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Contratti a termine dopo il riordino della disciplina

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Contratti a termine dopo il riordino della disciplina
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
Contratti a termine
dopo il riordino della disciplina
Eufranio Massi – Esperto in Diritto del lavoro
Il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 144 del 24 giugno
2015, ed entrato in vigore il giorno successivo, ha
avuto il merito di riordinare in un unico testo le tipologie contrattuali diverse dal rapporto a tempo indeterminato pieno, di risolvere alcune questioni
controverse sia sotto l’aspetto amministrativo che
giurisprudenziale e di eliminare, di conseguenza, un
gran numero di disposizioni specifiche, spesso sovrappostesi nel tempo, presenti nel nostro ordinamento.
Di conseguenza, anche il D.Lgs. n. 368/2001 (peraltro, soggetto, nei suoi quattordici anni di vita, a
numerose modifiche ed interpolazioni) ha seguito
la stessa sorte ed è stato sostituito da una serie di
articoli che vanno dal 19 al 29 ed è auspicabile che,
almeno per un certo periodo, il Legislatore si fermi.
Alcune premesse, prima di entrare nel merito degli
specifici problemi si rendono necessarie.
La legge 16 maggio 2014, n. 78, che ha convertito,
con modificazioni, il D.L. n. 34/2014, ha rappresentato, nel nostro ordinamento lavoristico, una
sorta di “spartiacque” per quel che riguarda la disciplina dei contratti a termine: si è giunti, infatti,
al traguardo di un percorso iniziato, timidamente,
con l’art. 28 della legge n. 221/2012 in favore delle
c.d. “start up innovative” per l’assunzione a tempo
determinato del personale e, proseguito, in maniera
più incisiva, con le leggi n. 92/2012, n. 99/2013 e,
soprattutto, con la contrattazione collettiva, anche
di secondo livello, sviluppatasi a partire dal 28 giugno 2013, data di entrata in vigore del D.L. n. 76.
Le ragioni giustificatrici che hanno costituito il
“perno” della materia non ci sono più e la loro assenza influisce anche sull’istituto della proroga (peraltro, molto ampliato e diverso), non più ancorato
alle ragioni oggettive e, da ultimo, con le modifiche
apportate dall’art. 21 D.Lgs. n. 81/2015, alla stessa
attività.
Si è trattato di un passaggio epocale, che appare, tuttavia, in linea con la Direttiva comunitaria n.
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1999/70/Ce e con l’accordo quadro sottoscritto tra
Ces, Unice e Ceep (è sufficiente il solo requisito del
limite massimo fissato a trentasei mesi, rispetto ai tre
possibili ipotizzati anche in alternativa) e che postula
un profondo ripensamento dell’istituto, rispetto al
quale molti altri aspetti sono stati toccati: ci si riferisce ai limiti numerici legali prima non esistenti, al
momento della verifica degli stessi, alle proroghe non
più correlate ai singoli contratti, all’introduzione di
una sanzione amministrativa applicabile in caso di
sforamento della percentuale massima, all’informazione sui diritti di precedenza ed alle nuove previsioni in favore delle donne in astensione obbligatoria
per maternità.
Ovviamente, una particolare attenzione sarà dedicata
ai primi orientamenti amministrativi espressi dal Ministero del lavoro con la circolare n. 18 del 30 luglio
2014 e che appare abbastanza in linea, per certi aspetti, alle novità chiarificatrici introdotte con il D.Lgs. n.
81/2015.
L’analisi che segue riguarda, come detto, gli articoli
da 19 a 29 del predetto provvedimento.
La riflessione non dimenticherà di esaminare anche
alcune tipologie contrattuali “speciali” che sono fuori
dall’ombrello applicativo del decreto legislativo pocanzi citato o che da tale disposizione sono parzialmente “toccate” e che tuttavia sono molto importanti:
ci si riferisce, ad esempio, ai contratti a termine dei
lavoratori in mobilità, a quelli dei dirigenti, a quelli
dei lavoratori marittimi ed a quelli che riguardano il
settore pubblico. Per quanto riguarda questa ultima tipologia, in particolare, l’apparato pubblico, estremamente variegato e “speciale”, non può, ad esempio,
per evidenti motivi, accettare sia la fine delle ragioni
giustificatrici che, ad esempio, la conversione automatica del rapporto a tempo indeterminato per superamento del limite massimo dei trentasei mesi, stante
la previsione contenuta nell’art. 97 della Costituzione.
III
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Inserto
Art. 19: apposizione del termine e durata
massima
La fine delle ragioni giustificatrici ed il limite
massimo dei trentasei mesi
Afferma il Legislatore delegato che l’apposizione di
un termine al contratto di lavoro subordinato (l’art. 1
ha confermato che la forma comune del rapporto di
lavoro subordinato è rappresentata dal contratto a
tempo indeterminato) è consentita per un periodo di
durata non superiore a trentasei mesi, senza l’obbligo
della introduzione di alcuna causale.
La fine delle ragioni giustificatrici, avvenuta con il
D.L. n. 34, convertito, con modificazioni, nella legge
n. 78/2014, è stato l’aspetto veramente innovativo
che ha permeato la riforma del 2014: a rendere possibile il raggiungimento di questo risultato hanno molto
contribuito le pattuizioni collettive nazionali o di secondo livello (si pensi, ad esempio, al contratto del
settore alimentare dell’industria ove la “acausalità”
era arrivata a ventiquattro mesi ed era possibile farvi
ricorso, per un massimo di dodici mesi, pur se il lavoratore aveva già stipulato altri contratti a termine con
causale). Allora, per effetto delle disposizioni introdotte con la legge n. 92/2012, il contratto senza ragioni giustificatrici era possibile soltanto se era il primo
rapporto di lavoro, cosa che, almeno in dottrina, non
aveva portato ad indirizzi uniformi.
Ovviamente, non porre la causale non è un obbligo e,
in alcune ipotesi (si pensi alla stagionalità ed alle ragioni sostitutive) ai fini della esclusione dal computo
previsto dai contratti collettivi nazionali è, forse, opportuno continuare a farvi riferimento. In ogni caso,
siccome a tali tipologie a termine è correlato il non
pagamento dell’addizionale dell’1,40%, in vigore dal
1° gennaio 2013, l’Inps ha avuto modo di tranquillizzare i datori di lavoro attraverso il messaggio n. 4152
del 17 aprile 2014. L’Istituto ha chiarito che, pur in
assenza della motivazione specifica (ci si riferisce alle ragioni sostitutive), i datori di lavoro possono, in
ogni caso, continuare a non pagare l’addizionale
compilando il flusso uniEmens, valorizzando l’elemento “Qualifica 3” con il previsto codice A.
La fine delle causali (inteso come facoltà e non obbligo) può, tuttavia, non essere presa in considerazione
da un datore di lavoro in presenza di «ragioni sostitutive» sia nel caso della maternità che in eventuali ipotesi di esclusione dal limite percentuale previsto dalla
contrattazione collettiva. E, a proposito della “sostituzione per maternità” potrebbe essere inserito nel contratto un accorgimento in considerazione del fatto
che, talora, le sostituzioni sono molto lunghe ed il pericolo del superamento del limite massimo (anche,
per effetto, della sommatoria con precedenti rapporti)
potrebbe essere immanente. Si potrebbe pensare ad
una motivazione “duplice” in cui accanto a quella
“canonica” che fa riferimento alla sostituzione della
lavoratrice assente per maternità, se ne aggiunge
un’altra con la quale si indica che, in ogni caso, quale
IV
ultimo giorno di lavoro è quello del compimento dei
trentasei mesi (anche in sommatoria) pur se la titolare
non ha ripreso servizio.
Ovviamente, l’assenza di ragioni giustificatrici riguarda anche l’ulteriore contratto a tempo determinato,
oltre la scadenza dei trentasei mesi, di durata massima di dodici mesi (fatte salve diverse determinazioni
adottate dalla contrattazione collettiva, anche aziendale) che il datore di lavoro ed il lavoratore (non più
assistito, obbligatoriamente, da un rappresentante sindacale) possono sottoscrivere avanti al funzionario
della Direzione territoriale del lavoro.
Il limite massimo dei trentasei mesi non riguarda i
contratti di lavoro stagionali per i quali è restata invariata (comma 2) la previsione contenuta già nell’art.
5, comma 4-ter del D.Lgs. n. 368/2001: essi percorrono una strada parallela, destinata a non incontrarsi
mai, con quella degli altri contratti a termine. Infatti,
oltre alla non computabilità all’interno dei trentasei
mesi intesi quale limite massimo, va ricordato che lo
“stop and go” tra un rapporto e l’altro non trova applicazione e che l’esercizio del diritto di precedenza
per un nuovo contratto, ora rafforzato attraverso l’informazione contenuta nella lettera di assunzione, riguarda soltanto le ulteriori “campagne stagionali”.
Il comma 2, dopo aver fatto salve le eventuali disposizioni diverse previste dalla pattuizione collettiva,
anche aziendale, sottoscritta dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano
nazionale (criterio sempre più presente nel nostro ordinamento che, pur nel principio della libertà sindacale, dà sempre maggior peso a quelle organizzazioni
che presentano requisiti di diffusione e rappresentatività più “corposi”), afferma che la durata massima
dei contratti conclusi dal datore di lavoro e dal lavoratore, per effetto di una successione tra gli stessi ed
indipendentemente dai periodi di interruzione tra l’uno e l’altro, non può superare il limite dei trentasei
mesi, per lo svolgimento di mansioni di pari livello e
categoria legale. Nel computo di tale periodo, ai fini
della sommatoria, rientrano anche i contratti di somministrazione svolti tra il lavoratore e l’utilizzatore (il
riferimento è, sempre, al “pari livello e categoria legale”. Se il limite massimo viene superato, sia in presenza di un unico contratto che per successione di più
contratti, il rapporto si considera a tempo indeterminato a partire dal superamento della soglia temporale.
La disposizione appena riportata richiede alcune considerazioni.
La prima riguarda la derogabilità della disposizione
attraverso le previsioni contrattuali, anche aziendali
(e non ultima quella prevista dall’art. 8 della legge n.
148/2011 relativa ai contratti di prossimità): il limite
massimo può essere “sforato” e ne è palese testimonianza l’accordo del settore metalmeccanico ove la
sommatoria tra somministrazione e contratto a tempo
determinato può arrivare fino a 44 mesi. Un elemento
da tenere presente per la disciplina dei contratti a termine ma, in generale, per tutte le tipologie e gli istitu-
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ti “toccati” dal D.Lgs. n. 81/2015, è rappresentato
dall’art. 51 nel quale si specifica, a “chiare note” che,
laddove si parla di contratti collettivi ci si riferisce indifferentemente a contratti collettivi nazionali e territoriali stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o dalle “loro” rappresentanze sindacali aziendali o dalla rappresentanza sindacale unitaria.
