Terapia dello shock cardiogeno in corso di infarto miocardico acuto
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Terapia dello shock cardiogeno in corso di infarto miocardico acuto
Attualità Recenti Prog Med 2010; 101: -105 Terapia dello shock cardiogeno in corso di infarto miocardico acuto: attuali acquisizioni Marco Grazi, Stefania Farina, Emilio Assanelli Riassunto. Lo shock cardiogeno rappresenta una delle più temibili complicanze dell’infarto miocardico acuto. La prognosi di questa particolare condizione clinica rimane, allo stato attuale, sfavorevole; la mortalità ospedaliera, anche nelle migliori casistiche, non scende sotto il 30-40%. L’avvento di strategie terapeutiche basate sulla rivascolarizzazione coronarica precoce e sull’assistenza circolatoria, farmacologica e non, ha consentito di ridurne l’incidenza. Summary. Cardiogenic shock complicating acute myocardial infarction: trends in management and outcome. Despite emergency coronary revascularization coupled with medical stabilization, intra-aortic balloon pump and ventricular assist devices have significantly improved survival in patients with cardiogenic shock complicating acute myocardial infarction, mortality still remains excessively high, being actually about 30-40%. Future research should focus on new therapeutic strategies, aimed to further decrease mortality rate of these patients. Parole chiave. Angioplastica coronarica, contropulsatore aortico, infarto miocardico acuto con sopralivellamento del tratto ST, shock cardiogeno, sistemi di assistenza ventricolare sinistra. Key words. Cardiogenic shock, coronary angioplasty, intraaortic balloon pump, left ventricular assist devices, ST-elevation acute myocardial infarction. Introduzione mento del sensorio a causa dell’ipoperfusione cerebrale). L’ecocardiogramma può evidenziare marcata riduzione degli indici di funzione sistolica ventricolare sinistra o destra, oppure complicanze meccaniche dello STEMI quali insufficienza della valvola mitralica, tamponamento cardiaco o difetto del setto interventricolare post-infartuale. L’elettrocardiogramma mostra in genere tachicardia sinusale e i segni caratteristici della sottostante sindrome coronarica acuta, principalmente di lesione subepicardica estesa a molteplici derivazioni. Seppure, fino al 1990, le percentuali di mortalità ospedaliera dei pazienti che sviluppavano uno shock cardiogeno variavano tra il 70 e 85%, negli anni successivi si è assistito ad una loro progressiva riduzione fino al 60% del biennio 1995-1997 e fino al 48% del 2004 (tabella 1 alla pagina seguente). Queste percentuali si assestano attualmente intorno al 30-40%, ove lo shock venga trattato in modo aggressivo, mediante il sistematico utilizzo d’angioplastica coronarica primaria e contropulsazione aortica1. Il primo obiettivo del trattamento dello shock cardiogeno associato a STEMI è il ripristino precoce della funzione cardiaca, ottenibile nelle prime ore dalla sua insorgenza attraverso la rapida risoluzione dell’ostruzione coronarica responsabile dell’evento acuto. Lo shock cardiogeno rappresenta la più frequente causa di morte dei pazienti con infarto miocardico acuto con sopralivellamento del tratto ST (STEMI). In questa specifica situazione clinica, lo shock si verifica in una percentuale variabile tra il 7 ed il 10% dei pazienti, con un’incidenza che è rimasta pressoché costante fino agli anni ’80 per poi decrescere progressivamente fino a percentuali significativamente minori (figura 1). Ciò è stato reso possibile grazie all’introduzione delle terapie di rivascolarizzazione miocardica precoce (trombolisi ed angioplastica primaria) nel trattamento dello STEMI. Viene