1 INTRODUZIONE C‟è bisogno di comunicare, di farsi sentire ma
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1 INTRODUZIONE C‟è bisogno di comunicare, di farsi sentire ma
INTRODUZIONE C‟è bisogno di comunicare, di farsi sentire ma, soprattutto, di farsi vedere. Nella società moderna, “esisti” solo se appari. In televisione, preferibilmente. Ma senza avere anche un piccolo spazio nella “rete” è inutile provarci a farsi conoscere. Internet sono le vetrine moderne. Internet è l‟esplosione di tanti “io” nel mondo che si sono auto elevati a fonti importanti di notizie o ad agganci utili per il proprio business. Un business che non necessariamente si basa sul denaro, ma spesso sulle idee, sui valori, sulla voglia di far conoscere i “propri validi motivi” perché gli altri sappiano che esistiamo. Il Panathlon Club è presente in Europa e nelle americhe (nord e sud), per un totale di 260 club così suddivisi: 218 in nel “Vecchio Continente”, 40 in America. I soci nel mondo sono complessivamente: 11.430 (10.519 in Europa, 911 nelle americhe). E, a mio modo di vedere, dovrebbero conoscersi tutti. O meglio, iniziare ad andare un o‟ oltre questi semplici numeri e il concetto del “so che esistono”. Lo scopo del Panathlon è quello di diffondere i valori dello sport. L‟unica salvezza per una società in cui niente ha valore. O i valori sono materiali e non certo meritocratici. Dove esiste ancora il concetto de “l‟importante è partecipare”, mentre la visione corretta della vita è quella di darsi degli obiettivi e puntare in alto, sempre, nella logica del “voglio vincere, sapendo accettare la sconfitta, con la quale cresco”. Internet è necessario. Indispensabile. Ma bisogna utilizzarlo sfruttandolo il più possibile. Il semplice sito internet non basta più, soprattutto se poco aggiornato, poco chiaro e ricco di contenuti inutilizzati e inutilizzabili. Qui entra in scena il nuovo club di Verona “Gianni Brera – Università di Verona”, primo al mondo ad essere associato ad un ateneo, si occuperà di comunicazione, ufficio stampa, promuovendo qualsiasi attività (per adesso riguardanti l‟ “Area 1 Triveneto”), semplificando il sito e rendendolo accessibile a tutti, creando una redazione per la cura delle attività on-line e della pubblicazione “Panathlon Planet” con notizie, foto, aggiornamenti rapidi in 1 stile “agenzia”. Comunicando ai giovani. Soprattutto. Perché lo sport lo si inizia (lo si dovrebbe iniziare) a praticare da bambini. Ed è proprio da lì che bisogna partire. Infondendo e “martellando” dimostrando cos‟è lo sport e a cosa serve realmente. Utilizzando ovviamente mezzi e linguaggio dei coetanei: social network (face book e non solo), chat (skype, Messenger), programmi di “video sharing” (Youtube). Con questa tesi vorrei che si capisse cos‟è e che potenzialità ha l‟utilizzo di Internet. Partendo dalla descrizione dei mezzi appena elencati per poi passare a spiegare cos‟è e di cosa si occupa il Panathlon. Approfondendo tutti i temi in cui affonda le proprie radici. Perché troppo spesso entrambe le cose sfuggono proprio ai soci stessi. Una tesi “divulgativa”, che potrebbe essere presa come dispensa da chiunque. Per capire o ricordarsi dell‟era in cui viviamo e delle opportunità che il Panathlon non può farsi scappare. L‟età media del Club tocca i livelli più “alti” nella fascia d‟età tra i 60 e i 70. Tra i 30/40 c‟è solo un 3,25 % di soci. Nella fascia che va dai 40 ai 50 si arriva ad un 11,15 percento, sale la percentuale tra i 50 e i 60 (18,15), mentre gli over 70 sono il 12,06 %. Il numero di utenti internet nel mondo dovrebbe passare da 1,5 miliardi del 2008 a 2,2 miliardi nel 2013, con una copertura del 43% in Asia e del 17% in Cina. Secondo un Rapporto di Forrester, “Nonostante la crisi economica globale, un numero crescente di consumatori si converte ogni anno a internet”. Il ricercatore di Forrester, Zia Daniell Wigder, prevede una crescita del 45% tra il 2008 e il 2013. L‟Asia rafforza la propria posizione, passando dal 38% al 43%, mentre l‟America del Nord non rappresenterà che il 13% della popolazione connessa e l‟Europa il 22% (nel 2008 avevano fatto registrare rispettivamente il 17% e il 28%). L‟America latina si manterrà intorno all‟11%. Grande risultato per la Cina che nel 2013, con un tasso di crescita dell‟11% l‟anno, arriverà a coprire 377,1 milioni di utenti, vale a dire circa il 17% degli utenti del mondo, piazzandosi davanti agli Stati Uniti (260,5 milioni). 2 Come gli americani, nei prossimi cinque anni i principali paesi industrializzati registreranno una debole crescita (tra 1-3% l‟anno), restando molto dietro al Medio Oriente e all‟Africa (+13%). In Europa, sottolinea ancora lo Studio di Forrester, i Paesi meno connessi saranno driver della crescita, tra questi Italia, Spagna, Russia e Turchia. In Francia, il numero di utenti internet dovrebbe arrivare a 45,9 milioni nel 2013, con un tasso di penetrazione del 73% (60% nel 2008), mentre in Germania del 76% e in Gran Bretagna dell‟81%. Un‟analisi sulla moderna comunicazione inserita in un contesto di forte radicamento ai principi nativi, non un ossimoro concettuale ma una volontà di legare dei sani propositi con le possibilità di renderli fruibili a tutti. Perché il Panathlon dovrebbe essere di tutti. 3 Capitolo 1 LA MODERNA COMUNICAZIONE E IL PANATHLON 1.1. Impossibile prescindere da Internet Detto in maniera chiara: con una connessione internet si accede al mondo. E con una connessione internet, il mondo accede a te. Costituita da alcune centinaia di milioni di computer collegati tra loro con i più svariati mezzi trasmissivi, Internet è anche la più grande rete di computer attualmente esistente, motivo per cui è definita "rete delle reti" o "rete globale". Il Panathlon deve, dovrebbe, utilizzarlo e “spremerlo” al massimo. In quanto rete di telecomunicazione (una rete di computer è una tipologia di rete di telecomunicazione) è invece seconda alla Rete Telefonica Generale, anch'essa mondiale e ad accesso pubblico ma coprente il pianeta in modo più capillare di Internet, motivo per cui inizialmente è stata largamente utilizzata per l'accesso a Internet degli utenti comuni, e tutt'oggi lo è ancora, anche se, in un futuro non troppo lontano, con il miglioramento della tecnologia Voip, è destinata a scomparire inglobata dalla stessa Internet. Internet offre i più svariati servizi, i principali dei quali sono il World Wide Web e la posta elettronica, ed è utilizzata per le comunicazioni più disparate: private e pubbliche, lavorative e ricreative, scientifiche e commerciali. I suoi utenti, in costante crescita, nel 2008 hanno raggiunto quota 1,5 miliardi e, visto l'attuale ritmo di crescita, si prevede che saliranno a 2,2 miliardi nel 2013. Il Panathlon è mondiale. E deve utilizzare mezzi all‟altezza della propria importanza, dei valori che vuole trasmettere, dell‟estensione che si è prefissata di raggiungere dal 1951 ad oggi. Anzi, a domani. Internet può essere vista come una rete logica di enorme complessità, appoggiata a strutture fisiche e collegamenti di vario tipo che interconnette un umano ad un altro tramite, praticamente, qualsiasi tipo di computer o elaboratore elettronico oggi o in futuro esistente o immaginabile, tanto da 4 considerarlo quasi un mass media. Da qualche anno è ormai possibile collegarsi a questa grande rete da dispositivi mobili come palmari o telefoni cellulari. Generalmente Internet è definita “la rete delle reti”. Infatti Internet è costituita da tutta una serie di reti, private, pubbliche, aziendali, universitarie, commerciali, connesse tra di loro. Già prima della sua nascita, esistevano reti locali, principalmente nei centri di ricerca internazionali, nei dipartimenti universitari. Un grande risultato della nascita e dell'affermazione di Internet è stato quello di creare uno standard de facto tra i protocolli di comunicazione tra le varie reti, consentendo ai più diversi enti e agenti (diversi governi, diverse società nazionali o sovranazionali, tra i vari dipartimenti universitari) di scambiare dati mediante un protocollo comune, il Tcp/Ip, relativamente indipendente da specifiche hardware proprietarie, da sistemi operativi, dai formati dei linguaggi di comunicazione degli apparati di comunicazione (modem, router, switch, hub, bridge, gateway, repeater, multiplexer). L'origine di Internet risale agli anni sessanta, ad opera degli americani, che misero a punto durante la Guerra Fredda un nuovo sistema di difesa e di controspionaggio. La prima pubblicazione in cui si teorizza una rete di computer mondiale ad accesso pubblico è On-line man computer communication dell'agosto 1962, pubblicazione scientifica degli statunitensi Joseph C.R. Licklider e Welden E. Clark. Nella pubblicazione Licklider e Clark, ricercatori del Massachusetts Institute of Technology, danno anche un nome alla rete da loro teorizzata: "Intergalactic Computer Network". Ma prima che tutto ciò diventi una realtà è necessario attendere fino al 1991 quando il governo degli Stati Uniti d'America emana la High performance computing act, la legge con cui per la prima volta viene prevista la possibilità di ampliare, ad opera dell'iniziativa privata e con finalità di sfruttamento commerciale, una Internet fino a quel momento rete di computer mondiale di proprietà statale e destinata al mondo scientifico. Sfruttamento commerciale che subito viene messo in atto anche dagli altri Paesi. Nel 1993 il CERN, l'istituzione europea dove nasce il World Wide Web, decide di rendere pubblica la tecnologia alla base del World Wide Web in modo che sia liberamente implementabile da chiunque. A questa decisione fa seguito 5 un immediato e ampio successo del World Wide Web in ragione delle funzionalità offerte, della sua efficienza e, non ultima, della sua facilità di utilizzo. Da tale successo ha inizio la crescita esponenziale di Internet che in pochissimi anni porterà la rete delle reti a cambiare per sempre la società umana rivoluzionando il modo di relazionarsi delle persone come quello di lavorare tanto che nel 1998 si arriverà a parlare di “nuova economia”. Utenti internet espressi in decine di migliaia per nazione, dati 2007 1.2 Breve storia di Internet e l’importanza del “Web” per il Panathlon Come il Panathlon, anche Internet ha una storia abbastanza recente. E, parallelamente, un‟espansione rapidissima. Il progenitore e precursore della rete Internet è considerato il progetto Arpanet, finanziato dalla Defence Advanced Research Projects Agency (inglese: Darpa, Agenzia per i Progetti di ricerca di Difesa Avanzata), una agenzia dipendente dal Ministero della Difesa statunitense (la Guarra fredda era in atto e bisognava intuire un metodo di comunicazione esclusivo, in caso 6 di attacco). In una nota del 25 aprile 1963, Joseph C.R. Licklider aveva espresso l'intenzione di collegare tutti i computer e i sistemi di time-sharing in una rete continentale. Avendo lasciato l'Arpa per un posto all'Ibm l'anno seguente, furono i suoi successori che si dedicarono al progetto Arpanet. Il contratto fu assegnato all'azienda da cui proveniva Licklider, la Bolt, Beranek and Newman (Bbn) che utilizzò i minicomputer di Honeywell come supporto. La rete venne fisicamente costruita nel 1969 collegando quattro nodi: l'Università della California di Los Angeles, l'Sri di Stanford, l'Università della California di Santa Barbara, e l'Università dello Utah. L'ampiezza di banda era di 50 Kbps. Negli incontri per definire le caratteristiche della rete, vennero introdotti i fondamentali Request for Comments, tuttora i documenti fondamentali per tutto ciò che riguarda i protocolli informatici della rete. La super-rete dei giorni nostri è risultata dall'estensione di questa prima rete, creata sotto il nome di Arpanet. I primi nodi si basavano su un'architettura client/server, e non supportavano quindi connessioni dirette (host-tohost). Le applicazioni eseguite erano fondamentalmente Telnet e i programmi di File Transfer Protocol (Ftp). La posta elettronica, invece, fu inventata da Ray Tomlinson della Bbn nel 1971, derivando il programma da altri due: il Sendmsg per messaggi interni e Cpynet, un programma per il trasferimento dei file. L'anno seguente Arpanet venne presentata al pubblico, e Tomlinson adattò il suo programma per funzionarvi: divenne subito popolare, grazie anche al contributo di Larry Roberts che aveva sviluppato il primo programma per la gestione della posta elettronica: Rd. In pochi anni, Arpanet allargò i suoi nodi oltreoceano, contemporaneamente all'avvento del primo servizio di invio pacchetti a pagamento: Telenet della Bbn. In Francia inizia la costruzione della rete Cyclades sotto la direzione di Louis Pouzin, mentre la rete norvegese Norsar permette il collegamento di Arpanet con lo University College di Londra. L'espansione proseguì sempre più rapidamente, tanto che il 26 marzo del 1976 la regina Elisabetta II d'Inghilterra spedì un'e-mail alla sede del Royal Signals e Radar Establishment. 7 1.3 Il Panathlon Club “Gianni Brera – Università di Verona” Il nuovo club1, nato a Verona alla fine del 2009, ha una funzione particolare, dedicata soprattutto alla comunicazione. E‟ il primo Panathlon Club al mondo ad essersi unito ad una Università, nello specifico con la facoltà di Scienze Motorie ma con la partecipazione di studenti di Scienze della Comunicazione. Un gruppo di lavoro dedito alla promozione di qualsiasi attività riguardi ogni singolo club dell‟”Area 1 Triveneto”. E‟ stata creata una redazione, composta da sei giovani giornalisti che cureranno, quindi, il “Panathlon Planet” - la pubblicazione ufficiale del Panathlon -, la realizzazione del nuovo portale, con una forma più snella, veloce, giovanile, sportiva, dedita alle news del Panathlon e dello sport in generale - con un taglio moderno, veloce e diverso -. Non solo, gestiranno la pagina ufficiale di Facebook, creata appositamente per la comunicazione nel social network che vanta più di 400 milioni di iscritti attivi e la creazione di un collegamento con Youtube, per la pubblicazione di video su eventi, interviste, brevi filmati sullo sport. Il club è il numero 406 ed è formato in gran parte da studenti e professori. A tenere a battesimo il nuovo club è stato il Presidente Enrico Prandi. Fanno parte del Direttivo: il presidente Mattia Toffolutti, i vicepresidenti Marco Iridile e Davide Caldelli, i consiglieri Claudio Camatti, Adalberto Scemma e Enrico Pirondini. Il segretario è una vecchia conoscenza del calcio italiano: Romano Mattè, ex commissario tecnico delle Nazionali di Indonesia e del Mali. “Alla mia prima partecipazione all'assemblea dei presidenti del Panathlon International di tutto il mondo chiesi la parola affermando che: "Se il Panathlon dopo 50 anni di esistenza veniva chiamato Pantheon, Biathlon, Pentatlon… e così via discorrendo, voleva dire che qualcosa nella comunicazione non aveva funzionato”. Esordisce così Massimo Rosa, il Governatore dell‟Area 1 Triveneto. 1 Il merito di questa operazione è del giornalista scrittore mantovano Adalberto Scemma, firma storica del “Guerin Sportivo” e professore dell‟Università di Verona. 8 “Da lì è partita la mia personale “battaglia” per sviluppare il mio concetto che vedeva protagonista la ricerca di soluzioni per fare in modo che si comunicasse maggiormente. Il club di Verona, durante la mia presidenza, è apparso sul nostro quotidiano cittadino, L'Arena, 460 volte, oltre ai diversi servizi su Telearena e Telenuovo, ed alle interviste radiofoniche – specifica il Governatore, esperto di comunicazione -. Come è apparso su la Gazzetta dello Sport in maniera significante per il progetto “Tribuna Fair Play”, per il quale ho ricevuto il premio dall‟ “International Committee for Fair Play” a Budapest nel 2006, venendo successivamente invitato a Roma dall‟allora ministro dello sport Giovanna Melandri. Questo ha fatto sì che nel mondo dello sport veronese il nostro sodalizio fosse conosciuto, raggiungendo così l'obiettivo prefissato. Ma se l'obiettivo era stato raggiunto nel mondo esterno, nel mondo interno c'era ancora da lavorare. Così una volta divenuto governatore dell‟Area 1 Triveneto ho ideato “Panathlon a porte aperte, quattro chiacchiere con il Direttivo”. Di cosa si tratta? Vista la difficoltà dei soci a rispondere alla domanda: “Cos‟è il Panathlon”, ho pensato di andare con l‟intero direttivo nei club per renderli partecipi ai lavori della nostra area e, quindi, per incontrare i soci e spiegare loro chi è il Panathlon International, il Distretto Italia, l‟Area 1 Triveneto. Quali sono le finalità, l‟attività, i programmi, i dati relativi al cosmo Panathlon, in parole povere tutto ciò che i soci non conoscono. L‟iniziativa ha avuto successo, tant‟è che da due anni siamo chiamati per questi incontri”. 9 10 1.4 Facebook e Youtube Facebook2 (inizialmente noto come Thefacebook) è un sito web di social network, di proprietà della Facebook, Inc., ad accesso gratuito. Secondo i dati forniti dal sito stesso, nel 2010 il numero degli utenti attivi ha raggiunto quota 400 milioni in tutto il mondo. In base all'acquisto di una quota dell'1,6% da parte di Microsoft nel 2007 per 240 milioni di dollari e all'acquisto del 2% per 200 milioni di dollari da parte di un gruppo di investitori russi, il valore del sito è stato stimato di 10 miliardi di dollari. Il sito nel 2009 è divenuto profittevole segnando il primo bilancio in attivo. Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Potenziale socio del Panathlon? 2 Il nome del sito si riferisce agli annuari con le foto di ogni singolo membro (facebook) che alcuni college e scuole preparatorie statunitensi pubblicano all'inizio dell'anno accademico e distribuiscono ai nuovi studenti ed al personale della facoltà come mezzo per conoscere le persone del campus. 11 1.4.1 Storia di Facebook è stato fondato il 4 febbraio 2004 da Mark Zuckerberg, all'epoca studente diciannovenne presso l'università di Harvard, con l'aiuto di Andrew McCollum e Eduardo Saverin. Per la fine del mese, più della metà della popolazione universitaria di Harvard era registrata al servizio. A quel tempo, Zuckerberg fu aiutato da Dustin Moskovitz e Chris Hughes per la promozione del sito e Facebook si espanse all'Università di Stanford, alla Columbia University e all'Università Yale. Questa espansione continuò nell'aprile del 2004 quando si estese al resto della Ivy League, al MIT, alla Boston University e al Boston College. Alla fine dell'anno accademico, Zuckerberg e Moskovitz si trasferirono a Palo Alto in California con McCollum, che aveva seguito un stage estivo alla Electronic Arts. Affittarono una casa vicino all'Università di Stanford dove furono raggiunti da Adam D'Angelo e Sean Parker. Il dominio attuale, facebook.com, fu registrato soltanto in seguito, tra l'aprile e l'agosto 2005, e molte singole università furono aggiunte in rapida successione nell'anno successivo. Col tempo, persone con un indirizzo di posta elettronica con dominio universitario (per esempio .edu, .ac.uk ed altri) da istituzioni di tutto il mondo acquisirono i requisiti per parteciparvi. Quindi il 27 febbraio 2006 Facebook si estese alle scuole superiori e grandi aziende. Dall'11 settembre 2006, chiunque abbia più di 12 anni può parteciparvi. Gli utenti possono fare parte di una o più reti partecipanti, come la scuola superiore, il luogo di lavoro o la regione geografica. Se lo scopo iniziale di Facebook era di far mantenere i contatti tra studenti di università e licei di tutto il mondo, con il passare del tempo si è trasformato in una rete sociale che abbraccia trasversalmente tutti gli utenti di Internet. Dal settembre 2006 al settembre 2007 la posizione nella graduatoria del traffico dei siti è passata secondo Alexa dalla sessantesima alla settima posizione. Dal luglio 2007 figura nella classifica dei 10 siti più visitati al mondo ed è il sito numero uno negli Stati Uniti per foto visualizzabili, con oltre 60 milioni di foto 12 caricate settimanalmente. In Italia c'è stato un boom nel 2008: nel mese di agosto si sono registrate oltre un milione e trecentomila visite, con un incremento annuo del 961%. Il terzo trimestre ha poi visto l'Italia in testa alla lista dei paesi con il maggiore incremento del numero di utenti (+135%). Secondo i dati dell'osservatorio indipendente Inside Facebook, gli utenti italiani nel mese di settembre 2009 sono circa 18 milioni. Come funziona Gli utenti creano profili che spesso contengono fotografie e liste di interessi personali, scambiano messaggi privati o pubblici e fanno parte di gruppi di amici. La visione dei dati dettagliati del profilo è ristretta ad utenti della stessa rete o di amici accettati dall'utente stesso. Secondo TechCrunch, "circa l'85% degli studenti dei college ha un profilo sul sito. Di quelli che sono iscritti il 60% accede al sito quotidianamente. Circa l'85% almeno una volta la settimana, e il 93% almeno una volta al mese". Secondo Chris Hughes, il portavoce per Facebook, "Le persone passano circa 19 minuti al giorno su Facebook". Gli iscritti a Facebook possono scegliere di aggregarsi a una o più reti, organizzate per città, posto di lavoro, scuola e religione. Facebook è paragonabile a Myspace, ma una significativa differenza tra le due piattaforme è il livello di personalizzazione della pagina personale. Mentre Myspace consente agli utenti di decorare i profili usando l'HTML e il CSS, su Facebook è possibile inserire solo del testo. Dal 2007 su Facebook è disponibile il Marketplace, che consente agli utenti di inserire annunci, che sono visibili solo da utenti presenti nella stessa rete. Facebook include alcuni servizi che sono disponibili sul dispositivo mobile, come la possibilità di caricare contenuti, di ricevere e rispondere ai messaggi, di mandare e ricevere poke, scrivere sulla bacheca degli utenti o semplicemente la possibilità di navigare sul network. 13 1.4.2 Storia di Lo scopo di YouTube 3, invece, è quello di ospitare solamente video realizzati direttamente da chi li carica, ma molto spesso contiene materiale di terze parti, come spettacoli televisivi e video musicali. E‟ stato fondato nel febbraio 2005 da Chad Hurley (amministratore delegato), Steve Chen (direttore tecnico) e Jawed Karim (consigliere), che erano stati tutti dipendenti di PayPal. Il primo video caricato, il 23 aprile del 2005, è stato Me at the zoo da Jawed Karim. Il video ha una durata di 19 secondi ed è stato girato di fronte alla gabbia degli elefanti dello zoo di San Diego. [1] YouTube è il sito web che presenta il maggior tasso di crescita. Nel giugno 2006 l'azienda ha comunicato che quotidianamente vengono visualizzati circa 100 milioni di video, con 65.000 nuovi filmati aggiunti ogni 24 ore. L'azienda di analisi Nielsen/NetRatings valuta che il sito abbia circa 20 milioni di visitatori al mese. L'incremento di popolarità che il sito ha avuto dalla sua fondazione gli ha permesso di diventare il quarto sito più visitato nel mondo dopo Google, MSN e Yahoo!. Nell'agosto 2006 Sony acquista per 65 milioni di dollari il sito concorrente Grouper. Questo evento lascia presupporre all'epoca che il valore di YouTube sul mercato potesse essere di circa un miliardo di dollari, ma la stima si rivela sottodimensionata, perché il 10 ottobre 2006 Google compra YouTube per 1,65 miliardi di dollari pagati in azioni proprie. Dal 19 giugno 2007 YouTube è disponibile in diverse lingue, tra cui l'italiano. Ha subìto anche diverse censure, in vari paesi del Globo. E questo significa che, laddove non c‟è libertà d‟espressione e di pensiero, un mezzo come Internet e, più nello specifico come Youtube, danno fastidio, creano finestre sulla realtà incontrollate che potrebbero far conoscere verità scomode: il 3 dicembre 2006, in Iran il “Comitato per la Propagazione della Virtù e la Prevenzione dal vizio” ha affermato che “I siti ebrei come You Tube, con i loro video provocanti e peccaminosi, sono il simbolo della decadenza del perverso occidente”. 3 Il cui motto è emblematico: “Broadcast Yourself”, ovvero: pubblicizza te stesso”. 14 Pertanto ha bloccato l'accesso a YouTube e ad altri siti nel tentativo di impedire la diffusione di musica e film stranieri ritenuti moralmente viziati. Youtube è stato bloccato anche in Tunisia dalla Pta (Pakistan Telecomunication Authority) e da decisione del governo tunisino dal novembre 2007. Durante la settimana dell'8 marzo 2007, YouTube è stato bloccato in Thailandia. Molti blogger hanno ritenuto che le ragioni di tale impedimento sono state dovute al video dell'intervista del Primo Ministro Thaksin Shinawatra alla CNN. Peraltro, il governo non ha smentito o confermato le ragioni della censura. YouTube è comunque tornato accessibile dal 10 marzo. Nell'agosto 2007 la giunta militare birmana ha chiuso l'accesso a YouTube per fermare i filmati di denuncia dei massacri dei dimostranti, in gran parte monaci, che chiedevano una maggiore libertà. Nel Marzo 2008 YouTube è stato bloccato in Cina per aver ospitato nella propria piattaforma e reso visibile un video dove vi erano filmate le violenze ed i disordini scoppiati in Tibet in quei giorni. Per diffondere l‟utilizzo di questo moderno mezzo,il Panathlon ha indetto anche un concorso4: XVII Congresso internazionale Panathlon International – Stresa 15 maggio 2010. “Come i giovani percepiscono l‟Olimpismo e quale sport vogliono per il futuro”. E i concorrenti dovranno inviare un filmato della durata di massimo 3 minuti da pubblicare proprio su YouTube (titolando i filmati “Congresso virtuale Panathlon”). 4 Sotto, il bando di concorso, in lingua francese, inviato a tutte le sedi del Panathlon International. 15 Non sono solo le persone “comuni” a creare canali su YouTube, ma anche aziende e persone famose, che, caricando video di cui detengono il copyright, aumentano la propria popolarità. I canali ufficiali di YouTube vengono detti “partner”. Artisti, attori, musicisti, calciatori, politici, associazioni, club sportivi, atleti hanno creato un proprio canale personale utilizzando YouTube e nel contempo una strategia comunicativa precisa: visibilità, aggiornamenti in tempo reale delle proprie attività e possibilità di essere sempre “presenti”. 16 1.5 Intervista all’Ingegner Maurizio Monego, presidente della Commissione Culturale del Panathlon International Dottor Monego, come intende lei la comunicazione e come vorrebbe che si comunicasse nel Panathlon? Per spiegare “come intendo la comunicazione” devo accennare al significato che ha per me la parola comunicazione. Provo a semplificare il più possibile. Se partiamo dal significato letterale del verbo latino communicare, la comunicazione è il “fare comune”. Mi soffermerei su questo “fare comune”, un mosaico di tante tessere che legherei al tema che stiamo trattando: il Panathlon, come movimento ideale con finalità eminentemente culturali ed educative. Amicizia, Cultura, Etica e Fair Play sono i 4 pilastri su cui si basa. Gli strumenti di cui oggi disponiamo per comunicare si sono arricchiti ma anche sbilanciati verso una trasmissione essenziale, e per lo più banale, attraverso canali che sono quelli della rivoluzione digitale. Affermatasi da qualche decennio essa marcia ad una velocità che non lascia neanche il tempo di adattarsi ai continui cambiamenti e ai moltiplicati servizi che offre. Sempre più l‟immagine sostituisce la parola. Quest‟ultima viene massacrata (nei telefonini e nelle e-mail sempre più si comunica in codici alfa numerici: dove6, xke, 1 al posto degli articoli, ecc..), snaturata, piegata ad un uso simbolico che da un lato rende rapida la trasmissione ma perde in espressività. Il vocabolario si è paurosamente impoverito; la grammatica e la sintassi sono ostacoli fastidiosi da aggirare eliminando modi e tempi verbali. Una lingua si trasforma, si contamina nel tempo, come è giusto che sia – non sono un fanatico della Accademia della Crusca - ma non deve ignorare la storia e la tradizione culturale di un popolo. Parole come “retorica”, o “ermeneutica” che sono alla base della teoria comunicativa non hanno significato che per pochi. 