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Perché nascondere la - LUISS Business School

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Perché nascondere la - LUISS Business School
PRIMA
A CURA DI GABRIELE GABRIELLI
Sommario
Editoriale: Perché nascondere la fragilità umana nel lavoro? - Lo spillo - L’aforisma Prossimità: Learning 2.0: cavalcare la tigre senza finire tra le sue fauci (1)- Professioni: New
skills for new jobs - Prospettive organizzative: Flexpatriate assignment - Personal skills:
L’importanza di cambiare pelle -Press: La forza dell’evidenza - Pay for…I: Verso nuove forme
d’informativa: l’Integrated Report- Pay for…II: Gli impatti gestionali delle operazioni di M&A Pay for…III: Executive compensation. Quando lavorare paga e appaga.
Numero XXV
Ottobre 2012
Editoriale
di Gabriele Gabrielli
Perché nascondere la
fragilità umana nel lavoro?
I
n un recente approfondimento proposto da
un quotidiano viene definita “generazione
esausta” quella dei trentenni e quarantenni
che non sanno più come bilanciare: da un
lato, la corsa a ostacoli allestita da una società e da modelli di gestione degli affari fondati sul
miglioramento continuo della performance; dall’altro,
gli affetti, la famiglia, la cura di sé e degli altri beni
relazionali. Una generazione, per dirla con le parole
di Michela Marzano, illusa di “poter conciliare
l’inconciliabile”. La vita, d’altra parte, rischia di apparire sempre più una faticosa occupazione dall’esito
scontato: insoddisfazione, sensazione di non essere
riusciti a far niente o poco, stress. Ci sentiamo impoveriti e svuotati da un canovaccio che conosciamo
bene e che mette in scena personaggi noti. C’è chi “è
stressato dall’ambizione, che dipende sempre dai
giudizi altrui, uno dalla frenesia del commercio …
alcuni sono continuamente occupati a creare pericoli
agli altri … c’è chi si logora in una volontaria schiavitù, all’ingrato servizio dei potenti, molti non pensano
che ad emulare l’altrui bellezza o a curare la propria
…”.
Come non ritrovarsi in
questa limpida e articolata descrizione? Ce n’è per
tutti. Non è però uno
scritto contemporaneo e
nemmeno moderno. Si
tratta di un passaggio del
De brevitate vitae scritto da
Seneca quasi duemila anni
fa. Questo per dire che il
rischio di essere travolti
da obiettivi falsi promossi da pratiche sociali, culturali e organizzative c’è sempre stato. E’ nella natura
dell’uomo prestare il fianco al fascino dei molti idoli
che costruiamo, come il successo a tutti i costi,
l’eterna giovinezza, l’euforia del pensare di poter fare
tutto ciò che ci piace (basta dire o scrivere “I like”)
e che il mondo gira tutto intorno a noi. Sono alcuni
dei rischi della post-modernità. Si possono trasformare in vere e proprie “trappole” se non c’è consapevolezza di quello che si fa e si rincorre. Occorre
“risvegliarsi”, allora, per essere presenti a se stessi e
al mondo. E’ questo il beneficio che porta la mindfulness, una risorsa scarsa nell’epoca attuale e per
questo sempre più necessaria.
Una maggiore consapevolezza si fa urgente anche
nei luoghi di lavoro, un bene irrinunciabile per
leader e manager che hanno la responsabilità di
guidare persone e organizzazioni.
In molte discussioni (anche nella rete) di questa
fine estate c’è una traccia significativa della voglia
di togliersi di dosso l’intorpidimento che ci rende
esausti. Questo moto di consapevolezza prende
forma almeno in tre direzioni.
La prima: che occorre liberarsi dal “mito
dell’individualismo” sfrenato che ci fa credere di
poter controllare tutto quello che ci circonda e
potercela fare senza l’aiuto di nessuno, vagheggiando idee e miti di onnipotenza che prendono
le sembianze del delirio manageriale.
La seconda: che domanda se è sensato costruire
una società fondandola sul primato dei migliori.
E’ davvero umano proporre modelli di vita civile
e professionale ancorando il successo alla logica
del prevalere su qualcun altro, perché altrimenti
sei fuori?
La terza: che suggerisce, infine, di rimeditare
l’essenza della nostra natura illuminandola per
quel che è, un dono che contiene in sé il limite, la
finitezza, la fragilità e quindi anche la possibilità
di sbagliare.
•
•
•
•
Le implicazioni positive di questo moto di risveglio per la pratica e per il benessere personale e
sociale sarebbero numerose. Vediamone alcune. Il
riappropriarsi di un atteggiamento sano ed equilibrato nei riguardi del mondo
(locus of control) ci aiuterebbe a comprendere meglio
il significato della felice
espressione di Thomas Merton che “l’uomo non è
un’isola”.
Non possiamo fare tutto da
soli, né possiamo controllare
tutte le variabili che influenzano il mondo che
circonda e tanto meno modellarlo a nostro piacimento.
(segue a pag. 2)
Lo spillo
di Pier Luigi Celli*
S
i fa presto a dire ‘lavoro’, con quel posto
che prima o poi dovrà pure venir fuori e così anch’io mi
sistemerò. In fondo sarebbe giusto, un ordine naturale per
come dovrebbe girare questo mondo, se tutti avessero la
loro chance e le cose riprendessero a disporsi giudiziosamente come un tempo.
Io ero uno di quelli che aveva fiducia; vedrai, mi dicevo, non
può essere che continui così, se sei bravo e ti fai valere,
qualcuno che ti apprezzi prima o poi lo trovi di sicuro.
Non ci ho fatto troppo caso ai primi rifiuti; è naturale,
pensavo, come puoi pretendere di imbucare subito la porta
giusta: sei alle prime armi, appena laureato, e non è detto
poi che sia una gran laurea, vai a sapere cosa cercano veramente, oggi, con tutto il mondo sottosopra e la gente che ne
ha troppe da pensare per rincorrere quelli che non si fermano mai.
Così ho avuto pazienza.
I colloqui non mi mancavano, soprattutto all’inizio; alcuni
interessanti, altri noiosi, con quegli intervistatori che un po’
finivano sempre col darti sui nervi per quanto si sbrigavano
a tirar via, quasi si trattasse di pratiche di scarso interesse
che bisognava comunque portare alla fine.
Di proposte quasi nulla. Qualche spezzone di orario a riempir buchi temporanei,alcuni mestieri che non avevano nulla
a che fare con i miei studi, o incarichi per procacciare affari
minuti, di nessun rilievo professionale; persino umilianti.
Ho resistito.
Avevo la mia dignità da difendere e un titolo di studi da
onorare; per non parlare della fatica che mi era costato.