definito shock cardiogeno quella condizione, secondaria alla riduzione della funzione sistolica cardiaca, caratterizzata da inadeguato flusso ematico agli organi vitali. Da un punto di vista emodinamico, lo shock cardiogeno è contraddistinto da diminuzione dell’indice cardiaco (<2,0 litri/min/m2) e della pressione arteriosa sistolica (<90 mmHg), da aumento della pressione atriale sinistra (>20 mmHg) o destra, e delle resistenze vascolari sistemiche (>2100 dines.cm-5). Il quadro clinico dello shock cardiogeno è caratterizzato prevalentemente da segni di ridotta perfusione periferica (ipotensione arteriosa, tachicardia sinusale, cute pallida fredda e sudata, talora cianotica, oliguria, obnubila- Centro Cardiologico Monzino, I.R.C.C.S., Dipartimento di Scienze Cardiovascolari, Università di Milano. Pervenuto il 17 dicembre 2009. 100 Recenti Progressi in Medicina, 101 (3), marzo 2010 Deve essere sostenuta, al contempo, la funzione del cuore (mediante l’ausilio di liquidi, farmaci inotropi e contropulsazione aortica). Quanto più precocemente potranno essere effettuate tali procedure, tanto più efficacemente potrà essere modificata la prognosi del paziente; da ciò consegue che i pazienti con shock cardiogeno devono poter accedere in tempi brevi a Centri in grado di dar loro soluzioni terapeutiche complesse ed articolate, che dispongano, quindi, di un laboratorio di emodinamica, di una Cardiochirurgia e una Terapia Intensiva Cardiologica costantemente operative nell’arco delle 24 ore (figura 2). Figura 1. Incidenza di infarto miocardico acuto complicato da shock cardiogeno negli Stati Uniti dal 17 al 2003; nel tracciato più scuro la percentuale di pazienti con IMA complicato da shock cardiogeno, in quello chiaro il numero di pazienti ospedalizzati per shock cardiogeno aggiustato per l’età (modificato da Fang J et al. Am Heart J 2006). Angioplastica primaria L’angioplastica corona- Tabella 1. Mortalità (numero assoluto e percentuale) per infarto miocardico acuto complirica primaria rappresenta cato da shock cardiogeno dal 15 al 2004 (modificato da Babaev A, et al. National Registry il trattamento di prima of Miocardial Infarction, JAMA 2005). scelta dello STEMI compliTotale <75 anni ≥75 anni cato da shock cardiogeno2,3. 434 (60,3) 274 (55,8) 160 (6,) L’utilizzo di una procedura 15 di rivascolarizzazione coro- 16 510 (5,8) 20 (51,4) 220 (76,1) narica per il trattamento 17 530 (60,7) 313 (53,3) 217 (75,) del paziente con shock cardiogeno ha preso l’avvio 18 413 (58,0) 225 (4,2) 188 (73,7) dallo SHOCK (Should we 554 (55,) 324 (50,3) 230 (66,3) emergently revascularize 1 Occluded Coronaries for 2000 475 (56,6) 258 (47,) 217 (72,1) Cardiogenic shock) trial4. 416 (52,1) 222 (43,) 14 (66,4) In questo studio si dimo- 2001 strò che una strategia di ri- 2002 33 (4,8) 187 (40,8) 152 (68,5) vascolarizzazione immedia282 (51,3) 162 (44,7) 120 (63,8) ta, confrontata con una di 2003 iniziale stabilizzazione cli- 2004 163 (47,) 88 (3,5) 75 (64,1) nica, migliorava la soprav<,001 <,001 <,001 vivenza a 6 mesi (50% vs. P value 63%; P=0,02) nei pazienti ricoverati per STEMI complicato da shock cardiogedo d’arruolamento dello studio (1993-1998); 2) il no. Successive pubblicazioni confermarono il beridotto numero di pazienti randomizzati nelle prineficio anche a lungo termine (fino a 10 anni di me ore dall’esordio dello shock, in una fase, cioè, follow-up) del trattamento aggressivo nei conin cui risulta maggiore l’impatto del trattamento fronti dell’iniziale stabilizzazione clinica. Nonosulla mortalità. È facile ipotizzare che se lo stante i comprensibili entusiasmi suscitati dai riSHOCK trial fosse riproposto oggi, con le modersultati dello SHOCK