17 Dico questo perché bisogna fare attenzione a non confondere “comunicazione” con “conoscenza”. Mi viene alla mente il saggio di Mario Perniola, “Contro la comunicazione”, in cui sostiene che “la comunicazione è l‟opposto della conoscenza. È nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti”. Il “fare comune” per una associazione è essenziale perché ne da il senso dell‟esistenza e presuppone l‟organizzazione in un gioco di squadra. Deve partire, a mio avviso, dalla conoscenza, dalla “elaborazione” dell‟informazione, dalla condivisione e anche dal confronto. Richiede dunque il tempo per applicarsi, per riflettere e per tradursi in parole o in immagini. Oggi siamo bombardati di informazioni: la pubblicità ha imposto i suoi meccanismi in tutti i mezzi massmediatici. Prevale la “quantità”, senza nessuna considerazione per la “qualità” dei messaggi e spesso si confonde quella con la cultura, che è altra cosa. Lo spin – l‟attività dei professionisti de della comunicazione pubblicitaria e politica – ha contagiato tutto il mondo della comunicazione. Rende necessario continuamente to put a new spin, “imprimere un nuovo giro, fare una piroetta lasciando da parte gli scrupoli della logica e della morale”. Questa constatazione mi richiama alla mente il concetto di „ballerino‟ espresso da Milan Kundera in La lentezza. La comunicazione verso l‟esterno: Come ho ricordato, il Panathlon è un movimento “culturale” nel campo dello sport. La trasmissione di valori che si propone avviene in due modi essenziali: l‟esempio e l‟abitudine. Lo insegnava già Aristotele (Etica Nicomachea); lo insegna tutta la tradizione educativa e pedagogica dall‟Illuminismo in poi. I panathleti, dunque devono attivare questi due canali in direzione dei giovani. L‟incontro diretto è fondamentale – sia che si pensi al dialogo con gruppi di studenti, meglio se in presenza di testimonials – ma importante è anche fornire indirizzo e guida verso la riflessione e l‟approfondimento personale. 18 Esiste un problema di linguaggio nella comunicazione verso l‟esterno. Tale linguaggio dev‟essere modulato a seconda del target: comunicare con bambini delle scuole elementari non può avvenire con le stesse modalità usate in scuole medie superiori. In un caso sarà il gioco e l‟applicazione pratica e l‟elaborazione dei concetti – si pensi alla carta dei diritti del ragazzo nello sport o alla carta del Fair Play – dev‟esssere guidata dalle maestre. Con adolescenti e giovani si userà la parola e il mezzo audiovisivo per stimolare il dibattito. Altro capitolo fondamentale è la comunicazione rivolta alle istituzioni a cui ci si propone e quella destinata ai mezzi d‟informazione. In questi casi la comunicazione dev‟essere “asciutta”, senza fronzoli retorici, basata sulla concretezza. Il che vuol dire progettualità e riconosciuta utilità sociale. Le stesse che sono necessarie per farsi conoscere nella propria comunità. Sono la qualità e la pregnanza formativa che rendono attenti i giovani, le loro famiglie, la scuola e ricevono l‟apprezzamento e la stima. Che si tratti di una manifestazione pubblica, o di un concorso o di una premiazione, o di una tavola rotonda, l‟importante sono i contenuti e come questi vengono proposti. In questi casi la comunicazione deve servire a preparare l‟evento e a descriverlo poi evidenziandone le valenze e la significatività. La comunicazione interna: Fondamentale è cosa e come si comunica fra i panathleti, fra coloro che devono realizzare il “fare comune”. Il Panathlon ha predisposto una sua rete di comunicazione. Essa si basa sulla Rivista Panathlon International, sul sito web www.panathlon.net, sulle newsletter, sulle lettere e circolari trasmesse dalla Segreteria Generale per via cartacea e per e-mail. C‟è poi un‟attività di pubblicistica, come i Quaderni o i volumi pubblicati (es: Sport, Etiche, Culture) per raccogliere saggi e atti di congressi. I congressi sono poi uno strumento privilegiato di partecipazione perché rinsaldano le amicizie, favoriscono lo scambio fra le persone e le culture 19 rappresentate nel Panathlon, trattano temi importanti con autorevoli relatori di levatura internazionale. Io vorrei che tutti questi strumenti diventassero di uso comune fra i panathleti e di questi nei confronti del mondo esterno. Una rete, infatti è costituita da maglie. Quale che sia la forma di queste maglie, essenziale è che si chiudano. Vale a dire la circolarità delle idee e delle notizie non deve conoscere interruzioni perché ciò comporta la mancanza di feed back, il ritorno. Una rete con troppe smagliature produce pesca scarsa. Per questo vorrei che i club dessero visibilità e informazione delle azioni di servizio che compiono nel loro territorio, fra la loro comunità. Spesso pregevoli azioni non sono fatte conoscere e rimangono episodi di cui non rimane traccia. Lo strumento più indicato e potente è il web. Lo scambio delle informazioni nella rete non è solo un modo per “apparire” (i motori di ricerca ne moltiplicano l‟effetto), ma costruisce prima di tutto un patrimonio di esperienze a cui ciascun club può attingere, copiando, adattando, modificando le idee, in un‟opera di affinamento che meglio si adatta alle opportunità che si offrono alla sua realtà. I club possono e debbono essere i sensori sul territorio. Solo da essi può partire la realizzazione di un osservatorio che possa allargarsi ed essere funzionale alla diffusione di cultura sportiva: attraverso l‟enfatizzazione delle buone pratiche, attraverso la solidarietà e così via. Le notizie che dal Panathlon International vengono fatte arrivare a tutti i livelli dell‟organizzazione devono ricevere risposte, non si devono arenare. Il flusso dev‟essere continuo. Flusso e riflusso. Troppo spesso assistiamo invece alla “caduta della linea”, ma questo riguarda aspetti che non attengono solo alla comunicazione. 20 Il Panathlon è un Club Service mondiale. Ma cosa manca? In quanto basato sul puro volontariato, il Panathlon soffre come tutti i club service, di insufficiente impegno da parte dei suoi associati e di mancanza di sostegno economico. Il “patrimonio sociale” costituito dal mondo del volontariato è tanto più efficace e apprezzato quanto più si rivolge a bisogni primari o essenziali della società e quanto più esso surroga lo Stato nel risolvere tali bisogni. Si pensi alle associazioni nel campo della ricerca medica. Senza la loro azione e il sostegno di Telethon, la ricerca scientifica che lo Stato avvilisce con continui tagli, non sarebbe in grado di assicurare standard accettabili. Si pensi alle associazioni umanitarie nel mondo e così via. Il Panathlon si occupa di sport. Lo sport non è un bisogno primario. Per certe correnti di pensiero è perfino colpevolmente strumentale all‟affermarsi dell‟ideologia capitalista degli egoismi e degli individualismi (vedi la Scuola di Francoforte). La mancanza di stato di necessità – nonostante da più parti si proclami l‟emergenza educativa e si invochi più etica – comporta una certa difficoltà a radunare fonti di finanziamento per progetti (compresi quelli comunicativi). Al Panathlon di oggi manca senso di appartenenza, voglia di tradurre in azione i convincimenti personali, che tuttavia nell‟impegno vengono “dopo” una serie di incombenze e necessità. Gli entusiasmi e l‟orgoglio dei fondatori e dei panathleti che sentivano l‟appartenenza come un segno distintivo di sportivi, di educatori e perfino un distintivo sociale, si sono affievoliti e non hanno trovato nei nuovi soci ricambi altrettanto motivati. Solo la convinzione che il lavoro che il Panathlon può o potrebbe fare nella società non è solo utopia ma è uno strumento di civiltà e una espressione di umanesimo, potrebbe innescare un ciclo virtuoso di espansione fra le nuove generazioni. Manca oggi anche un diffuso senso dell‟internazionalità, quasi che la dessimo per scontata perché c‟è la globalizzazione. Capacità di ascolto delle esigenze e del 21 pensiero di culture diverse dalla nostra; in qualche caso supponenza di essere depositari di chissà quali valori e messaggi, disincanto che spesso sfocia in cinismo; perdita di speranza. Sono alcuni dei difetti più ricorrenti e preoccupanti. Per contro esistono potenziali straordinari, di amicizia, di solidarietà, di voglia di essere utili alla società, che spesso si concretizzano in azioni esemplari da parte dei club più virtuosi. Si tratta dunque di valorizzare gli aspetti positivi e isolare quelli negativi, puntando sull‟orgoglio e sul desiderio di emulazione. In questo la comunicazione diventa essenziale, a patto che sia obiettiva, non retorica, ma accattivante. Sempre più club utilizzano professionalità in questo campo. Lo vediamo dal repertorio dei lavori presentati per il Premio Comunicazione. Vengono realizzati Dvd in forma di trailer, costruiti per essere brevi ma capaci di comunicare l‟essenza delle azioni e le emozioni suscitate. Alcuni sono on line nel nostro sito, ma credo che pochi se ne avvedano. Su questo fronte c‟è da lavorare informando dell‟avvenuta pubblicazione. Lo si fa generalmente con il club protagonista e con il Governatore dell‟Area a cui il club appartiene. Non credo che a cascata l‟informazione si diffonda, spesso per non fomentare gelosie, cosa che trovo abbastanza assurda. Lo sport è un valore dell'umanità. Ma bisogna farlo sbocciare soprattutto nei più giovani. Come giudica la nascita del Panathlon Club dell'Università di Verona? Il Panathlon non ha senso se non parla ai giovani. I panathleti sono prevalentemente persone mature e anziane. Ciò è dovuto alla storia dello sviluppo del movimento panathletico e spesso alcuni club si sono dimostrati insensibili alla necessità di inserire i giovani nelle loro fila. Fino a qualche anno fa anche le donne trovavano difficoltà ad entrare nei club. Oggi molte ricoprono ruoli dirigenziali di primordine. La distanza generazionale si è allargata col tempo e rende più difficile il dialogo con la generazione attuale di giovani, che corre ad una velocità ben diversa da quella della media del corpo sociale. 22 Il difetto in questo senso non è solo del Panathlon. Federazioni sportive, Comitati Olimpici Nazionali e lo stesso Comitato Olimpico Internazionale sono stati finora dominati da dirigenti che sono lì da 40-50 anni, spesso autoreferenziali, più preoccupati di gestire il consenso che non di incidere nella società civile. Qualcosa sta cambiando. Il XIII Congresso del Cio, tenutosi lo scorso Novembre a Copenhagen lo ha dimostrato. Si è registrata una svolta di cui tutte le organizzazioni sportive – Panathlon compreso - faranno bene a prendere atto. Prima lo faranno meglio sarà. L‟analisi di uno sport sempre meno attraente per i giovani e l‟aumento dell‟obesità fra le giovani generazioni hanno indotto a studiare correttivi per non perdere audience, e connessi finanziamenti, allo sport mondiale. Si era cominciato qualche anno fa istituendo la Commissione degli atleti e organizzando manifestazioni sportive internazionali come gli Eyof (European Youts Olympic Festival) o gli Ayof (Australian Youth Olympic Festival). Vi è stata una ulteriore apertura da parte del Cio, ai giovani, coinvolgendoli nel XIII congresso ma anche in tutti i progetti culturali ed educativi; sono stati istituiti i Giochi Olimpici della Gioventù – Yog - (la prima edizione si svolgerà a Singapore nell‟agosto di quest‟anno); ci si è lanciati nella “rivoluzione digitale” adottando e utilizzando tutti gli strumenti della comunicazione giovanile. Su questa via il Panathlon aveva già mosso i primi passi. Con la costituzione dei Panathlon Junior riservati a giovani al di sotto dei 32 anni, da qualche anno si sta cercando di coinvolgere queste forze nel progetto panathletico, liberandoli degli orpelli, incombenze e adempimenti che l‟organizzazione maggiore necessariamente deve avere e consentendo loro di vivere un ambiente più anagraficamente omogeneo e autogestito, senza peraltro rinunciare alle esperienze dei panathleti dei club padrini. È chiaramente un paradosso cercare di parlare ai giovani senza sentire da loro quali sono i sentimenti, quali le domande, quali i mezzi di comunicazione da attivare per far arrivare più efficacemente il messaggio panathletico fra i loro coetanei, nella 23 scuola, nelle società sportive, nelle loro famiglie. Per questo il prossimo Congresso Internazionale del Panathlon, che si terrà a Stresa il 14 e 15 Maggio, ha previsto una sessione di un‟intera mattinata dedicata ai giovani. È stato bandito un concorso per sapere da loro come viene oggi percepito l‟olimpismo, quale sport vogliono per il futuro – similmente a quanto ha fatto il Cio a Copenhagen – quali sono le loro istanze. Due relazioni selezionate fra i materiali che stanno arrivando (quella del Club Junior di San Marino è su Youtube), saranno parte integrante e qualificante del Congresso. I risultati dovranno avere poi una ricaduta nelle attività dei club e dovranno servire ad allargare la fascia di partecipazione di studenti e neo laureati: le forze di cui il Panathlon ha bisogno per rinnovarsi e per proporsi sempre più credibilmente. Da questo punto di vista la nascita di un club come quello sorto all‟interno dell‟Università di Verona è il segno da un lato che la politica culturale del Panathlon ha imboccato la strada giusta, dall‟altro è il segno della nostra speranza. Sempre più le università collaborano con il Panathlon: ne hanno ospitato congressi, hanno docenti che collaborano, studenti che dimostrano crescente interesse o almeno curiosità. Se è vero che essi rappresentano il futuro della società è anche vero quanto sostiene Maturana, che noi genitori e adulti siamo il nostro futuro e lo saremo solo se avremo saputo educare i giovani. Il computer, Internet, i social network (facebook, twitter ecc.), comunicazione di massa globale, brand building. Tutti termini sconosciuti al 90% dei panathleti. Per quanto detto in precedenza, la realtà del Panathlon di oggi è quella di un corpo sociale che è rimasto attardato rispetto all‟affermarsi di mezzi di comunicazione massmediatici che invece costituiscono l‟acqua in cui nuotano i giovani. In realtà le percentuali di analfabeti mediatici non è così alta come si crede. Sono tantissimi gli associati che utilizzano la posta elettronica o accedono ad Internet e perfino compaiono in Face book o scaricano files da Youtube. Anche quando 24 preferiscono stampare e leggere un testo piuttosto che leggerlo direttamente dallo schermo – come faccio io – hanno compreso, il più delle volte inconsapevolmente, che quanto afferma Edgar Morin ne “I sette saperi” o in “Educare per l’era planetaria” sono passaggi necessari all‟educazione del futuro e ci siamo ormai immersi. Potrei citare casi di non pochi ultra ottantenni che mi scrivono abbastanza frequentemente per posta elettronica o navigano con attenzione nel sito del Panathlon e poi consigliano, criticano, stimolano. Saranno pochi, saranno le eccezioni che confermano la regola di una scarsa padronanza e utilizzo del mezzo informatico, ma ci sono e credo che rivelino una realtà nascosta: molti attribuiscono all‟uso dell‟informatica, a cui sempre più il P.I. sta ricorrendo, una difficoltà nella comunicazione, ma in realtà questo è un alibi per non frasi troppo coinvolgere. In molti casi non hanno nulla da comunicare perché l‟attività di certi club è insufficiente. Il processo di apprendimento e utilizzo di tutti i mezzi da lei citati è sicuramente lento, ha delle difficoltà ad affermarsi fra i panathleti, ma è ineluttabile che avvenga. Per accelerarlo in molti casi i responsabili della comunicazione del P.I. hanno cercato di istruire i club per renderli autonomi nella gestione degli spazi del sito loro dedicati. Ciò è avvenuto in varie forme, ma poi i dirigenti dei club cambiano, non sempre le competenze vengono trasmesse a chi subentra e perciò l‟attività in questa direzione da parte del P.I, non deve cessare e anzi sta cercando di rendere sempre più facile la gestione delle notizie. Con l‟istituzione dei Distretti nazionali dovrebbe estendersi la capacità di utilizzo del sito. Se nei club entreranno i giovani questo processo riceverà certamente impulso. Crede che il comunicare "a martello" sia utile per il bene del Panathlon International? Comunicare “a martello” o usare la strategia di spin che ho ricordato, paga quando si tratta di un prodotto: a furia di sentirlo nominare, prima o dopo lo provi. 25 Non credo che un simile meccanismo si attagli alla cultura. Se diamo a questa parola il giusto significato, occorre che la proposta del Panathlon abbia contenuti, contenga stimoli all‟approfondimento individuale, mostri le valenze sociali che esso contiene. Importa poco imporre il logo del Panathlon se poi non si conoscono la natura e le opere del movimento e se queste opere non hanno un consenso e un apprezzamento nella società. I rapporti educativi, come quelli familiari, di amicizia e di amore, rientrano nella sfera dell‟estetica, che dal secolo scorso ha annesso al suo territorio anche lo studio degli stili di vita avvalendosi dei contributi delle scienze umane, storiche e sociali. I rapporti educativi comportano l‟assunzione di obbligazioni impegnative e prolungate nel tempo indipendenti da contrattazioni esplicite e controllate. Per questo l‟attività in campo educativo non può in alcun modo essere assimilata ad alcuna altra attività in cui possa funzionare lo spin. La comunicazione verso l‟esterno dell‟attività del Panathlon dev‟essere assidua e in ogni caso deve avere a monte notizie da comunicare e che queste siano di interesse all‟opinione pubblica. Il martellamento andrebbe usato, piuttosto, con i nostri soci per ricordare loro il senso di essere panathleti e la necessità di agire e comunicare a loro volta. Bisogna tuttavia dosare sapientemente questo tipo di intervento perché se assillante diventa controproducente; se troppo rado produce perdita di senso di appartenenza. Purtroppo (o per fortuna) nella società moderna, per "esistere" bisogna apparire. Preferibilmente in tv. Ma con l'espandersi di internet, anche determinati spazi nel web possono risultare decisivi. Non crede che il "distribuire" il marchio" Panathlon (quasi come fosse un prodotto) sia l'unico modo per far arrivare a tutti la cultura dello sport? Io dico purtroppo. Lo diciamo in tanti, ma la realtà è quella contenuta nella sua domanda. Parole come “disinteresse”, “discrezione”, “moderazione” sembrano quasi bestemmie in un contesto che ha messo in cima alla scala dei valori il successo e il 26 guadagno e l‟apparire ne misura il valore. Quando affermavo implicitamente prima che per avere visibilità occorre aver guadagnato prima la stima, la credibilità, dicevo una cosa che contrasta con la realtà prevalente. In televisione vanno per la maggiore personaggi che non hanno alcuna competenza o abilità, che non hanno nulla da comunicare se non l‟immaginario legato alla loro presenza fisica. Sembrerebbe dunque fuorviante quella mia affermazione: il Panathlon dovrebbe “apparire”, magari a Porta a Porta o nei telegiornali delle edizioni nazionali. Non importa per dire cosa o mostrare quali successi. Le sembra possibile? Nei pochi casi in cui ciò è avvenuto – certamente non nella fascia di maggior ascolto – pochissimi se ne sono accorti. Le trasmissioni più viste sono solitamente ingolfate di ospiti autorevoli, di tuttologi che esprimono opinioni su tutto. I politici non se ne risparmiano una. Poi scopri che non conoscono la Costituzione, ma questo è un dettaglio senza importanza. Gli ospiti, anche i più autorevoli, possono rispondere a domande chilometriche dei conduttori con poco più che dei sì; non hanno spazio per proporre nessun ragionamento completo: brandelli di discorsi si accavallano in confusi alterchi. Quando va bene uno ha a disposizione 20-30 secondi. Mi riesce difficile pensare che in quegli ambienti possa trovare spazio una comunicazione di cosa è e cosa fa il Panathlon. Diversa è la situazione per le emittenti regionali e locali. In questo campo non sono pochi i passaggi televisivi e radiofonici dei nostri club. Nel nostro sito sono raccolte le testimonianze di rubriche settimanali tenute da alcuni club – vedi il caso dei club di San Carlos-Madonado in Uruguay o di Ancona – anche per lunghi periodi; oppure di ampi resoconti di convegni, di interviste con partecipazione di personalità di primissimo piano – vedi gli interventi del Cardinale Bagnasco che parla diffusamente del Panathlon o di docenti, psicologi dello sport, medici dello sport – che tengono banco per minuti; o di notizie di realizzazioni e messaggi panathletici inseriti in trasmissioni su scala nazionale – vedi le citazioni del Panathlon durante la trasmissione della Maratona di Venezia o durante il Memorial Pantani e altre manifestazioni di levatura internazionale. 27 Ci sono club che hanno rapporti con i media delle loro città di alta audience e di elevata frequenza. Potrei citare i casi di Como, di Genova, di Bergamo, di San Marino, di Verona al tempo di Tribuna Fair Play, di Sorocaba e San Paolo in Brasile e di tutti i Club che hanno avuto i riconoscimenti del Premio Comunicazione del Panathlon International (vedi in www.panathlon.net/Attività/Selezione /Premi internazionali) per la capacità di aver saputo imporre l‟immagine e la conoscenza del Panathlon nelle loro realtà. Non è casuale che siano fra i club più produttivi in termini di azioni e di diffusione di cultura sportiva. Non credo, dunque che il Panathlon debba imporsi come un qualsiasi prodotto. Deve invece agire concretamente e dotarsi di abili comunicatori che sappiano valorizzare le sue opere e il suo pensiero. Apparire solo per apparire non serve a niente. Il Panathlon non è un prodotto di consumo. Che futuro dà al Panathlon di oggi e al Panathlon che, invece, sfrutta la comunicazione - soprattutto - del web? Il Panathlon avrà il futuro che noi sapremo costruire. La comunicazione è fondamentale, ma deve basarsi su una sostanza. Quando si vuole parlare ai giovani, questi colgono subito se proponi chiacchiere o se possono ricavare qualcosa di utile per loro, per la loro crescita. Per questo occorre che i club mettano in campo esperti autorevoli, personaggi sportivi noti che abbiano idee e sentimenti da trasmettere, strumenti audiovisivi pedagogici e interattivi, opportunità di avvicinarsi allo sport praticato e alla cultura sportiva. Il web offre possibilità praticamente illimitate. Esse vanno sfruttate, senza cadere nella banalità e mostrando un livello culturale che tolga il Panathlon dal mazzo delle sciocchezze di cui la rete è intasata. Quando studenti e perfino giornalisti mi contattano perché navigando nel nostro sito hanno trovato dovizia di informazioni e riferimenti e mi chiedono specifici approfondimenti o mi richiedono interviste – non capita spesso, ma mi è capitato – vuol dire che il Panathlon gioca il suo ruolo nella società. Vuol dire che il tipo di comunicazione che facciamo, con i suoi limiti, con la fatica che richiede all‟internauta per leggere news molto più lunghe di quanto normalmente si aspetta, trova ascolto. Naturalmente devono essere persone motivate. 28 Del resto i giornali on line propongono titoli, come cerchiamo di fare noi nel nostro sito, e cliccandoli si aprono articoli interi. Evidentemente se proponiamo un saggio, questo avrà un‟estensione maggiore di un normale articolo, ma agli interessati offriamo opportunità non comuni, non banali. Si tratta di affinare questo tipo di comunicazione attraverso una attenta selezione e migliorando gli abstracts. Giudica positiva l'idea di creare una redazione, nel neonato club scaligero, che agisca da ufficio stampa? L‟idea del neonato club scaligero di proporsi come ufficio stampa è di per sé positiva ed encomiabile. Dimostra ancora una volta che i giovani per partecipare – in questo caso al movimento panathletico – vogliono coinvolgersi ed essere concreti. Non posso essere dunque che favorevole. Si tratta di definire il livello a cui tale redazione intende lavorare: a scala territoriale?, regionale? nazionale?, internazionale? Per ciascuno di questi livelli l‟impegno richiesto e molto diverso e richiede di rapportarsi con i responsabili o con chi possa essere incaricato del collegamento con le diverse sfere decisionali. Non per applicare censure, ma per costruire insieme il futuro del Panathlon, come una sola squadra, o un solo armo che voga all‟unisono nella stessa direzione. Se vuole, ha spazio per delle sue conclusioni personali. Gli argomenti che mi sono stati proposti sono stimolanti e fondamentali per il Panathlon. In sintesi la mia posizione è quella di considerare la comunicazione prevalentemente in un‟ottica strumentale alla conoscenza e basata sulla concretezza delle opere sottostanti. Ritengo che il Panathlon, come altre associazioni internazionali qualificate in campo culturale non possa avere ammiccamenti con una comunicazione di tipo commerciale. Non sento neanche l‟ossessione, che sembrano provare tanti panathleti di un Panathlon che “non è conosciuto, nessuno sa cos‟è”. Quanti nomi, quante sigle di associazioni e organizzazioni anche più importanti del Panathlon non sono 29 conosciuti? Non dobbiamo pretendere di far diventare di massa una associazione che per sua natura è elitaria, che tratta temi astratti come gli ideali e i valori, che seleziona i suoi associati. In città ove il club Panathlon da anni operi efficacemente nella società non serve preoccuparsi di spiegare cos‟è il Panathlon. La gente lo sa, non tutti, ma una gran parte. Lo sanno le famiglie degli scolari che partecipano a concorsi di componimenti o di disegno, o che partecipano a manifestazioni dedicate alla promozione dell‟attività fisica e dello sport, magari nel segno del Fair Play; lo sanno insegnanti che favoriscono l‟inserimento del Panathlon fra le offerte formative, magari per diffondere la cultura del diverso e il rispetto per i disabili (vedi 1Ora X i Disabili); lo sanno i giornalisti o le emittenti che mensilmente riferiscono di service o di eventi legati a quei club. Se la gente della strada non ci conosce, francamente mi importa poco. Il messaggio, per attecchire, necessita di persone motivate e aperte, sensibili e disponibili ad assecondare un percorso di acculturazione. Gli altri, e sono i più, interessati solo allo spettacolo, all‟apparire, o alla loro utilità materiale non li convincerai mai, per quanto valida e martellante possa essere la comunicazione. Mi preoccupa di più che tanti panathleti sappiano cos‟è il Panathlon, cosa fa e cosa ci si aspetta da loro, per dare concretezza ad un progetto che vuole essere una “utopia possibile” – mi scuso per l‟ossimoro – e che sappiano portare il loro personale contributo, grande o piccolo che sia. 30 Capitolo 2 IL PANATHLON E LE SUE FINALITA’ “L‟ideale sarebbe avvicinarsi allo sport sin da bambini. A qualsiasi sport. Non solo, ma l‟ideale sarebbe che l‟ambiente in cui si pratichi lo sport sia sano, trasmetta valori, faccia divertire e sentire importante un bambino, lo stimoli fisicamente ma soprattutto sentimentalmente. Perché solo così si affezionerà a quello sport, ai suoi princìpi e diventerà, inconsapevolmente, un panathleta. Far avvicinare un bambino ad uno sport è facile: si emozionano e si appassionano in fretta. Non serve imporre attività, ma aiutarli a scegliere anche secondo le preferenze dei genitori. Purché però poi il ragazzino si diverta e possa, nel corso della propria vita, solidificare in sé le emozioni che praticare quello sport gli provoca in modo da avere sempre il retrogusto del bello, del giusto, dello sport. Sarà un panathleta acquisito”. 