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1 INTRODUZIONE C‟è bisogno di comunicare, di farsi sentire ma
INTRODUZIONE
C‟è bisogno di comunicare, di farsi sentire ma, soprattutto, di farsi vedere.
Nella società moderna, “esisti” solo se appari. In televisione, preferibilmente. Ma
senza avere anche un piccolo spazio nella “rete” è inutile provarci a farsi conoscere.
Internet sono le vetrine moderne. Internet è l‟esplosione di tanti “io” nel mondo che si
sono auto elevati a fonti importanti di notizie o ad agganci utili per il proprio
business. Un business che non necessariamente si basa sul denaro, ma spesso sulle
idee, sui valori, sulla voglia di far conoscere i “propri validi motivi” perché gli altri
sappiano che esistiamo.
Il Panathlon Club è presente in Europa e nelle americhe (nord e sud), per un
totale di 260 club così suddivisi: 218 in nel “Vecchio Continente”, 40 in America.
I soci nel mondo sono complessivamente: 11.430 (10.519 in Europa, 911 nelle
americhe). E, a mio modo di vedere, dovrebbero conoscersi tutti. O meglio, iniziare
ad andare un o‟ oltre questi semplici numeri e il concetto del “so che esistono”. Lo
scopo del Panathlon è quello di diffondere i valori dello sport. L‟unica salvezza per
una società in cui niente ha valore. O i valori sono materiali e non certo meritocratici.
Dove esiste ancora il concetto de “l‟importante è partecipare”, mentre la visione
corretta della vita è quella di darsi degli obiettivi e puntare in alto, sempre, nella
logica del “voglio vincere, sapendo accettare la sconfitta, con la quale cresco”.
Internet è necessario. Indispensabile. Ma bisogna utilizzarlo sfruttandolo il più
possibile. Il semplice sito internet non basta più, soprattutto se poco aggiornato, poco
chiaro e ricco di contenuti inutilizzati e inutilizzabili. Qui entra in scena il nuovo club
di Verona “Gianni Brera – Università di Verona”, primo al mondo ad essere associato
ad un ateneo, si occuperà di comunicazione, ufficio stampa, promuovendo qualsiasi
attività (per adesso riguardanti l‟ “Area 1 Triveneto”), semplificando il sito e
rendendolo accessibile a tutti, creando una redazione per la cura delle attività on-line
e della pubblicazione “Panathlon Planet” con notizie, foto, aggiornamenti rapidi in
1
stile “agenzia”. Comunicando ai giovani. Soprattutto. Perché lo sport lo si inizia (lo si
dovrebbe iniziare) a praticare da bambini. Ed è proprio da lì che bisogna partire.
Infondendo e “martellando” dimostrando cos‟è lo sport e a cosa serve realmente.
Utilizzando ovviamente mezzi e linguaggio dei coetanei: social network (face book e
non solo), chat (skype, Messenger), programmi di “video sharing” (Youtube).
Con questa tesi vorrei che si capisse cos‟è e che potenzialità ha l‟utilizzo di
Internet. Partendo dalla descrizione dei mezzi appena elencati per poi passare a
spiegare cos‟è e di cosa si occupa il Panathlon. Approfondendo tutti i temi in cui
affonda le proprie radici.
Perché troppo spesso entrambe le cose sfuggono proprio ai soci stessi. Una tesi
“divulgativa”, che potrebbe essere presa come dispensa da chiunque. Per capire o
ricordarsi dell‟era in cui viviamo e delle opportunità che il Panathlon non può farsi
scappare. L‟età media del Club tocca i livelli più “alti” nella fascia d‟età tra i 60 e i
70. Tra i 30/40 c‟è solo un 3,25 % di soci. Nella fascia che va dai 40 ai 50 si arriva
ad un 11,15 percento, sale la percentuale tra i 50 e i 60 (18,15), mentre gli over 70
sono il 12,06 %. Il numero di utenti internet nel mondo dovrebbe passare da 1,5
miliardi del 2008 a 2,2 miliardi nel 2013, con una copertura del 43% in Asia e del
17% in Cina.
Secondo un Rapporto di Forrester, “Nonostante la crisi economica globale, un
numero crescente di consumatori si converte ogni anno a internet”. Il ricercatore di
Forrester, Zia Daniell Wigder, prevede una crescita del 45% tra il 2008 e il 2013.
L‟Asia rafforza la propria posizione, passando dal 38% al 43%, mentre
l‟America del Nord non rappresenterà che il 13% della popolazione connessa e
l‟Europa il 22% (nel 2008 avevano fatto registrare rispettivamente il 17% e il 28%).
L‟America latina si manterrà intorno all‟11%.
Grande risultato per la Cina che nel 2013, con un tasso di crescita dell‟11%
l‟anno, arriverà a coprire 377,1 milioni di utenti, vale a dire circa il 17% degli utenti
del mondo, piazzandosi davanti agli Stati Uniti (260,5 milioni).
2
Come gli americani, nei prossimi cinque anni i principali paesi industrializzati
registreranno una debole crescita (tra 1-3% l‟anno), restando molto dietro al Medio
Oriente e all‟Africa (+13%).
In Europa, sottolinea ancora lo Studio di Forrester, i Paesi meno connessi
saranno driver della crescita, tra questi Italia, Spagna, Russia e Turchia. In Francia, il
numero di utenti internet dovrebbe arrivare a 45,9 milioni nel 2013, con un tasso di
penetrazione del 73% (60% nel 2008), mentre in Germania del 76% e in Gran
Bretagna dell‟81%.
Un‟analisi sulla moderna comunicazione inserita in un contesto di forte
radicamento ai principi nativi, non un ossimoro concettuale ma una volontà di legare
dei sani propositi con le possibilità di renderli fruibili a tutti.
Perché il Panathlon dovrebbe essere di tutti.
3
Capitolo 1
LA MODERNA COMUNICAZIONE E IL PANATHLON
1.1.
Impossibile prescindere da Internet
Detto in maniera chiara: con una connessione internet si accede al mondo. E
con una connessione internet, il mondo accede a te. Costituita da alcune centinaia di
milioni di computer collegati tra loro con i più svariati mezzi trasmissivi, Internet è
anche la più grande rete di computer attualmente esistente, motivo per cui è definita
"rete delle reti" o "rete globale". Il Panathlon deve, dovrebbe, utilizzarlo e
“spremerlo” al massimo.
In quanto rete di telecomunicazione (una rete di computer è una tipologia di
rete di telecomunicazione) è invece seconda alla Rete Telefonica Generale, anch'essa
mondiale e ad accesso pubblico ma coprente il pianeta in modo più capillare di
Internet, motivo per cui inizialmente è stata largamente utilizzata per l'accesso a
Internet degli utenti comuni, e tutt'oggi lo è ancora, anche se, in un futuro non troppo
lontano, con il miglioramento della tecnologia Voip, è destinata a scomparire
inglobata dalla stessa Internet. Internet offre i più svariati servizi, i principali dei quali
sono il World Wide Web e la posta elettronica, ed è utilizzata per le comunicazioni
più disparate: private e pubbliche, lavorative e ricreative, scientifiche e commerciali.
I suoi utenti, in costante crescita, nel 2008 hanno raggiunto quota 1,5 miliardi
e, visto l'attuale ritmo di crescita, si prevede che saliranno a 2,2 miliardi nel 2013. Il
Panathlon è mondiale. E deve utilizzare mezzi all‟altezza della propria importanza,
dei valori che vuole trasmettere, dell‟estensione che si è prefissata di raggiungere dal
1951 ad oggi. Anzi, a domani. Internet può essere vista come una rete logica di
enorme complessità, appoggiata a strutture fisiche e collegamenti di vario tipo che
interconnette un umano ad un altro tramite, praticamente, qualsiasi tipo di computer
o elaboratore elettronico oggi o in futuro esistente o immaginabile, tanto da
4
considerarlo quasi un mass media. Da qualche anno è ormai possibile collegarsi a
questa grande rete da dispositivi mobili come palmari o telefoni cellulari.
Generalmente Internet è definita “la rete delle reti”. Infatti Internet è costituita da
tutta una serie di reti, private, pubbliche, aziendali, universitarie, commerciali,
connesse tra di loro. Già prima della sua nascita, esistevano reti locali, principalmente
nei centri di ricerca internazionali, nei dipartimenti universitari. Un grande risultato
della nascita e dell'affermazione di Internet è stato quello di creare uno standard de
facto tra i protocolli di comunicazione tra le varie reti, consentendo ai più diversi enti
e agenti (diversi governi, diverse società nazionali o sovranazionali, tra i vari
dipartimenti universitari) di scambiare dati mediante un protocollo comune, il Tcp/Ip,
relativamente indipendente da specifiche hardware proprietarie, da sistemi operativi,
dai formati dei linguaggi di comunicazione degli apparati di comunicazione (modem,
router, switch, hub, bridge, gateway, repeater, multiplexer). L'origine di Internet
risale agli anni sessanta, ad opera degli americani, che misero a punto durante la
Guerra Fredda un nuovo sistema di difesa e di controspionaggio. La prima
pubblicazione in cui si teorizza una rete di computer mondiale ad accesso pubblico è
On-line man computer communication dell'agosto 1962, pubblicazione scientifica
degli statunitensi Joseph C.R. Licklider e Welden E. Clark. Nella pubblicazione
Licklider e Clark, ricercatori del Massachusetts Institute of Technology, danno anche
un nome alla rete da loro teorizzata: "Intergalactic Computer Network".
Ma prima che tutto ciò diventi una realtà è necessario attendere fino al 1991
quando il governo degli Stati Uniti d'America emana la High performance computing
act, la legge con cui per la prima volta viene prevista la possibilità di ampliare, ad
opera dell'iniziativa privata e con finalità di sfruttamento commerciale, una Internet
fino a quel momento rete di computer mondiale di proprietà statale e destinata al
mondo scientifico. Sfruttamento commerciale che subito viene messo in atto anche
dagli altri Paesi. Nel 1993 il CERN, l'istituzione europea dove nasce il World Wide
Web, decide di rendere pubblica la tecnologia alla base del World Wide Web in
modo che sia liberamente implementabile da chiunque. A questa decisione fa seguito
5
un immediato e ampio successo del World Wide Web in ragione delle funzionalità
offerte, della sua efficienza e, non ultima, della sua facilità di utilizzo. Da tale
successo ha inizio la crescita esponenziale di Internet che in pochissimi anni porterà
la rete delle reti a cambiare per sempre la società umana rivoluzionando il modo di
relazionarsi delle persone come quello di lavorare tanto che nel 1998 si arriverà a
parlare di “nuova economia”.
Utenti internet espressi in decine di migliaia per nazione, dati 2007
1.2
Breve storia di Internet e l’importanza del “Web” per il Panathlon
Come il Panathlon, anche Internet ha una storia abbastanza recente. E,
parallelamente, un‟espansione rapidissima. Il progenitore e precursore della rete
Internet è considerato il progetto Arpanet, finanziato dalla Defence Advanced
Research Projects Agency (inglese: Darpa, Agenzia per i Progetti di ricerca di Difesa
Avanzata), una agenzia dipendente dal Ministero della Difesa statunitense (la Guarra
fredda era in atto e bisognava intuire un metodo di comunicazione esclusivo, in caso
6
di attacco). In una nota del 25 aprile 1963, Joseph C.R. Licklider aveva espresso
l'intenzione di collegare tutti i computer e i sistemi di time-sharing in una rete
continentale. Avendo lasciato l'Arpa per un posto all'Ibm l'anno seguente, furono i
suoi successori che si dedicarono al progetto Arpanet. Il contratto fu assegnato
all'azienda da cui proveniva Licklider, la Bolt, Beranek and Newman (Bbn) che
utilizzò i minicomputer di Honeywell come supporto. La rete venne fisicamente
costruita nel 1969 collegando quattro nodi: l'Università della California di Los
Angeles, l'Sri di Stanford, l'Università della California di Santa Barbara, e
l'Università dello Utah. L'ampiezza di banda era di 50 Kbps. Negli incontri per
definire le caratteristiche della rete, vennero introdotti i fondamentali Request for
Comments, tuttora i documenti fondamentali per tutto ciò che riguarda i protocolli
informatici della rete. La super-rete dei giorni nostri è risultata dall'estensione di
questa prima rete, creata sotto il nome di Arpanet. I primi nodi si basavano su
un'architettura client/server, e non supportavano quindi connessioni dirette (host-tohost). Le applicazioni eseguite erano fondamentalmente Telnet e i programmi di File
Transfer Protocol (Ftp).
La posta elettronica, invece, fu inventata da Ray Tomlinson della Bbn nel
1971, derivando il programma da altri due: il Sendmsg per messaggi interni e
Cpynet, un programma per il trasferimento dei file. L'anno seguente Arpanet venne
presentata al pubblico, e Tomlinson adattò il suo programma per funzionarvi: divenne
subito popolare, grazie anche al contributo di Larry Roberts che aveva sviluppato il
primo programma per la gestione della posta elettronica: Rd. In pochi anni, Arpanet
allargò i suoi nodi oltreoceano, contemporaneamente all'avvento del primo servizio di
invio pacchetti a pagamento: Telenet della Bbn. In Francia inizia la costruzione della
rete Cyclades sotto la direzione di Louis Pouzin, mentre la rete norvegese Norsar
permette il collegamento di Arpanet con lo University College di Londra.
L'espansione proseguì sempre più rapidamente, tanto che il 26 marzo del 1976 la
regina Elisabetta II d'Inghilterra spedì un'e-mail alla sede del Royal Signals e Radar
Establishment.
7
1.3
Il Panathlon Club “Gianni Brera – Università di Verona”
Il nuovo club1, nato a Verona alla fine del 2009, ha una funzione particolare,
dedicata soprattutto alla comunicazione. E‟ il primo Panathlon Club al mondo ad
essersi unito ad una Università, nello specifico con la facoltà di Scienze Motorie ma
con la partecipazione di studenti di Scienze della Comunicazione. Un gruppo di
lavoro dedito alla promozione di qualsiasi attività riguardi ogni singolo club
dell‟”Area 1 Triveneto”. E‟ stata creata una redazione, composta da sei giovani
giornalisti che cureranno, quindi, il “Panathlon Planet” - la pubblicazione ufficiale del
Panathlon -, la realizzazione del nuovo portale, con una forma più snella, veloce,
giovanile, sportiva, dedita alle news del Panathlon e dello sport in generale - con un
taglio moderno, veloce e diverso -. Non solo, gestiranno la pagina ufficiale di
Facebook, creata appositamente per la comunicazione nel social network che vanta
più di 400 milioni di iscritti attivi e la creazione di un collegamento con Youtube, per
la pubblicazione di video su eventi, interviste, brevi filmati sullo sport. Il club è il
numero 406 ed è formato in gran parte da studenti e professori. A tenere a battesimo
il nuovo club è stato il Presidente Enrico Prandi. Fanno parte del Direttivo: il
presidente Mattia Toffolutti, i vicepresidenti Marco Iridile e Davide Caldelli, i
consiglieri Claudio Camatti, Adalberto Scemma e Enrico Pirondini.
Il segretario è una vecchia conoscenza del calcio italiano: Romano Mattè, ex
commissario tecnico delle Nazionali di Indonesia e del Mali.
“Alla mia prima partecipazione all'assemblea dei presidenti del Panathlon
International di tutto il mondo chiesi la parola affermando che: "Se il Panathlon dopo
50 anni di esistenza veniva chiamato Pantheon, Biathlon, Pentatlon… e così via
discorrendo, voleva dire che qualcosa nella comunicazione non aveva funzionato”.
Esordisce così Massimo Rosa, il Governatore dell‟Area 1 Triveneto.
1
Il merito di questa operazione è del giornalista scrittore mantovano Adalberto Scemma, firma storica del
“Guerin Sportivo” e professore dell‟Università di Verona.
8
“Da lì è partita la mia personale “battaglia” per sviluppare il mio concetto che
vedeva protagonista la ricerca di soluzioni per fare in modo che si comunicasse
maggiormente. Il club di Verona, durante la mia presidenza, è apparso sul nostro
quotidiano cittadino, L'Arena, 460 volte, oltre ai diversi servizi su Telearena e
Telenuovo, ed alle interviste radiofoniche – specifica il Governatore, esperto di
comunicazione -. Come è apparso su la Gazzetta dello Sport in maniera significante
per il progetto “Tribuna Fair Play”, per il quale ho ricevuto il premio dall‟
“International Committee for Fair Play” a Budapest nel 2006, venendo
successivamente invitato a Roma dall‟allora ministro dello sport Giovanna Melandri.
Questo ha fatto sì che nel mondo dello sport veronese il nostro sodalizio fosse
conosciuto, raggiungendo così l'obiettivo prefissato.
Ma se l'obiettivo era stato raggiunto nel mondo esterno, nel mondo interno
c'era ancora da lavorare. Così una volta divenuto governatore dell‟Area 1 Triveneto
ho ideato “Panathlon a porte aperte, quattro chiacchiere con il Direttivo”. Di cosa si
tratta? Vista la difficoltà dei soci a rispondere alla domanda: “Cos‟è il Panathlon”, ho
pensato di andare con l‟intero direttivo nei club per renderli partecipi ai lavori della
nostra area e, quindi, per incontrare i soci e spiegare loro chi è il Panathlon
International, il Distretto Italia, l‟Area 1 Triveneto. Quali sono le finalità, l‟attività, i
programmi, i dati relativi al cosmo Panathlon, in parole povere tutto ciò che i soci
non conoscono. L‟iniziativa ha avuto successo, tant‟è che da due anni siamo chiamati
per questi incontri”.
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10
1.4
Facebook e Youtube
Facebook2 (inizialmente noto come Thefacebook) è un sito web di social
network, di proprietà della Facebook, Inc., ad accesso gratuito.
Secondo i dati forniti dal sito stesso, nel 2010 il numero degli utenti attivi ha
raggiunto quota 400 milioni in tutto il mondo. In base all'acquisto di una quota
dell'1,6% da parte di Microsoft nel 2007 per 240 milioni di dollari e all'acquisto del
2% per 200 milioni di dollari da parte di un gruppo di investitori russi, il valore del
sito è stato stimato di 10 miliardi di dollari. Il sito nel 2009 è divenuto profittevole
segnando il primo bilancio in attivo.
Mark Zuckerberg, fondatore di Facebook. Potenziale socio del Panathlon?
2
Il nome del sito si riferisce agli annuari con le foto di ogni singolo membro (facebook) che alcuni college e
scuole preparatorie statunitensi pubblicano all'inizio dell'anno accademico e distribuiscono ai nuovi studenti ed al
personale della facoltà come mezzo per conoscere le persone del campus.
11
1.4.1 Storia di
Facebook è stato fondato il 4 febbraio 2004 da Mark Zuckerberg, all'epoca
studente diciannovenne presso l'università di Harvard, con l'aiuto di Andrew
McCollum e Eduardo Saverin. Per la fine del mese, più della metà della popolazione
universitaria di Harvard era registrata al servizio. A quel tempo, Zuckerberg fu
aiutato da Dustin Moskovitz e Chris Hughes per la promozione del sito e Facebook si
espanse all'Università di Stanford, alla Columbia University e all'Università Yale.
Questa espansione continuò nell'aprile del 2004 quando si estese al resto della Ivy
League, al MIT, alla Boston University e al Boston College. Alla fine dell'anno
accademico, Zuckerberg e Moskovitz si trasferirono a Palo Alto in California con
McCollum, che aveva seguito un stage estivo alla Electronic Arts. Affittarono una
casa vicino all'Università di Stanford dove furono raggiunti da Adam D'Angelo e
Sean Parker.
Il dominio attuale, facebook.com, fu registrato soltanto in seguito, tra l'aprile e
l'agosto 2005, e molte singole università furono aggiunte in rapida successione
nell'anno successivo. Col tempo, persone con un indirizzo di posta elettronica con
dominio universitario (per esempio .edu, .ac.uk ed altri) da istituzioni di tutto il
mondo acquisirono i requisiti per parteciparvi. Quindi il 27 febbraio 2006 Facebook
si estese alle scuole superiori e grandi aziende. Dall'11 settembre 2006, chiunque
abbia più di 12 anni può parteciparvi. Gli utenti possono fare parte di una o più reti
partecipanti, come la scuola superiore, il luogo di lavoro o la regione geografica. Se
lo scopo iniziale di Facebook era di far mantenere i contatti tra studenti di università e
licei di tutto il mondo, con il passare del tempo si è trasformato in una rete sociale
che abbraccia trasversalmente tutti gli utenti di Internet. Dal settembre 2006 al
settembre 2007 la posizione nella graduatoria del traffico dei siti è passata secondo
Alexa dalla sessantesima alla settima posizione.
Dal luglio 2007 figura nella classifica dei 10 siti più visitati al mondo ed è il
sito numero uno negli Stati Uniti per foto visualizzabili, con oltre 60 milioni di foto
12
caricate settimanalmente. In Italia c'è stato un boom nel 2008: nel mese di agosto si
sono registrate oltre un milione e trecentomila visite, con un incremento annuo del
961%. Il terzo trimestre ha poi visto l'Italia in testa alla lista dei paesi con il maggiore
incremento del numero di utenti (+135%). Secondo i dati dell'osservatorio
indipendente Inside Facebook, gli utenti italiani nel mese di settembre 2009 sono
circa 18 milioni.
Come funziona
Gli utenti creano profili che spesso contengono fotografie e liste di interessi
personali, scambiano messaggi privati o pubblici e fanno parte di gruppi di amici. La
visione dei dati dettagliati del profilo è ristretta ad utenti della stessa rete o di amici
accettati dall'utente stesso. Secondo TechCrunch, "circa l'85% degli studenti dei
college ha un profilo sul sito. Di quelli che sono iscritti il 60% accede al sito
quotidianamente. Circa l'85% almeno una volta la settimana, e il 93% almeno una
volta al mese". Secondo Chris Hughes, il portavoce per Facebook, "Le persone
passano circa 19 minuti al giorno su Facebook".
Gli iscritti a Facebook possono scegliere di aggregarsi a una o più reti,
organizzate per città, posto di lavoro, scuola e religione. Facebook è paragonabile a
Myspace, ma una significativa differenza tra le due piattaforme è il livello di
personalizzazione della pagina personale. Mentre Myspace consente agli utenti di
decorare i profili usando l'HTML e il CSS, su Facebook è possibile inserire solo del
testo. Dal 2007 su Facebook è disponibile il Marketplace, che consente agli utenti di
inserire annunci, che sono visibili solo da utenti presenti nella stessa rete. Facebook
include alcuni servizi che sono disponibili sul dispositivo mobile, come la possibilità
di caricare contenuti, di ricevere e rispondere ai messaggi, di mandare e ricevere
poke, scrivere sulla bacheca degli utenti o semplicemente la possibilità di navigare
sul network.
13
1.4.2 Storia di
Lo scopo di YouTube 3, invece, è quello di ospitare solamente video realizzati
direttamente da chi li carica, ma molto spesso contiene materiale di terze parti, come
spettacoli televisivi e video musicali. E‟ stato fondato nel febbraio 2005 da Chad
Hurley (amministratore delegato), Steve Chen (direttore tecnico) e Jawed Karim
(consigliere), che erano stati tutti dipendenti di PayPal. Il primo video caricato, il 23
aprile del 2005, è stato Me at the zoo da Jawed Karim. Il video ha una durata di 19
secondi ed è stato girato di fronte alla gabbia degli elefanti dello zoo di San Diego. [1]
YouTube è il sito web che presenta il maggior tasso di crescita. Nel giugno 2006
l'azienda ha comunicato che quotidianamente vengono visualizzati circa 100 milioni
di video, con 65.000 nuovi filmati aggiunti ogni 24 ore. L'azienda di analisi
Nielsen/NetRatings valuta che il sito abbia circa 20 milioni di visitatori al mese.
L'incremento di popolarità che il sito ha avuto dalla sua fondazione gli ha permesso
di diventare il quarto sito più visitato nel mondo dopo Google, MSN e Yahoo!.
Nell'agosto 2006 Sony acquista per 65 milioni di dollari il sito concorrente
Grouper. Questo evento lascia presupporre all'epoca che il valore di YouTube sul
mercato potesse essere di circa un miliardo di dollari, ma la stima si rivela
sottodimensionata, perché il 10 ottobre 2006 Google compra YouTube per 1,65
miliardi di dollari pagati in azioni proprie. Dal 19 giugno 2007 YouTube è
disponibile in diverse lingue, tra cui l'italiano. Ha subìto anche diverse censure, in
vari paesi del Globo. E questo significa che, laddove non c‟è libertà d‟espressione e
di pensiero, un mezzo come Internet e, più nello specifico come Youtube, danno
fastidio, creano finestre sulla realtà incontrollate che potrebbero far conoscere verità
scomode: il 3 dicembre 2006, in Iran il “Comitato per la Propagazione della Virtù e la
Prevenzione dal vizio” ha affermato che “I siti ebrei come You Tube, con i loro video
provocanti e peccaminosi, sono il simbolo della decadenza del perverso occidente”.
3
Il cui motto è emblematico: “Broadcast Yourself”, ovvero: pubblicizza te stesso”.
14
Pertanto ha bloccato l'accesso a YouTube e ad altri siti nel tentativo di impedire la
diffusione di musica e film stranieri ritenuti moralmente viziati. Youtube è stato
bloccato anche in Tunisia dalla Pta (Pakistan Telecomunication Authority) e da
decisione del governo tunisino dal novembre 2007. Durante la settimana dell'8 marzo
2007, YouTube è stato bloccato in Thailandia. Molti blogger hanno ritenuto che le
ragioni di tale impedimento sono state dovute al video dell'intervista del Primo
Ministro Thaksin Shinawatra alla CNN. Peraltro, il governo non ha smentito o
confermato le ragioni della censura. YouTube è comunque tornato accessibile dal 10
marzo. Nell'agosto 2007 la giunta militare birmana ha chiuso l'accesso a YouTube
per fermare i filmati di denuncia dei massacri dei dimostranti, in gran parte monaci,
che chiedevano una maggiore libertà. Nel Marzo 2008 YouTube è stato bloccato in
Cina per aver ospitato nella propria piattaforma e reso visibile un video dove vi erano
filmate le violenze ed i disordini scoppiati in Tibet in quei giorni.
Per diffondere l‟utilizzo di questo moderno mezzo,il Panathlon ha indetto
anche un concorso4: XVII Congresso internazionale Panathlon International – Stresa
15 maggio 2010. “Come i giovani percepiscono l‟Olimpismo e quale sport vogliono
per il futuro”. E i concorrenti dovranno inviare un filmato della durata di massimo 3
minuti da pubblicare proprio su YouTube (titolando i filmati “Congresso virtuale
Panathlon”).
4
Sotto, il bando di concorso, in lingua francese, inviato a tutte le sedi del Panathlon International.
15
Non sono solo le persone “comuni” a creare canali su YouTube, ma anche
aziende e persone famose, che, caricando video di cui detengono il copyright,
aumentano la propria popolarità. I canali ufficiali di YouTube vengono detti
“partner”. Artisti, attori, musicisti, calciatori, politici, associazioni, club sportivi,
atleti hanno creato un proprio canale personale utilizzando YouTube e nel contempo
una strategia comunicativa precisa: visibilità, aggiornamenti in tempo reale delle
proprie attività e possibilità di essere sempre “presenti”.
16
1.5
Intervista all’Ingegner Maurizio Monego, presidente della Commissione
Culturale del Panathlon International
Dottor Monego, come intende lei la comunicazione e come vorrebbe che si
comunicasse nel Panathlon?
Per spiegare “come intendo la comunicazione” devo accennare al significato
che ha per me la parola comunicazione. Provo a semplificare il più possibile.
Se partiamo dal significato letterale del verbo latino communicare, la
comunicazione è il “fare comune”. Mi soffermerei su questo “fare comune”, un
mosaico di tante tessere che legherei al tema che stiamo trattando: il Panathlon, come
movimento ideale con finalità eminentemente culturali ed educative. Amicizia,
Cultura, Etica e Fair Play sono i 4 pilastri su cui si basa.
Gli strumenti di cui oggi disponiamo per comunicare si sono arricchiti ma
anche sbilanciati verso una trasmissione essenziale, e per lo più banale, attraverso
canali che sono quelli della rivoluzione digitale. Affermatasi da qualche decennio
essa marcia ad una velocità che non lascia neanche il tempo di adattarsi ai continui
cambiamenti e ai moltiplicati servizi che offre.
Sempre più l‟immagine sostituisce la parola. Quest‟ultima viene massacrata
(nei telefonini e nelle e-mail sempre più si comunica in codici alfa numerici: dove6,
xke, 1 al posto degli articoli, ecc..), snaturata, piegata ad un uso simbolico che da un
lato rende rapida la trasmissione ma perde in espressività.
Il vocabolario si è paurosamente impoverito; la grammatica e la sintassi sono
ostacoli fastidiosi da aggirare eliminando modi e tempi verbali.
Una lingua si trasforma, si contamina nel tempo, come è giusto che sia – non
sono un fanatico della Accademia della Crusca - ma non deve ignorare la storia e la
tradizione culturale di un popolo. Parole come “retorica”, o “ermeneutica” che sono
alla base della teoria comunicativa non hanno significato che per pochi.
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Dico questo perché bisogna fare attenzione a non confondere “comunicazione”
con “conoscenza”. Mi viene alla mente il saggio di Mario Perniola, “Contro la
comunicazione”, in cui sostiene che “la comunicazione è l‟opposto della conoscenza.
È nemica delle idee perché le è essenziale dissolvere tutti i contenuti”.
Il “fare comune” per una associazione è essenziale perché ne da il senso
dell‟esistenza e presuppone l‟organizzazione in un gioco di squadra. Deve partire, a
mio avviso, dalla conoscenza, dalla “elaborazione” dell‟informazione, dalla
condivisione e anche dal confronto. Richiede dunque il tempo per applicarsi, per
riflettere e per tradursi in parole o in immagini.
