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di Giovanni Maria Flick
I SESSANT’ANNI DELLA COSTITUZIONE ITALIANA
∗
UNA RIFLESSIONE SUL PASSATO, UN PROGETTO PER IL FUTURO
di
Giovanni Maria Flick
(Vice presidente della Corte costituzionale)
«La Costituzione rappresenta più che mai – nella sua comprovata validità – un
patrimonio comune»: nessuna forza politica può reclamarne in esclusiva l’eredità, «possono
solo, tutte insieme, richiamarsi ai suoi valori e alle sue regole, e insieme affrontare i problemi
di ogni sua specifica, possibile revisione». Così il Presidente della Repubblica Giorgio
Napolitano, il 23 gennaio scorso, ha celebrato il 60° anniversario della Costituzione
repubblicana.
Le origini e il contenuto della Costituzione – fra loro inscidibilmente connessi –
rendono ragione del suo essere un “patrimonio comune”, della sua attualità e della sua
capacità di continuare a costituire il punto di riferimento della nostra convivenza, nonostante i
profondi mutamenti del contesto sociale, politico ed economico, rispetto a quelle origini;
ferma restando la necessità di qualche limitato ritocco di quel contenuto. E, d’altronde, prima
di interrogarsi sull’attualità o sull’obsolescenza della Costituzione – come oggi è di moda –
occorrebbe chiedersi quanto di essa resta ancora da attuare, a sessanta anni dalla sua entrata in
vigore. Non v’è, infatti, soluzione di continuità fra le due fasi di attuazione e di revisione della
Costituzione: la prima, caratterizzata da vistosi ritardi e inadempienze; la seconda, da
interventi settoriali e limitati e da tentativi non riusciti di revisione più ampia.
∗
Istituto Italiano di Cultura – Parigi, 22 aprile 2008
Federalismi.it, n. 11/2008
L’appello al “patrimonio comune” non è retorica. Non compiremmo alcun passo avanti
e rischieremmo di doverci rifugiare nello sterile terreno della retorica, se non partissimo dalla
Costituzione, senza però allontanarcene: senza riconoscere che, nonostante i decenni e
qualche ruga, la Carta è più che mai viva, soprattutto ma non soltanto nella sua prima parte. E
se questa è inviolabile quasi quanto i princìpi che afferma, la seconda parte va maneggiata con
estrema cura, perché le garanzie e i contrappesi fra i poteri e le istituzioni non costituiscono
soltanto un insieme di regole, liberamente modificabili a colpi di maggioranza e soggette solo
al criterio dell’efficienza; da quelle regole, pur nella diversità dei sistemi possibili, dipende il
concreto, quotidiano realizzarsi dei princìpi e del metodo democratici. Infatti, l’equilibrio dei
poteri, proposto nella seconda parte della Costituzione, condiziona l’effettività delle garanzie
e dei diritti fondamentali riconosciuti nella prima parte; basta pensare, ad esempio, allo stretto
rapporto che vi è fra le garanzie della libertà personale (le c.d. riserve di legge e di
giurisdizione), nella prima parte, e le prerogative parlamentari nonché quelle dell’ordine
giudiziario, nella seconda.
La profondità delle radici e la peculiarità dell’origine della Costituzione risiedono in
una duplice prospettiva. Da un lato, in negativo, la frattura con il passato, il riscatto da
ideologie perverse e la memoria delle loro degenerazioni e distruzioni ideali, materiali e
soprattutto umane; da un altro lato, in positivo, il suggello di un nuovo patto, civile, politico e
sociale: ad esso si riferiva Giuseppe Mazzini, quando affermava che il futuro di una nazione
non può che essere proferito da una Costituente e non può che incarnarsi in un patto
nazionale.
A differenza di altre, la nostra Costituzione è il frutto di un dibattito di altissimo
spessore, politico e giuridico, di cui furono protagonisti i partiti e i membri dell’Assemblea
Costituente. E la saldezza del patto che l’ha generata sta anche in una sintesi di coraggio e di
generosità: se la rottura con il passato autoritario fu netta – nell’opzione non semplicemente
afascista, ma chiaramente antifascista – la scelta, altrettanto netta, per la forma repubblicana
dello Stato (l’unico articolo anche formalmente immodificabile, per espressa previsione
costituzionale) non comportò l’umiliazione di quella larga parte del Paese che, pur rompendo
con il passato regime, aveva confermato la sua opzione monarchica al referendum
istituzionale del 1946.