2.1 Il momento storico Con la fine degli anni Quaranta la società italiana vive uno dei momenti più importanti della sua storia. Un conflitto mondiale (che l‟aveva vista oltre tutto soccombere militarmente e politicamente), seguito a vent‟anni di regime dittatoriale, con tutte le incidenze sul piano politico, economico e culturale, aveva creato effetti crudeli e sconvolgenti. Conclusi i primi faticosi anni della ricostruzione materiale del riassetto politico e civile, negli anni Cinquanta, si assiste all‟inizio della ripresa, nella coscienza sempre più avvertita di nuovi e complessi problemi di sviluppo, che impongono nuove istanze e concezioni di vita, proposte di nuovi valori. Un aspetto apparentemente marginale, ma che testimonia, invece, la spinta di una vasta richiesta popolare (e che assume poi una particolare importanza per la nostra storia) è quello del associazionismo, strettamente connesso alle necessità di 31 “comunicare” e conseguenza diretta dei nuovi stimoli che fermentano la società italiana (e non solo italiana). È un lento processo di cui, forse, in quel momento non ci si avvede, anche se i fenomeni che si succedono con frequenza incredibile sono i segni premonitori del profondo cambiamento che sta maturando. Il fenomeno, già da lungo tempo avviato, della progressiva scomparsa della millenaria civiltà agropastorale, aggredita dal prorompente sviluppo industriale e capitalistico, manifesta in Italia i suoi aspetti più clamorosi, di cuoi l‟esodo dalle campagne è, se non il più importante, certo il segnale più vistoso di un mondo che sta cambiando e che vuole cambiare. Lo sport, che non vive in una sua utopica arcadia, ma che è fenomeno sempre più importante dello sviluppo sociale e culturale, non può non risentire di una così incisiva evoluzione e in esso, infatti, è dato constatare, proprio a partire da quegli anni, un processo di profonde mutazioni ideologiche. Cade, come è ovvio, la concezione dello sport come espressione di regime e inizia a maturare una cultura dello sport all‟interno di una diversa e più complessa visione (sotto il profilo intellettuale, morale, ma anche fisiologico) della vita. Si intuisce il cambiamento che si sta verificando e, dopo avere vissuto momenti confusi e difficili, si vuol contribuire a riportare ordine, per dare allo sport la sua vera identità. Quella, cioè, di riscoprire la sua funzione fondamentale di educazione e di formazione civile e culturale, nell‟ambito di quei valori antichi e preziosi che de Coubertin aveva riproposto al mondo intero con le Olimpiadi dell‟era moderna; ma con l‟avvertita coscienza che il paesaggio sociale è profondamente mutato e che c‟è bisogno non di un nostalgico, quanto sterile, conservatorismo, ma di una visione duttile e disincantata dei problemi. Proprio per poter fare argine con nuovi strumenti e nuove idee agli inevitabili assalti che l‟impetuoso sviluppo economico finirà per portare, con tutti gli evidenti rischi di inquinamento della qualità primaria e ideale dell‟attività sportiva. In questa luce la nascita del Panathlon perde la sua natura – che pure ha, come tutte le cose che nascono su questa terra – di casualità, di battesimo convivale, per diventare uno dei segnali quasi indispensabili (un qualcosa, cioè, che in qualche 32 modo doveva nascere) della vitalità dell‟ideale sportivo e, insieme, della necessità della sua salvaguardia. Non è, quindi, per caso che proprio a Venezia, città a struttura d‟uomo e regione dove il senso dell‟associazionismo, ha una forte tradizione, forse più che in molte altre parti dell‟Italia, si pensi di costituire un‟associazione di sportivi in grado di proporsi qual,e principale interprete dei nuovi sentimenti e di una rinnovata coscienza, per trasferire il tutto in un programma promozionale da offrire alla società in genere, e non solo a quella degli sportivi. Non estranei, anzi, per certi aspetti decisivi, alla maturazione di questa idea sono gli impulsi che provengono dai paesi anglosassoni materializzatisi nei vari club – service – Rotary e Lion in testa – che pongono le loro forze economiche e culturali al servizio della società, o che, almeno, da tale finalità prendono la loro ragione primaria di esistenza. La fortuna che i vari Rotary e Lion ottengono in certi strati della società borghese (pare inutile nascondersi che la loro natura non è certo di matrice popolare: l‟associazionismo popolare ha dato e darà vita ad altre e, senza dubbio, non meno importanti forme organizzative) dichiara questo bisogno diffuso di associazionismo libero e rappresenta la reazione naturale a venti e più anni di sentimenti repressi, di frustrazioni psicologiche, di ideali banditi e mortificati, che il nuovo corso deve cercare di sanare, offrendo nuova fiducia e nuove speranze e proponendo l‟occasione di riempire i vuoti creatisi nel dopoguerra, che non possono essere colati unicamente da organizzazioni politiche o parapolitiche. Il Panathlon nasce ispirandosi direttamente al tipo dell‟associazionismo di stampo anglosassone di cui si è detto, anche perché alcuni dei suoi fondatori sono membri attivi di tali associazioni e ad esse, al loro tipo di organizzazione, fanno esplicito riferimento nell‟ideare e nel dare il primo avvio alla nuova istituzione. Fu nel periodo compreso fra l‟aprile e di giugno 1951 che un gruppo di veneziani si riunì, a più riprese, nella sede del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, a Venezia, con l‟idea di costituire un‟associazione ispirata ideologicamente ai valori 33 olimpici, che avesse lo scopo di richiamare continuamente l‟idea e la pratica sportiva alla purezza delle sue origini, pur negli indispensabili sviluppi e nei mutamenti che la realtà storica e sociale comporta. Lo sport, quindi, visto essenzialmente come strumento determinante per la formazione materiale, morale e spirituale dell‟individuo e come mezzo di fratellanza e di relazione fra i popoli. Saranno, infatti, questi concetti di chiara ascendenza decoubertiniana, che ispireranno la costituzione del futuro Statuto dell‟associazione. 2.2 I “padri fondatori” Entrando nella rievocazione storica (l‟aggettivo può già essere legittimamente adoperato nella prospettiva di quarant‟anni di esistenza e di attività) ecco i nomi dei componenti il Comitato promotore della nascente associazione: Guido Brandolini D‟Adda, Domenico Chiesa, Aristide Coin, Aldo Colussi, Antenore Marini, Costantino Masotti, Mario Viali. Ultimo in ordine alfabetico, ma indubbiamente primo come ideatore, come tenace sostenitore del progetto, come promotore instancabile, è il colonnello Mario Viali, ex ufficiale di artiglieria, che contrava allora cinquatott‟anni, essendo nato a Venezia il 14 gennaio 1893. La sua è la biografia di un militare, di un ufficiale che si è distinto giovanissimo nella Prima Guerra Mondiale, alla quale egli partecipa inizialmente al comando di una batteria con il grado di sottotenente. Prende parte alle dodici battaglie dell‟Isonzo, ricevendo tre promozioni sul campo per merito di guerra, una medaglia d‟argento al valor militare e una al valor civile, per il salvataggio dal fiume Isonzo di alcuni soldati che stavano per annegare. In occasione di una missione speciale nella colonia eritrea, si guadagna la croce al merito di guerra, per il generoso comportamento nelle operazioni di salvataggio dei feriti, in una nave silurata da un sottomarino tedesco, al largo di Alessandria d‟Egitto. Al temine del conflitto, raggiunto il grado di colonnello, è costretto al congedo per una malattia contratta in guerra. Nel 1942, durante il secondo conflitto mondiale, si offre volontario, come soldato semplice, per la campagna di Africa Settentrionale, ma la domanda viene respinta per l‟aggravarsi delle sue condizioni di salute. 34 Una figura militare che diventa, però, anche un esempio di coraggio, di abnegazione, di quelle doti di generosità, di ardimento, di entusiasmo, di ferma volontà e di altruismo che spesso si accompagnano a una professione che fa del rischio e della determinatezza, oltre che del senso del dovere, le sue costanti. Una traccia, un segno di queste sue qualità egli le lascia nella fondazione e nella conduzione iniziale del sodalizio, poi diventato Panathlon, da lui e dagli altri amici tenacemente voluto. Perché grande era anche la sua passione per lo sport. Varia, infatti, fu la gamma delle discipline sportive da lui praticate e numerose le affermazioni conseguite, principalmente nel nuoto, nella ginnastica, nel tiro a segno. Una testimonianza circostanziata la si ritrova nella scheda degli archivi del Comitato Nazionale Olimpico Italiano, che traccia il suo curriculum sportivo, come atleta e come dirigente, redatta quando gli venne attribuita la Stella d‟oro al merito sportivo dello stesso Comitato Nazionale Olimpico Italiano (appendice 1). La sensibilità e l‟esperienza di Mario Viali maturate da protagonista e da spettatore attento e interessato alle vicende storico – politiche dell‟Italia, si concentrano in un pensiero fisso: porre a disposizione della sua idea associazionistica tutti gli insegnamenti acquisiti in un arco di tempo colmo di avvenimenti e culminati in due conflitti mondiali: trarre da queste riflessioni e da queste analisi tutti gli aspetti positivi, aggiungendo le personali convinzioni acquisite nell‟appartenenza all‟organizzazione rotoriana, nella quale Viali ritiene di individuare momenti ed aspetti importanti di aggregazione e socializzazione. Da ciò, insieme alla passione per lo sport, matura la sua idea: un club finalizzato a scopi sportivo – culturali, ispirato ideologicamente ai principi decoubertiniani e sul piano organizzativo al modello rotariano. Per curare questo secondo aspetto, che il suo pragmatismo riteneva molto importante (non si può più pensare di costruire alcunché se prima non si pongono le fondamenta su cui poter lavorare), Viali chiama accanto a sé colui che diverrà il suo più stretto e fedele collaboratore e che si rivelerà determinante per l‟affermazione e lo sviluppo del futuro Panathlon: il professor Domenico Chiesa. Affermato 35 professionista veneziano, a quel tempo consigliere della Federazione Italiana giuoco Calcio e consigliere – segretario del Rotary Club di Venezia, Chiesa viene incaricato di redigere una prima bozza di statuto della costituenda associazione, sulla falsariga dello statuto rotariano. L‟influenza che il Rotary esercitò sul costituendo club fu indubbiamente grande, come testimonia il fatto che alla denominazione “Panathlon”, successivamente coniata dal conte Lodovico Foscari, venne inizialmente aggiunto il sottotitolo “Rotary degli Sportivi”. Questo, nell‟intento di dare un‟immagine più immediata e diretta delle caratteristiche e delle finalità del nuovo club 1. Tale riferimento, diretto e vistoso, destò qualche perplessità. In primo luogo, perché il club perdeva di personalità nel momento più delicato, quello iniziale, in cui avrebbe dovuto affermarsi immediatamente come organismo unico e autonomo e, secondariamente, perché ci si potevano attendere reazioni da parte dello stesso Rotary, sull‟esclusività del proprio nome. Quattro anni dopo questa dizione impropria venne eliminata e fu lo stesso Chiesa a farsene promotore. Se il Rotary offriva i suoi modelli organizzativi e di servizio, era però l‟ideologia decoubertiana a segnare progetti e ideali. Sono quindici anni che de Coubertin è morto, ma le sue idee e i suoi insegnamenti rimangono il punto di riferimento di ogni politica sportiva. Mario Viali aveva conosciuto personalmente de Coubertin in un consesso sportivo e ne era rimasto profondamente impressionato, aderendo con piena convinzione ai suoi principi pedagogici e alla sua concezione dello sport. La sua adesione si riferiva soprattutto al significato etico, morale e sociale che de Coubertin aveva dato al ripristino dei Giochi Olimpici, anche con l‟intenzione di sottrarre lo sport al privilegio degli aristocratici per aprilo a tutti, quale strumento che, con molta probabilità, a quel lirico e, persino, epico entusiasmo di cui una testimonianza è nella famosa “Ode allo sport”, che de Coubertin compose per le 36 Olimpiadi di Stoccolma del 1912, le ultime prima dell‟interruzione bellica2. Ma l‟adesione di Viali si riferiva soprattutto alla ferma convinzione di de Coubertin – che ha indubbio valore di anticipazione e di percorri mento - che lo sport si muova con i tempi e debba anzi persino aiutare a intuire i mutamenti sociali e a preparare gli strumenti necessari per affrontare i problemi che essi comportano3. Con questa complessità di sentimenti e di emozioni, Mario Viali si appresta a fondare la sua organizzazione sportiva, che doveva essere portatrice di idealità, spiritualità, pensiero, amore per lo sport, amore per la vita, riflessione e l‟insegnamento rivolto ai più giovani. Il club veneziano, infatti, avrebbe dovuto rivolgersi soprattutto ai giovani, ai quali doveva essere trasmesso un messaggio di speranza e, insieme, di incitamento ad avvicinarsi allo sport quale mezzo risolutore dei problemi sociali ed esistenziali che il dopoguerra stava producendo o che almeno sapesse offrire appoggio ed orientamento per soluzioni individuale e collettive. Viali credeva fermamente nella forza che si sarebbe sprigionata da questa nuova organizzazione, quale movimento di opinione, e il suo merito primario fu quello di non lasciarsi scoraggiare da dubbi, incertezze e diffidenze, che inevitabilmente affiorano, ma di insistere nei suoi decisivi proponimenti. Tre anni prima, nel 1948, erano riprese le Olimpiadi, dopo dodici anni di interruzione per gli eventi bellici. Anche se organizzate a Londra, nel segno della più severa austerità il ritrovamento dei valori olimpici aveva dato all‟Europa, che maggiormente aveva sofferto a causa del conflitto, nuovi stimoli e nuove speranze. Le grandi imprese della statunitense Fanny Blankers Koen, del cecoslovacco Zatopek, dell‟italiano Consolini, avevano riacceso gli entusiasmi dei grandi confronti agonistici, esaltando contemporaneamente la ritrovata spiritualità olimpica e fugando gli ultimi dubbi sulla forza di solidarietà dei Giochi Olimpici. La vita continuava e lo sport si riaffermava come una componente delle società libere e civili. 37 1 Nell‟atto redatto in data 27 marzo 1952 dal notaio Giovanni Bissoni, che sancisce la costituzione del Panathlon di Brescia, il riferimento al Rotary ha un peso preminente. Si parla, infatti, di “finalità che possano perseguirsi più facilmente attraverso un‟associazione tra i cultori di tutti gli sport, sulla falsariga del Rotary internazionale”; si dichiara quindi di costituire il Panathlon Club di Brescia. “Rotary degli Sportivi”, associazione libera e civile…”; e l‟intitolazione dell‟atto mette addirittura in sottordine il nome specifico per dare rilievo a quello generico rotariano. Essa, infatti, recita: “Costituzione del Rotary degli Sportivi denominato Panathlon Club di Brescia” 2 In quell‟occasione ci furono accuse contro de Coubertin per avere egli vinto con quell‟Ode il premio delle arti, introdotto per la prima volta nelle Olimpiadi. La sua partecipazione alla gara era avvenuta sotto lo pseudonimo di Hohrod Eschbach, nome tipicamente nordico, e non vi sono motivi, conoscendo l‟uomo, di pensare che si trattasse di una mascheratura voluta.Tali concorsi d‟arte (architettura, letteratura, musica, pittura, scultura) rimasero nel calendario olimpico fino alle Olimpiadi di Londra del 1948, ma la scarsa partecipazione e la qualità delle opere indussero ad abolirle, sostituendole con iniziative collaterali di mostre, ecc. Il Panathlon, nella sua Assemblea del maggio 1986, a Trieste, riprenderà l‟argomento riproponendo il ripristino dei concorsi d‟arte, sia pure con i mutamenti ovvii che la situazione esige. È, infatti, convinzione del Panathlon che nella festa mondiale della fratellanza sportiva non debba essere accantonata la componente culturale e creativa. 3 Tra i numerosissimi documenti significativi si ricordano la dichiarazione del 1900 sul concetto di “Sport per tutti” ancora attuale dopo quasi novant‟anni, concetto ripreso quasi integralmente dall‟attuale Presidente del Comitato Internazionale Olimpico J.A. Samaranch, in occasione dell‟apertura del congresso di Francoforte del 1986 e fatto proprio dal Consiglio d‟Europa; l‟organizzazione curata personalmente dallo stesso de Coubertin di un congresso del 1913 sul tema “Psicologia e Sport” e una sua dichiarazione del 1925 con la quale de Coubertin stesso riconosce ed accetta il processo di trasformazione che sta subendo lo sport con l‟evidente tramonto del dilettantismo. E a questo proposito ancora, nel 1936, scriveva parole che conviene meditare e che fanno contrasto con l‟immagine edulcorata e quasi arcadica che ingiustamente ha finito per ricoprire il suo pensiero: “Ah! Che vecchia e stupida storia quella del dilettantismo olimpico! Ma leggetelo quel famoso giuramento di cui sono l’autore fortunato e fiero, dove potete leggere che esiga dagli atleti discesi sullo stadio olimpico un dilettantismo assoluto che sono io il primo a riconoscere come impossibile? Io non chiedo, con quel giuramento, che una cosa sola: la lealtà sportiva che non è appannaggio esclusivo dei dilettanti. È lo spirito che m’interessa e non il rispetto di questa ridicola concezione inglese che permette ai soli milionari di far sacrifici allo sport… Questo tipo di dilettantismo non sono io che l’ho voluto, sono le Federazioni Internazionali che l’hanno imposto. Non è, dunque, più un problema olimpico”. La “lealtà sportiva”, lo “spirito”: quale altra istituzione sarebbe in grado di vigilare queste fondamentali istanze meglio del Panathlon? 38 2.3 Così nasce il Panathlon Dopo una serie di consultazioni, di riflessioni, di ripensamenti e di contatti con le persone che Viali voleva con sè, si era giunti alla fine del maggio 1951. Il 30 maggio il gruppo promotore inviava una lettera a trenta sportivi veneziani, appartenenti ad altrettante discipline sportive, invitandoli ad una riunione per “mercoledì 6 giugno alle ore 21,30 precise, a S. Fantin della Veste n. 2004 (sede del CONI)”, di cui Viali era delegato, per informarli sulle caratteristiche e sugli scopi del costituendo club, allegando la bozza di statuto elaborata da Domenico Chiesa (Appendice 2). La riunione si risolveva in un imprevedibile fallimento poiché quella sera un violento nubifragio sconvolse Venezia. Solo “nove coraggiosi”, come li definì Viali, erano presenti e dopo “quattro simpatiche chiacchiere”, la riunione veniva aggiornata a martedì 12 giugno 1951 e la data rimarrà storica quale nascita del Panathlon. Ventiquattro dei trenta convocati parteciparono all‟evento: Salvatore Brugliera (atletica leggera), Tiziano Calore (tennis), Angelo Cecchinato (ginnastica), Domenico Chiesa (calcio), Aristide Coin (ciclismo), Aldo Colussi (atletica leggera), Pietro De Marzi (tecnico impianti sportivi), Guido De Poli (atletica leggera), Egidio De Zottis (vela), Carlo Donadoni (pallacanestro), Ludovico Foscari (nuoto), Paolo Foscari (motociclismo), Gugliemo Guglielmi (vela), Alberto Heinz (ginnastica), antenore Marini (golf), Costantino Masotti (scherma), Luigi Pavanello (arbitri), Orazio Pettinelli (pesca sportiva), Gino Ravà (sport invernali), Antonio Scalabrin (nuoto), Alfonso Vandelli (alpinismo), Mario Viali (pentathlon moderno), Mario Zanotti (scherma). Sono i ventiquattro fondatori di quello che oggi è il Panathlon International. Ventiquattro “padri” di un‟idea che sta percorrendo il mondo. Il 12 giugno 1951, quindi, alle nove e mezzo di sera, nella sede del Comitato Olimpico Nazionale Italiano di Venezia il sogno di Viali si era avverato. Soltanto che il neonato club ancora non sapeva che avrebbe ricevuto un nome sontuoso, pieno di 39 memorie classiche; per ora la sua denominazione (non ufficiale) rifletteva la nascita convivale: “Disnar Sport”. (“Disnar” stava per desinare, cenare, in veneziano). Il club terrà la sua prima riunione la sera del 6 luglio 1951, all‟Hotel Luna, a San Marco, il locale scelto dallo stesso Viali per offrire, sul modello rotariano, il primo tocco di distinzione e di prestigio. Furono assegnate le cariche sociali e, naturalmente, toccò a Viali la presidenza, per acclamazione. Tema in discussione della serata: “Problemi sportivi della provincia, in discussione della serata: “Problemi sportivi della provincia, specie per quanto riguarda gli impianti”. È il primo argomento di carattere sportivo trattato dal Panathlon. Ma si era soltanto agli inizi. Una creatura per vivere deve crescere, svilupparsi. È il momento della prima espansione, dell‟incipiente proselitismo. L‟intendimento di Viali era stato chiaro e perentorio: “Un club subito a Venezia, fra qualche giorno nel Veneto, o meglio nelle Tre Venezie, poi (prestissimo) in tutta Italia e, successivamente, dopo un breve periodo di esperimento, in Europa e nel mondo”. Si doveva, quindi, fare presto per rispettare il suo obiettivo. Ci si avvalse esclusivamente delle amicizie personali dei soci promotori e dei fondatori per propagandare l‟idea e promuovere le iniziative per la costituzione dei clubs nelle altre città italiane. In particolar modo Domenico Chiesa mise a profitto le relazioni che egli intratteneva con i componenti il Consiglio della Federazione Italiana Gioco Calcio, di cui faceva parte, ed ottenne un grande successo con la costituzione dei club di Brescia, con l‟appoggio dell‟ing. Zanchi di Vicenza (tramite l‟industriale Beretta), di Milano (avv. Marchesini), di Napoli (ing. Cavalli), di Firenze (comm. Beretti e on. Paganelli), di Genova (dott. Bertoni) e di Palermo (cav. Siino, anch‟egli consigliere della Federazione Italiana Gioco Calcio). L‟idea si allargava a macchia d‟olio. Il cammino era iniziato sotto i migliori auspici. Dopo appena due anni erano stati costituiti sette clubs: Venezia, Brescia, Genova, Milano, Napoli, Sondrio, Vicenza; e con questi sette clubs si attuò la prima 40 fase del programma di Viali: la costituzione del Panathlon italiano avvenuta, a Milano il 21 novembre 1953. Domenico Chiesa racconterà poi che la scelta di sette clubs per la costituzione del Panathlon Italiano non fu casuale, ma voluta, considerando il 7 il numero sacro, il che poteva rappresentare un motivo di buon auspicio. Per la particolare opera di un altro personaggio di grande rilievo, Aldo Mairano, il Panathlon diverrà internazionale il 14 maggio 1960, con una fastosa cerimonia nell‟Aula fosco liana dell‟Università di Pavia, sono trascorsi appena nove anni ed il programma di Viali è stato interamente realizzato. Vedremo come dai nascenti clubs sarà accolta ed elaborata l‟idea di Viali, come intensa e qualificata sarà la loro attività e come gli stessi riusciranno ad imporsi nei loro territori, nei confronti della comunità sportiva e delle istituzioni, assumendo un ruolo preminente nelle iniziative concernenti la politica sportiva e divenendo un punto di riferimento per le decisioni che al riguardo verranno adottate. Assisteremo all‟entusiasmo che l‟idealità panathletica susciterà negli ambienti sportivi e come molti dei futuri panathleti assumeranno impegni di vasta portata per l‟affermazioni di tale idealità con sacrifici personali, offrendo al Panathlon il meglio delle loro risorse culturali. 2.4 Le finalità Le finalità del Panathlon5 sono l‟affermazione dell‟ideale sportivo e dei sui valori morali e culturali, quali strumento di formazione ed elevazione della persona e di solidarietà tra gli uomini ed i popoli. a) Favorisce l‟amicizia fra tutti i Panathleti e quanti operino nella vita sportiva; 5 Il cui motto è “Ludis Iungit”, ovvero: “lo sport unisce”. 41 b) Agisce, con azioni sistematiche e continue, ai vari livelli di competenza dei suoi Organi, per la diffusione della concezione dello sport ispirato al fair-play, quale elemento della cultura degli uomini e dei popoli; c) Promuove studi e ricerche sui problemi dello sport e dei suoi problemi con la società, divulgandoli nell‟opinione pubblica in collaborazione con la scuola, l‟università ed altre istituzioni culturali; d) Attua forme concrete di partecipazione, intervenendo nei procedimenti di proposta, consultazione e programmazione nel campo dello sport con modalità previste dai singoli ordinamenti nazionali, regionali e comunali; e) Si adopera affinché una sana educazione sportiva venga garantita ad ognuno senza distinzione di etnia, di sesso e di età, soprattutto attraverso la promozione di attività giovanile e scolastica, culturale e sportiva; f) Instaura rapporti permanenti con le Istituzioni Pubbliche locali e con i responsabili dello sport assicurando contributi propositivi alle iniziative anche amministrative e un concreto impegno nella fase organizzativa ed operativa; g) Quale Club di servizio si impegna ad incentivare ed a sostenere le attività a favore di chi ha meno opportunità, attraverso l‟affermazione dell‟ideale decoubertiano; h) Attua ogni iniziativa idonea al raggiungimento delle finalità istituzionali. 42 Graz, firma dichiarazione P.I. Il Cio ha riconosciuto ufficialmente il Panathlon International quale organizzazione sportiva con particolari scopi morali e sociali. Attualmente esso è presente in 28 Paesi e rappresentato da 292 Club. Presidente del Panathlon International d‟Italia è l‟ex campione del mondo di ciclismo Vittorio Adorni. Il Panathlon ha una struttura piramidale. Il Distretto Italia è formato, ad oggi, da 13 aree con ben 8.447 soci su 11.249. Il vertice d‟area è costituito dal governatore, eletto dai presidenti dei club, che resta in carica per un quadriennio olimpico, e dal direttivo, i cui membri sono nominati a discrezione del governatore. L‟Area 1 Triveneto è l‟area storica per eccellenza, perché il Panathlon fu fondato a Venezia il 12 Giugno 1951. Era costituita da 34 club, di questi 23 sono nel Veneto; 4 in Alto Adige e 7 in Friuli Venezia Giulia. I soci sono di quest‟area sono quasi 1.500. L‟Area è quindi la più importante del Distretto Italia come numero di club e di soci, ed è seconda solo alla Svizzera. Con l‟avvenuto scorporo del Friuli Venezia 43 Giulia (Area 12), l‟Area è passata ad essere costituita dal Veneto, Trentino e Alto Adige con 27 club, restando comunque l‟area con il maggior numero di Panathlon. Nel mondo, invece, la divisione è in undici distretti (Argentina, Austria, Belgio, Brasile, Francia, Italia, Messico, Russia, Svizzera e Uruguay), più un Multidistretto, che accorpa i singoli club di un singolo Paese. 44 Capitolo 3 L’ETICA E I VALORI DELLO SPORT Nella diffusione di questi due valori si incarnano le attività e i fini del Panathlon. Una volontà di raggiungere una meta lontana, una missione di certo non presuntuosa ma vissuta come tale: una sorta di “evangelizzazione” per diffondere i valori dello sport soprattutto verso i giovani. “Il Panathlon ha un grandissimo ruolo culturale: far comprendere il concetto di scuola e di sport, far comprendere i concetti elementari, fondamentali dello sport. Un grande ruolo di educazione, di “acculturazione”, perché, sia chiaro che se noi dovessimo rispondere negativamente alla domanda: “lo sport attuale può essere etica, fair-play, competizione, concorrenza, skolè?”, dovremmo dire che non c‟è più lo sport”. Un tassello importante è stato inserito il 24 settembre 2004, a Grand, con la “Dichiarazione sull‟etica sportiva giovanile”. Questa dichiarazione rappresenta l‟ impegno del Panathlon di stabilire chiare regole di comportamento nella ricerca di valori positivi nello sport giovanile. Promuoveremo i valori positivi nello sport giovanile con grande impegno e presentando programmi adeguati. • Considerate le esigenze dei giovani, nell‟allenamento e nelle competizioni punteremo, in modo equilibrato, su quattro obiettivi: sviluppo delle competenze di tipo motorio (tecnica e tattica); stile competitivo sicuro e sano; positivo concetto di se stessi; buoni rapporti sociali. • Crediamo che sforzarsi per eccellere e vincere, sperimentando il successo o il piacere, il fallimento o la frustrazione, siano tutte le componenti dello sport competitivo. Nelle loro performance daremo ai giovani l‟opportunità di coltivare ed integrare tutto ciò (all‟interno della struttura, delle regole del gioco) e li aiuteremo a gestire le loro emozioni. 45 • Presteremo attenzione alla guida e all‟educazione dei giovani, in accordo con i modelli che valorizzano i principi etici in generale ed il fair play in particolare. • Ci assicureremo che i giovani siano coinvolti nelle decisioni attinenti il loro sport. Continueremo ad impegnarci per eliminare nello sport giovanile ogni forma di discriminazione. Questo è coerente con il fondamentale principio etico di uguaglianza, che richiede giustizia sociale ed uguale distribuzione delle risorse. I giovani diversamente abili come quelli con minor predisposizione dovranno avere le stesse possibilità di praticare lo sport e le stesse attenzioni di quelli maggiormente dotati, senza discriminazione di sesso, razza, cultura. Riconosciamo che lo sport possa anche produrre effetti negativi e che misure preventive sono necessarie per proteggere i giovani. • Aumenteremo con i nostri sforzi la loro salute psicologica e fisica al fine di prevenire le devianze, il doping, l‟abuso e lo sfruttamento commerciale. • Accertato che l‟importanza dell‟ambiente sociale ed il clima motivazionale sono ancora sottostimati, adotteremo un codice di condotta con responsabilità chiaramente definite per quanti operano nello sport giovanile: organizzazioni governative, dirigenti, genitori, educatori, allenatori, manager, amministratori, dottori, terapisti, dietologi, psicologi, grandi atleti, i giovani stessi. • Raccomandiamo che siano seriamente considerate le persone, organizzate ai diversi livelli, che possano controllare questo codice di condotta. • Incoraggiamo l‟introduzione di coerenti sistemi di preparazione per allenatori ed istruttori. Siamo favorevoli all’aiuto degli sponsor e dei media, purché in acordo con gli obiettivi dello sport giovanile. 46 • Accogliamo il finanziamento di organizzazioni e società solo quando questo non contrasti con il processo pedagogico, i principi etici e gli obiettivi qui espressi. • Crediamo che la funzione dei media non deve riflettere i problemi della società, ma risultare stimolante, educativa e innovativa. Formalmente sottoscriviamo la “carta dei diritti del ragazzo nello Sport” adottata dal Panathlon che prevede per tutti il diritto di: • praticare sport • divertirsi e giocare • vivere in un ambiente salutare • essere trattati con dignità • essere allenati ed educati da persone competenti • ricevere un allenamento adatto alla loro età, ritmo e capacità individuali • gareggiare con ragazzi dello stesso livello in una idonea competizione • praticare lo sport in condizioni di sicurezza • usufruire di un adeguato periodo di riposo • avere la possibilità di diventare un campione, oppure di non esserlo. 47 La conferenza mondiale a Gand, in cui fu redatta la “Dichiarazione sull‟Etica sportiva” 3.1 Panathlon Club di Venezia, intervento del Professor Massimo Cacciari alla Scuola Militare Navale “F. Morosini”: “Etica e Sport” (13 marzo 1999) “Partirei dal rapporto Sport-Scuola, perché si tratta di termini praticamente sinonimi. Sport significa un‟attività, appunto, che una persona fa per “sport”, non costretto, che fa da dilettante nel senso letterale del termine: perché ne trae diletto. E‟ la cosa più bella del mondo lavorare per diletto. Lavorare da dilettanti, è la cosa più straordinaria del mondo. Magari potessimo farlo tutta la vita! Scuola è un termine sinonimo. Scuola, come chi di voi fa il classico saprà, viene da un termine greco, che è skolè, che i latini traducevano con otium. Skolé significa dedicarsi ad attività che non sono obbligate, otium, non nel senso di non fare niente, ma nel senso di dedicarsi ad attività a cui non siamo costretti, da cui non siamo “occupati”. Orribile termine “occupati”. Dà l‟idea che la nostra vita ad un certo momento sia presa d‟assedio e “occupata” da truppe straniere. Molti sono “occupati”. 