La seconda concerne la sommatoria tra contratto a
termine e contratto di somministrazione: la circolare
del Ministero del lavoro n. 18/2012, prendendo lo
spunto dal fatto che l’obbligo fu introdotto con la legge n. 92/2012, chiarì che i rapporti di somministrazione dovessero essere calcolati a partire dal 18 luglio
del 2012, data di entrata in vigore della norma: si ritiene che tale indirizzo possa essere confermato.
La dizione operata dal Legislatore delegato ed il fatto
che le note amministrative del Dicastero del lavoro
intervenute in passato (circolari n. 13/2008, n.
18/2012 e n. 18/2014) nulla dicano sull’argomento,
induce a ritenere che non sono assolutamente sommabili tra di loro periodi con contratti a termine lavorati
alle dipendenze di imprese diverse, pur facenti parte
dello stesso gruppo. Il discorso può presentarsi alquanto complesso e delicato in quanto in alcune ipotesi la pluralità di aziende collegate (con un unico
centro organizzativo e direzionale) non coincide con
la nozione giuridica di “gruppo di imprese”, come dimostrato (sia pure ai fini dell’applicazione dell’art.
18 della legge n. 300/1970) dalla sentenza della Corte
di Cassazione n. 14553 del 17 agosto 2012.
Ovviamente, si può porre il problema di un’impresa
che, per effetto di fusioni ed incorporazioni abbia,
giuridicamente, ereditato tutte le posizioni di aziende
prima “viventi”: non è possibile trovare una risposta
di carattere generale, dovendosi, di volta in volta, valutare i casi concreti: tuttavia, si ha motivo di ritenere
che, in quest’ultimo caso, possa operare la sommatoria dei contratti.
La terza fa riferimento alle mansioni: prima si parlava
di equivalenza (con notevoli dubbi interpretativi, in
alcuni casi), ora si parla di “mansioni di pari livello”,
cosa che dovrebbe essere di più facile interpretazione,
essendo preminente il riferimento al livello contrattuale. Tale concetto introduce anche una flessibilità
nell’utilizzo del lavoratore (si veda il comma 1 dell’art. 3 del D.Lgs. n. 81/2015 sulla disciplina delle
mansioni).
L’attuale riferimento fa ritenere superato il concetto
di “equivalenza delle mansioni” prospettato dalla circolare n. 13/2008 ove si affermava che la stessa non
va intesa come semplice corrispondenza tra i livelli
di inquadramento ma che occorre valutare, nel concreto, le attività espletate, secondo un indirizzo avallato dalle S.U. della Cassazione (24 novembre 2006,
n. 25033) ove si sosteneva che «l’equivalenza tra le
nuove mansioni e quelle precedenti, deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma
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manche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento
del patrimonio professionale del lavoratore acquisito
nella pregressa fase del rapporto».
L’ulteriore contratto stipulato avanti alla
Direzione territoriale del lavoro
Quell’ulteriore contratto definito “in deroga assistita”
e già presente all’interno del D.Lgs. n. 368/2001, è
stato rivisto dal Legislatore delegato. L’attuale previsione fa salva l’eventuale diversa determinazione delle parti sociali, anche a livello aziendale, e stabilisce
che l’ulteriore contratto (art. 19, comma 3) stipulato
alla scadenza dei trentasei mesi avanti alla Direzione
territoriale del lavoro, abbia una durata massima di
dodici mesi e che il mancato rispetto della procedura,
nonché il superamento del termine stabilito nel contratto, comportano la qualificazione dello stesso come
rapporto a tempo indeterminato a partire dalla data
della stipula.
L’intervento derogatorio al limite massimo riservato
alle organizzazioni sindacali prevede il riferimento a
quelle comparativamente più rappresentative sul piano nazionale (con esclusione dei sindacati di “comodo” e di quelli di minor “peso”): ma, detto questo, e
prima di entrare nel merito di quanto contenuto nella
circolare n. 13/2008 del Ministero del lavoro vanno,
ad avviso di chi scrive, effettuate alcune considerazioni.
La prima è che, trattandosi di un nuovo contratto a
termine che trova origine in una norma di legge esso
può essere stipulato e può iniziare senza che sia trascorso l’intervallo di dieci o venti giorni correlati alla
durata del precedente contratto.
La seconda riguarda la non necessità della presenza
di un rappresentante sindacale accanto al lavoratore:
il Legislatore delegato ritiene che sia sufficiente la
funzione di garanzia esercitata dal funzionario della
Direzione del lavoro.
La terza concerne le eventuali tipologie a termine
escluse dalla procedura: qui la circolare n. 13/2008
esclude espressamente:
a) il contratto a termine dei dirigenti per i quali resta
fissato a cinque anni il limite massimo e che godono
(art. 27) di una disciplina specifica;
b) il contratto di lavoro stagionale sui cui contenuti ci
si soffermerà, diffusamente, più avanti.
La circolare ministeriale affida alla Direzione territoriale del lavoro una funzione “notarile” ma si ritiene
che il funzionario non possa non fornire chiarimenti e
consigli sulla procedura e sui principi generali che regolano l’istituto.
Alcune questioni, ai fini della completa agibilità dello
stesso, vanno esaminate e risolte.
La prima riguarda la competenza territoriale che viene individuata che è quella della Direzione del lavoro
nella quale insiste il luogo ove il lavoratore è destinato a svolgere la propria attività: ciò non toglie che lo
stesso, successivamente, possa essere impiegato in
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una sede diversa, nel rispetto dei dettati contrattuali e
della legge.
La seconda, strettamente correlata alla prima, concerne l’ipotesi in cui il contratto in deroga venga stipulato avanti ad una Direzione del lavoro incompetente
per territorio: tale patto sarebbe valido o no? Se la
volontà delle parti è espressa senza alcuna costrizione, se il contratto individuale ha rispettato i contenuti
di legge o dell’eventuale accordo collettivo cui faccia
riferimento, si ritiene che, per il principio generale
della conservazione degli atti, lo stesso possa validamente esplicare i propri effetti. È questo, nella sostanza, lo stesso concetto che è alla base della validità di
un accordo raggiunto avanti ad una commissione provinciale di conciliazione (art. 410 c.p.c.) incompetente.
Forma scritta, contratto per attività
stagionali, contratto a termine fino a dodici
giorni e contribuzione aggiuntiva
L’art. 19 parla di apposizione del termine e conferma,
al comma 4, come faceva l’art. 1 del D.Lgs. n.
368/2001, il fatto che lo stesso debba risultare direttamente od indirettamente da atto scritto. Ad avviso di
chi scrive, nulla cambia rispetto al passato nel senso
che, senza il termine, il contratto viene inficiato alla
radice, ed il rapporto si considera a tempo indeterminato fin dall’inizio. Anche il patto di prova, sempre
apponibile nei contratti a tempo determinato, deve risultare da atto scritto, con la conseguenza della piena
applicazione di tutti gli istituti correlati i quali debbono tener conto oltre che delle previsioni contrattuali,
anche della durata della prestazione.
Il termine non necessariamente discende da un fatto
di natura negoziale espresso, ma può essere rilevato
anche, in via induttiva, dall’esame delle clausole contrattuali, potendo desumersi dall’incontro della volontà risultante da documenti diversi, seppur correlati tra
loro, ma tali da evidenziare il consenso di entrambe
le parti, come affermato dalla Corte di Cassazione
(Cass., 2 febbraio 1998, n. 1004).
La forma scritta del contratto riguarda anche i contratti legati alle attività stagionali, per le quali lo stesso Legislatore ha stabilito ipotesi diverse sia per quel
che concerne la non necessità dello “stacco” tra un
contratto e l’altro, che per l’esclusione dal computo
massimo dei trentasei mesi che, infine, per i termini
temporali per l’esercizio del diritto di precedenza per
un successivo rapporto stagionale e per la quota contributiva dell’1.40% che non trova applicazione sia a
questi contratti che a quelli finalizzati a sostituire un
lavoratore avente diritto alla conservazione del posto.
L’applicazione della disciplina relativa al contratto a
termine per attività stagionali non può prescindere da
un esame, sia pur breve, delle disposizioni, anche di
natura pattizia, che hanno trattato nel tempo la materia, sottolineando, peraltro, che l’art. 19, comma 2,
parlando delle proroghe e dei rinnovi, afferma che la
trasformazione a tempo indeterminato dei contratti a
VI
termine ove non sia stato rispettato lo stacco non trova applicazione ai contratti stagionali ove le attività
stagionali saranno individuate da un D.M. del Ministro del lavoro e dalla contrattazione collettiva, anche
aziendale, sottoscritta dalle associazioni sindacali
comparativamente più rappresentative. Con la stessa
disposizione, si afferma la “validità a tempo” del
D.P.R. n. 1525/1963 (che contiene attività alquanto
desuete) che resta in vigore fino all’entrata in vigore
del decreto ministeriale.
Il Ministero del lavoro con la circolare n. 42 del 1°
agosto 2002, affermò che non esiste alcuna predeterminazione alla durata dei contratti (il riferimento era
alla voce n. 48 del D.P.R. n. 1525/1963 - attività esercitate da aziende turistiche, con un periodo di inattività non inferiore a settanta giorni continuativi o a centoventi giorni non continuativi -), essendo la stessa
una variabile strettamente correlata alle esigenze produttive del datore di lavoro, attesa anche la nota dell’Inps espressa con la circolare n. 36/2003 con la quale si ribadiva l’ammissibilità, in via generale, del contratto a termine, strettamente riferito alle esigenze
aziendali, supportate dalle motivazioni datoriali. Va,
inoltre, ricordato come la contrattazione collettiva nazionale (ora, il Legislatore delegato, amplia tale potere anche a quella aziendale) sia andata oltre il concetto di mera stagionalità (si pensi al settore turistico
che, il 30 aprile 2015 ha sottoscritto un ulteriore avviso comune sulla stagionalità, firmato da Federalberghi, Faita, Cgil, Cisl e Uil di categoria), tale da ricomprendere quelle imprese che non operano soltanto
in un determinato periodo, ma anche durante tutto
l’anno e che si trovano ad affrontare problemi legati
ad incrementi dell’attività, secondo un indirizzo, un
po’ datato del Ministero del lavoro che, con riferimento agli apprendisti stagionali (si era negli anni
1997 e 1998), riteneva possibile l’assunzione anche
in aziende aperte tutto l’anno interessate da intensificazione dell’attività.