trial, la mortalità ospedaliene tecniche a disposizione dei cardiologi interra dei pazienti trattati con rivascolarizzazione imvenzionali (stent medicati e non, inibitori mediata è risultata in questo studio ancora eleGPIIb/IIIa, sistemi di protezione distale, di aspivata. A ciò hanno contribuito due importanti lirazione del trombo, ecc.) e con l’attuale consapemitazioni dello studio: 1) la bassa percentuale di volezza (raggiunta a partire dagli inizi degli anni pazienti trattati con stent e lo scarso successo pro2000 con l’affermarsi dell’angioplastica primaria) cedurale (77%), da porre in relazione con il perio- M. Grazi, S. Farina, E. Assanelli: Attuali acquisizioni nella terapia dello shock cardiogeno in corso di infarto miocardico acuto By-pass aorto-coronarico Pazienti con infarto miocardico acuto complicato da shock cardiogeno Nessuna complicazione meccanica Complicazioni meccaniche PCI sul vaso responsabile? PCI su vasi multipli? Inotropi e fluidi IABP PCI sul vaso responsabile? PCI su vasi multipli? Inotropi e fluidi IABP Svezzamento Si Supporto adeguato? No Assistenza ventricolare sinistra percutanea a breve-medio termine Supporto adeguato? Si No Assistenza ventricolare sinistra percutanea a breve-medio termine Nei casi in cui l’angioplastica non sia risolutiva, per esempio a causa di malattia coronarica multivasale o di complicanze meccaniche (rottura di corde tendinee, di muscolo papillare o del setto interventricolare), il paziente deve essere avviato rapidamente ad un intervento cardiochirurgico. I dati di mortalità dello SHOCK trial sono risultati sovrapponibili nei pazienti trattati con angioplastica o by-pass aorto-coronarico, nonostante la maggior incidenza di malattia coronarica diffusa e severa e di diabete mellito nel gruppo sottoposto a by-pass aorto-coronarico. Trattamento farmacologico Svezzamento Si Miglioramento clinico ? La terapia farmacologica deve essere utilizzata in No N una fase precoce dello sviluppo di shock per cercare di stabilizzare il quadro clinico, sopratutto qualora non Assistenza ventricolare sinistra impiantabile? sia possibile procedere imTrapianto cardiaco? mediatamente ad una rivascolarizzazione coronarica, e nella fase peri-proceduraFigura 2. Flow-chart per la gestione del paziente con infarto miocardico acuto complicato da shock le di rivascolarizzazione in cardiogeno. associazione a mezzi d’assistenza meccanica, allo scopo di sostenere i principali parametri emodinamici fin tanto che il cuore sia in grado di riprendersi dalla dell’importanza del fattore tempo come principale fase di stordimento (stunning) e di recuperare determinante di mortalità, i risultati complessivi un’adeguata funzionalità. potrebbero essere non lontani da quel valore (30%) Il trattamento farmacologico dello shock carriportato in esperienze di singoli Centri su casidiogeno prevede l’uso di farmaci inotropi positivi stiche relativamente limitate1. Un’altra analisi simpaticomimetici (dobutamina, 2,5-10 mcg/kg/ dello SHOCK trial prevedeva il confronto tra i pamin; dopamina, 2-5 mcg/kg/min; dopexamina, 0,5zienti ricoverati per STEMI complicato da shock 1 fino a 6 mcg/kg/min; enoximone bolo di 0,5 mg/kg cardiogeno in Centri dotati di laboratori di emodiseguito da infusione continua al dosaggio di 2-10 namica e pazienti ricoverati in Centri non attrezmcg/kg/min). L’obiettivo dell’utilizzo di questi farzati, pazienti che hanno quindi dovuto essere tramaci è quello di aumentare la contrattilità miosferiti in ospedali di riferimento. Nonostante il ricardica e di favorire la vasodilatazione del circolo tardo di trattamento, i pazienti trasferiti ad altro al fine di contrastare la spirale emodinamica