48 Come la città, che viene assediata da dei barbari e viene occupata. Orribili termini. Questo termine mette in evidenza quanto bello sia skolé, quanto bello sia otium, un‟attività libera, non occupata. Questo è Scuola. Se la scuola diventa una occupazione è meglio che rinunciate a frequentarla perché non vi servirà a niente. La scuola serve quando voi la frequentate, quando voi discutete con i vostri insegnanti, quando voi discutete divertendovi. Skolè, otium, sport. Allora qui è davvero la quintessenza della nostra attività da uomini liberi. Quando non siamo occupati, quando nessuno ci occupa, quando ci divertiamo in ciò che facciamo. Bisogna sempre pensare di fare così. Permettete che vi dia questo consiglio. Negli ultimi anni non ci sono riuscito e me ne dolgo profondamente. Dovete sempre cercare di fare ciò che vi diverte, mai essere occupati, perché quando si è occupati non si è liberi. Quindi skolè, otium - che non è il non far niente, è il colmo dell‟attività - è l‟attività di uomini liberi. E‟ “l‟attività” che vi devono insegnare nella scuola: a saper essere skolé. Questo bisogna insegnare nella scuola. Questo vi devono insegnare i vostri insegnanti, se no tradiscono la loro missione e il loro compito. Quindi devono insegnare a fare sport. Assolutamente sono due termini di dimensioni analoghe: Sport, Scuola. Perciò è assolutamente sbagliato il nostro corso di studi nell‟attività “infrascolastica”. Perché ritiene lo sport qualche cosa di assolutamente accessorio e secondario rispetto alla scuola e ritiene, perciò, del tutto erroneamente la scuola una occupazione seria. Qualcosa in cui è vietato divertirsi. E allora lo sport è relegato ai margini. Non si fa sport perché non si fa scuola. Nessuno vi fa scuola, perché se si capisse il significato della scuola, automaticamente al centro dell‟attività scolastica ci sarebbe lo sport. Se la scuola capisse questo concetto, lo sport dovrebbe esistere in un rapporto del tutto armonioso alla scuola, nel vero senso che quel termine significa e che comporta la possibilità di discutere liberamente, da uomini liberi, non occupati. Dovete sforzarvi di farlo capire ai vostri insegnanti. In questo senso i ragazzi devono avere un ruolo di discenti e docenti, nei confronti dei loro insegnanti. 49 Sport, otium, scuola. Attenzione!: nulla di idealistico, nulla di “abbracciamoci tutti”, paradiso perduto, Eden. Lo sport, e la scuola, sono competizione, sono concorrenza. E‟ bella la scuola, è bello lo sport, quando io mi confronto con un altro, quando io m‟impegno per emergere, in una gara libera, che ho liberamente scelto, a cui nessuno mi ha costretto, in cui mi diverto, ma mi diverto perché mi confronto, mi diverto perché competo. Cosa vuol dire “concorrenza”?, cosa vuol dire “competizione”?, che è certamente la quintessenza dello sport insieme al divertirsi. Non c‟è sport se non c‟è divertimento, come non c‟è scuola. Ma è divertimento che è tale perché è anche concorrenza, competizione. Quando si gioca è bello giocare se c‟è un, se volete, avversario, su cui devo emergere. Questo è il significato dello sport e della scuola, fin dalla sua origine. Ma cosa vuol dire competizione? Concorrere, competere, tendere insieme ad uno stesso fine. Questo vuol dire competizione. Competizione non ha niente a che vedere con quello che intendono certi apologeti nei messaggi, che adesso vanno tanto di moda, che parlano senza sapere quello che dicono. Competizione vuol dire tendere (petere), (cum) insieme ad un fine: correre insieme per un fine e la gara consiste nel tentare di correre più velocemente possibile per raggiungere prima quel fine comune. Questa è la gara bella, questo è l‟agon bello. Tendere insieme ad un fine e sapere che quel fine è comune e corrergli incontro il più rapidamente possibile. Per riconoscere, quindi, chi è più bravo ad essere arrivato a quel fine, che è comune, correndo assieme, tentando insieme di raggiungerlo il più rapidamente possibile. Questo è lo sport, questa è la scuola: competizione, concorrenza, ma con questo significato, che è l‟opposto di “violenza”. Perché dobbiamo parlare un po‟ anche di questo, perché la violenza non è il correre insieme per raggiungere un fine. Violenza è: l‟avversario che corre con me, il mio agonista è uno che devo sopprimere. Al fine voglio arrivare “da solo”, non primo, “da solo”. E l‟avversario, dunque, è uno che devo tentare di annullare. Questa è la differenza fondamentale tra una gara - o se volete una competizione - violenta, che nega l‟idea, il concetto stesso di competizione e sport, scuola, concorrenza e competizione bella. Questa è la differenza. Laddove nello 50 sport, ma anche nella scuola, subentra un meccanismo in base al quale io sento l‟altro non come quello che compete e concorre con me, ma come quello che mi ostacola, che mi è di ostacolo, che mi è nemico nel voler raggiungere quel fine, necessariamente tenterò di annullarlo e commetterò violenza nei suoi confronti, per impedire che concorra con me. E‟ da qua tutta la violenza nello sport, dal fraintendimento radicale del significato di sport, dal fraintendimento radicale del significato di competizione e concorrenza. La violenza non nasce dalla competizione e dalla concorrenza. Qui è l‟equivoco di fondo. Nasce dal fraintendimento radicale del significato di competizione e concorrenza, per cui il concorrente diventa il nemico, non quello che mi è “necessario” per giocare. Che gioco è allora? Il paradosso della violenza consiste nel fatto che si vorrebbe, alla fine, giocare da soli; annullare gli altri, con pasticci, con trucchi, con quello che volete: truccare le carte per non giocare più insieme. Nella competizione e nella concorrenza l‟altro, invece, mi è necessario perché io quella gara la faccio, quella gara ha un senso soltanto se è “cum”, insieme all‟altro. Concorrenza, competizione. Allora mai nello sport autentico io ricorrerò a nessun mezzo per impedire all‟altro di concorrere, oppure per avvantaggiarmi scorrettamente nella competizione, nella concorrenza, perché non mi divertirei più. Quello è il punto: non sarebbe più un divertimento, perché il risultato di quella gara verrebbe falsato. I veri giocatori non barano mai, perché non si divertirebbero più. Sono gli “occupati” che tendono a barare, cioè quelli che intendono il gioco come una occupazione. Sono gli “occupati” a barare, cioè quelli che prendono il gioco come una occupazione, perché devono sbarcare il lunario affannosamente con quel gioco. Ma quel gioco non diventa più un gioco. Diventa un “contrasto” violento, nel quale si ricorre a tutti i mezzi per, come idea finale, annullare l‟altro, o renderlo impotente, o comunque renderlo un “non concorrente”, per renderlo non competitivo con me. E allora è violenza. Questo è il massimo ostacolo allo sport, fondamentale, perché se no abbiamo dello sport un‟idea tutta sentimentale, tutta caramellosa, detestabile per me. 51 Come la scuola. Questa idea che nella scuola non bisogna valutare, non bisogna dare voti, non qualificare, per carità!, tutti insieme, avanti. Caramelle, sentimenti. La scuola, lo sport, devono essere competizione, devono essere concorrenza. Ma perché? Perché sono un bellissimo gioco, in cui bisogna vedere chi è il più bravo, ma il più bravo veramente, senza nessun trucco, senza nessuna confusione, di nessun genere, con totale onestà. Ma perché questo? Perché il giocatore vero, questo gioco vuole fare; lo sportivo vero così vuole compiere la sua gara. Lo sportivo vero si diverte quando ha dei concorrenti, agguerriti come lui e alla pari di lui. Allora è bello emergere, è bello essere i più bravi. Quando, appunto, tutto si è svolto con l‟assoluto come si suol dire - fair-play, cioè: play (gioco), il gioco è bello (“fair”). Questo vuol dire. E‟ possibile questo? Da queste idee siamo ormai completamente lontani. Voglio dire: lo sport attuale può ancora ospitare queste idee? Può ancora essere skolè, competizione, concorrenza, fair-play, gioco onesto? Può esserlo? Oppure determinate regole, determinati meccanismi economici gli impediscono di essere così? E‟ questo il grande ruolo di organizzazioni come la vostra. Io ritengo sia questo, un grandissimo ruolo culturale. Un grandissimo ruolo culturale far comprendere il concetto di scuola e di sport, far comprendere i concetti elementari, fondamentali dello sport. Un grande ruolo di educazione, di “acculturazione”, perché, sia chiaro che se noi dovessimo rispondere negativamente alla domanda: “lo sport attuale può essere fair-play, competizione, concorrenza, skolè?”, dovremmo dire che non c‟è più lo sport. Il grande sport professionistico è “necessariamente” estraneo a queste idee? Io non lo credo. Io non lo credo affatto. Se lo pensassimo, dovremmo chiudere baracca e burattini, perché è evidente che, a meno di non essere dei nostalgici reazionari, è evidente che già lo sport professionistico è “magna pars” delle attività sportive oggi, anche per i dilettanti puri e semplici. Perché tanti movimenti possono nascere e svilupparsi oggi ormai grazie anche alle grandi imprese professionistiche. Non c‟è dubbio. Se non ci fossero i grandi risultati delle imprese professionistiche, da dove 52 arriverebbero tanti soldini anche per lo sport dilettantistico? E poi, che cosa spinge e promuove il dilettante, soprattutto i giovani, allo sport meglio della grande impresa professionistica? Saremmo degli illusi, saremmo dei parolai, saremmo dei moralisti detestabili se pensassimo di atteggiarci in modo reazionario rispetto al grande sport professionistico. Ma io vi chiedo: il grande sport professionistico deve “necessariamente” essere - lo dico in modo provocatorio, tra virgolette, dato quello che ho detto - “violento”? Per quale motivo? Perché il grande professionista non può continuare ad essere dilettante? Perché il grande professionista non può continuare ad essere colui che ritiene “necessaria” la competizione e dunque la presenza dell‟altro, senza trucchi, senza volontà di annullarlo, senza volontà di sopraffarlo? Perché? Io non vedo questa necessità, francamente. Io vedo la necessità di una grande operazione di acculturazione, di educazione, di informazione, che parta dai giovani, ma non vedo assolutamente la necessità che le regole economiche, che certamente dominano lo sport professionistico oggi, ai più alti livelli, non possano anche conciliarsi con i discorsi che facevo. Certo, occorre controllo attento, occorre autocontrollo da parte delle società e degli atleti, una più forte e incisiva azione di associazioni come questa, per educare fin dall‟età più giovane a questo discorso sullo sport e sulla scuola. Etica: di nuovo, se ci pensiamo un momentino, e mi avvio a concludere rapidamente, siamo nella stessa dimensione, giochiamo con gli stessi termini. Etica è una parola che indica un significato originario molto profondo, molto radicale, che non ha niente a che fare con falsi moralismi. Non è un “predicozzo” l‟etica. Non sono “predicozzi” i discorsi etici. Etica è una domanda che sentiamo, che ognuno di noi dovrebbe rivolgersi e che, come vedrete, si lega perfettamente a quanto detto finora. La domanda è questa: “Noi qui riuniti, facenti parte della stessa comunità, facenti parte dello stesso paese, abbiamo una „fede‟ comune?, ci riconosciamo in una casa comune?, oppure siamo tanti condomini?, ognuno dei quali appena arrivato nel suo guscio, come avviene tra tutti i condomini, diventa chiaramente nemico di tutti gli altri? Cioè abbiamo un ethos?, cioè una “fede”, nella quale tutti ci riconosciamo e che 53 „non appartiene a nessuno di noi‟?, che non è proprietà né mia, né tua, né sua? Non è una mia proprietà. E‟ qualcosa di „comune‟ e „comune‟ è opposto di „privato‟. Abbiamo questo „comune‟ insieme, che non è di nessuno?, oppure riteniamo che quando abbiamo gestito la nostra proprietà e abbiamo cercato di tutelarla e di difenderla il più possibile, tutto è fatto?” Se riteniamo che tutto si riduca nel gestire la nostra proprietà e difendere la stessa, è ridicolo parlare di etica. Etica significa che, invece, noi riteniamo essenziale una dimensione che non è di nessuno. Ci riconosciamo tutti come la nostra comune coabitazione, come la nostra comune casa, come la nostra comune fede, di cui nessuno è proprietario, ma che tutti insieme dobbiamo acquisire, che tutti insieme dobbiamo curare, per la quale tutti insieme dobbiamo anche, se necessario, sacrificarci, rinunciando in qualche caso anche alla ferrea ed egoistica tutela della nostra proprietà? Se rispondiamo positivamente a questa domanda e allora cerchiamo questa fede comune, ebbene, questa è etica. Etica è ricerca. Ricerca comune di questa fede comune, proprietà di nessuno. Questa è etica. E dove vediamo meglio questa possibile etica se non nello sport, di nuovo, così come ho cercato di spiegarlo? Vi sono i diversi atleti che competono, i diversi atleti che hanno in proprietà le loro cose, le loro risorse, la loro volontà, ma formano un qualcosa di comune, che non è proprietà di nessuno: la gara, la bellezza della gara. E quando lo sport diventa veramente grande sport, quando alla televisione o dal vivo vedete certe grandi gare ciclistiche e vedete quanto sia dura la competizione, la concorrenza; quando si va su per quelle montagne, quanto è dura la sofferenza e la co-sofferenza, proprio “cum-patire”, vedete anche però che c‟è qualcosa di più. Non ci sono solo i singoli atleti, che soffrono, che competono, che concorrono. C‟è qualcosa di molto di più. Si forma veramente, se voi vedete quegli atleti e ne avete una visione d‟insieme, si forma veramente un ethos. 54 Si vede chiaramente che hanno qualcosa di comune, che non è proprietà di nessuno di loro, che tutti partecipano alla gara, che non è di nessuno. Che non è di nessuno. Ci sono momenti nello sport in cui questi discorsi sull‟ethos come ricerca, come ricerca continua, non come elencazione di morti comandamenti, noiosi, che non dicono più nulla: l‟etica detta in questi termini normativi è un‟etica che non parla più a nessuno, che non parla più ai giovani, che annoia e basta. Giustamente. Ma l‟etica come continua ricerca della dimensione comune, della gara comune, e tutti sentirsi partecipi di questa gara, e tutti sentire l‟altro partecipe, (sentire) l‟altro concorrente “necessario” per la conquista di questa cosa comune, che è la gara. Questo è etica. Questa è etica. E di nuovo nei grandi momenti dello sport il significato viene fuori, emerge, come viene fuori ed emerge quello di skolè e di scuola. Io vorrei proprio che il Panathlon riuscisse a comunicare tutto questo, perché se riuscisse a comunicare tutto questo, a partire dalla scuola, vedrete che non ci sarà professionismo che tenga, non ci sarà business che tenga. Vi sarà il business, vi sarà il professionismo, ed è bene che ci sia, ma ci sarà un professionismo ed un business che esprimeranno questa etica”. 55 Capitolo 4 IL FAIR PLAY 4.1 Storia, significati e futuro del fair play nello sport e nella società Lo sport moderno è nato in Gran Bretagna come prodotto culturale della modernità che metteva l‟accento sull‟uguaglianza e la competizione. Il fair play era il credo morale della nuova cultura sportiva, creato dalle classi alta e medio-alta dell‟Inghilterra del 19° secolo. Gli sport moderni furono forgiati in Public School d‟elite come Eton e Rugby, dove l‟autogoverno rappresentava una innovazione pedagogica e “la sopravvivenza dei più forti” ipotizzata da Spencer era parte dell‟ideologia. La tesi qui illustrata è che il fair play era promosso ai semplici fini della sopravvivenza in giochi originariamente violenti, che furono gradualmente standardizzati e codificati. Il nuovo credo sportivo fu diffuso dal romanzo “ Tom Brown‟s schooldays” di Thomas Hughes, e Tom Brown con Thomas Arnold, preside della Public School di Rugby divennero modelli di comportamento che hanno ispirato un‟intera generazione, tra cui Pierre De Coubertin. Fair play era la parola d‟ordine del gentiluomo dilettante e questo concetto si è trovato sotto pressione quando il rugby e il calcio cominciarono a essere praticati dalle classi lavoratrici. I difensori del dilettantismo consideravano i giocatori professionisti dei guastafeste che non giocavano più per il piacere di giocare. Il problema attuale è se il fair play sia ormai un anacronismo sopravvissuto al vecchio ideale del dilettantismo e se lo scenario postmoderno dello sport professionistico – come aspetto legittimo dello show business – debba o meno essere regolato da un codice di etica professionale. Il fair play è un concetto compreso a livello mondiale, che ha la sua origine nello sport. Non è solo un elemento fondamentale dello sport, ma è diventato anche una filosofia più generale basata sul rispetto degli altri ed delle regole, sia in campo sportivo sia negli affari o in altri settori competitivi. Pubblicazioni come Fair play in sport: a moral norm di Sigmund Loland (2002) e la creazione di una serie di 56 comitati, trofei e premi legati ad esso, a livello nazionale e internazionale, sottolineano il suo peso e la sua importanza per lo sport e la società. Questo lavoro esamina le origini del concetto di fair play e lo collega alle origini dello sport moderno in Gran Bretagna. Le forme tradizionali dei giochi e delle attività ricreative nella Merry old England, l‟Inghilterra preindustriale, spesso erano legate al calendario liturgico e alta mente ritualizzate. Le norme erano molto diverse da un luogo all‟altro. Queste competizioni fisiche tradizionali spesso avevano una natura caotica e violenta; si contrapponevano giocatori provenienti da paesi e città vicini o da zone diverse della città. Un esempio di tale tipologia di gioco violento sopravvissuto fino ai giorni nostri è, ad esempio, l‟annuale incontro calcistico che si tiene negli ultimi tre giorni di Carnevale ad Ashbourne nel Derbyshire. Molto recentemente Hugh Hornby ha descritto in modo eccellente le quindi forme ancora esistenti del cosiddetto festival football nel libro Uppies and downies: the extraordinary football games of Britain (2008). Al contrario, lo sport moderno è caratterizzato da un‟impostazione più razionale ed ordinata. Che lo sport moderno fosse nato durante il 18° e 19° secolo sui campi di gioco delle Public school1 era una opinione diffusa. Alcuni storici dello sport stanno però contestando la tesi che il calcio e il rugby avrebbero avuto origine esclusivamente nelle Public school (Inglis, 2008). Lo sport moderno può essere definiti come: “…le attività fisiche di natura ricreativa e agonistica, nelle quali un praticante cerca di vincere o i proprio limiti fisici (il motto olimpico: citus, altius, fortius) o un ostacolo esterno (avversario/i, ostacolo naturale come una montagna, ecc.) secondo un codice di comportamento predefinito (fair play, regolamento, ecc.)”. Il fair play ha avuto origine in Gran Bretagna come esponente di questo ethos sportivo; da qui è stato esportato nel continente europeo e in tutto il mondo. La prima generazione di zeloti europei dello sport, come ad esempio Pierre de Coubertin in Francia, era affascinata da questo nuovo modo di vivere sportivo sviluppatosi in Gran Bretagna, che ritenevano una nuova forma di m oralità pratica. 57 Nel 1897, nella sua opera dal titolo ad effetto: A Quoi tient la supériorité des anglo-saxons, Edmond demolins scriveva: “Anche quando non lavora, l‟inglese ha bisogno di sforzo: o praticando canoa, giocando a cricket, a calcio; affronterà una difficile e pericolosa scalata per il semplice motivo di avere superato una difficoltà”. Un altro anglofilo, il tedesco Rudolf Kircher nel 1927 nel suo libro: Fair Play: Sport Spiel un Geist in England affermava che non si può comprendere lo sport moderno ed il suo spirito di fair play senza comprendere la società inglese nel suo complesso: “Lo sport è gioco, ma il concetto di “gioco” (play2) va molto al di là dell‟ambito dello sport… Lo spirito ludico [Spieltrieb], anche tra gli inglesi, si esprime non solo in giochi (games) muscolari ma permea in modo profondo la vita culturale dell‟intera vita della nazione… se si distrugge lo spirito ludico dell‟Inglese, si distrugge lo spirito della nazione”. Questo tema è stato ripreso sa Hans Indorf nella sua opera del 1938, Fair Play und der englische Sportgeist. Di nuovo, il fair play era visto come una peculiarità della società inglese. 4.2 Cosa c’è in una parola? La parola fair deriva dall‟Inglese antico faeger, simile alla parola dell‟Alto Tedesco Antico fagar, che significa bello. Play deriva dall‟Inglese Antico plega, simile alla parola dell‟Inglese Antico plegian, che significa giocare. È equivalente dell‟Alto Tedesco Antico pflegan e del Medio Olandese pleyen. Il verbo olandese plegen, impegnarsi, e quello tedesco pflegen, esistono ancora, ma il sostantivo olandese equivalente a play è spel, con il verbo spelen, legati ai tedeschi spiel e spielen (Gillmeister, 1993). Il termine game (gioco) risale al Medio Inglese e deriva dall‟Inglese Antico gamen, simile al termine dell‟Alto Tedesco Antico gamen, che significa divertimento. Il vecchio termine è sopravvissuto in backgammon, un gioco in cui i pezzi sono talvolta costretti a muoversi all‟indietro. La parola game (selvaggina) può anche indicare gli animali che vengono cacciati per sport o per procacciarsi cibo. Sarebbe 58 interessanti guardare nelle parole chiave (keyword)3 il modo/i in cui questi due significati di game si legano tra loro. Se consideriamo le Game Laws (Leggi venatorie) inglesi, vediamo che si occupano dei diritti e dei controlli legali esistenti relativi a una varietà di animali. Non vi è una definizione complessiva di game (selvaggina): piuttosto, lo stesso termine è stato definito in un certo numero di Acts of Parliament (leggi del Parlamento). Ad esempio, il Game Act del 1831 includeva lepri, fagiani, pernici e galli cedroni. I cervi furono inclusi per l‟applicazione del Game Licenses Act risalente al 1860, mentre lepri e conigli furono definiti ground game (selvaggina minuta). D‟altro canto, non ci sono diritti di proprietà assoluti per quanto riguarda gli animali selvatici (volpi, tassi linci, ecc.) (Collins, Martin, Vamplew, 2005, 132). Se guardiamo le classiche enciclopedie sportive del periodo della Belle Epoque, ad esempio The encyclopaedia of sports and games, curata dall’Earl of Suffolck and Berkshire, pubblicata in quattro volumi nel 1911, troviamo che per il 70 o l‟80% i lemmi riguardano tutti i tipi di animali che possono essere cacciati, non solo in Europa ma in tutto il mondo. Perfino in uno “sport sanguinario” come la caccia, però, si osservavano i principi del fair play e si distingueva tra fair game (inseguimento, attacco legittimo, ecc.) e forbidden game. 4.3 L’evoluzione dello sport moderno Gli storici dello sport come Manfred Lämmer, Ingomar Weiler, David Young e molti altri hanno sfatato il mito per cui gli inventori del fair play sarebbero stati gli antichi Greci. L‟archeologo e storico francese Paul Veyne (citato in Weiler 1991, 55) dichiarava che giocare sulla base di un gruppo predefinito di regole (game) sembra sia un‟invenzione anglosassone, mentre gli antichi Greci invece di cercare di rispettare un gruppo di regole artificiali cercavano di imitare la realtà brutale della guerra. Anche i sociologi dello sport hanno cercato di sfatare il mito del fair play degli “antichi maestri”. Gli sport dell‟antica Grecia si basavano su un ethos guerresco ed erano incentrati su tradizioni legate all‟onore piuttosto che alla fairness”4 (Dunning 1971, 83). 59 “I pugili di Olimpia non erano classificati in base al peso e lo stesso succedeva per i lottatori” (Elias 1971, 102). È possibile trovare le tracce di un interesse morale nei confronti delle attività ludiche e dei giochi già tra gli umanisti del periodo rinascimentale, come Erasmo e Jiuan Luis Vives, già colleghi presso il famoso Collegium Trilingue di Lovanio. Lo spagnolo Vives era profondamente colpito dalla violenza del suo tempo e disapprovava, ad esempio, i giochi utilizzati per l‟addestramento militare. Nelle sue “Sei leggi del gioco”, formulate nella sua opera dei 1538, Linguae Latinae exercitatio, dichiarava (nella quinta legge) che: “Nessun gioco dovrebbe servire a fomentare l‟ira o il conflitto tra i giocatori, ma durante tutto il gioco i giocatori devono essere compagni, allegri, gioiosi e gai, né vi deve essere alcuna traccia di inganno, meschinità o avarizia”. (citato in Renson 1976, 9) Nella sua opera pioneristica Fair play: ethics in sport and education (1979, 201), Peter McIntosh rileva che un altro che riteneva che il football5 potesse avere fini educativi e morali, era Richard Mulcaster, preside della Merchant Taylors’ School di Londra dal 1560 al 1586. Nel suo Homo ludens (1938, 12), il famoso studioso olandese Johan Huizinga ha analizzato in modo critico l‟elemento ludico nello sport contemporaneo e le origino dello stesso: “sebbene si sia sempre fatto a chi corresse, remasse o nuotasse meglio o si tuffasse per più tempo… pure queste forme di competizione assumono in grado ristretto il carattere di giochi organizzati… ci sono tuttavia altre forme che si sviluppano da sé a giochi organizzati con un sistema di regole… che questo fenomeno ha preso inizio nell‟Ottocento inglese si spiega fino ad un certo punto… certamente vi hanno collaborato le qualità particolari della società inglese… l‟autonomia locale rafforzava lo spirito di unità interna e di solita reità. La mancanza dell‟esercizio militare obbligatorio e generale… le forme della vita scolastica… infine la natura del terreno e del paesaggio… devono avere avuto un‟enorme importanza… Così l‟Inghilterra divenne la culla ed il centro della moderna vita sportiva”. Dalle scommesse alla fairness: lo sport moderno come metafora di uguaglianza Il sociologo Norbert Elias (1971, 101), padre della teoria della civilizzazione, ha dimostrato che un maggiore accento verso il piacere prodotto da giochi competitivi 60 (game-contest) e, in particolare, la tensione-eccitazione creata da esse in una certa misura erano legati al piacere dello scommettere. Affermava anche che le scommesse avevano svolto un ruolo importante sia nella trasformazione in sport delle forme “più rozze” dei game-contest sia nello sviluppo dell‟ethos della fairness in Inghilterra. Peter McIntosh (1979, 2) ha giustamente affermato che la fairness è un‟idea e, forse, anche un ideale, implicitamente o esplicitamente presente nei rapporti umani. Le espressioni critica equanime, prezzo gusto, rispetto delle regole, commercio equo indicano, comunque che la fairness non è solo limitata allo sport e al fair play. Inoltre: “la fairness è legata alla giustizia e la giustizia è fondamentale… per la sopravvivenza della specie umana”. In un saggio molto orignale, Sport as a symbolic dialogue C. E. Ashworth ha avanzato la tesi secondo cui se la vita può essere considerata un gioco nel quale le identità vengono determinate, analizzate e forse perfino abbandonate, allora i giochi possono essere considerati forme idealizzate della vita sociale. I giochi – attraverso le proprie regole – determinano l‟identità con una certezza consensuale che non è sempre possibile nella vita sociale. Pertanto, Ashworth (1971, 45) considerava lo sport un dialogo simbolico: “L‟uomo moderno insiste sul concetto di “uguaglianza” (equality) nello sport, ossia sulle rigide regole formali che rendono i fattori che vanno al di là delle singole abilità uguali per tutti. Ecco perché si definisce uguale”. L‟uguaglianza, o parità è anche la seconda delle sette caratteristiche fondamentali dello sport moderno, individuate da Allen Gttmann nel so classico From ritual to record. The nature of modern sport (1978). Le sette caratteristiche di Guttmann sono il secolarismo, l‟uguaglianza, la specializzazione, la razionalizzazione, la burocrazia, la quantificazione e i record. Il principio di uguaglianza implica che in teoria tutti dovrebbero avere l‟opportunità di competere e che le condizioni in cui si compete dovrebbero essere le stesse per tutti i competitori. Una parità di opportunità (che crea uguali opportunità all‟inizio della competizione) non è solo un principio democratico, è anche un fattore necessario che contribuisce a creare tensione relativamente all‟esito di un gioco, rendendo lo scommettere una cosa 61 interessante, sebbene imprevedibile. Questa cosiddetta parità di opportunità era applicata, per assurdo, anche la caccia alla volpe. Elias (1986, 168) riteneva che senza una tale organizzazione, basata su principi di correttezza, il piacere e l‟eccitazione legate alla tensione della “lotta”, che era e rimane lo scopo principale della caccia alla volpe, sarebbero troppo scarse. Nondimeno, questo “sport” ha generato discussioni tra coloro che davano valore maggiore alla caccia stessa (concentrati sul processo) e coloro che davano maggiore valore all‟uccisione della volpe (concentrati sul processo), tra i sostenitori di un good sport e i sostenitori del gaining Victory. “ Non si potrebbe avere un good sport senza una struttura che fosse in grado di mantenere per un certo tempo un equilibrio moderatamente instabile di opportunità per gli avversari…” Sembra però che il principio di uguaglianza, una certa forma incipiente di specializzazione e un certo controllo della violenza, fossero già stati introdotti nel football prima del 18° secolo dell’Egalité, Fraternité et Liberté. Nel Francis Willoughby’s book of game: a seventeenth century treatise on sport game and pastimes, pubblicato nuovamente nel 2003, si può leggere (168): “I giocatori sono equamente divisi a seconda della propria forza e della propria capacità… Di solito lasciano alcuni dei migliori giocatori a guardia della porta mentre il resto segue la palla. … Spesso si rompono le gambe a vicenda quando si scontrano e lottano per la palla, pertanto c‟è una legge che dice che non devono colpire più in alto della palla”. Anche il principio dell‟handicap in sport come l‟equitazione, il golf, e perfino il tennis, è stato introdotto per garantire un equilibrio di opportunità ad atleti di categorie diverse di peso o che presentano diversi livelli di abilità. Il termine non deriva da hand in cape (mano nella cappa) o hand on cap (mano sul berretto), come viene spesso detto, ma da hand in cap (mano nel berretto). In origine, hand in cap era il nome di un gioco diffuso nel commercio, che vedeva la presenza di due commercianti e di un giudice o sensale. Un tipico esempio del 14° secolo potrebbe essere lo scambio di un mantello per un cappuccio. Il sensale stabiliva la differenza di valore (boot oppure odds) tra i due 62 articoli da vendere. I due commercianti mettevano le mani in un berretto e le estraevano contemporaneamente. Una mano aperta esprimeva l‟intenzione di fare lo scambio e una mano chiusa esprimeva il rifiuto di fare lo scambio. Intorno al 1750, il termine handicap ha iniziato ad essere usato per le corse ippiche (The Oxford English Dictionary, 1989; Crowley Et Crowley 1999). Allen Guttmann (2004, 98), che ha attentamente analizzato la natura dello sport moderno, ha sottolineato che la modernità era evidente nella tendenza a creare condizioni volte a garantire una parità di condizioni nelle competizioni, una tendenza che fu portata all‟estremo in Francia dove in alcune gare di atletica leggera i partecipanti venivano soggetti a handicap in base all‟età: i corridori più vecchi partivano indietro rispetto alla linea di partenza, un metro per ogni sei mesi al di sopra dei sedici anni. Come afferma Guttmann: “… questo esperimento sull‟uguaglianza ora sembra bizzarro, ma gli handicap basati sul peso sono ancora dati per scontati nelle corse ippiche”. 