Ad accorgermi che le occasioni di colloquio si stavano
diradando sempre più ci ho messo un po’ di tempo. Sapete,
non è che stai sempre lì a tenere la contabilità, specie se via
via che i mesi passano cominci a farci l’abitudine a questa
vita un po’ così, senza molti punti di riferimento, con le
giornate che si ammucchiano su, tra un bar, un giro con gli
amici, qualche viaggio in esplorazione qua e là, la ragazza
da curare, prima, e da inseguire poi.
E’ passato del tempo; più di quello consentito.
Così ora sono qui, ai mercati generali, che scarico cassette
di frutta e verdura alle quattro di mattina. Non è un gran
che, a voler essere seri, ma è sempre meglio di niente. Mi
permette una certa autonomia: posso comprarmi le sigarette, andare qualche volta al cinema e in pizzeria; persino fare
il pieno al vecchio motorino ereditato da mio padre.
Non ho perso la speranza, però.
Sono in attesa di incontrare un pezzo grosso della regione
( almeno, è quello che continua a dirmi mia madre che gli
cuce le camicie con le iniziali ) che si è impegnato a sistemarmi.
Bisogna solo dargli tempo. C’è un certo affollamento di
richieste; è comprensibile.
Ma si avvicinano le elezioni, e questo a noi ci rincuora.
*Direttore Generale LUISS Guido Carli
Perché nascondere la fragilità umana nel
lavoro?
(segue da pag. 1)
Non possiamo fare a meno dell’altro, forse nemmeno
del capo. C’è qualcuno che crede davvero che esistano
le bossless company, o non sono piuttosto l’espressione
più evoluta del processo di orizzontalizzazione delle
organizzazioni? Vivendo nell’epoca
dell’interconnessione, del resto, dovrebbe essere più
facile interiorizzare questa verità e comportarci di
conseguenza. Per esempio, ricercando e promuovendo
-anche nelle imprese e nei contesti produttivi- cooperazione e lavoro di team, anziché incentivare “giocate
singole”, costruendo e sperimentando con tenacia
sistemi (carriera, status, remunerazione, ecc.) che
premino lo sviluppo di quella che Richard Sennet
chiama “mentalità collaborativa”. Da soli o insieme?
Questa domanda sintetizza bene l’opzione che organizzazioni e imprese hanno di fronte per costruire
politiche di gestione e sviluppo delle persone.
Non può più reggere, poi, l’ideologia dell’up or out
come linea guida per costruire la società in cui viviamo e come incentivo di carriera e misura del successo.
Quello che occorre
sollecitare è piuttosto una appassionata
attenzione e cura per
tutti, un forte senso
di solidarietà e capacità di valorizzare
ciascuno. Anche le
imprese e le organiz-
Prossimità
Learning 2.0:
cavalcare la tigre senza
finire tra le sue fauci (1)
I
l termine “Learning 2.0” è utilizzato per indicare, genericamente, quei sistemi che utilizzano i media digitali e, in particolar modo, i
social media, per facilitare lo sviluppo
dell’apprendimento informale e la creazione
di community e network di apprendimento
(AA.VV. 2009).
La diffusione degli strumenti Web 2.0 (non solo) nei
contesti formativi, suscita speranze ma anche inquietudini. Gli addetti ai lavori, come spesso accade
in Italia quando si discute di innovazione (non solo
nei processi di apprendimento), sembrano dividersi
tra “apocalittici” (che temono la progressiva
Pagina 2
zazioni - se vogliono essere responsabili, cioè portatrici di un progetto che abbia risposte verso molti e
non soltanto verso alcuni - dovrebbero spingere
l’acceleratore verso questa direzione non elitaria ma
inclusiva.
Dal “risveglio” deriverebbere anche un’altra rilevante
implicazione. Saremmo attrezzati per non cadere
“nella trappola della perfezione”. Perché siamo vulnerabili e fragili. Possiamo sbagliare. Talvolta si
eccelle, altre volte no e “nella vita non si deve sempre
e solo cercare di essere i migliori”. Conseguire risultati diversi nei molti ambiti in cui si è impegnati
(nella vita personale, familiare, sociale, professionale, ecc.) è la norma e non lo “stigma” da nascondere e
di cui vergognarsi, direbbe Martha Nussbaum. E’ in
questa prospettiva che andrebbero anche rilette
molte delle politiche di welfare aziendale, ancorando
le scelte delle imprese e del management a una visione dell’uomo, prima ancora che a una delle tante e
caduche teorie degli affari. Risiede in questo difetto
antropologico l’essenza del diverso atteggiarsi complessivo della società e delle organizzazioni quando
considerano il lavoratore come risorsa e non come
persona. Il lavoratore come risorsa
umana è a termine e si consuma. Il
lavoratore in quanto persona no,
ha valore in sé e per sempre. Il
primo fallisce, il secondo sbaglia e
apprende. La risorsa umana, poi,
dipende solo dalla combinazione
e dal posto concessole dal processo di combinazione di altri fattori,
la persona invece è libera e re-
A CURA DI FABRIZIO MAIMONE
“digitalizzazione” dei processi formativi) e “integrati” (che, invece, sono
entusiasti sostenitori della rivoluzione tecnologica). A parere di chi scrive, la verità sta nel mezzo.
La bagarre scatenata, nei giorni scorsi, dal lancio della nuova versione del
famosissimo “cellulare intelligente” (assurto al rango di feticcio consumistico), dimostrano che un prodotto tecnologico può diventare un
fenomeno di costume, come la moda
o la musica pop. Nel secolo scorso, lo
psicologo russo Vygotskij ha scritto
che gli strumenti materiali, come il
linguaggio e i simboli, possono svolgere un ruolo di mediazione tra la
persona e il suo mondo sociale e culturale.
Le nuove tecnologie digitali sono diventate pervasive. I ragazzi della “generazione y”, nati dopo il 1978,
sono cresciuti a pane e internet. Ma anche i cosiddetti migranti digitali, nati nell’era analogica (come
chi scrive), ormai vivono immersi in una densa rete
L’aforisma
proposto da Franco Fontana*
“...l
a battaglia per la Qualità è uno dei prerequisiti per il successo delle
vostre aziende e per il nostro successo collettivo”.
Jacques Delors, discorso alla fondazione dell’EFQM 15 settembre 1988
*Direttore LUISS Business School
sponsabile. Nell’agenda della politica e delle
istituzioni, in quella dell’economia, delle imprese e del lavoro dovrebbe esserci questo
impegno a “risvegliarsi”, per fondare su una
diversa visione dell’uomo l’azione nelle rispettive sfere. Anche l’economia ha bisogno di una
antropologia per coltivare l’umanità, piuttosto
che per nasconderla o ghettizzarla.