Quanto appena detto in materia di apprendistato stagionale ci porta ad esaminare la previsione contenuta
nell’art. 44, comma 5: «Per i datori di lavoro che
svolgono la propria attività in cicli stagionali i contratti collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale
da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, possono prevedere
specifiche modalità di svolgimento del contratto di
apprendistato, anche a tempo determinato». Nel settore turistico alberghiero ciò è avvenuto nel corso del
2012 con gli accordi del 17 aprile (Federalberghi) e
del 14 maggio (Federturismo) e per i minorenni (ex
art. 3, comma 2-quater della legge n. 78/2014, confermato nell’art. 43, comma 8, alle stesse condizioni
con le previsioni regionali che debbono prevedere sistemi di alternanza scuola - lavoro) dall’accordo del
16 giugno 2014. Ebbene tali previsioni contrattuali
(articoli 14 e 15) affermano che:
a) è consentito articolare lo svolgimento in più stagioni attraverso più rapporti a tempo determinato,
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l’ultimo dei quali dovrà, comunque, avere inizio entro
quarantotto mesi consecutivi di calendario dalla data
di prima assunzione;
b) viene garantito a tutti gli assunti con contratto a
tempo determinato un diritto di precedenza per l’assunzione presso la stessa azienda nella stagione successiva, con le medesime modalità riconosciute ai
qualificati;
c) le prestazioni di breve durata eventualmente rese
tra una stagione e l’altra sono utili ai fini del computo
della durata dell’apprendistato;
d) l’impegno formativo annuo (art. 14, comma 2) previsto in relazione ai livelli di inquadramento dal precedente comma 1 viene determinato riproporzionando
il monte ore annuo (che varia dalle quaranta alle ottanta ore) in base alla effettiva durata di ogni singolo
rapporto di lavoro.
L’art. 19, comma 4, riguarda l’obbligo che incombe
sul datore di lavoro di consegnare al dipendente copia
dell’atto scritto entro i cinque giorni successivi all’assunzione. Questo è solo uno degli oneri amministrativi che gravano sul datore di lavoro e strettamente correlati alla stipula del contratto a termine e, forse, questa è l’occasione per ricapitolare gli altri:
a) comunicazione di assunzione: va effettuata, telematicamente, al centro per l’impiego almeno nel giorno antecedente l’effettivo inizio del rapporto. Per i
datori di lavoro pubblici (art. 1, comma 2 del D.Lgs.
n. 165/2001) c’è più tempo, nel senso che l’onere della comunicazione può essere assolto, come, del resto
per le agenzie di somministrazione che assumono lavoratori a termine da indirizzare alle aziende utilizzatrici, entro il giorno venti del mese successivo a quello in cui si è verificata l’instaurazione del rapporto
(per tali soggetti, il termine riguarda anche le cessazioni e le proroghe). La violazione dell’obbligo è punita con una sanzione amministrativa compresa tra
cento e cinquecento euro sanabile, nella misura minima, attraverso l’istituto della c.d. “diffida obbligatoria”;
b) trasformazione del rapporto: la comunicazione telematica va inviata entro i cinque giorni successivi al
verificarsi dell’evento: la violazione segue le regole
sanzionatorie appena riportate;
c) comunicazione di cessazione: se la data è stata già
indicata nella comunicazione di assunzione, l’onere si
intende assolto (in caso contrario tutto va fatto entro i
cinque giorni successivi e l’apparato sanzionatorio è
identico ai precedenti casi);
d) sforamento del termine di trenta o cinquanta
giorni in caso di prosecuzione del contratto dopo la
scadenza del termine (rispettivamente, fino a sei mesi o superiore): l’obbligo, peraltro non sanzionato, introdotto con la legge n. 92/2012, non c’è più essendo
stato cancellato dalla legge n. 99/2013 che ha convertito, con modificazioni, il D.L. n. 76/2013.
e) dimissioni del lavoratore: andrà seguita la procedura di convalida prevista nel decreto legislativo sulla
razionalizzazione e le semplificazioni in materia di
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rapporti di lavoro che dovrà avvenire al di fuori delle
ipotesi previste dall’art. 55, comma 4, del D.Lgs. n.
151/2001, con modalità esclusivamente telematiche
su moduli resi disponibili sul sito del Ministero del
lavoro e trasmesse al datore di lavoro ed alla Direzione territoriale del lavoro competente con modalità
che dovranno essere precisate in un D.M. del Ministro del lavoro. Fino a quando non sarà entrata in vigore, resterà la procedura di convalida ex art. 4, commi 17 e seguenti della legge n. 92/2012;
f) scritturazioni sul Libro unico del lavoro: vanno
effettuate entro la fine del mese successivo cui le
stesse si riferiscono.
Sempre il comma 4 dell’art. 19 ricorda, come in passato, che per i rapporti di breve durata non superiori
a dodici giorni non è necessaria la forma scritta ma,
rispetto alla precedente disposizione (art. 1, comma
4, del D.Lgs. n. 368/2001), è stato tolto il riferimento
alla occasionalità. La prova di queste situazioni, infatti, non è soggetta a prescrizioni formali e, in caso di
giudizio, può essere fornita dal datore di lavoro secondo i principi generali sulla ripartizione dell’onere
probatorio (Cass. 8 luglio 1995, n. 7507).
Il periodo va inteso, ad avviso di chi scrive, come dodici giorni lavorativi, in quanto appare plausibile che
il parametro di riferimento sia stato rappresentato dalle “due settimane”.
Il Legislatore delegato ha tolto il requisito della occasionalità e, quindi, alla luce di questo fatto si possono
trarre alcune considerazioni:
a) la mancanza della forma scritta è un fatto puramente formale, atteso che sul datore di lavoro grava
sempre l’obbligo della comunicazione di assunzione
anticipata telematica al centro per l’impiego;
b) il contratto rientra nella percentuale legale del
20% ed in quella prevista dalla contrattazione collettiva (a meno che non vi sia stata una esplicita esclusione);
c) il venir meno della occasionalità (probabilmente,
per togliere alcuni possibili “contenziosi”) consente
ai datori di lavoro di usufruire più volte di tale tipologia contrattuale a condizione che non si superi il termine massimo dei dodici giorni;
d) non è consentita la utilizzazione di istituti che consentano il superamento di tale limite (sforamento del
termine, proroga, ecc.).
A partire dal 1° gennaio 2013 si applica sui contratti
non a tempo indeterminato (art. 2, commi 28 e 29
della legge n. 92/2012), compresi quelli stipulati dalle
c.d. “start-up innovative” e quelli “orali” fino a dodici
giorni, un contributo addizionale, a carico dei datori
di lavoro, pari all’1,4% della retribuzione imponibile
ai fini previdenziali, il cui scopo principale è stato
quello di contribuire al finanziamento dell’ASpI, prima, e dal 1° maggio 2015 della NASpI.
Il contributo addizionale non si applica:
a) ai lavoratori assunti a termine in sostituzione di lavoratori assenti;
VII
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Inserto
b) ai lavoratori assunti a tempo determinato per lo
svolgimento di attività stagionali;
c) per i periodi contributivi maturati dal 1° gennaio
2013 al 31 dicembre 2015, alle attività definite dagli
avvisi comuni e dai Ccnl stipulati dalle organizzazioni dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative (in questa ipotesi, il Legislatore non ha fatto alcun riferimento all’ambito territoriale). Tra queste l’interpello n. 42 del 21 dicembre
2012 del Ministero del lavoro comprende anche le attività stagionali del settore alberghiero individuate dal
Ccnl del turismo del 2010;
d) agli apprendisti che, però, stipulano, sin dall’inizio,
un contratto a tempo indeterminato, fatta eccezione
per quelli stagionali disciplinati contrattualmente, al
momento, nel solo settore del turismo;
e) ai lavoratori dipendenti dalle Pubbliche Amministrazioni, individuate ex art. 1, comma 2, del D.Lgs.
n. 165/2001.
Nell’intento di favorire la trasformazione a tempo indeterminato del rapporto, il Legislatore (art. 2, comma 30, come interpretato dall’art. 1, comma 135, della legge n. 147/2013) ha previsto la possibilità di una
restituzione della contribuzione aggiuntiva. Dal 1°
gennaio 2014 essa è totale, avviene nel caso in cui,
alla scadenza di un contratto a termine, il rapporto
viene trasformato a tempo indeterminato. C’è, poi,
un’altra ipotesi che non è “legata alla immediata trasformazione: è quella secondo la quale la riassunzione con contratto a tempo indeterminato del lavoratore
avvenga entro il termine massimo di sei mesi dalla
cessazione del precedente rapporto. In questo caso,
però, la restituzione degli ultimi sei mesi non è “piena” ma vanno “defalcate” le mensilità trascorse dalla
cessazione del precedente rapporto a termine, come
chiaramente affermato dall’Inps nella circolare n.
15/2014. La trasformazione (v. messaggio Inps n.
4152 del 17 aprile 2014) può avvenire, qualora ne ricorrano le condizioni, anche con un rapporto di apprendistato: a tal proposito, l’Inps richiama il contenuto dell’interpello del Ministero del lavoro n.
8/2007 il quale riteneva attivabile la tipologia pur in
presenza di precedenti rapporti a termine o di somministrazione la cui durata non avesse superato la metà
del periodo formativo dell’apprendistato (in sostanza,
diciotto mesi per quello professionalizzante, con
esclusione delle qualifiche riferite al settore artigiano).
L’eventuale trasformazione a tempo indeterminato va,
ora, vista, anche alla luce della previsione contenuta
nell’art. 1, comma 118, della legge n. 190/2014, secondo le indicazioni fornite dall’Inps con la circolare
n. 17 del 29 gennaio 2015.
L’Istituto, dopo aver, chiaramente, ricordato che la
norma appena citata si pone come “speciale” rispetto
ai principi generali che regolano il riconoscimento
degli incentivi e che sono contenuti nell’art. 4, comma 12, della legge n. 92/2012, afferma che le agevolazioni sulla quota contributiva a carico del datore di
VIII
lavoro, fino ad un massimo di 8.060 euro, esclusi i
contributi assicurativi Inail, per ognuno dei tre anni
successivi all’assunzione effettuata nel corso del
2015, si applica anche alle ipotesi di conversione di
un contratto a termine in un contratto a tempo indeterminato, quandanche il lavoratore interessato sia titolare di un diritto di precedenza regolarmente esternato al datore di lavoro.
Per completezza di informazione, si ricorda che l’art.
1, comma 2, del D.Lgs. n. 23/2015 dispone che ai
contratti a termine stipulati in data antecedente e convertiti a partire dal 7 marzo 2015, si applica, in caso
di licenziamento illegittimo, il regime delle c.d. “tutele crescenti” che sono di natura puramente monetaria
(fatti salvi i casi di nullità, discriminazione, inefficacia o recesso per fatto materiale insussistente). Tale
disposizione, non riguardando i c.d. “neo assunti” come prevede la legge delega n. 183/2014, potrebbe anche essere censurata per “eccesso di delega”: di conseguenza, un datore di lavoro che intendesse applicare la normativa del D.Lgs. n. 23/2015, per essere
completamente “tranquillo” dovrebbe, ad avviso di
chi scrive, risolvere il precedente rapporto a termine
ed instaurare un nuovo rapporto a tempo indeterminato con lo stesso soggetto dopo alcuni giorni, senza
dover, necessariamente, attendere lo “stacco” dei dieci o venti giorni (di calendario), in quanto il secondo
rapporto non è a tempo determinato.
Art. 20: divieti di costituzione di contratti
a termine
L’art. 20 individua le ipotesi in cui non è possibile assumere lavoratori con contratto a termine.