Oggi siamo bombardati di informazioni: la pubblicità ha imposto i suoi
meccanismi in tutti i mezzi massmediatici. Prevale la “quantità”, senza nessuna
considerazione per la “qualità” dei messaggi e spesso si confonde quella con la
cultura, che è altra cosa. Lo spin – l‟attività dei professionisti de della comunicazione
pubblicitaria e politica – ha contagiato tutto il mondo della comunicazione. Rende
necessario continuamente to put a new spin, “imprimere un nuovo giro, fare una
piroetta lasciando da parte gli scrupoli della logica e della morale”. Questa
constatazione mi richiama alla mente il concetto di „ballerino‟ espresso da Milan
Kundera in La lentezza.
La comunicazione verso l‟esterno: Come ho ricordato, il Panathlon è un
movimento “culturale” nel campo dello sport. La trasmissione di valori che si
propone avviene in due modi essenziali: l‟esempio e l‟abitudine. Lo insegnava già
Aristotele (Etica Nicomachea); lo insegna tutta la tradizione educativa e pedagogica
dall‟Illuminismo in poi.
I panathleti, dunque devono attivare questi due canali in direzione dei giovani.
L‟incontro diretto è fondamentale – sia che si pensi al dialogo con gruppi di studenti,
meglio se in presenza di testimonials – ma importante è anche fornire indirizzo e
guida verso la riflessione e l‟approfondimento personale.
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Esiste un problema di linguaggio nella comunicazione verso l‟esterno. Tale
linguaggio dev‟essere modulato a seconda del target: comunicare con bambini delle
scuole elementari non può avvenire con le stesse modalità usate in scuole medie
superiori. In un caso sarà il gioco e l‟applicazione pratica e l‟elaborazione dei
concetti – si pensi alla carta dei diritti del ragazzo nello sport o alla carta del Fair Play
– dev‟esssere guidata dalle maestre. Con adolescenti e giovani si userà la parola e il
mezzo audiovisivo per stimolare il dibattito.
Altro capitolo fondamentale è la comunicazione rivolta alle istituzioni a cui ci
si propone e quella destinata ai mezzi d‟informazione. In questi casi la
comunicazione dev‟essere “asciutta”, senza fronzoli retorici, basata sulla concretezza.
Il che vuol dire progettualità e riconosciuta utilità sociale.
Le stesse che sono necessarie per farsi conoscere nella propria comunità. Sono
la qualità e la pregnanza formativa che rendono attenti i giovani, le loro famiglie, la
scuola e ricevono l‟apprezzamento e la stima. Che si tratti di una manifestazione
pubblica, o di un concorso o di una premiazione, o di una tavola rotonda, l‟importante
sono i contenuti e come questi vengono proposti.
In questi casi la comunicazione deve servire a preparare l‟evento e a
descriverlo poi evidenziandone le valenze e la significatività.
La comunicazione interna: Fondamentale è cosa e come si comunica fra i
panathleti, fra coloro che devono realizzare il “fare comune”. Il Panathlon ha
predisposto una sua rete di comunicazione. Essa si basa sulla Rivista Panathlon
International, sul sito web www.panathlon.net, sulle newsletter, sulle lettere e
circolari trasmesse dalla Segreteria Generale per via cartacea e per e-mail. C‟è poi
un‟attività di pubblicistica, come i Quaderni o i volumi pubblicati (es: Sport, Etiche,
Culture) per raccogliere saggi e atti di congressi.
I congressi sono poi uno strumento privilegiato di partecipazione perché
rinsaldano le amicizie, favoriscono lo scambio fra le persone e le culture
19
rappresentate nel Panathlon, trattano temi importanti con autorevoli relatori di
levatura internazionale.
Io vorrei che tutti questi strumenti diventassero di uso comune fra i panathleti e
di questi nei confronti del mondo esterno. Una rete, infatti è costituita da maglie.
Quale che sia la forma di queste maglie, essenziale è che si chiudano. Vale a dire la
circolarità delle idee e delle notizie non deve conoscere interruzioni perché ciò
comporta la mancanza di feed back, il ritorno. Una rete con troppe smagliature
produce pesca scarsa.
Per questo vorrei che i club dessero visibilità e informazione delle azioni di
servizio che compiono nel loro territorio, fra la loro comunità. Spesso pregevoli
azioni non sono fatte conoscere e rimangono episodi di cui non rimane traccia.
Lo strumento più indicato e potente è il web. Lo scambio delle informazioni
nella rete non è solo un modo per “apparire” (i motori di ricerca ne moltiplicano
l‟effetto), ma costruisce prima di tutto un patrimonio di esperienze a cui ciascun club
può attingere, copiando, adattando, modificando le idee, in un‟opera di affinamento
che meglio si adatta alle opportunità che si offrono alla sua realtà.
I club possono e debbono essere i sensori sul territorio. Solo da essi può partire
la realizzazione di un osservatorio che possa allargarsi ed essere funzionale alla
diffusione di cultura sportiva: attraverso l‟enfatizzazione delle buone pratiche,
attraverso la solidarietà e così via.
Le notizie che dal Panathlon International vengono fatte arrivare a tutti i livelli
dell‟organizzazione devono ricevere risposte, non si devono arenare. Il flusso
dev‟essere continuo. Flusso e riflusso.
Troppo spesso assistiamo invece alla “caduta della linea”, ma questo riguarda
aspetti che non attengono solo alla comunicazione.
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Il Panathlon è un Club Service mondiale. Ma cosa manca?
In quanto basato sul puro volontariato, il Panathlon soffre come tutti i club
service, di insufficiente impegno da parte dei suoi associati e di mancanza di sostegno
economico.
Il “patrimonio sociale” costituito dal mondo del volontariato è tanto più
efficace e apprezzato quanto più si rivolge a bisogni primari o essenziali della società
e quanto più esso surroga lo Stato nel risolvere tali bisogni. Si pensi alle associazioni
nel campo della ricerca medica. Senza la loro azione e il sostegno di Telethon, la
ricerca scientifica che lo Stato avvilisce con continui tagli, non sarebbe in grado di
assicurare standard accettabili. Si pensi alle associazioni umanitarie nel mondo e così
via.
Il Panathlon si occupa di sport. Lo sport non è un bisogno primario. Per certe
correnti di pensiero è perfino colpevolmente strumentale all‟affermarsi dell‟ideologia
capitalista degli egoismi e degli individualismi (vedi la Scuola di Francoforte).
La mancanza di stato di necessità – nonostante da più parti si proclami
l‟emergenza educativa e si invochi più etica – comporta una certa difficoltà a
radunare fonti di finanziamento per progetti (compresi quelli comunicativi). Al
Panathlon di oggi manca senso di appartenenza, voglia di tradurre in azione i
convincimenti personali, che tuttavia nell‟impegno vengono “dopo” una serie di
incombenze e necessità. Gli entusiasmi e l‟orgoglio dei fondatori e dei panathleti che
sentivano l‟appartenenza come un segno distintivo di sportivi, di educatori e perfino
un distintivo sociale, si sono affievoliti e non hanno trovato nei nuovi soci ricambi
altrettanto motivati. Solo la convinzione che il lavoro che il Panathlon può o potrebbe
fare nella società non è solo utopia ma è uno strumento di civiltà e una espressione di
umanesimo, potrebbe innescare un ciclo virtuoso di espansione fra le nuove
generazioni.
Manca oggi anche un diffuso senso dell‟internazionalità, quasi che la dessimo
per scontata perché c‟è la globalizzazione. Capacità di ascolto delle esigenze e del
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pensiero di culture diverse dalla nostra; in qualche caso supponenza di essere
depositari di chissà quali valori e messaggi, disincanto che spesso sfocia in cinismo;
perdita di speranza. Sono alcuni dei difetti più ricorrenti e preoccupanti. Per contro
esistono potenziali straordinari, di amicizia, di solidarietà, di voglia di essere utili alla
società, che spesso si concretizzano in azioni esemplari da parte dei club più virtuosi.
Si tratta dunque di valorizzare gli aspetti positivi e isolare quelli negativi, puntando
sull‟orgoglio e sul desiderio di emulazione.
In questo la comunicazione diventa essenziale, a patto che sia obiettiva, non
retorica, ma accattivante. Sempre più club utilizzano professionalità in questo campo.
Lo vediamo dal repertorio dei lavori presentati per il Premio Comunicazione.
Vengono realizzati Dvd in forma di trailer, costruiti per essere brevi ma capaci di
comunicare l‟essenza delle azioni e le emozioni suscitate. Alcuni sono on line nel
nostro sito, ma credo che pochi se ne avvedano. Su questo fronte c‟è da lavorare
informando dell‟avvenuta pubblicazione. Lo si fa generalmente con il club
protagonista e con il Governatore dell‟Area a cui il club appartiene. Non credo che a
cascata l‟informazione si diffonda, spesso per non fomentare gelosie, cosa che trovo
abbastanza assurda.
Lo sport è un valore dell'umanità. Ma bisogna farlo sbocciare soprattutto nei
più giovani. Come giudica la nascita del Panathlon Club dell'Università di Verona?
Il Panathlon non ha senso se non parla ai giovani. I panathleti sono
prevalentemente persone mature e anziane. Ciò è dovuto alla storia dello sviluppo del
movimento panathletico e spesso alcuni club si sono dimostrati insensibili alla
necessità di inserire i giovani nelle loro fila. Fino a qualche anno fa anche le donne
trovavano difficoltà ad entrare nei club. Oggi molte ricoprono ruoli dirigenziali di
primordine.
La distanza generazionale si è allargata col tempo e rende più difficile il
dialogo con la generazione attuale di giovani, che corre ad una velocità ben diversa
da quella della media del corpo sociale.
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Il difetto in questo senso non è solo del Panathlon. Federazioni sportive,
Comitati Olimpici Nazionali e lo stesso Comitato Olimpico Internazionale sono stati
finora dominati da dirigenti che sono lì da 40-50 anni, spesso autoreferenziali, più
preoccupati di gestire il consenso che non di incidere nella società civile.
Qualcosa sta cambiando. Il XIII Congresso del Cio, tenutosi lo scorso
Novembre a Copenhagen lo ha dimostrato. Si è registrata una svolta di cui tutte le
organizzazioni sportive – Panathlon compreso - faranno bene a prendere atto. Prima
lo faranno meglio sarà.
L‟analisi di uno sport sempre meno attraente per i giovani e l‟aumento
dell‟obesità fra le giovani generazioni hanno indotto a studiare correttivi per non
perdere audience, e connessi finanziamenti, allo sport mondiale. Si era cominciato
qualche anno fa istituendo la Commissione degli atleti e organizzando manifestazioni
sportive internazionali come gli Eyof (European Youts Olympic Festival) o gli Ayof
(Australian Youth Olympic Festival). Vi è stata una ulteriore apertura da parte del
Cio, ai giovani, coinvolgendoli nel XIII congresso ma anche in tutti i progetti
culturali ed educativi; sono stati istituiti i Giochi Olimpici della Gioventù – Yog - (la
prima edizione si svolgerà a Singapore nell‟agosto di quest‟anno); ci si è lanciati
nella “rivoluzione digitale” adottando e utilizzando tutti gli strumenti della
comunicazione giovanile.
Su questa via il Panathlon aveva già mosso i primi passi. Con la costituzione
dei Panathlon Junior riservati a giovani al di sotto dei 32 anni, da qualche anno si sta
cercando di coinvolgere queste forze nel progetto panathletico, liberandoli degli
orpelli, incombenze e adempimenti che l‟organizzazione maggiore necessariamente
deve avere e consentendo loro di vivere un ambiente più anagraficamente omogeneo
e autogestito, senza peraltro rinunciare alle esperienze dei panathleti dei club padrini.
È chiaramente un paradosso cercare di parlare ai giovani senza sentire da loro
quali sono i sentimenti, quali le domande, quali i mezzi di comunicazione da attivare
per far arrivare più efficacemente il messaggio panathletico fra i loro coetanei, nella
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scuola, nelle società sportive, nelle loro famiglie. Per questo il prossimo Congresso
Internazionale del Panathlon, che si terrà a Stresa il 14 e 15 Maggio, ha previsto una
sessione di un‟intera mattinata dedicata ai giovani. È stato bandito un concorso per
sapere da loro come viene oggi percepito l‟olimpismo, quale sport vogliono per il
futuro – similmente a quanto ha fatto il Cio a Copenhagen – quali sono le loro
istanze.
Due relazioni selezionate fra i materiali che stanno arrivando (quella del Club
Junior di San Marino è su Youtube), saranno parte integrante e qualificante del
Congresso. I risultati dovranno avere poi una ricaduta nelle attività dei club e
dovranno servire ad allargare la fascia di partecipazione di studenti e neo laureati: le
forze di cui il Panathlon ha bisogno per rinnovarsi e per proporsi sempre più
credibilmente.
Da questo punto di vista la nascita di un club come quello sorto all‟interno
dell‟Università di Verona è il segno da un lato che la politica culturale del Panathlon
ha imboccato la strada giusta, dall‟altro è il segno della nostra speranza. Sempre più
le università collaborano con il Panathlon: ne hanno ospitato congressi, hanno docenti
che collaborano, studenti che dimostrano crescente interesse o almeno curiosità. Se è
vero che essi rappresentano il futuro della società è anche vero quanto sostiene
Maturana, che noi genitori e adulti siamo il nostro futuro e lo saremo solo se avremo
saputo educare i giovani.
Il computer, Internet, i social network (facebook, twitter ecc.), comunicazione
di massa globale, brand building. Tutti termini sconosciuti al 90% dei panathleti.
Per quanto detto in precedenza, la realtà del Panathlon di oggi è quella di un
corpo sociale che è rimasto attardato rispetto all‟affermarsi di mezzi di
comunicazione massmediatici che invece costituiscono l‟acqua in cui nuotano i
giovani. In realtà le percentuali di analfabeti mediatici non è così alta come si crede.
Sono tantissimi gli associati che utilizzano la posta elettronica o accedono ad Internet
e perfino compaiono in Face book o scaricano files da Youtube. Anche quando
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preferiscono stampare e leggere un testo piuttosto che leggerlo direttamente dallo
schermo – come faccio io – hanno compreso, il più delle volte inconsapevolmente,
che quanto afferma Edgar Morin ne “I sette saperi” o in “Educare per l’era
planetaria” sono passaggi necessari all‟educazione del futuro e ci siamo ormai
immersi.
Potrei citare casi di non pochi ultra ottantenni che mi scrivono abbastanza
frequentemente per posta elettronica o navigano con attenzione nel sito del Panathlon
e poi consigliano, criticano, stimolano. Saranno pochi, saranno le eccezioni che
confermano la regola di una scarsa padronanza e utilizzo del mezzo informatico, ma
ci sono e credo che rivelino una realtà nascosta: molti attribuiscono all‟uso
dell‟informatica, a cui sempre più il P.I. sta ricorrendo, una difficoltà nella
comunicazione, ma in realtà questo è un alibi per non frasi troppo coinvolgere. In
molti casi non hanno nulla da comunicare perché l‟attività di certi club è
insufficiente.
Il processo di apprendimento e utilizzo di tutti i mezzi da lei citati è
sicuramente lento, ha delle difficoltà ad affermarsi fra i panathleti, ma è ineluttabile
che avvenga. Per accelerarlo in molti casi i responsabili della comunicazione del P.I.
hanno cercato di istruire i club per renderli autonomi nella gestione degli spazi del
sito loro dedicati. Ciò è avvenuto in varie forme, ma poi i dirigenti dei club
cambiano, non sempre le competenze vengono trasmesse a chi subentra e perciò
l‟attività in questa direzione da parte del P.I, non deve cessare e anzi sta cercando di
rendere sempre più facile la gestione delle notizie. Con l‟istituzione dei Distretti
nazionali dovrebbe estendersi la capacità di utilizzo del sito. Se nei club entreranno i
giovani questo processo riceverà certamente impulso.
Crede che il comunicare "a martello" sia utile per il bene del Panathlon
International?
Comunicare “a martello” o usare la strategia di spin che ho ricordato, paga
quando si tratta di un prodotto: a furia di sentirlo nominare, prima o dopo lo provi.
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Non credo che un simile meccanismo si attagli alla cultura. Se diamo a questa
parola il giusto significato, occorre che la proposta del Panathlon abbia contenuti,
contenga stimoli all‟approfondimento individuale, mostri le valenze sociali che esso
contiene. Importa poco imporre il logo del Panathlon se poi non si conoscono la
natura e le opere del movimento e se queste opere non hanno un consenso e un
apprezzamento nella società.
I rapporti educativi, come quelli familiari, di amicizia e di amore, rientrano
nella sfera dell‟estetica, che dal secolo scorso ha annesso al suo territorio anche lo
studio degli stili di vita avvalendosi dei contributi delle scienze umane, storiche e
sociali. I rapporti educativi comportano l‟assunzione di obbligazioni impegnative e
prolungate nel tempo indipendenti da contrattazioni esplicite e controllate. Per questo
l‟attività in campo educativo non può in alcun modo essere assimilata ad alcuna altra
attività in cui possa funzionare lo spin.
La comunicazione verso l‟esterno dell‟attività del Panathlon dev‟essere assidua
e in ogni caso deve avere a monte notizie da comunicare e che queste siano di
interesse all‟opinione pubblica.
Il martellamento andrebbe usato, piuttosto, con i nostri soci per ricordare loro il
senso di essere panathleti e la necessità di agire e comunicare a loro volta. Bisogna
tuttavia dosare sapientemente questo tipo di intervento perché se assillante diventa
controproducente; se troppo rado produce perdita di senso di appartenenza.
Purtroppo (o per fortuna) nella società moderna, per "esistere" bisogna
apparire. Preferibilmente in tv. Ma con l'espandersi di internet, anche determinati
spazi nel web possono risultare decisivi. Non crede che il "distribuire" il marchio"
Panathlon (quasi come fosse un prodotto) sia l'unico modo per far arrivare a tutti
la cultura dello sport?
Io dico purtroppo. Lo diciamo in tanti, ma la realtà è quella contenuta nella sua
domanda. Parole come “disinteresse”, “discrezione”, “moderazione” sembrano quasi
bestemmie in un contesto che ha messo in cima alla scala dei valori il successo e il
26
guadagno e l‟apparire ne misura il valore. Quando affermavo implicitamente prima
che per avere visibilità occorre aver guadagnato prima la stima, la credibilità, dicevo
una cosa che contrasta con la realtà prevalente. In televisione vanno per la maggiore
personaggi che non hanno alcuna competenza o abilità, che non hanno nulla da
comunicare se non l‟immaginario legato alla loro presenza fisica. Sembrerebbe
dunque fuorviante quella mia affermazione: il Panathlon dovrebbe “apparire”, magari
a Porta a Porta o nei telegiornali delle edizioni nazionali. Non importa per dire cosa o
mostrare quali successi. Le sembra possibile?
Nei pochi casi in cui ciò è avvenuto – certamente non nella fascia di maggior
ascolto – pochissimi se ne sono accorti. Le trasmissioni più viste sono solitamente
ingolfate di ospiti autorevoli, di tuttologi che esprimono opinioni su tutto. I politici
non se ne risparmiano una. Poi scopri che non conoscono la Costituzione, ma questo
è un dettaglio senza importanza. Gli ospiti, anche i più autorevoli, possono rispondere
a domande chilometriche dei conduttori con poco più che dei sì; non hanno spazio
per proporre nessun ragionamento completo: brandelli di discorsi si accavallano in
confusi alterchi. Quando va bene uno ha a disposizione 20-30 secondi. Mi riesce
difficile pensare che in quegli ambienti possa trovare spazio una comunicazione di
cosa è e cosa fa il Panathlon.
Diversa è la situazione per le emittenti regionali e locali. In questo campo non
sono pochi i passaggi televisivi e radiofonici dei nostri club. Nel nostro sito sono
raccolte le testimonianze di rubriche settimanali tenute da alcuni club – vedi il caso
dei club di San Carlos-Madonado in Uruguay o di Ancona – anche per lunghi periodi;
oppure di ampi resoconti di convegni, di interviste con partecipazione di personalità
di primissimo piano – vedi gli interventi del Cardinale Bagnasco che parla
diffusamente del Panathlon o di docenti, psicologi dello sport, medici dello sport –
che tengono banco per minuti; o di notizie di realizzazioni e messaggi panathletici
inseriti in trasmissioni su scala nazionale – vedi le citazioni del Panathlon durante la
trasmissione della Maratona di Venezia o durante il Memorial Pantani e altre
manifestazioni di levatura internazionale.
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Ci sono club che hanno rapporti con i media delle loro città di alta audience e
di elevata frequenza. Potrei citare i casi di Como, di Genova, di Bergamo, di San
Marino, di Verona al tempo di Tribuna Fair Play, di Sorocaba e San Paolo in Brasile
e di tutti i Club che hanno avuto i riconoscimenti del Premio Comunicazione del
Panathlon International (vedi in www.panathlon.net/Attività/Selezione /Premi
internazionali) per la capacità di aver saputo imporre l‟immagine e la conoscenza del
Panathlon nelle loro realtà. Non è casuale che siano fra i club più produttivi in termini
di azioni e di diffusione di cultura sportiva. Non credo, dunque che il Panathlon
debba imporsi come un qualsiasi prodotto. Deve invece agire concretamente e dotarsi
di abili comunicatori che sappiano valorizzare le sue opere e il suo pensiero. Apparire
solo per apparire non serve a niente. Il Panathlon non è un prodotto di consumo.
Che futuro dà al Panathlon di oggi e al Panathlon che, invece, sfrutta la
comunicazione - soprattutto - del web?
Il Panathlon avrà il futuro che noi sapremo costruire. La comunicazione è
fondamentale, ma deve basarsi su una sostanza. Quando si vuole parlare ai giovani,
questi colgono subito se proponi chiacchiere o se possono ricavare qualcosa di utile
per loro, per la loro crescita. Per questo occorre che i club mettano in campo esperti
autorevoli, personaggi sportivi noti che abbiano idee e sentimenti da trasmettere,
strumenti audiovisivi pedagogici e interattivi, opportunità di avvicinarsi allo sport
praticato e alla cultura sportiva.
Il web offre possibilità praticamente illimitate. Esse vanno sfruttate, senza
cadere nella banalità e mostrando un livello culturale che tolga il Panathlon dal
mazzo delle sciocchezze di cui la rete è intasata. Quando studenti e perfino giornalisti
mi contattano perché navigando nel nostro sito hanno trovato dovizia di informazioni
e riferimenti e mi chiedono specifici approfondimenti o mi richiedono interviste –
non capita spesso, ma mi è capitato – vuol dire che il Panathlon gioca il suo ruolo
nella società. Vuol dire che il tipo di comunicazione che facciamo, con i suoi limiti,
con la fatica che richiede all‟internauta per leggere news molto più lunghe di quanto
normalmente si aspetta, trova ascolto. Naturalmente devono essere persone motivate.
28
Del resto i giornali on line propongono titoli, come cerchiamo di fare noi nel
nostro sito, e cliccandoli si aprono articoli interi.
Evidentemente se proponiamo un saggio, questo avrà un‟estensione maggiore
di un normale articolo, ma agli interessati offriamo opportunità non comuni, non
banali. Si tratta di affinare questo tipo di comunicazione attraverso una attenta
selezione e migliorando gli abstracts.
Giudica positiva l'idea di creare una redazione, nel neonato club scaligero,
che agisca da ufficio stampa?
L‟idea del neonato club scaligero di proporsi come ufficio stampa è di per sé
positiva ed encomiabile. Dimostra ancora una volta che i giovani per partecipare – in
questo caso al movimento panathletico – vogliono coinvolgersi ed essere concreti.
Non posso essere dunque che favorevole.
Si tratta di definire il livello a cui tale redazione intende lavorare: a scala
territoriale?, regionale? nazionale?, internazionale? Per ciascuno di questi livelli
l‟impegno richiesto e molto diverso e richiede di rapportarsi con i responsabili o con
chi possa essere incaricato del collegamento con le diverse sfere decisionali. Non per
applicare censure, ma per costruire insieme il futuro del Panathlon, come una sola
squadra, o un solo armo che voga all‟unisono nella stessa direzione.
Se vuole, ha spazio per delle sue conclusioni personali.
Gli argomenti che mi sono stati proposti sono stimolanti e fondamentali per il
Panathlon. In sintesi la mia posizione è quella di considerare la comunicazione
prevalentemente in un‟ottica strumentale alla conoscenza e basata sulla concretezza
delle opere sottostanti.
Ritengo che il Panathlon, come altre associazioni internazionali qualificate in
campo culturale non possa avere ammiccamenti con una comunicazione di tipo
commerciale. Non sento neanche l‟ossessione, che sembrano provare tanti panathleti
di un Panathlon che “non è conosciuto, nessuno sa cos‟è”. Quanti nomi, quante sigle
di associazioni e organizzazioni anche più importanti del Panathlon non sono
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conosciuti? Non dobbiamo pretendere di far diventare di massa una associazione che
per sua natura è elitaria, che tratta temi astratti come gli ideali e i valori, che seleziona
i suoi associati. In città ove il club Panathlon da anni operi efficacemente nella
società non serve preoccuparsi di spiegare cos‟è il Panathlon. La gente lo sa, non
tutti, ma una gran parte. Lo sanno le famiglie degli scolari che partecipano a concorsi
di componimenti o di disegno, o che partecipano a manifestazioni dedicate alla
promozione dell‟attività fisica e dello sport, magari nel segno del Fair Play; lo sanno
insegnanti che favoriscono l‟inserimento del Panathlon fra le offerte formative,
magari per diffondere la cultura del diverso e il rispetto per i disabili (vedi 1Ora X i
Disabili); lo sanno i giornalisti o le emittenti che mensilmente riferiscono di service o
di eventi legati a quei club. Se la gente della strada non ci conosce, francamente mi
importa poco. Il messaggio, per attecchire, necessita di persone motivate e aperte,
sensibili e disponibili ad assecondare un percorso di acculturazione. Gli altri, e sono i
più, interessati solo allo spettacolo, all‟apparire, o alla loro utilità materiale non li
convincerai mai, per quanto valida e martellante possa essere la comunicazione. Mi
preoccupa di più che tanti panathleti sappiano cos‟è il Panathlon, cosa fa e cosa ci si
aspetta da loro, per dare concretezza ad un progetto che vuole essere una “utopia
possibile” – mi scuso per l‟ossimoro – e che sappiano portare il loro personale
contributo, grande o piccolo che sia.
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Capitolo 2
IL PANATHLON E LE SUE FINALITA’
“L‟ideale sarebbe avvicinarsi allo sport sin da bambini. A qualsiasi sport. Non
solo, ma l‟ideale sarebbe che l‟ambiente in cui si pratichi lo sport sia sano, trasmetta
valori, faccia divertire e sentire importante un bambino, lo stimoli fisicamente ma
soprattutto sentimentalmente. Perché solo così si affezionerà a quello sport, ai suoi
princìpi e diventerà, inconsapevolmente, un panathleta.
Far avvicinare un bambino ad uno sport è facile: si emozionano e si
appassionano in fretta. Non serve imporre attività, ma aiutarli a scegliere anche
secondo le preferenze dei genitori. Purché però poi il ragazzino si diverta e possa, nel
corso della propria vita, solidificare in sé le emozioni che praticare quello sport gli
provoca in modo da avere sempre il retrogusto del bello, del giusto, dello sport. Sarà
un panathleta acquisito”.
2.1 Il momento storico
Con la fine degli anni Quaranta la società italiana vive uno dei momenti più
importanti della sua storia. Un conflitto mondiale (che l‟aveva vista oltre tutto
soccombere militarmente e politicamente), seguito a vent‟anni di regime dittatoriale,
con tutte le incidenze sul piano politico, economico e culturale, aveva creato effetti
crudeli e sconvolgenti.
Conclusi i primi faticosi anni della ricostruzione materiale del riassetto politico
e civile, negli anni Cinquanta, si assiste all‟inizio della ripresa, nella coscienza
sempre più avvertita di nuovi e complessi problemi di sviluppo, che impongono
nuove istanze e concezioni di vita, proposte di nuovi valori.
Un aspetto apparentemente marginale, ma che testimonia, invece, la spinta di
una vasta richiesta popolare (e che assume poi una particolare importanza per la
nostra storia) è quello del associazionismo, strettamente connesso alle necessità di
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“comunicare” e conseguenza diretta dei nuovi stimoli che fermentano la società
italiana (e non solo italiana). È un lento processo di cui, forse, in quel momento non
ci si avvede, anche se i fenomeni che si succedono con frequenza incredibile sono i
segni premonitori del profondo cambiamento che sta maturando. Il fenomeno, già da
lungo tempo avviato, della progressiva scomparsa della millenaria civiltà
agropastorale, aggredita dal prorompente sviluppo industriale e capitalistico,
manifesta in Italia i suoi aspetti più clamorosi, di cuoi l‟esodo dalle campagne è, se
non il più importante, certo il segnale più vistoso di un mondo che sta cambiando e
che vuole cambiare.
Lo sport, che non vive in una sua utopica arcadia, ma che è fenomeno sempre
più importante dello sviluppo sociale e culturale, non può non risentire di una così
incisiva evoluzione e in esso, infatti, è dato constatare, proprio a partire da quegli
anni, un processo di profonde mutazioni ideologiche. Cade, come è ovvio, la
concezione dello sport come espressione di regime e inizia a maturare una cultura
dello sport all‟interno di una diversa e più complessa visione (sotto il profilo
intellettuale, morale, ma anche fisiologico) della vita. Si intuisce il cambiamento che
si sta verificando e, dopo avere vissuto momenti confusi e difficili, si vuol contribuire
a riportare ordine, per dare allo sport la sua vera identità. Quella, cioè, di riscoprire la
sua funzione fondamentale di educazione e di formazione civile e culturale,
nell‟ambito di quei valori antichi e preziosi che de Coubertin aveva riproposto al
mondo intero con le Olimpiadi dell‟era moderna; ma con l‟avvertita coscienza che il
paesaggio sociale è profondamente mutato e che c‟è bisogno non di un nostalgico,
quanto sterile, conservatorismo, ma di una visione duttile e disincantata dei problemi.