Per approfondire:
•
Bruni Luigino, L’impresa civile, Università Bocconi
Editore, Milano, 2009
•
Goffman Erving, Stigma. L’identità negata, Ombre
Corte, 2003
•
Marzano Michela, “La generazione esausti”, La
Repubblica, 30 agosto 2012
•
Merton Thomas, Nessun uomo è un’isola, Grazanti,
Milano, 1998
•
Monti Daniela, “Il mito dell’individualismo. Perché
ci crediamo tanto?”, Corriere della Sera, 1 settembre
2012
•
Nussbaum Martha C., Nascondere l’umanità, Carocci, Roma, 2005
•
Nussbaum Martha C., Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea, Carocci, Roma, 2006
•
Rampini Federico, “Senza capo. Agli ordini del
manager collettivo”, La Repubblica, 2 settembre
2012
•
•
•
Seneca, De brevitate vitae, Rizzoli, Milano, 2012
Sennet Richard, Insieme, Feltrinelli, Milano, 2012
Siegel Daniel J., Mindfulness e cervello, Raffaello
Cortina Editore, Milano, 2009
di connessioni virtuali, grazie alle nuove
tecnologie. Quindi, i media digitali fanno
parte della nostra vita e far finta che non
esistano è un esercizio vano. Anche le organizzazioni devono fare i
conti con le nuove tecnologie, imparando a cavalcare la tigre senza finire
nelle sue fauci.
Il fatto che le nuove tecnologie siano onnipresenti, non assicura che
siano buone in sé. Il sole
ci dona la luce e il calore,
ma Archimede, più di
duemila anni fa, è riuscito a trasformare la luce
del sole in una temibile
arma. Qualunque mezzo
può essere buono o cattivo, a seconda dell’uso che
ne facciamo e dei fini che
perseguiamo.
Lo sviluppo del Learning 2.0 dipende
(soprattutto) dai principi e dalle scelte
metodologiche. Tagliando con l’accetta la
nostra analisi, possiamo individuare due
diverse filosofie: un approccio tecnocentrico e un approccio umanistico.
L’approccio
tecno-centrico
prefigura
l’ascesa di un nuovo tipo umano, l’homo
tecnologicus che, come nella trilogia di Matrix, si dis-incarna dalla sua umanità, per
divenire una specie di cyborg digitale, ancora uomo (ma per quanto ancora?) ma
anche (e sempre di più) identità virtuale.
(segue a pag. 3)
Learning 2.0: cavalcare la tigre
senza finire tra le sue fauci
(segue da pag. 2)
Il grande mito della letteratura cyber-punk,
descritta da film-manifesto, come lo stesso
Matrix e Johnny Mnemonic (ispirati da romanzi di fantascienza “cyber”). Alcuni approcci all’apprendimento mediato dalle nuove
tecnologie, tendono a
ridurre l’uomo alla sua
dimensione cognitiva e a
considerare la mente
come una sorta di
“sistema operativo”, riprogrammabile, utilizzando un linguaggio
formale, e manipolabile
(anche)
attraverso
l’utilizzo delle nuove
tecnologie.
Abbiamo poi un approccio che possiamo definire umanistico: secondo
questa prospettiva, la
tecnologia è uno strumento, non un fine. Chi
adotta questa filosofia, presuppone che la
relazione tra uomo e tecnologia non sia di
segno univoco, ma duale: la tecnologia cambia
l’uomo, come sostiene De Kerckhove (1996),
ma allo stesso tempo l’uso che a livello perso-
nale e sociale viene fatto dei media digitali
contribuisce a plasmare i media stessi, attraverso la definizione di pratiche sociali e comunicative (Gherardi 2010, Bruni, Fasol e Nicolini, 2005). Quindi, uomo e tecnologia sono
interdipendenti. Le persone usando le tecnologie possono acquisire maggiore consapevolezza sulle proprie strutture cognitive e sviluppare pratiche riflessive, a livello individuale e
sociale (Papert, 1980). I media possono facilitare processi di
apprendimento
sociale, fondati su
dinamiche
sociorelazionali (Siebert
e altri, 2009). Chi
scrive ritiene che
solo un approccio
che metta al centro
la persona possa
consentire
uno
sviluppo armonico e
sostenibile dei nuovi sistemi di apprendimento. Un
approccio di tipo inclusivo, che non faciliti la
nascita di nuove forme di alienazione. Nella
seconda parte di questo articolo vedremo alcuni esempi e proveremo a individuare alcune
buone pratiche, per l’implementazione di sistemi di Learning 2.0 centrati sulla persona.
Professioni
New skills
for new jobs
L
a crisi ha portato il tasso di occupazione medio fino al 69%, e il tasso di
disoccupazione fino al 10%; ipotizzando una stabilizzazione del mercato del lavoro ora, il raggiungimento di un tasso di occupazione del
75% entro il 2020 richiede una crescita media dell'occupazione di poco superiore
all'1% annuo. Colmare il divario per l'obiettivo
sarà un compito facile. Poter disporre di una di
una forza lavoro qualificata (sia in relazione ai
sistemi professionali e produttivi tradizionali sia
in ragione delle professioni emergenti, con particolare riferimento a quelle green) quale risorsa essenziale per sviluppare un'economia competitiva,
sostenibile e innovativa, in linea con gli obiettivi
della strategia Europa 2020, specie in tempi come i
nostri di ristrettezze di bilancio e di una pressione
della concorrenza mondiale senza precedenti.
Il recente report di programmazione strategica in
tema di occupazione (New skills and jobs in Europe: Pathways towards full employment, 2012 –
Direzione Ricerca e Innovazione, Unità Scienze
Sociali) individua alcune direzioni chiave alla base
delle politiche nazionali ed EU in tema di sviluppo
e valorizzazione delle professioni e di migliora-
Pagina 3
Per approfondire:
•
•
•
•
•
•
AA. VV. (2009),Learning 2.0: The Impact of Web 2.0 Innovations
on Education and Training in Europe, JRC-IPTS Final report,
European Commission;
Bruni A., Fasol R., Nicolini D. (2005), Una prospettiva sociologica allo studio della telemedicina, Sociologia del lavoro, n.
98;
Derrick De Kerckhove (1996), La pelle della cultura. Un'indagine sulla nuova realtà elettronica, a cura di Christopher Dewdney. Genova, Costa & Nolan.
Gherardi S. (2010), Telemedicine: A practice-based approach to
technology, Human relations, 63(4) 501–524;
Siebert S., Mills V. and Tuff C. (2009), Pedagogy of workbased learning: the role of the learning group, Journal of Workplace Learning, Vol. 21 No. 6;
Vygotskij L. (1990),Pensiero e linguaggio. Ricerche psicologiche,
a cura di L. Mecacci , Roma-Bari.