Simili, in larga parte, alla casistica già individuata, a
suo tempo, dalla legge n. 196/1997 per la utilizzazione dei lavoratori interinali, attraverso la stipula del
contratto di fornitura, esse sono:
a) la sostituzione di lavoratori in sciopero. La ragione
appare evidente: si tratta di evitare, attraverso l’uso di
tale tipologia contrattuale, una forma di contrasto all’esercizio del diritto costituzionale, attraverso forme
di crumiraggio esterno. È appena il caso di ricordare
come tale divieto sussista anche per altri contratti come quello intermittente o quello di somministrazione;
b) il divieto di assunzione in sostituzione di lavoratori
licenziati al termine delle procedure collettive di riduzione di personale, previste dagli articoli 4 e 24 della
legge n. 223/1991 che hanno riguardato lavoratori
adibiti alle stesse mansioni alle quali si riferisce il
contratto a termine, a mano che il contratto non sia
stato concluso per sostituire lavoratori assenti, per assumere lavoratori iscritti nelle liste di mobilità o nel
caso in cui il rapporto abbia una durata iniziale non
inferiore a tre mesi, cosa che potrebbe portare anche
al raggiungimento del tetto massimo dei trentasei mesi, magari anche utilizzando l’istituto delle cinque
proroghe. Rispetto al vecchio testo è stato tolto ogni
riferimento ad accordi sindacali in deroga;
Diritto & Pratica del Lavoro 40/2015
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Inserto
c) il divieto di assunzione presso unità produttive interessate da cassa integrazione guadagni o da contratti
di solidarietà difensiva che riguardi lavoratori adibiti
a mansioni cui si riferisce il contratto a temine. La
norma non fa alcuna distinzione tra intervento ordinario o straordinario e, senz’altro, fa salve le eventuali
assunzioni a tempo determinato che riguardino lavoratori con mansioni del tutto diverse. Essa, ad avviso
di chi scrive, va vista nell’ottica del decreto legislativo di riordino degli ammortizzatori sociali che prevede anche per le imprese dimensionate oltre i cinque
dipendenti ed a determinate condizioni, l’intervento
dei Fondi bilaterali di solidarietà o del Fondo integrativo salariale attraverso l’assegno ordinario e l’assegno di solidarietà;
d) le imprese che non hanno effettuato la valutazione
dei rischi. La disposizione che oggi va strettamente
correlata agli adempimenti previsti nel D.Lgs. n.
81/2008 che ha disciplinato ex novo la materia, è contenuta anche nella previsione di altre tipologie come
il “job on call” e la somministrazione: essa risponde
alla necessità, particolarmente più necessaria in tutte
quelle forme che prevedono lavoro flessibile, del rispetto delle norme di sicurezza, cosa che comporta
per il datore di lavoro che assume a tempo determinato una adeguata formazione ed informazione alfine di
prevenire i rischi specifici connessi all’esecuzione del
lavoro. C’è da ricordare, tuttavia, che per effetto delle
novità introdotte in tema di DVR dall’art. 13 della
legge n. 161/2014, che ha modificato l’art. 28 del
D.Lgs. n. 81/2008, ci potrebbe essere qualche difficoltà maggiore per le imprese di nuova costituzione
che intendessero assumere con contratto a tempo determinato (le nuove attività sono espressamente favorite nella previsione dell’art. 21, comma 2, che richiama le determinazioni individuate dalla contrattazione
collettiva nazionale). Infatti mentre prima la valutazione dei rischi andava effettuata prima dell’inizio
dell’attività ma la documentazione poteva essere redatta nei 90 giorni successivi, ora tutto (valutazione e
documentazione) va fatto prima.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5241 del 2
aprile 2012, aveva affermato che l’art. 3 del D.Lgs. n.
368/2001 (testo del tutto analogo all’art. 20) ha introdotto una quadruplice serie di divieti all’apposizione
del termine ai contratti di lavoro subordinato, così
rafforzando il disvalore che connota le assunzioni a
termine effettuate in violazione di determinati principi qualificati anche sul piano costituzionale (“rischi
per la salute”), come nel caso di imprese che non
hanno effettuato la valutazione dei rischi. La specificità del precetto, alla stregua del quale la valutazione
dei rischi assurge a presupposto di legittimità del contratto, trova la ratio legis nella più intensa protezione
dei rapporti di lavoro sorti mediante l’utilizzo di contratti non a tempo determinato, ove incidono aspetti
peculiari quali la minor familiarità del lavoratore sia
con l’ambiente che con gli strumenti di lavoro.
Diritto & Pratica del Lavoro 40/2015
Per completezza di informazione è opportuno ricordare come la contrattazione collettiva faccia, sovente,
riferimento nella propria disciplina sui contratti a termine a questi precisi divieti “legali”, richiamandoli
esplicitamente come, da ultimo, è avvenuto nel nuovo
Ccnl per il settore edile, stipulato il 1° luglio 2014.
Art. 21: proroghe e rinnovi
L’istituto delle proroghe e dei rinnovi, già profondamente modificato con la legge n. 78/2014, è stato,
nuovamente, ritoccato.
L’esame che si intende effettuare riguarda non soltanto l’istituto ma anche le possibili correlazioni con altri “passaggi normativi” non toccati dalla legge di riforma.
Ma, andiamo con ordine partendo da ciò che il
D.Lgs. n. 368/2001 affermava fino al 20 marzo 2014.
La proroga, secondo il vecchio art. 4, era strettamente
legata al singolo contratto e poteva essere prevista anche per un periodo superiore al termine iniziale (e,
comunque, entro il tetto massimo dei 36 mesi) a condizione che vi fosse il consenso del lavoratore, che si
riferisse alla stessa attività lavorativa e che, infine,
sussistessero ragioni oggettive. Ora, ferma restando la
previsione dell’originario D.L. n. 34/2014 che prevedeva ben otto proroghe nell’ambito dello stesso contratto (e che è stata superata dal testo definitivo pubblicato in Gazzetta Ufficiale la sera del 19 maggio
u.s.), il numero massimo delle stesse viene stabilito
dalla legge di conversione e confermato dall’art. 21
del D.Lgs. n. 81/2015 in cinque nell’ambito dei trentasei mesi e a prescindere dal numero dei rinnovi
contrattuali. In sostanza, le proroghe costituiscono
una sorta di “bonus a scalare” da spendere nell’arco
temporale massimo e non sono più riferite ai singoli
contratti a tempo determinato. Da ciò ne consegue
che il datore di lavoro può gestire, con la fine delle
ragioni giustificatrici, le proprie eventuali esigenze a
termine, stipulando sia una pluralità di contratti a
tempo determinato, sostanzialmente indefinito, pur
nel rispetto degli intervalli di dieci e venti giorni se
non abrogati o ridotti dalla contrattazione collettiva,
che, attingendo alle proroghe, che, infine, ricorrendone le condizioni, alla possibilità di “sforamento” del
termine, con la prosecuzione del rapporto fino a trenta o cinquanta giorni (a seconda della durata del contratto) con le maggiorazioni legali previste già previste dall’art. 5 del D.Lgs. n. 368/2001 e confermate
dall’art. 22, comma 1.
Cosa succede se il numero delle proroghe, nell’arco
temporale prefissato, risulta superiore a cinque?
Il Legislatore delegato, e questa è la prima novità introdotta con il citato art. 20, afferma che il rapporto
si considera a tempo indeterminato a partire dalla data di decorrenza della sesta proroga (e non, quindi,
dall’inizio).
Le motivazioni oggettive, determinanti per la legittimità della vecchia proroga, non ci sono più a partire
dal 19 marzo 2014, data di entrata in vigore del D.L.
IX
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Inserto
n. 34: l’eliminazione è coerente con il fatto che è stato superato il requisito delle ragioni giustificatrici.
Il consenso del lavoratore è sempre richiesto: qui nulla è cambiato rispetto al passato e la stessa Giurisprudenza ha convenuto, fin dalla vigenza della legge n.
230/1962, che lo stesso potesse essere manifestato in
forma orale (Cass., n. 6305/1988; Cass., n.
4360/1986; Cass., n. 3517/1981), o ravvisabile per
“fatti concludenti” dalla prosecuzione dell’attività lavorativa (Cass. n. 4939/1990), potendo essere fornito
dal prestatore, anche in via preventiva, al momento
della stipula iniziale (Cass., n. 6305/1988).
Nulla più si dice circa il fatto che la proroga debba riguardare la “stessa attività lavorativa”: questa è la seconda novità introdotta dall’art. 22, rispetto alla quale, in passato, in presenza delle “causali”, la Giurisprudenza (Cass., n. 10140/2005; Cass., n.
9993/2008) l’aveva riferita alla «dimensione oggettiva riferibile alla destinazione aziendale». Ciò stava a
significare che attraverso la proroga il dipendente non
potesse essere adibito ad altre attività non correlate a
quelle per le quali il contratto era stato originariamente stipulato. Ora, il limite secondo cui il lavoratore
poteva essere utilizzato, anche in reparti od uffici diversi, soltanto per le mansioni per le quali è stato sottoscritto il contratto originario non sembra esserci più
ed appare superata anche la circolare n. 18/2014 del
Ministero del lavoro che, ribadendo il limite massimo
delle cinque proroghe strettamente correlato all’arco
temporale dei trentasei mesi (limite raggiungibile attraverso più rinnovi), affermava che per «stessa attività lavorativa» si intendevano «le stesse mansioni, le
mansioni equivalenti (v. Cass. S.U., 24 novembre
2006, n. 25033, di cui si parlerà tra poco, trattando
l’argomento del raggiungimento dei trentasei mesi) e
comunque quelle svolte in applicazione della disciplina di cui all’art. 2103 c.c. (mansioni diverse, in sostituzione di lavoratori aventi diritto alla conservazione
del posto)».
Una notazione non secondaria è quella che il Ministero del lavoro sottolinea all’interno del precedente
chiarimento: il limite dei trentasei mesi che è indipendente dal numero dei rinnovi, non riguarda l’ipotesi
che il nuovo contratto abbia quale oggetto mansioni e
qualifiche del tutto diverse. Le proroghe, in questo
caso, non vanno “contabilizzate”.
Una novità conseguente alla fine delle ragioni giustificatrici è rappresentata dal fatto che il Legislatore
aveva cancellato, con la legge n. 78/2014, il comma 2
dell’art. 4 del D.Lgs. n. 368/2001 (l’onere della prova
della esistenza delle stesse a carico del datore di lavoro) in quanto esso era divenuto del tutto superfluo,
mentre viene precisato (art. 21, comma 1) che il contratto a termine può essere prorogato soltanto se la
durata iniziate sia inferiore ai trentasei mesi.
Il dubbio relativo alla applicabilità delle nuove regole
ai contratti in essere stipulati prima del 21 marzo
2014 (data di entrata in vigore del D.L. n. 34/2014) è
stato risolto dall’art. 2-bis della legge n. 78/2014 (in-
X
trodotto in sede di conversione) il quale afferma che
le modifiche introdotte con l’art. 1 (contratti a termine) e con l’art. 2 (contratti di apprendistato) si applicano unicamente ai rapporti di lavoro instaurati a decorrere dalla data appena citata, fermi restando gli effetti già prodotti dalle disposizioni del D.L. n.