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L’organizzazione statale contrapposta a quella del regime fascista – e in grado di
contrastare ogni tentazione autoritaria – rappresentò il momento unificante tra le volontà,
anche profondamente distanti sul piano ideologico, delle forze politiche che il 22 dicembre
1947 approvarono la Carta costituzionale con soli 62 voti contrari su 515.
Il merito dei padri Costituenti fu proprio in questa capacità di pacificare il Paese e
voltare pagina, rinunciando alla tentazione dell’oblio e anzi fondando la sua rinascita sulla
perenne memoria delle sofferenze degli uomini, prima ancora che sui valori della Resistenza.
« Nelle montagne della guerra partigiana, nelle carceri dove furono torturati, nei campi di
concentramento dove furono impiccati, nei deserti o nelle steppe dove caddero combattendo,
ovunque un italiano ha sofferto, ivi è nata la nostra Costituzione», come afferma Pietro
Calamandrei, uno dei Costituenti più autorevoli.
La memoria non è semplice evocazione, ma rinnovazione; con essa, il rifiuto del
passato costituisce il primo nucleo essenziale e condiviso della Costituzione. La memoria
consente di cogliere un primo aspetto della perdurante attualità di quest’ultima e di sfuggire
quindi al rischio di una celebrazione soltanto retorica; infatti, essa guarda al futuro attraverso
l’esperienza e la sofferenza del passato, per impedire il riemergere dei suoi errori ed orrori.
Solo tenendo vive le radici della Costituzione sarà possibile riconoscere le ragioni degli
altri, rispettare tutte le memorie e favorire la convivenza tra i popoli, soprattutto attraverso le
nuove generazioni, come dimostra lo straordinario cammino dell’Unione europea, ben più
forte delle momentanee battute d’arresto dei governi e delle incomprensioni delle opinioni
pubbliche, talvolta mal orientate dalle forze politiche. Proprio la Francia, lo scorso febbraio,
ha confermato la forza di questo cammino, approvando in pochi giorni sia la necessaria
modifica costituzionale a camere riunite, sia la ratifica del Trattato di Lisbona, tra i primi dei
27 Paesi dell'Unione europea. Mentre, meno di tre anni fa, la maggioranza dei votanti attraverso un referendum il cui valore formale era consultivo - aveva determinato una battuta
d'arresto decisiva per il Trattato costituzionale europeo, sulla base di timori alimentati da
slogan che si sono poi rivelati infondati, o esagerati, o comunque riferiti a fenomeni di
integrazione economica e sociale, certamente da regolare, ma in larga misura non dipendenti
dall'assetto dell'Unione europea, ovvero già in atto in base ai precedenti Trattati, tuttora in
vigore.
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Se, dopo la prospettiva negativa, di rifiuto del passato, si guarda a quella positiva – il
patto civile, politico e sociale, espresso dalla Costituzione – risulta evidente la confluenza
delle tre grandi correnti ideali, rappresentate da più dei tre quarti dei Costituenti: i cattolicodemocratici riuniti nella Democrazia cristiana, partito di maggioranza relativa; i deputati di
ispirazione socialista e comunista, senza tralasciare la componente laica e radicale del Partito
d’azione; l’area liberal-democratica, minoritaria ma tutt’altro che assente, con esponenti di
primissimo piano come Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Una confluenza espressa, anche
emblematicamente, dalle tre firme – di Enrico De Nicola, Umberto Terracini e Alcide De
Gasperi – in calce alla Costituzione,
È stato a lungo sottolineato il carattere compromissorio della prima parte della
Costituzione: lungi dall’esprimere una connotazione negativa, si tratta di un elemento
essenziale e positivo della nozione stessa di patto. Non già un compromesso al ribasso, una
reciproca rinunzia a parte delle proprie convinzioni e pretese, pur di trovare un accordo a
qualsiasi prezzo; ma un compromesso di valore elevato, non logorato dal tempo, punto di
incontro e sintesi del patrimonio migliore di ciascuno: un accordo che ha saputo selezionare le
più nobili e profonde istanze ideali delle tre correnti di pensiero.