Proprio per poter fare argine con nuovi strumenti e nuove idee agli inevitabili assalti
che l‟impetuoso sviluppo economico finirà per portare, con tutti gli evidenti rischi di
inquinamento della qualità primaria e ideale dell‟attività sportiva.
In questa luce la nascita del Panathlon perde la sua natura – che pure ha, come
tutte le cose che nascono su questa terra – di casualità, di battesimo convivale, per
diventare uno dei segnali quasi indispensabili (un qualcosa, cioè, che in qualche
32
modo doveva nascere) della vitalità dell‟ideale sportivo e, insieme, della necessità
della sua salvaguardia.
Non è, quindi, per caso che proprio a Venezia, città a struttura d‟uomo e
regione dove il senso dell‟associazionismo, ha una forte tradizione, forse più che in
molte altre parti dell‟Italia, si pensi di costituire un‟associazione di sportivi in grado
di proporsi qual,e principale interprete dei nuovi sentimenti e di una rinnovata
coscienza, per trasferire il tutto in un programma promozionale da offrire alla società
in genere, e non solo a quella degli sportivi.
Non estranei, anzi, per certi aspetti decisivi, alla maturazione di questa idea
sono gli impulsi che provengono dai paesi anglosassoni materializzatisi nei vari club
– service – Rotary e Lion in testa – che pongono le loro forze economiche e culturali
al servizio della società, o che, almeno, da tale finalità prendono la loro ragione
primaria di esistenza. La fortuna che i vari Rotary e Lion ottengono in certi strati
della società borghese (pare inutile nascondersi che la loro natura non è certo di
matrice popolare: l‟associazionismo popolare ha dato e darà vita ad altre e, senza
dubbio, non meno importanti forme organizzative) dichiara questo bisogno diffuso di
associazionismo libero e rappresenta la reazione naturale a venti e più anni di
sentimenti repressi, di frustrazioni psicologiche, di ideali banditi e mortificati, che il
nuovo corso deve cercare di sanare, offrendo nuova fiducia e nuove speranze e
proponendo l‟occasione di riempire i vuoti creatisi nel dopoguerra, che non possono
essere colati unicamente da organizzazioni politiche o parapolitiche.
Il Panathlon nasce ispirandosi direttamente al tipo dell‟associazionismo di
stampo anglosassone di cui si è detto, anche perché alcuni dei suoi fondatori sono
membri attivi di tali associazioni e ad esse, al loro tipo di organizzazione, fanno
esplicito riferimento nell‟ideare e nel dare il primo avvio alla nuova istituzione.
Fu nel periodo compreso fra l‟aprile e di giugno 1951 che un gruppo di
veneziani si riunì, a più riprese, nella sede del Comitato Olimpico Nazionale Italiano,
a Venezia, con l‟idea di costituire un‟associazione ispirata ideologicamente ai valori
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olimpici, che avesse lo scopo di richiamare continuamente l‟idea e la pratica sportiva
alla purezza delle sue origini, pur negli indispensabili sviluppi e nei mutamenti che la
realtà storica e sociale comporta. Lo sport, quindi, visto essenzialmente come
strumento determinante per la formazione materiale, morale e spirituale
dell‟individuo e come mezzo di fratellanza e di relazione fra i popoli. Saranno, infatti,
questi concetti di chiara ascendenza decoubertiniana, che ispireranno la costituzione
del futuro Statuto dell‟associazione.
2.2 I “padri fondatori”
Entrando nella rievocazione storica (l‟aggettivo può già essere legittimamente
adoperato nella prospettiva di quarant‟anni di esistenza e di attività) ecco i nomi dei
componenti il Comitato promotore della nascente associazione: Guido Brandolini
D‟Adda, Domenico Chiesa, Aristide Coin, Aldo Colussi, Antenore Marini,
Costantino Masotti, Mario Viali. Ultimo in ordine alfabetico, ma indubbiamente
primo come ideatore, come tenace sostenitore del progetto, come promotore
instancabile, è il colonnello Mario Viali, ex ufficiale di artiglieria, che contrava allora
cinquatott‟anni, essendo nato a Venezia il 14 gennaio 1893.
La sua è la biografia di un militare, di un ufficiale che si è distinto
giovanissimo nella Prima Guerra Mondiale, alla quale egli partecipa inizialmente al
comando di una batteria con il grado di sottotenente. Prende parte alle dodici
battaglie dell‟Isonzo, ricevendo tre promozioni sul campo per merito di guerra, una
medaglia d‟argento al valor militare e una al valor civile, per il salvataggio dal fiume
Isonzo di alcuni soldati che stavano per annegare. In occasione di una missione
speciale nella colonia eritrea, si guadagna la croce al merito di guerra, per il generoso
comportamento nelle operazioni di salvataggio dei feriti, in una nave silurata da un
sottomarino tedesco, al largo di Alessandria d‟Egitto. Al temine del conflitto,
raggiunto il grado di colonnello, è costretto al congedo per una malattia contratta in
guerra. Nel 1942, durante il secondo conflitto mondiale, si offre volontario, come
soldato semplice, per la campagna di Africa Settentrionale, ma la domanda viene
respinta per l‟aggravarsi delle sue condizioni di salute.
34
Una figura militare che diventa, però, anche un esempio di coraggio, di
abnegazione, di quelle doti di generosità, di ardimento, di entusiasmo, di ferma
volontà e di altruismo che spesso si accompagnano a una professione che fa del
rischio e della determinatezza, oltre che del senso del dovere, le sue costanti. Una
traccia, un segno di queste sue qualità egli le lascia nella fondazione e nella
conduzione iniziale del sodalizio, poi diventato Panathlon, da lui e dagli altri amici
tenacemente voluto.
Perché grande era anche la sua passione per lo sport. Varia, infatti, fu la
gamma delle discipline sportive da lui praticate e numerose le affermazioni
conseguite, principalmente nel nuoto, nella ginnastica, nel tiro a segno. Una
testimonianza circostanziata la si ritrova nella scheda degli archivi del Comitato
Nazionale Olimpico Italiano, che traccia il suo curriculum sportivo, come atleta e
come dirigente, redatta quando gli venne attribuita la Stella d‟oro al merito sportivo
dello stesso Comitato Nazionale Olimpico Italiano (appendice 1).
La sensibilità e l‟esperienza di Mario Viali maturate da protagonista e da
spettatore attento e interessato alle vicende storico – politiche dell‟Italia, si
concentrano in un pensiero fisso: porre a disposizione della sua idea associazionistica
tutti gli insegnamenti acquisiti in un arco di tempo colmo di avvenimenti e culminati
in due conflitti mondiali: trarre da queste riflessioni e da queste analisi tutti gli aspetti
positivi,
aggiungendo
le
personali
convinzioni
acquisite
nell‟appartenenza
all‟organizzazione rotoriana, nella quale Viali ritiene di individuare momenti ed
aspetti importanti di aggregazione e socializzazione. Da ciò, insieme alla passione per
lo sport, matura la sua idea: un club finalizzato a scopi sportivo – culturali, ispirato
ideologicamente ai principi decoubertiniani e sul piano organizzativo al modello
rotariano. Per curare questo secondo aspetto, che il suo pragmatismo riteneva molto
importante (non si può più pensare di costruire alcunché se prima non si pongono le
fondamenta su cui poter lavorare), Viali chiama accanto a sé colui che diverrà il suo
più stretto e fedele collaboratore e che si rivelerà determinante per l‟affermazione e lo
sviluppo del futuro Panathlon: il professor Domenico Chiesa. Affermato
35
professionista veneziano, a quel tempo consigliere della Federazione Italiana giuoco
Calcio e consigliere – segretario del Rotary Club di Venezia, Chiesa viene incaricato
di redigere una prima bozza di statuto della costituenda associazione, sulla falsariga
dello statuto rotariano.
L‟influenza che il Rotary esercitò sul costituendo club fu indubbiamente
grande,
come
testimonia
il
fatto
che
alla
denominazione
“Panathlon”,
successivamente coniata dal conte Lodovico Foscari, venne inizialmente aggiunto il
sottotitolo “Rotary degli Sportivi”. Questo, nell‟intento di dare un‟immagine più
immediata e diretta delle caratteristiche e delle finalità del nuovo club 1. Tale
riferimento, diretto e vistoso, destò qualche perplessità. In primo luogo, perché il club
perdeva di personalità nel momento più delicato, quello iniziale, in cui avrebbe
dovuto affermarsi immediatamente come organismo unico e autonomo e,
secondariamente, perché ci si potevano attendere reazioni da parte dello stesso
Rotary, sull‟esclusività del proprio nome.
Quattro anni dopo questa dizione impropria venne eliminata e fu lo stesso
Chiesa a farsene promotore.
Se il Rotary offriva i suoi modelli organizzativi e di servizio, era però
l‟ideologia decoubertiana a segnare progetti e ideali. Sono quindici anni che de
Coubertin è morto, ma le sue idee e i suoi insegnamenti rimangono il punto di
riferimento di ogni politica sportiva.
Mario Viali aveva conosciuto personalmente de Coubertin in un consesso
sportivo e ne era rimasto profondamente impressionato, aderendo con piena
convinzione ai suoi principi pedagogici e alla sua concezione dello sport.
La sua adesione si riferiva soprattutto al significato etico, morale e sociale che
de Coubertin aveva dato al ripristino dei Giochi Olimpici, anche con l‟intenzione di
sottrarre lo sport al privilegio degli aristocratici per aprilo a tutti, quale strumento che,
con molta probabilità, a quel lirico e, persino, epico entusiasmo di cui una
testimonianza è nella famosa “Ode allo sport”, che de Coubertin compose per le
36
Olimpiadi di Stoccolma del 1912, le ultime prima dell‟interruzione bellica2. Ma
l‟adesione di Viali si riferiva soprattutto alla ferma convinzione di de Coubertin – che
ha indubbio valore di anticipazione e di percorri mento - che lo sport si muova con i
tempi e debba anzi persino aiutare a intuire i mutamenti sociali e a preparare gli
strumenti necessari per affrontare i problemi che essi comportano3.
Con questa complessità di sentimenti e di emozioni, Mario Viali si appresta a
fondare la sua organizzazione sportiva, che doveva essere portatrice di idealità,
spiritualità, pensiero, amore per lo sport, amore per la vita, riflessione e
l‟insegnamento rivolto ai più giovani. Il club veneziano, infatti, avrebbe dovuto
rivolgersi soprattutto ai giovani, ai quali doveva essere trasmesso un messaggio di
speranza e, insieme, di incitamento ad avvicinarsi allo sport quale mezzo risolutore
dei problemi sociali ed esistenziali che il dopoguerra stava producendo o che almeno
sapesse offrire appoggio ed orientamento per soluzioni individuale e collettive.
Viali credeva fermamente nella forza che si sarebbe sprigionata da questa
nuova organizzazione, quale movimento di opinione, e il suo merito primario fu
quello di non lasciarsi scoraggiare da dubbi, incertezze e diffidenze, che
inevitabilmente affiorano, ma di insistere nei suoi decisivi proponimenti.
Tre anni prima, nel 1948, erano riprese le Olimpiadi, dopo dodici anni di
interruzione per gli eventi bellici. Anche se organizzate a Londra, nel segno della più
severa austerità il ritrovamento dei valori olimpici aveva dato all‟Europa, che
maggiormente aveva sofferto a causa del conflitto, nuovi stimoli e nuove speranze.
Le grandi imprese della statunitense Fanny Blankers Koen, del cecoslovacco
Zatopek, dell‟italiano Consolini, avevano riacceso gli entusiasmi dei grandi confronti
agonistici, esaltando contemporaneamente la ritrovata spiritualità olimpica e fugando
gli ultimi dubbi sulla forza di solidarietà dei Giochi Olimpici. La vita continuava e lo
sport si riaffermava come una componente delle società libere e civili.
37
1
Nell‟atto redatto in data 27 marzo 1952 dal notaio Giovanni Bissoni, che sancisce la costituzione del Panathlon di
Brescia, il riferimento al Rotary ha un peso preminente. Si parla, infatti, di “finalità che possano perseguirsi più
facilmente attraverso un‟associazione tra i cultori di tutti gli sport, sulla falsariga del Rotary internazionale”; si dichiara
quindi di costituire il Panathlon Club di Brescia. “Rotary degli Sportivi”, associazione libera e civile…”; e
l‟intitolazione dell‟atto mette addirittura in sottordine il nome specifico per dare rilievo a quello generico rotariano.
Essa, infatti, recita: “Costituzione del Rotary degli Sportivi denominato Panathlon Club di Brescia”
2
In quell‟occasione ci furono accuse contro de Coubertin per avere egli vinto con quell‟Ode il premio delle arti,
introdotto per la prima volta nelle Olimpiadi. La sua partecipazione alla gara era avvenuta sotto lo pseudonimo di
Hohrod Eschbach, nome tipicamente nordico, e non vi sono motivi, conoscendo l‟uomo, di pensare che si trattasse di
una mascheratura voluta.Tali concorsi d‟arte (architettura, letteratura, musica, pittura, scultura) rimasero nel calendario
olimpico fino alle Olimpiadi di Londra del 1948, ma la scarsa partecipazione e la qualità delle opere indussero ad
abolirle, sostituendole con iniziative collaterali di mostre, ecc. Il Panathlon, nella sua Assemblea del maggio 1986, a
Trieste, riprenderà l‟argomento riproponendo il ripristino dei concorsi d‟arte, sia pure con i mutamenti ovvii che la
situazione esige. È, infatti, convinzione del Panathlon che nella festa mondiale della fratellanza sportiva non debba
essere accantonata la componente culturale e creativa.
3
Tra i numerosissimi documenti significativi si ricordano la dichiarazione del 1900 sul concetto di “Sport per tutti”
ancora attuale dopo quasi novant‟anni, concetto ripreso quasi integralmente dall‟attuale Presidente del Comitato
Internazionale Olimpico J.A. Samaranch, in occasione dell‟apertura del congresso di Francoforte del 1986 e fatto
proprio dal Consiglio d‟Europa; l‟organizzazione curata personalmente dallo stesso de Coubertin di un congresso del
1913 sul tema “Psicologia e Sport” e una sua dichiarazione del 1925 con la quale de Coubertin stesso riconosce ed
accetta il processo di trasformazione che sta subendo lo sport con l‟evidente tramonto del dilettantismo. E a questo
proposito ancora, nel 1936, scriveva parole che conviene meditare e che fanno contrasto con l‟immagine edulcorata e
quasi arcadica che ingiustamente ha finito per ricoprire il suo pensiero: “Ah! Che vecchia e stupida storia quella del
dilettantismo olimpico! Ma leggetelo quel famoso giuramento di cui sono l’autore fortunato e fiero, dove potete leggere
che esiga dagli atleti discesi sullo stadio olimpico un dilettantismo assoluto che sono io il primo a riconoscere come
impossibile? Io non chiedo, con quel giuramento, che una cosa sola: la lealtà sportiva che non è appannaggio esclusivo
dei dilettanti. È lo spirito che m’interessa e non il rispetto di questa ridicola concezione inglese che permette ai soli
milionari di far sacrifici allo sport… Questo tipo di dilettantismo non sono io che l’ho voluto, sono le Federazioni
Internazionali che l’hanno imposto. Non è, dunque, più un problema olimpico”. La “lealtà sportiva”, lo “spirito”: quale
altra istituzione sarebbe in grado di vigilare queste fondamentali istanze meglio del Panathlon?
38
2.3 Così nasce il Panathlon
Dopo una serie di consultazioni, di riflessioni, di ripensamenti e di contatti con
le persone che Viali voleva con sè, si era giunti alla fine del maggio 1951.
Il 30 maggio il gruppo promotore inviava una lettera a trenta sportivi
veneziani, appartenenti ad altrettante discipline sportive, invitandoli ad una riunione
per “mercoledì 6 giugno alle ore 21,30 precise, a S. Fantin della Veste n. 2004 (sede
del CONI)”, di cui Viali era delegato, per informarli sulle caratteristiche e sugli scopi
del costituendo club, allegando la bozza di statuto elaborata da Domenico Chiesa
(Appendice 2).
La riunione si risolveva in un imprevedibile fallimento poiché quella sera un
violento nubifragio sconvolse Venezia.
Solo “nove coraggiosi”, come li definì Viali, erano presenti e dopo “quattro
simpatiche chiacchiere”, la riunione veniva aggiornata a martedì 12 giugno 1951 e la
data rimarrà storica quale nascita del Panathlon.
Ventiquattro dei trenta convocati parteciparono all‟evento: Salvatore Brugliera
(atletica leggera), Tiziano Calore (tennis), Angelo Cecchinato (ginnastica), Domenico
Chiesa (calcio), Aristide Coin (ciclismo), Aldo Colussi (atletica leggera), Pietro De
Marzi (tecnico impianti sportivi), Guido De Poli (atletica leggera), Egidio De Zottis
(vela), Carlo Donadoni (pallacanestro), Ludovico Foscari (nuoto), Paolo Foscari
(motociclismo), Gugliemo Guglielmi (vela), Alberto Heinz (ginnastica), antenore
Marini (golf), Costantino Masotti (scherma), Luigi Pavanello (arbitri), Orazio
Pettinelli (pesca sportiva), Gino Ravà (sport invernali), Antonio Scalabrin (nuoto),
Alfonso Vandelli (alpinismo), Mario Viali (pentathlon moderno), Mario Zanotti
(scherma). Sono i ventiquattro fondatori di quello che oggi è il Panathlon
International. Ventiquattro “padri” di un‟idea che sta percorrendo il mondo.
Il 12 giugno 1951, quindi, alle nove e mezzo di sera, nella sede del Comitato
Olimpico Nazionale Italiano di Venezia il sogno di Viali si era avverato. Soltanto che
il neonato club ancora non sapeva che avrebbe ricevuto un nome sontuoso, pieno di
39
memorie classiche; per ora la sua denominazione (non ufficiale) rifletteva la nascita
convivale: “Disnar Sport”. (“Disnar” stava per desinare, cenare, in veneziano).
Il club terrà la sua prima riunione la sera del 6 luglio 1951, all‟Hotel Luna, a
San Marco, il locale scelto dallo stesso Viali per offrire, sul modello rotariano, il
primo tocco di distinzione e di prestigio. Furono assegnate le cariche sociali e,
naturalmente, toccò a Viali la presidenza, per acclamazione. Tema in discussione
della serata: “Problemi sportivi della provincia, in discussione della serata: “Problemi
sportivi della provincia, specie per quanto riguarda gli impianti”. È il primo
argomento di carattere sportivo trattato dal Panathlon.
Ma si era soltanto agli inizi. Una creatura per vivere deve crescere, svilupparsi.
È il momento della prima espansione, dell‟incipiente proselitismo. L‟intendimento di
Viali era stato chiaro e perentorio: “Un club subito a Venezia, fra qualche giorno nel
Veneto, o meglio nelle Tre Venezie, poi (prestissimo) in tutta Italia e,
successivamente, dopo un breve periodo di esperimento, in Europa e nel mondo”. Si
doveva, quindi, fare presto per rispettare il suo obiettivo.
Ci si avvalse esclusivamente delle amicizie personali dei soci promotori e dei
fondatori per propagandare l‟idea e promuovere le iniziative per la costituzione dei
clubs nelle altre città italiane. In particolar modo Domenico Chiesa mise a profitto le
relazioni che egli intratteneva con i componenti il Consiglio della Federazione
Italiana Gioco Calcio, di cui faceva parte, ed ottenne un grande successo con la
costituzione dei club di Brescia, con l‟appoggio dell‟ing. Zanchi di Vicenza (tramite
l‟industriale Beretta), di Milano (avv. Marchesini), di Napoli (ing. Cavalli), di
Firenze (comm. Beretti e on. Paganelli), di Genova (dott. Bertoni) e di Palermo (cav.
Siino, anch‟egli consigliere della Federazione Italiana Gioco Calcio).
L‟idea si allargava a macchia d‟olio. Il cammino era iniziato sotto i migliori
auspici.
Dopo appena due anni erano stati costituiti sette clubs: Venezia, Brescia,
Genova, Milano, Napoli, Sondrio, Vicenza; e con questi sette clubs si attuò la prima
40
fase del programma di Viali: la costituzione del Panathlon italiano avvenuta, a
Milano il 21 novembre 1953. Domenico Chiesa racconterà poi che la scelta di sette
clubs per la costituzione del Panathlon Italiano non fu casuale, ma voluta,
considerando il 7 il numero sacro, il che poteva rappresentare un motivo di buon
auspicio.
Per la particolare opera di un altro personaggio di grande rilievo, Aldo
Mairano, il Panathlon diverrà internazionale il 14 maggio 1960, con una fastosa
cerimonia nell‟Aula fosco liana dell‟Università di Pavia, sono trascorsi appena nove
anni ed il programma di Viali è stato interamente realizzato.
Vedremo come dai nascenti clubs sarà accolta ed elaborata l‟idea di Viali,
come intensa e qualificata sarà la loro attività e come gli stessi riusciranno ad imporsi
nei loro territori, nei confronti della comunità sportiva e delle istituzioni, assumendo
un ruolo preminente nelle iniziative concernenti la politica sportiva e divenendo un
punto di riferimento per le decisioni che al riguardo verranno adottate.
Assisteremo all‟entusiasmo che l‟idealità panathletica susciterà negli ambienti
sportivi e come molti dei futuri panathleti assumeranno impegni di vasta portata per
l‟affermazioni di tale idealità con sacrifici personali, offrendo al Panathlon il meglio
delle loro risorse culturali.
2.4 Le finalità
Le finalità del Panathlon5 sono l‟affermazione dell‟ideale sportivo e dei sui
valori morali e culturali, quali strumento di formazione ed elevazione della persona e
di solidarietà tra gli uomini ed i popoli.
a) Favorisce l‟amicizia fra tutti i Panathleti e quanti operino nella vita
sportiva;
5
Il cui motto è “Ludis Iungit”, ovvero: “lo sport unisce”.
41
b) Agisce, con azioni sistematiche e continue, ai vari livelli di competenza
dei suoi Organi, per la diffusione della concezione dello sport ispirato al
fair-play, quale elemento della cultura degli uomini e dei popoli;
c) Promuove studi e ricerche sui problemi dello sport e dei suoi problemi
con la società, divulgandoli nell‟opinione pubblica in collaborazione con
la scuola, l‟università ed altre istituzioni culturali;
d) Attua forme concrete di partecipazione, intervenendo nei procedimenti di
proposta, consultazione e programmazione nel campo dello sport con
modalità previste dai singoli ordinamenti nazionali, regionali e comunali;
e) Si adopera affinché una sana educazione sportiva venga garantita ad
ognuno senza distinzione di etnia, di sesso e di età, soprattutto attraverso
la promozione di attività giovanile e scolastica, culturale e sportiva;
f) Instaura rapporti permanenti con le Istituzioni Pubbliche locali e con i
responsabili dello sport assicurando contributi propositivi alle iniziative
anche amministrative e un concreto impegno nella fase organizzativa ed
operativa;
g) Quale Club di servizio si impegna ad incentivare ed a sostenere le attività
a favore di chi ha meno opportunità, attraverso l‟affermazione dell‟ideale
decoubertiano;
h) Attua
ogni
iniziativa idonea al raggiungimento delle finalità
istituzionali.
42
Graz, firma dichiarazione P.I.
Il Cio ha riconosciuto ufficialmente il Panathlon International quale
organizzazione sportiva con particolari scopi morali e sociali. Attualmente esso è
presente in 28 Paesi e rappresentato da 292 Club. Presidente del Panathlon
International d‟Italia è l‟ex campione del mondo di ciclismo Vittorio Adorni.
Il Panathlon ha una struttura piramidale. Il Distretto Italia è formato, ad oggi,
da 13 aree con ben 8.447 soci su 11.249. Il vertice d‟area è costituito dal governatore,
eletto dai presidenti dei club, che resta in carica per un quadriennio olimpico, e dal
direttivo, i cui membri sono nominati a discrezione del governatore.
L‟Area 1 Triveneto è l‟area storica per eccellenza, perché il Panathlon fu
fondato a Venezia il 12 Giugno 1951. Era costituita da 34 club, di questi 23 sono nel
Veneto; 4 in Alto Adige e 7 in Friuli Venezia Giulia. I soci sono di quest‟area sono
quasi 1.500.
L‟Area è quindi la più importante del Distretto Italia come numero di club e di
soci, ed è seconda solo alla Svizzera. Con l‟avvenuto scorporo del Friuli Venezia
43
Giulia (Area 12), l‟Area è passata ad essere costituita dal Veneto, Trentino e Alto
Adige con 27 club, restando comunque l‟area con il maggior numero di Panathlon.
Nel mondo, invece, la divisione è in undici distretti (Argentina, Austria, Belgio,
Brasile, Francia, Italia, Messico, Russia, Svizzera e Uruguay), più un Multidistretto,
che accorpa i singoli club di un singolo Paese.
44
Capitolo 3
L’ETICA E I VALORI DELLO SPORT
Nella diffusione di questi due valori si incarnano le attività e i fini del
Panathlon. Una volontà di raggiungere una meta lontana, una missione di certo non
presuntuosa ma vissuta come tale: una sorta di “evangelizzazione” per diffondere i
valori dello sport soprattutto verso i giovani. “Il Panathlon ha un grandissimo ruolo
culturale: far comprendere il concetto di scuola e di sport, far comprendere i concetti
elementari, fondamentali dello sport. Un grande ruolo di educazione, di
“acculturazione”, perché, sia chiaro che se noi dovessimo rispondere negativamente
alla domanda: “lo sport attuale può essere etica, fair-play, competizione, concorrenza,
skolè?”, dovremmo dire che non c‟è più lo sport”.
Un tassello importante è stato inserito il 24 settembre 2004, a Grand, con la
“Dichiarazione sull‟etica sportiva giovanile”. Questa dichiarazione rappresenta l‟
impegno del Panathlon di stabilire chiare regole di comportamento nella ricerca di
valori positivi nello sport giovanile.
Promuoveremo i valori positivi nello sport giovanile con grande impegno e
presentando programmi adeguati.
• Considerate le esigenze dei giovani, nell‟allenamento e nelle competizioni
punteremo, in modo equilibrato, su quattro obiettivi: sviluppo delle competenze di
tipo motorio (tecnica e tattica); stile competitivo sicuro e sano; positivo concetto di se
stessi; buoni rapporti sociali.
• Crediamo che sforzarsi per eccellere e vincere, sperimentando il successo o il
piacere, il fallimento o la frustrazione, siano tutte le componenti dello sport
competitivo. Nelle loro performance daremo ai giovani l‟opportunità di coltivare ed
integrare tutto ciò (all‟interno della struttura, delle regole del gioco) e li aiuteremo a
gestire le loro emozioni.
45
• Presteremo attenzione alla guida e all‟educazione dei giovani, in accordo con
i modelli che valorizzano i principi etici in generale ed il fair play in particolare.
• Ci assicureremo che i giovani siano coinvolti nelle decisioni attinenti il loro
sport.
Continueremo ad impegnarci per eliminare nello sport giovanile ogni
forma di discriminazione.
Questo è coerente con il fondamentale principio etico di uguaglianza, che
richiede giustizia sociale ed uguale distribuzione delle risorse. I giovani diversamente
abili come quelli con minor predisposizione dovranno avere le stesse possibilità di
praticare lo sport e le stesse attenzioni di quelli maggiormente dotati, senza
discriminazione di sesso, razza, cultura.
Riconosciamo che lo sport possa anche produrre effetti negativi e che
misure preventive sono necessarie per proteggere i giovani.
• Aumenteremo con i nostri sforzi la loro salute psicologica e fisica al fine di
prevenire le devianze, il doping, l‟abuso e lo sfruttamento commerciale.
• Accertato che l‟importanza dell‟ambiente sociale ed il clima motivazionale
sono ancora sottostimati, adotteremo un codice di condotta con responsabilità
chiaramente definite per quanti operano nello sport giovanile: organizzazioni
governative, dirigenti, genitori, educatori, allenatori, manager, amministratori,
dottori, terapisti, dietologi, psicologi, grandi atleti, i giovani stessi.
• Raccomandiamo che siano seriamente considerate le persone, organizzate ai
diversi livelli, che possano controllare questo codice di condotta.
• Incoraggiamo l‟introduzione di coerenti sistemi di preparazione per allenatori
ed istruttori.
Siamo favorevoli all’aiuto degli sponsor e dei media, purché in acordo con
gli obiettivi dello sport giovanile.
46
• Accogliamo il finanziamento di organizzazioni e società solo quando questo
non contrasti con il processo pedagogico, i principi etici e gli obiettivi qui espressi.
• Crediamo che la funzione dei media non deve riflettere i problemi della
società, ma risultare stimolante, educativa e innovativa.
Formalmente sottoscriviamo la “carta dei diritti del ragazzo nello Sport”
adottata dal Panathlon che prevede per tutti il diritto di:
• praticare sport
• divertirsi e giocare
• vivere in un ambiente salutare
• essere trattati con dignità
• essere allenati ed educati da persone competenti
• ricevere un allenamento adatto alla loro età, ritmo e capacità individuali
• gareggiare con ragazzi dello stesso livello in una idonea competizione
• praticare lo sport in condizioni di sicurezza
• usufruire di un adeguato periodo di riposo
• avere la possibilità di diventare un campione, oppure di non esserlo.
47
La conferenza mondiale a Gand, in cui fu redatta la “Dichiarazione sull‟Etica sportiva”
3.1 Panathlon Club di Venezia, intervento del Professor Massimo Cacciari
alla Scuola Militare Navale “F. Morosini”: “Etica e Sport” (13 marzo 1999)
“Partirei dal rapporto Sport-Scuola, perché si tratta di termini praticamente
sinonimi. Sport significa un‟attività, appunto, che una persona fa per “sport”, non
costretto, che fa da dilettante nel senso letterale del termine: perché ne trae diletto. E‟
la cosa più bella del mondo lavorare per diletto. Lavorare da dilettanti, è la cosa più
straordinaria del mondo. Magari potessimo farlo tutta la vita!