34/2014 (prima delle modifiche) che è stato in vigore
dal 21 marzo al 19 maggio 2015. Detto principio non
è altro che l’applicazione di quanto previsto, in via
generale, sotto l’aspetto civilistico, secondo cui nei
contratti si applicano le regole vigenti al momenti
della loro conclusione.
Sotto l’aspetto prettamente operativo non si può non
sottolineare come, in prospettiva, un uso “oculato”
delle proroghe da parte del datore di lavoro (che,
quindi, possono essere più di una in ogni contratto,
nel limite massimo di cinque riferibili a più rapporti
nell’arco del triennio complessivo di durata intesa anche come sommatoria di rapporti), potrebbe portare
ad una utilizzazione “minore” dello sforamento del
termine finale che, in un’ottica di flessibilizzazione
del contratto fu introdotta per non gravare sul datore
di lavoro con il peso della scadenza del termine e con
la conversione automatica a tempo indeterminato. Ebbene, tale flessibilità ha un costo che è pari al 20% di
aumento sulla retribuzione riferita ai primi dieci giorni, che sale al 40% a partire dall’undicesimo e che ha
incidenza non soltanto sulla contribuzione ma anche
sugli istituti contrattuali connessi (art. 5, comma 2).
Va, peraltro, sottolineato come l’allungamento “monetizzato” del rapporto attraverso la continuazione
delle prestazioni oltre il termine fissato è possibile
soltanto per la durata massima fissata dalla norma
(trenta giorni se il contratto aveva una durata fino a
sei mesi e cinquanta se superiore), con la conseguenza che se, per ipotesi, dovesse allungarsi ulteriormente, senza soluzione di continuità, lo stesso, in assenza
di comunicazioni al centro per l’impiego, diverrebbe
“in nero” a partire dal giorno successivo.
Orbene, si potrebbe verificare il caso che un datore di
lavoro provveda a prorogare un contratto (pur se già
prorogato almeno una volta) “risparmiando” sulla retribuzione dovuta in caso di sforamento. Ovviamente,
la proroga va comunicata, entro cinque giorni dal momento in cui è iniziata, on line al centro per l’impiego
(la sanzione per l’inottemperanza, diffidabile nella
misura minima, è compresa tra 100 e 500 euro), mentre lo sforamento non va comunicato, essendo venuto
meno l’obbligo, peraltro non sanzionato, per effetto
della previsione contenuta nel D.L. n. 76/2013, convertito, con modificazioni, nella legge n. 99/2013.
Le questioni relative alla nuova disciplina delle proroghe non riguardano i contratti a termine che sono al
di fuori dell’ombrello applicativo del D.Lgs. n.
81/2015: ci si riferisce, ad esempio, a quello più in
uso che riguarda l’assunzione a tempo determinato
dei lavoratori in mobilità per un massimo di dodici
mesi. L’esclusione dal campo di applicazione è sancita dall’art. 29, comma 1, lettera a), che fa salvi sol-
Diritto & Pratica del Lavoro 40/2015
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Inserto
tanto l’art. 25 che fissa i principi anti discriminazione
e l’art. 27 i criteri di computo. Ciò significa che una
serie di istituti non sono minimamente applicabili a
tale tipologia come, ad esempio, il fatto che il contratto a termine del lavoratore in mobilità non rientra
nella sommatoria dei 36 mesi, che non c’è intervallo
tra un contratto e l’altro, che non trova applicazione
la specifica disciplina dello sforamento del termine
fissato e, infine, che le proroghe, pur in un arco temporale ridotto che è di dodici mesi, potrebbero anche
essere più di cinque.
Un problema del tutto particolare è rappresentato dall’istituto della proroga per i dirigenti che, come si vedrà successivamente, possono stipulare contratti a termine di durata non superiore a cinque anni. La giurisprudenza, sotto la vigenza della precedente normativa, aveva chiarito che la proroga (comunque, entro il
limite massimo) era possibile anche senza necessità
di rispetto delle condizioni modali e temporali stabilite dall’art. 2 della legge n. 230/1962 (Cass., 28 novembre 1991, n. 1274; Cass., 17 agosto 1998, n.
8069).
L’istituto della proroga non trova applicazione (art.
29, comma 4), per il personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale.
L’art. 21, comma 3, afferma, poi, che i limiti relativi
alle proroghe ed ai rinnovi non si applicano alle imprese c.d. “start up innovative” previste dall’art. 25
della legge n. 221/2012 per il periodo di quattro anni
dalla costituzione o per il più limitato arco temporale
previsto dal comma 3 dell’art. 25 per le società già
costituite.
C’è, poi, il problema delle proroghe nei contratti stagionali: la norma inserita nell’art. 21 ha una valenza
generale che, però, poco si attaglia ai rapporti la cui
causale è la stagionalità. Probabilmente, la questione
è meno pressante che in altri settori potendosi, per
legge, “legare” un contratto all’altro senza soluzione
di continuità, ma questo significa, da un punto di vista prettamente operativo, una maggiore difficoltà burocratica (occorre stipulare un nuovo contratto, sono
necessari altri adempimenti, ecc.). Nel settore alimentare, forzando un po’ la disposizione legale (c’è un richiamo, poco consono, al comma 3 dell’art. 5), il 7
novembre 2014 le associazioni datoriali aderenti a
Confindustria e quelle nazionali di categoria di Cgil,
Cisl e Uil hanno stabilito che nei rapporti stagionali
del settore ogni singolo contratto, la cui durata massima è di 8 mesi, può essere prorogato fino a quattro
volte.
Il discorso relativo a tale istituto non può non riferirsi, sia pure con un breve accenno, alle proroghe previste per un’altra tipologia contrattuale, quella del
contratto di somministrazione ove l’art. 34 del D.Lgs.
n. 81/2015 esclude espressamente l’applicazione dell’art. 21, secondo una interpretazione amministrativa
data, a suo tempo, dal Ministero del lavoro.
Qui, la possibilità di più proroghe rispetto al contratto
iniziale è ampiamente ammessa dalla contrattazione
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collettiva di settore (fino a sei volte secondo i contenuti dell’ultimo Ccnl).
La proroga del contratto a tempo determinato va comunicata esclusivamente in via telematica, entro cinque giorni dal momento in cui si è verificata (se cade
di giorno festivo il termine è, legittimamente, prorogato al primo giorno non festivo successivo) al centro
per l’impiego, competente per territorio o presso il
quale il datore di lavoro è accreditato, utilizzando la
sezione 4 del modello “Unilav”.
L’intervallo tra un contratto a termine
e l’altro
All’interno dell’art. 21 si trova anche la disposizione
secondo la quale (comma 2) «qualora i lavoratore sia
riassunto a tempo determinato entro dieci giorni dalla
data di scadenza di un contratto di durata fino a sei
mesi, ovvero venti giorni dalla data di scadenza di un
contratto di durata superiore, il secondo contratto si
considera a tempo indeterminato». La norma continua
affermando che tale principio non si applica ai rapporti stagionali ed alle ipotesi individuate dalla contrattazione collettiva.
Qui, il Legislatore delegato, nell’ottica di favorire,
comunque, la contrattazione a qualsiasi livello ha previsto che anche nelle singole imprese (non si dimentichi il significato dell’art. 51) si possano trovare casistiche che ben si attagliano alla realtà aziendale e che
consentono di ridurre od annullare lo “stop and go”,
senza alcuna delega dalla contrattazione nazionale.
Del resto, se si da uno sguardo alle vicende appena
passate ci si accorge che, da subito, la contrattazione
nazionale (si pensi al settore alimentare o all’occhialeria che furono tra i primi settori ad avere disposizioni derogatorie) lo “stacco” fu annullato in presenza di
contratti a termine per ragioni sostitutive o ridotto
nella durata che fu portata, rispettivamente, a cinque
e dieci giorni.
Detto questo, ad avviso di chi scrive, vanno puntualizzate alcune questioni.
La prima riguarda il computo dei giorni di “stacco”.
Come va fatto? Esso va fatto seguendo il calendario
con l’inclusione anche delle giornate festive.
La seconda concerne il comportamento di quei datori
di lavoro che, nei dieci o venti giorni di intervallo (o
nel tempo minore previsto dalla contrattazione collettiva) utilizzano il lavoratore, senza soluzione di continuità, ricorrendo ad altre tipologie contrattuali come
il lavoro “a chiamata”, la somministrazione, le prestazioni di lavoro accessorio o altre improbabili forme
di lavoro autonomo. Ebbene, ciò non pare assolutamente legittimo configurandosi come un negotium in
fraudem legis, in quanto il Legislatore ha previsto,
obbligatoriamente, un intervallo, consentendo, peraltro, alle parti sociali, a qualsiasi livello, di trovare accordi finalizzati a ridurre o cancellare i termini. La
conseguenza di tale comportamento, in caso di ricorso giudiziale, potrebbe essere quella della sussistenza
XI
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
di un rapporto a tempo indeterminato sin dall’inizio,
non essendosi, di fatto, mai interrotto.
In tale ottica può essere considerata una sentenza del
Pretore di Milano, per la verità un po’ datata, (Pret.
Milano, 31 dicembre 1982) con la quale si sostenne
la legittimità del comportamento di un datore di lavoro che si era rifiutato di riassumere a termine un lavoratore prima che fossero passati i termini legati della
scadenza del precedente contratto: il ragionamento si
basava sul presupposto che tale rifiuto era determinato dalla necessità di evitare la conversione legale del
rapporto a tempo determinato.
La terza riflessione tende, infine, a sottolineare come
l’intervallo tra un contratto e l’altro non trovi applicazione in alcune tipologie di contratti a termine che
hanno una loro disciplina speciale o sono fuori dall’ombrello applicativo del D.Lgs. n. 81/2015. Ci si riferisce:
a) ai contratti a termine nelle c.d. “start - up innovative” per effetto dell’art. 28 della legge n. 221/2012;
b) ai contratti a termine per un massimo di dodici mesi dei lavoratori iscritti nelle liste di mobilità (art. 8,
comma 2, della legge n. 223/1991);
c) ai rapporti di lavoro in agricoltura con gli operai a
tempo determinato che sono regolati dal D.Lgs. n.
375/1993: la norma non trova, invece, applicazione
nei confronti del personale impiegatizio al quale si
applica, a tutti gli effetti, la disciplina del D.Lgs. n.
81/2015;
d) ai richiami in servizio del personale volontario del
Corpo dei Vigili del Fuoco (art. 29, comma 1, lettera
c);
e) ai contratti a tempo determinato del personale con
qualifica dirigenziale (art. 29, comma 2, lettera a);
f) ai rapporti per l’esecuzione di servizi speciali nei
settori del turismo e dei pubblici esercizi di durata
non superiore a tre giorni (art. 29, comma 2, lettera
b);
g) ai contratti a tempo determinato per le supplenze
nel settore della scuola sia per gli insegnanti che per
il personale Ata ed in quello della sanità delle Asl per
il personale anche con qualifica dirigenziale (art. 29,
comma 2, lettera c);
h) ai contratti del personale docente ed ai tecnologi e
ricercatori a termine delle Università, individuati dalla legge n. 240/2010 (art. 29, comma 2, lettera d).