4.4 “Essere un buon animale”: lo sport moderno come metafora della concorrenza Nel 1860, il filosofo inglese Herbert Spencer (1820 – 1903) pubblicò una piccola monografia, Education: intellectual, moral and physical nella quale si può trovare questa citazione: “Le persone stanno iniziando a vedere che il primo requisito per avere successo nella vita è “essere un buon animale”; ed essere una nazione di buoni animali è la prima premessa per la prosperità nazionale”. Mentre Ashworth (1971) vedeva lo sport moderno come una metafora dell‟uguaglianza, Richard Holt (1989, 97) ha dimostrato che lo sport fungeva anche da metafora della competizione, nel periodo in cui la Gran Bretagna dominava i mari. L‟ideologia della competizione e della “sopravvivenza dei più forti” hanno fortemente caratterizzato la metà del 19° secolo, quando le merci britanniche conquistavano il mercato mondiale. Lo sport preservava l‟etica della competizione o, 63 più precisamente, l‟etica della competizione leale, con la quale gli Inglesi prosperavano: “Ridimensionare la mera vittoria in un gioco a favore della partecipazione rientrava nell‟impulso che ciò dava alla partecipazione su larga scala e all‟idea della vita come lotta costante. Insegnando ai ragazzi sia a perdere, sia a vincere con dignità, si rafforzava il più ampio principio della competizione”. L‟insieme delle regole, incluse quelle che garantivano fairness, pari, pari opportunità di vittoria per tutti i partecipanti, divenne più rigido. Le regole diventarono sempre più precise ed il controllo di tali regole più efficace: pertanto, divenne più difficile eludere le punizioni in caso di loro inosservanza (Elias 1986, 151). J.E.C. Weldon, preside della Harrow School dal 1881 al 1895, affermava, molto esplicitamente: “Il mio grande desiderio è che i giochi atletici siano preservati da tutto ciò che possa contaminare lo spirito del gioco. Perché la lezione del fair play nello sport è la lezione di onestà negli affari…” (citato in Mangan 1998, 37). Lo storico dello sport, James Anthony Mangan (1891, 1998) ha collegato in modo chiaro etica dei giochi e imperialismo britannico, fornendo molti esempi a riguardo. Uno di questi esempi è una citazione dall‟articolo del 1916 di John Astley Cooper nel giornale United Empire, intitolato: “Lo spirito dello sport e della guerra nell‟Impero Britannico”. Secondo Cooper, la guerra era una crociata di un “cristiano muscolare”6; l‟impero era la “terra santa”, non da riconquistare, ma da preservare. Cooper era contento che quando le tradizioni sportive di un intero popolo erano in bilico, “si faceva avanti l‟innato istinto al fair play! Un vero sportivo detesta un prepotente e la Kultur tedesca è agli antipodi dello spirito dello sport, tipico dell‟Impero Britannico” (citato in Mangan, 1998, 55). 4.5 Le Public school e lo sport moderno Eric Dunning (1971, 134) studiando i fattori sociali che hanno contribuito allo sviluppo del calcio moderno ha sottolineato che dalla seconda metà del 18° secolo le forme tradizionali di football hanno iniziato gradualmente a scomparire, principalmente a causa dello sviluppo dell‟industrializzazione e dell‟urbanizzazione. 64 Nelle Public school, contemporaneamente, cominciarono a emergere nuovi modelli di gioco più adatti a una società in via di urbanizzazione e industrializzazione. È opinione comune che gli sport moderni si siano formati nelle Public school d‟elite nelle quali l‟autogoverno era un‟innovazione pedagogica e il fair play e il comportamento da “gentiluomini” attenuavano la violenza tollerata sui campi di gioco. “Prendere parte al gioco per amore del gioco” era un riflesso della cultura sportiva elitaria e gratuita del vero “dilettantismo”. Prendere parte al gioco in modo corretto per amore della sopravvivenza è un‟affermazione che vorrei fare per spiegare la natura strumentale o funzionale dell‟etica del fair play. I traumi fisici erano ancora comuni negli incontri calcistici che si disputavano nelle Public school del 19° secolo. Molto diffuse erano le fratture della tibia, provocate dai calci – ammessi – che dava l‟avversario con i navvies, che erano le pesanti calzature di cuoio chiodate, originariamente usate da coloro che scavavano i canali (navigators) e successivamente da coloro che lavorarono alla costruzione delle ferrovie. Gradualmente nel gioco la componente della “lotta simulata” però comincio a guadagnare terreno e spese della componente della “lotta reale”. Il calcio iniziò a divenire una forma di competizione di gruppo che, nei limiti del possibile, produceva il piacere di uno scontro reale senza però i rischi e pericoli che esso comportava (Dunning 1971, 144). Il maestro di Dunning, Norbert Elias (1986, 151), ha descritto gli sport come “… giochi competitivi che implicano uno sforzo muscolare realizzato a un livello di ordine e di autodisciplina da parte dei partecipanti mai conseguito in precedenza”.. questi sport, contemporaneamente arrivarono a incorporare una serie di regole che assicuravano un equilibrio tra il possibile raggiungimento di un elevato livello di tensione agonistica e un livello ragionevole di protezione dagli infortuni fisici. nel 19° secolo, erano gli stessi ragazzi ad avere la responsabilità di gestire il loro calcio, in quanto la maggior parte degli insegnanti erano ostili o indifferenti nei confronti del gioco. Secondo lo spirito dell‟autogoverno erano i giocatori stessi a risolvere i conflitti e le discussioni che nascevano durante il gioco: “…spettava ai 65 giocatori risolvere, attraverso i propri capitani, tali divergenze; l‟arbitro nel calcio èa arrivato tardi sul campo e non ha avuto il fischietto fino al 1891” (Melntosh 1979,118) Thomas Arnold, preside del Rugby College dal 1828 al 1842, fu spesso definito – e addirittura venerato da Pierre de Coubertin – come il principale fautore della riforma scolastica in Inghilterra e la persona che era riuscita ad affrontare le crisi endemiche di violenza tra gli scolari. Non è stato però Thomas Arnold a parlare di influsso morale dello sport, ma uno dei suoi assistenti, G.E.L. Cotton, che divenne preside del Marlborourgh College nel 1852 (Mcintosh 1979, 27). Nel popolare romanzo di Thomas Hughes, Tom Brown’s schooldays (1857), Tom ed alcuni suoi compagni di scuola discutono sul cricket con un giovane insegnante, la cui figura si ritiene sia ispirata a quella del Reverendo Cotton, vicepreside a Rugby dal 1837, che nel romanzo, insegna loro l‟ideologia del gioco: “Penso che disciplina e fiducia reciproche che esso insegna siano molto importanti” diceva il maestro “Dovrebbe essere un gioco disinteressato, fonde il singolo individuo in altre undici persone; non gioca per vincere lui, ma perché possa vincere la sua squadra” Era un principio della Public school di Rugby di Thomas Arnold che dal ragazzo irresponsabile venisse fuori l‟adulto responsabile. Nel suo romanzo, Thomas Hughes sottintende che i giochi non avevano importanza immediata per Arnold come pedagogo e non facevano parte delle sue responsabilità di preside. I giochi erano divertimento e, pertanto, esclusivo appannaggio dei ragazzi. Tutti gli aspetti dello sport come vengono visti nel romanzo sono questioni che riguardano individui, squadre o edifici scolastici. Gli insegnanti mostrano un interesse benevolo, offrendo consigli, mai organizzazione (Sanders 1989, XII – XIII). 4.6 Il fantasma di Tom Brown Tom Brown divenne un eroe vittoriano e un modello di ruolo per i giovani alle prese con i problemi dell‟adolescenza. Rugby divenne un luogo mitico dove era nato il rugby; divenne addirittura un luogo di pellegrinaggio per Pierre de Coubertin, che santificò Thomas Arnold definendolo “padre dello sport moderno” (Macaloon 1981). 66 Altri sono stati molto meno clementi verso il romanzo di Hughes. Ad esempio, nel suo saggio: The shadow of Tom Brown, Richard Usborne (1977) ha suggerito che Tom Brown’s schooldays sia stato il primo a instillare nella classe dirigente inglese due credenze irrazionali: anzitutto, che i maschi debbono accogliere coraggiosamente le punizioni corporali prepotenze, frustate, pugni, risse tra alunni, giochi violenti, morsi e dita negli occhi nelle mischie, rompersi il collo cacciando, essere ferito o morire in battaglia per il proprio paese). In secondo luogo, che le punizioni corporali debbono essere inflitte e sopportate coraggiosamente se vengono sanzionate dall‟autorità e talvolta anche quando non vengono sanzionate (angariare allievi più piccoli, se sei un prefetto, direttore del collegio, padre; mordere e cacciare le dita negli occhi nelle mischie – senza essere visto dall‟arbitro; infliggere pene capitali se sei un giudice o un boia; migliaia di vittime preferibilmente nemiche ma, se necessario, tra i tuoi uomini se sei un signore della guerra, in uniforme o in abiti civili). George MacDonald Fraser (1977) ha evidenziato che il codice d‟onore delle Public school può funzionare solo in quella società chiusa e che gli alunni agiscono con una buona dose di buonsenso sapendo quanto troppo è troppo. La stessa aura mitica circonda la Scuola di Eton, dove è nato l‟Association Football (cioè il calcio attuale). Camminando sui campi di gioco, il Duca di Wellington avrebbe detto: “ È stato qui che si è vinta la battaglia di Waterloo” (McIntosh 1979, 34). La verità era meno idilliaca: il Duca era stato ad Eton, ma non amava la scuola; inoltre nella “sua” Eton non vi erano attività ludiche obbligatorie e quando fece visita alla sua vecchia scuola non sapeva nulla di campi di gioco. Quello disse realmente è “Credo davvero di dovere il mio spirito di iniziativa ai tiri mancini che giocavo nel giardino”. Paul Johnson (1977, 14 – 15) ha osservato che una cosa è demolire la mitologia, un‟altra valutare correttamente l‟influsso che le Public school hanno esercitato – ed esercitano tuttora – sulla vita pubblica. Anthony Storr (1977, 98), uno psichiatra, ha sollevato la stessa questione: “Il sistema delle scuole secondarie private promuove la salute e la maturità psicologiche oppure produce “vecchi ragazzi” che non crescono mai? 67 Vorrei attirare l‟attenzione sul fatto che Tom Brown’s schooldays non ha solo generato centinaia di altri romanzi ambientati nelle scuole pieni di cricket, calcio ed altri sport, in Gran Bretagna, ma anche in America, dove il Gesuita Francis Finn (1859-1928) produsse la versione cattolica del fair play e della vita di collegio. Sia le virtù educative sia i vizi pericolosi legati a questi sport sono esposti nei popolari romanzi di Finn, che hanno titoli come Tom Playfair, Percy Winn, Claude Lightfoot, Harry Dee e That football game. Questi libri sono stati amati anche dai giovani europei della generazione di mio padre (ne posseggo ancora le copie) e sono stati visti come una versione cattolica di un Cristianesimo muscolare. 4.7 Dalle Public school alle classi lavoratrici: dilettanti contro professionisti Visto l‟elevato livello di autogoverno del quale godevano i ragazzi, le loro lotte per il potere all‟interno delle scuole e il fatto che come preferiti, cioè studenti anziani con mansioni disciplinari, si abituavano ad esercitare il potere sin da piccoli, molti pedagoghi di stampo tradizionale erano convinti che le Public school fossero un utile campo di addestramento per i giovani membri della loro classe. Il calcio, grazie al suo essere “civilizzato” e al fatto che era stato accettato nella Public school, che gli avevano dato una certa rispettabilità, verso il 1850 era divenuto un‟attività socialmente ammessa per giovani gentlemen adulti (Dunning 1971, 140, 146). A tale riguardo, Norbert Elias (1986, 168) ha rilevato che l‟ethos sportivo non era l‟ethos delle medie classi lavoratrici al quale si applicano termini come morale o moralità, ma l‟ethos delle ricche, sofisticate e relativamente discrete classi abbienti. In questo contesto, la lotta per la sopravvivenza dei dilettanti (amateur) può essere vista come lotta di coloro che consideravano un proprio privilegio i diritti ereditari, il rango e la noviltà di sangue, contro coloro che: “non rispettavano nessuno tranne che per i propri meriti e per le proprie azioni). Il primo punto di vista fu espresso chiaramente dal direttore del Radley College nel 1849: “Un gentiluomo sa e ringrazia Dio che invece di fare tutti gli uomini uguali li ha fatti per lo più ineguali (citato in Wigglesworth 1996, 87, 103). 68 Richard Holt (1989, 1992, 2006) ha messo in evidenza che tali argomentazioni morali non erano che pedine nella lotta di classe sportiva tra gentlemen dilettanti e professionisti della classe lavoratrice. L‟argomentazione utilizzata dall‟elite dei dilettanti (amateur) era che se lo sport fosse stato commercializzato vincere sarebbe diventato più importante di partecipare; se ciò fosse successo, una partita non sarebbe stata più un incontro amichevole, ma una lotta dura per ottenere punti in un campionato. Le squadre sarebbero divenute schiave dei propri tifosi che sarebbero stati più interessati al successo che al fair play. Holt (1989, 104) sostiene che questa visione degli alti sacerdoti del dilettantismo vittoriano era corretta; ciò che non era accettabile era il modo in cui tali valori venivano messi in pratica: “Il codice dilettantistico, in pratica, era spesso un mezzo per escludere i giocatori delle classi lavoratrici dalle competizioni ad alto livello”. Fair play era la parola d‟ordine del gentlemen amateur. Il termine “dilettante” (amateur) ora è arrivato a significare qualcuno che non compete per denaro ma il significato originale era più sottile. Fair play implicava non solo il rispetto delle regole scritte dal gioco, ma il rispetto di ciò che era generalmente inteso come lo spirito del gioco. Lo sport non doveva essere solo praticato con lo spirito giusto, doveva essere praticato con stile, in aderenza allo slogan “Lotta senza rabbia, arte senza malizia”, come hanno cantato generazioni di studenti di Harrow (Holt 1989, 89-99). Man mano si è passati dalla distinzione originaria tra genltemen e players alla rigida distinzione tra dilettanti e professionisti. La nuova importanza del “modo in cui si era giocato”, come dice il proverbio, aggiungeva importanza alla vessata questione del pagamento. Il termine professional (professionista) è entrato in uso verso il 1850 e amateur (dilettante) versi il 1880; prima del 19° secolo, i termini gentlemen e players erano utilizzati principalmente nel cricket per definire coloro che godevano di mezzi propri e coloro che non li avevano. Quindi, in origine, la distinzione riguardava solo la posizione sociale e non si riteneva fosse disonorevole praticare uno sport per denaro (Holt 1898, 103). 69 Il famoso Cortinthian Football Club, fondato nel 1882, all0inizio decise di disputare solo incontri amichevoli contro altre società dilettantistiche, soprattutto squadre della zona di Londra. Si rifiutava di entrare nella Football League o di gareggiare nella Football Association Cup a causa delle sue regole originarie, che gli impedivano di gareggiare per coppe o premi. Rifiutava anche i rigori, ritenendo che fossero contrati allo spirito del gioco. Quando nel 1900 presero infine parte ad una competizione, sconfissero l‟Aston Villa, campione della Football League, per 2 – 1 (Cavallini, 2007). I difensori del dilettantismo avevano anche altri motivi; convinti che lo sport dovesse essere uno svago piuttosto che una vocazione, condannavano perfino le specializzazioni (Guttmann 2004, 98). I veri dilettanti, che ancora consideravano l‟allenamento e la competizione un passatempo, ritenevano anche che un allenamento intensivo portasse a ineguaglianze dal punto di vista della competitività”… se dovevano prendere i propri posti sulla linea di partenza a fianco di lavoratori a tempo pieno” (McIntosh 1979, 138). L‟uso del vocabolario della fairness, derivato dallo sport amatoriale, era importante in tutti gli aspetti della vita pubblica ed era attivamente incoraggiato dalle classi predominanti politicamente (McKibbin 1990, 22). I sacerdoti del Cristianesimo muscolare e i Socialisti cristiani (christian socialist) molti dei quali si erano formati nelle Public school, hanno svolto un ruolo fondamentale nella diffusione del rugby e del calcio nelle classi lavoratrici. Mentre la classe media e quella alta sottolineavano l‟importanza della competizione individuale nell‟ambito del lavoro, nelle attività del tempo libero enfatizzavano lo spirito di squadra, il fair play e la cooperazione: “Giocare per soldi doveva farlo funzionare”. Ma, ahimè, anche le società dilettantistiche erano costrette ad adottare metodi nascosti di pagamento per attirare e trattenere i giocatori di alto livello”… “lo pseudo dilettantismo” divenne la regola” (Dunning, 1971, pag. 149). 70 4.8 Il declino della cultura sportiva dilettantistica: da Eton ai Pro Show Il termine amateur deriva dal verbo latino amare; gli amateur, i dilettanti, sono pertanto considerati atleti che giocano solo per amore del gioco. Il dilettantismo significava però molte cose; era parte di un “processo di civilizzazione” del self restraint, ma anche un modo di promuovere lo spirito di competizione nel suo interesse. L‟ostilità nei confronti delle scommesse poneva chiaramente lo sport dilettantistico nel campo dell‟etica del lavoro protestante e della borghesia industriale, in opposizione all‟aristocrazia. Gli aristocratici, con il loro codice d‟onore preindustriale, continuavano a scommettere sui cavalli pur disapprovando il pagamento dei giocatori professionisti. Ai loro occhi, pagare i giocatori rovinava il divertimento e sminuiva il fine morale dei giochi competitivi, ossia il miglioramento del corpo e del carattere Holt, 1992). Dove lo abbiamo già sentito? Mens sana in corpore sano; mi chiedo però perché gli apologeti dell0‟educazione fisica e dello sport dimentichino sempre di citare l‟intera frase del poeta romano Giovenale (ca. 60140), che in realtà è: Orandum est ut sit mens sana in corpore sano (Satira, 10, 356) ovvero “Dobbiamo pregare perché vi sia una mente sana in in corpo sano”. Jogn Hullet del Liverpool Athletic Club utilizzò la ben nota citazione nel 1862 come motto di una competizione durante il primo Festival olimpico di Liverpool Athletic Club utilizzò la ben nota citazione nel 1862 come motto di una competizione durante il primo Festival olimpico di Liverpool; da allora ha vissuto di vita propria in quanto illustra perfettamente il “pio desiderio”. Il graduale declino del dilettantismo nello sport è ben documentato nel libro On the Corinthian spirit di D.J. Taylor (2006). Nella Dichiarazione sul Fair Play dell‟International Council of Sport and Physical Education (ICSPE, Consiglio Internazionale dello Sport e dell‟Educazione Fisica), pubblicata nel 1975 presso la sede dell‟UNESCO di Parigi, si poteva ancora leggere: 71 “Il fair play … richiede come minimo che lui [il partecipante] mostri un rigido e continuo rispetto della regola scritta … [obbligatori]; …. il fair play è incarnato nel mostrarsi modesti nella vittoria, nell‟accettare con grazia la sconfitta … [encomiabile]; … l‟arbitro non dovrebbe limitare il suo impegno al campo o all‟arena di gioco. Va a suo onore se … cerca il contatto prima e dopo le manifestazioni con i concorrenti … [encomiabile]”. (citato in McIntosh 1979, 122-123) Temo che se un arbitro lo facesse oggi sarebbe sicuramente espulso dalla sua Federazione. In opposizione a tale visione – piuttosto “idealistica” o dovrei dire “paternalistica” – degli sport dilettantistici dei bei vecchi tempi, c‟è il fatto che gli sport che prevedono la presenza di spettatori sono divenuti “ … die wichtigste Nebensache der Welt” “la cosa secondaria più importante del mondo). Dieci anni prima dell‟abolizione ufficiale della regola del dilettantismo da parte del movimento olimpico, Allen Guttmann (1978, 31-32) scriveva: “La regola del dilettantismo era uno strumento di lotta di classe …, il tentativo di limitare gli sport ai gentiluomini provvisti di mezzi sopravvive ancora nell‟anacronistico ruolo di dilettante … I Paesi occidentali dovrebbero finalmente abolire la distinzione tra dilettanti e professionisti ne4lla sua forma attuale, in quanto da tempo è divenuta anacronistica ed è intrisa di ipocrisia e beffata dalla pratica dei Paesi comunisti dove i dilettanti dedicano allo sport lo stesso tempo che vi dedicano i nostri professionisti”. Mentre Guttmann implorava che si abolisse l‟ipocrita e anacronistico ruolo di dilettante, Peter McIntosch (1979, 138), da un punto di vista pedagogico metteva in guardia dalla profesionalizzazione dei Giochi olimpici. Si lamentava del fatto che questi predicassero e promuovessero pubblicamente l‟umanitarismo, gli ideali del dilettantismo, la partià a livello agonistico, l‟amicizia nella gara e altri valori umani, ma che contemporaneamente, onorando il proprio motto “Citius, altius, fortius”, contribuissero alla professionalizzazione dello sport. McIntosh (1979, 139) era deluso dalla vuota retorica del movimento olimpico durante la crisi legata alla Guerra Fredda, quando i termini dilettantismo e fair play avevano connotazioni piuttosto farsesche e in opposizione a quelle morali. Probabilmente, con grande rimpianto e dolore nel cuore, predisse l‟inevitabile biforcazione tra educazione fisica da un lato e il business dello sport competitivo dall‟altro. Quando scrivevano i loro testi alla fine degli anni ‟70, Guttmann e 72 McIntosh avevano, dunque, opinioni molto diverse sulla trasformazione dello sport di vertice in industria dello spettacolo. Se Guttmann era un osservatore obiettivo che prendeva atto della nascita di un0‟industria basata su uno sport spettacolare, globalizzato e professionalizzato (vedasi anche il suo libro Sports spectattors, 1986), McIntosch stava ancora combattendo un‟azione di retroguardia contro il declino dell‟ethos dilettantistico e la perdita dello spirito del fair play nello sport. McIntosh, quindi, dovrebbe essere considerato un ingenuo nostalgico ancorato al passato e Guttmann un freddo osservatore senza “impegno” sociale? Credo che entrambi stessero analizzando tipolo9gie diverse di sport e da punti di vista diversi. Lo studioso americano Allen Guttmann, egli stesso immerso culturalmente nel Whole new ballgame (1988) della scena sportiva “made in America”,, affrontava il tema dello spettacolo sportivo basandosi sul buon senso. Il professore inglese di educazione fisica, Petere McIntosh, era interessato al difficile tema dell‟educazione morale in rapporto allo sport; forse non distingueva abbastanza tra educazione fisica in sport che si è verificata nel continente europeo dove, prima degli anni ‟60, la ginnastica svedese, la ginnastica tedesca (Turnen), o sistemi più eclettici dominavano ancora i programmi di educazione fisica (Renson 1999). Taluni hanno visto questa evoluzione non come un aggiornamento, ma piuttosto come un fiasco educativo oppure, come Gilbert Andrieu (1992, 153), sono arrivati alla conclusione che: “L‟educazione fisica è malata perché somiglia troppo allo sport”. Dal primo Congresso olimpico del 1894, il cui il tema centrale era il principio del dilettantismo insieme alla reintroduzione dei Giochi olimpici, i giochi sportivi, gli altri sport, il Movimento olimpico hanno attraversato un processo di drastici cambiamenti. Sono passati “da Eton al Pro Show”. I giochi sportivi e lo sport non rappresentano più la prerogativa esclusiva della classe agiata; il movimento “Sport per tutti” si è impegnato a democratizzare le attività fisiche per i due sessi, per tutte le fasce d‟età e per tutte le classi sociali. Dai Giochi di Seul del 1988, però, il dilettantismo non è più principio alla base del movimento olimpico e la scena sportiva è divenuta una parte 73 integrante del mercato dello spettacolo professionistico o “Pro Show” dove valgono regole diverse … rispetto ai campi di gioco di Eton. Lo sport moderno ha avuto origine in Gran Bretagna come prodotto culturale della modernità che poneva l‟accento sull‟uguaglianza e la competizione. Il fair play era il credo morale di questa nuova cultura sportiva. Guttmann (1985) lo considerava una nuova cultura cavalleresca, creata dalla classe alta e medio – alta dell‟Inghilterra del 19° secolo. Facile pensare che il fair play sia stato propugnato al semplice scopo della sopravvivenza in giochi violenti praticati inter pares. Pierre de Coubertin, il padre fondatore del moderno Movimento olimpico, adottò questo prodotto culturale britannico come fondamento della sua Pèdagogie sportive diffondendo questo vangelo sportivo in tutto il mondo. Lo sport, però, non è di per sé stesso educativo, ma solo se posto in un contesto educativo (Renson 23003). Il problema è pertanto se – e in caso positivo, in che misura – quando e in che modo un tale contesto educativo possa essere reso “operativo” sui nostri campi sportivi. Ottimisti che l‟etica del fair play abbia un futuro in un contesto educativo e sotto una corretta guida morale e probabilmente anche in un contesto ricreativo, in cui “…vincere non è tutto”. Più preoccupazione invece per quanto riguarda le possibilità dell‟etica del fair play nello sport professionistico o semiprofessionistico, nel quale la vittoria o la sconfitta sono viste in termini economici. Già nel 1868 Alexander Trollope criticava la crescente serietà dello sport (pag. 6-7) in quanto “… un passatempo, per essere piacevole, dovrebbe essere un piacere e non un business…” George Orwell, che ha giocato nella squadra di calcio di Eton, ha espresso il suo parere sulla serietà dello sport in termini più drastici: “Lo sport serio non ha niente a che vedere con il fair play. È legato all‟odio, alla gelosia, alla vanagloria, al disprezzo di tutte le regole e al piacere sadico di assistere ad atti violenti, in altre parole si tratta di una guerra senza vittime” (Orwell, 1945). 