A CURA DI VALENTINA CASTELLO
mento del grado di flexicurity del mercato del lavoro (e/o dei suoi segmenti rilevanti). Esse fanno
riferimento sia agli investimenti necessari per aumentare le opportunità di impiego -con particolare
riferimento a giovani, adulti e migranti- sia a quelli
relativi al miglioramento della qualità del lavoro,
degli spazi di lavoro, della formazione. Il tema
delle competenze rimane centrale sia per le professioni emergenti di alto profilo sia per i profili più
dequalificati, anche e soprattutto in momenti di
crisi recessiva, a sostegno della sostenibilità stessa
delle politiche del lavoro e della crescita.
Sulla base di una ricerca comparativa tra 17 progetti condotti a livello nazionale, il documento riporta
una sintesi e valutazione critica delle principali
evidenze in Europa su professioni, lavoro e competenze. In particolare, la ricerca dimostra in modo
convincente, tra gli altri aspetti, che livelli di disoccupazione più bassi (e, parimenti, più alti gradi
di creazione di lavoro e bacini di impiego) si correlano a:
sistemi di istruzione caratterizzati da un accesso
più equo all'istruzione e
formazione professionale
continua formazione;
politiche del mercato del
lavoro più ambiziose, che
supportano una maggiore
mobilità professionale
(anche attraverso sistemi
efficaci di validazione
delle competenze e degli
apprendiementi) e lavorativa (migliorando l'allineamento dinamico e il
•
•
dialogo attivo nei vari segmenti del mercato del lavoro);
sistemi di organizzazione del lavoro che
valorizzano la “manutenzione” e lo sviluppo delle competenze e che non basta mantenere le persone in linea con le esigenze
del mercato (make people fit for the
market; mediante il miglioramento della
loro capacità individuali), ma che è anche
di grande importanza organizzare efficacemente i luoghi di lavoro in modo supportivo alle diverse esigenze ed abilità dei lavoratori (making the market fit for workers);
la crescente importanza delle competenze
trasversali, che attraversano i confini delle
discipline e delle professioni.
Il documento sottolinea con forza, infine,
come solo una efficace governance delle competenze (anche in termini di sistemi negoziati di flexicurity, di workplace democracy,
la ripartizione equa del rischio negli investimenti in competenze)
possa garantire il riforzo
reciproco tra sviluppo
delle competenze e creazione di lavoro in condizioni di crescente incertezza economica.
•
•
Pagina 4
Prospettive organizzative
A CURA DI ALESSIA SAMMARRA
Espatri a breve termine: che, seppur con diverse
varianti, consistono in delle missioni di lavoro
all’estero più lunghe di un semplice viaggio di
affari ma di durata inferiore all’anno, che generalassignment
mente non prevedono l’espatrio della famiglia.
International Business traveller: si tratta di incarichi di lavoro che richiedono di viaggiare frequentemente fra diverse sedi senza però prevedere
un vero e proprio trasferimento.
internazionalizzazione
Pendolari e incarichi a rotazione: si tratta a tutti
dell’economia continua ad
gli effetti di incarichi dual desk.
accelerare il passo. Per apprezNel primo caso, gli assegnatari lavorano in due Paesi
zare l’entità del fenomeno
basti pensare che nel mondo trasferendosi da uno all’altro una o due volte a settioperano 82.000 gruppi multi- mana, nel secondo, vi è alternanza di brevi periodi nei
nazionali che impiegano com- due posti. La ricerca ha evidenziato che queste nuove
plessivamente 80 milioni di tipologie non sostituiscono gli espatri tradizionali,
persone, pari al 4% della forza lavoro mondiale. che continuano ad essere considerati uno strumento
Il loro fatturato corrisponde al 25% del prodotto importante nella gran parte delle imprese che si trolordo e controllano due terzi di tutto il commer- vano in uno stadio avanzato del processo di internacio di beni e servizi a livello mondiale [1]. Oltre zionalizzazione. Piuttosto costituiscono un allargaalle multinazionali un numero crescente di im- mento del portafoglio di opzioni disponibili divenuto
prese, anche di piccole e medie dimensioni, gesti- indispensabile per soddisfare le maggiori esigenze di
sce attività oltre i confini domestici attraverso integrazione globale delle imprese [5]. Si tratta di
rapporti di import/export, contratti di subforni- forme più flessibili che rispondono anche alle moltetura internazionale, forme di delocalizzazione plici forme di internazionalizzazione cui oggi le improduttiva, alleanze internazionali, fusioni e prese ricorrono, che oltre agli investimenti diretti
esteri, includono modalità “più agili” come accordi,
acquisizioni cross border.
La gestione della mobilità globale costituisce joint venture e progetti di collaborazione. Inoltre,
una delle leve più importanti per favorire il coor- l’allargamento del portafoglio di international assidinamento delle attività internazionali e assicu- gnment ben si sposa con la necessità di allargare il
rare lo sviluppo di leader con un mindset globale. bacino di persone da coinvolgere in esperienze interQuest’ultimo aspetto sta acquisendo particolare nazionali, sia perché permette di contenere gli inverilevanza poiché l’orientamento internazionale è stimenti nei programmi di mobilità globale includenconsiderato un requisito essenziale per guidare do modalità meno costose rispetto agli espatri tradiorganizzazioni che operano in uno scenario com- zionali, sia perché amplia il target di persone potenpetitivo globale. Secondo alcune ricerche, ad zialmente interessate grazie alla possibilità di sceesempio, le imprese che scelgono un amministra- gliere incarichi che, pur avendo una dimensione
tore delegato con esperienza internazionale con- internazionale, garantiscono un impatto più conteseguono migliori risultati in termini di redditivi- nuto sulla vita privata rispetto agli espatri tradizionali.
tà [2].
Non prevedendo il trasferimento dell’intero nucleo
Per favorire la mobilità globale, oltre ai programmi di espatrio tradizionali, le imprese ricor- familiare, uno dei vantaggi dei flexpatriate assignment è
rono sempre più spesso a nuovi modelli di flexpa- quello di rendere l’incarico internazionale compatibitriate assignment [3]. Fra questi si possono distin- le con la carriera del partner e/o con l’eventuale interesse dei figli a non cambiare scuola, cerchia di amiciguere almeno tre diverse tipologie [4]:
zie e stile di vita.
Anche per il diTab. - Vantaggi e criticità nella gestione di flexpatriate assignment
pendente le esigenze di adattamento sono minori visto che
l’incarico ha durata limitata o
non richiede di
trasferirsi completamente
in
altro Paese, riducendo quindi la
p o r t a t a
dell’eventuale
shock culturale
che gli espatri
tradizionali normalmente comportano, almeno
nella fase iniziale
dell’incarico.