Art. 22: continuazione del rapporto oltre
la scadenza del termine
L’art. 22 ripete un concetto già previsto all’interno
del D.Lgs. n. 368/2001: se il rapporto continua oltre
la scadenza per un periodo fino a trenta giorni se la
durata iniziale è inferiore a sei mesi, o fino a cinquanta giorni se superiore a tale soglia, il rapporto
non si trasforma automaticamente a tempo indeterminato. È questo, indubbiamente, un principio di flessibilità ormai acquisito nel “dna” del nostro ordinamento lavoristico, sol che si pensi alle rigidità del tempo
andato che si riferiscono alla legge n. 230/1962 ove
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era sufficiente “sforare” anche di un giorno per vedere “ex lege” la trasformazione del rapporto a tempo
indeterminato.
Ma, come si diceva, il prolungamento è un elemento
di flessibilità che consente, ad esempio, di affiancare,
due lavoratrici (una al termine del contratto e l’altra
al rientro dalla maternità) per il c.d. “passaggio delle
consegne” che significa anche, e soprattutto, affiancamento nelle procedure e nella prosecuzione del lavoro.
Tutto questo, però ha un costo: per i primi dieci giorni di “sforamento” il datore è tenuto a corrispondere
una maggiorazione pari al 20% che, a partire dall’undicesimo diviene del 40%: la maggiorazione è retribuzione a tutti gli effetti ed ha riflessi su tutti gli istituti contributivi e retributivi correlati.
Tale incremento, in percentuale, per i giorni di eventuale “sforamento” spetta anche, ad avviso di chi scrive, ai lavoratori con contratto a termine stipulato con
datori di lavoro pubblici non economici: si è in presenza, infatti, di una maggiorazione retributiva maggiorata, prevista dalla legge e per nulla legata alla
conversione del rapporto, cosa impossibile nel pubblico impiego, atteso che per l’incardinamento a tempo indeterminato nell’organico occorre una procedura
concorsuale o una prova selettiva pubblica. Vale la
pena di ricordare come le violazioni riguardanti anche
l’impiego a tempo determinato al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 36 del D.Lgs. n. 165/2001, come
riformato dalla legge n. 125/2013 (qui ci sono sempre
le causali specifiche, come si vedrà successivamente)
comporta una responsabilità dirigenziale di natura
erariale e disciplinare nei confronti del Dirigente che
ha posto in essere un comportamento contrario alle
previsioni legali.
Nel settore privato, invece, il superamento del limite
di “sforamento” ha come conseguenza la trasformazione del contratto da tempo determinato ad indeterminato a partire dalla scadenza dei predetti termini
(ossia, dal trentunesimo o dal cinquantunesimo giorno).
In caso di “sforamento” ci sono obblighi per il datore di lavoro?
Dal 18 luglio 2012 (data di entrata in vigore della
legge n. 92/2012) al 28 giugno 2013 (giorno di vigenza del D.L. n. 76/2013) c’era un obbligo di comunicazione telematica al centro per l’impiego, peraltro
non sanzionato, regolamentato dal D.M. 10 ottobre
2012 del Ministro del lavoro che fu accompagnato da
due note esplicative della allora Direzione Generale
per il Mercato del Lavoro. Questo obbligo, come si
diceva, non c’è più e gli organi di vigilanza, in caso
di controlli, debbono verificare dal Libro Unico del
Lavoro soltanto se le maggiorazioni previste dalla
norma sono state corrisposte. È chiaro che, in caso di
superamento del termine massimo il contratto diviene
a tempo indeterminato ma il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare al centro per l’impiego l’assunzione, attraverso le usuali modalità: in mancanza, il
XIII
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Inserto
rapporto si considera “in nero” ed allo stesso vengono
applicate le sanzioni previste dall’art. 22 del decreto
legislativo sulla razionalizzazione e semplificazione
in materia di rapporti di lavoro.
Art. 23: limite percentuale nella stipula
dei contratti a termine e apparato
sanzionatorio
L’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2015 tratta, in maniera
esaustiva, il tema del limite percentuale dei contratti
a tempo determinato stipulabili, provvedendo anche
ad appianare alcune questioni interpretative, soprattutto sotto l’aspetto sanzionatorio, emerse nel vecchio
D.Lgs. n. 368/2001, modificato dalla legge n.
78/2014.
La norma di natura legale, anche in questo caso, scatta in carenza di una determinazione di natura pattizia
che, alla luce del significato attribuito ai termini
“contratti collettivi” dall’art. 51, riguarda indifferentemente sia la contrattazione nazionale o territoriale
sottoscritta dalle organizzazioni comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale che quella
aziendale siglata dalle “loro” rappresentanze sindacali
aziendali o dalla rappresentanza sindacale unitaria (il
termine “loro” è il medesimo adoperato dal Legislatore per i contratti di prossimità ex art. 8 della legge n.
148/2011). La conseguenza di quanto appena detto è
che laddove la contrattazione ha disciplinato le quantità numeriche, le modalità di calcolo e quelle di fruizione, occorre seguire soltanto quella nel momento in
cui si applica nell’impresa un contratto collettivo che
presenta le caratteristiche sopra indicate.
Affrontando il tema della percentuale legale il Legislatore delegato fornisce anche copertura legale a precedenti chiarimenti amministrativi forniti dal Ministero del lavoro con la circolare n. 18/2014.
Ma andiamo con ordine partendo dalla affermazione
del principio secondo cui (fatta salva la diversa previsione della contrattazione collettiva, in ogni azienda i
lavoratori assunti annualmente a tempo determinato
non possono superare, in percentuale, la soglia dei dipendenti a tempo indeterminato in forza alla data del
1° gennaio dell’anno al quale si riferisce l’assunzione, con un arrotondamento decimale all’unità superiore nel caso in cui il residuo sia pari o superiore a
0,50. Qualora si tratti di un’impresa che ha iniziato la
propria attività in corso d’anno, il limite percentuale
va computato sul numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza al momento dell’assunzione. I datori di lavoro che occupano fino a cinque dipendenti
(il numero, si intende, va da zero a cinque, come
chiarito nella circolare n. 18/2014) possono, sempre,
stipulare un contratto a tempo determinato.
Fin qui la norma, rispetto alla quale occorre, necessariamente, fornire alcuni chiarimenti partendo anche
da ciò che il Dicastero del lavoro ha affermato con la
circolare n. 18/2014, ricordando che il limite del 20%
non riguarda le Agenzie di somministrazione intese
quali datori di lavoro che stipulano contratti a termine
XIV
con lavoratori da inviare in missione. Una inclusione
delle stesse nella casistica generale (tra l’altro, non
trovano applicazione i commi 1, 2 e 3 dell’art. 19),
oltreché contraria allo spirito della somministrazione,
urterebbe con la Direttiva Comunitaria n.
104/2008/Ce che disciplina la tipologia contrattuale e
che è del tutto diversa e distinta da quella che concerne il contratto a termine.
Diverso è il discorso relativo al rispetto di un eventuale termine percentuale (talora i Ccnl ne prevedono
di distinti, ma anche di indivisi tra contratti a termine
e contratti di somministrazione): qui il datore di lavoro utilizzatore è tenuto al rispetto del limite contrattuale la cui inottemperanza comporta, soltanto rimanendo sul piano amministrativo, l’irrogazione di una
sanzione compresa tra 250 e 1.250 euro, che potrebbe
essere maggiorata con l’applicazione della sanzione
amministrativa prevista per i contratti a termine, qualora lo “sforamento” (in questo caso del limite specifico del contratto a tempo determinato) riguardi più
di un lavoratore. Ma di ciò se ne parlerà ampiamente
allorquando si affronterà il tema dell’apparato sanzionatorio tracciato dalla circolare n. 18.
Come si diceva, laddove la contrattazione collettiva
ha disciplinato la materia, il datore di lavoro è tenuto
ad applicarla, quandanche la stessa, in termini percentuali (v. settore tessile) sia inferiore al limite legale.
Il riferimento al dettato contrattuale fa sì che in quelle
aziende che, all’interno della propria organizzazione,
applicano più contratti collettivi (ad esempio, terziario per la rete di distribuzione e tessile per quella di
produzione), si debbano, necessariamente, tenere distinte le posizioni del personale a cui si applica un
contratto da quelle di coloro che, invece, hanno come
riferimento l’altro accordo collettivo, con la conseguente specifica del numero dei contratti a termine
stipulabili, secondo le diverse previsioni.
Rispetto del dettato contrattuale applicato, significa
anche rispettare la percentuale complessiva tra contratti a termine e contratti di somministrazione che
molti accordi nazionali richiamano indistintamente,
per cui se il numero non fa alcuna distinzione a quello occorre attenersi, sommando le due tipologie.
Alcuni settori, nel corso del 2014, hanno preso al balzo le novità introdotte dalla legge n. 78 ed hanno aggiornato la propria disciplina sul contratto a termine
alla luce delle novità introdotte con la legge n. 78: è
il caso, ad esempio, di Federalberghi, Faita e organizzazioni sindacali Filcams Cgil, Fisascat Cisl e Uiltucs
Uil che, nel turismo, hanno confermato, con l’accordo del 16 giugno 2014, la percentuale del 20% già in
essere alle imprese dimensionate con più di cinquanta
dipendenti, mentre per quelle minori hanno previsto
un numero di contratti a termine “a fasce” rapportato
al numero del personale in forza a tempo indeterminato, compresi gli apprendisti, focalizzato al momento della instaurazione del rapporto e non, come fa la
legge, al 1° gennaio dell’anno al quale si riferiscono
le assunzioni. La previsione circa l’inserimento del
Diritto & Pratica del Lavoro 40/2015
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Inserto
personale apprendista (cosa che, potenzialmente, fa
crescere il numero dei contratti a tempo determinato
stipulabili) nella base di calcolo è stata possibile alla
luce di quanto affermato dall’art. 7, comma 3, del
D.Lgs. n. 167/2011 (confermato, ora, dall’art. 47,
comma 3, del D.Lgs. n. 81/2015), il quale consente
alla legge o alla contrattazione collettiva di derogare
al principio generale della non computabilità ai fini
dell’applicazione di istituti previsti dalla legge o dalla
contrattazione collettiva.
Un discorso del tutto analogo è intervenuto il 1° luglio 2014 con il rinnovo del Ccnl per il settore edile,
sottoscritto dall’Ance, dalle Organizzazioni del mondo cooperativo e dalle strutture di categoria di Fillea
Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil, con l’accordo del 25
settembre 2014 nel settore dell’industria metalmeccanica e con l’accordo in quello alimentare raggiunto il
7 novembre 2014.