Quel compromesso garantisce, infatti, che la Costituzione sia ‘di tutti’, sì che ad essa le
diverse forze, pur rimanendo antagoniste, potevano e possono appellarsi ad egual titolo; non
una Costituzione ‘di maggioranza’, espressione di forze vincenti che vi si riconoscono
pienamente, al contrario di altre, perdenti, che non potrebbero invece riconoscervisi.
D’altronde, la convergenza di più e diverse ispirazioni ideologiche non ha nociuto, nella
prima parte della Costituzione, alla coerenza della normativa che ne è derivata e del suo
complessivo disegno ispiratore; ma, anzi, ha costituito motivo di modernità e di dinamismo
del prodotto finale.
La “forza ideale” della Costituzione (quindi la sua attualità) si fonda sull’adesione ad
un’idea di democrazia pluralista, che supera la contrapposizione tra una democrazia formale
di stampo liberale ed una sostanziale di stampo sociale; e sostituisce il fondamento di autorità
– o quanto meno la sua legittimazione – con un fondamento di valore, secondo un’etica
repubblicana ispirata alla fusione tra la tradizione liberale, il solidarismo cristiano e le istanze
egualitarie della sinistra.
Accanto a questa forza ideale – e proprio per garantirla nei valori di cui è espressione la Costituzione possiede anche una particolare “forza formale”, che si esprime nel suo
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carattere rigido. Ciò significa che le norme costituzionali sono sottratte, per esplicita
previsione (art. 134), alla abrogazione o modifica o deroga da parte della legge ordinaria. La
rigidità non vuol dire certo immodificabilità; attraverso la previsione di maggioranze
qualificate e di procedure particolari, la rigidità esprime l’auspicio che la revisione
costituzionale maturi, per quanto possibile, con la stessa coesione e convergenza di consensi
che, a suo tempo, caratterizzarono la nascita della Costituzione, per conservare a quest’ultima
il carattere di “patrimonio comune”.
I frutti di questo pluralismo costituzionale si avvertono agevolmente nella prima parte
della Costituzione.
L’ispirazione personalistica, propria della componente cattolico-democratica, ad
esempio, trova diretta espressione soprattutto nei diritti inviolabili dell’individuo, come
singolo e nelle comunità intermedie (art. 2 Cost.); ma anche nelle affermazioni di una
comunità sovranazionale che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni (art. 11); delle
confessioni religiose come organizzazioni sociali egualmente libere davanti alla legge (art. 8);
della libertà scolastica (art. 33) e assistenziale (art. 38) quali aspetti essenziali del pluralismo;
della famiglia intesa come società naturale fondata sul matrimonio, luogo di esercizio di diritti
e doveri tra i suoi componenti e all’esterno (artt. 29 e 30).
La prevalente ispirazione della sinistra socialista è segnalata, fra l’altro, dalla particolare
attenzione ai profili dell’uguaglianza sostanziale (art. 3, comma 2), del diritto al lavoro e dei
diritti del lavoro (artt. 4 e 35), del governo pubblico dell’economia (artt. 41 e 42), del ruolo
dei partiti politici (art. 49).
La chiave di volta dell’architettura del nuovo Stato è costituita dall’intramontabile idea
liberale della limitazione dei poteri dello Stato, nella quale il controllo reciproco è il
presupposto della legittimazione e dell’indipendenza di ciascun organo, e dunque delle stesse
libertà istituzionali.
La previsione e la concreta attuazione di quella architettura nell’ordinamento della
Repubblica – nella seconda parte della Costituzione – costituisce, invece, il profilo meno
adeguato del compromesso costituzionale. Qui il testo ha maggiormente risentito delle
esperienze storiche e di una opzione politica preferenziale per il parlamentarismo: sia per
scongiurare il rischio di governi autoritari dopo il
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regime fascista; sia per contenere
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l’eventuale egemonia di una forza politica e la sua prevalenza sulle altre. Questa parte appare
più bisognosa di adeguamenti, poiché sottovaluta la necessità di dotare i governi di adeguati
strumenti operativi: una necessità resa sempre più urgente dall’interdipendenza delle
economie e dalla partecipazione alle istituzioni sopranazionali, a loro volta dotate di concreti
e diretti poteri normativi e di governo.