Inoltre, i flexpatriate assignment
non indeboliscono il network
professionale nel
Flexpatriate
•
•
L’
•
Paese di origine e soprattutto permettono di
mantenere uno stretto legame con la casa
madre, aspetto che potrebbe rivelarsi molto
importante per le opportunità di carriera e
promozioni una volta terminato l’incarico
estero. Spesso gli espatriati lamentano che
l’incarico internazionale, anziché garantire
maggiori opportunità di crescita, finisce per
diventare un ostacolo per la carriera per la
cosiddetta sindrome “lontano dagli occhi,
lontano dal cuore”. In effetti, la ricerca ha
dimostrato che non si tratta di un timore del
tutto privo di fondamento per chi intraprende un espatrio di medio-lungo termine (si
veda anche l’articolo pubblicato nel numero
19/2011 per un approfondimento su questo
tema).
Occorre tuttavia evidenziare che, pur costituendo forme più flessibili, questi incarichi
possono comportare un aumento significativo dello stress da lavoro e pesare negativamente sul work life balance. I viaggi molto
frequenti e la necessità di assentarsi dalla
famiglia spesso comportano sacrifici personali importanti. Anche sotto il profilo professionale, il titolare dell’incarico è chiamato
a confrontarsi con la diversità culturale e a
dover sviluppare spiccate competenze relazionali. Inoltre, i continui spostamenti e la
necessità di dover gestire un più ampio portafoglio di relazioni in contesti diversi potrebbe rendere difficile mantenere il livello
di produttività a cui si era abituati. A fronte
di tale complessità, non sempre le organizzazioni riservano ai flexpatriate assignment la
necessaria attenzione in termini di selezione
e preparazione all’incarico e di supporto al
dipendente durante la sua durata. Si tratta di
un errore che può pregiudicarne il buon
esito. Anche questi incarichi internazionali,
per avere successo, richiedono un’attenta
progettazione e gestione da parte della Direzione HR che deve farli rientrare a pieno
titolo negli investimenti destinati a rafforzare la mobilità globale.
Per approfondire:
1. Unctad (2010). World Investment Report, 2009.
2. Daily C.M., Certo S.T., Dalton D.R. (2000).
International experience in the executive suite: the path
to prosperity?, Strategic Management Journal,
21: 515-523.
3. Mayerhofer H., Hartmann L.C., MichelitschRiedl G. e Kollinger I. (2004). Flexpatriate
assignments: a neglected issue in global staffing, International Journal of Human Resource
Management, 15: 1371-1389.
4. Prandstaller F. e Quacquarelli B. (2011). Risorse
Umane Internazionali, Apogeo, Milano.
5. Scullion H. e Collings D.G. (2006). Alternative
forms of international assignments, in H. Scullion
and D.G. Collings (eds) Global Staffing, London, Routledge. Studies, 29: 159-177.
Pagina 5
Personal Skills
L’importanza di
cambiare pelle
Quattro lessons learned
sull’innovazione
“A lot of people in our industry haven't had very diverse
experiences.
So they don't have enough dots to connect, and they end up
with very linear solutions without a broad perspective on
the problem.
The broader one's understanding of the human experience,
the better design we will have.”
Steve Jobs
S
iamo a neanche una decina di anni fa.
Passeggiando per il vostro quartiere, in
una zona che frequentate poco, notate
una promettente libreria, molto ben
organizzata e piena di idee. Un punto
vendita tradizionale che vende volumi
di ogni tipo e qualche accessorio per la lettura.
Ripassate di lì per caso l’altro ieri e trovate tutto
completamente cambiato.
Al posto del piccolo esercizio commerciale scoprite ora un ipermercato gigante, fornito di ogni tipo
di prodotto e tecnologia. Incuriositi, lasciate la
vostra auto nel mega parcheggio e vi affacciate al
suo interno. Praticamente nulla è rimasto della
vecchia libreria: il luogo è supermoderno, pieno di
luci e di attrattive: vi si possono trovare dagli elettrodomestici agli oggetti di arredamento ,
dall’abbigliamento alla componentistica elettronica. Un grande settore è anche dedicato a libri e
musica … Chissà, pensate, il vecchio negozio avrà
chiuso e, al suo posto, si sarà trasferita una qualche
succursale di una catena multinazionale …
Ma poi vi avvicinate alla cassa e vedete che il titolare originario è lì e continua a fare il suo lavoro.
Come è possibile? I nuovi proprietari gli avranno
conservato il posto? Che cosa è accaduto? Lo andate a salutare e vi comunica che sì, il business è un
po’ cambiato, tutto è cresciuto in maniera esponenziale, da libreria il negozio si è trasformato in
piattaforma unificata multicanale, ma la squadra è
praticamente la stessa dei vecchi tempi
A CURA DI BARBARA PARMEGGIANI
(naturalmente con tante persone in più) e le cose continuano
ad andare a gonfie vele. Tanto
che si sono aperti negozi simili
a livello globale e gli investimenti fioccano.
In che strano luogo siete capitati? Dove accadono simili avventure? Uscendo fuor di metafora, ci troviamo nello spazio
siderale dell’e-commerce e il
nostro simbolico “cassiere” si
chiama Jeff Bezos , ovvero colui
che in pochi anni ha permesso
ad Amazon di realizzare una
simile incredibile avventura.
Molte sono le novità propagate da questo straordinario player del web, a partire dal fatto che
al suo esordio, l’azienda ha saputo introdurre un
algoritmo di analisi delle interazioni on-line che
potesse “intuire” i gusti di ciascun singolo cliente, studiando i comportamenti d’acquisto dei
suoi milioni di acquirenti. Ormai diffusa in molti altri siti è la proposta che viene mostrata ad
ogni singola ricerca su Amazon: “Chi ha acquistato questo articolo ha acquistato anche …”,
che stimola ad ampliare il proprio ordine e a
comprare altra merce correlata alla precedente.
In altre parole, ti fanno sapere che cosa vuoi tu!
E di solito ci azzeccano … spingendoti ad un
nuovo acquisto
Una soluzione che ha fatto scuola. Ma non è
certo la sola o la più importante. Il segreto è
nella capacità di trasformazione e nella velocità
alla quale si evolve e si cambia pelle.
“Essere nati per la trasformazione richiede il
coraggio di focalizzarsi prima di ogni altra cosa
sul consegnare valore al cliente” sostiene Scott
Anthony, uno dei guru contemporanei dei processi di innovazione nel business. “E’ proprio da
lì che bisogna partire … Identificare valore significa anzitutto pensare ad una importante caratteristica o attività non supportata o mal supportata che i clienti vorrebbero trovare in un prodotto servizio, e partire da lì per individuare una
soluzione ben definita, anche se profondamente
diversa da ciò che siamo in grado di offrire oggi.
