento non negativizzato dall’universale del linguaggio che sfrutta la
risorsa della castrazione simbolica, che, dunque, utilizza il dispositivo dell’Edipo come dispositivo
simbolico fondamentale per trattare il reale del godimento. Questa via è quella della nevrosi.
Dall’altra parte esistono modalità plurali di trattare questi ritorni del godimento non simbolizzato
senza l’ausilio dell’Edipo. Il soggetto psicotico è colui che incarna meglio questo problema di
trovare una soluzione al ritorno reale del godimento – ovvero un suo trattamento possibile – senza
però poter ricorrere al trattamento standard dell’Edipo.
Qual è, dunque, la forma tipica del trattamento del godimento nella nevrosi? La riposta di Freud
e di Lacan è: il sintomo. È, in effetti, il sintomo che nella nevrosi si configura come la modalità
tipica di trattamento soggettivo del godimento. Questo trattamento sintomatico del godimento
implica, secondo Freud, un paradosso. Per un verso, infatti, il sintomo segnala ciò che del
godimento viene interdetto come tale dalla Legge edipica, mentre, per un altro verso, esso indica la
modalità di realizzazione inconscia della soddisfazione pulsionale. Qui possiamo cogliere all’opera
la funzione strutturante della castrazione simbolica. Perché il sintomo è un prodotto della
castrazione simbolica in quanto, come “formazione di compromesso” (per utilizzare una definizione
classica di Freud) esso interdice il godimento, lo vieta ma solo in quanto avvita sull’interdizione
medesima la realizzazione del soddisfacimento interdetto. Per fare un altro esempio possiamo
riferirci rapidamente alla funzione della zona erogena. La zona erogena si costruisce, infatti, a
partire dalla funzione della castrazione simbolica: la perdita dell’oggetto – orale, anale, ecc. – viene
sancita dalla castrazione e questa perdita, questa sottrazione struttura la zona erogena come una
lacuna, una cavità, un punto vuoto diventa la condizione sulla quale si organizza il movimento della
pulsione finalizzato – come chiarisce magistralmente Lacan nel corso del Seminario XI – non a
chiudersi sull’oggetto ma a costeggiare ripetutamente quella cavità prodotta dalla sua perdita.
Anche in questo caso si vede bene come la sottrazione dell’oggetto interdetto del godimento diventi
la condizione per realizzare un godimento supplementare capace di compensare la perdita originaria
dell’oggetto.
Se ora prendiamo in esame il funzionamento del soggetto psicotico colpisce immediatamente la
sregolazione pulsionale delle zone erogene. Questa sregolazione è l’indice di una de-erotizzazione
di fondo del corpo. Si può ripensare a questo proposito all’esempio di quel paziente che avvertiva la
propria bocca come un buco reale che doveva poter riempire illimitatamente. In questo caso non c’è
in primo piano la dimensione della soddisfazione inconscia clandestina che caratterizza invece il
godimento nevrotico come trasgressivo rispetto alla Legge edipica. In questo caso non c’è alcuna
trasgressione della Legge, ma la zona erogena non si è localizzata come tale poiché non c’è stata
una effettiva sottrazione di godimento, una esteriorizzazione dell’oggetto perduto come effetto
dell’azione simbolica della castrazione e, di conseguenza, ciò che s’impone al soggetto è il buco del
corpo come reale, come voragine che aspira dall’interno (in un’altra paziente questa degradazione
del buco simbolico al buco reale avveniva nella forma della sensazione angosciante che i confini del
corpo potessero espandersi, angoscia insostenibile, panica, che poteva attenuare solo rifugiandosi in
un armadio grazie al quale poteva ritrovare, per così dire, un limite a questa espansione reale del
godimento).
Lo scatenamento psicotico indica – all’opposto della soluzione edipica della nevrosi –
un’impossibilità per il soggetto di trattare in alcun modo il reale del godimento. Nel tempo
contingente dello scatenamento – rotto l’argine della compensazione immaginaria – nessuna
operazione soggettiva può contrastare il ritorno del godimento.