neospedale hanno avuto una mortalità ospedaliera gativa caratterizzata da vasocostrizione periferica, sostanzialmente sovrapponibile a quelli trattati aumento del post-carico cardiaco, aumento del conprecocemente. Pur con le limitazioni già dette (posumo di ossigeno ed ulteriore depressione della chi pazienti arruolati nelle prime ore), questi dati funzione contrattile del miocardio. In casi estremi, rilevano l’importanza di trasferire i pazienti con tuttavia, può essere necessario ricorrere temporaSTEMI complicato da shock cardiogeno in ospeneamente a farmaci vasocostrittori (adrenalina, dali con possibilità di eseguire rapidamente teranoradrenalina, efedrina). pie di rivascolarizzazione coronarica. Chirurgia 101 102 Recenti Progressi in Medicina, 101 (3), marzo 2010 Essi sono utili per aumentare acutamente la pressione arteriosa e mantenere a livelli adeguati la pressione di perfusione degli organi vitali. Nell’ambito del trattamento farmacologico dello shock cardiogeno, un potenziale ruolo di primo piano è svolto da un nuovo farmaco inodilatatore, il levosimendan, che, a fronte di un suo ben definito ruolo nel migliorare le condizioni emodinamiche dei pazienti con scompenso cardiaco acuto, dispone ancora, tuttavia, di scarse evidenze per un suo utilizzo nello shock cardiogeno in corso di STEMI. Negli studi pubblicati in pazienti con STEMI e shock cardiogeno, il levosimendan è stato somministrato in infusione endovenosa continua per 24 ore, alla dose compresa tra 0,05 e 0,20 mcg/kg/min, preceduto da un bolo di 6-12 mcg/kg somministrato in 10 minuti. I risultati fin qui ottenuti confermano che il levosimendan è in grado di migliorare acutamente i parametri emodinamici nei pazienti con shock cardiogeno. Gli effetti positivi del farmaco continuano anche dopo il termine del trattamento grazie alla persistenza in circolo, per circa 72 ore, di suoi metaboliti attivi; tali effetti sembrano inoltre essere riproducibili anche sull’emodinamica del cuore destro, prospettando una sua potenziale utilità anche nei casi di shock cardiogeno da infarto miocardico acuto ventricolare destro6. In alcuni studi relativi al trattamento dello STEMI complicato da shock cardiogeno, sempre in aggiunta alla rivascolarizzazione coronarica e alla contropulsazione aortica, il levosimendan è stato confrontato con altri agenti inotropi positivi, in particolare con la dobutamina e con l’enoximone (quest’ultimo farmaco appartenente alla classe degli inibitori delle fosfodiesterasi III). I risultati di questi studi sono abbastanza concordi nell’indicare una maggior efficacia del levosimendan in termini di sopravvivenza, a fronte di effetti emodinamici acuti (prime 48 ore) sostanzialmente sovrapponibili. Vi sono, inoltre, dati promettenti che indicano che un utilizzo del levosimendan in una fase molto precoce dello shock cardiogeno possa garantire un effetto cardioprotettivo più ampio del solo sostegno emodinamico. Infatti, il levosimendan è in grado di migliorare la funzione del miocardio stordito7, il quadro emodinamico ed il flusso del circolo coronarico8, la funzione diastolica ventricolare sinistra9 e il “cardiac power” (prodotto della gettata cardiaca e della pressione arteriosa media misurate simultaneamente) del ventricolo sinistro nei pazienti affetti da shock cardiogeno e trattati con angioplastica primaria10. Un ulteriore potenziale vantaggio del levosimendan, rispetto agli altri farmaci inotropi positivi, è la totale assenza di effetti pro-aritmici. In un recente studio abbiamo riportato i casi di due pazienti affetti da cardiomiopatia dilatativa ipocinetica e portatori di defibrillatore, ricoverati in UTIC per storm aritmico incessante (plurimi episodi di tachicardia ventricolare e/o fibrillazione ventricolare interrotti dal device) complicato da shock cardiogeno. In questi pazienti l’uso di farmaci inotropi positivi è spesso precluso a causa della loro elevata aritmogenicità. In entrambi i casi, il levosimendan ha favorito il miglioramento clinico ed emodinamico cui ha fatto seguito, a partire dal giorno successivo all’inizio del trattamento, la completa regressione del quadro di instabilità elettrica11. Contropulsatore intra-aortico e altri sistemi di assistenza ventricolare Fin dal suo primo utilizzo in pazienti con shock cardiogeno, avvenuto nel 1968, il contropulsatore intra-aortico ha visto crescere il suo utilizzo nell’assistenza dei pazienti affetti da patologie critiche. Attraverso l’aumento della pressione diastolica (gonfiaggio del pallone) e la contemporanea diminuzione della pressione sistolica (sgonfiaggio), il contropulsatore è in grado di aumentare il flusso coronarico e ridurre il post-carico ventricolare sinistro. Risulta, pertanto, indicato come supporto circolatorio in pazienti affetti da shock cardiogeno, da complicanze meccaniche post-infartuali, da aritmie ventricolari intrattabili, da scompenso cardiaco in stadio avanzato o, in elezione, in caso di procedure di rivascolarizzazione, percutanee o chirurgiche, a rischio elevato. Esistono tuttavia alcune situazioni in cui l’uso del contropulsatore è controindicato: 1) severa vasculopatia periferica; 2) insufficienza valvolare aortica; 3) dissezione o aneurisma dell’aorta toraco-addominale. Nonostante sia stata ampiamente dimostrata l’efficacia del contropulsatore nel favorire la stabilizzazione clinico-emodinamica dei pazienti affetti da infarto miocardico complicato da shock cardiogeno, non esiste dimostrazione altrettanto efficace di un suo possibile beneficio in termini di sopravvivenza a lungo termine. D’altra parte, il beneficio clinico complessivo deve tener conto delle possibili complicazioni associate all’uso di tale metodica: emorragie maggiori, manifestazioni tromboemboliche sistemiche, ischemia cerebrale o periferica e, raramente, morte. Inoltre, requisiti indispensabili per una contropulsazione efficace sono: 1) il mantenimento di un certo grado di funzione ventricolare sinistra residua; 2) la possibilità di sincronizzazione con un ritmo cardiaco efficace. Va infine ricordato che il contropulsatore è in grado di assicurare un supporto circolatorio minimale (0,3-0,6 L/min). Questo limite di portata circolatoria può essere tuttavia superato dai più nuovi sistemi di assistenza ventricolare sinistra (LVAD) o bi-ventricolare, impiantabili per via percutanea, nati come alternativa al contropulsatore nel sostenere meccanicamente la funzione cardiaca. Tali sistemi richiedono sostanzialmente l’introduzione di una cannula di 16-18-Fr. in arteria femorale, che viene avanzata fino in aorta discendente, e di una cannula venosa di 18-Fr. introdotta in vena femorale ed avanzata fino in atrio destro. Il sangue, prelevato dall’atrio destro, viene fatto avanzare nel circuito per mezzo di una pompa peristaltica. M. Grazi, S. Farina, E. Assanelli: Attuali acquisizioni nella terapia dello shock cardiogeno in corso di infarto miocardico acuto Viene quindi fatto passare all’interno di un ossigenatore e, infine, viene restituito al paziente per mezzo della cannula arteriosa femorale. In tal modo la pompa è in grado di assicurare un flusso ematico continuo ed il mantenimento di una attività pressoria efficace. Un tale apparecchio presenta una serie di limitazioni: limitato tempo di supporto, necessaria disponibilità di un tecnico perfusionista, potenziali complicanze ischemiche periferiche