Scuola è un termine sinonimo. Scuola, come chi di voi fa il classico saprà,
viene da un termine greco, che è skolè, che i latini traducevano con otium. Skolé
significa dedicarsi ad attività che non sono obbligate, otium, non nel senso di non fare
niente, ma nel senso di dedicarsi ad attività a cui non siamo costretti, da cui non
siamo “occupati”. Orribile termine “occupati”. Dà l‟idea che la nostra vita ad un certo
momento sia presa d‟assedio e “occupata” da truppe straniere. Molti sono “occupati”.
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Come la città, che viene assediata da dei barbari e viene occupata. Orribili termini.
Questo termine mette in evidenza quanto bello sia skolé, quanto bello sia otium,
un‟attività libera, non occupata. Questo è Scuola. Se la scuola diventa una
occupazione è meglio che rinunciate a frequentarla perché non vi servirà a niente. La
scuola serve quando voi la frequentate, quando voi discutete con i vostri insegnanti,
quando voi discutete divertendovi. Skolè, otium, sport. Allora qui è davvero la
quintessenza della nostra attività da uomini liberi. Quando non siamo occupati,
quando nessuno ci occupa, quando ci divertiamo in ciò che facciamo. Bisogna
sempre pensare di fare così. Permettete che vi dia questo consiglio. Negli ultimi anni
non ci sono riuscito e me ne dolgo profondamente. Dovete sempre cercare di fare ciò
che vi diverte, mai essere occupati, perché quando si è occupati non si è liberi. Quindi
skolè, otium - che non è il non far niente, è il colmo dell‟attività - è l‟attività di
uomini liberi. E‟ “l‟attività” che vi devono insegnare nella scuola: a saper essere
skolé. Questo bisogna insegnare nella scuola. Questo vi devono insegnare i vostri
insegnanti, se no tradiscono la loro missione e il loro compito. Quindi devono
insegnare a fare sport.
Assolutamente sono due termini di dimensioni analoghe: Sport, Scuola. Perciò
è assolutamente sbagliato il nostro corso di studi nell‟attività “infrascolastica”. Perché
ritiene lo sport qualche cosa di assolutamente accessorio e secondario rispetto alla
scuola e ritiene, perciò, del tutto erroneamente la scuola una occupazione seria.
Qualcosa in cui è vietato divertirsi. E allora lo sport è relegato ai margini. Non si fa
sport perché non si fa scuola. Nessuno vi fa scuola, perché se si capisse il significato
della scuola, automaticamente al centro dell‟attività scolastica ci sarebbe lo sport.
Se la scuola capisse questo concetto, lo sport dovrebbe esistere in un rapporto
del tutto armonioso alla scuola, nel vero senso che quel termine significa e che
comporta la possibilità di discutere liberamente, da uomini liberi, non occupati.
Dovete sforzarvi di farlo capire ai vostri insegnanti. In questo senso i ragazzi devono
avere un ruolo di discenti e docenti, nei confronti dei loro insegnanti.
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Sport, otium, scuola. Attenzione!: nulla di idealistico, nulla di “abbracciamoci
tutti”, paradiso perduto, Eden. Lo sport, e la scuola, sono competizione, sono
concorrenza. E‟ bella la scuola, è bello lo sport, quando io mi confronto con un altro,
quando io m‟impegno per emergere, in una gara libera, che ho liberamente scelto, a
cui nessuno mi ha costretto, in cui mi diverto, ma mi diverto perché mi confronto, mi
diverto perché competo. Cosa vuol dire “concorrenza”?, cosa vuol dire
“competizione”?, che è certamente la quintessenza dello sport insieme al divertirsi.
Non c‟è sport se non c‟è divertimento, come non c‟è scuola. Ma è divertimento che è
tale perché è anche concorrenza, competizione. Quando si gioca è bello giocare se c‟è
un, se volete, avversario, su cui devo emergere. Questo è il significato dello sport e
della scuola, fin dalla sua origine.
Ma cosa vuol dire competizione? Concorrere, competere, tendere insieme ad
uno stesso fine. Questo vuol dire competizione. Competizione non ha niente a che
vedere con quello che intendono certi apologeti nei messaggi, che adesso vanno tanto
di moda, che parlano senza sapere quello che dicono. Competizione vuol dire tendere
(petere), (cum) insieme ad un fine: correre insieme per un fine e la gara consiste nel
tentare di correre più velocemente possibile per raggiungere prima quel fine comune.
Questa è la gara bella, questo è l‟agon bello. Tendere insieme ad un fine e sapere che
quel fine è comune e corrergli incontro il più rapidamente possibile. Per riconoscere,
quindi, chi è più bravo ad essere arrivato a quel fine, che è comune, correndo
assieme, tentando insieme di raggiungerlo il più rapidamente possibile. Questo è lo
sport, questa è la scuola: competizione, concorrenza, ma con questo significato, che è
l‟opposto di “violenza”. Perché dobbiamo parlare un po‟ anche di questo, perché la
violenza non è il correre insieme per raggiungere un fine. Violenza è: l‟avversario
che corre con me, il mio agonista è uno che devo sopprimere. Al fine voglio arrivare
“da solo”, non primo, “da solo”. E l‟avversario, dunque, è uno che devo tentare di
annullare. Questa è la differenza fondamentale tra una gara - o se volete una
competizione - violenta, che nega l‟idea, il concetto stesso di competizione e sport,
scuola, concorrenza e competizione bella. Questa è la differenza. Laddove nello
50
sport, ma anche nella scuola, subentra un meccanismo in base al quale io sento l‟altro
non come quello che compete e concorre con me, ma come quello che mi ostacola,
che mi è di ostacolo, che mi è nemico nel voler raggiungere quel fine,
necessariamente tenterò di annullarlo e commetterò violenza nei suoi confronti, per
impedire che concorra con me.
E‟ da qua tutta la violenza nello sport, dal fraintendimento radicale del
significato di sport, dal fraintendimento radicale del significato di competizione e
concorrenza.
La violenza non nasce dalla competizione e dalla concorrenza. Qui è
l‟equivoco di fondo. Nasce dal fraintendimento radicale del significato di
competizione e concorrenza, per cui il concorrente diventa il nemico, non quello che
mi è “necessario” per giocare. Che gioco è allora? Il paradosso della violenza
consiste nel fatto che si vorrebbe, alla fine, giocare da soli; annullare gli altri, con
pasticci, con trucchi, con quello che volete: truccare le carte per non giocare più
insieme. Nella competizione e nella concorrenza l‟altro, invece, mi è necessario
perché io quella gara la faccio, quella gara ha un senso soltanto se è “cum”, insieme
all‟altro. Concorrenza, competizione. Allora mai nello sport autentico io ricorrerò a
nessun mezzo per impedire all‟altro di concorrere, oppure per avvantaggiarmi
scorrettamente nella competizione, nella concorrenza, perché non mi divertirei più.
Quello è il punto: non sarebbe più un divertimento, perché il risultato di quella gara
verrebbe falsato. I veri giocatori non barano mai, perché non si divertirebbero più.
Sono gli “occupati” che tendono a barare, cioè quelli che intendono il gioco come una
occupazione. Sono gli “occupati” a barare, cioè quelli che prendono il gioco come
una occupazione, perché devono sbarcare il lunario affannosamente con quel gioco.
Ma quel gioco non diventa più un gioco. Diventa un “contrasto” violento, nel quale si
ricorre a tutti i mezzi per, come idea finale, annullare l‟altro, o renderlo impotente, o
comunque renderlo un “non concorrente”, per renderlo non competitivo con me. E
allora è violenza. Questo è il massimo ostacolo allo sport, fondamentale, perché se no
abbiamo dello sport un‟idea tutta sentimentale, tutta caramellosa, detestabile per me.
51
Come la scuola. Questa idea che nella scuola non bisogna valutare, non bisogna dare
voti, non qualificare, per carità!, tutti insieme, avanti. Caramelle, sentimenti. La
scuola, lo sport, devono essere competizione, devono essere concorrenza. Ma perché?
Perché sono un bellissimo gioco, in cui bisogna vedere chi è il più bravo, ma il più
bravo veramente, senza nessun trucco, senza nessuna confusione, di nessun genere,
con totale onestà. Ma perché questo? Perché il giocatore vero, questo gioco vuole
fare; lo sportivo vero così vuole compiere la sua gara. Lo sportivo vero si diverte
quando ha dei concorrenti, agguerriti come lui e alla pari di lui. Allora è bello
emergere, è bello essere i più bravi. Quando, appunto, tutto si è svolto con l‟assoluto come si suol dire - fair-play, cioè: play (gioco), il gioco è bello (“fair”). Questo vuol
dire. E‟ possibile questo? Da queste idee siamo ormai completamente lontani.
Voglio dire: lo sport attuale può ancora ospitare queste idee? Può ancora essere
skolè, competizione, concorrenza, fair-play, gioco onesto? Può esserlo? Oppure
determinate regole, determinati meccanismi economici gli impediscono di essere
così?
E‟ questo il grande ruolo di organizzazioni come la vostra. Io ritengo sia
questo, un grandissimo ruolo culturale. Un grandissimo ruolo culturale far
comprendere il concetto di scuola e di sport, far comprendere i concetti elementari,
fondamentali dello sport. Un grande ruolo di educazione, di “acculturazione”, perché,
sia chiaro che se noi dovessimo rispondere negativamente alla domanda: “lo sport
attuale può essere fair-play, competizione, concorrenza, skolè?”, dovremmo dire che
non c‟è più lo sport.
Il grande sport professionistico è “necessariamente” estraneo a queste idee? Io
non lo credo. Io non lo credo affatto. Se lo pensassimo, dovremmo chiudere baracca e
burattini, perché è evidente che, a meno di non essere dei nostalgici reazionari, è
evidente che già lo sport professionistico è “magna pars” delle attività sportive oggi,
anche per i dilettanti puri e semplici. Perché tanti movimenti possono nascere e
svilupparsi oggi ormai grazie anche alle grandi imprese professionistiche. Non c‟è
dubbio. Se non ci fossero i grandi risultati delle imprese professionistiche, da dove
52
arriverebbero tanti soldini anche per lo sport dilettantistico? E poi, che cosa spinge e
promuove il dilettante, soprattutto i giovani, allo sport meglio della grande impresa
professionistica? Saremmo degli illusi, saremmo dei parolai, saremmo dei moralisti
detestabili se pensassimo di atteggiarci in modo reazionario rispetto al grande sport
professionistico.
Ma io vi chiedo: il grande sport professionistico deve “necessariamente” essere
- lo dico in modo provocatorio, tra virgolette, dato quello che ho detto - “violento”?
Per quale motivo? Perché il grande professionista non può continuare ad essere
dilettante? Perché il grande professionista non può continuare ad essere colui che
ritiene “necessaria” la competizione e dunque la presenza dell‟altro, senza trucchi,
senza volontà di annullarlo, senza volontà di sopraffarlo? Perché? Io non vedo questa
necessità, francamente. Io vedo la necessità di una grande operazione di
acculturazione, di educazione, di informazione, che parta dai giovani, ma non vedo
assolutamente la necessità che le regole economiche, che certamente dominano lo
sport professionistico oggi, ai più alti livelli, non possano anche conciliarsi con i
discorsi che facevo. Certo, occorre controllo attento, occorre autocontrollo da parte
delle società e degli atleti, una più forte e incisiva azione di associazioni come questa,
per educare fin dall‟età più giovane a questo discorso sullo sport e sulla scuola.
Etica: di nuovo, se ci pensiamo un momentino, e mi avvio a concludere
rapidamente, siamo nella stessa dimensione, giochiamo con gli stessi termini. Etica è
una parola che indica un significato originario molto profondo, molto radicale, che
non ha niente a che fare con falsi moralismi. Non è un “predicozzo” l‟etica. Non sono
“predicozzi” i discorsi etici. Etica è una domanda che sentiamo, che ognuno di noi
dovrebbe rivolgersi e che, come vedrete, si lega perfettamente a quanto detto finora.
La domanda è questa: “Noi qui riuniti, facenti parte della stessa comunità, facenti
parte dello stesso paese, abbiamo una „fede‟ comune?, ci riconosciamo in una casa
comune?, oppure siamo tanti condomini?, ognuno dei quali appena arrivato nel suo
guscio, come avviene tra tutti i condomini, diventa chiaramente nemico di tutti gli
altri? Cioè abbiamo un ethos?, cioè una “fede”, nella quale tutti ci riconosciamo e che
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„non appartiene a nessuno di noi‟?, che non è proprietà né mia, né tua, né sua? Non è
una mia proprietà. E‟ qualcosa di „comune‟ e „comune‟ è opposto di „privato‟.
Abbiamo questo „comune‟ insieme, che non è di nessuno?, oppure riteniamo che
quando abbiamo gestito la nostra proprietà e abbiamo cercato di tutelarla e di
difenderla il più possibile, tutto è fatto?”
Se riteniamo che tutto si riduca nel gestire la nostra proprietà e difendere la
stessa, è ridicolo parlare di etica. Etica significa che, invece, noi riteniamo essenziale
una dimensione che non è di nessuno.
Ci riconosciamo tutti come la nostra comune coabitazione, come la nostra
comune casa, come la nostra comune fede, di cui nessuno è proprietario, ma che tutti
insieme dobbiamo acquisire, che tutti insieme dobbiamo curare, per la quale tutti
insieme dobbiamo anche, se necessario, sacrificarci, rinunciando in qualche caso
anche alla ferrea ed egoistica tutela della nostra proprietà? Se rispondiamo
positivamente a questa domanda e allora cerchiamo questa fede comune, ebbene,
questa è etica. Etica è ricerca. Ricerca comune di questa fede comune, proprietà di
nessuno. Questa è etica.
E dove vediamo meglio questa possibile etica se non nello sport, di nuovo, così
come ho cercato di spiegarlo? Vi sono i diversi atleti che competono, i diversi atleti
che hanno in proprietà le loro cose, le loro risorse, la loro volontà, ma formano un
qualcosa di comune, che non è proprietà di nessuno: la gara, la bellezza della gara. E
quando lo sport diventa veramente grande sport, quando alla televisione o dal vivo
vedete certe grandi gare ciclistiche e vedete quanto sia dura la competizione, la
concorrenza; quando si va su per quelle montagne, quanto è dura la sofferenza e la
co-sofferenza, proprio “cum-patire”, vedete anche però che c‟è qualcosa di più. Non
ci sono solo i singoli atleti, che soffrono, che competono, che concorrono. C‟è
qualcosa di molto di più. Si forma veramente, se voi vedete quegli atleti e ne avete
una visione d‟insieme, si forma veramente un ethos.
54
Si vede chiaramente che hanno qualcosa di comune, che non è proprietà di
nessuno di loro, che tutti partecipano alla gara, che non è di nessuno. Che non è di
nessuno. Ci sono momenti nello sport in cui questi discorsi sull‟ethos come ricerca,
come ricerca continua, non come elencazione di morti comandamenti, noiosi, che non
dicono più nulla: l‟etica detta in questi termini normativi è un‟etica che non parla più
a nessuno, che non parla più ai giovani, che annoia e basta. Giustamente. Ma l‟etica
come continua ricerca della dimensione comune, della gara comune, e tutti sentirsi
partecipi di questa gara, e tutti sentire l‟altro partecipe, (sentire) l‟altro concorrente
“necessario” per la conquista di questa cosa comune, che è la gara. Questo è etica.
Questa è etica. E di nuovo nei grandi momenti dello sport il significato viene fuori,
emerge, come viene fuori ed emerge quello di skolè e di scuola.
Io vorrei proprio che il Panathlon riuscisse a comunicare tutto questo, perché se
riuscisse a comunicare tutto questo, a partire dalla scuola, vedrete che non ci sarà
professionismo che tenga, non ci sarà business che tenga. Vi sarà il business, vi sarà
il professionismo, ed è bene che ci sia, ma ci sarà un professionismo ed un business
che esprimeranno questa etica”.
55
Capitolo 4
IL FAIR PLAY
4.1 Storia, significati e futuro del fair play nello sport e nella società
Lo sport moderno è nato in Gran Bretagna come prodotto culturale della
modernità che metteva l‟accento sull‟uguaglianza e la competizione. Il fair play era il
credo morale della nuova cultura sportiva, creato dalle classi alta e medio-alta
dell‟Inghilterra del 19° secolo. Gli sport moderni furono forgiati in Public School
d‟elite come Eton e Rugby, dove l‟autogoverno rappresentava una innovazione
pedagogica e “la sopravvivenza dei più forti” ipotizzata da Spencer era parte
dell‟ideologia. La tesi qui illustrata è che il fair play era promosso ai semplici fini
della sopravvivenza in giochi originariamente violenti, che furono gradualmente
standardizzati e codificati. Il nuovo credo sportivo fu diffuso dal romanzo “ Tom
Brown‟s schooldays” di Thomas Hughes, e Tom Brown con Thomas Arnold, preside
della Public School di Rugby divennero modelli di comportamento che hanno ispirato
un‟intera generazione, tra cui Pierre De Coubertin. Fair play era la parola d‟ordine del
gentiluomo dilettante e questo concetto si è trovato sotto pressione quando il rugby e
il calcio cominciarono a essere praticati dalle classi lavoratrici.
I difensori del dilettantismo consideravano i giocatori professionisti dei
guastafeste che non giocavano più per il piacere di giocare. Il problema attuale è se il
fair play sia ormai un anacronismo sopravvissuto al vecchio ideale del dilettantismo e
se lo scenario postmoderno dello sport professionistico – come aspetto legittimo dello
show business – debba o meno essere regolato da un codice di etica professionale.
Il fair play è un concetto compreso a livello mondiale, che ha la sua origine
nello sport. Non è solo un elemento fondamentale dello sport, ma è diventato anche
una filosofia più generale basata sul rispetto degli altri ed delle regole, sia in campo
sportivo sia negli affari o in altri settori competitivi. Pubblicazioni come Fair play in
sport: a moral norm di Sigmund Loland (2002) e la creazione di una serie di
56
comitati, trofei e premi legati ad esso, a livello nazionale e internazionale,
sottolineano il suo peso e la sua importanza per lo sport e la società. Questo lavoro
esamina le origini del concetto di fair play e lo collega alle origini dello sport
moderno in Gran Bretagna.
Le forme tradizionali dei giochi e delle attività ricreative nella Merry old
England, l‟Inghilterra preindustriale, spesso erano legate al calendario liturgico e alta
mente ritualizzate. Le norme erano molto diverse da un luogo all‟altro. Queste
competizioni fisiche tradizionali spesso avevano una natura caotica e violenta; si
contrapponevano giocatori provenienti da paesi e città vicini o da zone diverse della
città. Un esempio di tale tipologia di gioco violento sopravvissuto fino ai giorni nostri
è, ad esempio, l‟annuale incontro calcistico che si tiene negli ultimi tre giorni di
Carnevale ad Ashbourne nel Derbyshire. Molto recentemente Hugh Hornby ha
descritto in modo eccellente le quindi forme ancora esistenti del cosiddetto festival
football nel libro Uppies and downies: the extraordinary football games of Britain
(2008).
Al contrario, lo sport moderno è caratterizzato da un‟impostazione più
razionale ed ordinata. Che lo sport moderno fosse nato durante il 18° e 19° secolo sui
campi di gioco delle Public school1 era una opinione diffusa. Alcuni storici dello
sport stanno però contestando la tesi che il calcio e il rugby avrebbero avuto origine
esclusivamente nelle Public school (Inglis, 2008). Lo sport moderno può essere
definiti come:
“…le attività fisiche di natura ricreativa e agonistica, nelle quali un praticante cerca di vincere o i proprio limiti
fisici (il motto olimpico: citus, altius, fortius) o un ostacolo esterno (avversario/i, ostacolo naturale come una montagna,
ecc.) secondo un codice di comportamento predefinito (fair play, regolamento, ecc.)”.
Il fair play ha avuto origine in Gran Bretagna come esponente di questo ethos
sportivo; da qui è stato esportato nel continente europeo e in tutto il mondo.
La prima generazione di zeloti europei dello sport, come ad esempio Pierre de
Coubertin in Francia, era affascinata da questo nuovo modo di vivere sportivo
sviluppatosi in Gran Bretagna, che ritenevano una nuova forma di m oralità pratica.
57
Nel 1897, nella sua opera dal titolo ad effetto: A Quoi tient la supériorité des
anglo-saxons, Edmond demolins scriveva:
“Anche quando non lavora, l‟inglese ha bisogno di sforzo: o praticando canoa, giocando a cricket, a calcio;
affronterà una difficile e pericolosa scalata per il semplice motivo di avere superato una difficoltà”.
Un altro anglofilo, il tedesco Rudolf Kircher nel 1927 nel suo libro: Fair Play:
Sport Spiel un Geist in England affermava che non si può comprendere lo sport
moderno ed il suo spirito di fair play senza comprendere la società inglese nel suo
complesso:
“Lo sport è gioco, ma il concetto di “gioco” (play2) va molto al di là dell‟ambito dello sport… Lo spirito ludico
[Spieltrieb], anche tra gli inglesi, si esprime non solo in giochi (games) muscolari ma permea in modo profondo la vita
culturale dell‟intera vita della nazione… se si distrugge lo spirito ludico dell‟Inglese, si distrugge lo spirito della
nazione”.
Questo tema è stato ripreso sa Hans Indorf nella sua opera del 1938, Fair Play
und der englische Sportgeist. Di nuovo, il fair play era visto come una peculiarità
della società inglese.
4.2 Cosa c’è in una parola?
La parola fair deriva dall‟Inglese antico faeger, simile alla parola dell‟Alto
Tedesco Antico fagar, che significa bello. Play deriva dall‟Inglese Antico plega,
simile alla parola dell‟Inglese Antico plegian, che significa giocare. È equivalente
dell‟Alto Tedesco Antico pflegan e del Medio Olandese pleyen. Il verbo olandese
plegen, impegnarsi, e quello tedesco pflegen, esistono ancora, ma il sostantivo
olandese equivalente a play è spel, con il verbo spelen, legati ai tedeschi spiel e
spielen (Gillmeister, 1993).
Il termine game (gioco) risale al Medio Inglese e deriva dall‟Inglese Antico
gamen, simile al termine dell‟Alto Tedesco Antico gamen, che significa divertimento.
Il vecchio termine è sopravvissuto in backgammon, un gioco in cui i pezzi sono
talvolta costretti a muoversi all‟indietro. La parola game (selvaggina) può anche
indicare gli animali che vengono cacciati per sport o per procacciarsi cibo. Sarebbe
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interessanti guardare nelle parole chiave (keyword)3 il modo/i in cui questi due
significati di game si legano tra loro. Se consideriamo le Game Laws (Leggi
venatorie) inglesi, vediamo che si occupano dei diritti e dei controlli legali esistenti
relativi a una varietà di animali. Non vi è una definizione complessiva di game
(selvaggina): piuttosto, lo stesso termine è stato definito in un certo numero di Acts of
Parliament (leggi del Parlamento). Ad esempio, il Game Act del 1831 includeva
lepri, fagiani, pernici e galli cedroni. I cervi furono inclusi per l‟applicazione del
Game Licenses Act risalente al 1860, mentre lepri e conigli furono definiti ground
game (selvaggina minuta). D‟altro canto, non ci sono diritti di proprietà assoluti per
quanto riguarda gli animali selvatici (volpi, tassi linci, ecc.) (Collins, Martin,
Vamplew, 2005, 132). Se guardiamo le classiche enciclopedie sportive del periodo
della Belle Epoque, ad esempio The encyclopaedia of sports and games, curata
dall’Earl of Suffolck and Berkshire, pubblicata in quattro volumi nel 1911, troviamo
che per il 70 o l‟80% i lemmi riguardano tutti i tipi di animali che possono essere
cacciati, non solo in Europa ma in tutto il mondo. Perfino in uno “sport sanguinario”
come la caccia, però, si osservavano i principi del fair play e si distingueva tra fair
game (inseguimento, attacco legittimo, ecc.) e forbidden game.
4.3 L’evoluzione dello sport moderno
Gli storici dello sport come Manfred Lämmer, Ingomar Weiler, David Young e
molti altri hanno sfatato il mito per cui gli inventori del fair play sarebbero stati gli
antichi Greci. L‟archeologo e storico francese Paul Veyne (citato in Weiler 1991, 55)
dichiarava che giocare sulla base di un gruppo predefinito di regole (game) sembra
sia un‟invenzione anglosassone, mentre gli antichi Greci invece di cercare di
rispettare un gruppo di regole artificiali cercavano di imitare la realtà brutale della
guerra.
Anche i sociologi dello sport hanno cercato di sfatare il mito del fair play degli
“antichi maestri”. Gli sport dell‟antica Grecia si basavano su un ethos guerresco ed
erano incentrati su tradizioni legate all‟onore piuttosto che alla fairness”4 (Dunning
1971, 83).
59
“I pugili di Olimpia non erano classificati in base al peso e lo stesso succedeva
per i lottatori” (Elias 1971, 102).
È possibile trovare le tracce di un interesse morale nei confronti delle attività
ludiche e dei giochi già tra gli umanisti del periodo rinascimentale, come Erasmo e
Jiuan Luis Vives, già colleghi presso il famoso Collegium Trilingue di Lovanio. Lo
spagnolo Vives era profondamente colpito dalla violenza del suo tempo e
disapprovava, ad esempio, i giochi utilizzati per l‟addestramento militare. Nelle sue
“Sei leggi del gioco”, formulate nella sua opera dei 1538, Linguae Latinae
exercitatio, dichiarava (nella quinta legge) che:
“Nessun gioco dovrebbe servire a fomentare l‟ira o il conflitto tra i giocatori, ma durante tutto il gioco i giocatori
devono essere compagni, allegri, gioiosi e gai, né vi deve essere alcuna traccia di inganno, meschinità o avarizia”.
(citato in Renson 1976, 9)
Nella sua opera pioneristica Fair play: ethics in sport and education (1979, 201), Peter McIntosh rileva che un altro che riteneva che il football5 potesse avere fini
educativi e morali, era Richard Mulcaster, preside della Merchant Taylors’ School di
Londra dal 1560 al 1586.
Nel suo Homo ludens (1938, 12), il famoso studioso olandese Johan Huizinga
ha analizzato in modo critico l‟elemento ludico nello sport contemporaneo e le
origino dello stesso:
“sebbene si sia sempre fatto a chi corresse, remasse o nuotasse meglio o si tuffasse per più tempo… pure
queste forme di competizione assumono in grado ristretto il carattere di giochi organizzati… ci sono tuttavia altre
forme che si sviluppano da sé a giochi organizzati con un sistema di regole… che questo fenomeno ha preso inizio
nell‟Ottocento inglese si spiega fino ad un certo punto… certamente vi hanno collaborato le qualità particolari della
società inglese… l‟autonomia locale rafforzava lo spirito di unità interna e di solita reità. La mancanza dell‟esercizio
militare obbligatorio e generale… le forme della vita scolastica… infine la natura del terreno e del paesaggio…
devono avere avuto un‟enorme importanza… Così l‟Inghilterra divenne la culla ed il centro della moderna vita
sportiva”.
Dalle scommesse alla fairness: lo sport moderno come metafora di uguaglianza
Il sociologo Norbert Elias (1971, 101), padre della teoria della civilizzazione,
ha dimostrato che un maggiore accento verso il piacere prodotto da giochi competitivi
60
(game-contest) e, in particolare, la tensione-eccitazione creata da esse in una certa
misura erano legati al piacere dello scommettere. Affermava anche che le scommesse
avevano svolto un ruolo importante sia nella trasformazione in sport delle forme “più
rozze” dei game-contest sia nello sviluppo dell‟ethos della fairness in Inghilterra.
Peter McIntosh (1979, 2) ha giustamente affermato che la fairness è un‟idea e, forse,
anche un ideale, implicitamente o esplicitamente presente nei rapporti umani. Le
espressioni critica equanime, prezzo gusto, rispetto delle regole, commercio equo
indicano, comunque che la fairness non è solo limitata allo sport e al fair play.
Inoltre: “la fairness è legata alla giustizia e la giustizia è fondamentale… per la
sopravvivenza della specie umana”.
In un saggio molto orignale, Sport as a symbolic dialogue C. E. Ashworth ha
avanzato la tesi secondo cui se la vita può essere considerata un gioco nel quale le
identità vengono determinate, analizzate e forse perfino abbandonate, allora i giochi
possono essere considerati forme idealizzate della vita sociale. I giochi – attraverso le
proprie regole – determinano l‟identità con una certezza consensuale che non è
sempre possibile nella vita sociale. Pertanto, Ashworth (1971, 45) considerava lo
sport un dialogo simbolico: “L‟uomo moderno insiste sul concetto di “uguaglianza”
(equality) nello sport, ossia sulle rigide regole formali che rendono i fattori che vanno
al di là delle singole abilità uguali per tutti. Ecco perché si definisce uguale”.
L‟uguaglianza, o parità è anche la seconda delle sette caratteristiche
fondamentali dello sport moderno, individuate da Allen Gttmann nel so classico
From ritual to record. The nature of modern sport (1978). Le sette caratteristiche di
Guttmann
sono
il
secolarismo,
l‟uguaglianza,
la
specializzazione,
la
razionalizzazione, la burocrazia, la quantificazione e i record. Il principio di
uguaglianza implica che in teoria tutti dovrebbero avere l‟opportunità di competere e
che le condizioni in cui si compete dovrebbero essere le stesse per tutti i competitori.