Non così la prima parte, dove non soltanto la nobiltà del compromesso, ma anche il
coraggio di affermare diritti che alcuni avevano ritenuto meramente programmatici – oggetto
di critiche e ironie, accompagnate dalla definizione di Costituzione–programma, “libro delle
possibilità” e “rivoluzione legale promessa”, più che catalogo di diritti esigibili – ha dato
impulso e orientamento a gran parte della legislazione sociale successiva, per rimuovere gli
squilibri e dare attuazione, ben oltre la proclamazione formale, ai diritti fondamentali, dal
lavoro all’istruzione. La preoccupazione dell’articolo 3, secondo comma – garantire
«l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e
sociale del paese» – assume un significato profetico di fronte al rischio, nel contesto della
globalizzazione, di sacrificare la dimensione personale alle nuove e deformanti espressioni
della realtà collettiva.
Le norme che a torto e riduttivamente si ritenevano da taluno meramente
programmatiche, in realtà, non rappresentano soltanto un vincolo per il legislatore. Esse
costituiscono altresì un parametro per il giudizio di legittimità delle leggi, anteriori o
posteriori alla Costituzione, come la Corte costituzionale affermò fin dalla sua prima sentenza
(n. 1 del 1956), sottolineando così l’impegno di tutti – del legislatore come del giudice –
all’attuazione della Costituzione. E proprio la cinquantennale giurisprudenza della Corte
costituzionale ha offerto un contributo essenziale a quella attuazione.
I principi fondamentali della Costituzione, enunciati a premessa della sua prima parte,
hanno un valore giuridico e non soltanto politico. Essi non si esauriscono nel sistema dei
diritti e delle libertà fondamentali. Troppo spesso si è annullato il valore dei doveri sanciti
dalla Costituzione, che non costituiscono soltanto l’aspetto speculare di molti diritti e libertà
individuali, ma assumono una valenza istituzionale e politica di assoluto rilievo.
Le istanze solidaristiche sono proprie di una società che sulla libertà dal bisogno di
ognuno e sull’eguale dignità di tutti trova forti motivi ideali di aggregazione; e sono oggi più
pressanti ed attuali che mai, di fronte alle macroscopiche sperequazioni, agli interrogativi e
alle inquietudini nascenti dalla globalizzazione. Ma quelle istanze possono sopravvivere solo
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con un senso complessivo del dovere, che accomuni sia i componenti della comunità statale,
sia quelli delle comunità sopranazionali . Il valore ideale delle grandi democrazie occidentali
sta proprio in questo: nel riconoscimento dell’altro come persona umana e soggetto di diritti,
anche in ragione dell’accettazione di specifici e ragionevoli limiti al proprio catalogo di diritti
individuali.
Fra i principi fondamentali, il principio democratico è quello di portata più ampia, che
riassume gli altri. Principio democratico significa, innanzitutto, che il potere politico deve
promanare dalla collettività popolare, attraverso istituti che garantiscano sia l’esercizio diretto
del potere (i referendum); sia la manifestazione di volontà di organi liberamente eletti (il
Parlamento); sia il rispetto e la garanzia reciproci nel rapporto fra i vari poteri; sia il
riconoscimento delle autonomie territoriali (già presente – ancorché tardivamente attuato – nel
testo del 1947 e poi ridisegnato in modo ben più ampio dalla riforma del titolo quinto del
2001).
Dalla connotazione democratica origina quella lavorista, immediatamente e
solennemente affiancata nell’articolo 1, a fondamento stesso della Repubblica, e ribadita
nell’articolo 4. Qualcuno ha ritenuto questa scelta un tributo eccessivo pagato all’ispirazione
socialista, rispetto all’opzione per la dignità della persona, che apre molte Carte costituzionali
e sopranazionali, come la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. E’ però agevole
replicare che in tal modo la Repubblica ha voluto riconoscere che la dignità di ognuno non
deriva dal censo o dal privilegio; ma deriva dalla libera scelta di un’occupazione adeguata e
dal dovere di contribuire, attraverso il lavoro, al benessere collettivo e al concreto esercizio
dei diritti fondamentali da parte di ciascuno. Ed è purtroppo agevole sottolineare la attualità
drammatica e la inadeguata attuazione del principio lavorista, testimoniate dalle ricorrenti
morti sul lavoro.