In “alternativa” all’effetto devastante dello scatenamento possiamo isolare almeno tre
operazioni che il soggetto psicotico può promuovere per verificare la possibilità di un trattamento
non-edipico (ovvero che non può sfruttare la risorsa della castrazione simbolica) del godimento.
Esse sono: la compensazione immaginaria, la metafora delirante e la supplenza.
13
Sulla compensazione immaginaria ci siamo già soffermati. Occorre solo aggiungere che essa si
presenta come una modalità di chiusura della psicosi che si ordina come un annodamento tra
immaginario e reale senza il soccorso della mediazione simbolica. Nella compensazione è, infatti,
come abbiamo visto, attraverso un’identificazione massiva all’altro speculare che il soggetto argina
e contiene il reale del godimento non normato dalla castrazione simbolica. Ma abbiamo altresì
potuto vedere come in questo caso il soggetto resti esposto al rischio contingente del cattivo
incontro che – facendo saltare l’adesività reciproca della coppia immaginaria – può far deflagrare la
scompensazione psicotica vera e propria.
La seconda operazione è quella della metafora delirante. Essa è una produzione immaginaria
che però può assumere la funzione di una metafora, ovvero la funzione di localizzare, di ordinare, di
limitare l’invasione di godimento che il soggetto è costretto a subire. La temporalità della metafora
delirante suppone quella dello scatenamento essendo essa stessa il modo del soggetto per
ricostruire, per rammendare la realtà frammentata dalla crisi psicotica vera e propria. Con la
metafora delirante il soggetto s’impegna nel ridare un nuovo senso al mondo, un senso che tenga
conto di ciò che è avvenuto con lo scatenamento. Per questa ragione il delirio si configura come un
vero e proprio lavoro soggettivo finalizzato a ristrutturare la realtà del soggetto e il suo rapporto con
l’Altro. Più interessante per il nostro discorso è invece l’operazione di supplenza, la quale come tale
non suppone affatto che vi sia stato lo scatenamento della psicosi, poiché essa si caratterizza per
essere l’espressione del modo soggettivo di impedire tout court lo scatenamento; è ciò che avviene
per esempio, secondo Lacan, nel caso Joyce.27 L’elemento che accomuna la compensazione
immaginaria alla supplenza consiste allora proprio nel fatto che sia la compensazione che la
supplenza sono modalità di impedire lo scatenamento, ovvero di mantenere il soggetto al di qua del
buco della psicosi. Nondimeno, mentre la prima è integralmente orientata dal registro immaginario
– la compensazione immaginaria è l’effetto di un’identificazione speculare –, la seconda implica
invece un lavoro significante. Rispetto alla temporalità dello scatenamento la supplenza si configura
come un tempo soggettivo “fuori scatenamento”. La supplenza è, in effetti, per principio in
opposizione allo scatenamento. In questo senso essa indica un’operazione di significantizzazione
del godimento che avviene, però, senza il ricorso della soluzione standard offerta dall’Edipo.
Da un punto di vista logico la supplenza implica una sostituzione. Qualcosa prende il posto di
qualcos’altro. In questo senso essa è affine con la metafora perché vi condivide, appunto, il
movimento della sostituzione insieme al suo effetto, ovvero quello di esercitare una stabilizzazione
della catena significante la quale trova un punto di capitonamento proprio nella condensazione
metaforica. Più specificatamente l’insegnamento di Lacan ci conduce a distinguere una supplenza
generalizzata da una supplenza ristretta. Se la prima risponde all’impossibilità per l’essere umano
di realizzare il rapporto sessuale, ovvero di fare e di essere Uno con l’Altro, e dà luogo all’amore
come supplenza, appunto, dell’impossibilità strutturale del rapporto sessuale, la seconda – la
supplenza ristretta – si riferisce alla sostituzione di un significante assente perché forcluso – quello
del Nome-del-Padre –, significante necessario perché l’insieme stesso dei significanti mantenga un
proprio ordine.28
È questa forma ristretta della supplenza che investe specificatamente il campo della clinica delle
psicosi fuori scatenamento.