Una parità di opportunità (che crea uguali opportunità all‟inizio della competizione)
non è solo un principio democratico, è anche un fattore necessario che contribuisce a
creare tensione relativamente all‟esito di un gioco, rendendo lo scommettere una cosa
61
interessante, sebbene imprevedibile. Questa cosiddetta parità di opportunità era
applicata, per assurdo, anche la caccia alla volpe. Elias (1986, 168) riteneva che senza
una tale organizzazione, basata su principi di correttezza, il piacere e l‟eccitazione
legate alla tensione della “lotta”, che era e rimane lo scopo principale della caccia alla
volpe, sarebbero troppo scarse. Nondimeno, questo “sport” ha generato discussioni
tra coloro che davano valore maggiore alla caccia stessa (concentrati sul processo) e
coloro che davano maggiore valore all‟uccisione della volpe (concentrati sul
processo), tra i sostenitori di un good sport e i sostenitori del gaining Victory. “ Non
si potrebbe avere un good sport senza una struttura che fosse in grado di mantenere
per un certo tempo un equilibrio moderatamente instabile di opportunità per gli
avversari…”
Sembra però che il principio di uguaglianza, una certa forma incipiente di
specializzazione e un certo controllo della violenza, fossero già stati introdotti nel
football prima del 18° secolo dell’Egalité, Fraternité et Liberté. Nel Francis
Willoughby’s book of game: a seventeenth century treatise on sport game and
pastimes, pubblicato nuovamente nel 2003, si può leggere (168):
“I giocatori sono equamente divisi a seconda della propria forza e della propria capacità… Di solito lasciano alcuni dei
migliori giocatori a guardia della porta mentre il resto segue la palla.
… Spesso si rompono le gambe a vicenda quando si scontrano e lottano per la palla, pertanto c‟è una legge che dice che
non devono colpire più in alto della palla”.
Anche il principio dell‟handicap in sport come l‟equitazione, il golf, e perfino
il tennis, è stato introdotto per garantire un equilibrio di opportunità ad atleti di
categorie diverse di peso o che presentano diversi livelli di abilità. Il termine non
deriva da hand in cape (mano nella cappa) o hand on cap (mano sul berretto), come
viene spesso detto, ma da hand in cap (mano nel berretto). In origine, hand in cap era
il nome di un gioco diffuso nel commercio, che vedeva la presenza di due
commercianti e di un giudice o sensale.
Un tipico esempio del 14° secolo potrebbe essere lo scambio di un mantello per
un cappuccio. Il sensale stabiliva la differenza di valore (boot oppure odds) tra i due
62
articoli da vendere. I due commercianti mettevano le mani in un berretto e le
estraevano contemporaneamente. Una mano aperta esprimeva l‟intenzione di fare lo
scambio e una mano chiusa esprimeva il rifiuto di fare lo scambio. Intorno al 1750, il
termine handicap ha iniziato ad essere usato per le corse ippiche (The Oxford English
Dictionary, 1989; Crowley Et Crowley 1999).
Allen Guttmann (2004, 98), che ha attentamente analizzato la natura dello sport
moderno, ha sottolineato che la modernità era evidente nella tendenza a creare
condizioni volte a garantire una parità di condizioni nelle competizioni, una tendenza
che fu portata all‟estremo in Francia dove in alcune gare di atletica leggera i
partecipanti venivano soggetti a handicap in base all‟età: i corridori più vecchi
partivano indietro rispetto alla linea di partenza, un metro per ogni sei mesi al di
sopra dei sedici anni. Come afferma Guttmann: “… questo esperimento
sull‟uguaglianza ora sembra bizzarro, ma gli handicap basati sul peso sono ancora
dati per scontati nelle corse ippiche”.
4.4 “Essere un buon animale”: lo sport moderno come metafora della
concorrenza
Nel 1860, il filosofo inglese Herbert Spencer (1820 – 1903) pubblicò una
piccola monografia, Education: intellectual, moral and physical nella quale si può
trovare questa citazione: “Le persone stanno iniziando a vedere che il primo requisito
per avere successo nella vita è “essere un buon animale”; ed essere una nazione di
buoni animali è la prima premessa per la prosperità nazionale”.
Mentre Ashworth (1971) vedeva lo sport moderno come una metafora
dell‟uguaglianza, Richard Holt (1989, 97) ha dimostrato che lo sport fungeva anche
da metafora della competizione, nel periodo in cui la Gran Bretagna dominava i mari.
L‟ideologia della competizione e della “sopravvivenza dei più forti” hanno
fortemente caratterizzato la metà del 19° secolo, quando le merci britanniche
conquistavano il mercato mondiale. Lo sport preservava l‟etica della competizione o,
63
più precisamente, l‟etica della competizione leale, con la quale gli Inglesi
prosperavano:
“Ridimensionare la mera vittoria in un gioco a favore della partecipazione rientrava nell‟impulso che ciò dava
alla partecipazione su larga scala e all‟idea della vita come lotta costante. Insegnando ai ragazzi sia a perdere, sia a
vincere con dignità, si rafforzava il più ampio principio della competizione”.
L‟insieme delle regole, incluse quelle che garantivano fairness, pari, pari
opportunità di vittoria per tutti i partecipanti, divenne più rigido. Le regole
diventarono sempre più precise ed il controllo di tali regole più efficace: pertanto,
divenne più difficile eludere le punizioni in caso di loro inosservanza (Elias 1986,
151). J.E.C. Weldon, preside della Harrow School dal 1881 al 1895, affermava,
molto esplicitamente: “Il mio grande desiderio è che i giochi atletici siano preservati
da tutto ciò che possa contaminare lo spirito del gioco. Perché la lezione del fair play
nello sport è la lezione di onestà negli affari…” (citato in Mangan 1998, 37).
Lo storico dello sport, James Anthony Mangan (1891, 1998) ha collegato in
modo chiaro etica dei giochi e imperialismo britannico, fornendo molti esempi a
riguardo.
Uno di questi esempi è una citazione dall‟articolo del 1916 di John Astley
Cooper nel giornale United Empire, intitolato: “Lo spirito dello sport e della guerra
nell‟Impero Britannico”. Secondo Cooper, la guerra era una crociata di un “cristiano
muscolare”6; l‟impero era la “terra santa”, non da riconquistare, ma da preservare.
Cooper era contento che quando le tradizioni sportive di un intero popolo erano in
bilico, “si faceva avanti l‟innato istinto al fair play! Un vero sportivo detesta un
prepotente e la Kultur tedesca è agli antipodi dello spirito dello sport, tipico
dell‟Impero Britannico” (citato in Mangan, 1998, 55).
4.5 Le Public school e lo sport moderno
Eric Dunning (1971, 134) studiando i fattori sociali che hanno contribuito allo
sviluppo del calcio moderno ha sottolineato che dalla seconda metà del 18° secolo le
forme tradizionali di football hanno iniziato gradualmente a scomparire,
principalmente a causa dello sviluppo dell‟industrializzazione e dell‟urbanizzazione.
64
Nelle Public school, contemporaneamente, cominciarono a emergere nuovi
modelli di gioco più adatti a una società in via di urbanizzazione e
industrializzazione.
È opinione comune che gli sport moderni si siano formati nelle Public school
d‟elite nelle quali l‟autogoverno era un‟innovazione pedagogica e il fair play e il
comportamento da “gentiluomini” attenuavano la violenza tollerata sui campi di
gioco. “Prendere parte al gioco per amore del gioco” era un riflesso della cultura
sportiva elitaria e gratuita del vero “dilettantismo”. Prendere parte al gioco in modo
corretto per amore della sopravvivenza è un‟affermazione che vorrei fare per
spiegare la natura strumentale o funzionale dell‟etica del fair play. I traumi fisici
erano ancora comuni negli incontri calcistici che si disputavano nelle Public school
del 19° secolo. Molto diffuse erano le fratture della tibia, provocate dai calci –
ammessi – che dava l‟avversario con i navvies, che erano le pesanti calzature di cuoio
chiodate, originariamente usate da coloro che scavavano i canali (navigators) e
successivamente da coloro che lavorarono alla costruzione delle ferrovie.
Gradualmente nel gioco la componente della “lotta simulata” però comincio a
guadagnare terreno e spese della componente della “lotta reale”. Il calcio iniziò a
divenire una forma di competizione di gruppo che, nei limiti del possibile, produceva
il piacere di uno scontro reale senza però i rischi e pericoli che esso comportava
(Dunning 1971, 144). Il maestro di Dunning, Norbert Elias (1986, 151), ha descritto
gli sport come “… giochi competitivi che implicano uno sforzo muscolare realizzato
a un livello di ordine e di autodisciplina da parte dei partecipanti mai conseguito in
precedenza”.. questi sport, contemporaneamente arrivarono a incorporare una serie di
regole che assicuravano un equilibrio tra il possibile raggiungimento di un elevato
livello di tensione agonistica e un livello ragionevole di protezione dagli infortuni
fisici. nel 19° secolo, erano gli stessi ragazzi ad avere la responsabilità di gestire il
loro calcio, in quanto la maggior parte degli insegnanti erano ostili o indifferenti nei
confronti del gioco. Secondo lo spirito dell‟autogoverno erano i giocatori stessi a
risolvere i conflitti e le discussioni che nascevano durante il gioco: “…spettava ai
65
giocatori risolvere, attraverso i propri capitani, tali divergenze; l‟arbitro nel calcio èa
arrivato tardi sul campo e non ha avuto il fischietto fino al 1891” (Melntosh
1979,118)
Thomas Arnold, preside del Rugby College dal 1828 al 1842, fu spesso definito
– e addirittura venerato da Pierre de Coubertin – come il principale fautore della
riforma scolastica in Inghilterra e la persona che era riuscita ad affrontare le crisi
endemiche di violenza tra gli scolari. Non è stato però Thomas Arnold a parlare di
influsso morale dello sport, ma uno dei suoi assistenti, G.E.L. Cotton, che divenne
preside del Marlborourgh College nel 1852 (Mcintosh 1979, 27). Nel popolare
romanzo di Thomas Hughes, Tom Brown’s schooldays (1857), Tom ed alcuni suoi
compagni di scuola discutono sul cricket con un giovane insegnante, la cui figura si
ritiene sia ispirata a quella del Reverendo Cotton, vicepreside a Rugby dal 1837, che
nel romanzo, insegna loro l‟ideologia del gioco:
“Penso che disciplina e fiducia reciproche che esso insegna siano molto importanti” diceva il maestro
“Dovrebbe essere un gioco disinteressato, fonde il singolo individuo in altre undici persone; non gioca per vincere
lui, ma perché possa vincere la sua squadra”
Era un principio della Public school di Rugby di Thomas Arnold che dal
ragazzo irresponsabile venisse fuori l‟adulto responsabile. Nel suo romanzo, Thomas
Hughes sottintende che i giochi non avevano importanza immediata per Arnold come
pedagogo e non facevano parte delle sue responsabilità di preside. I giochi erano
divertimento e, pertanto, esclusivo appannaggio dei ragazzi. Tutti gli aspetti dello
sport come vengono visti nel romanzo sono questioni che riguardano individui,
squadre o edifici scolastici. Gli insegnanti mostrano un interesse benevolo, offrendo
consigli, mai organizzazione (Sanders 1989, XII – XIII).
4.6 Il fantasma di Tom Brown
Tom Brown divenne un eroe vittoriano e un modello di ruolo per i giovani alle
prese con i problemi dell‟adolescenza. Rugby divenne un luogo mitico dove era nato
il rugby; divenne addirittura un luogo di pellegrinaggio per Pierre de Coubertin, che
santificò Thomas Arnold definendolo “padre dello sport moderno” (Macaloon 1981).
66
Altri sono stati molto meno clementi verso il romanzo di Hughes. Ad esempio,
nel suo saggio: The shadow of Tom Brown, Richard Usborne (1977) ha suggerito che
Tom Brown’s schooldays sia stato il primo a instillare nella classe dirigente inglese
due credenze irrazionali: anzitutto, che i maschi debbono accogliere coraggiosamente
le punizioni corporali prepotenze, frustate, pugni, risse tra alunni, giochi violenti,
morsi e dita negli occhi nelle mischie, rompersi il collo cacciando, essere ferito o
morire in battaglia per il proprio paese). In secondo luogo, che le punizioni corporali
debbono essere inflitte e sopportate coraggiosamente se vengono sanzionate
dall‟autorità e talvolta anche quando non vengono sanzionate (angariare allievi più
piccoli, se sei un prefetto, direttore del collegio, padre; mordere e cacciare le dita
negli occhi nelle mischie – senza essere visto dall‟arbitro; infliggere pene capitali se
sei un giudice o un boia; migliaia di vittime preferibilmente nemiche ma, se
necessario, tra i tuoi uomini se sei un signore della guerra, in uniforme o in abiti
civili). George MacDonald Fraser (1977) ha evidenziato che il codice d‟onore delle
Public school può funzionare solo in quella società chiusa e che gli alunni agiscono
con una buona dose di buonsenso sapendo quanto troppo è troppo.
La stessa aura mitica circonda la Scuola di Eton, dove è nato l‟Association
Football (cioè il calcio attuale). Camminando sui campi di gioco, il Duca di
Wellington avrebbe detto: “ È stato qui che si è vinta la battaglia di Waterloo”
(McIntosh 1979, 34). La verità era meno idilliaca: il Duca era stato ad Eton, ma non
amava la scuola; inoltre nella “sua” Eton non vi erano attività ludiche obbligatorie e
quando fece visita alla sua vecchia scuola non sapeva nulla di campi di gioco. Quello
disse realmente è “Credo davvero di dovere il mio spirito di iniziativa ai tiri mancini
che giocavo nel giardino”. Paul Johnson (1977, 14 – 15) ha osservato che una cosa è
demolire la mitologia, un‟altra valutare correttamente l‟influsso che le Public school
hanno esercitato – ed esercitano tuttora – sulla vita pubblica. Anthony Storr (1977,
98), uno psichiatra, ha sollevato la stessa questione: “Il sistema delle scuole
secondarie private promuove la salute e la maturità psicologiche oppure produce
“vecchi ragazzi” che non crescono mai?
67
Vorrei attirare l‟attenzione sul fatto che Tom Brown’s schooldays non ha solo
generato centinaia di altri romanzi ambientati nelle scuole pieni di cricket, calcio ed
altri sport, in Gran Bretagna, ma anche in America, dove il Gesuita Francis Finn
(1859-1928) produsse la versione cattolica del fair play e della vita di collegio. Sia le
virtù educative sia i vizi pericolosi legati a questi sport sono esposti nei popolari
romanzi di Finn, che hanno titoli come Tom Playfair, Percy Winn, Claude Lightfoot,
Harry Dee e That football game. Questi libri sono stati amati anche dai giovani
europei della generazione di mio padre (ne posseggo ancora le copie) e sono stati
visti come una versione cattolica di un Cristianesimo muscolare.
4.7 Dalle Public school alle classi lavoratrici: dilettanti contro professionisti
Visto l‟elevato livello di autogoverno del quale godevano i ragazzi, le loro lotte
per il potere all‟interno delle scuole e il fatto che come preferiti, cioè studenti anziani
con mansioni disciplinari, si abituavano ad esercitare il potere sin da piccoli, molti
pedagoghi di stampo tradizionale erano convinti che le Public school fossero un utile
campo di addestramento per i giovani membri della loro classe. Il calcio, grazie al
suo essere “civilizzato” e al fatto che era stato accettato nella Public school, che gli
avevano dato una certa rispettabilità, verso il 1850 era divenuto un‟attività
socialmente ammessa per giovani gentlemen adulti (Dunning 1971, 140, 146). A tale
riguardo, Norbert Elias (1986, 168) ha rilevato che l‟ethos sportivo non era l‟ethos
delle medie classi lavoratrici al quale si applicano termini come morale o moralità,
ma l‟ethos delle ricche, sofisticate e relativamente discrete classi abbienti. In questo
contesto, la lotta per la sopravvivenza dei dilettanti (amateur) può essere vista come
lotta di coloro che consideravano un proprio privilegio i diritti ereditari, il rango e la
noviltà di sangue, contro coloro che: “non rispettavano nessuno tranne che per i
propri meriti e per le proprie azioni). Il primo punto di vista fu espresso chiaramente
dal direttore del Radley College nel 1849: “Un gentiluomo sa e ringrazia Dio che
invece di fare tutti gli uomini uguali li ha fatti per lo più ineguali (citato in
Wigglesworth 1996, 87, 103).
68
Richard Holt (1989, 1992, 2006) ha messo in evidenza che tali argomentazioni
morali non erano che pedine nella lotta di classe sportiva tra gentlemen dilettanti e
professionisti della classe lavoratrice.
L‟argomentazione utilizzata dall‟elite dei dilettanti (amateur) era che se lo
sport fosse stato commercializzato vincere sarebbe diventato più importante di
partecipare; se ciò fosse successo, una partita non sarebbe stata più un incontro
amichevole, ma una lotta dura per ottenere punti in un campionato. Le squadre
sarebbero divenute schiave dei propri tifosi che sarebbero stati più interessati al
successo che al fair play. Holt (1989, 104) sostiene che questa visione degli alti
sacerdoti del dilettantismo vittoriano era corretta; ciò che non era accettabile era il
modo in cui tali valori venivano messi in pratica: “Il codice dilettantistico, in pratica,
era spesso un mezzo per escludere i giocatori delle classi lavoratrici dalle
competizioni ad alto livello”.
Fair play era la parola d‟ordine del gentlemen amateur. Il termine “dilettante”
(amateur) ora è arrivato a significare qualcuno che non compete per denaro ma il
significato originale era più sottile. Fair play implicava non solo il rispetto delle
regole scritte dal gioco, ma il rispetto di ciò che era generalmente inteso come lo
spirito del gioco. Lo sport non doveva essere solo praticato con lo spirito giusto,
doveva essere praticato con stile, in aderenza allo slogan “Lotta senza rabbia, arte
senza malizia”, come hanno cantato generazioni di studenti di Harrow (Holt 1989,
89-99). Man mano si è passati dalla distinzione originaria tra genltemen e players alla
rigida distinzione tra dilettanti e professionisti. La nuova importanza del “modo in cui
si era giocato”, come dice il proverbio, aggiungeva importanza alla vessata questione
del pagamento. Il termine professional (professionista) è entrato in uso verso il 1850
e amateur (dilettante) versi il 1880; prima del 19° secolo, i termini gentlemen e
players erano utilizzati principalmente nel cricket per definire coloro che godevano di
mezzi propri e coloro che non li avevano. Quindi, in origine, la distinzione riguardava
solo la posizione sociale e non si riteneva fosse disonorevole praticare uno sport per
denaro (Holt 1898, 103).
69
Il famoso Cortinthian Football Club, fondato nel 1882, all0inizio decise di
disputare solo incontri amichevoli contro altre società dilettantistiche, soprattutto
squadre della zona di Londra. Si rifiutava di entrare nella Football League o di
gareggiare nella Football Association Cup a causa delle sue regole originarie, che gli
impedivano di gareggiare per coppe o premi. Rifiutava anche i rigori, ritenendo che
fossero contrati allo spirito del gioco. Quando nel 1900 presero infine parte ad una
competizione, sconfissero l‟Aston Villa, campione della Football League, per 2 – 1
(Cavallini, 2007).
I difensori del dilettantismo avevano anche altri motivi; convinti che lo sport
dovesse essere uno svago piuttosto che una vocazione, condannavano perfino le
specializzazioni (Guttmann 2004, 98). I veri dilettanti, che ancora consideravano
l‟allenamento e la competizione un passatempo, ritenevano anche che un allenamento
intensivo portasse a ineguaglianze dal punto di vista della competitività”… se
dovevano prendere i propri posti sulla linea di partenza a fianco di lavoratori a tempo
pieno” (McIntosh 1979, 138).
L‟uso del vocabolario della fairness, derivato dallo sport amatoriale, era
importante in tutti gli aspetti della vita pubblica ed era attivamente incoraggiato dalle
classi predominanti politicamente (McKibbin 1990, 22). I sacerdoti del Cristianesimo
muscolare e i Socialisti cristiani (christian socialist) molti dei quali si erano formati
nelle Public school, hanno svolto un ruolo fondamentale nella diffusione del rugby e
del calcio nelle classi lavoratrici. Mentre la classe media e quella alta sottolineavano
l‟importanza della competizione individuale nell‟ambito del lavoro, nelle attività del
tempo libero enfatizzavano lo spirito di squadra, il fair play e la cooperazione:
“Giocare per soldi doveva farlo funzionare”. Ma, ahimè, anche le società
dilettantistiche erano costrette ad adottare metodi nascosti di pagamento per attirare e
trattenere i giocatori di alto livello”… “lo pseudo dilettantismo” divenne la regola”
(Dunning, 1971, pag. 149).
70
4.8 Il declino della cultura sportiva dilettantistica: da Eton ai Pro Show
Il termine amateur deriva dal verbo latino amare; gli amateur, i dilettanti, sono
pertanto considerati atleti che giocano solo per amore del gioco. Il dilettantismo
significava però molte cose; era parte di un “processo di civilizzazione” del self
restraint, ma anche un modo di promuovere lo spirito di competizione nel suo
interesse. L‟ostilità nei confronti delle scommesse poneva chiaramente lo sport
dilettantistico nel campo dell‟etica del lavoro protestante e della borghesia
industriale, in opposizione all‟aristocrazia. Gli aristocratici, con il loro codice d‟onore
preindustriale, continuavano a scommettere sui cavalli pur disapprovando il
pagamento dei giocatori professionisti. Ai loro occhi, pagare i giocatori rovinava il
divertimento e sminuiva il fine morale dei giochi competitivi, ossia il miglioramento
del corpo e del carattere Holt, 1992). Dove lo abbiamo già sentito? Mens sana in
corpore sano; mi chiedo però perché gli apologeti dell0‟educazione fisica e dello
sport dimentichino sempre di citare l‟intera frase del poeta romano Giovenale (ca. 60140), che in realtà è: Orandum est ut sit mens sana in corpore sano (Satira, 10, 356)
ovvero “Dobbiamo pregare perché vi sia una mente sana in in corpo sano”. Jogn
Hullet del Liverpool Athletic Club utilizzò la ben nota citazione nel 1862 come motto
di una competizione durante il primo Festival olimpico di Liverpool Athletic Club
utilizzò la ben nota citazione nel 1862 come motto di una competizione durante il
primo Festival olimpico di Liverpool; da allora ha vissuto di vita propria in quanto
illustra perfettamente il “pio desiderio”. Il graduale declino del dilettantismo nello
sport è ben documentato nel libro On the Corinthian spirit di D.J. Taylor (2006).
Nella Dichiarazione sul Fair Play dell‟International Council of Sport and
Physical Education (ICSPE, Consiglio Internazionale dello Sport e dell‟Educazione
Fisica), pubblicata nel 1975 presso la sede dell‟UNESCO di Parigi, si poteva ancora
leggere:
71
“Il fair play … richiede come minimo che lui [il partecipante] mostri un rigido e continuo rispetto della regola scritta
… [obbligatori]; …. il fair play è incarnato nel mostrarsi modesti nella vittoria, nell‟accettare con grazia la sconfitta
… [encomiabile]; … l‟arbitro non dovrebbe limitare il suo impegno al campo o all‟arena di gioco. Va a suo onore se
… cerca il contatto prima e dopo le manifestazioni con i concorrenti … [encomiabile]”.
(citato in McIntosh 1979, 122-123)
Temo che se un arbitro lo facesse oggi sarebbe sicuramente espulso dalla sua
Federazione. In opposizione a tale visione – piuttosto “idealistica” o dovrei dire
“paternalistica” – degli sport dilettantistici dei bei vecchi tempi, c‟è il fatto che gli
sport che prevedono la presenza di spettatori sono divenuti “ … die wichtigste
Nebensache der Welt” “la cosa secondaria più importante del mondo). Dieci anni
prima dell‟abolizione ufficiale della regola del dilettantismo da parte del movimento
olimpico, Allen Guttmann (1978, 31-32) scriveva:
“La regola del dilettantismo era uno strumento di lotta di classe …, il tentativo di limitare gli sport ai
gentiluomini provvisti di mezzi sopravvive ancora nell‟anacronistico ruolo di dilettante … I Paesi occidentali
dovrebbero finalmente abolire la distinzione tra dilettanti e professionisti ne4lla sua forma attuale, in quanto da tempo è
divenuta anacronistica ed è intrisa di ipocrisia e beffata dalla pratica dei Paesi comunisti dove i dilettanti dedicano allo
sport lo stesso tempo che vi dedicano i nostri professionisti”.
Mentre Guttmann implorava che si abolisse l‟ipocrita e anacronistico ruolo di
dilettante, Peter McIntosch (1979, 138), da un punto di vista pedagogico metteva in
guardia dalla profesionalizzazione dei Giochi olimpici. Si lamentava del fatto che
questi predicassero e promuovessero pubblicamente l‟umanitarismo, gli ideali del
dilettantismo, la partià a livello agonistico, l‟amicizia nella gara e altri valori umani,
ma che contemporaneamente, onorando il proprio motto “Citius, altius, fortius”,
contribuissero alla professionalizzazione dello sport. McIntosh (1979, 139) era deluso
dalla vuota retorica del movimento olimpico durante la crisi legata alla Guerra
Fredda, quando i termini dilettantismo e fair play avevano connotazioni piuttosto
farsesche e in opposizione a quelle morali.
Probabilmente, con grande rimpianto e dolore nel cuore, predisse l‟inevitabile
biforcazione tra educazione fisica da un lato e il business dello sport competitivo
dall‟altro. Quando scrivevano i loro testi alla fine degli anni ‟70, Guttmann e
72
McIntosh avevano, dunque, opinioni molto diverse sulla trasformazione dello sport di
vertice in industria dello spettacolo. Se Guttmann era un osservatore obiettivo che
prendeva atto della nascita di un0‟industria basata su uno sport spettacolare,
globalizzato e professionalizzato (vedasi anche il suo libro Sports spectattors, 1986),
McIntosch stava ancora combattendo un‟azione di retroguardia contro il declino
dell‟ethos dilettantistico e la perdita dello spirito del fair play nello sport. McIntosh,
quindi, dovrebbe essere considerato un ingenuo nostalgico ancorato al passato e
Guttmann un freddo osservatore senza “impegno” sociale? Credo che entrambi
stessero analizzando tipolo9gie diverse di sport e da punti di vista diversi. Lo
studioso americano Allen Guttmann, egli stesso immerso culturalmente nel Whole
new ballgame (1988) della scena sportiva “made in America”,, affrontava il tema
dello spettacolo sportivo basandosi sul buon senso. Il professore inglese di
educazione fisica, Petere McIntosh, era interessato al difficile tema dell‟educazione
morale in rapporto allo sport; forse non distingueva abbastanza tra educazione fisica
in sport che si è verificata nel continente europeo dove, prima degli anni ‟60, la
ginnastica svedese, la ginnastica tedesca (Turnen), o sistemi più eclettici dominavano
ancora i programmi di educazione fisica (Renson 1999). Taluni hanno visto questa
evoluzione non come un aggiornamento, ma piuttosto come un fiasco educativo
oppure, come Gilbert Andrieu (1992, 153), sono arrivati alla conclusione che:
“L‟educazione fisica è malata perché somiglia troppo allo sport”. Dal primo
Congresso olimpico del 1894, il cui il tema centrale era il principio del dilettantismo
insieme alla reintroduzione dei Giochi olimpici, i giochi sportivi, gli altri sport, il
Movimento olimpico hanno attraversato un processo di drastici cambiamenti. Sono
passati “da Eton al Pro Show”. I giochi sportivi e lo sport non rappresentano più la
prerogativa esclusiva della classe agiata; il movimento “Sport per tutti” si è
impegnato a democratizzare le attività fisiche per i due sessi, per tutte le fasce d‟età e
per tutte le classi sociali. Dai Giochi di Seul del 1988, però, il dilettantismo non è più
principio alla base del movimento olimpico e la scena sportiva è divenuta una parte
73
integrante del mercato dello spettacolo professionistico o “Pro Show” dove valgono
regole diverse … rispetto ai campi di gioco di Eton.
Lo sport moderno ha avuto origine in Gran Bretagna come prodotto culturale
della modernità che poneva l‟accento sull‟uguaglianza e la competizione. Il fair play
era il credo morale di questa nuova cultura sportiva. Guttmann (1985) lo considerava
una nuova cultura cavalleresca, creata dalla classe alta e medio – alta dell‟Inghilterra
del 19° secolo.
Facile pensare che il fair play sia stato propugnato al semplice scopo della
sopravvivenza in giochi violenti praticati inter pares. Pierre de Coubertin, il padre
fondatore del moderno Movimento olimpico, adottò questo prodotto culturale
britannico come fondamento della sua Pèdagogie sportive diffondendo questo
vangelo sportivo in tutto il mondo.
Lo sport, però, non è di per sé stesso educativo, ma solo se posto in un contesto
educativo (Renson 23003). Il problema è pertanto se – e in caso positivo, in che
misura – quando e in che modo un tale contesto educativo possa essere reso
“operativo” sui nostri campi sportivi.
Ottimisti che l‟etica del fair play abbia un futuro in un contesto educativo e
sotto una corretta guida morale e probabilmente anche in un contesto ricreativo, in
cui “…vincere non è tutto”. Più preoccupazione invece per quanto riguarda le
possibilità dell‟etica del fair play nello sport professionistico o semiprofessionistico,
nel quale la vittoria o la sconfitta sono viste in termini economici. Già nel 1868
Alexander Trollope criticava la crescente serietà dello sport (pag. 6-7) in quanto “…
un passatempo, per essere piacevole, dovrebbe essere un piacere e non un
business…” George Orwell, che ha giocato nella squadra di calcio di Eton, ha
espresso il suo parere sulla serietà dello sport in termini più drastici: “Lo sport serio
non ha niente a che vedere con il fair play. È legato all‟odio, alla gelosia, alla
vanagloria, al disprezzo di tutte le regole e al piacere sadico di assistere ad atti
violenti, in altre parole si tratta di una guerra senza vittime” (Orwell, 1945).
74
4.9 Il progetto “Tribuna Fair Play”
“Panathlon International Club di Verona, Hellas Verona e Assessorato allo
Sport del Comune di Verona vogliono intraprendere un percorso di crescita e
formazione al Fair Play, dove questo termine assume un significato ancor più ampio
del semplice rispetto delle regole, richiamando la considerazione per gli altri,
l‟amicizia e lo spirito sportivo.