L’obiezione sull’opzione fondamentale per il lavoro è stata espressa anche in un altro
senso: la Costituzione privilegerebbe il lavoro sulle libertà e proporrebbe una visione riduttiva
della proprietà, dell’iniziativa privata e delle libertà economiche, collocate in posizione
subordinata rispetto ai diritti fondamentali. Sarebbero così sottovalutate le esigenze di
efficienza e competitività; e sarebbero del tutto trascurati il mercato e la concorrenza (solo
recentemente e marginalmente richiamata dal nuovo articolo 117, a proposito della
ripartizione di competenze legislative fra Stato e Regioni). Da ciò sarebbero derivati eccessi
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di statalismo e dirigismo, e la Costituzione sarebbe inadeguata anche rispetto al quadro di
valori proposto dai Trattati europei.
Queste critiche mi lasciano assai perplesso, sia nel merito che nel metodo. Quanto al
merito, appare evidente la possibilità di una lettura della prima parte della Costituzione più
attuale e più aperta alla prospettiva economica, grazie alla sua formulazione: lo ha dimostrato
ampiamente l’articolo 11, con la sua capacità di accogliere, senza necessità di revisione,
l’integrazione europea, partita proprio dal versante economico e dalla creazione del mercato e
sempre più incalzante sul piano ordinamentale e istituzionale.
Negli ultimi quindici anni la tutela della concorrenza e del mercato – per effetto della
complementare normativa europea e interna, dell’indipendenza riconosciuta alle autorità di
garanzia – è progredita in modo tale da far ritenere non necessaria una revisione della
Costituzione in chiave economica.
Quanto al metodo, sono note le difficoltà emerse in occasione sia della riforma del
2001, confermata dal referendum popolare, sia di quella più ampia del 2005, annullata da
analogo referendum popolare. Non solo una revisione di portata più generale, ma anche un
intervento specifico e mirato su singoli punti della prima parte appare problematico; il clima
ed il contesto in cui si discute oggi della riforma costituzionale non sono tali da agevolare un
intervento capace di rispettare la sintesi e l’equilibrio con cui, a suo tempo, si seppe esprimere
la Costituzione.
L’art. 2 della Costituzione sancisce il principio personalista, che ispira il riconoscimento
e la garanzia dei diritti inviolabili dell’uomo: non già quest’ultimo in funzione dello Stato, ma
viceversa. I diritti fondamentali della persona sono connaturati a questa prospettiva; non sono
originati dall’attribuzione dello Stato; riguardano tutti gli uomini, non soltanto i cittadini:
constatazione, questa, di particolare attualità, di fronte alla realtà e alle dimensioni
dell’immigrazione nella nostra società. E, allo stesso tempo, non viene meno la cittadinanza, e
con essa il diritto di voto rafforzato da una modifica costituzionale del 2000, quando la
persona risieda all'estero, e non solo temporaneamente ma anche, a determinate condizioni,
quando sia discendente di seconda e terza generazione di italiani all'estero.
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L’aggettivazione di inviolabili, che caratterizza tali diritti, fu preferita a molte altre
espressioni proposte in Assemblea Costituente (imprescrittibili, insopprimibili, fondamentali,
essenziali, eterni, sacri, originari, naturali, incancellabili). L’inviolabilità si pone come entità
indisponibile per lo Stato e rappresenta un sicuro limite ad eventuali revisioni costituzionali,
che incidessero negativamente sui diritti dell’uomo.
La garanzia dei diritti individuali si estende poi alle singole formazioni sociali, destinate
a sviluppare la personalità individuale. E’, questa, una delle espressioni più significative del
principio pluralista, con il quale si garantisce la più ampia e incondizionata scelta
dell’individuo: sia nel creare, partecipare o non partecipare a quelle formazioni; sia
nell’esprimere la propria identità, anche attraverso il diritto al dissenso e alla diversità.