legate alle notevoli dimensioni delle cannule. Perciò l’utilizzo di tali mezzi è limitato prevalentemente ai casi di severe complicazioni meccaniche insorte nel corso di procedure angiografiche. Dal 1988 sono state introdotte in commercio pompe a flusso assiale, il cui funzionamento verte sul posizionamento all’interno dell’arco aortico ed in aorta ascendente di una cannula a suzione, con una turbina alimentata da un motore esterno (Hemopump, Medtronic Inc., Minneapolis, USA). Inizialmente tale cannula (21-Fr.) veniva posizionata tramite isolamento chirurgico dell’arteria femorale ed era in grado di garantire un flusso massimo di 3,5 L/min; successivamente, si è potuto disporre di una cannula di minori dimensioni (14-Fr) posizionabile per via percutanea e capace di garantire un flusso di 2,2 L/min. L’uso di queste pompe è stato peraltro limitato dalle frequenti e gravi complicazioni associate (ischemia cerebrale e complicanze emorragiche maggiori)12. Un presidio di più recente sviluppo è l’Impella Recover LP 5,0 e 2,5 (Impella CardioSystems GmbH, Aachen, Germany), una pompa a flusso assiale in grado di sviluppare un flusso continuo rispettivamente di 5 L/min e 2,5 L/min, disponibile nella doppia versione, impiantabile per via chirurgica o percutanea. Il posizionamento di tale device è risultato più agevole rispetto all’Hemopump grazie all’uso di un filo guida. Poiché tali apparecchiature prevedono il posizionamento all’interno del ventricolo sinistro attraverso la valvola aortica, è controindicato un loro utilizzo in presenza di stenosi valvolare aortica e di protesi aortica meccanica. Inoltre possono verificarsi: 1) una ridotta efficacia in caso di insufficienza valvolare aortica; 2) fenomeni di emolisi dovuti all’elevata velocità di rotazione della pompa. Altro device di assistenza ventricolare ampiamente utilizzato è il TandemHeart (Cardiac Assist Technologies, Inc., Pittsburgh, PA, USA), in grado di sviluppare un flusso di 4 L/min. Il TandemHeart prevede una puntura trans-settale per il posizionamento della cannula in atrio sinistro e il posizionamento di una seconda cannula in arteria femorale, generalmente di 17-Fr. Il sangue ossigenato viene prelevato dall’atrio sinistro e veicolato, attraverso la pompa a centrifuga, in arteria femorale e, quindi, in aorta discendente. In 3 studi randomizzati sono stati confrontati questi due sistemi d’assistenza (Impella e TandemHeart) con la contropulsazione aortica per il trattamento dello shock cardiogeno13-15. In tutti e tre gli studi e in una recente metanalisi i sistemi di assistenza ventricolare hanno dimostrato possedere un’efficacia superiore rispetto al contropulsatore nel migliorare i parametri emodinamici e metabolici dei pazienti con STEMI complicato da shock cardiogeno. Tuttavia, a causa dell’elevato numero di complicanze peri-procedurali, non è stato possibile dimostrarne l’efficacia in termini di riduzione della mortalità. Quindi il loro ruolo, inteso come indicazioni e protocolli operativi, risulta tuttora incerto. Prospettive Se guardiamo indietro nel tempo, non possiamo non essere, almeno in parte, soddisfatti della progressiva riduzione di mortalità ospedaliera per shock cardiogeno ottenuta negli ultimi 30 anni (da oltre l’80% all’attuale 30-40%). Ciò grazie soprattutto a protocolli d’intervento sempre più aggressivi e mirati alla rapida risoluzione dell’ostruzione coronarica che ha causato lo STEMI e lo shock. D’altra parte, anche i più ottimistici dati attuali di mortalità non possono essere considerati come conclusivi, quando, nella migliore delle ipotesi, uno su tre dei nostri pazienti con shock muore in ospedale. È evidente che devono essere fatti