“Tribuna Fair Play” è il luogo in cui, in occasione di alcune partite casalinghe
dell‟Hellas Verona F.C, bambini, bambine e genitori avranno la possibilità di
conoscersi, fare amicizia, confrontarsi e scambiare informazioni intorno alla partita di
calcio ed ai valori che ruotano attorno ad una competizione che sia sana e leale nel
rispetto delle regole, ma anche e soprattutto nel rispetto reciproco di tutte quelle
persone che a vario titolo partecipano all‟evento sportivo in qualità di giocatori, di
allenatori, di ufficiali di gara, di addetti ai lavori, di spettatori, di giovani e meno
giovani.
I bambini in età compresa tra gli 11 e i 14 anni (Prima, Seconda e Terza Media,
Prima superiore) avranno accesso gratuito allo Stadio “Bentegodi”, intraprendendo
un percorso didattico-educativo di formazione al Fair Play, prima e durante la gara.
La “Tribuna Fair Play” si radunerà, a partire da lunedì 28 novembre 2005 (in
occasione della partita Hellas Verona – Catania), una volta al mese sino alla fine del
Campionato di Serie B, in occasione delle gare casalinghe della Prima Squadra
dell‟Hellas Verona F.C.
Le lezioni si svolgeranno presso un‟area all‟interno dello stadio, mentre la
“Tribuna Fair Play” è stata individuata nella Tribuna Est dello Stadio Bentegodi, che
verrà intitolata e segnalata.
Panathlon International Club di Verona, F.C. Hellas Verona e Comune di
Verona, metteranno a disposizione un pool di 10 / 12 assistenti, coordinati dai
responsabili per la didattica di progetto dell‟Hellas Verona F.C. e del Panathlon Club
75
Verona, che accompagneranno nel loro percorso di formazione i bambini della
“Tribuna Fair Play” sin dall‟ingresso allo stadio e per tutto il tempo della gara.
Durante ciascuna gara i bambini della “Tribuna Fair Play” si confronteranno
sulla partita scambiando informazioni sulla squadra avversaria, analizzando i dati
storici degli incontri e le formazioni in campo, prestando attenzione su quanto
avviene all‟interno dello stadio, imparando le regole del gioco del calcio e istituendo,
alla fine del corso di formazione, un vero e proprio decalogo del Fair Play in cui
verranno sanciti i principi cardine.
Alcuni giorni prima dell‟inizio della manifestazione ai bambini e alle famiglie
partecipanti alla “Tribuna Fair Play” sarà presentato dettagliatamente il Progetto e la
didattica applicata presso la sede dell‟Hellas Verona F.C., unitamente alla consegna
delle cartelline materiali (blocco, regolamento, materiali informativi).
I docenti saranno due: uno sarà fornito dal Panathlon International Club di
Verona e l‟altro dall‟Hellas Verona, quindi, a rotazione saranno invitati altri docenti.
Il primo avrà il compito di spiegare lo sport in generale (olimpismo, storia, discipline,
temi di attualità, la comunicazione, i principi del fair play) ed i valori che esso
esprime, non tralasciando di evidenziare i pericoli del doping e delle droghe in
generale. Il secondo, invece, parlerà del gioco del calcio (regole, atteggiamento dei
calciatori, degli allenatori, dell‟arbitro, degli assistenti di gara. Spiegherà la funzione
del quarto uomo, quale deve essere il comportamento dei presenti sulle panchine,
parlerà dei tempi di gara (totali, recuperi,…), presentando, inoltre, la partita a cui
assisteranno i ragazzi. Inoltre, si forniranno informazioni inerenti il cosiddetto
modulo di gioco piuttosto che brevi analisi relative alla tecnica del gioco calcio.
Attraverso la visione della gara, si domanderà poi ai bambini della “ Tribuna
Fair Play ” di prestare attenzione al sistema organizzativo all‟interno dello stadio:
all‟afflusso, alla permanenza e al deflusso del pubblico, ai comportamenti durante
l‟intervallo, allo schieramento e al comportamento degli addetti al campo ed al
servizio di vigilanza, al comportamento del personale medico ausiliario, degli
76
Ispettori Figc, delle forze dell‟ordine in campo o sulle gradinate, dei Vigili del Fuoco,
dei raccattapalle, dei fotografi e dei cameraman.
La tribuna di volta in volta avrà una coreografia diversa (bandierine, pompon,
palloncini, con i colori gialloblù). Oltre a questo una serie cartelli a fondo giallo (1
metro per 1 metro) comporranno la parola fair play, che saranno alzati a comando dai
bambini (un po‟ come un gioco) ogni qualvolta il pubblico o qualche giocatore avrà
un comportamento non proprio da fair play. Nelle giornate in cui avrà luogo
l‟iniziativa, infine, al nucleo familiare dei bambini partecipanti alla “Tribuna Fair
Play” verranno messi a disposizione n. 4 biglietti di ingresso al prezzo promozionale
di 5,00 euro ciascuno”.
La pratica sportiva ha sempre alle sue spalle valori educativi di riferimento,
impliciti ed espliciti. L‟educatore dovrebbe per sua natura ed eventualmente per
dovere istituzionale periodicamente riflettere su tali valori, per arrivare ad identificare
quelli più positivi al servizio dell‟uomo e della società. Si analizzano perciò i
contenuti della Carta del fair play, che può costituire una di queste occasioni, in
quanto insieme di precetti etici e morali estesi all‟intero sistema sportivo.
Nel 2005, nel numero 67 di Sds-Scuola dello sport ho letto con piacere un
articolo (Guinelli 2005), dal titolo Pratica sportiva ed educazione, in quanto la
pedagogia, cioè la teoria dell‟educazione, lungi dal restringersi in elucubrazioni
astratte, è inestricabilmente connessa con l‟insegnamento, l‟allenamento è la pratica
sportiva.
Ci si è soffermati, tra l‟altro, sulla responsabilità educativa in ambito sportivo
di “dirigenti, allenatori e genitori” e sulla conseguente ricerca e proposta di valori
fondati, visto che lo sport (con tutte le difficoltà di definizione che oggi più di ieri
questo termine comporta) non risulta positivo in sé e per sé 1.
D‟altra parte ho avuto occasione di partecipare come relatore al 12° Convegno
europeo sul fair play tenutosi dal 27 al 30 settembre del 2006, ad Udine e di
commentare in chiave pedagogica la Carta del fair play varata nel 1975 dal Comitato
77
internazionale del fair play e pubblicata lo stesso anno dall‟ICPS (International
Council of Sport and Physical Education, Consiglio Internazionale per l‟educazione
fisica e lo sport).
Penso sia qui utile riprenderne l‟analisi, evidenziandone in modo più
approfondito pregi e limiti nel contesto attuale, in quanto essa risulta ancora oggi uno
dei documenti internazionali più conosciuti ed accreditati di pedagogia dello sport.
In questo modo cercheremo di contribuire alla ricerca e proposta valoriale
contenute in quell‟articolo, sempre con l‟idea di creare riflessioni utili
all‟insegnamento, all‟allenamento e alla pratica sportiva.
La Carta del fair play, nonostante abbia ormai più di trent‟anni, mostra
sostanzialmente intatta, pur con certi limiti, la sua attualità pedagogica nei confronti
di tutti i peggiori aspetti degenerativi degli sport e dell‟agire coerente per porre ad
essi rimedio in modo completo:
Qualunque sia il ruolo nello sport, anche quello di spettatore, mi impegno a:
Fare di ogni incontro sportivo, importa poco la posta in palio e la rilevanza
dell'avvenimento, un momento privilegiato, una sorta di festa. Conformarmi alle
regole ed allo spirito dello sport praticato. Rispettare i miei avversari come me
stesso. Accettare le decisioni degli arbitri e dei giudici sportivi, sapendo che come
me, hanno diritto all'errore, ma fanno di tutto per non commetterlo. Evitare la
cattiveria e le aggressioni nei miei atti, nelle mie parole o nei miei scritti. Non usare
artifizi e inganni per ottenere il successo. Restare degno nella vittoria, come nella
sconfitta. Aiutare ognuno, con la mia presenza, la mia esperienza e la mia
comprensione. Soccorrere ogni sportivo ferito o la cui vita e' in pericolo. Essere
realmente un ambasciatore dello sport, aiutando a far rispettare intorno a me i
principi qui affermati. Con questo impegno, considero di essere un vero sportivo.
78
1
Concetto questo ribadito da Alberto Madella in un suo articolo pubblicato nel numero 70 di SDS-Scuola dello sport:
Sport e intervento sociale. Lo sport come strumento d‟intervento sociale: miti e fatti. In esso si afferma: “Il valore
educativo di uno sport, non può essere quindi semplicemente considerato come il risultato delle caratteristiche
specifiche dell‟attività in sé, ma dipende soprattutto dalle caratteristiche del contesto, dalla competenza degli operatori
coinvolti e della loro capacità di affrontare e sostenere i bisogni dei partecipanti attraverso un‟opportuna organizzazione
tecnica e metodologica delle attività proposte. Soprattutto dipende dalla qualità dell‟azione pedagogica che accompagna
lo sport.”
79
Capitolo 5
IL PANATHLON E LA LOTTA AL DOPING,
AL RAZZISMO E ALLA VIOLENZA
C‟è molto da fare ancora. Il Panathlon ha iniziato ad approfondire il tema
“doping” solo dalla fine degli anni ‟80 con qualche articolo apparso sull‟organo di
stampa ufficiale del Club. Ma bisognerebbe approfondire di più, conoscere e fare
conoscere le problematiche, sensibilizzare. Da questo punto di vista l‟”International”
si sta prodigando. Per ora, forse, la mia tesi potrebbe essere un piccolo contributo per
diffondere qualche nozione su questo fenomeno diffuso. Anche se non si dice.
Pericolosissimo. Anche se spesso non si conosce.
5.1
Elenco
ragionato
degli
articoli
apparsi
sulla
rivista
“Panathlon
International” dal 1985 al primo trimestre 2008
Notevole è la mole di articoli apparsi sulla Rivista del Panathlon fin dal 1985.
Fino ad allora i problemi etici trattati erano molto orientati all‟educazione ai valori
dell‟olimpismo e a combattere l‟incultura alla base della violenza nello sport.
Nel numero 1/2008 un articolo di Philippe Housiaux tratta il problema del
doping, degli imbrogli e della violenza che minano lo sport. Titolo: “Una „cintura di
sicurezza‟ per salvare lo sport”. Il Numero 2/2008 riporta un pezzo di Lina
Musumarra “La lotta al doping nello sport: azioni di prevenzione”. Dario Rigetti è
l‟autore di un breve articolo, che prendendo spunto da uno spettacolo educativo, porta
all‟attenzione il problema dell‟alcolismo giovanile. “Gli adolescenti alzano troppo il
gomito” è il titolo.
Nel numero 2/2007 alla sezione Doping e salute pubblica, compare l‟articolo
“Si parte verso il futuro”, tratto dalla rivista francese “Franc jeu Numero1/2007 e
rielaborato dal CdR. “Oggi la sfida lanciata alla comunità antidoping consiste nel
determinare in che modo la collaborazione e la condivisione di informazioni tra le
80
agenzie governative da una parte e le autorità sportive antidoping dall‟altra possono
essere migliorate per permettere alla lotta contro il doping nello sport, di guadagnare
ulteriormente in termini di efficacia”. In termini di educazione, prevenzione e ricerca
contro il doping, nello stesso numero 2/2007, a pag. 6 è riportato l‟articolo di fonte
“Revue Olympique” n. 62, gen-feb-mar 2007 in cui il Presidente del CIO Rogge
dichiara la “determinazione totale sulla lotta contro il doping”.
A seguito dei fatti emersi nel Tour de France in Luglio, nel numero 3/2007,
compaiono gli articoli di Luc Le Vaillant “Lettera a mio figlio sulla bicicletta e il
doping” e di Jacques Testart “Il doping sdoganato” in risposta alle provocazioni
contenute nell‟articolo di Le Vaillant. Maurizio Monego è ancora l‟autore di “Estote
parati – il doping genetico è già una realtà”, che compare nel N. 1/2006 pg 26. Svolge
delle considerazioni di carattere etico a partire dagli spunti offerti da un articolo di
Eugenio Capodacqua apparso sul quotidiano La Repubblica del 6 Dicembre 2005.
Numero 4/2006, di autori vari, tutti medici, è l‟articolo su “Un centro regionale
antidoping” funzionante in Emilia Romagna, esemplare per la metodologia adottata
nei confronti della dissuasione verso atleti e raccogliendo dati di una piccola inchiesta
fra di loro. All‟interno anche valutazioni sulla lotta al doping in Italia. Numero
4/2005, pag. 28-29, Maurizio Monego: Doping e Olimpiadi. Si tratta dell‟articolo
critico verso al proposta Pescante di depenalizzare il reato di doping della legge
italiana, perché in contrasto con la normativa CIO, in vista delle Olimpiadi invernali
di Torino 2006.
Il numero 3/2004 si apre con l‟intervista concessa dal Presidente del CIO
Rogge al quotidiano La Stampa, sui problemi che assillano i Giochi Olimpici e lo
sport, fra i quali il doping è in testa alle preoccupazioni. Nel N. 4/2004 compare un
articolo di Franco Cavalieri, Consigliere del 2° Distretto, dal titolo “Inevitabilità del
doping? Gli sportivi e la verità” scritto in forma di considerazioni dell‟autore sullo
stimolo di una serie di convegni e tavole rotonde, di livello universitario a Bergamo e
con manifestazioni pubbliche a Crema e a Lodi, tenutesi nel 2° Distretto. Il Prof.
Angelo Tramontano, vice presidente del Club di Palermo è l‟autore dell‟articolo che
81
compare nel numero 4/2003. “I danni delle sostanze dopanti nella donna che pratica
sport”.
Nel numero 3/2002 compare il testo di una lettera che Maurizio Monego, past
President del club di Venezia ha inviato a Il Gazzettino di Venezia l‟indomani di una
sentenza che depenalizzava alcune forme di doping evidenziando i buchi della legge
da poco varata in Italia. Taglio morale – educativo (anche per i giornalisti). Il V
Congresso Panamericano di Santiago del Cile ha sollecitato Lina Musumarra a
scrivere un articolo riportato nel numero 4/2002 che affronta il tema del doping
come uno dei pericoli della “società del rischio” secondo la definizione del sociologo
tedesco Ulrich Beek. L‟autrice, che aveva svolto l‟intervento “Le misure di lotta
contro il doping nello sport” fa dei richiami al Forum europeo di Bruxelles 2001 e al
Seminario Euromediterraneo sul doping di Marrakech. Nello stesso numero 4/2002, il
resoconto di un convegno a Forlì (Italia) organizzato dal CSA scolastico di ForlìCesena e dal Panathlon di Cesena “per combattere il doping già nella scuola”.
Con il numero 1/1999 si apre una serie di interventi in vista e in conseguenza
del Congresso di Palermo. “Troppa ignoranza sul doping e sulla creatina” è il titolo
dell‟articolo di Alessandro Gamba, tratto dalla Rivista “Superbasket”. Compare
anche l‟iniziativa del Panathlon Club Losanna che attraverso un gruppo di lavoro ha
redatto un Manifesto contro il doping. Nel numero 2/1999 compare un‟ampia
rassegna degli interventi e della Dichiarazione finale del Congresso di Palermo. Nello
stesso numero a pag. 27 è pubblicata la notizia di una brillante inchiesta del
Panathlon Club di Terni dal titolo: “Doping: pressioni e consigli medici”. A pag. 32 e
33, infine compare l‟ampio resoconto dell‟intervento di Otto Schmitt al Panathlon
Club Montevideo “La lotta contro il doping – protegge la salute e offre basi uguali
per tutti”, in cui a partire dalla premessa su “impatto della droga e dell‟alcool”, “la
proliferazione delle truffe” ecc. individua possibili attività per i club del Panathlon e
fornisce suggerimenti per gli interventi. Il prof. Giorgio Odaglia, Consigliere Centrale
del Panathlon International con un passato di pallanuotista e poi di Medico Sportivo –
è stato anche Presidente della Fims – scrive nel numero 3/1999 un lungo articolo dal
82
titolo “I compiti del Medico dello sport ed i problemi per la lotta al doping”, in cui
smentisce il luogo comune che lo sportivo di vertice sia un uomo sano, prospetta
alcune incongruenze nel testo della legge anti-doping che sta per essere varata dal
Governo italiano e svolge alcune considerazioni sulla lotta al doping.
Il numero 3/1998 contiene la Relazione del Presidente della Commissione
culturale Antonio Spallino verso il congresso di Palermo “Sport, Etica, Giovani – la
linea d‟ombra del doping -, al fine di offrire ai club materia di riflessione. A pag. 21
del numero 4/1998 è riportato un articolo apparso su L‟Espresso a firma di Sandro
Donati – il più convinto accusatore delle ipocrisie intorno al doping (vedi in altra
parte di questo dossier) – dal titolo “Il doping c‟è ma non si vede”, che punta alla
denuncia dell‟uso dell‟ Igf1 e spinge all‟uso del controllo del sangue per smascherare
i dopati.
Nel numero di Gennaio/Febbraio 1990 è riportata ampia notizia del Convegno
internazionale sul doping organizzato nei giorni 25-27 aprile a Gradisca d‟Isonzo dal
Primo Distretto. I numeri 4-5/1989 di Aprile/Maggio 1989 danno ampio spazio
all‟intervento del Prof. Gianni Benzi, farmacologo e tossicologo di fama, direttore
dell‟Istituto di Farmacologia dell‟Università di Pavia; direttore del Centro Studi &
Ricerche Fidal-Coni e Consigliere dell‟International Medical Committee della Iaaf.
Nel N.6-7/1989 compare un Dossier Doping con articoli di Vittorio Wiss e di John
Goodboy, corrispondente sportivo del Times. Settembre 1989, numero 8 della
Rivista: Dossier doping riporta articoli di Eduardo Enrique De Rose Presidente Fims,
“Un controllo moderno e dinamico” e di Antonio Losada, “Un problema
permanente”, testo della relazione tenuta ad una conferenza del Club di Santiago del
Cile. La redazione della Rivista Panathlon International, nel numero di Dicembre
1989, affronta il tema con due titoli: “L‟azione dei ministri europei” riferito alla 6^
Conferenza dei Responsabili dello sport dei governi europei riuniti a Reykjavik, e
“La lotta delle Federazioni internazionali”, che tratta dell‟impegno espresso nella
23esima Assemblea dell‟Agfis.
Nel numero 2/1985 della Rivista compare il primo inserto “Droga o sport”.
83
5.2
Significato e definizione del fenomeno doping
L'origine del termine doping è controversa in quanto sono varie le supposizioni
in merito alla reale origine. Secondo alcuni studiosi va ricercata nell'usanza di
popolazioni dell'Africa come i Kafri, i quali nel loro idioma definivano "dop" un
estratto liquoroso eccitante per avvicinarsi ai numi durante i riti e le cerimonie
religiose; altri studiosi invece sostengono che il termine derivi dall‟idioma inglese
“dope”, il quale significa sostanza liquida, densa e lubrificante, anche se in realtà
nello slang viene usato per indicare sostanze stupefacenti o droghe; altri ancora
invece affermano che il termine derivi dal fiammingo “doop” con il significato di
mistura, miscela, poltiglia; in ultima analisi altri studiosi ancora sostengono che
doping derivi dal termine “oop”, ovvero miscela di oppio, tabacco e narcotici
utilizzata nell‟800 per i cavalli da corsa nel Nord America. Oggi il termine doping ha
subito una forte evoluzione nel suo significato, infatti sul dizionario della lingua
italiana “Le Monnier” indica l‟”uso, o somministrazione ad un’atleta, o assunzione
volontaria da parte di quest’ultimo, di sostanze proibite dai regolamenti (eccitanti,
anabolizzanti, etc.), allo scopo di accrescere artificiosamente e slealmente il
rendimento fisico nel corso di una competizione.[Der. di (to) dope = drogare]”.1
Come definire quindi tale fenomeno: una moda, un‟usanza degli sportivi? Un
rito, un‟iniziazione allo sport? Una scelta, una visione particolare dello sport? O più
semplicemente un modo errato di vivere lo sport? Forse se lo si chiedesse ad uno
sportivo che fa uso di sostanze dopanti la risposta sarebbe un susseguirsi di
giustificazioni e scuse, del tipo: “ Non pensavo fossero queste le conseguenze..
volevo solo provare qualcosa di nuovo e diverso.. pensavo fosse utile per migliorare
le mie prestazioni.. non pensavo di fare nulla di male.. mi sono lo stesso allenato
tanto come gli altri”; se invece lo si chiedesse ad un semplice appassionato di sport la
risposta sarebbe certamente qualcosa del genere: “ Non capisco perché i campioni
debbano arrivare a tali livelli rovinando così la loro vita e lo sport stesso.. non
accetto che uno sportivo si rifugi nell’uso di tali sostanze per raggiungere risultati
nelle competizioni.. chi fa uso di sostanze dopanti non ha nulla a che fare con il
84
mondo dello sport”; se infine lo si chiedesse ad un medico sportivo e non,
sicuramente la risposta sarebbe tutt‟altra: “ Le sostanze dopanti sono nocive per la
salute degli atleti, possono causare aumento di cardiopatie, comparsa di caratteri
sessuali maschili nelle donne, problemi di fertilità negli uomini, tumori e tanti altri
problemi. Inoltre il doping è per principio anti-sportivo, non ha davvero nulla a che
vedere con il mondo dello sport”.
Insomma, per definire il fenomeno del doping sono tante le parole che si
possono usare e ancor di più i riferimenti su cui potersi basare per darne una precisa
definizione. L‟etica sportiva richiede infatti che tutti gli atleti debbano gareggiare a
parità di condizioni, rispettando un regolamento liberamente accettato e questo
significa che a priori si può definire il doping un fenomeno “nemico” dello sport.
Ogni Federazione Sportiva stabilisce il proprio regolamento e quali sono le sostanze
vietate ai propri affiliati, in genere il cui uso da parte dell‟atleta viene finalizzato a
ridurre la fatica, migliorare i riflessi, migliorare la forza e/o la resistenza, ridurre il
dolore, controllare la frequenza cardiaca e/o respiratoria, ridurre il peso corporeo,
ridurre l‟ansia, mascherare la presenza nelle urine delle sostanze vietate. Gli elenchi
prescindono dall‟effetto delle sostanze sulla salute dell‟atleta; pertanto è possibile che
una sostanza vietata da una Federazione sia ritenuta “necessaria e/o utile” dal medico
per curare l‟atleta ammalato, com‟è anche possibile che sostanze e/o pratiche non
considerate dopanti vengano giudicate inutili o parzialmente dannose dal medico
curante. Insomma, definiamo la pratica del doping come “ l’uso da parte di un atleta,
o la distribuzione ad esso, di determinate sostanze che possono avere l’effetto di
migliorare artificialmente la condizione fisica e/o mentale dell’atleta stesso,
aumentando così la prestazione atletica”2.
_______________________________
1
Le Monnier: Dizionario della lingua italiana di G. Devoto e G. C. Oli, edizione 2005, pag. 640.
2
International Amateur Athletic Federation (IAAF).
85
5.3
Nascita ed evoluzione storica del fenomeno doping
La storia del doping, ovvero il tentativo di modificare le prestazioni atletiche
con mezzi non fisiologici o comunque illeciti nel corso di competizioni sportive,
inizia molto tempo fa, quando non esisteva la chimica e venivano impiegate sostanze
di origine naturale per migliorare la propria condizione fisica. Si può infatti già
parlare di doping fin dalle prime edizioni delle olimpiadi, quando gli atleti ingerivano
sostanze stimolanti, ovviamente di origine naturale e non chimica, mescolate agli
alimenti e alle bevande. Vi sono persino tracce storiche risalenti al terzo secolo a.C.
quando venivano utilizzati infusi di funghi applicati localmente come impacchi a
scopo puramente stimolante più che curativo o lenitivo. Per lunghi secoli non si è più
sentito parlare della pratica del doping probabilmente anche perché le olimpiadi
vennero interrotte sino al 1896, quando per merito del barone De Coubertin vennero
reintrodotte le moderne olimpiadi. Con la ripresa delle competizioni sportive riprese
anche la pratica del doping.3
Le statistiche mediche sportive non fecero tuttavia registrare un utilizzo diffuso
delle sostanze dopanti sino alla metà del novecento (Secondo dopoguerra, 1950
circa), quando vi fu un vero e proprio incremento numerico di atleti che facevano
uso di sostanze dopanti: l‟assunzione di amfetamine si trasferì dai militari impegnati
sui fronti di guerra agli sportivi. Si verificarono molte
storie “spiacevoli”, come quelle di ciclisti che improvvisamente non vedevano
più le curve in gara o che non dormivano per notti intere, ma solamente dopo il
decesso di Tommy Simpson avvenuta negli anni ‟60 sul Mont Ventoux, i mass media
portarono alla ribalta delle cronache ma soprattutto all‟attenzione del grande pubblico
di tifosi sportivi il grave problema connesso con l‟uso di sostanze dopanti
potenzialmente mortali da parte degli sportivi. In quegli stessi anni i paesi dell‟ex
_______________________________
3. Gli atleti assumevano sostanze zuccherine, caffè, alcool ma anche stricnina e nitroglicerina, che potevano sortire
effetti collaterali talora gravemente invalidanti se non addirittura mortali.
86
blocco comunista, soprattutto U.R.S.S. e Germania dell‟Est, avevano organizzato la
somministrazione sistematica di steroidi agli atleti di punta organizzando il più
terrificante “doping di Stato” della storia dell‟uomo (10 mila gli atleti coinvolti). Il
culmine della diffusione della pratica del doping tra gli atleti di alto livello e di fama
internazionale, si raggiunse alla fine degli anni ‟70: il fenomeno divenne eclatante e
si manifestò in un numero sempre maggiore di sportivi, soprattutto nelle donne che
assumendo forti dosi di anabolizzanti subivano delle forti trasformazioni; in tal
proposito, un caso su tutti fu quello riguardante Heidi Krieger, ex campionessa
europea del lancio del lancio del peso, oggi diventata uomo (Attualmente Andreas),
per l‟assunzione sistematica di farmaci steroidi e anabolizzanti (3.000 milligrammi di
ormoni solo nel 1984). Quando ci si accorse dell‟ampia diffusione del fenomeno tra
gli atleti famosi, ci si rese anche conto di quanto fosse realmente diffuso a livello
mondiale e di quanto fosse necessario cercare di mettere un freno a tutto ciò.
Con la caduta del muro di Berlino il resto dell‟Occidente sportivo venne a
conoscenza del fatto che gli atleti del blocco sovietico come anche quelli della
Germania Est e della Russia venivano imbottiti sin dall‟infanzia di anabolizzanti,
farmaci e tutto ciò che potesse servire allo scopo di vincere le competizioni
internazionali, un vero e proprio “doping di Stato” gestito dagli stessi governanti
delle nazioni per scopi di propaganda politica e per rinforzare il sentimento popolare
nazionalistico e antioccidentale. I risultati di tale movimento furono impressionanti,
sia dal punto di vista delle medaglie, 541 medaglie olimpiche, sia dal punto di vista
della salute, atleti colpiti improvvisamente da cancro al fegato, amputazione del seno,
aborti naturali. Poco si sapeva, o forse evidenti erano i miglioramenti in termini di
struttura fisica e risultati agonistici.
Negli anni ‟60 Stati Uniti, U.R.S.S e Germania dell‟Est giunsero al top del top
per quanto riguarda la pratica del doping sugli atleti, tra steroidi ed anabolizzanti.
Successivamente l‟elevata rivalità sportiva spinse ad un uso smisurato di
steroidi in tutta Europa, diffondendo a macchia d‟olio l‟uso tutto si ignorava, degli
effetti collaterali provocati dalle sostanze somministrate agli atleti, mentre di
87
anabolizzanti che assicuravano un sostanziale ed evidente scopo, e definito in seguito
come principio di “antinvecchiamento” perfetto. Fu quasi immediata la sua diffusione
anche in Europa e Cina. Contemporaneamente tutto il mondo chiedeva consigli alla
Germania dell‟Est per le loro tecniche per “coprire” l‟assunzione di doping negli
atleti di alto livello. Attualmente, dopo praticamente sessant‟anni, il doping è
diventato un fenomeno universale e plurilaterale: tutti sanno ma pochi dicono, ma
intanto lo sport di volta in volta piange i suoi morti. Pochi sono i nomi famosi come
quello di Pantani, ma molti, se non moltissimi, sono gli sconosciuti che perdono la
salute e anche la vita per colpa di abusi che ancora troppo spesso vengono considerati
privi di reale pericolosità.
5.4
Il ruolo della società
Doping sportivo e aspetti sociali del doping sono due facce di un problema che
può e deve essere affrontato parallelamente. Infatti, se nel doping sportivo di alto
livello si possono rintracciare i grandi interessi economici e politici dello spettacolo
che spingono gli atleti all‟abuso di sostanze, nelle società moderne è possibile
rintracciare una ferma spinta culturale al doping dovuta all‟enfatizzazione di modelli
estetici e sociali.
Il fenomeno doping è un problema che riguarda tutta la società, o meglio
ancora il doping è un vero e proprio fenomeno sociale. Un fenomeno complesso che
porta con sé dei costi economici e sociali non indifferenti, e che porta la società ad
essere malata di successo e carente di valori. Sì, nella nostra società moderna il culto
del successo, di modelli estetici che premiano la figura vincente, efficiente e sicura,
porta all‟uso di sostanze stimolanti: uso che si fa sempre più massiccio e che riguarda
fasce d‟età sempre inferiori.
I giovani hanno bisogno di punti di riferimento, di modelli educativi a cui
ispirarsi e, perché no, di miti, ossia di personaggi che in qualche modo possano far
sognare chi si sta preparando “a diventare grande” e che possano essere d‟esempio.