“Se volete continuamente rivitalizzare il servizio che offrite ai vostri clienti, non
potete fermavi a fare ciò in cui siete
bravi” suggerisce ancora Jeff Bezos,
dichiarato Person of the Year di
Time Magazine nel 1999, guadagnandosi così la copertina più prestigiosa dell’Occidente, “dovete
continuamente chiedervi ciò di cui i
vostri clienti hanno bisogno e ciò
che chiedono. Poi, non importa
quanto sia difficile, è meglio che
diventiate bravi a farlo!"
Quali sono dunque le caratteristiche di un ambiente innovatore? Ne
ho individuate almeno quattro.
Il punto di partenza, come dicevamo, è l’ attitudine a focalizzarsi sui
clienti e a saperli osservare in tutte
le loro sfumature, in una
sorta di indagine antropologica di costumi e
necessità più o meno
palesi.
La seconda è la capacità
di pensare in maniera
spregiudicata (nel senso
etimologico della parola,”senza pregiudizi o
idee preconfezionate), in
maniera aperta, non convenzionale, in grado di
sfidare il luogo comune e
il “si è sempre fatto così”.
A ciò va coniugata poi l’abilità di trasformarsi
velocemente di conseguenza, che implica una
costante tensione a superare le routine inefficaci, ad adottare nuove abitudini, ad abbracciare il nuovo nella pratica quotidiana.
La quanta ha a che fare con il superamento
della sindrome da insuccesso. Non sempre
infatti l’innovazione dipende dall’effort personale. E’ un processo che ha al suo interno un
elevato tasso di aleatorietà (progetti troppo
ambiziosi o costosi, timing non congruente,
raggio d’azione troppo ampio, progetti che non
sono “giusti” per l’azienda …). I motivi
dell’insuccesso possono essere tanti, a volte
pura e semplice sfortuna.
Ma per affrontarli sembra importante la regola
del GIORNO 26 del Little Book of Innovation:
come posso motivare e retribuire
l’innovazione? Risposta flash: non premiare
l’innovazione a partire dai risultati ottenuti,
ma ancorare i rewards ad atteggiamenti e comportamenti innovativi, anche se gli output …
non sono così brillanti.
Con una cultura aziendale ispirata a queste
quattro caratteristiche sarà possibile assaporare in breve i vantaggi straordinari di una trasformazione tempestiva!
Per approfondire:
•
•
•
•
Seizing the White Space: Business Model Innovation
for Growth and Renewal, Mark W. Johnson
Press, Febbraio 2010.
Scott D. Anthony, The Little Black Book of Innovation: How It Works, How to Do It, Harvard
Business School Publishing, 2012
Matthew E. May, Guru Review: The Little Black
Book of Innovation, Amex Open Forum, 24
gennaio 2012
TIME Magazine Cover: Jeff Bezos - Person of the
Year, 27 Dec 1999
Press
Pagina 6
A CURA DI LAURA INNOCENTI
La forza
dell’evidenza
le persone con performance scarse traggono maggiore beneficio dai feed-back rispetto a quelle con
performance elevate;
i conflitti relativi al “task” migliorano le performance di un gruppo, mentre quelli di natura relazionale le penalizzano;
i test che misurano l’integrità non sono affidabili
poiché le persone tendono a mentire.
A quanti avessero risposto affermativamente anche
ad una sola di queste affermazioni gli autori rispondono facendo ricorso ad un vasto e consolidato corpo di ricerche empiriche che ne hanno dimostrato
l’infondatezza.
Adottare un approccio “evidence-based” richiede un
cambiamento radicale rispetto alle modalità più
consuete e in qualche modo rassicuranti che orientano generalmente le scelte di HRM. Significa, infatti,
in primo luogo assumere una prospettiva critica non solo rispetto a
ciò che non funziona
nell’organizzazione, ma soprattutto rispetto a ciò che sembra
funzionare. Significa non fermarsi
ai risultati ma cercare risposte
oggettive, dentro e fuori la propria
organizzazione, che siano in grado di supportare in modo empirico le scelte effettuate.
Come muoversi quindi nella direzione di un maggiore orientamento “evidence-based”? Gli autori individuano due passi fondamentali: il
primo consiste nell’acquisire maggiore familiarità con gli studi e le
ricerche condotte dalla comunità
•
•
L
a crescente complessità e frenesia che
connota le organizzazioni del terzo
millennio richiede sempre più spesso
ai manager di prendere decisioni
rapide, talvolta istantanee. In situazioni di forte pressione può diventare
quindi difficile fare “la scelta giusta”,
ovvero individuare la risposta organizzativa e/o
gestionale più appropriata. Ci si affida prevalentemente all’esperienza, all’intuito, al benchmark, ma
più raramente ai fatti. Questa è la
tesi provocatoriamente proposta
da Denise Rousseau e Eric Barends in un recente articolo apparso sullo Human Resource
Management Journal. Obiettivo
degli autori è esortare ad un maggior ricorso ad un approccio
“evidence-based”, ovvero suscitare interesse da parte del mondo
degli HR “practitioner” ad avvalersi maggiormente di evidenze
emerse da studi e ricerche empiriche come elementi a supporto
dei processi decisionali.
Per sostenere la loro tesi gli autori propongono un breve test. È
vero o falso che:
•
Pay for...
Verso nuove forme
d’informativa:
l’Integrated Report
di Francesco Pasquale De Mutiis
I
I “Report Integrato”, questa sembra essere
l’ultima frontiera in tema di informativa al pubblico. Si tratta di un vero e proprio “approccio
alla trasparenza”, ossia rendicontare in maniera
unitaria ed integrata le informazioni finanziarie,
sociali, ambientali e di governance di un’intera
organizzazione. Per la prima volta le aziende si
troveranno quindi a dover predisporre un unico documento di informativa con il risultato da un lato, di accrescere il livello trasparenza verso la collettività e la comunità finanziaria e dall’altro, di ridurre la complessità
legata agli obblighi di informativa.
Se vogliamo, il primo stadio di questa “evoluzione informativa” si è avuto con la diffusione del cosiddetto bilancio di sostenibilità (o CSR Report).Con la progressiva
globalizzazione dell’economia infatti, la richiesta di una
sempre maggiore trasparenza circa le attività delle aziende da parte di tutti i portatori di interesse, ha fatto
emergere nelle società (soprattutto di maggiori dimensioni) l’esigenza di presentare alla comunità esterna non
solo le proprie performance finanziarie, ma anche quelle
più propriamente derivanti dalla gestione di attività
sociali ed ambientali.