74 4.9 Il progetto “Tribuna Fair Play” “Panathlon International Club di Verona, Hellas Verona e Assessorato allo Sport del Comune di Verona vogliono intraprendere un percorso di crescita e formazione al Fair Play, dove questo termine assume un significato ancor più ampio del semplice rispetto delle regole, richiamando la considerazione per gli altri, l‟amicizia e lo spirito sportivo. “Tribuna Fair Play” è il luogo in cui, in occasione di alcune partite casalinghe dell‟Hellas Verona F.C, bambini, bambine e genitori avranno la possibilità di conoscersi, fare amicizia, confrontarsi e scambiare informazioni intorno alla partita di calcio ed ai valori che ruotano attorno ad una competizione che sia sana e leale nel rispetto delle regole, ma anche e soprattutto nel rispetto reciproco di tutte quelle persone che a vario titolo partecipano all‟evento sportivo in qualità di giocatori, di allenatori, di ufficiali di gara, di addetti ai lavori, di spettatori, di giovani e meno giovani. I bambini in età compresa tra gli 11 e i 14 anni (Prima, Seconda e Terza Media, Prima superiore) avranno accesso gratuito allo Stadio “Bentegodi”, intraprendendo un percorso didattico-educativo di formazione al Fair Play, prima e durante la gara. La “Tribuna Fair Play” si radunerà, a partire da lunedì 28 novembre 2005 (in occasione della partita Hellas Verona – Catania), una volta al mese sino alla fine del Campionato di Serie B, in occasione delle gare casalinghe della Prima Squadra dell‟Hellas Verona F.C. Le lezioni si svolgeranno presso un‟area all‟interno dello stadio, mentre la “Tribuna Fair Play” è stata individuata nella Tribuna Est dello Stadio Bentegodi, che verrà intitolata e segnalata. Panathlon International Club di Verona, F.C. Hellas Verona e Comune di Verona, metteranno a disposizione un pool di 10 / 12 assistenti, coordinati dai responsabili per la didattica di progetto dell‟Hellas Verona F.C. e del Panathlon Club 75 Verona, che accompagneranno nel loro percorso di formazione i bambini della “Tribuna Fair Play” sin dall‟ingresso allo stadio e per tutto il tempo della gara. Durante ciascuna gara i bambini della “Tribuna Fair Play” si confronteranno sulla partita scambiando informazioni sulla squadra avversaria, analizzando i dati storici degli incontri e le formazioni in campo, prestando attenzione su quanto avviene all‟interno dello stadio, imparando le regole del gioco del calcio e istituendo, alla fine del corso di formazione, un vero e proprio decalogo del Fair Play in cui verranno sanciti i principi cardine. Alcuni giorni prima dell‟inizio della manifestazione ai bambini e alle famiglie partecipanti alla “Tribuna Fair Play” sarà presentato dettagliatamente il Progetto e la didattica applicata presso la sede dell‟Hellas Verona F.C., unitamente alla consegna delle cartelline materiali (blocco, regolamento, materiali informativi). I docenti saranno due: uno sarà fornito dal Panathlon International Club di Verona e l‟altro dall‟Hellas Verona, quindi, a rotazione saranno invitati altri docenti. Il primo avrà il compito di spiegare lo sport in generale (olimpismo, storia, discipline, temi di attualità, la comunicazione, i principi del fair play) ed i valori che esso esprime, non tralasciando di evidenziare i pericoli del doping e delle droghe in generale. Il secondo, invece, parlerà del gioco del calcio (regole, atteggiamento dei calciatori, degli allenatori, dell‟arbitro, degli assistenti di gara. Spiegherà la funzione del quarto uomo, quale deve essere il comportamento dei presenti sulle panchine, parlerà dei tempi di gara (totali, recuperi,…), presentando, inoltre, la partita a cui assisteranno i ragazzi. Inoltre, si forniranno informazioni inerenti il cosiddetto modulo di gioco piuttosto che brevi analisi relative alla tecnica del gioco calcio. Attraverso la visione della gara, si domanderà poi ai bambini della “ Tribuna Fair Play ” di prestare attenzione al sistema organizzativo all‟interno dello stadio: all‟afflusso, alla permanenza e al deflusso del pubblico, ai comportamenti durante l‟intervallo, allo schieramento e al comportamento degli addetti al campo ed al servizio di vigilanza, al comportamento del personale medico ausiliario, degli 76 Ispettori Figc, delle forze dell‟ordine in campo o sulle gradinate, dei Vigili del Fuoco, dei raccattapalle, dei fotografi e dei cameraman. La tribuna di volta in volta avrà una coreografia diversa (bandierine, pompon, palloncini, con i colori gialloblù). Oltre a questo una serie cartelli a fondo giallo (1 metro per 1 metro) comporranno la parola fair play, che saranno alzati a comando dai bambini (un po‟ come un gioco) ogni qualvolta il pubblico o qualche giocatore avrà un comportamento non proprio da fair play. Nelle giornate in cui avrà luogo l‟iniziativa, infine, al nucleo familiare dei bambini partecipanti alla “Tribuna Fair Play” verranno messi a disposizione n. 4 biglietti di ingresso al prezzo promozionale di 5,00 euro ciascuno”. La pratica sportiva ha sempre alle sue spalle valori educativi di riferimento, impliciti ed espliciti. L‟educatore dovrebbe per sua natura ed eventualmente per dovere istituzionale periodicamente riflettere su tali valori, per arrivare ad identificare quelli più positivi al servizio dell‟uomo e della società. Si analizzano perciò i contenuti della Carta del fair play, che può costituire una di queste occasioni, in quanto insieme di precetti etici e morali estesi all‟intero sistema sportivo. Nel 2005, nel numero 67 di Sds-Scuola dello sport ho letto con piacere un articolo (Guinelli 2005), dal titolo Pratica sportiva ed educazione, in quanto la pedagogia, cioè la teoria dell‟educazione, lungi dal restringersi in elucubrazioni astratte, è inestricabilmente connessa con l‟insegnamento, l‟allenamento è la pratica sportiva. Ci si è soffermati, tra l‟altro, sulla responsabilità educativa in ambito sportivo di “dirigenti, allenatori e genitori” e sulla conseguente ricerca e proposta di valori fondati, visto che lo sport (con tutte le difficoltà di definizione che oggi più di ieri questo termine comporta) non risulta positivo in sé e per sé 1. D‟altra parte ho avuto occasione di partecipare come relatore al 12° Convegno europeo sul fair play tenutosi dal 27 al 30 settembre del 2006, ad Udine e di commentare in chiave pedagogica la Carta del fair play varata nel 1975 dal Comitato 77 internazionale del fair play e pubblicata lo stesso anno dall‟ICPS (International Council of Sport and Physical Education, Consiglio Internazionale per l‟educazione fisica e lo sport). Penso sia qui utile riprenderne l‟analisi, evidenziandone in modo più approfondito pregi e limiti nel contesto attuale, in quanto essa risulta ancora oggi uno dei documenti internazionali più conosciuti ed accreditati di pedagogia dello sport. In questo modo cercheremo di contribuire alla ricerca e proposta valoriale contenute in quell‟articolo, sempre con l‟idea di creare riflessioni utili all‟insegnamento, all‟allenamento e alla pratica sportiva. La Carta del fair play, nonostante abbia ormai più di trent‟anni, mostra sostanzialmente intatta, pur con certi limiti, la sua attualità pedagogica nei confronti di tutti i peggiori aspetti degenerativi degli sport e dell‟agire coerente per porre ad essi rimedio in modo completo: Qualunque sia il ruolo nello sport, anche quello di spettatore, mi impegno a: Fare di ogni incontro sportivo, importa poco la posta in palio e la rilevanza dell'avvenimento, un momento privilegiato, una sorta di festa. Conformarmi alle regole ed allo spirito dello sport praticato. Rispettare i miei avversari come me stesso. Accettare le decisioni degli arbitri e dei giudici sportivi, sapendo che come me, hanno diritto all'errore, ma fanno di tutto per non commetterlo. Evitare la cattiveria e le aggressioni nei miei atti, nelle mie parole o nei miei scritti. Non usare artifizi e inganni per ottenere il successo. Restare degno nella vittoria, come nella sconfitta. Aiutare ognuno, con la mia presenza, la mia esperienza e la mia comprensione. Soccorrere ogni sportivo ferito o la cui vita e' in pericolo. Essere realmente un ambasciatore dello sport, aiutando a far rispettare intorno a me i principi qui affermati. Con questo impegno, considero di essere un vero sportivo. 78 1 Concetto questo ribadito da Alberto Madella in un suo articolo pubblicato nel numero 70 di SDS-Scuola dello sport: Sport e intervento sociale. Lo sport come strumento d‟intervento sociale: miti e fatti. In esso si afferma: “Il valore educativo di uno sport, non può essere quindi semplicemente considerato come il risultato delle caratteristiche specifiche dell‟attività in sé, ma dipende soprattutto dalle caratteristiche del contesto, dalla competenza degli operatori coinvolti e della loro capacità di affrontare e sostenere i bisogni dei partecipanti attraverso un‟opportuna organizzazione tecnica e metodologica delle attività proposte. Soprattutto dipende dalla qualità dell‟azione pedagogica che accompagna lo sport.” 79 Capitolo 5 IL PANATHLON E LA LOTTA AL DOPING, AL RAZZISMO E ALLA VIOLENZA C‟è molto da fare ancora. Il Panathlon ha iniziato ad approfondire il tema “doping” solo dalla fine degli anni ‟80 con qualche articolo apparso sull‟organo di stampa ufficiale del Club. Ma bisognerebbe approfondire di più, conoscere e fare conoscere le problematiche, sensibilizzare. Da questo punto di vista l‟”International” si sta prodigando. Per ora, forse, la mia tesi potrebbe essere un piccolo contributo per diffondere qualche nozione su questo fenomeno diffuso. Anche se non si dice. Pericolosissimo. Anche se spesso non si conosce. 5.1 Elenco ragionato degli articoli apparsi sulla rivista “Panathlon International” dal 1985 al primo trimestre 2008 Notevole è la mole di articoli apparsi sulla Rivista del Panathlon fin dal 1985. Fino ad allora i problemi etici trattati erano molto orientati all‟educazione ai valori dell‟olimpismo e a combattere l‟incultura alla base della violenza nello sport. Nel numero 1/2008 un articolo di Philippe Housiaux tratta il problema del doping, degli imbrogli e della violenza che minano lo sport. Titolo: “Una „cintura di sicurezza‟ per salvare lo sport”. Il Numero 2/2008 riporta un pezzo di Lina Musumarra “La lotta al doping nello sport: azioni di prevenzione”. Dario Rigetti è l‟autore di un breve articolo, che prendendo spunto da uno spettacolo educativo, porta all‟attenzione il problema dell‟alcolismo giovanile. “Gli adolescenti alzano troppo il gomito” è il titolo. Nel numero 2/2007 alla sezione Doping e salute pubblica, compare l‟articolo “Si parte verso il futuro”, tratto dalla rivista francese “Franc jeu Numero1/2007 e rielaborato dal CdR. “Oggi la sfida lanciata alla comunità antidoping consiste nel determinare in che modo la collaborazione e la condivisione di informazioni tra le 80 agenzie governative da una parte e le autorità sportive antidoping dall‟altra possono essere migliorate per permettere alla lotta contro il doping nello sport, di guadagnare ulteriormente in termini di efficacia”. In termini di educazione, prevenzione e ricerca contro il doping, nello stesso numero 2/2007, a pag. 6 è riportato l‟articolo di fonte “Revue Olympique” n. 62, gen-feb-mar 2007 in cui il Presidente del CIO Rogge dichiara la “determinazione totale sulla lotta contro il doping”. A seguito dei fatti emersi nel Tour de France in Luglio, nel numero 3/2007, compaiono gli articoli di Luc Le Vaillant “Lettera a mio figlio sulla bicicletta e il doping” e di Jacques Testart “Il doping sdoganato” in risposta alle provocazioni contenute nell‟articolo di Le Vaillant. Maurizio Monego è ancora l‟autore di “Estote parati – il doping genetico è già una realtà”, che compare nel N. 1/2006 pg 26. Svolge delle considerazioni di carattere etico a partire dagli spunti offerti da un articolo di Eugenio Capodacqua apparso sul quotidiano La Repubblica del 6 Dicembre 2005. Numero 4/2006, di autori vari, tutti medici, è l‟articolo su “Un centro regionale antidoping” funzionante in Emilia Romagna, esemplare per la metodologia adottata nei confronti della dissuasione verso atleti e raccogliendo dati di una piccola inchiesta fra di loro. All‟interno anche valutazioni sulla lotta al doping in Italia. Numero 4/2005, pag. 28-29, Maurizio Monego: Doping e Olimpiadi. Si tratta dell‟articolo critico verso al proposta Pescante di depenalizzare il reato di doping della legge italiana, perché in contrasto con la normativa CIO, in vista delle Olimpiadi invernali di Torino 2006. Il numero 3/2004 si apre con l‟intervista concessa dal Presidente del CIO Rogge al quotidiano La Stampa, sui problemi che assillano i Giochi Olimpici e lo sport, fra i quali il doping è in testa alle preoccupazioni. Nel N. 4/2004 compare un articolo di Franco Cavalieri, Consigliere del 2° Distretto, dal titolo “Inevitabilità del doping? Gli sportivi e la verità” scritto in forma di considerazioni dell‟autore sullo stimolo di una serie di convegni e tavole rotonde, di livello universitario a Bergamo e con manifestazioni pubbliche a Crema e a Lodi, tenutesi nel 2° Distretto. Il Prof. Angelo Tramontano, vice presidente del Club di Palermo è l‟autore dell‟articolo che 81 compare nel numero 4/2003. “I danni delle sostanze dopanti nella donna che pratica sport”. Nel numero 3/2002 compare il testo di una lettera che Maurizio Monego, past President del club di Venezia ha inviato a Il Gazzettino di Venezia l‟indomani di una sentenza che depenalizzava alcune forme di doping evidenziando i buchi della legge da poco varata in Italia. Taglio morale – educativo (anche per i giornalisti). Il V Congresso Panamericano di Santiago del Cile ha sollecitato Lina Musumarra a scrivere un articolo riportato nel numero 4/2002 che affronta il tema del doping come uno dei pericoli della “società del rischio” secondo la definizione del sociologo tedesco Ulrich Beek. L‟autrice, che aveva svolto l‟intervento “Le misure di lotta contro il doping nello sport” fa dei richiami al Forum europeo di Bruxelles 2001 e al Seminario Euromediterraneo sul doping di Marrakech. Nello stesso numero 4/2002, il resoconto di un convegno a Forlì (Italia) organizzato dal CSA scolastico di ForlìCesena e dal Panathlon di Cesena “per combattere il doping già nella scuola”. Con il numero 1/1999 si apre una serie di interventi in vista e in conseguenza del Congresso di Palermo. “Troppa ignoranza sul doping e sulla creatina” è il titolo dell‟articolo di Alessandro Gamba, tratto dalla Rivista “Superbasket”. Compare anche l‟iniziativa del Panathlon Club Losanna che attraverso un gruppo di lavoro ha redatto un Manifesto contro il doping. Nel numero 2/1999 compare un‟ampia rassegna degli interventi e della Dichiarazione finale del Congresso di Palermo. Nello stesso numero a pag. 27 è pubblicata la notizia di una brillante inchiesta del Panathlon Club di Terni dal titolo: “Doping: pressioni e consigli medici”. A pag. 32 e 33, infine compare l‟ampio resoconto dell‟intervento di Otto Schmitt al Panathlon Club Montevideo “La lotta contro il doping – protegge la salute e offre basi uguali per tutti”, in cui a partire dalla premessa su “impatto della droga e dell‟alcool”, “la proliferazione delle truffe” ecc. individua possibili attività per i club del Panathlon e fornisce suggerimenti per gli interventi. Il prof. Giorgio Odaglia, Consigliere Centrale del Panathlon International con un passato di pallanuotista e poi di Medico Sportivo – è stato anche Presidente della Fims – scrive nel numero 3/1999 un lungo articolo dal 82 titolo “I compiti del Medico dello sport ed i problemi per la lotta al doping”, in cui smentisce il luogo comune che lo sportivo di vertice sia un uomo sano, prospetta alcune incongruenze nel testo della legge anti-doping che sta per essere varata dal Governo italiano e svolge alcune considerazioni sulla lotta al doping. Il numero 3/1998 contiene la Relazione del Presidente della Commissione culturale Antonio Spallino verso il congresso di Palermo “Sport, Etica, Giovani – la linea d‟ombra del doping -, al fine di offrire ai club materia di riflessione. A pag. 21 del numero 4/1998 è riportato un articolo apparso su L‟Espresso a firma di Sandro Donati – il più convinto accusatore delle ipocrisie intorno al doping (vedi in altra parte di questo dossier) – dal titolo “Il doping c‟è ma non si vede”, che punta alla denuncia dell‟uso dell‟ Igf1 e spinge all‟uso del controllo del sangue per smascherare i dopati. Nel numero di Gennaio/Febbraio 1990 è riportata ampia notizia del Convegno internazionale sul doping organizzato nei giorni 25-27 aprile a Gradisca d‟Isonzo dal Primo Distretto. I numeri 4-5/1989 di Aprile/Maggio 1989 danno ampio spazio all‟intervento del Prof. Gianni Benzi, farmacologo e tossicologo di fama, direttore dell‟Istituto di Farmacologia dell‟Università di Pavia; direttore del Centro Studi & Ricerche Fidal-Coni e Consigliere dell‟International Medical Committee della Iaaf. Nel N.6-7/1989 compare un Dossier Doping con articoli di Vittorio Wiss e di John Goodboy, corrispondente sportivo del Times. Settembre 1989, numero 8 della Rivista: Dossier doping riporta articoli di Eduardo Enrique De Rose Presidente Fims, “Un controllo moderno e dinamico” e di Antonio Losada, “Un problema permanente”, testo della relazione tenuta ad una conferenza del Club di Santiago del Cile. La redazione della Rivista Panathlon International, nel numero di Dicembre 1989, affronta il tema con due titoli: “L‟azione dei ministri europei” riferito alla 6^ Conferenza dei Responsabili dello sport dei governi europei riuniti a Reykjavik, e “La lotta delle Federazioni internazionali”, che tratta dell‟impegno espresso nella 23esima Assemblea dell‟Agfis. Nel numero 2/1985 della Rivista compare il primo inserto “Droga o sport”. 83 5.2 Significato e definizione del fenomeno doping L'origine del termine doping è controversa in quanto sono varie le supposizioni in merito alla reale origine. Secondo alcuni studiosi va ricercata nell'usanza di popolazioni dell'Africa come i Kafri, i quali nel loro idioma definivano "dop" un estratto liquoroso eccitante per avvicinarsi ai numi durante i riti e le cerimonie religiose; altri studiosi invece sostengono che il termine derivi dall‟idioma inglese “dope”, il quale significa sostanza liquida, densa e lubrificante, anche se in realtà nello slang viene usato per indicare sostanze stupefacenti o droghe; altri ancora invece affermano che il termine derivi dal fiammingo “doop” con il significato di mistura, miscela, poltiglia; in ultima analisi altri studiosi ancora sostengono che doping derivi dal termine “oop”, ovvero miscela di oppio, tabacco e narcotici utilizzata nell‟800 per i cavalli da corsa nel Nord America. Oggi il termine doping ha subito una forte evoluzione nel suo significato, infatti sul dizionario della lingua italiana “Le Monnier” indica l‟”uso, o somministrazione ad un’atleta, o assunzione volontaria da parte di quest’ultimo, di sostanze proibite dai regolamenti (eccitanti, anabolizzanti, etc.), allo scopo di accrescere artificiosamente e slealmente il rendimento fisico nel corso di una competizione.[Der. di (to) dope = drogare]”.1 Come definire quindi tale fenomeno: una moda, un‟usanza degli sportivi? Un rito, un‟iniziazione allo sport? Una scelta, una visione particolare dello sport? O più semplicemente un modo errato di vivere lo sport? Forse se lo si chiedesse ad uno sportivo che fa uso di sostanze dopanti la risposta sarebbe un susseguirsi di giustificazioni e scuse, del tipo: “ Non pensavo fossero queste le conseguenze.. volevo solo provare qualcosa di nuovo e diverso.. pensavo fosse utile per migliorare le mie prestazioni.. non pensavo di fare nulla di male.. mi sono lo stesso allenato tanto come gli altri”; se invece lo si chiedesse ad un semplice appassionato di sport la risposta sarebbe certamente qualcosa del genere: “ Non capisco perché i campioni debbano arrivare a tali livelli rovinando così la loro vita e lo sport stesso.. non accetto che uno sportivo si rifugi nell’uso di tali sostanze per raggiungere risultati nelle competizioni.. chi fa uso di sostanze dopanti non ha nulla a che fare con il 84 mondo dello sport”; se infine lo si chiedesse ad un medico sportivo e non, sicuramente la risposta sarebbe tutt‟altra: “ Le sostanze dopanti sono nocive per la salute degli atleti, possono causare aumento di cardiopatie, comparsa di caratteri sessuali maschili nelle donne, problemi di fertilità negli uomini, tumori e tanti altri problemi. Inoltre il doping è per principio anti-sportivo, non ha davvero nulla a che vedere con il mondo dello sport”. Insomma, per definire il fenomeno del doping sono tante le parole che si possono usare e ancor di più i riferimenti su cui potersi basare per darne una precisa definizione. L‟etica sportiva richiede infatti che tutti gli atleti debbano gareggiare a parità di condizioni, rispettando un regolamento liberamente accettato e questo significa che a priori si può definire il doping un fenomeno “nemico” dello sport. Ogni Federazione Sportiva stabilisce il proprio regolamento e quali sono le sostanze vietate ai propri affiliati, in genere il cui uso da parte dell‟atleta viene finalizzato a ridurre la fatica, migliorare i riflessi, migliorare la forza e/o la resistenza, ridurre il dolore, controllare la frequenza cardiaca e/o respiratoria, ridurre il peso corporeo, ridurre l‟ansia, mascherare la presenza nelle urine delle sostanze vietate. Gli elenchi prescindono dall‟effetto delle sostanze sulla salute dell‟atleta; pertanto è possibile che una sostanza vietata da una Federazione sia ritenuta “necessaria e/o utile” dal medico per curare l‟atleta ammalato, com‟è anche possibile che sostanze e/o pratiche non considerate dopanti vengano giudicate inutili o parzialmente dannose dal medico curante. Insomma, definiamo la pratica del doping come “ l’uso da parte di un atleta, o la distribuzione ad esso, di determinate sostanze che possono avere l’effetto di migliorare artificialmente la condizione fisica e/o mentale dell’atleta stesso, aumentando così la prestazione atletica”2. _______________________________ 1 Le Monnier: Dizionario della lingua italiana di G. Devoto e G. C. Oli, edizione 2005, pag. 640. 2 International Amateur Athletic Federation (IAAF). 85 5.3 Nascita ed evoluzione storica del fenomeno doping La storia del doping, ovvero il tentativo di modificare le prestazioni atletiche con mezzi non fisiologici o comunque illeciti nel corso di competizioni sportive, inizia molto tempo fa, quando non esisteva la chimica e venivano impiegate sostanze di origine naturale per migliorare la propria condizione fisica. Si può infatti già parlare di doping fin dalle prime edizioni delle olimpiadi, quando gli atleti ingerivano sostanze stimolanti, ovviamente di origine naturale e non chimica, mescolate agli alimenti e alle bevande. Vi sono persino tracce storiche risalenti al terzo secolo a.C. quando venivano utilizzati infusi di funghi applicati localmente come impacchi a scopo puramente stimolante più che curativo o lenitivo. Per lunghi secoli non si è più sentito parlare della pratica del doping probabilmente anche perché le olimpiadi vennero interrotte sino al 1896, quando per merito del barone De Coubertin vennero reintrodotte le moderne olimpiadi. Con la ripresa delle competizioni sportive riprese anche la pratica del doping.3 Le statistiche mediche sportive non fecero tuttavia registrare un utilizzo diffuso delle sostanze dopanti sino alla metà del novecento (Secondo dopoguerra, 1950 circa), quando vi fu un vero e proprio incremento numerico di atleti che facevano uso di sostanze dopanti: l‟assunzione di amfetamine si trasferì dai militari impegnati sui fronti di guerra agli sportivi. Si verificarono molte storie “spiacevoli”, come quelle di ciclisti che improvvisamente non vedevano più le curve in gara o che non dormivano per notti intere, ma solamente dopo il decesso di Tommy Simpson avvenuta negli anni ‟60 sul Mont Ventoux, i mass media portarono alla ribalta delle cronache ma soprattutto all‟attenzione del grande pubblico di tifosi sportivi il grave problema connesso con l‟uso di sostanze dopanti potenzialmente mortali da parte degli sportivi. In quegli stessi anni i paesi dell‟ex _______________________________ 3. Gli atleti assumevano sostanze zuccherine, caffè, alcool ma anche stricnina e nitroglicerina, che potevano sortire effetti collaterali talora gravemente invalidanti se non addirittura mortali. 86 blocco comunista, soprattutto U.R.S.S. e Germania dell‟Est, avevano organizzato la somministrazione sistematica di steroidi agli atleti di punta organizzando il più terrificante “doping di Stato” della storia dell‟uomo (10 mila gli atleti coinvolti). Il culmine della diffusione della pratica del doping tra gli atleti di alto livello e di fama internazionale, si raggiunse alla fine degli anni ‟70: il fenomeno divenne eclatante e si manifestò in un numero sempre maggiore di sportivi, soprattutto nelle donne che assumendo forti dosi di anabolizzanti subivano delle forti trasformazioni; in tal proposito, un caso su tutti fu quello riguardante Heidi Krieger, ex campionessa europea del lancio del lancio del peso, oggi diventata uomo (Attualmente Andreas), per l‟assunzione sistematica di farmaci steroidi e anabolizzanti (3.000 milligrammi di ormoni solo nel 1984). Quando ci si accorse dell‟ampia diffusione del fenomeno tra gli atleti famosi, ci si rese anche conto di quanto fosse realmente diffuso a livello mondiale e di quanto fosse necessario cercare di mettere un freno a tutto ciò. Con la caduta del muro di Berlino il resto dell‟Occidente sportivo venne a conoscenza del fatto che gli atleti del blocco sovietico come anche quelli della Germania Est e della Russia venivano imbottiti sin dall‟infanzia di anabolizzanti, farmaci e tutto ciò che potesse servire allo scopo di vincere le competizioni internazionali, un vero e proprio “doping di Stato” gestito dagli stessi governanti delle nazioni per scopi di propaganda politica e per rinforzare il sentimento popolare nazionalistico e antioccidentale. I risultati di tale movimento furono impressionanti, sia dal punto di vista delle medaglie, 541 medaglie olimpiche, sia dal punto di vista della salute, atleti colpiti improvvisamente da cancro al fegato, amputazione del seno, aborti naturali. Poco si sapeva, o forse evidenti erano i miglioramenti in termini di struttura fisica e risultati agonistici. Negli anni ‟60 Stati Uniti, U.R.S.S e Germania dell‟Est giunsero al top del top per quanto riguarda la pratica del doping sugli atleti, tra steroidi ed anabolizzanti. Successivamente l‟elevata rivalità sportiva spinse ad un uso smisurato di steroidi in tutta Europa, diffondendo a macchia d‟olio l‟uso tutto si ignorava, degli effetti collaterali provocati dalle sostanze somministrate agli atleti, mentre di 87 anabolizzanti che assicuravano un sostanziale ed evidente scopo, e definito in seguito come principio di “antinvecchiamento” perfetto. Fu quasi immediata la sua diffusione anche in Europa e Cina. Contemporaneamente tutto il mondo chiedeva consigli alla Germania dell‟Est per le loro tecniche per “coprire” l‟assunzione di doping negli atleti di alto livello. Attualmente, dopo praticamente sessant‟anni, il doping è diventato un fenomeno universale e plurilaterale: tutti sanno ma pochi dicono, ma intanto lo sport di volta in volta piange i suoi morti. Pochi sono i nomi famosi come quello di Pantani, ma molti, se non moltissimi, sono gli sconosciuti che perdono la salute e anche la vita per colpa di abusi che ancora troppo spesso vengono considerati privi di reale pericolosità. 