Lo sport ha da sempre offerto figure mitiche che potevano
88
interpretare questi ruoli: questo uno dei tanti punti fermi su cui la società
moderna intendeva basarsi. Ma è proprio qui che entra in ballo l‟ombra del doping,
arma distruttiva per lo sport in primis ma soprattutto per la società in generale. Il
mondo odierno è sempre più mito di pochi momenti, intensamente celebrato ma
rapidamente dimenticato e purtroppo ad ogni grandissima prestazione sportiva si
accompagna sempre più spesso il veleno del sospetto, il dubbio che sminuisce il
sentimento e il valore di quel momento di entusiasmo.
Tutte le società occidentali si trovano coinvolte nel fenomeno ed il problema
non si presenta di facile soluzione, lo dimostrano i continui allarmi lanciati
dall‟O.N.U. sulla crescita costante dei consumatori abituali che in occidente superano
ormai i 14 milioni di unità, se poi si contano i consumatori occasionali e si
aggiungono quelli che si rifugiano nell‟oppio, nell‟eroina, nelle amfetamina, nel
crack e nell‟ecstasy, allora le cifre aumentano vertiginosamente. Questa dipendenza
ha un costo sociale non indifferente poiché lo stato, di fronte ad una tale emergenza,
si trova a mettere in efficienza enti sanitari e comunità di sostegno/recupero, che
comportano un‟enorme dispendio di denaro pubblico che potrebbe invece essere
utilizzato per un migliore sviluppo della società stessa.
Ma la società in tutto ciò non rimane certo immune da colpe, è infatti proprio
da essa che il tutto prese il via: citando la storia del fenomeno doping, ricordiamo che
nei primi anni ‟90 il fenomeno si spinse a livelli estremi, al punto che moltissimi
sportivi improvvisati, come i ciclisti della domenica, volendo strabiliare amici e
parenti, facevano consumo regolare di ormoni e di altre sostanze dopanti, spinti
proprio dalle mode della società. La società da sempre attribuisce allo sport un ruolo
che va ben oltre la semplice prassi agonistica, bensì di strumento educativo e
formativo per ogni individuo facente parte della società; ma attribuirgli tale ruolo non
è sufficiente, tale mondo deve essere tutelato dalla società, e ad oggi risanato per il
bene della società stessa.
89
5.5
Il ruolo dei mass media
Lo sport è sempre stato un elemento importante nei palinsesti delle reti
radiotelevisive, ma dalla fine degli anni ‟60 la relazione tra mass media e sport ha
cominciato a trasformarsi da un considerevole beneficio ad un‟autentica simbiosi:
senza i mass media lo sport quasi non avrebbe valore, e senza lo sport i mass media
avrebbero certamente meno importanza nel contesto sociale. Tale trasformazione è in
gran parte risultato delle avanzate innovazioni tecnologiche (lo sviluppo dei satelliti
geostazionari e la possibilità di trasmettere dal vivo eventi sportivi dall‟estero), ma
influenzata anche da una efficace operazione di marketing.6 I mass media grazie a
questa stretta relazione con lo sport hanno assunto un ruolo quasi indispensabile nel
mondo sportivo, nel bene e nel male. Al giorno d‟oggi, non esiste infatti società,
magnate o politico che detenga più potere dei mass media, i quali grazie al loro
“parlare con la gente” tutti i giorni, a tutte le ore, in ogni luogo e soprattutto di
qualsiasi argomento posseggono il potere assoluto. La libertà di informazione, arma
dei mass media, è stata una grande conquista civile e democratica, e storicamente
forse la nostra salvezza, eppure rappresenta anche un‟arma a doppio taglio se usata in
maniera ambigua e scorretta. La responsabilità di comunicare oggettivamente ed in
modo imparziale le notizie, per quanto la società ci insegna, dovrebbe essere proprio
di ogni singolo individuo ma in primis dei mass media. Purtroppo non è così. Spesso
e volentieri i fatti riportati dalle reti radiotelevisive risultano modificati, falsati o
addirittura inventati.
E l‟informazione sportiva e soprattutto quella sanitaria spesso ne divengono
vittime.
Lo straordinario giro di soldi nello sport dei paesi ricchi e sviluppati, e
l‟assenza delle più elementari infrastrutture sportive tra la maggior parte dei popoli
del mondo, hanno conseguenze sulla politica del doping e dell‟antidoping. Nei paesi
industrializzati ( Italia compresa ), all‟interno delle federazioni sportive, dei club e
degli atleti stessi, il timore della sconfitta e magari della conseguente perdita di
sponsor pubblicizzati ed acclamati a gran voce dai mass media, impone un‟enorme
90
pressione su atleti, preparatori e manager, a tal punto da spingere anche il più corretto
dei campioni ad utilizzare qualunque mezzo per mantenere alto e imbattibile il
proprio livello di successo. I mezzi di comunicazione per fatti veri ( o presunti )
finiscono quindi per influenzare negativamente il giovane atleta sulla falsa
convinzione dell‟infallibilità e dell‟assoluta necessità del ricorso al prodotto
farmaceutico proibito per raggiungere alti livelli di prestazione. Ma gli interessi
economici in gioco sono altissimi, e così, come la storia del fenomeno doping ci
ricorda, spesso le notizie più scomode vengono taciute, gli scandali insabbiati e i
testimoni comprati. Detto questo, i mass media allora proteggono il doping?
Decisamente no! Se ad oggi si è giunti ad una capillare diffusione di notizie in merito
al fenomeno doping sin dalle categorie più insospettabili7, gran parte del “merito” e
responsabilità spettano proprio ai mass media, coloro i quali nel corso degli anni
hanno ricercato, analizzato e approfondito il problema e lo hanno poi giustamente
proposto all‟opinione pubblica.
_______________________________
6
Un efficace operazione per la quale lo sport internazionale, in particolar modo lo Olimpiadi, che è una chiara risposta
ai conflitti nazionali o ideologici.
7
Nella categorie giovanili e persino negli amatori.
91
5.6
Le spinte motivazionali al doping
Perché un atleta inizia a fare uso di sostanze dopanti? Perché un allenatore
permette che uno dei suoi giovani atleti faccia uso di sostanze proibite? Perché un
campione affermato si riduce all‟utilizzo di prodotti farmaceutici dopanti? Se ci fosse
una risposta corretta ad ognuna di queste domande, forse oggi non sarei qui a scrivere
una tesi sul doping. Sono tanti gli studiosi, gli psicologi e i medici che da anni
studiano il fenomeno del doping. Sono tante le ipotesi e le supposizioni in merito alle
reali spinte motivazionali che portano l‟individuo al doping.
Studi statistici molto interessanti si sono appunto occupati di scoprire quale sia
la matrice psicologica che induce all‟assunzione sconsiderata di farmaci. Tanti i casi
presi in considerazione, numerose le variabili, limitati i risultati. Si tratta insomma di
individuare quali siano, se realmente esistono, i presupposti psicologici che
concorrono a deviare uno sportivo
verso la pratica del doping. Tali studi intendono tracciare il più affidabili
profilo paradigmatico dell‟individuo che, per peculiarità caratteriali, status sociale,
motivazioni ambientali e/o fisica, si possa considerare plasmabile dagli stimoli del
doping.
Il risultato unanime degli studi statistici effettuati nel corso degli ultimi anni
hanno rilevato due principali fattori caratterizzanti il tipico individuo “affetto da
doping”: la necessità di raggiungere un determinato successo economico ed
un‟elevata gloria personale all‟interno delle società, e una sfrenata voglia di
perfezione fisica e un elevato desiderio di essere i migliori.
5.7
Successo economico e gloria personale
Studi statistici si sono occupati di scoprire quale sia la matrice psicologica che
induce all‟assunzione sconsiderata di farmaci con lo scopo di riuscire a tracciare il
profilo paradigmatico dell‟ individuo che, per peculiarità caratteriali, status sociale,
ragioni ambientali o per qualsiasi elemento distintivo, si possa ritenere selettivamente
plasmabile dagli allettamenti del doping. In base a tali studi e ad accurate ricerche,
92
gli studiosi hanno cercato di individuare quali siano, se realmente esistono, i
presupposti psicologici che concorrono a deviare uno sportivo verso la pratica del
doping. Da tali studi è emerso che una delle principali cause di ricorso al doping è
l'esasperazione agonistica, che non riguarda solo lo sport, ma anche, e
principalmente, la dimensione dell‟impresa. Il fatto che oggi lo sport sia diventato
una forma di business può costituire l'indizio di un danno effettivo alla pratica
sportiva, ma certamente non può rappresentare un alibi per violare i regolamenti della
legislazione sportiva, per inquinare il mondo dello sport e tanto meno per mettere a
rischio la propria salute. In ogni modo la dimensione economica dello sport è
divenuta una dimensione d‟impresa e, sicuramente, la ricerca del raggiungimento e
del superamento di un limite agonistico sempre più esasperato ed esasperante è legata
anche a questo. Contratti di sponsorizzazione per milioni di euro per una minoranza
di atleti e di atlete dell‟élite sportiva non sono più una rarità, anzi sono divenuti quasi
un obbligo. Un esempio su tutti: le società di calcio che sono in grado di negoziare
sponsorizzazioni lucrose persino dinanzi alle offerte delle aziende più grandi. Ma al
di là di tutto questo, vi sono dei traguardi che l'atleta vuole raggiungere a prescindere
dal significato del denaro: la grossa necessità di raggiungere la soddisfazione
personale di un trionfo, l‟affermazione di sé stessi e la conquista di un sogno,
rappresentano straordinarie emozioni che il denaro non è in grado di garantire e tanto
meno di regalare. Innegabilmente però, esiste un legame molto stretto tra vittorie e
soldi, tra successo sportivo e risalita economica, anche se non in tutti gli sport è
valido tale discorso, si parla infatti sempre di “sport ricchi” (vedi il calcio) e di “sport
poveri” (vedi il pattinaggio corsa): quelli “minori o poveri” sono ancora ossigenati
dalla pura passione, dalla voglia di divertirsi e dall‟esigenza di stare in compagnia
facendo sport, anche se la ricerca del risultato rimane comunque l‟imperativo da
seguire. Oggi l'eventuale ricorso al doping è senz'altro legato al desiderio di
raggiungere un risultato immediatamente. Anche solo quello di apparire forti agli
occhi degli altri, conformi ai canoni della società. Nella migliore delle ipotesi questo
risultato risponde al soddisfacimento della voglia di essere, di sentirsi alla pari con gli
93
altri. La tendenza al successo economico e la gloria personale è una prerogativa
partorita e imposta dalla stessa società moderna, nella quale il modello più seguito dai
giovani è indubbiamente quello dello sportivo “campione”, ricco e famoso. Questo
non può che portarci alla conclusione che una delle principali cause del fenomeno del
doping si ritrova proprio in una spasmodica corsa verso il successo e in una pesante
perdita dei valori sociali.
5.8
Voglia di perfezione
Dagli studi statistici effettuati nel corso degli anni, citati nel precedente
sottoparagrafo, è emerso che un‟altra delle principali cause che spinge un‟atleta a fare
uso di sostanze dopanti è proprio la voglia di perfezione, principalmente dal punto di
vista fisico. L‟attuale stigmatizzazione della grassezza, da parte della società
moderna, è di frequente considerata la causa radicale dei disordini alimentari, come
l‟anoressia nervosa, e responsabile della crescita di ossessioni legate alla forma fisica.
La cultura occidentale associa infatti il corpo grasso alla indisciplina e alla
indulgenza; viceversa, il corpo magro è simbolo di ascetismo e di autocontrollo.
Essere magri e in forma è un modo di dimostrare pubblicamente il proprio diritto ad
avere una posizione nella società moderna, e il fatto di indossare abbigliamento
sportivo in contesti non sportivi è un altro modo di dimostrare le proprie credenziali
di essere membro del mondo d‟oggi. Anche se l‟analisi femminista è criticabile,
viene generalmente accettato il fatto che nella cultura contemporanea l‟immagine del
corpo femminile così come costruita dagli uomini, in un clima di narcisismo e di più
generale idealizzazione del corpo femminile, abbia contribuito ad alimentare la
crescita della partecipazione nelle attività legate alla forma fisica (vedi il boom della
pratica del fitness negli ultimi anni). E questo è motivato molto più dall‟incapacità di
essere altezza delle “regole” della cultura contemporanea, e molto meno dal desiderio
di potenziare e di costruire l‟autostima o dal desiderio di essere in forma per praticare
uno sport. Per i comuni individui, lo sviluppo di un fisico idealizzato è un‟espressione
di potenza e autostima in una società che, da una parte, ha dato priorità economica e
politica all‟individuo sulla società, ma che, dall‟altra parte, sembra in fase di
94
crescente abbandono dei valori individualistici. Quindi, per un considerevole e
sempre più crescente numero di giovani la via verso la desiderata forma fisica implica
non solamente le ore trascorse sugli attrezzi in palestra, ma anche l‟uso di steroidi
anabolizzanti per la voglia esasperata di raggiungere la perfezione. L‟emergere di
coloro che abusano di steroidi, che assumono droghe per vanità e autostima piuttosto
che per esaltare l‟abilità nelle competizioni, può essere considerato come ulteriore
conseguenza dell‟estensione dell‟abuso di droghe nello sport; tuttavia, è necessario
considerare il problema nel contesto di una società sempre più farmaco-dipendente.
Oggi infatti l‟uso di integratori dietetici e di vitamine è di routine, e la volontà di
atleti e tecnici di sperimentare miscugli erboristici non testati sfida il senso comune,
ma indica anche il desiderio, anzi la disperazione, di molti atleti di trovare uno
strumento che dia loro la capacità di superare gli altri concorrenti. In conclusione, lo
scopo della gran parte degli sportivi agonisti o meno che si riducono a fare uso di
sostanze dopanti è quello di raggiungere la perfezione.
95
Capitolo 6
SPORT E DISABILITÁ
Il logo del progetto “1 ora per i disabili”
Grande sensibilità a questo tema, da parte del Panathlon. Che combatte e lotta
per esportare, anche (e forse soprattutto) in questo caso valori di coesione e
sensibilità al disabile: persona e sportivo come tutti i panathleti. Nello specifico,
impossibile non segnalare il progetto del Panathlon Club Padova “1 ora x i disabili”.
Immenso, come mole di lavoro e di personalità del mondo sportivo e parasportivo
che è stato capace di coinvolgere. Dal punto di vista comunicativo, per quanto
riguarda la promozione e le brochure divulgative, l‟idea è stata quella di scegliere
un‟impostazione grafica sobria, colorata e con uno stile riconoscibile, “attraente”.
“Se guardo indietro, non riesco capacitarmi che siano passati più di sette anni
da quando sono stato coinvolto in questa “cosa” - racconta Mario Torrisi, consigliere
alla disabilità per l‟Area 1 Triveneto -. “Cosa” perché all‟inizio non capivo ed ero
spaventato d‟ aver accettato d‟entrare in questo mondo che non conoscevo e che
sinceramente mi faceva anche un po‟ paura.
Questa “cosa” è il mondo della disabilità, dei ragazzi con difficoltà, con lo
sport più difficile da fare e da capire. Ho faticato a capire ma oggi non potrei più
staccarmi. Bisogna aver conosciuto questo mondo meraviglioso per poter
96
comprendere e far si che tante persone lo possano capire. Un giorno Fabio ed io
abbiamo ideato un nome: “1 Ora x i Disabili”, nome che potesse con la sua diffusione
diventare un simbolo all‟eliminazione delle barriere che sono attorno ai disabili.
Barriere, non solo architettoniche, che sono più facili da smantellare, ma
barriere mentali che ci condizionano ancora. E‟ inutile negarlo - prosegue Torrisi -,
queste barriere esistono, infatti troppo spesso leggiamo o vediamo alle televisione atti
di aggressione, di bullismo, di violenze nei confronti dei ragazzi disabili. Questi
episodi sono nella maggioranza dei casi legati all‟ignoranza del problema. Io stesso
ricordo, nella mia infanzia, che purtroppo mia nonna e le nonne dei miei compagni,
alla vista di una persona disabile, ci allontanava e ci diceva di non guardare perché:
“è una persona malata e diversa”.
Per fortuna questi atteggiamenti sono cambiati, oggi non si assiste più a casi
come questi o perlomeno ci si augura non debbano esistere più. Ma se i gravi episodi
sono, per fortuna rari, ogni giorno vediamo innumerevoli altri episodi che sono
egualmente inqualificabili. Uno su tutti: i parcheggi. Molto spesso vediamo signori e
signore parcheggiare con tranquillità e disinvoltura nelle aree destinate ai disabili e
reagire con veemenza e insofferenza a chi fa loro rimarcare la totale insensibilità a
questo problema. Altre barriere sono a volte “i servizi”: qualche anno fa, mi capitava
di invitare per un caffè, un aperitivo o una pizza un ragazzo in carrozzina e spesso mi
sentivo respingere l‟invito. Poi ho capito - chiosa il consigliere -: in molti locali i
servizi non sono attrezzati per loro e per timore di essere in difficoltà l‟invito non
veniva accettato. Non c‟è sufficiente coltura e si fa troppo poco per migliorare la
situazione. Ed allora “1 Ora x i disabili” per cercare di spiegare (non vogliamo dire
educare) ai giovani queste cose e i risultati incoraggianti ci sono, si vedono e si
toccano. Sono testimoni i vari scritti degli studenti e degli insegnanti che appaiono in
questa pubblicazione e in quelle precedenti. Vale ricordare la lettera che la 2°G della
Scuola Media di Cartura, che ha scritto al Sindaco per una rampa all‟ingresso della
palestra. Nel Terzo Millennio non dovrebbero più esistere luoghi non accessibili a
tutti e tutti dovrebbero essere considerati e trattati con dignità”.
97
6.1
Il progetto “1 ora x i disabili”
Progetto elaborato dal Panathlon di Padova ed approvato dalla Conferenza
Internazionale di Basilea e realizzato con la collaborazione ed il sostegno
dell‟Amministrazione della Provincia di Padova attraverso l‟Assessorato allo Sport.
Finalità: portare a conoscenza degli studenti di ogni ordine e grado quelle che
sono le implicazioni di un fenomeno sociale presente nella società e di sempre
maggiore attualità: implicazioni e conseguenze dal punto di vista fisico, psicologico,
sociale, dell‟integrazione e della prevenzione.
Destinatari: tutti gli Istituti di Padova e Provincia, previa approvazione e
disponibilità dei Signori Dirigenti e Insegnanti.
Contenuto: portare nei vari Istituti una corretta informazione circa la
“disabilità” sia motoria, sensoriale e psichica, cause, prevenzione, possibilità di
miglioramento soprattutto attraverso una corretta pratica sportiva.
Svolgimento: nel corso dell‟anno scolastico 2008/2009, poter tenere delle
conferenze/dibattiti, dimostrazioni pratiche, proiezioni di filmati tenuti da membri del
Panathlon International particolarmente preparati.
Durata: nella mattinata prescelta, circa 3 ore, con possibilità di concentrare più
classi nell‟Aula Magna, sempre alla presenza dei Signori Insegnanti ed in palestra per
le dimostrazioni pratiche. Per una migliore riuscita: per conferenze, dibattiti,
proiezioni il numero dei partecipanti è illimitato; per dimostrazioni pratiche minimo
50 partecipanti.
Presentazione: La Provincia di Padova, seguendo con particolare attenzione le
problematiche e le tematiche delle persone diversamente abili, ha avviato un rapporto
di collaborazione con il Panathlon International Club di Padova per la realizzazione
del progetto "Un‟ora per i disabili".
L‟iniziativa, già avviata da qualche anno, ha trovato consenso e gradimento da
parte del mondo della scuola; ciò sta a significare che c‟è sensibilità e desiderio di
98
conoscere da vicino le difficoltà e le problematiche che la persona diversamente abile
incontra nella realtà quotidiana in particolare se intende praticare uno sport. Il
messaggio che si vuole trasmettere con “Un‟ora per i disabili” è che per capire
bisogna conoscere e per conoscere bisogna provare.
Obiettivi: Sensibilizzare gli studenti sulle problematiche riguardanti il mondo
dei disabili e l‟aiuto che ad essi offre la pratica sportiva, perché lo sport è l‟unica
realtà che non crea distinzioni fra chi lo pratica. Comprendere il disagio psicofisico e
sociale derivante dalla condizione di essere “portatore di handicap” e che tale
situazione può essere superata mediante l‟acquisizione di una cultura del “diverso”.
Modalità attuative: 1) Una fase teorica di illustrazione (anche con supporto di filmati)
sulle motivazioni e sulle potenzialità che avvicinano il diversamente abile a svolgere
una pratica sportiva, anche con testimonianze di atleti disabili in carrozzella e
testimonial sportivi paraolimpici. 2) Una fase pratica dove gli studenti possono
sperimentare – utilizzando idonei supporti (carrozzine e altre attrezzature), al fine di
provare direttamente a praticare sport in condizioni di svantaggio fisico.
Risultati attesi: Promuovere la pratica sportiva dei disabili e creare nei giovani,
attraverso lo sport, una cultura ai valori civili e sociali
99
Gli 11 punti della “Carta dei Diritti del Bambino nello Sport”
Una locandina durante il progetto
100
Enrico Prandi
Presidente Panathlon International
“Anche quest‟anno saluto con grande soddisfazione il progetto “1 ora per i
disabili”, ideato dal Panathlon Club di Padova con la collaborazione della Provincia,
che si svolgerà fra gli studenti nel biennio scolastico 2009-2010. Un‟iniziativa che è
diventata un appuntamento e che noi tutti aspettiamo.
C‟è un proverbio che recita, pressappoco “ognuno raccoglie quello che
semina”. Il Panathlon Club di Padova, incoraggiato dalle idee e dall‟entusiasmo di
Fabio Presca, sulle cui orme continuano a lavorare altri amici panathleti, ha seminato
bene, continua a seminare e i frutti arrivano, eccome…
Leggo che nell‟anno 2007-2008 ben 4749 studenti hanno partecipato al
progetto con oltre 300 ore di presenza di panathleti nelle scuole e con la
partecipazione di 48 testimonial. Vedo l‟adesione di altri panathlon all‟iniziativa, che
vanno da Adria a Genova Levante, da Venezia/Mestre, a Vicenza e Verona; di altri
progetti simili a questo, che hanno avuto realizzazione in altri Paesi in Europa.
Questi sono risultati davvero importanti sia per il Panathlon Club di Padova
che per tutto il mondo panathletico. Fra le nostre finalità infatti, lo Statuto indica
l‟attuazione di forme concrete di partecipazione e l‟impegno ad incentivare e a
sostenere le attività a favore dei disabili. Non a caso proprio quest‟anno il Panathlon
International premia con il suo più prestigioso riconoscimento quadriennale, il
Flambeau d‟Or, una personalità sportiva che ha fatto della diversità la sua bandiera:
Oscar Pistorius, campione paraolimpico nel 2004 in diverse specialità.
101
Concludo questo mio saluto citando testualmente una frase lasciata da una
studentessa sull‟opuscolo “1 orax i Disabili” anno 2008-2009, che ben riassume il
concetto di disabilità: “in fondo non siamo poi diversi, solo differenti”. Noi crediamo,
ed abbiamo la profonda convinzione che la diversità non debba essere vista come
“mancanza” ma come “valore aggiunto” e che grazie alla diffusione della pratica e
della cultura sportiva debba diventare fonte di ricchezza e crescita umana”.
Massimo Rosa
Governatore Area 1 Triveneto
“Pochi mesi or sono ho incontrato il presidente del Comitato Paralimpico
Italiano, Luca Pancalli, una persona davvero squisita ed attenta a ciò che il suo
interlocutore gli racconta, ma non attenta per obbligatorietà, come lo fanno
abitualmente i politici o tutti coloro che occupano una qualsiasi poltrona.
No, qui si è in presenza di una persona sensibile ai problemi che toccano la
nostra umanità, in questo caso quella a cui la vita ha compromesso la salute e di
conseguenza la vita.
Al presidente Pancalli ho raccontato della collaudata “1 Ora x i Disabili”, nata
in quella Padova panathletica che fa della cultura la sua miglior carta vincente, grazie
ad una politica perseguita, con scrupolosa metodicità, dal suo presidente Renato
Zanovello.
102
E che di questo progetto padovano il Panathlon Area 1 Triveneto ne ha fatto
una bandiera, una bandiera che viene portata avanti giorno per giorno da Mario
Torrisi, il nostro consigliere alla Disabilità, con grande entusiasmo, bravo a
raccogliere il testimone dell‟indimenticato Fabio Presca ed a diffonderlo. I tempi
sono ormai maturi a che il Panathlon divenga un interlocutore quotidiano delle
istituzione sportive italiane che, per avere quel posto che gli spetta, deve passare
necessariamente attraverso il loro riconoscimento, soprattutto perché il nostro
Movimento ha nel proprio pedigrée l‟importante imprimatur del Cio. Anche di questo
si è parlato a Roma, cioè di questo riconoscimento da parte del Comitato Paralimpico
Italiano, ed a sollecitarlo è stato proprio il presidente Pancalli, con mia grande
soddisfazione. Naturalmente ho colto l‟occasione ed ho trasmesso il messaggio al
Distretto Italia.
Nel frattempo è stato presentato, da parte dell‟Area 1 Triveneto, una bozza di
Protocollo d‟intesa al Comitato Paralimpico Italiano, d‟accordo con il presidente
Pancalli, e lo stesso è stato inviato al Panathlon International su richiesta del
presidente Enrico Prandi, il quale sta trattando a livello internazionale. Un 2009
caratterizzato dal necessario entusiasmo e dinamismo, che vuole, ancora una volta, il
“Panathlon Area 1 Triveneto” attore a livello nazionale su un tema, quello della
disabilità, di primaria importanza, ed ancora una volta grazie al progetto “1 Ora per i
Disabili”.
103
Gianfranco Bardelle
Presidente Coni Veneto
“Il coinvolgimento del mondo scolastico in questa lodevole iniziativa, è
senz'altro una "mossa azzeccata"; infatti, prima ci si confronta con i problemi che
quotidianamente i disabili devono affrontare e vincere, prima si plasma una
"coscienza civile" predisposta alla comprensione ed alla solidarietà! Ma soprattutto al
rispetto di quanti, pur avendo gli stessi doveri nella Società, a volte non possono
godere di "eguali diritti".
Plaudo quindi convinto all'iniziativa "1 ora x i disabili" e ringrazio il Panathlon
Patavino che la promuove unitamente a quanti la sostengono e con convinzione ne
condividono valori ed obiettivi”.
104
Luca Pancalli
Presidente Comitato Paralimpico Italiano
“Cultura della normalità: è questo il messaggio che il Panathlon va diffondendo
ormai da anni tra i ragazzi degli Istituti Scolastici attraverso il progetto “1 Ora x i
Disabili”. Un‟iniziativa volta a sensibilizzare le giovani generazioni sul tema della
disabilità e dell‟integrazione sociale ed un progetto che abbraccio con forza, perché
ritengo sia necessario dare sempre maggior concretezza a concetti quali il rispetto
verso il prossimo ed il diritto ad una pratica sportiva che sia di tutti e per tutti e che
non faccia alcuna differenza.
“1 Ora x i Disabili” dà ai ragazzi l‟opportunità di conoscere un mondo che
molto spesso ignorano, fornendogli, allo stesso tempo, gli strumenti per capire che lo
sport è uno straordinario veicolo di unione e inclusione sociale e che la fatica,
l‟agonismo, la passione e lo spirito di sacrificio sono elementi che appartengono ad
ogni atleta, sia esso disabile o normodotato.
Allo stesso tempo tende ad incoraggiare la pratica sportiva tra i ragazzi disabili
in età scolastica, illustrando i benefici derivanti da un‟attività fisica che funga, in
primo luogo, da stimolo per il superamento dei propri limiti e per il raggiungimento
di traguardi importanti, tanto in un campo di gara così come nella vita”.
105
6.2
Il parere medico: Maria Emanuela Mometto e Maurizio Schiavon, U.O.
Centro di medicina dello sport ed attività motorie, dipartimento socio-sanitario
ai Colli, Area Sanitaria, Azienda Ulss 16 Padova.
Lo sport come terapia, come trampolino, come fune alla quale aggrapparsi e
tirare tutto se stesso, con la forza di braccia che hanno da dire molto, con il
linguaggio del silenzio d‟atleta. Quello che parla con il sudore, con i risultati. I pareri
medici confermano come lo sport, anche in particolari patologia, possa rappresentare
quasi una cura, soprattutto per l‟anima.
“Le tipologie di disabilità che presentano i ragazzi inseriti nelle Società
Sportive che praticano sport a livello agonistico sono soprattutto di tipo congenito,
cioè già presenti alla nascita o che si manifestano in epoca neonatale, a differenza
dello sport degli adulti dove le tipologie di disabilità sono soprattutto di tipo
acquisito. Le disabilità maggiormente rappresentate che arrivano all‟osservazione del
Medico dello Sport sono la paralisi cerebrale infantile e la spina bifida assieme ad
altre patologie di più raro riscontro. Seguendo nel tempo questi atleti si è visto come
la pratica sportiva, oltre che ai consolidati e riconosciuti aspetti benefici sia a livello
fisico che psicologico, permetta di far acquisire loro il maggior grado di indipendenza
funzionale e come solo l‟allenamento praticato in modo costante possa trasformare un
ragazzo disabile in un atleta d‟elite raggiungendo risultati riconosciuti sia a livello
nazionale che
internazionale.
In
entrambe
le patologie
è presente
una
compromissione dell‟apparato muscolo-scheletrico, con un‟ampia variabilità di
manifestazioni a seconda che siano colpiti uno o più arti o una metà del corpo.
La spina bifida, ad esempio, è una malformazione congenita del midollo
spinale dovuta alla mancata chiusura del tubo neurale durante il primo mese di vita
intrauterina. Si tratta di una delle anomalie congenite più frequenti: colpisce circa
1/1500 neonati. In questa patologia, a causa della mancata saldatura degli archi
posteriori delle vertebre, si può avere erniazione (fuoruscita, esposizione verso
l‟esterno) del tessuto midollare spinale detta mielocele, delle meningi, detta
meningocele, o di entrambi detta mielomeningocele, che spesso sono ricoperti solo
106
dalla cute o da un‟esile membrana. L‟erniazione si verifica più frequentemente nella
parte lombare o cervicale della spina dorsale.