27
Sul caso Joyce e sul valore di paradigma che esso assume nell’ultimo Lacan, vedi il bel saggio di A. Villa, “Il caso
Joyce: osservazioni sul sintomo col ‘th’”, in Studi di psicoanalisi – Annali della Sezione Clinica di Milano, n. 1, La Vita
Felice, Milano 1999, pp. 145-161.
28
Il significante rispetto al quale si esercita la supplenza è dunque quello del Nome-del-Padre come Altro dell’Altro,
ovvero come significante speciale che fa da supporto all’insieme dei significanti. Da questo punto di vista l’ultimo
insegnamento di Lacan – laddove insiste sull’inesistenza dell’Altro dell’Altro, radicalizzando così il concetto di
struttura, ovvero mettendone in risalto il fatto che la struttura stessa è bucata, che c’è un buco strutturale che inerisce
all’ordine simbolico come tale – giunge inevitabilmente ad estendere il concetto di supplenza ben al di là dell’orizzonte
circoscritto della psicosi. Piuttosto la supplenza viene investita di un valore universale, poiché tutti gli uomini sono
confrontati con questo reale non simbolizzato, ovvero all’impossibilità che esista un fondamento unificatore dell’ordine
simbolico.
14
La natura simbolica della supplenza si rivela in primo luogo laddove si consideri che è proprio
attraverso di essa che il soggetto può arrivare a farsi – come afferma Lacan a proposito di Joyce –
un “nome proprio”. Il riferimento al nome proprio tocca il cuore dell’operazione di supplenza nella
sua differenza rispetto alla compensazione. Se in quest’ultima il soggetto si aggancia
narcisisticamente all’immagine speculare dell’altro, nella supplenza il soggetto non aderisce, per
così dire, all’essere dell’altro ma realizza una sorta di individuazione nel senso che, appunto,
individua quel soggetto differenziandone l’identità (l’ego direbbe l’ultimo Lacan) da quella degli
altri.
In secondo luogo la natura simbolica della supplenza implica la produzione di un’opera. È
evidente che quest’opera non ha come modello necessariamente l’Ulisse di Joyce (modello “alto”
privilegiato da Lacan) ma può benissimo realizzarsi attraverso opere – od operazioni – tra le più
quotidiane. Ciò che conta è che queste operazioni oggettivino il lavoro del soggetto finalizzato a
ricucire lo strappo lasciato in lui dall’assenza forclusiva del Nome-del-Padre. A riguardo è vero che
il caso Joyce resta esemplare poiché in esso il “farsi un nome” coincide in modo assoluto con il
prodotto, ovvero con l’opera stessa di Joyce…
Per fare un solo esempio clinico di supplenza posso citare il caso di una mia paziente – una
giovane donna psicotica – che ha messo a punto “sotto transfert”, ovvero nel corso della sua cura
analitica, una supplenza ordinata attorno alla sua attitudine soggettiva verso la pittura che si
orienterà progressivamente nell’attività di ricopiare le opere dei “grandi padri della pittura
contemporanea”. Farsi “copiatrice” dell’opera dei padri consente a questo soggetto di raggiungere
progressivamente una stabilizzazione efficace della psicosi. Stabilizzazione che non più sostenuta,
come in passato, da una compensazione immaginaria ma da un utilizzo del registro immaginario –
fare la copia – di tipo simbolico – iscrivere il Nome-del-Padre – che le consente altresì di farsi un
nome proprio riconosciuto socialmente a partire proprio dal suo lavoro di “copiatrice”. Il suo farsi
un nome si realizza attraverso un’identificazione ai nomi del padre.
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