ancora sforzi notevoli per abbattere ulteriormente questi tassi di mortalità. Tale ambizioso obiettivo potrà essere raggiunto, in parte ottimizzando gli interventi già a disposizione (reti extra-ospedaliere per il pronto riconoscimento di pazienti ad alto rischio di sviluppare shock cardiogeno e loro rapido invio a Centri di riferimento) ed in parte esplorando nuove potenziali strategie terapeutiche. In quest’ultimo ambito, un aspetto interessante è rappresentato dai nuovi farmaci inotropi. L’utilizzo dei farmaci inotropi positivi simpaticomimetici è stato associato ad un’aumentata mortalità a breve ed a lungo termine dall’evento ischemico acuto; tali farmaci, infatti, per quanto efficaci nel migliorare acutamente lo stato inotropo cardiaco e il tono vascolare periferico, comportano un aumento della richiesta miocardica di ossigeno, oltre ad avere un effetto cardiotossico diretto e pro-aritmogeno. Pertanto sono attualmente in fase di studio nuovi farmaci che abbiano, come il levosimendan, un’attività inotropa positiva che non comporti un aumento del consumo miocardico di ossigeno. Il recente studio HorizonHF16 ha valutato gli effetti a breve termine del trattamento con istaroxamina, un agente ad azione inotropa e lusitropa positiva che media l’inibizione della Na/K trifosfatasi e stimola l’attività dell’ATPasi nel reticolo endoplasmatico. Nello studio Horizon-HF, tale farmaco è stato in grado di ridurre la pressione capillare polmonare, di aumentare la pressione arteriosa sistemica e di migliorare la disfunzione diastolica in un gruppo di pazienti affetti da scompenso cardiaco e con frazione d’eiezione ventricolare sinistra <35%. Altra categoria promettente di nuovi farmaci ad azione inotropa positiva è rappresentata dagli attivatori della miosina cardiaca. 103 104 Recenti Progressi in Medicina, 101 (3), marzo 2010 Studi in vitro ed in vivo17,18 hanno dimostrato che essi, interagendo direttamente con la testa delle catene pesanti della miosina cardiaca, aumentano la velocità di formazione dei ponti actina-miosina, potenziando la durata e l’entità della contrazione cardiaca senza però aumentare il consumo di ATP. Studi preliminari su volontari sani19 e un primo studio su pazienti con scompenso cardiaco cronico20, trattati con un attivatore della miosina cardiaca (CK-1827452), hanno mostrato un aumento significativo del tempo di eiezione e della frazione di accorciamento frazionale delle fibre miocardiche, inducendo un incremento dello gettata sistolica e della gettata cardiaca, senza effetti sul consumo miocardico di ossigeno né sulle correnti transienti del calcio. Gli attivatori della miosina cardiaca appaiono pertanto promettenti farmaci ad azione inotropa, ben tollerati nei pazienti con scompenso cardiaco cronico e senza apparenti effetti pro-aritmogeni o cardiotossici, il cui utilizzo, in futuro, potrebbe essere favorevolmente esteso ai pazienti con shock cardiogeno. Un secondo approccio, a nostro avviso interessante, è rappresentato dalla ricerca di nuovi potenziali bersagli d’intervento terapeutico. Ad oggi, come già detto, non è stato dimostrato un chiaro vantaggio, in termini di sopravvivenza, dall’utilizzo di sistemi in grado di fornire un supporto completo al cuore e circolo, per cui nuovi approcci terapeutici dovrebbero essere esplorati per ridurre ulteriormente la mortalità dei pazienti con shock cardiogeno. Il riconoscimento di caratteristiche cliniche associate ad un aumentato rischio rappresenta una chiara opportunità per stabilire dove concentrare gli sforzi per migliorare la sopravvivenza e per validare nuove strategie d’intervento in futuri trial. Tra le principali caratteristiche cliniche