Tornando al testo normativo non si può che sottolineare come il Legislatore abbia individuato il momento ed il modo nel quale va calcolata la percentuale del personale in forza nell’anno di riferimento. Esso è il 1° gennaio dell’anno al quale si riferisce l’assunzione ed il computo va effettuato soltanto sul personale in forza a tempo indeterminato. Ciò significa
che la “fotografia” non tiene assolutamente conto di
altro personale, a vario titolo, in organico, come i lavoratori a termine, quelli accessori, quelli con contratto di lavoro intermittente a tempo determinato
(pur se la circolare n. 18 ricomprende quelli, che sono
pochissimi, percettori dell’indennità di disponibilità)
quelli che sono titolari di rapporti di natura autonoma. L’aver individuato, quale riferimento la data del
1° gennaio, indubbiamente favorisce la contabilità,
soprattutto se rapportata ad altri criteri presenti nella
contrattazione collettiva che fanno riferimento alla
media semestrale od annuale e, si aggiunge, bene ha
fatto il Legislatore delegato a prevedere l’ipotesi dell’impresa che si costituisce “in corso d’anno”. Tuttavia, la scelta dal Legislatore presenta alcune criticità
che possono così evidenziarsi:
a) se un’azienda, durante l’anno incorpora un’altra
impresa fondendosi o costituendo un nuovo soggetto
giuridico, quale è la soluzione da adottare ai fini del
limite percentuale? A questa domanda non si trova
una risposta nella circolare (a meno che ciò non sia
avvenuto ex art. 2112 c.c. ove la nota ministeriale
parla di non computabilità) ma, ad avviso di chi scrive, l’eventuale “soprannumero” non dovrebbe esser
sanzionato, trattandosi di rapporti in corso e, a maggior ragione, neanche nel caso in cui il nuovo soggetto giuridico applichi un Ccnl che preveda una percentuale più bassa rispetto a quello (o quelli) applicati
nelle imprese incorporate o “fuse”. Ovviamente, non
potrebbe assumere a termine fino al momento in cui
non sia rientrato nella percentuale;
b) se, durante l’anno, a seguito di acquisizione, anche
in virtù di una norma contrattuale, di personale già in
forza presso un altro datore di lavoro a seguito di
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cambio di appalto o, comunque, di successione nel
contratto, cresce il numero dei dipendenti, si resta ancorati all’organico fissato al 1° gennaio pur se lo stesso è notevolmente aumentato in corso d’anno? E se
ciò determina un aumento dell’organico tale da far
scattare l’aliquota anche per il collocamento dei disabili, si può procedere, previa convenzione con il servizio competente (art. 11 della legge n. 68/1999) ad
una assunzione a termine di lavoratori con handicap
senza che questa vada ad intaccare la percentuale del
20%? La circolare n. 18 afferma, chiaramente, che le
assunzioni di disabili con contratto a tempo determinato ex art. 11 della legge n. 68/1999 non concorrono
al superamento dei limiti quantitativi;
c) se a seguito di acquisizione di personale per cambio di appalto, si assumono dall’azienda cedente lavoratori a tempo determinato e ciò provoca il superamento della percentuale legale, cosa succede? Su
questo punto il Ministero del lavoro tace ma il silenzio, ad avviso di chi scrive, non è “d’oro”. I lavoratori a termine, in forza presso quel cantiere o struttura,
assunti a seguito di acquisizione di cambio di appalto
non dovrebbero essere computati, atteso che tutta la
normativa di riferimento spinge per favorire l’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto: basti
pensare all’art. 7, comma 4-bis, della legge n.
31/2008 che, convertendo il D.L. n. 248/2008, ha
escluso la procedura collettiva di riduzione di personale nel caso del passaggio alle dipendenze del nuovo
datore, all’art. 2, comma 34, della legge n. 92/2012
che esclude (fino al 31 dicembre 2015) il pagamento
del contributo d’ingresso alla NASpI per coloro che
passano alle dipendenze del nuovo appaltatore, “all’anzianità di appalto” prevista dall’art. 7 del D.Lgs.
n. 23/2015, all’obbligo scaturente da una serie di bandi pubblici, all’art. 4 del Ccnl per le imprese multi
servizi aderenti a Confindustria ove è previsto uno
specifico obbligo di assunzione, alla circolare del Ministero del lavoro n. 77/2001 che prevede la non
computabilità ai fini del collocamento obbligatorio
del personale transitato nei cambi di appalto dei servizi di pulizia e di quelli integrati. Non aver detto
nulla potrebbe avere, come conseguenza, l’esposizione del datore di lavoro a sanzioni amministrative da
parte degli organi di vigilanza, in caso di superamento della percentuale, atteso che nella circolare n. 18
non si trova alcuna esimente;
d) se un’azienda, per effetto di dimissioni, risoluzioni
consensuali, licenziamenti, cessione di ramo d’azienda, perdite di appalti, vede ridotto di gran lunga, in
corso d’anno, il proprio organico rispetto a quello
“fotografato” al 1° gennaio, deve considerare la percentuale dei rapporti a termine sempre correlata al
numero dei lavoratori a tempo indeterminato in forza
a tale data? Nulla dice la norma e nulla afferma la
circolare per cui si può ritenere che per quelle imprese che applicano la norma “legale” quel numero rimane immutato, come resta immutato per quelle aziende
i cui contratti collettivi fanno riferimento alla “media
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Inserto
dell’anno precedente”. Alcuni contratti collettivi, invece, hanno superato il problema (v. accordo del settore del turismo del 16 giugno 2014), parlando di
computo al momento dell’assunzione;
e) se un’impresa, accertato il numero dei contratti a
termine stipulabili, presenta uno specifico “modus
operandi” di politica aziendale, come quello di assumere personale a termine, salvo procedere, successivamente, a trasformazioni di rapporti a tempo indeterminato, il datore di lavoro può continuare ad assumere con tale modalità, coprendo la percentuale lasciata libera dai lavoratori trasformati? La risposta
fornita dal Ministero del lavoro è stata positiva;
f) se c’è stato un trasferimento o una cessione di ramo d’azienda con passaggio del personale ex art.
2112 c.c., come ci si comporta con i contratti a tempo
determinato? La circolare n. 18 risponde positivamente, parlando di non computabilità.
Due problemi per i quali necessita un chiarimento.
Il primo riguarda il numero dei lavoratori assumibili
a temine con rapporto a tempo parziale: se, ad esempio, l’azienda, sulla base della “fotografia” del personale dipendente al 1° gennaio, può assumere venti
persone, la stessa azienda resta all’interno del limite
legale se assume quaranta lavoratori a tempo parziale
con un orario che è la metà di quello contrattuale? La
cosa sembrerebbe possibile alla luce dell’art. 9 del
D.Lgs. n. 81/2015 il quale afferma che i dipendenti
part-time sono considerati “pro - quota” ma tale interpretazione, per la quale sarebbe necessario un autorevole chiarimento amministrativo, urta con una tesi
contraria che pone l’accento sul fatto che la norma
parla di “lavoratori” e non di “contratti”. Ovviamente,
si porrebbe anche la questione relativa ad un possibile
successivo aumento delle ore: ciò non sembrerebbe
inficiare, in alcun modo, l’assunzione, né l’azienda
potrebbe essere sottoposta a sanzione amministrativa,
atteso che la dinamica contrattuale successiva (esigenze dell’impresa, volontà del lavoratore all’espletamento di una maggiore attività anche con il ricorso a
clausole elastiche) è un dinamica positiva che va favorita e non punita.
Il secondo appare del tutto ovvio: il Legislatore ha
parlato di numero percentuale e non di durata del
contratto a tempo determinato. Ciò significa che è del
tutto ininfluente la circostanza relativa al fatto che un
contratto sia di breve durata (ad esempio, un mese)
ed un altro abbia un termine a trentasei mesi.
La base di calcolo del limite legale
e le specifiche di alcuni Ccnl
Si pone, ora, il problema della computabilità dei dipendenti a tempo indeterminato: sembra una cosa
semplice (ed in effetti lo è) ma occorre, ad avviso di
chi scrive, tenere presenti alcune disposizioni che
sembrano restringere la base di calcolo (a meno di interpretazioni amministrative “espansive” come quella
adottata dal Ministero del lavoro con il riferimento al
concetto di personale “stabile”), atteso che non vanno
XVI
compresi quei lavoratori per i quali la norma non ne
prevede il conto ai fini dell’applicazione di istituti
contrattuali o legali o prevede una contabilità parziale. Qui si pone il problema degli apprendisti che, per
effetto della previsione contenuta nell’art. 47, comma
3, del D.Lgs. n. 81/2015, dovrebbero essere esclusi
dalla base di calcolo per l’applicazione di istituti previsti da leggi o contratti collettivi, salvo determinazione diversa. Quando, in passato, il Legislatore li ha
voluti comprendere lo ha detto chiaramente (art. 1,
comma 1, della legge n. 223/1991, ai fini della media
dei quindici dipendenti nel semestre precedente per
l’applicazione della normativa sulla Cigs). Ora, il Ministero del lavoro, con la circolare n. 18/2014, nel
meritevole intento di allargare la base di calcolo, afferma che gli apprendisti, essendo titolari di un rapporto a tempo indeterminato vanno compresi nel
computo, a meno che non si tratti di apprendisti a
tempo determinato per cicli stagionali. Detto questo,
non rientrano nella base di calcolo:
a) gli assunti con contratto di reinserimento ex art. 20
della legge n. 223/1991 (anche questi sono pochissimi se rapportati agli anni di vigenza della norma);
b) i lavoratori provenienti da esperienze di lavori socialmente utili o di pubblica utilità, così come affermato dall’art. 7, comma 7, del D.Lgs. n. 81/2000 (anche di questi, se si eccettuano alcuni limitatissimi casi), non sembrano essercene, presso i datori di lavoro
privati, un gran numero;
c) i lavoratori somministrati, perché dipendenti dall’Agenzia di lavoro.
I lavoratori a tempo parziale sono calcolati “pro-quota” rispetto all’orario contrattuale pieno, mentre per
quelli intermittenti a tempo indeterminato (con indennità di disponibilità, secondo la previsione della circolare n. 18), le prestazioni lavorative vanno rilevate
con riferimento a ciascun semestre, secondo quanto
afferma l’art. 18 del D.Lgs. n. 81/2015.
Nella base di calcolo vanno, infine, ricompresi i lavoratori a domicilio mentre per i dirigenti ciò è possibile soltanto se gli stessi hanno in essere un rapporto a
tempo indeterminato, atteso che, quello a termine, fino ad un massimo di cinque anni, è riferibile alla
maggior parte di essi e non può essere ricompreso.
La percentuale del 20% quale risulta dal calcolo non
necessariamente porta ad un numero “pieno”: se allo
stesso segue una frazione, questa viene arrotondata
all’unità superiore se è maggiore dello 0,50. Va, tuttavia, rimarcato come la contrattazione collettiva (ad
esempio, Ccnl industria tessile, Ccnl Turismo dopo
l’accordo integrativo del 16 giugno 2014, Ccnl edilizia, settore industria e movimento cooperativo, sottoscritto il 1° luglio 2014) abbia anche previsto la possibilità “tout court” di arrotondare, sempre, all’unità
superiore.