Le affermazioni del Costituente appaiono profetiche e particolarmente attuali, in un
momento in cui l’identità personale è contrastata, quando assume forme un tempo non
previste e da alcuni non gradite; ovvero è minacciata da una dimensione globalizzante, che va
ben al di là del mercato per coinvolgere la cultura, la vita sociale, il modo di essere
liberamente scelto dai singoli e dalle aggregazioni sociali.
Il diritto alla diversità ed alla identità, in uno con la difesa di una gamma di diritti
fondamentali inerenti alla condizione umana, da riconoscere nella loro universalità ed
effettività, rappresentano un punto fondamentale del dibattito attuale sui grandi e inquietanti
problemi posti dalla globalizzazione. Da ciò la perdurante attualità di una Costituzione come
la nostra, che si apre con l’affermazione del principio personalista e di quello pluralista.
La stessa attualità va riconosciuta, ovviamente, al principio di eguaglianza e di pari
dignità sociale: esso introduce, innanzitutto, un limite alla discrezionalità del legislatore,
tenuto a garantire trattamenti eguali per situazioni eguali e trattamenti diversi per situazioni
diverse. Ma, accanto a tale contenuto precettivo di natura formale, quel principio impone alla
Repubblica il compito di rendere effettiva la pari dignità sociale dei cittadini: un compito che
si sostanzia in una serie di interventi di organizzazione politica, economica, sociale del paese,
tali da rimuovere i fattori che impediscono la concreta realizzazione dell’eguaglianza e il
pieno sviluppo della persona umana.
In ciò, l’art. 3 secondo comma, della Costituzione chiama ad un impegno strenuo e
senza sosta. Ed è, questo, uno degli aspetti più dinamici della sua modernità, il quale salda
strettamente fra di loro i principi di eguaglianza sostanziale e di pari dignità sociale con quello
di solidarietà: perché le differenze fra di noi sono oggettive e innegabili, ed anzi costituiscono
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premessa del pluralismo e del diritto alla diversità; ma non possono e non devono divenire
condizioni di inferiorità.
Un ulteriore e fondamentale aspetto della tutela dei diritti fondamentali riguarda il
passaggio dalla prospettiva nazionale a quella sovranazionale ed europea, valorizzando anche
in questo caso l’attitudine profetica e la capacità di adattamento della Costituzione
(quest’ultima, dimostrata pure in molti altri campi, come l’ambiente e la privacy). Al ripudio
della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di
risoluzione delle controversie internazionali, si accompagna la rinuncia ad aspetti della
sovranità nazionale a favore di realtà sovranazionali e comuni, per realizzare la pace e la
giustizia.
Si coglie agevolmente l’attualità dell’indicazione del Costituente: la reazione ad una
ideologia bellicista e ad una guerra distruttiva da cui l’Italia (e non solo essa) era appena
uscita. E’ un’attualità che si esprime in una duplice prospettiva, che è presente anche - in
termini sostanzialmente simili – nel preambolo della Costituzione francese del 1946,
richiamato esplicitamente dalla decisione del Conseil Costitutionnel del 16 luglio 1971,
attribuendogli valore normativo.
Per un verso, v’è il rifiuto di tutta la gamma di varianti escogitate – e recentemente
riscoperte ed esaltate – per legittimare in qualche modo la guerra “giusta”, anche quando non
sia solo difensiva: esportare la democrazia; attuare l’ingerenza umanitaria, ben al di là delle
operazioni di polizia internazionale; esercitare una legittima difesa “preventiva”; combattere
gli “Stati-canaglia”, sostenitori del terrorismo; e così via.
Per un altro verso, v’è l’accettazione della realtà unitaria europea e la sua assimilazione
con l’ordinamento nazionale. Cinquanta anni di pace in una regione che era stata teatro di due
guerre mondiali; un mercato unico ed una moneta comune; uno spazio comune di libertà,
sicurezza e giustizia; il riconoscimento dei diritti fondamentali in ambito europeo, arricchiti
dai diritti c.d. di terza e quarta generazione; l’ingresso a pieno titolo della Carta di Nizza nei
trattati europei, grazie al rinvio operato dal Trattato di Lisbona, oggi in corso di ratifica, e già
ratificato per via parlamentare da parte della Francia; la prospettiva di una cittadinanza
europea che si aggiunge, senza eliminarla, alla cittadinanza nazionale: sono tutti aspetti che si
reggono – per il nostro ordinamento – sulla preveggenza dell’articolo 11 della Costituzione.