5.4 Il ruolo della società Doping sportivo e aspetti sociali del doping sono due facce di un problema che può e deve essere affrontato parallelamente. Infatti, se nel doping sportivo di alto livello si possono rintracciare i grandi interessi economici e politici dello spettacolo che spingono gli atleti all‟abuso di sostanze, nelle società moderne è possibile rintracciare una ferma spinta culturale al doping dovuta all‟enfatizzazione di modelli estetici e sociali. Il fenomeno doping è un problema che riguarda tutta la società, o meglio ancora il doping è un vero e proprio fenomeno sociale. Un fenomeno complesso che porta con sé dei costi economici e sociali non indifferenti, e che porta la società ad essere malata di successo e carente di valori. Sì, nella nostra società moderna il culto del successo, di modelli estetici che premiano la figura vincente, efficiente e sicura, porta all‟uso di sostanze stimolanti: uso che si fa sempre più massiccio e che riguarda fasce d‟età sempre inferiori. I giovani hanno bisogno di punti di riferimento, di modelli educativi a cui ispirarsi e, perché no, di miti, ossia di personaggi che in qualche modo possano far sognare chi si sta preparando “a diventare grande” e che possano essere d‟esempio. Lo sport ha da sempre offerto figure mitiche che potevano 88 interpretare questi ruoli: questo uno dei tanti punti fermi su cui la società moderna intendeva basarsi. Ma è proprio qui che entra in ballo l‟ombra del doping, arma distruttiva per lo sport in primis ma soprattutto per la società in generale. Il mondo odierno è sempre più mito di pochi momenti, intensamente celebrato ma rapidamente dimenticato e purtroppo ad ogni grandissima prestazione sportiva si accompagna sempre più spesso il veleno del sospetto, il dubbio che sminuisce il sentimento e il valore di quel momento di entusiasmo. Tutte le società occidentali si trovano coinvolte nel fenomeno ed il problema non si presenta di facile soluzione, lo dimostrano i continui allarmi lanciati dall‟O.N.U. sulla crescita costante dei consumatori abituali che in occidente superano ormai i 14 milioni di unità, se poi si contano i consumatori occasionali e si aggiungono quelli che si rifugiano nell‟oppio, nell‟eroina, nelle amfetamina, nel crack e nell‟ecstasy, allora le cifre aumentano vertiginosamente. Questa dipendenza ha un costo sociale non indifferente poiché lo stato, di fronte ad una tale emergenza, si trova a mettere in efficienza enti sanitari e comunità di sostegno/recupero, che comportano un‟enorme dispendio di denaro pubblico che potrebbe invece essere utilizzato per un migliore sviluppo della società stessa. Ma la società in tutto ciò non rimane certo immune da colpe, è infatti proprio da essa che il tutto prese il via: citando la storia del fenomeno doping, ricordiamo che nei primi anni ‟90 il fenomeno si spinse a livelli estremi, al punto che moltissimi sportivi improvvisati, come i ciclisti della domenica, volendo strabiliare amici e parenti, facevano consumo regolare di ormoni e di altre sostanze dopanti, spinti proprio dalle mode della società. La società da sempre attribuisce allo sport un ruolo che va ben oltre la semplice prassi agonistica, bensì di strumento educativo e formativo per ogni individuo facente parte della società; ma attribuirgli tale ruolo non è sufficiente, tale mondo deve essere tutelato dalla società, e ad oggi risanato per il bene della società stessa. 89 5.5 Il ruolo dei mass media Lo sport è sempre stato un elemento importante nei palinsesti delle reti radiotelevisive, ma dalla fine degli anni ‟60 la relazione tra mass media e sport ha cominciato a trasformarsi da un considerevole beneficio ad un‟autentica simbiosi: senza i mass media lo sport quasi non avrebbe valore, e senza lo sport i mass media avrebbero certamente meno importanza nel contesto sociale. Tale trasformazione è in gran parte risultato delle avanzate innovazioni tecnologiche (lo sviluppo dei satelliti geostazionari e la possibilità di trasmettere dal vivo eventi sportivi dall‟estero), ma influenzata anche da una efficace operazione di marketing.6 I mass media grazie a questa stretta relazione con lo sport hanno assunto un ruolo quasi indispensabile nel mondo sportivo, nel bene e nel male. Al giorno d‟oggi, non esiste infatti società, magnate o politico che detenga più potere dei mass media, i quali grazie al loro “parlare con la gente” tutti i giorni, a tutte le ore, in ogni luogo e soprattutto di qualsiasi argomento posseggono il potere assoluto. La libertà di informazione, arma dei mass media, è stata una grande conquista civile e democratica, e storicamente forse la nostra salvezza, eppure rappresenta anche un‟arma a doppio taglio se usata in maniera ambigua e scorretta. La responsabilità di comunicare oggettivamente ed in modo imparziale le notizie, per quanto la società ci insegna, dovrebbe essere proprio di ogni singolo individuo ma in primis dei mass media. Purtroppo non è così. Spesso e volentieri i fatti riportati dalle reti radiotelevisive risultano modificati, falsati o addirittura inventati. E l‟informazione sportiva e soprattutto quella sanitaria spesso ne divengono vittime. Lo straordinario giro di soldi nello sport dei paesi ricchi e sviluppati, e l‟assenza delle più elementari infrastrutture sportive tra la maggior parte dei popoli del mondo, hanno conseguenze sulla politica del doping e dell‟antidoping. Nei paesi industrializzati ( Italia compresa ), all‟interno delle federazioni sportive, dei club e degli atleti stessi, il timore della sconfitta e magari della conseguente perdita di sponsor pubblicizzati ed acclamati a gran voce dai mass media, impone un‟enorme 90 pressione su atleti, preparatori e manager, a tal punto da spingere anche il più corretto dei campioni ad utilizzare qualunque mezzo per mantenere alto e imbattibile il proprio livello di successo. I mezzi di comunicazione per fatti veri ( o presunti ) finiscono quindi per influenzare negativamente il giovane atleta sulla falsa convinzione dell‟infallibilità e dell‟assoluta necessità del ricorso al prodotto farmaceutico proibito per raggiungere alti livelli di prestazione. Ma gli interessi economici in gioco sono altissimi, e così, come la storia del fenomeno doping ci ricorda, spesso le notizie più scomode vengono taciute, gli scandali insabbiati e i testimoni comprati. Detto questo, i mass media allora proteggono il doping? Decisamente no! Se ad oggi si è giunti ad una capillare diffusione di notizie in merito al fenomeno doping sin dalle categorie più insospettabili7, gran parte del “merito” e responsabilità spettano proprio ai mass media, coloro i quali nel corso degli anni hanno ricercato, analizzato e approfondito il problema e lo hanno poi giustamente proposto all‟opinione pubblica. _______________________________ 6 Un efficace operazione per la quale lo sport internazionale, in particolar modo lo Olimpiadi, che è una chiara risposta ai conflitti nazionali o ideologici. 7 Nella categorie giovanili e persino negli amatori. 91 5.6 Le spinte motivazionali al doping Perché un atleta inizia a fare uso di sostanze dopanti? Perché un allenatore permette che uno dei suoi giovani atleti faccia uso di sostanze proibite? Perché un campione affermato si riduce all‟utilizzo di prodotti farmaceutici dopanti? Se ci fosse una risposta corretta ad ognuna di queste domande, forse oggi non sarei qui a scrivere una tesi sul doping. Sono tanti gli studiosi, gli psicologi e i medici che da anni studiano il fenomeno del doping. Sono tante le ipotesi e le supposizioni in merito alle reali spinte motivazionali che portano l‟individuo al doping. Studi statistici molto interessanti si sono appunto occupati di scoprire quale sia la matrice psicologica che induce all‟assunzione sconsiderata di farmaci. Tanti i casi presi in considerazione, numerose le variabili, limitati i risultati. Si tratta insomma di individuare quali siano, se realmente esistono, i presupposti psicologici che concorrono a deviare uno sportivo verso la pratica del doping. Tali studi intendono tracciare il più affidabili profilo paradigmatico dell‟individuo che, per peculiarità caratteriali, status sociale, motivazioni ambientali e/o fisica, si possa considerare plasmabile dagli stimoli del doping. Il risultato unanime degli studi statistici effettuati nel corso degli ultimi anni hanno rilevato due principali fattori caratterizzanti il tipico individuo “affetto da doping”: la necessità di raggiungere un determinato successo economico ed un‟elevata gloria personale all‟interno delle società, e una sfrenata voglia di perfezione fisica e un elevato desiderio di essere i migliori. 5.7 Successo economico e gloria personale Studi statistici si sono occupati di scoprire quale sia la matrice psicologica che induce all‟assunzione sconsiderata di farmaci con lo scopo di riuscire a tracciare il profilo paradigmatico dell‟ individuo che, per peculiarità caratteriali, status sociale, ragioni ambientali o per qualsiasi elemento distintivo, si possa ritenere selettivamente plasmabile dagli allettamenti del doping. In base a tali studi e ad accurate ricerche, 92 gli studiosi hanno cercato di individuare quali siano, se realmente esistono, i presupposti psicologici che concorrono a deviare uno sportivo verso la pratica del doping. Da tali studi è emerso che una delle principali cause di ricorso al doping è l'esasperazione agonistica, che non riguarda solo lo sport, ma anche, e principalmente, la dimensione dell‟impresa. Il fatto che oggi lo sport sia diventato una forma di business può costituire l'indizio di un danno effettivo alla pratica sportiva, ma certamente non può rappresentare un alibi per violare i regolamenti della legislazione sportiva, per inquinare il mondo dello sport e tanto meno per mettere a rischio la propria salute. In ogni modo la dimensione economica dello sport è divenuta una dimensione d‟impresa e, sicuramente, la ricerca del raggiungimento e del superamento di un limite agonistico sempre più esasperato ed esasperante è legata anche a questo. Contratti di sponsorizzazione per milioni di euro per una minoranza di atleti e di atlete dell‟élite sportiva non sono più una rarità, anzi sono divenuti quasi un obbligo. Un esempio su tutti: le società di calcio che sono in grado di negoziare sponsorizzazioni lucrose persino dinanzi alle offerte delle aziende più grandi. Ma al di là di tutto questo, vi sono dei traguardi che l'atleta vuole raggiungere a prescindere dal significato del denaro: la grossa necessità di raggiungere la soddisfazione personale di un trionfo, l‟affermazione di sé stessi e la conquista di un sogno, rappresentano straordinarie emozioni che il denaro non è in grado di garantire e tanto meno di regalare. Innegabilmente però, esiste un legame molto stretto tra vittorie e soldi, tra successo sportivo e risalita economica, anche se non in tutti gli sport è valido tale discorso, si parla infatti sempre di “sport ricchi” (vedi il calcio) e di “sport poveri” (vedi il pattinaggio corsa): quelli “minori o poveri” sono ancora ossigenati dalla pura passione, dalla voglia di divertirsi e dall‟esigenza di stare in compagnia facendo sport, anche se la ricerca del risultato rimane comunque l‟imperativo da seguire. Oggi l'eventuale ricorso al doping è senz'altro legato al desiderio di raggiungere un risultato immediatamente. Anche solo quello di apparire forti agli occhi degli altri, conformi ai canoni della società. Nella migliore delle ipotesi questo risultato risponde al soddisfacimento della voglia di essere, di sentirsi alla pari con gli 93 altri. La tendenza al successo economico e la gloria personale è una prerogativa partorita e imposta dalla stessa società moderna, nella quale il modello più seguito dai giovani è indubbiamente quello dello sportivo “campione”, ricco e famoso. Questo non può che portarci alla conclusione che una delle principali cause del fenomeno del doping si ritrova proprio in una spasmodica corsa verso il successo e in una pesante perdita dei valori sociali. 5.8 Voglia di perfezione Dagli studi statistici effettuati nel corso degli anni, citati nel precedente sottoparagrafo, è emerso che un‟altra delle principali cause che spinge un‟atleta a fare uso di sostanze dopanti è proprio la voglia di perfezione, principalmente dal punto di vista fisico. L‟attuale stigmatizzazione della grassezza, da parte della società moderna, è di frequente considerata la causa radicale dei disordini alimentari, come l‟anoressia nervosa, e responsabile della crescita di ossessioni legate alla forma fisica. La cultura occidentale associa infatti il corpo grasso alla indisciplina e alla indulgenza; viceversa, il corpo magro è simbolo di ascetismo e di autocontrollo. Essere magri e in forma è un modo di dimostrare pubblicamente il proprio diritto ad avere una posizione nella società moderna, e il fatto di indossare abbigliamento sportivo in contesti non sportivi è un altro modo di dimostrare le proprie credenziali di essere membro del mondo d‟oggi. Anche se l‟analisi femminista è criticabile, viene generalmente accettato il fatto che nella cultura contemporanea l‟immagine del corpo femminile così come costruita dagli uomini, in un clima di narcisismo e di più generale idealizzazione del corpo femminile, abbia contribuito ad alimentare la crescita della partecipazione nelle attività legate alla forma fisica (vedi il boom della pratica del fitness negli ultimi anni). E questo è motivato molto più dall‟incapacità di essere altezza delle “regole” della cultura contemporanea, e molto meno dal desiderio di potenziare e di costruire l‟autostima o dal desiderio di essere in forma per praticare uno sport. Per i comuni individui, lo sviluppo di un fisico idealizzato è un‟espressione di potenza e autostima in una società che, da una parte, ha dato priorità economica e politica all‟individuo sulla società, ma che, dall‟altra parte, sembra in fase di 94 crescente abbandono dei valori individualistici. Quindi, per un considerevole e sempre più crescente numero di giovani la via verso la desiderata forma fisica implica non solamente le ore trascorse sugli attrezzi in palestra, ma anche l‟uso di steroidi anabolizzanti per la voglia esasperata di raggiungere la perfezione. L‟emergere di coloro che abusano di steroidi, che assumono droghe per vanità e autostima piuttosto che per esaltare l‟abilità nelle competizioni, può essere considerato come ulteriore conseguenza dell‟estensione dell‟abuso di droghe nello sport; tuttavia, è necessario considerare il problema nel contesto di una società sempre più farmaco-dipendente. Oggi infatti l‟uso di integratori dietetici e di vitamine è di routine, e la volontà di atleti e tecnici di sperimentare miscugli erboristici non testati sfida il senso comune, ma indica anche il desiderio, anzi la disperazione, di molti atleti di trovare uno strumento che dia loro la capacità di superare gli altri concorrenti. In conclusione, lo scopo della gran parte degli sportivi agonisti o meno che si riducono a fare uso di sostanze dopanti è quello di raggiungere la perfezione. 95 Capitolo 6 SPORT E DISABILITÁ Il logo del progetto “1 ora per i disabili” Grande sensibilità a questo tema, da parte del Panathlon. Che combatte e lotta per esportare, anche (e forse soprattutto) in questo caso valori di coesione e sensibilità al disabile: persona e sportivo come tutti i panathleti. Nello specifico, impossibile non segnalare il progetto del Panathlon Club Padova “1 ora x i disabili”. Immenso, come mole di lavoro e di personalità del mondo sportivo e parasportivo che è stato capace di coinvolgere. Dal punto di vista comunicativo, per quanto riguarda la promozione e le brochure divulgative, l‟idea è stata quella di scegliere un‟impostazione grafica sobria, colorata e con uno stile riconoscibile, “attraente”. “Se guardo indietro, non riesco capacitarmi che siano passati più di sette anni da quando sono stato coinvolto in questa “cosa” - racconta Mario Torrisi, consigliere alla disabilità per l‟Area 1 Triveneto -. “Cosa” perché all‟inizio non capivo ed ero spaventato d‟ aver accettato d‟entrare in questo mondo che non conoscevo e che sinceramente mi faceva anche un po‟ paura. Questa “cosa” è il mondo della disabilità, dei ragazzi con difficoltà, con lo sport più difficile da fare e da capire. Ho faticato a capire ma oggi non potrei più staccarmi. Bisogna aver conosciuto questo mondo meraviglioso per poter 96 comprendere e far si che tante persone lo possano capire. Un giorno Fabio ed io abbiamo ideato un nome: “1 Ora x i Disabili”, nome che potesse con la sua diffusione diventare un simbolo all‟eliminazione delle barriere che sono attorno ai disabili. Barriere, non solo architettoniche, che sono più facili da smantellare, ma barriere mentali che ci condizionano ancora. E‟ inutile negarlo - prosegue Torrisi -, queste barriere esistono, infatti troppo spesso leggiamo o vediamo alle televisione atti di aggressione, di bullismo, di violenze nei confronti dei ragazzi disabili. Questi episodi sono nella maggioranza dei casi legati all‟ignoranza del problema. Io stesso ricordo, nella mia infanzia, che purtroppo mia nonna e le nonne dei miei compagni, alla vista di una persona disabile, ci allontanava e ci diceva di non guardare perché: “è una persona malata e diversa”. Per fortuna questi atteggiamenti sono cambiati, oggi non si assiste più a casi come questi o perlomeno ci si augura non debbano esistere più. Ma se i gravi episodi sono, per fortuna rari, ogni giorno vediamo innumerevoli altri episodi che sono egualmente inqualificabili. Uno su tutti: i parcheggi. Molto spesso vediamo signori e signore parcheggiare con tranquillità e disinvoltura nelle aree destinate ai disabili e reagire con veemenza e insofferenza a chi fa loro rimarcare la totale insensibilità a questo problema. Altre barriere sono a volte “i servizi”: qualche anno fa, mi capitava di invitare per un caffè, un aperitivo o una pizza un ragazzo in carrozzina e spesso mi sentivo respingere l‟invito. Poi ho capito - chiosa il consigliere -: in molti locali i servizi non sono attrezzati per loro e per timore di essere in difficoltà l‟invito non veniva accettato. Non c‟è sufficiente coltura e si fa troppo poco per migliorare la situazione. Ed allora “1 Ora x i disabili” per cercare di spiegare (non vogliamo dire educare) ai giovani queste cose e i risultati incoraggianti ci sono, si vedono e si toccano. Sono testimoni i vari scritti degli studenti e degli insegnanti che appaiono in questa pubblicazione e in quelle precedenti. Vale ricordare la lettera che la 2°G della Scuola Media di Cartura, che ha scritto al Sindaco per una rampa all‟ingresso della palestra. Nel Terzo Millennio non dovrebbero più esistere luoghi non accessibili a tutti e tutti dovrebbero essere considerati e trattati con dignità”. 97 6.1 Il progetto “1 ora x i disabili” Progetto elaborato dal Panathlon di Padova ed approvato dalla Conferenza Internazionale di Basilea e realizzato con la collaborazione ed il sostegno dell‟Amministrazione della Provincia di Padova attraverso l‟Assessorato allo Sport. Finalità: portare a conoscenza degli studenti di ogni ordine e grado quelle che sono le implicazioni di un fenomeno sociale presente nella società e di sempre maggiore attualità: implicazioni e conseguenze dal punto di vista fisico, psicologico, sociale, dell‟integrazione e della prevenzione. Destinatari: tutti gli Istituti di Padova e Provincia, previa approvazione e disponibilità dei Signori Dirigenti e Insegnanti. Contenuto: portare nei vari Istituti una corretta informazione circa la “disabilità” sia motoria, sensoriale e psichica, cause, prevenzione, possibilità di miglioramento soprattutto attraverso una corretta pratica sportiva. Svolgimento: nel corso dell‟anno scolastico 2008/2009, poter tenere delle conferenze/dibattiti, dimostrazioni pratiche, proiezioni di filmati tenuti da membri del Panathlon International particolarmente preparati. Durata: nella mattinata prescelta, circa 3 ore, con possibilità di concentrare più classi nell‟Aula Magna, sempre alla presenza dei Signori Insegnanti ed in palestra per le dimostrazioni pratiche. Per una migliore riuscita: per conferenze, dibattiti, proiezioni il numero dei partecipanti è illimitato; per dimostrazioni pratiche minimo 50 partecipanti. Presentazione: La Provincia di Padova, seguendo con particolare attenzione le problematiche e le tematiche delle persone diversamente abili, ha avviato un rapporto di collaborazione con il Panathlon International Club di Padova per la realizzazione del progetto "Un‟ora per i disabili". L‟iniziativa, già avviata da qualche anno, ha trovato consenso e gradimento da parte del mondo della scuola; ciò sta a significare che c‟è sensibilità e desiderio di 98 conoscere da vicino le difficoltà e le problematiche che la persona diversamente abile incontra nella realtà quotidiana in particolare se intende praticare uno sport. Il messaggio che si vuole trasmettere con “Un‟ora per i disabili” è che per capire bisogna conoscere e per conoscere bisogna provare. Obiettivi: Sensibilizzare gli studenti sulle problematiche riguardanti il mondo dei disabili e l‟aiuto che ad essi offre la pratica sportiva, perché lo sport è l‟unica realtà che non crea distinzioni fra chi lo pratica. Comprendere il disagio psicofisico e sociale derivante dalla condizione di essere “portatore di handicap” e che tale situazione può essere superata mediante l‟acquisizione di una cultura del “diverso”. Modalità attuative: 1) Una fase teorica di illustrazione (anche con supporto di filmati) sulle motivazioni e sulle potenzialità che avvicinano il diversamente abile a svolgere una pratica sportiva, anche con testimonianze di atleti disabili in carrozzella e testimonial sportivi paraolimpici. 2) Una fase pratica dove gli studenti possono sperimentare – utilizzando idonei supporti (carrozzine e altre attrezzature), al fine di provare direttamente a praticare sport in condizioni di svantaggio fisico. Risultati attesi: Promuovere la pratica sportiva dei disabili e creare nei giovani, attraverso lo sport, una cultura ai valori civili e sociali 99 Gli 11 punti della “Carta dei Diritti del Bambino nello Sport” Una locandina durante il progetto 100 Enrico Prandi Presidente Panathlon International “Anche quest‟anno saluto con grande soddisfazione il progetto “1 ora per i disabili”, ideato dal Panathlon Club di Padova con la collaborazione della Provincia, che si svolgerà fra gli studenti nel biennio scolastico 2009-2010. Un‟iniziativa che è diventata un appuntamento e che noi tutti aspettiamo. C‟è un proverbio che recita, pressappoco “ognuno raccoglie quello che semina”. Il Panathlon Club di Padova, incoraggiato dalle idee e dall‟entusiasmo di Fabio Presca, sulle cui orme continuano a lavorare altri amici panathleti, ha seminato bene, continua a seminare e i frutti arrivano, eccome… Leggo che nell‟anno 2007-2008 ben 4749 studenti hanno partecipato al progetto con oltre 300 ore di presenza di panathleti nelle scuole e con la partecipazione di 48 testimonial. Vedo l‟adesione di altri panathlon all‟iniziativa, che vanno da Adria a Genova Levante, da Venezia/Mestre, a Vicenza e Verona; di altri progetti simili a questo, che hanno avuto realizzazione in altri Paesi in Europa. Questi sono risultati davvero importanti sia per il Panathlon Club di Padova che per tutto il mondo panathletico. Fra le nostre finalità infatti, lo Statuto indica l‟attuazione di forme concrete di partecipazione e l‟impegno ad incentivare e a sostenere le attività a favore dei disabili. Non a caso proprio quest‟anno il Panathlon International premia con il suo più prestigioso riconoscimento quadriennale, il Flambeau d‟Or, una personalità sportiva che ha fatto della diversità la sua bandiera: Oscar Pistorius, campione paraolimpico nel 2004 in diverse specialità. 101 Concludo questo mio saluto citando testualmente una frase lasciata da una studentessa sull‟opuscolo “1 orax i Disabili” anno 2008-2009, che ben riassume il concetto di disabilità: “in fondo non siamo poi diversi, solo differenti”. Noi crediamo, ed abbiamo la profonda convinzione che la diversità non debba essere vista come “mancanza” ma come “valore aggiunto” e che grazie alla diffusione della pratica e della cultura sportiva debba diventare fonte di ricchezza e crescita umana”. Massimo Rosa Governatore Area 1 Triveneto “Pochi mesi or sono ho incontrato il presidente del Comitato Paralimpico Italiano, Luca Pancalli, una persona davvero squisita ed attenta a ciò che il suo interlocutore gli racconta, ma non attenta per obbligatorietà, come lo fanno abitualmente i politici o tutti coloro che occupano una qualsiasi poltrona. No, qui si è in presenza di una persona sensibile ai problemi che toccano la nostra umanità, in questo caso quella a cui la vita ha compromesso la salute e di conseguenza la vita. Al presidente Pancalli ho raccontato della collaudata “1 Ora x i Disabili”, nata in quella Padova panathletica che fa della cultura la sua miglior carta vincente, grazie ad una politica perseguita, con scrupolosa metodicità, dal suo presidente Renato Zanovello. 102 E che di questo progetto padovano il Panathlon Area 1 Triveneto ne ha fatto una bandiera, una bandiera che viene portata avanti giorno per giorno da Mario Torrisi, il nostro consigliere alla Disabilità, con grande entusiasmo, bravo a raccogliere il testimone dell‟indimenticato Fabio Presca ed a diffonderlo. I tempi sono ormai maturi a che il Panathlon divenga un interlocutore quotidiano delle istituzione sportive italiane che, per avere quel posto che gli spetta, deve passare necessariamente attraverso il loro riconoscimento, soprattutto perché il nostro Movimento ha nel proprio pedigrée l‟importante imprimatur del Cio. Anche di questo si è parlato a Roma, cioè di questo riconoscimento da parte del Comitato Paralimpico Italiano, ed a sollecitarlo è stato proprio il presidente Pancalli, con mia grande soddisfazione. Naturalmente ho colto l‟occasione ed ho trasmesso il messaggio al Distretto Italia. Nel frattempo è stato presentato, da parte dell‟Area 1 Triveneto, una bozza di Protocollo d‟intesa al Comitato Paralimpico Italiano, d‟accordo con il presidente Pancalli, e lo stesso è stato inviato al Panathlon International su richiesta del presidente Enrico Prandi, il quale sta trattando a livello internazionale. Un 2009 caratterizzato dal necessario entusiasmo e dinamismo, che vuole, ancora una volta, il “Panathlon Area 1 Triveneto” attore a livello nazionale su un tema, quello della disabilità, di primaria importanza, ed ancora una volta grazie al progetto “1 Ora per i Disabili”. 103 Gianfranco Bardelle Presidente Coni Veneto “Il coinvolgimento del mondo scolastico in questa lodevole iniziativa, è senz'altro una "mossa azzeccata"; infatti, prima ci si confronta con i problemi che quotidianamente i disabili devono affrontare e vincere, prima si plasma una "coscienza civile" predisposta alla comprensione ed alla solidarietà! Ma soprattutto al rispetto di quanti, pur avendo gli stessi doveri nella Società, a volte non possono godere di "eguali diritti". Plaudo quindi convinto all'iniziativa "1 ora x i disabili" e ringrazio il Panathlon Patavino che la promuove unitamente a quanti la sostengono e con convinzione ne condividono valori ed obiettivi”. 104 Luca Pancalli Presidente Comitato Paralimpico Italiano “Cultura della normalità: è questo il messaggio che il Panathlon va diffondendo ormai da anni tra i ragazzi degli Istituti Scolastici attraverso il progetto “1 Ora x i Disabili”. Un‟iniziativa volta a sensibilizzare le giovani generazioni sul tema della disabilità e dell‟integrazione sociale ed un progetto che abbraccio con forza, perché ritengo sia necessario dare sempre maggior concretezza a concetti quali il rispetto verso il prossimo ed il diritto ad una pratica sportiva che sia di tutti e per tutti e che non faccia alcuna differenza. “1 Ora x i Disabili” dà ai ragazzi l‟opportunità di conoscere un mondo che molto spesso ignorano, fornendogli, allo stesso tempo, gli strumenti per capire che lo sport è uno straordinario veicolo di unione e inclusione sociale e che la fatica, l‟agonismo, la passione e lo spirito di sacrificio sono elementi che appartengono ad ogni atleta, sia esso disabile o normodotato. Allo stesso tempo tende ad incoraggiare la pratica sportiva tra i ragazzi disabili in età scolastica, illustrando i benefici derivanti da un‟attività fisica che funga, in primo luogo, da stimolo per il superamento dei propri limiti e per il raggiungimento di traguardi importanti, tanto in un campo di gara così come nella vita”. 