Il secondo step, nel processo di evoluzione dei sistemi di
scientifica di riferimento. Benché talvolta risentano
di un linguaggio autoreferenziale e possano risultare astrusi nella componente statistica, gli studi e le
ricerche accademiche offrono evidenze empiriche
solide e affidabili che possono fornite validi spunti
di riflessione per chi opera nelle organizzazioni. Il
secondo consiste nell’acquisire una maggiore sensibilità alla valorizzazione dei dati empici disponibili
“in house”. Talvolta può capitare che le funzioni HR
non riescano – per mancanza di tempo o di una
specifica sensibilità – ad “estrarre” dai molteplici
dati in loro possesso indicazioni che possono essere
importanti nell’indirizzare le decisioni. Si tratta in
alcuni casi di provare a leggere i dati con degli
“occhiali” nuovi, in altri di andare ad acquisire mirate informazioni supplementari
Un orientamento “evidence-based” risulta efficace
poiché consente di “separare il grano dal loglio”,
identificando le pratiche realmente più adatte per
ciascuna organizzazione. Inoltre, il ricorso a dati
empirici consente alla funzione HR di argomentare
meglio le proprie decisioni, agendo il proprio ruolo
di indirizzo con crescente empowerment. Last but
not least, una maggiore sensibilità agli aspetti empirici può favorire crescenti occasioni di confronto
e scambio tra i mondi talvolta troppo distanti
dell’accademia e dell’azienda.
Per approfondire:
Rousseau, D.M, Barends, E.G.R (2011). Becoming an evidence-based practicioner, Human Resource Management
Journal, 3:221-235.
A CURA DI GABRIELE GABRIELLI
reporting, riguarda recentemente, la definizione di un
modello di rendicontazione integrata che illustri in un
solo documento sia le informazioni contabili e finanziarie (tipiche del bilancio civilistico) sia quelle sociali
e ambientali (proprie del bilancio di sostenibilità ). E’
importante ricordare come questo approccio non si
esplichi nella somma delle informazioni all’interno di
un unico Report, bensì nell’integrazione; illustrando
cioè quelle che sono le sinergie tra le performance
finanziarie e non finanziarie e le modalità secondo cui
queste si influenzano a vicenda, evidenziando non
solo i risultati della gestione passata, bensì la capacità
dell’impresa di creare e mantenere valore nel corso del
tempo dall’interazione di questi diversi fattori.
Data la portata dell’iniziativa e la numerosità degli
attori coinvolti, sono stati costituiti veri e propri organismi internazionali allo scopo di studiare ed elaborare un modello di reporting coerente con le esigenze di
trasparenza richiesta alle aziende di oggi, primo fra
tutti è il Global Reporting Initiative (GRI)1 considerata la massima autorità mondiale in materia di rendicontazione e sostenibilità. Ilpunto di partenza del
GRI è stato la creazione, nel 2010, dell’International
Integrated Reporting Council (IIRC)2, un comitato
che riunisce i rappresentanti dei principali gruppi di
stakeholder, per discutere le componenti del nuovo
modello di rendicontazione aziendale. Il ruolo
dell’IIRC,
così
come
riportato
sul
sito
dell’organizzazione, è:
“Reach a consensus among governments, listing authorities,
business, investors, accounting bodies and standard setters
for the best way to tackle the challenges of Integrated Repor•
ting;
Identify priority areas where additional work is
needed and provide a plan for development;
Develop an overarching Integrated Reporting
framework, which sets out the scope and key components of Integrated Reporting (‘the <IR>
Framework’);
Consider whether integrated reporting should be
voluntary or mandatory;
Promote the adoption of Integrated Reporting by
relevant regulators and report preparers”.
Alla luce dell’attività di studio nell’ottobre
2011 l’IIRC ha lanciato un Programma Pilota
della durata di due anni a cui hanno aderito
61 aziende leader a livello mondiale; tale
programma ha lo scopo di facilitare la creazione di un framework globalmente condiviso per le pratiche di reporting integrato.
Secondo quanto emerge dalle dichiarazioni
dei leader dei suddetti istituti, entro il 2015
tutte le imprese saranno tenute a comunicare
le performance ambientali, sociali e di governance, mentre uno standard per il Reporting
Integrato dovrà essere sviluppato, testato e
approvato entro il 2020.
•
•
•
•
Per approfondire:
•
•
https://www.globalreporting.org/Pages/
default.aspx
http://www.theiirc.org/
Pay for...
Pagina 7
Gli impatti
A CURA DI GABRIELE GABRIELLI
Fig. 1 - European M&A annual trend
gestionali delle
operazioni di M&A
di Aldo Santalco
L
Forte attenzione è concentrata sul target
price mentre poca viene data sulla implementazione di tali operazioni e sull’effettivo
sfruttamento delle sinergie attese.
L’integrazione di due aziende non può infatti trascurare, sia nella fase a priori che in
quella dell’implementazione, elementi come
le diverse culture aziendali e la loro compatibilità. Diversi valori, modi di lavorare,
sistemi e processi se non accuratamente
gestiti e comunicati, sono spesso causa di
inefficienze, rallentamenti e peggioramento
del clima aziendale.
Tali criticità sono state confermare da una
survey a livello globale sviluppata da Aon
Hewitt su 123 aziende appartenenti a diversi settori in merito alle principali complessità dei processi di M&A.
Con riferimento alle principali cause di
insuccesso (vedi fig. 2), le aziende hanno
indicato, oltre a un processo di integrazione
più lungo del previsto (44%), principalmente aspetti legati all’human capital come
quelli dell’integrazione culturale (33%),
della comunicazione (32%) e la scarsa attenzione alle persone (30%).
Con particolare riferimento alle conseguenze legate all’insuccesso nell’integrazione di
diverse culture (vedi fig. 3), le aziende par-
e operazioni straordinarie di
Merger & Acquisition (M&A)
sono per loro natura di forte carattere strategico sia per
l’azienda che compra (bidder) che Fonte: Mergermarket – M&A Insider – June2012.
per quella comprata/incorporata
infatti molteplici sia dal punto di vista econo(target) ma possono anche essere fonti di
mico che da quello del capitale umano. Dal
notevoli complessità.
punto di vista economico, ad esempio
I recenti trend evidenziano un calo di tali
un’acquisizione a un prezzo eccessivamente
operazioni sia per numero che per valore
alto potrebbe fortemente compromettere la
economico (vedi fig. 1) oltre che a uno sposituazione economico-patrimoniale del bidder,
stamento geografico verso il Continente
ma sono spesso gli aspetti legati al capitale
asiatico (nel 2011 Cina + 21%, India +27%).
umano a essere quelli maggiormente trascuraIn Europa,a maggio 2012, il deal di maggior
ti. Elementi di tipo puramente organizzativo
valore è avvenuto nel settore industriale tra
come l’integrazione di due strutture organizla Eaton Corporation e la Cooper Industries
zative – sempre più frequentemente risolta
per un valore complessivo di 9,3 miliardi di
semplicemente con riduzioni del personale
euro, seguito dalla recente cessione a Cassa
depositi e prestiti da parte di ENI del 30% di Fig. 2 - Principali cause di insuccesso in operazioni di M&A
Snam per un contro valore di 3,5 miliardi di
euro. Nonostante ciò c’è da dire che l’Italia
non è mai stata particolarmente influente tra
i Paesi europei in questo tipo di operazioni,
rappresentando soltanto il 6,3% in termini
di valore rispetto all’Europa. Nei primi nove
mesi del 2012, il controvalore è stato pari a
9,4 miliardi di euro, contro i 21 dello stesso
periodo l’anno precedente (KPMG Corporate Finance Report).