Una preveggenza ora completata dal nuovo testo dell’art. 117, primo comma, che impone al
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legislatore statale e regionale il rispetto “dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e
dagli obblighi internazionali”.
Nella seconda parte del compromesso costituzionale – quella dedicata all’ordinamento
statale – fu quasi inevitabile una scelta di equilibrio fra i poteri che, per garantire tutti,
rischiava di provocare uno stallo.
I partiti politici ebbero un ruolo fondamentale e insostituibile nel processo di fondazione
dello Stato democratico e nella sua legittimazione. Essi contribuirono sia alla Resistenza, sia
al “compromesso costituzionale alto”, in un contesto di estrema difficoltà: il crollo del
fascismo, la sconfitta, la guerra civile; la debolezza del governo e dello Stato; l’occupazione
militare e la lotta di classe; la guerra fredda, con l’irrigidimento e la contrapposizione dei
blocchi internazionali derivanti da Yalta. In questo contesto, i partiti riuscirono comunque a
superare il conflitto fra istanze contrapposte di mutamento radicale o evoluzione graduale, di
riformismo o garantismo; e riuscirono ad assicurare la continuità dello Stato, a realizzare una
democrazia socialmente avanzata, a promuovere il grande processo di integrazione politico–
sociale del dopoguerra.
Peraltro, non vennero meno la diffidenza reciproca fra le maggiori forze politiche ed il
timore di tentazioni egemoni o autoritarie; ne derivò l’accentuazione della parità di posizioni e
la rinunzia agli strumenti per rafforzare il potere esecutivo, nell’elaborazione della seconda
parte della Costituzione.
Nell’odierno, diverso contesto, gli obiettivi giustamente invocati per il nostro sistema
politico–istituzionale – stabilità, governabilità, partecipazione, rispetto sostanziale della
volontà popolare – suggeriscono una serie di modifiche, per superare le rigidità e integrare le
lacune di quella seconda parte. Vengono in considerazione, ad esempio, gli inconvenienti
legati ad un bicameralismo perfetto che appesantisce l’iter legislativo e non è più
sufficientemente rappresentativo di un assetto istituzionale ormai fortemente decentrato;
ancora, la necessità di garantire all’esecutivo e al premier la possibilità di esercitare il dirittodovere di attuare il programma di governo; infine, la necessità di ovviare all’inefficienza
derivante dalla farraginosità delle procedure decisionali.
Oggi incombono altre urgenze, egualmente importanti per la nostra democrazia (come,
ad esempio, la riforma della legge elettorale; o i problemi dell’economia, della spesa pubblica,
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del bilancio). Ma resta essenziale l’augurio che il dibattito sulla riforma della Costituzione
non sia il pretesto per metterne in discussione l’intero impianto; e che la riforma si realizzi
con uno spirito di coesione simile a quello dell’Assemblea costituente. Uno spirito mancato,
tra le forze politiche, sia nella riforma incompiuta, che venne respinta con il referendum del
2006, sia in quella compiuta del 2001: con la conseguenza, fra l’altro, di scaricare sulla Corte
Costituzionale un compito di supplenza non certo agevole.
E tuttavia, proprio questo dimostra come gli interventi sulla seconda parte della
Costituzione – di fronte alla sua parziale inadeguatezza sopravvenuta – debbano saper
coniugare la maggiore efficienza con le garanzie costituzionali e l’equilibrio tra i poteri, che
quella parte della Costituzione ha comunque saputo assicurare nei sessanta anni trascorsi. E
dimostra, altresì, come la prima parte della Costituzione abbia tuttora una profonda vitalità e
la capacità di proporre un progetto per i prossimi sessanta anni; e come occorra impegnarsi a
conoscerla e a darle effettiva ed integrale attuazione, prima di avventurarsi a dibattere sulle
possibilità di una sua modifica.
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