105 6.2 Il parere medico: Maria Emanuela Mometto e Maurizio Schiavon, U.O. Centro di medicina dello sport ed attività motorie, dipartimento socio-sanitario ai Colli, Area Sanitaria, Azienda Ulss 16 Padova. Lo sport come terapia, come trampolino, come fune alla quale aggrapparsi e tirare tutto se stesso, con la forza di braccia che hanno da dire molto, con il linguaggio del silenzio d‟atleta. Quello che parla con il sudore, con i risultati. I pareri medici confermano come lo sport, anche in particolari patologia, possa rappresentare quasi una cura, soprattutto per l‟anima. “Le tipologie di disabilità che presentano i ragazzi inseriti nelle Società Sportive che praticano sport a livello agonistico sono soprattutto di tipo congenito, cioè già presenti alla nascita o che si manifestano in epoca neonatale, a differenza dello sport degli adulti dove le tipologie di disabilità sono soprattutto di tipo acquisito. Le disabilità maggiormente rappresentate che arrivano all‟osservazione del Medico dello Sport sono la paralisi cerebrale infantile e la spina bifida assieme ad altre patologie di più raro riscontro. Seguendo nel tempo questi atleti si è visto come la pratica sportiva, oltre che ai consolidati e riconosciuti aspetti benefici sia a livello fisico che psicologico, permetta di far acquisire loro il maggior grado di indipendenza funzionale e come solo l‟allenamento praticato in modo costante possa trasformare un ragazzo disabile in un atleta d‟elite raggiungendo risultati riconosciuti sia a livello nazionale che internazionale. In entrambe le patologie è presente una compromissione dell‟apparato muscolo-scheletrico, con un‟ampia variabilità di manifestazioni a seconda che siano colpiti uno o più arti o una metà del corpo. La spina bifida, ad esempio, è una malformazione congenita del midollo spinale dovuta alla mancata chiusura del tubo neurale durante il primo mese di vita intrauterina. Si tratta di una delle anomalie congenite più frequenti: colpisce circa 1/1500 neonati. In questa patologia, a causa della mancata saldatura degli archi posteriori delle vertebre, si può avere erniazione (fuoruscita, esposizione verso l‟esterno) del tessuto midollare spinale detta mielocele, delle meningi, detta meningocele, o di entrambi detta mielomeningocele, che spesso sono ricoperti solo 106 dalla cute o da un‟esile membrana. L‟erniazione si verifica più frequentemente nella parte lombare o cervicale della spina dorsale. I danni causati dalla spina bifida sono quindi molto variabili. Nei casi più gravi, il midollo spinale fuoriesce dalla colonna vertebrale per alcuni centimetri, causando la propria lesione e quella delle terminazioni nervose ad essa collegate. E‟ la localizzazione di tale lesione che determina in gran parte la gravità dei sintomi, che possono variare da disturbi motori agli arti inferiori, fino ad arrivare alla paraparesi (perdita della sensibilità e di parte del movimento degli arti inferiori) o paraplegia (perdita completa di sensibilità e di movimento degli arti inferiori). Altri problemi possono riguardare, invece, i nervi della vescica e degli sfinteri e causare complicazioni infettive dell‟apparato urinario e situazioni di incontinenza. Otto bambini su dieci, che nascono con la spina bifida, presentano anche idrocefalo (dalla parola greca hydro = acqua, cephale = testa), cioè l‟accumulo del liquido cerebrospinale all‟interno del cervello, per uno squilibrio tra produzione e drenaggio del liquido stesso; uno dei pericoli, in questo caso è rappresentato dalle infezioni a carico del sistema nervoso (meningiti e infezioni cerebrali). In genere la spina bifida non colpisce le facoltà mentali, anche se ad essere presenti sono i problemi psicologici legati alla malattia, come scarsa autostima e difficoltà di relazione. Con questi atleti il lavoro principale deve essere mirato al miglioramento delle doti di coordinazione neuro-motoria che, si è visto, permette in tempi brevi benefici anche vistosi della postura; le masse muscolari, stimolate simmetricamente, andranno a sostenere in maniera adeguata strutture scheletriche ancora fragili e in evoluzione. Considerato che lo sviluppo della coordinazione del movimento e la capacità di apprendere gesti motori dipende in gran parte dal sistema nervoso centrale, si può facilmente intuire come il miglioramento della destrezza e della velocità non sia così semplice per gli atleti affetti da spina bifida proprio perché il loro problema deriva da una malformazione del sistema nervoso centrale. Ad avere il massimo beneficio da un percorso di allenamento sportivo, invece, è la mobilità articolare, intesa come la capacità di compiere movimenti di grande escursione, perché anche se il tronco e gli 107 arti superiori non presentano particolari disabilità, il ritardo psicomotorio tende a coinvolgere un po‟ tutti gli apparati. Massimo beneficio anche per l‟apparato muscolare, all‟inizio del percorso motorio quasi sempre ipotrofico (poco sviluppato), che acquista tonicità di pari passo con lo sviluppo scheletrico. In linea di massima, per entrambe queste disabilità, le tappe del processo di allenamento sono da interpretare come diversi momenti di attività motoria, che devono sfumare l‟uno nell‟altro, senza che in ciascuno di essi si possa intravedere un vero inizio e una vera fine. Queste tappe si possono così sintetizzare: 1- La tappa iniziale di educazione motoria, del gioco e del gioco sport 2- La tappa della formazione di base 3- La tappa dell‟allenamento specifico 4- La tappa dell‟allenamento di elevato livello. In base alla nostra esperienza, ci siamo resi conto che l‟aspetto “disabilita” deve essere considerato nelle fasi iniziali dell‟inserimento e dell‟allenamento fisico globale, indirizzato a migliorare le abilità motorie deficitarie; e tale concetto va considerato anche all‟interno di ogni singola seduta di allenamento, inserendo gradatamente un aumento dei carichi di lavoro in base ai miglioramenti ottenuti. Nel momento però in cui questi atleti si avvicinano all‟allenamento specifico per l‟attività agonistica, questo deve essere condotto in maniera perfettamente uguale ad un atleta normodotato, lasciando al singolo la migliore espressione delle proprie abilità motorie residue. E‟ proprio nello sport agonistico quindi che la disabilità sfuma, lasciando il posto all‟uguaglianza tra atleta disabile e atleta normodotato nel raggiungimento dei rispettivi livelli di vertice. E‟ proprio attraverso lo sport che i limiti obbligati da una malattia congenita possono trasformarsi in un‟opportunità, per migliorare la propria salute e per misurarsi con gli altri 108 Interventi per il progetto “1 ora x i disabili” 109 6.3 I commenti di studenti e professori “Egregio Signor Sindaco, vorremo esporle un problema verificatosi il 20/01/2009, Nicola, atleta paraplegico non è riuscito ad accedere direttamente alla palestra della scuola media attraverso l’ingresso ovest, per la mancanza di una rampa peri disabili. Nicola fa parte del Panathlon International, un’ associazione che si occupa dei problemi dei disabili e con cui abbiamo organizzato un incontro la settimana scorsa. Abbiamo trascorso una giornata molto significativa in quanto abbiamo compreso meglio la vita delle persone con disabilità fisiche. Siamo stati molto sorpresi nel vedere come queste persone sorridono alla vita, anche se magari hanno determinati problemi. Successivamente noi stessi abbiamo provato ad essere delle persone disabili grazie a vari giochi e percorsi organizzati da collaboratori e membri di “un’ ora per i disabili”. Vorremmo che Nicola e tutte le persone con delle disabilità possano accedere alla palestra per assistere a una partita di calcetto, di pallavolo e di basket. Lei ha la possibilità di aiutare queste persone e siamo certi che Lei lo farà. Alleghiamo foto dell’accesso in questione e la raccolta delle firme degli alunni che hanno aderito alla proposta. In attesa di una Sua risposta, Le porgiamo i nostri più cordiali saluti”. Classe 2^ G “Anche quest’anno la mattinata trascorsa con voi è stata intensa, divertente e di alto livello umano e culturale. I miei colleghi e i nostri alunni hanno partecipato con curiosità, disponibilità ed entusiasmo. Naturalmente desidero continuare la nostra collaborazione. Vi auguro di essere sempre troppo impegnato in questo progetto”. Prof.ssa Anna Di Liddo, Monselice. 110 “L’esperienza con il Panathlon mi ha fatto capire molto dal primo momento che li ho visti con il sorriso: questo significava molto, ho capito che non bisogna mai scoraggiarsi e che il mondo non è sempre fatto da brutte cose”. Mara “La prima sensazione che ho provato è che ci si sente soli ed emarginati, perché ti potrebbero prendere in giro e non hai nessun amico. Ho provato anche tristezza, perché ho pensato che loro vedendo altri ragazzi che possono correre, saltare e giocare si potrebbero rattristire. Ma, guardando il video delle Paralimpiadi ho capito che, con tanta forza di volontà, anche i disabili possono fare grandi cose e, soprattutto possono dimostrare di avere un cuore più grande del nostro per provare le stesse emozioni. Nel video abbiamo visto che sono circondati da amici che li considerano normali, perché questo è il vero significato del’amore. Riflessione - Per insulsi incidenti… persone come noi diventano disabili. Sì! Proprio per insulsi incidenti persone perdono un braccio, perdono le gambe, perdono la vista, perdono la memoria e volte perdono la cosa più importante…. LA VITA !!!! Purtroppo però bisogna dire che alcune persone sono disabili già dalla nascita. Con il progetto “1 Ora x i Disabili” ho capito molte cose, tra cui che la vita dei disabili è molto più complicata della nostra. Per esempio, nello sport, soprattutto nella pallacanestro loro non salteranno, ma in quella carrozzina seduti devono riuscire a lanciare la palla con le braccia. Io al solo pensiero che al mondo esistono persone che la loro sensibilità è uguale a zero e che prendono in giro i disabili, mi riempio di rabbia. Io però voglio dare coraggio a queste persone e prometto che mi impegnerò a rispettare e far rispettare queste persone. Considerazioni sul progetto - Questo progetto realizzato con la scuola, mi fa riflettere su quanto è difficile per le persone disabili potersi spostare per godersi la città in cui abitano, sia con una carrozzina per i molti ostacoli che si possono trovare nel cammino, sia anche per le persone non vedenti; per loro un piccolo ostacolo è 111 come superare una montagna non sapendo mai bene dove si trovano. E anche lo sport per loro non è facile come sembra: infatti, giocare a pallacanestro con la carrozzina bisogna essere molto coordinati con le braccia, perché con quelle devi tenere al palla e anche muovere la carrozzina. Ho pensato ai loro stati d’animo e alle sensazioni quando sono in difficoltà e non possono essere autonomi e spero che in futuro inventino nuove macchine così che anche loro possono condurre una vita normale. Io che, grazie al progetto, ho potuto provare alcune delle loro attività quotidiane, posso affermare che la loro vita non è facile e confortevole come la nostra”. Matteo “Solo tre parole: esperienza di Vita” Tommaso “Ho capito che essere disabile non vuol dire essere ESCLUSO” Vitulo Foto di studenti alle prese con “prove di disabilità”. 112 6.4 Non solo Padova. Il Panathlon, un meccanismo unito Dopo il successo del progetto “1 ora x i disabili”, anche tutti gli altri club dell‟Area 1 hanno sposato iniziative simili. Anche questo risultato è senza dubbio da inquadrare nell‟ottica di un processo comunicativo che, se avesse sfruttato canali preferenziali e altamente divulgativi (i già citati social network), avrebbe avuto un‟eco maggiore. Nonostante questo, i risultati ottenuti hanno entusiasmato. Il Panathlon Club di Verona – Gianni Brera/Università è nato proprio per questo motivo: far conoscere a tutti, panathleti e non, iniziative e progetti che dovrebbero essere conosciuti dalla “massa”. - Panathlon Club - Bassano Nel 2009 ha patrocinato (collaborando anche con la Società Tennis Bassano all'organizzazione ed erogando un contributo economico) per il terzo anno consecutivo, i "Campionati Italiani Assoluti di Tennis in carrozzina", svoltisi a Bassano dal 10 al 14 giugno (nella serata di gala dell'11 giugno, hanno avuto come ospite Luca Pancalli, Presidente del Comitato Italiano Paralimpico). Inoltre, il 13 settembre, ha patrocinato (ed anche in questo caso ha collaborato all'organizzazione dell'iniziativa) la “Brentana in bici” (manifestazione cicloturistica da Bassano a Tezze di Grigno) alla quale hanno preso parte anche alcuni ragazzi disabili dell' Associazione Prometeo Onlus alla quale è stato poi erogato il ricavato della manifestazione stessa. - Panathlon Club del Garda Da due anni organizza una gara di “hand-bike” (non competitiva) rivolta ad atleti non autosufficienti. Si tratta di una specialità paralimpica che quest‟anno si è disputata il 30 maggio con una nutrita partecipazione di atleti di entrambi i sessi provenienti da diverse regioni italiane. La gara è organizzata con la preziosa collaborazione della nostra socia Francesca Porcellato, detentrice di 10 medaglie d‟oro conquistate con la partecipazione a ben sei Paralimpiadi Il percorso, chiuso al traffico, si snoda nel centro storico di Peschiera del Garda, la città fortezza, 113 sede del Club Gardesano. Il club solitamente ospita atleti e i loro accompagnatori per il pernottamento e la serata di gala organizzata per le premiazioni. - Panathlon Club – Portogruaro-Sandonà Collabora e supporta da alcuni anni ad una manifestazione che si svolge ogni estate a Caorle chiamata “Nuotiamo insieme”. La manifestazione promossa dalla Società Piave Nuoto di San Donà di Piave e dalla Federazione Italiana Nuoto unisce “disabili” e normodotati in una gara di grande intensità emotiva. Alla manifestazione che si è tenuta sabato 18 Luglio 2009, hanno partecipato ben 600 atleti provenienti da tutte le regioni italiane. - Panathlon Club - Pordenone Ha partecipato con un gruppo di non vedenti all‟ Edizione 2009 della manifestazione “Pordenone Pedala”. Il presidente ha consegnato la prestigiosa “Coppa Panathlon” ad un atleta non vedente. Marinella Ambrosio, socia del Club e Presidente del Comitato Italiano Paralimpico s‟interessa del progetto “1 ora per i Disabili” promuovendolo nelle scuole locali. - Panathlon Club – Trieste-Muggia Sostiene, assieme al Circolo della Vela – Muggia e l‟ U.S. Triestina Nuoto, l‟iniziativa di Salvatore Cimmino “Giro d‟ Europa a nuoto” per un mondo senza barriere e senza frontiere. Salvatore Cimmino è un atleta master paralimpico, (amputato di una gamba) che da Maggio 2009 ha percorso le seguenti tappe: Canale della Manica (traversata) Scilla – Cariddi. Stretto di Gibilterra (traversata) Copenhagen – Malmoe. Capri – Napoli. “€uromarathon” – la mezza maratona che si è svolta il 20 Settembre tra Capodistria (Slovenia) a Muggia, ha visto la partecipazione di quattro atleti disabili Lorenzo Prelec e Vittorio Krismancic (handbike) Carlo Durante e Tullio Frau (nonvedenti), Salvatore Cimmino ha premiato anche il vincitore della gara l‟etiope Hailegeorgis Dereie. Secondo si è classificato il campione italiano Migidio Bourifa. 114 Un aneddoto sul vincitore: l‟atleta etiope, che ha 24 anni ed è alla sua prima importante vittoria, gira per Pordenone, ove risiede attualmente, mostrando a tutti la coppa vinta all‟ “€uromarathon “. - Panathlon Club - Rovigo Ricordando una recente iniziativa, in collaborazione con la Fondazione ella Cassa di Risparmio del Veneto, alla Provincia di Rovigo, la Regione del Veneto, abbiamo contribuito alla ristrutturazione di una palestra per disabili titolata al 115 compianto Presidente Ricchieri.Continuiamo a fare service, fornendo materiale necessario per l'attività. Quest'anno inoltre abbiamo contribuito ad aiutare un ciclista cieco, Marchetti, che assieme al suo accompagnatore, ha fatto una trasferta da Rovigo a Lourdes in pochi giorni. Abbiamo fra i nostri soci particolari il Presidente sezione disabili Prof. Badiali, con il quale collaboriamo periodicamente anche per premiare gli atleti che durante l'anno si sono distinti nelle varie discipline sportive. - Panathlon Club - Cittadella Domenica 6 settembre 2009 si è celebrato l‟annuale incontro per i disabili organizzato tra Centro Sportivo al sole, Cooperativa Fratres di Fontaniva e il Panathlon Club Cittadella con il patrocinio del Comune di Fontaniva. Con essa si intende creare una occasione per avvicinare, in un momento di festa, la comunità locale al mondo della disabilità. Lo sport diviene lo strumento per sensibilizzare la cittadinanza sul tema dell‟handicap, e ai più “fortunati non portatori”, la possibilità di riflettere sul valore dello sport, che va ben oltre le competizioni, le classifiche e i premi. La giornata è stata a suo tempo denominata “Sport Senza Barriere”, è iniziata alle ore 9,30 con la Messa celebrata da Don Ettore Simioni ed è stata allietata da un complessino musicale durante la celebrazione, con canti ecclesiastici. Poi squadre giocatori disabili hanno svolto incontri aperti anche ai presenti con Tennis, Calcetto, Basket, Pallavolo, Tiro con l‟arco. - Panathlon Club - Gorizia Nell‟anno del 50° anniversario dalla Fondazione (7 maggio 2009), ha avviato una serie di iniziative per diffondere, promuovere e implementare le azioni intraprese volte ispirare coloro che operano in ambito educativo e nel mondo dello sport. Le azioni sono state poste in essere nello spirito della Dichiarazione sull‟etica sullo sport giovanile presentata a Gand nel settembre 2004. L‟intento del Panathlon Club di Gorizia di realizzare approcci educativi per la prevenzione di comportamenti devianti nello sport e l‟affermazione dei valori etici, ha determinato lo sviluppo di azioni territoriali le principali Istituzioni locali come quella scolastica, ma anche con gli Enti 116 locali, con il Coni, le Associazioni e le Società sportive, gli Enti di promozione sportiva, le Aziende sanitarie regionali, ecc... Il Convegno “Etica Sportiva e turismo accessibile” svoltosi il 7 maggio 2009, ha cercato di porre interrogativi e di dare possibili risposte al bisogno di valori sempre crescente nella società di oggi riguardo al tema della disabilità vissuta in una dimensione ludico-sportiva-turistica ed trattato gli aspetti attuali e di sviluppo della disabilità, espressioni dell‟ attenzione del Club di Gorizia e del territorio isontino verso il tema. In considerazione del fatto che lo sport può essere considerato un diritto per tutti i cittadini, lungo tutto l‟arco di vita, si è voluto a maggior ragione trattare il tema del turismo sportivo come una possibilità accessibile anche per coloro che possiedono diverse abilità. Uno sport che si configura, in tal senso, come sport sociale, ovvero sensore delle esigenze esplicite e implicite dei cittadini, bambini, adulti, anziani, ma anche persone socialmente bisognose di progetti e interventi specifici, come i disabili, tenendo tuttavia in considerazione il fatto che una vera integrazione sociale è possibile solo in un‟accezione positiva che valorizzi la persona umana e se avviene in tutte le espressioni del vivere sociale, non ultimo il tempo libero ed il turismo. Un turismo sportivo aperto a tutti, praticato in salute, che sia in grado di offrire risposte a i bisogni, da quelli primari di movimento a quelli secondari di affiliazione e di socialità, ma anche servizi adeguati, studi, ricerche, convegni come il presente, che sostengano i processi decisionali, le azioni da intraprendere ai vari livelli nell‟ambito delle politiche sociali con la costituzione di una rete associativa e istituzionale. Il Progetto “Non aver Paura di provare....insieme” ha visto il sostanziarsi di questa rete ed ha permesso la realizzazione di azioni permanenti e continuative a favore dei minori disabili. Ideato dall‟Azienda per i Servizi Sanitari n°2 “Isontina e dal Panathlon Club di Gorizia, in collaborazione con gli istituti scolastici della provincia di Gorizia, Coni Go, Ufficio Scolastico Provinciale (Ufficio Educazione Fisica), Scuole, Uisp Go (Unione italiana sport per tutti), Csi (Centro Sportivo Italiano), Cip (Comitato Italiano Paraolimpico), Csss (Centro Studi Sociologia dello Sport-Panathlon, Coni, Università degli Studi di Trieste, Provincia), è stato 117 finalizzato all‟integrazione ed al miglioramento dell‟autonomia della persona diversamente abile all‟interno della scuola e nell‟ambito sportivo- sociale. Il progetto è tuttora in fase di attuazione ed è stato finanziato ai sensi della Legge Regionale LR 41/96, con la Provincia di Gorizia e va rilevato il fatto che la sperimentazione positiva ne ha permesso il rifinanziamento con successive attività specifiche di formazione degli operatori sportivi per disabili per il triennio 2008-2010. Con la costituzione di un tavolo di lavoro che ha visto la partecipazione di ben dieci enti del territorio si è pertanto sviluppata una sinergia produttiva tra il mondo della scuola, della sanità, dello sport e degli enti locali. Con la realizzazione del Convegno del 4-5 settembre 2009 dal titolo “Lo sport degli altri: Non aver paura di provare...per una cultura sportiva partecipata” si chiude una prima fase di verifica e confronto delle azioni intraprese. E‟ stato infatti possibile mettere a confronto le buone pratiche presenti sul territorio in modo da sviluppare ulteriori azioni a favore dei giovani e dei minori disabili dell‟isontino. Il progetto, va detto rientra nel Programma Provinciale Triennale sulla Disabilità dell‟Ammistrazione Provinciale di Gorizia, tra 9 progetti afferenti, unico nel trattare la trematica dello Sport con l‟apporto determinante e fattivo del Panathlon Club e del Centro Studi di Sociologia dello Sport di gorizia. Progetto che, va fatto rilevare, è stato inserito istituzionalmente ed in modo permanente nelle politiche sociali. La strada sembra quindi essere quella dell‟ integrazione in tutti i sensi: del soggetto disabile con la classe e la comunità di appartenenza degli enti e delle istituzioni nonché dei Panathlon Club, competenti nel territorio di appartenenza, ma aperti all collaborazione, per costituire una Rete virtuosa che veda non protagonisti assoluti, ma sinergie preziose. Anche progetti oramai strutturati e consolidati sul territorio Triveneto e nazionale, come “1 Ora X i Disabili”, promosso dal Club Padova, con la presenza significativa di Mario Torrisi, che risulta essere avviato in vari ambiti regionali e nazionali, può ulteriormente svilupparsi nell‟integrazione con altre esperienze in atto per la creazione di questo tessuto sociale e istituzionale a sostegno dei disabili. 118 - Panathlon Club – Genova Levante “1 ora per i disabili” e Prevenzione contro gli incidenti del sabato sera e in motorino Proseguiamo nell‟iniziativa a favore dei disabili e di prevenzione per ragazzi normodotati (seguendo un‟esperienza del Club di Padova),che continua a suscitare un notevole interesse presso Docenti e studenti. Andiamo nelle scuole, proiettiamo un documentario sulle Paralimpiadi, rispondiamo alle varie domande che ci vengono rivolte dagli studenti , il cui numero varia da scuola a scuola: normalmente sono i ragazzi di due classi, scelti dal Preside. La presenza nelle scuole nel 2009 ha coinvolto oltre 200 studenti (208). In queste manifestazioni abbiamo avuto l‟apporto degli atleti disabili in carrozzina della squadra di basket Don Bosco e Stefano Mantero (non vedente), dopo avere esposto i problemi legati alla sua condizione, a fatto provare ai ragazzi bendati il gioco del calcio e del thorball praticati con pallone sonoro. La cerimonia per la donazione di un tavolo per il gioco del “ping-pong showdown”, è stata organizzata dalla Provincia di Genova, dal Paladonbosco, dal Panathlon International Genova Levante e da altri Enti, nel mese di Ottobre 2008 si è svolta al Paladonbosco la giornata finale del “Giochiamo insieme”, ove ragazzi disabili e normodotati, divertendosi, hanno dato vita a bellissimi incontri nelle varie discipline sportive. In tale occasione, il Panathlon Genova Levante ha partecipato, organizzando due dimostrazioni di sport per non vedenti. Esibizione di “Thorball”, calcio per non vedenti, giocato con un pallone sonoro, cui hanno partecipato anche ragazzi vedenti con una apposita mascherina. “Show down”, tennis da tavolo con pallina sonora. A questo punto, il Presidente del “G. S.Liguria Non Vedenti”, Stefano Mantero (non vedente), assieme ad altre persone nella sua condizione si è esibito nel gioco. Al termine delle esibizioni, il Presidente del Panathlon Genova Levante, Giorgio Migone, ha, tra l‟altro esposto le difficoltà in cui si trova l‟Associazione Italiana Ciechi di Genova per aver un solo 119 tavolo da gioco su cui allenarsi il cui trasporto in altre sedi comporta il rischio di rottura. A questo punto, un piccolo miracolo: il signor Flavio Battistutta che per hobby lavora il legno si è offerto di costruirne gratuitamente uno; il Panathlon Genova Levante ha completato l‟opera, comprando il materiale necessario. Pensando che questo così significativo gesto di vera bontà meritasse un giusto riconoscimento abbiamo organizzato una cerimonia di consegna che è avvenuta sabato 21 febbraio 2009 all‟Unione Italiana Ciechi, cui ha partecipato l‟Arcivescovo di Genova Cardinale Angelo Bagnasco, presenti Autorità Civili, sportive, stampa e televisioni. Nel contempo abbiamo voluto portare a fare conoscere a tutti il mondo magico dei non-vedenti per i quali praticare uno sport da IMPOSSIBILE DIVENTA POSSIBILE. - Panathlon Club - Verona Ha attivato diverse iniziative, tra le più significative. Progetto Calimero - è stato attivato l‟iter con Il Panathlon International per permettere a Graziella Calimero di rappresentare il Panathlon come “Ambasciatrice dello sport” alla Maratona di New York Graziella Calimero è nata a Gorizia, laureata in medicina a Padova. Nel 1992 subisce un incidente con conseguente tetraplegia. Incontra alcuni atleti disabili e viene affascinata dalla handbike ed inizia a gareggiare e vincere in moltissime maratone, 11 volte Campione d‟Italia, 2 Ori mondiali. Si dedica alla campagna di 120 sensibilizzazione a favore degli atleti disabili nelle scuole di Verona e Provincia e sta avviando un progetto di comunicazione che coinvolga i politici e le istituzioni affinché vengano affrontati temi cari ai disabili come l‟abbattimento delle barriere architettoniche e il potenziamento delle strutture. Progetto “Brainpower” con la presentazione nella Sala degli Arazzi del Comune di Verona del contributo al progetto “Brainpower” per l‟iniziativa dei Maestri di Sci di Bosco Chiesanuova per l‟insegnamento dello sci a disabili (non-vedenti, paraplegici, amputati). Questa iniziativa è già attiva ad Alleghe, riconosciuta dal Comitato Italiano Paralimpico. - Panathlon Club - Chioggia Mercoledì 8 Aprile 2009, il Panathlon Club di Chioggia, nell'ambito delle sue mansioni di promulgazione dell'etica sportiva e di sensibilizzazione della società ai problemi dei disabili nel mondo dello sport, ha invitato alla sua conviviale mensile il Dott. Mario Torrisi e il Prof. Antonio Baldan. Torrisi è il responsabile triveneto del Panathlon per i disabili mentre Baldan è il direttore del programma “1 ora x i disabili”, realizzato dalla sezione di Padova e sostenuto dall'Amministrazione Provinciale. Il motto del Club “Ludis iungit”ossia “Uniti nello sport per lo sport”, trova nella realizzazione di questo programma la sua essenza. Infatti le finalità del Panathlon International sono “l'affermazione dell'ideale sportivo e dei suoi valori morali e culturali quale strumento di formazione ed elevazione della persona e di solidarietà tra uomini e popoli”. Ideale sportivo, solidarietà ecc., ecco, questo programma ,ha tra i suoi obbiettivi, quello di porre in atto, sostenere e incentivare le attività a favore dei disabili, facendo provare ,in corsi formativi-sportivi, seguiti da insegnanti qualificati, ai ragazzi normodotati, cosa vuol dire vivere e fare sport per una persona con una disabilità. Più chiaramente il Progetto: “1 ora x i Disabili” ha i suoi cardini, riportati nel testo base del progetto. Un progetto questo che in otto anni ha dato dei risultati straordinari per quanto riguarda l'educazione dei giovani nella provincia padovana e da quest'anno anche in quella veneziana... Erroneamente riteniamo che la gioventù non abbia più ideali, non sia in grado di provare sentimenti sinceri: non è assolutamente vero. La maggioranza dei 121 nostri ragazzi ha un DNA sano, ma sta a noi, agli educatori insegnare loro i lati belli della vita, l'amicizia, i valori della scuola, della società civile, la solidarietà. Certo per portare avanti tutto questo, ci vogliono risorse che si spera l'Amministrazione clodiense, possa trovare. Il Presidente del Panathlon di Chioggia, Giorgio Perini, lo spera di cuore, per il bene dei suoi concittadini e per il buon nome della città. - Panathlon Club - Vicenza La Provincia di Vicenza ha fornito un piccolo contributo che ha permesso l‟attuazione del progetto in alcune scuole, ove saltuariamente era presente il Club di Padova, ora per quest‟anno scolastico il contributo è aumentato sia pur di non molto, ma permetterà altri interventi, anche in Vicenza. Le scuole medie toccate nell‟anno scolastico 2008/2009 sono state a Montegalda, Villaganzerla e Costoza di Longare, con la partecipazione di otto classi e circe 200 alunni. - Panathlon Club - Venezia L‟assessorato allo Sport delle Provincia ha messo a disposizione un contributo che permetterà l‟attuazione del progetto in due/tre scuole medie della provincia. Incontri che saranno decisi e attuati nel corso dei primi mesi del corrente anno scolastico. Inoltre sono in corso nuovi contati con l‟ Assessore Provinciale allo Sport per l‟estensione del progetto per la restante parte dell‟anno 2009/2010. Il progetto è stato presentato anche al Comune di Dolo, dove esiste una possibilità di attuazione grazie al lavoro di Mario Torrisi e l‟interessamento degli Assessori Lazzari, Cercato e Polo. In occasione della Venice Marathon 2008 il Club ha organizzato una serata con Oskar Pistorius, l‟atleta disabile che ha fatto parlare di se tutto il mondo e che alle Paralimpiadi di Pekino aveva conquistato l‟oro nelle gare di velocità. Lo hanno potuto incontrare e riabbracciare i nostri atleti paralimpici Heros Marai e Samuele Gobbi che hanno gareggiato con lui alle Olimpiadi di Pechino 2008. 122 6.5 Panathlon, Associazione Benemerita del “Cip” E‟ datata 19 gennaio 2010. Recentissima novità, tanto attesa quanto piacevole. Luca Pancalli, il presidente del Comitato Italiano Paralimpico, ha comunicato di aver “legato” al Comitato il Panathlon, essendo “in linea con i contenuti del progetto”, grazie alle tante e pregevoli progetti “sport e disabilità”. Riporto la lettera e la bozza del protocollo d‟intesa con il Cip. 123