I danni causati dalla spina bifida sono quindi molto variabili. Nei casi più
gravi, il midollo spinale fuoriesce dalla colonna vertebrale per alcuni centimetri,
causando la propria lesione e quella delle terminazioni nervose ad essa collegate. E‟
la localizzazione di tale lesione che determina in gran parte la gravità dei sintomi, che
possono variare da disturbi motori agli arti inferiori, fino ad arrivare alla paraparesi
(perdita della sensibilità e di parte del movimento degli arti inferiori) o paraplegia
(perdita completa di sensibilità e di movimento degli arti inferiori). Altri problemi
possono riguardare, invece, i nervi della vescica e degli sfinteri e causare
complicazioni infettive dell‟apparato urinario e situazioni di incontinenza. Otto
bambini su dieci, che nascono con la spina bifida, presentano anche idrocefalo (dalla
parola greca hydro = acqua, cephale = testa), cioè l‟accumulo del liquido
cerebrospinale all‟interno del cervello, per uno squilibrio tra produzione e drenaggio
del liquido stesso; uno dei pericoli, in questo caso è rappresentato dalle infezioni a
carico del sistema nervoso (meningiti e infezioni cerebrali). In genere la spina bifida
non colpisce le facoltà mentali, anche se ad essere presenti sono i problemi
psicologici legati alla malattia, come scarsa autostima e difficoltà di relazione.
Con questi atleti il lavoro principale deve essere mirato al miglioramento delle
doti di coordinazione neuro-motoria che, si è visto, permette in tempi brevi benefici
anche vistosi della postura; le masse muscolari, stimolate simmetricamente, andranno
a sostenere in maniera adeguata strutture scheletriche ancora fragili e in evoluzione.
Considerato che lo sviluppo della coordinazione del movimento e la capacità di
apprendere gesti motori dipende in gran parte dal sistema nervoso centrale, si può
facilmente intuire come il miglioramento della destrezza e della velocità non sia così
semplice per gli atleti affetti da spina bifida proprio perché il loro problema deriva da
una malformazione del sistema nervoso centrale. Ad avere il massimo beneficio da
un percorso di allenamento sportivo, invece, è la mobilità articolare, intesa come la
capacità di compiere movimenti di grande escursione, perché anche se il tronco e gli
107
arti superiori non presentano particolari disabilità, il ritardo psicomotorio tende a
coinvolgere un po‟ tutti gli apparati. Massimo beneficio anche per l‟apparato
muscolare, all‟inizio del percorso motorio quasi sempre ipotrofico (poco sviluppato),
che acquista tonicità di pari passo con lo sviluppo scheletrico. In linea di massima,
per entrambe queste disabilità, le tappe del processo di allenamento sono da
interpretare come diversi momenti di attività motoria, che devono sfumare l‟uno
nell‟altro, senza che in ciascuno di essi si possa intravedere un vero inizio e una vera
fine.
Queste tappe si possono così sintetizzare:
1- La tappa iniziale di educazione motoria, del gioco e del gioco sport
2- La tappa della formazione di base
3- La tappa dell‟allenamento specifico
4- La tappa dell‟allenamento di elevato livello.
In base alla nostra esperienza, ci siamo resi conto che l‟aspetto “disabilita”
deve essere considerato nelle fasi iniziali dell‟inserimento e dell‟allenamento fisico
globale, indirizzato a migliorare le abilità motorie deficitarie; e tale concetto va
considerato anche all‟interno di ogni singola seduta di allenamento, inserendo
gradatamente un aumento dei carichi di lavoro in base ai miglioramenti ottenuti. Nel
momento però in cui questi atleti si avvicinano all‟allenamento specifico per l‟attività
agonistica, questo deve essere condotto in maniera perfettamente uguale ad un atleta
normodotato, lasciando al singolo la migliore espressione delle proprie abilità
motorie residue. E‟ proprio nello sport agonistico quindi che la disabilità sfuma,
lasciando il posto all‟uguaglianza tra atleta disabile e atleta normodotato nel
raggiungimento dei rispettivi livelli di vertice.
E‟ proprio attraverso lo sport che i limiti obbligati da una malattia congenita
possono trasformarsi in un‟opportunità, per migliorare la propria salute e per
misurarsi con gli altri
108
Interventi per il progetto “1 ora x i disabili”
109
6.3
I commenti di studenti e professori
“Egregio Signor Sindaco,
vorremo esporle un problema verificatosi il 20/01/2009, Nicola, atleta
paraplegico non è riuscito ad accedere direttamente alla palestra della scuola media
attraverso l’ingresso ovest, per la mancanza di una rampa peri disabili. Nicola fa
parte del Panathlon International, un’ associazione che si occupa dei problemi dei
disabili e con cui abbiamo organizzato un incontro la settimana scorsa.
Abbiamo trascorso una giornata molto significativa in quanto abbiamo
compreso meglio la vita delle persone con disabilità fisiche. Siamo stati molto
sorpresi nel vedere come queste persone sorridono alla vita, anche se magari hanno
determinati problemi. Successivamente noi stessi abbiamo provato ad essere delle
persone disabili grazie a vari giochi e percorsi organizzati da collaboratori e membri
di “un’ ora per i disabili”. Vorremmo che Nicola e tutte le persone con delle
disabilità possano accedere alla palestra per assistere a una partita di calcetto, di
pallavolo e di basket. Lei ha la possibilità di aiutare queste persone e siamo certi che
Lei lo farà. Alleghiamo foto dell’accesso in questione e la raccolta delle firme degli
alunni che hanno aderito alla proposta. In attesa di una Sua risposta, Le porgiamo i
nostri più cordiali saluti”.
Classe 2^ G
“Anche quest’anno la mattinata trascorsa con voi è stata intensa, divertente e
di alto livello umano e culturale. I miei colleghi e i nostri alunni hanno partecipato
con curiosità, disponibilità ed entusiasmo. Naturalmente desidero continuare la
nostra collaborazione. Vi auguro di essere sempre troppo impegnato in questo
progetto”.
Prof.ssa Anna Di Liddo, Monselice.
110
“L’esperienza con il Panathlon mi ha fatto capire molto dal primo momento
che li ho visti con il sorriso: questo significava molto, ho capito che non bisogna mai
scoraggiarsi e che il mondo non è sempre fatto da brutte cose”.
Mara
“La prima sensazione che ho provato è che ci si sente soli ed emarginati,
perché ti potrebbero prendere in giro e non hai nessun amico. Ho provato anche
tristezza, perché ho pensato che loro vedendo altri ragazzi che possono correre,
saltare e giocare si potrebbero rattristire. Ma, guardando il video delle Paralimpiadi
ho capito che, con tanta forza di volontà, anche i disabili possono fare grandi cose e,
soprattutto possono dimostrare di avere un cuore più grande del nostro per provare
le stesse emozioni. Nel video abbiamo visto che sono circondati da amici che li
considerano normali, perché questo è il vero significato del’amore. Riflessione - Per
insulsi incidenti… persone come noi diventano disabili. Sì! Proprio per insulsi
incidenti persone perdono un braccio, perdono le gambe, perdono la vista, perdono
la memoria e volte perdono la cosa più importante…. LA VITA !!!!
Purtroppo però bisogna dire che alcune persone sono disabili già dalla
nascita. Con il progetto “1 Ora x i Disabili” ho capito molte cose, tra cui che la vita
dei disabili è molto più complicata della nostra. Per esempio, nello sport, soprattutto
nella pallacanestro loro non salteranno, ma in quella carrozzina seduti devono
riuscire a lanciare la palla con le braccia. Io al solo pensiero che al mondo esistono
persone che la loro sensibilità è uguale a zero e che prendono in giro i disabili, mi
riempio di rabbia. Io però voglio dare coraggio a queste persone e prometto che mi
impegnerò a rispettare e far rispettare queste persone.
Considerazioni sul progetto - Questo progetto realizzato con la scuola, mi fa
riflettere su quanto è difficile per le persone disabili potersi spostare per godersi la
città in cui abitano, sia con una carrozzina per i molti ostacoli che si possono trovare
nel cammino, sia anche per le persone non vedenti; per loro un piccolo ostacolo è
111
come superare una montagna non sapendo mai bene dove si trovano. E anche lo
sport per loro non è facile come sembra: infatti, giocare a pallacanestro con la
carrozzina bisogna essere molto coordinati con le braccia, perché con quelle devi
tenere al palla e anche muovere la carrozzina. Ho pensato ai loro stati d’animo e
alle sensazioni quando sono in difficoltà e non possono essere autonomi e spero che
in futuro inventino nuove macchine così che anche loro possono condurre una vita
normale. Io che, grazie al progetto, ho potuto provare alcune delle loro attività
quotidiane, posso affermare che la loro vita non è facile e confortevole come la
nostra”.
Matteo
“Solo tre parole: esperienza di Vita”
Tommaso
“Ho capito che essere disabile non vuol dire essere ESCLUSO”
Vitulo
Foto di studenti alle prese con “prove di disabilità”.
112
6.4
Non solo Padova. Il Panathlon, un meccanismo unito
Dopo il successo del progetto “1 ora x i disabili”, anche tutti gli altri club
dell‟Area 1 hanno sposato iniziative simili. Anche questo risultato è senza dubbio da
inquadrare nell‟ottica di un processo comunicativo che, se avesse sfruttato canali
preferenziali e altamente divulgativi (i già citati social network), avrebbe avuto
un‟eco maggiore. Nonostante questo, i risultati ottenuti hanno entusiasmato. Il
Panathlon Club di Verona – Gianni Brera/Università è nato proprio per questo
motivo: far conoscere a tutti, panathleti e non, iniziative e progetti che dovrebbero
essere conosciuti dalla “massa”.
- Panathlon Club - Bassano
Nel 2009 ha patrocinato (collaborando anche con la Società Tennis Bassano
all'organizzazione ed erogando un contributo economico) per il terzo anno
consecutivo, i "Campionati Italiani Assoluti di Tennis in carrozzina", svoltisi a
Bassano dal 10 al 14 giugno (nella serata di gala dell'11 giugno, hanno avuto come
ospite Luca Pancalli, Presidente del Comitato Italiano Paralimpico). Inoltre, il 13
settembre, ha patrocinato (ed anche in questo caso ha collaborato all'organizzazione
dell'iniziativa) la “Brentana in bici” (manifestazione cicloturistica da Bassano a Tezze
di Grigno) alla quale hanno preso parte anche alcuni ragazzi disabili dell'
Associazione Prometeo Onlus alla quale è stato poi erogato il ricavato della
manifestazione stessa.
- Panathlon Club del Garda
Da due anni organizza una gara di “hand-bike” (non competitiva) rivolta ad
atleti non autosufficienti. Si tratta di una specialità paralimpica che quest‟anno si è
disputata il 30 maggio con una nutrita partecipazione di atleti di entrambi i sessi
provenienti da diverse regioni italiane. La gara è organizzata con la preziosa
collaborazione della nostra socia Francesca Porcellato, detentrice di 10 medaglie
d‟oro conquistate con la partecipazione a ben sei Paralimpiadi Il percorso,
chiuso al traffico, si snoda nel centro storico di Peschiera del Garda, la città fortezza,
113
sede del Club Gardesano. Il club solitamente ospita atleti e i loro accompagnatori per
il pernottamento e la serata di gala organizzata per le premiazioni.
- Panathlon Club – Portogruaro-Sandonà
Collabora e supporta da alcuni anni ad una manifestazione che si svolge ogni
estate a Caorle chiamata “Nuotiamo insieme”. La manifestazione promossa dalla
Società Piave Nuoto di San Donà di Piave e dalla Federazione Italiana Nuoto unisce
“disabili” e normodotati in una gara di grande intensità emotiva. Alla manifestazione
che si è tenuta sabato 18 Luglio 2009, hanno partecipato ben 600 atleti provenienti da
tutte le regioni italiane.
- Panathlon Club - Pordenone
Ha partecipato con un gruppo di non vedenti all‟ Edizione 2009 della
manifestazione “Pordenone Pedala”. Il presidente ha consegnato la prestigiosa
“Coppa Panathlon” ad un atleta non vedente. Marinella Ambrosio, socia del Club e
Presidente del Comitato Italiano Paralimpico s‟interessa del progetto “1 ora per i
Disabili” promuovendolo nelle scuole locali.
- Panathlon Club – Trieste-Muggia
Sostiene, assieme al Circolo della Vela – Muggia e l‟ U.S. Triestina Nuoto,
l‟iniziativa di Salvatore Cimmino “Giro d‟ Europa a nuoto” per un mondo senza
barriere e senza frontiere. Salvatore Cimmino è un atleta master paralimpico,
(amputato di una gamba) che da Maggio 2009 ha percorso le seguenti tappe:
Canale della Manica (traversata) Scilla – Cariddi. Stretto di Gibilterra (traversata)
Copenhagen – Malmoe. Capri – Napoli.
“€uromarathon” – la mezza maratona che si è svolta il 20 Settembre tra
Capodistria (Slovenia) a Muggia, ha visto la partecipazione di quattro atleti disabili
Lorenzo Prelec e Vittorio Krismancic (handbike) Carlo Durante e Tullio Frau (nonvedenti), Salvatore Cimmino ha premiato anche il vincitore della gara l‟etiope
Hailegeorgis Dereie. Secondo si è classificato il campione italiano Migidio Bourifa.
114
Un aneddoto sul vincitore: l‟atleta etiope, che ha 24 anni ed è alla sua prima
importante vittoria, gira per Pordenone, ove risiede attualmente, mostrando a tutti la
coppa vinta all‟ “€uromarathon “.
- Panathlon Club - Rovigo
Ricordando una recente iniziativa, in collaborazione con la Fondazione ella
Cassa di Risparmio del Veneto, alla Provincia di Rovigo, la Regione del Veneto,
abbiamo contribuito alla ristrutturazione di una palestra per disabili titolata al
115
compianto Presidente Ricchieri.Continuiamo a fare service, fornendo materiale
necessario per l'attività. Quest'anno inoltre abbiamo contribuito ad aiutare un ciclista
cieco, Marchetti, che assieme al suo accompagnatore, ha fatto una trasferta da Rovigo
a Lourdes in pochi giorni. Abbiamo fra i nostri soci particolari il Presidente sezione
disabili Prof. Badiali, con il quale collaboriamo periodicamente anche per premiare
gli atleti che durante l'anno si sono distinti nelle varie discipline sportive.
- Panathlon Club - Cittadella
Domenica 6 settembre 2009 si è celebrato l‟annuale incontro per i disabili
organizzato tra Centro Sportivo al sole, Cooperativa Fratres di Fontaniva e il
Panathlon Club Cittadella con il patrocinio del Comune di Fontaniva. Con essa si
intende creare una occasione per avvicinare, in un momento di festa, la comunità
locale al mondo della disabilità. Lo sport diviene lo strumento per sensibilizzare la
cittadinanza sul tema dell‟handicap, e ai più “fortunati non portatori”, la possibilità di
riflettere sul valore dello sport, che va ben oltre le competizioni, le classifiche e i
premi. La giornata è stata a suo tempo denominata “Sport Senza Barriere”, è iniziata
alle ore 9,30 con la Messa celebrata da Don Ettore Simioni ed è stata allietata da un
complessino musicale durante la celebrazione, con canti ecclesiastici. Poi squadre
giocatori disabili hanno svolto incontri aperti anche ai presenti con Tennis, Calcetto,
Basket, Pallavolo, Tiro con l‟arco.
- Panathlon Club - Gorizia
Nell‟anno del 50° anniversario dalla Fondazione (7 maggio 2009), ha avviato
una serie di iniziative per diffondere, promuovere e implementare le azioni intraprese
volte ispirare coloro che operano in ambito educativo e nel mondo dello sport. Le
azioni sono state poste in essere nello spirito della Dichiarazione sull‟etica sullo sport
giovanile presentata a Gand nel settembre 2004. L‟intento del Panathlon Club di
Gorizia di realizzare approcci educativi per la prevenzione di comportamenti devianti
nello sport e l‟affermazione dei valori etici, ha determinato lo sviluppo di azioni
territoriali le principali Istituzioni locali come quella scolastica, ma anche con gli Enti
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locali, con il Coni, le Associazioni e le Società sportive, gli Enti di promozione
sportiva, le Aziende sanitarie regionali, ecc... Il Convegno “Etica Sportiva e turismo
accessibile” svoltosi il 7 maggio 2009, ha cercato di porre interrogativi e di dare
possibili risposte al bisogno di valori sempre crescente nella società di oggi riguardo
al tema della disabilità vissuta in una dimensione ludico-sportiva-turistica ed trattato
gli aspetti attuali e di sviluppo della disabilità, espressioni dell‟ attenzione del Club di
Gorizia e del territorio isontino verso il tema. In considerazione del fatto che lo sport
può essere considerato un diritto per tutti i cittadini, lungo tutto l‟arco di vita, si è
voluto a maggior ragione trattare il tema del turismo sportivo come una possibilità
accessibile anche per coloro che possiedono diverse abilità. Uno sport che si
configura, in tal senso, come sport sociale, ovvero sensore delle esigenze esplicite e
implicite dei cittadini, bambini, adulti, anziani, ma anche persone socialmente
bisognose di progetti e interventi specifici, come i disabili, tenendo tuttavia in
considerazione il fatto che una vera integrazione sociale è possibile solo in
un‟accezione positiva che valorizzi la persona umana e se avviene in tutte le
espressioni del vivere sociale, non ultimo il tempo libero ed il turismo.
Un turismo sportivo aperto a tutti, praticato in salute, che sia in grado di offrire
risposte a i bisogni, da quelli primari di movimento a quelli secondari di affiliazione e
di socialità, ma anche servizi adeguati, studi, ricerche, convegni come il presente, che
sostengano i processi decisionali, le azioni da intraprendere ai vari livelli nell‟ambito
delle politiche sociali con la costituzione di una rete associativa e istituzionale.
Il Progetto “Non aver Paura di provare....insieme” ha visto il sostanziarsi di
questa rete ed ha permesso la realizzazione di azioni permanenti e continuative a
favore dei minori disabili. Ideato dall‟Azienda per i Servizi Sanitari n°2 “Isontina e
dal Panathlon Club di Gorizia, in collaborazione con gli istituti scolastici della
provincia di Gorizia, Coni Go, Ufficio Scolastico Provinciale (Ufficio Educazione
Fisica), Scuole, Uisp Go (Unione italiana sport per tutti), Csi (Centro Sportivo
Italiano), Cip (Comitato Italiano Paraolimpico), Csss (Centro Studi Sociologia dello
Sport-Panathlon, Coni, Università degli Studi di Trieste, Provincia), è stato
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finalizzato all‟integrazione ed al miglioramento dell‟autonomia della persona
diversamente abile all‟interno della scuola e nell‟ambito sportivo- sociale. Il progetto
è tuttora in fase di attuazione ed è stato finanziato ai sensi della Legge Regionale LR
41/96, con la Provincia di Gorizia e va rilevato il fatto che la sperimentazione
positiva ne ha permesso il rifinanziamento con successive attività specifiche di
formazione degli operatori sportivi per disabili per il triennio 2008-2010. Con la
costituzione di un tavolo di lavoro che ha visto la partecipazione di ben dieci enti del
territorio si è pertanto sviluppata una sinergia produttiva tra il mondo della scuola,
della sanità, dello sport e degli enti locali. Con la realizzazione del Convegno del 4-5
settembre 2009 dal titolo “Lo sport degli altri: Non aver paura di provare...per una
cultura sportiva partecipata” si chiude una prima fase di verifica e confronto delle
azioni intraprese. E‟ stato infatti possibile mettere a confronto le buone pratiche
presenti sul territorio in modo da sviluppare ulteriori azioni a favore dei giovani e dei
minori disabili dell‟isontino. Il progetto, va detto rientra nel Programma Provinciale
Triennale sulla Disabilità dell‟Ammistrazione Provinciale di Gorizia, tra 9 progetti
afferenti, unico nel trattare la trematica dello Sport con l‟apporto determinante e
fattivo del Panathlon Club e del Centro Studi di Sociologia dello Sport di gorizia.
Progetto che, va fatto rilevare, è stato inserito istituzionalmente ed in modo
permanente nelle politiche sociali. La strada sembra quindi essere quella dell‟
integrazione in tutti i sensi:
del soggetto disabile con la classe e la comunità di appartenenza
degli enti e delle istituzioni nonché dei Panathlon Club, competenti nel
territorio di appartenenza, ma aperti all collaborazione, per costituire una Rete
virtuosa che veda non protagonisti assoluti, ma sinergie preziose. Anche progetti
oramai strutturati e consolidati sul territorio Triveneto e nazionale, come “1 Ora X i
Disabili”, promosso dal Club Padova, con la presenza significativa di Mario Torrisi,
che risulta essere avviato in vari ambiti regionali e nazionali, può ulteriormente
svilupparsi nell‟integrazione con altre esperienze in atto per la creazione di questo
tessuto sociale e istituzionale a sostegno dei disabili.
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- Panathlon Club – Genova Levante “1 ora per i disabili” e Prevenzione
contro gli incidenti del sabato sera e in motorino
Proseguiamo nell‟iniziativa a favore dei disabili e di prevenzione per ragazzi
normodotati (seguendo un‟esperienza del Club di Padova),che continua a suscitare un
notevole interesse presso Docenti e studenti. Andiamo nelle scuole, proiettiamo un
documentario sulle Paralimpiadi, rispondiamo alle varie domande che ci vengono
rivolte dagli studenti , il cui numero varia da scuola a scuola: normalmente sono i
ragazzi di due classi, scelti dal Preside.
La presenza nelle scuole nel 2009 ha coinvolto oltre 200 studenti (208). In
queste manifestazioni abbiamo avuto l‟apporto degli atleti disabili in carrozzina della
squadra di basket Don Bosco e Stefano Mantero (non vedente), dopo avere esposto i
problemi legati alla sua condizione, a fatto provare ai ragazzi bendati il gioco del
calcio e del thorball praticati con pallone sonoro.
La cerimonia per la donazione di un tavolo per il gioco del “ping-pong showdown”, è stata organizzata dalla Provincia di Genova, dal Paladonbosco,
dal Panathlon International Genova Levante e da altri Enti, nel mese di Ottobre 2008
si è svolta al Paladonbosco la giornata finale del “Giochiamo insieme”, ove ragazzi
disabili e normodotati, divertendosi, hanno dato vita a bellissimi incontri nelle varie
discipline sportive. In tale occasione, il Panathlon Genova Levante ha partecipato,
organizzando due dimostrazioni di sport per non vedenti.
Esibizione di “Thorball”, calcio per non vedenti, giocato con un pallone
sonoro, cui hanno partecipato anche ragazzi vedenti con una apposita mascherina.
“Show down”, tennis da tavolo con pallina sonora. A questo punto, il Presidente del
“G. S.Liguria Non Vedenti”, Stefano Mantero (non vedente), assieme ad altre
persone nella sua condizione si è esibito nel gioco. Al termine delle esibizioni, il
Presidente del Panathlon Genova Levante, Giorgio Migone, ha, tra l‟altro esposto le
difficoltà in cui si trova l‟Associazione Italiana Ciechi di Genova per aver un solo
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tavolo da gioco su cui allenarsi il cui trasporto in altre sedi comporta il rischio di
rottura.
A questo punto, un piccolo miracolo: il signor Flavio Battistutta che per hobby
lavora il legno si è offerto di costruirne gratuitamente uno; il Panathlon Genova
Levante ha completato l‟opera, comprando il materiale necessario. Pensando che
questo così significativo gesto di vera bontà meritasse un giusto riconoscimento
abbiamo organizzato una cerimonia di consegna che è avvenuta sabato 21 febbraio
2009 all‟Unione Italiana Ciechi, cui ha partecipato l‟Arcivescovo di Genova
Cardinale Angelo Bagnasco, presenti Autorità Civili, sportive, stampa e televisioni.
Nel contempo abbiamo voluto portare a fare conoscere a tutti il mondo magico dei
non-vedenti per i quali praticare uno sport da IMPOSSIBILE DIVENTA
POSSIBILE.
- Panathlon Club - Verona
Ha attivato diverse iniziative, tra le più significative. Progetto Calimero - è
stato attivato l‟iter con Il Panathlon International per permettere a Graziella Calimero
di rappresentare il Panathlon come “Ambasciatrice dello sport” alla Maratona di New
York Graziella Calimero è nata a Gorizia, laureata in medicina a Padova. Nel 1992
subisce un incidente con conseguente tetraplegia. Incontra alcuni atleti disabili e
viene affascinata dalla handbike ed inizia a gareggiare e vincere in moltissime
maratone, 11 volte Campione d‟Italia, 2 Ori mondiali. Si dedica alla campagna di
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sensibilizzazione a favore degli atleti disabili nelle scuole di Verona e Provincia e sta
avviando un progetto di comunicazione che coinvolga i politici e le istituzioni
affinché vengano affrontati temi cari ai disabili come l‟abbattimento delle barriere
architettoniche e il potenziamento delle strutture. Progetto “Brainpower” con la
presentazione nella Sala degli Arazzi del Comune di Verona del contributo al
progetto “Brainpower” per l‟iniziativa dei Maestri di Sci di Bosco Chiesanuova per
l‟insegnamento dello sci a disabili (non-vedenti, paraplegici, amputati). Questa
iniziativa è già attiva ad Alleghe, riconosciuta dal Comitato Italiano Paralimpico.
- Panathlon Club - Chioggia
Mercoledì 8 Aprile 2009, il Panathlon Club di Chioggia, nell'ambito delle sue
mansioni di promulgazione dell'etica sportiva e di sensibilizzazione della società ai
problemi dei disabili nel mondo dello sport, ha invitato alla sua conviviale mensile il
Dott. Mario Torrisi e il Prof. Antonio Baldan. Torrisi è il responsabile triveneto del
Panathlon per i disabili mentre Baldan è il direttore del programma “1 ora x i
disabili”, realizzato dalla sezione di Padova e sostenuto dall'Amministrazione
Provinciale. Il motto del Club “Ludis iungit”ossia “Uniti nello sport per lo sport”,
trova nella realizzazione di questo programma la sua essenza.
Infatti le finalità del Panathlon International sono “l'affermazione dell'ideale
sportivo e dei suoi valori morali e culturali quale strumento di formazione ed
elevazione della persona e di solidarietà tra uomini e popoli”. Ideale sportivo,
solidarietà ecc., ecco, questo programma ,ha tra i suoi obbiettivi, quello di porre in
atto, sostenere e incentivare le attività a favore dei disabili, facendo provare ,in corsi
formativi-sportivi, seguiti da insegnanti qualificati, ai ragazzi normodotati, cosa vuol
dire vivere e fare sport per una persona con una disabilità. Più chiaramente il
Progetto: “1 ora x i Disabili” ha i suoi cardini, riportati nel testo base del progetto. Un
progetto questo che in otto anni ha dato dei risultati straordinari per quanto riguarda
l'educazione dei giovani nella provincia padovana e da quest'anno anche in quella
veneziana... Erroneamente riteniamo che la gioventù non abbia più ideali, non sia in
grado di provare sentimenti sinceri: non è assolutamente vero. La maggioranza dei
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nostri ragazzi ha un DNA sano, ma sta a noi, agli educatori insegnare loro i lati belli
della vita, l'amicizia, i valori della scuola, della società civile, la solidarietà. Certo per
portare avanti tutto questo, ci vogliono risorse che si spera l'Amministrazione
clodiense, possa trovare. Il Presidente del Panathlon di Chioggia, Giorgio Perini, lo
spera di cuore, per il bene dei suoi concittadini e per il buon nome della città.
- Panathlon Club - Vicenza
La Provincia di Vicenza ha fornito un piccolo contributo che ha permesso
l‟attuazione del progetto in alcune scuole, ove saltuariamente era presente il Club di
Padova, ora per quest‟anno scolastico il contributo è aumentato sia pur di non molto,
ma permetterà altri interventi, anche in Vicenza.
Le scuole medie toccate nell‟anno scolastico 2008/2009 sono state a
Montegalda, Villaganzerla e Costoza di Longare, con la partecipazione di otto classi
e circe 200 alunni.
- Panathlon Club - Venezia
L‟assessorato allo Sport delle Provincia ha messo a disposizione un contributo
che permetterà l‟attuazione del progetto in due/tre scuole medie della provincia.
Incontri che saranno decisi e attuati nel corso dei primi mesi del corrente anno
scolastico. Inoltre sono in corso nuovi contati con l‟ Assessore Provinciale allo Sport
per l‟estensione del progetto per la restante parte dell‟anno 2009/2010. Il progetto è
stato presentato anche al Comune di Dolo, dove esiste una possibilità di attuazione
grazie al lavoro di Mario Torrisi e l‟interessamento degli Assessori Lazzari, Cercato e
Polo. In occasione della Venice Marathon 2008 il Club ha organizzato una serata con
Oskar Pistorius, l‟atleta disabile che ha fatto parlare di se tutto il mondo e che alle
Paralimpiadi di Pekino aveva conquistato l‟oro nelle gare di velocità. Lo hanno
potuto incontrare e riabbracciare i nostri atleti paralimpici Heros Marai e Samuele
Gobbi che hanno gareggiato con lui alle Olimpiadi di Pechino 2008.
122
6.5
Panathlon, Associazione Benemerita del “Cip”
E‟ datata 19 gennaio 2010. Recentissima novità, tanto attesa quanto piacevole.
Luca Pancalli, il presidente del Comitato Italiano Paralimpico, ha comunicato di aver
“legato” al Comitato il Panathlon, essendo “in linea con i contenuti del progetto”,
grazie alle tante e pregevoli progetti “sport e disabilità”. Riporto la lettera e la bozza
del protocollo d‟intesa con il Cip.
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Fly UP