associate ad una maggior mortalità nello shock sono: l’età avanzata, i valori di pressione arteriosa al momento del ricovero, la presenza di malattia coronarica multivasale, l’iperglicemia acuta e lo sviluppo di insufficienza renale acuta nelle prime fasi dello shock. In un recente studio eseguito nel nostro Centro21 è stata valutata la rilevanza clinica e prognostica dell’insufficienza renale acuta, definita come un aumento ≥25% dei valori di creatinina rispetto all’ingresso, nelle prime 72 ore di ricovero. Più della metà della popolazione considerata (55%) ha sviluppato un’insufficienza renale acuta. I pazienti con insufficienza renale acuta hanno avuto un decorso clinico più complicato ed una mortalità ospedaliera significativamente più alta dei pazienti che non hanno sviluppato questa complicanza renale (50% vs. 2,2%; P<0,001). In questa popolazione, lo sviluppo di insufficienza renale acuta è risultato il più forte predittore indipendente di mortalità, con un rischio relativo pari a 12,3 (95% intervalli di confidenza: 1,78-84,9; P<0,001). Considerata la stretta associazione tra sviluppo di insufficienza renale acuta e mortalità, è lecito chiedersi se, in questo contesto, una strategia tera- peutica in grado di prevenire il deterioramento renale acuto possa effettivamente tradursi in una ulteriore riduzione di mortalità. Alcuni studi effettuati su pazienti che sviluppano insufficienza renale acuta in altri contesti clinici (dopo chirurgia cardiaca, procedure di cardiologia intervenzionale, traumi, sepsi, ecc.) hanno dimostrato che se un trattamento sostitutivo renale viene iniziato precocemente o, addirittura, come strategia preventiva, è in grado di migliorare la sopravvivenza di questi pazienti. Esistono presupposti teorici, supportati da limitate esperienze positive riportate in letteratura22, per cui in corso di shock cardiogeno l’impiego precoce di un trattamento sostitutivo renale, come l’emofiltrazione o l’emodiafiltrazione, possa favorire il controllo dell’acidosi metabolica e delle anomalie elettrolitiche, la contemporanea prevenzione dell’ipovolemia circolante, mantenere un adeguato pre-carico ventricolare e una adeguata pressione di perfusione renale e della congestione polmonare, così preservando la stabilità emodinamica del paziente e riducendo gli effetti negativi dell’attivazione neuro-ormonale. Le riconosciute proprietà di un trattamento sostitutivo renale di tal genere potrebbero influenzare positivamente la performance cardiaca e quella renale e favorire il loro recupero funzionale. Ovviamente, le speculazioni teoriche dovrebbero essere valutate in trial clinici randomizzati. Resta comunque possibile ipotizzare che un intervento precoce di supporto, non solo cardiocircolatorio ma anche respiratorio e renale, riesca a consentire a questi pazienti di “traghettare” la fase acuta dello shock cardiogeno con minori ripercussioni sistemiche ed a migliorare la prognosi. In conclusione, nonostante gli importanti progressi fin qui ottenuti in termini di miglioramento della sopravvivenza grazie soprattutto al più diffuso impiego di tecniche di rivascolarizzazione coronarica precoce, lo shock cardiogeno rappresenta ancora oggi una condizione clinica caratterizzata da una mortalità proibitiva, il cui ulteriore abbattimento rappresenta la principale scommessa clinica per i prossimi anni nell’ambito del trattamento dell’infarto miocardico acuto. Bibliografia 1. Migliorini A, Moschi G, Valenti R, et al. Routine percutaneous coronary intervention in elderly patients with cardiogenic shock complicating acute myocardial infarction. Am Heart J 2006; 152: 903-8. 2. 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