Per quanto riguarda invece i settori maggiormente interessati dalle operazioni di M&A,
questi risultano essere quelli dei trasporti,
dell’industria e dei beni di largo consumo.
Tali operazioni, seppur siano un importante
strumento per l’attuazione di delicate decisioni strategiche quali ad esempio una diver- Fonte: Culture Integration in M&A – Survey Findings Aon Hewitt 2011.
sificazione di prodotto/settore/area geografinella target company – ed elementi legati ai tecipanti all’indagine hanno evidenziato
ca, richiedono un’estrema accuratezza nella
sistemi e ai processi – come l’integrazione delle una perdita di produttività e di concentraloro gestione sia nel momento precedente
diverse piattaforme IT – rappresentano tra le zione (80%), una perdita di talenti chiave
che in quello successivo alla conclusione del
principali cause di insuccesso delle operazioni (78%), il fallimento nello sfruttamento delle
deal. Gli impatti gestionali possono essere
di M&A.
sinergie auspicate (77%) e una riduzione
dell’engagement della poFig. 3 - Principali conseguenze di un insuccesso nell’integrazione culturale
p o la zio ne a zie ndal e
(73%).
Fonte: Culture Integration in M&A – Survey Findings Aon Hewitt 2011.
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Pagina 8
Executive
Compensation.
Quando lavorare paga e
appaga
di Valentino Salvatore De Pietro
P
arlare di executive compensation significa analizzare le retribuzioni degli
amministratori e dei massimi dirigenti d’impresa e confrontarli tenendo conto delle relazioni con le
performance aziendali di questi. E’ un tema
complesso, ma che ha alla base la correlazione
tra la performance e le retribuzioni di top
manager aziendali che percepiscono degli stipendi da capogiro, anche se non sono solo le
retribuzioni pecuniarie a concorrere al benessere di questi individui. La strategia aziendale
che sostiene a questa logica risiede nel ricercare
il benessere dell’individuo, fornendogli una
serie di elementi e soluzioni che, integrate tra
loro permettano di incentivare al massimo il
grado di soddisfazione del manager. Bisogna
dunque mettere sulla bilancia le remunerazioni
con le performance aziendali pianificate. Il pacchetto remunerativo di questi vertici aziendali
può essere articolato come segue: c’è un compenso pecuniario fisso percepibile sotto forma
di lavoro dipendente (RAL) o come compenso
per la carica di amministratore (emolumento),
ci sono poi dei benefici addizionali
(assicurazioni, beni per la persona o la famiglia) e un compenso variabile legato alla valutazione di specifici obiettivi predeterminati. A sua volta la retribuzione variabile dipende dall’arco temporale di maturazione – è
il caso dei Bonus o IBT
(incentivi di breve
termine) - connessi al
conseguimento di obiettivi di portata annuale. L’incentivazione
A CURA DI GABRIELE GABRIELLI
delle posizioni aziendali apicali che
ricoprono ruoli particolarmente importanti viene spesso
retribuita attraverso
gli ILT (incentivi di
lungo termine) che
permettono di ridurre i rischi di shortermism; si propone
dunque un premio
che viene incassato dal manager alla fine di
due o tre anni. In linea di massima si può far
passare l’associazione per la quale gli incentivi monetari valgono per il breve periodo mentre gli incentivi azionari sono più efficaci per
il lungo. Le aziende negli anni hanno capito
quanto sia importante trattenere le loro risorse chiave ed è per questo che sono nati i
benefits che vanno ad aggiungersi al pacchetto retributivo dei top manager. Questi benefits negli ultimi anni hanno raggiunto livelli
di soddisfazione e variabilità tale che molti
dirigenti apprezzano di più l’erogazione diretta di servizi da parte dell’azienda che non
esclusivamente la retribuzione in denaro.
Possiamo suddividere i benefits in tradizionali e perquisites; tra i primi troviamo: i fondi
pensione, il rimborso delle spese sanitarie e le
coperture del rischio decesso e infortunio; le
perquisites, invece, sono benefits che ricoprono
un più ampio spettro di categorie: prestiti
personali a tassi agevolati, buoni pasto, cellulare aziendale, gestione flessibile dei giorni di
ferie, servizi di fitness e
wellness, la company car
e per i top manager anche l’iscrizione a club
esclusivi, l’utilizzo
dell’autista o del jet privato, la consulenza finanziaria legale o fiscale,
ecc...
Per studiare queste dinamiche in maniera sistematica la LUISS Business School ha creato un
apposito Osservatorio, che con
il supporto di
Confindustria e
di partner aziendali studia
la retribuzione
dei membri dei
board e la corporate governance aziendale.
In un recente incontro tenutosi presso la
LUISS dal titolo “Far crescere le imprese per far
crescere il Paese”si è discusso di executive
compensation assieme ad esperti di AON
Hewitt. Si è analizzato lo stato
dell’economia internazionale e nazionale,
soffermandosi sull’evoluzione dei sistemi
retributivi e incentivanti per il management
aziendale.
Dalle loro analisi traspare una crisi economica italiana che risente del rallentamento
dell’economia mondiale; le difficoltà italiane
legate alla crescita affondano le radici nel
terreno di un fortissimo debito pubblico
accumulato negli anni ‘70 e ‘80. Oggi, gli
investimenti sono bloccati, le nostre aziende
mostrano una capacità produttiva in eccesso
e qualche difficoltà di reazione
nell’aggiustare le proprie strategie di mercato. I consumi sono deboli, gli investimenti in
calo e il contributo positivo arriva solo
dall’interscambio con l’estero. Ma esiste
ancora un barlume di speranza: le PMI italiane, infatti, mostrano di essere capaci di
raggiungere mercati molto lontani, sintomo
di vitalità del nostro tessuto industriale.
Newsletter a cura dell’ Area Executive Education &
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HANNO COLLABORATO A QUESTO NUMERO:
Francesco Pasquale De Mutiis
Valentino Salvatore De Pietro
Senior Consultant PriceWaterhouse
Coopers Advisory
Giornalista free lance
Aldo Santalco
Consultant Aon Hewitt
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