Il comma 2 dell’art. 23, ricorda quali sono i contratti
a termine esclusi dai limiti quantitativi, sottolineando
che la contrattazione collettiva può aggiungerne altri.
Essi sono:
Diritto & Pratica del Lavoro 40/2015
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Inserto
a) quelli stipulati nella fase di avvio di nuove attività
per i periodi definiti dai contratti collettivi nazionali
di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento sia ad aree geografiche che a comparti merceologici. Qui, non essendo rilevabile una disposizione
di carattere comune, i datori di lavoro interessati debbono, necessariamente, riferirsi al Ccnl applicato e
verificare ciò che, eventualmente, lo stesso ha disciplinato. Soltanto per fare un esempio, si richiama l’attenzione sull’accordo del settore turistico ove sono
stati esclusi i rapporti a tempo determinato fino a dodici mesi, elevabili a ventiquattro attraverso la contrattazione di secondo livello: esso è del tutto simile a
quanto previsto dall’art. 67 del Ccnl del terziario;
b) quelli stipulati da imprese c.d. “start up innovative” (art. 25, commi 2 e 3 della legge n. 221/2012)
per i quattro anni successivi alla costituzione della società o per il periodo più breve previsto per le società
già costituite;
c) quelli stipulati per lo svolgimento di attività stagionali che sono quelle individuate da un prossimo D.M.
del Ministro del lavoro (art. 21, comma 2), in attesa
del quale resta in vigore il D.P.R. n. 1525/1963, e
quelle individuate dalla contrattazione collettiva, anche aziendale. Per tali rapporti non è previsto il pagamento della contribuzione aggiuntiva dell’1,40% prevista dall’art. 2 della legge n. 92/2012;
d) quelli instaurati per specifici spettacoli o specifici
programmi radiofonici o televisivi;
e) quelli stipulati per ragioni di carattere sostitutivo
(malattia, maternità, infortunio, ferie, anche a scorrimento) che possono anche non essere indicate espressamente, attesa la fine delle c.d. “causali” intervenuta,
nel corso del 2014, con il D.L. n. 34. Va rimarcato
che anche per tali rapporti non si paga la contribuzione aggiuntiva dell’1,40%;
f) quelli stipulati con lavoratori di età superiore ai 50
anni, limite abbassato rispetto a quello precedente di
55, anche in relazione alle disposizioni incentivanti in
materia di contratti a termine previste dall’art. 4,
commi 8 e 9 della legge n. 92/2012).
Il comma 3 dell’art. 23 continua affermando che il limite percentuale non trova applicazione in una serie
di rapporti in settori del tutto particolari come, le
Università private, incluse le “filiali” di quelle straniere, gli Istituti pubblici e gli Enti privati di ricerca
limitatamente ai lavoratori che svolgono attività di insegnamento, di ricerca scientifica e tecnologica, di assistenza, di direzione e di coordinamento della stessa,
gli Istituti di cultura statale o di Enti pubblici e privati
derivanti da trasformazione di precedenti Enti pubblici, vigilati dal Ministero dei Beni Culturali, con l’esclusione delle Fondazioni musicali ex D.Lgs. n.
367/1996 con riguardo ai lavoratori destinati a soddisfare esigenze temporanee legate a mostre, eventi e
manifestazioni di interesse culturale. Al contempo, si
aggiunge, cosa oltre modo puntuale, che i contratti a
termine che hanno quale oggetto esclusivo la realizzazione di una attività di ricerca scientifica sono stret-
Diritto & Pratica del Lavoro 40/2015
tamente correlati al progetto (che, sovente, è di origine comunitaria od internazionale), con la possibilità,
quindi, di “sforare” il limite massimo di trentasei mesi.
Le sanzioni amministrative
Con il comma 4 dell’art. 23, si entra nel merito dell’apparato sanzionatorio connesso allo sforamento del
limite legale o contrattuale previsto e il Legislatore
delegato, confermando l’impianto normativo della
sanzione amministrativa introdotta con la legge n.
78/2014, risolve una questione che era rimasta “in
aria”, ossia quella della trasformazione del rapporto
di lavoro in contratto a tempo indeterminato, ritenuto
plausibile dalla giurisprudenza (Corte di Appello di
Brescia, 3 aprile 2014, Tribunale di Napoli, 4 luglio
2012, Tribunale di Massa Carrara, 8 ottobre 2010) in
caso di sforamento della percentuale contrattuale, sulla base della previsione contenuta nell’art. 32, comma
5, della legge n. 183/2010. Ora, la trasformazione
viene esplicitamente esclusa.
Con questo argomento relativo alla nuova sanzione
correlata al superamento della percentuale, si entra
nel “cuore” della circolare n. 18/2014.
Cosa dice la disposizione sanzionatoria?
«In caso di violazione del limite percentuale di cui al
comma 1, … per ciascun lavoratore si applica una
sanzione amministrativa di importo pari:
a) al 20% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in
violazione del limite percentuale non è superiore ad
uno;
b) al 50% della retribuzione, per ciascun mese o frazione di mese superiore a 15 giorni di durata del rapporto di lavoro, se il numero dei lavoratori assunti in
violazione del limite percentuale è superiore a uno».
Prima di entrare nel merito della sanzione amministrativa e delle soluzioni prospettate dalla circolare n.
18 che sono vincolanti per gli ispettori del lavoro e le
Direzioni territoriali del lavoro, vanno sottolineate alcune particolarità.
La prima riguarda il quantum della sanzione: non è
previsto un limite minimo ed un limite massimo, né è
prevista una misura fissa, ma esso è strettamente correlato alla durata del rapporto di lavoro al quale si riferisce la pena pecuniaria ed alla retribuzione corrisposta che, indubbiamente, può essere diversa a seconda del settore, della qualifica e delle mansioni del
lavoratore.
La seconda concerne la retribuzione da prendere quale base di calcolo: tra le diverse opzioni possibili, il
Dicastero, offrendo, giustamente, un indirizzo comune alle proprie articolazioni periferiche (ma anche
agli altri organi che vigilano sulla correttezza del rapporto di lavoro come, ad esempio, gli Istituti previdenziali e la Guardia di Finanza), ha “sposato” quella
della “retribuzione lorda mensile” riportata nel singolo contratto di lavoro, desumibile anche attraverso
XVII
Eufranio Massi - Copyright Wolters Kluwer Italia s.r.l.
Inserto
una divisione della retribuzione annuale per il numero
delle mensilità spettanti (minimo 13). Se nel contratto
individuale non è riportata la retribuzione mensile od
annuale, gli organi di vigilanza dovranno, necessariamente, riferirsi alla retribuzione tabellare prevista nel
Ccnl applicato o applicabile. Da ciò ne consegue che,
agli effetti sanzionatori, non sono da prendere in considerazione eventuali emolumenti aggiuntivi che potrebbero scattare nel corso del rapporto come, ad
esempio, gli aumenti legati ad un rinnovo contrattuale.
La terza considerazione che viene sottolineata riguarda la constatazione che la sanzione amministrativa
opera non soltanto nel caso in cui ad esser valicato
sia il limite legale del 20%, ma anche allorquando ad
essere violato è il limite previsto dal Ccnl applicato
dal datore di lavoro, quandanche lo stesso sia complessivo con quello previsto con la somministrazione
a termine.
La quarta sottolineatura concerne alcune situazioni
afferenti l’estinzione della violazione amministrativa.
L’Istituto della diffida non è assolutamente applicabile, atteso che la violazione della percentuale è stata
realizzata, mentre il Ministero del lavoro ritiene possibile l’applicazione della sanzione in misura ridotta,
rifacendosi ad un orientamento espresso dalla Corte
di Cassazione con la sentenza n. 2407 del 19 maggio
1989. La Suprema Corte ha affermato che «la prevista facoltà di scelta del contravventore tra il pagamento di un terzo del massimo, ovvero - se più favorevole - del doppio del minimo della sanzione edittale, si riferisce chiaramente alla eventualità (sia pur
statisticamente più frequente) di una sanzione articolata da un minimo ad un massimo, ma non postula la
necessità di tale articolazione». Di conseguenza, afferma il Dicastero, l’importo della sanzione andrà,
necessariamente, notificato dall’ispettore nella misura
di un terzo ed il pagamento nei sessanta giorni successivi produrrà l’estinzione della violazione.
La quinta notazione riguarda una previsione, introdotta in sede di conversione del D.L. n. 34 e, quindi,
operativa dal 21 maggio 2014, data di entrata in vigore della legge n. 78: la sanzione amministrativa, di
cui si parlerà tra un attimo, non si applica ai rapporti
di lavoro che comportino il superamento del limite
percentuale (legale o contrattuale), instaurati prima di
tale data.
Passando ad esaminare la concreta formulazione dell’importo sanzionatorio, la circolare afferma che l’importo mensile individuato attraverso l’applicazione
della percentuale del 20% o del 50% a seconda dei
casi va arrotondato all’unità superiore se il decimale
è pari o superiore a 0,5 e poi moltiplicato, per ogni
lavoratore interessato, per il numero dei mesi cui si
riferisce la violazione, avendo presente che le frazioni
di mese superiori a 15 giorni sono computate come
mese intero.
Su questo punto vanno effettuate alcune precisazioni:
XVIII
a) se il periodo contestabile è inferiore ai 16 giorni,
non c’è alcuna sanzione;
b) il periodo da prendere in considerazione ai fini dell’applicazione della sanzione va dalla data di instaurazione del rapporto di lavoro fino alla data in cui gli
organi di vigilanza hanno accertato il “superamento”
del limite (ovviamente, nel caso in cui l’accertamento
riguardi rapporti a termine già conclusi il computo va
effettuato per tutto il periodo dalla assunzione fino alla scadenza);
c) non vanno prese in considerazioni eventuali sospensioni del rapporto verificatesi, ad esempio, per
malattia, infortunio, maternità od altra causa, atteso
che la norma fa riferimento alla durata del rapporto
di lavoro.
La circolare n. 18 pone, visivamente, a disposizione
dei propri ispettori e dell’utenza alcuni esempi che
rendono chiaro il modus operandi della sanzione:
Impresa che supera di una sola unità il numero
massimo di contratti a tempo determinato
Retribuzione annua lorda del lavoratore: 19.000 per
13 mensilità
Periodo di occupazione: 4 mesi e 10 giorni
Importo sanzionatorio:
- euro 19.000:13 = 1.461,53 (retribuzione mensile)
- euro 1.461,53*20% = euro 292 (percentuale arrotondata di retribuzione mensile)
- euro 292*4 (i 10 giorni non contano) = 1.168 (sanzione in misura piena)
- euro 1.168: 3 = 389,33 (importo sanzione ridotta ex
art. 16 della legge n. 689/1981)
Impresa che supera di tre unità il numero massimo
di contratti a tempo determinato
Lavoratore n. 1
Retribuzione annua lorda = 19.000 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione = 4 mesi e 10 giorni
Lavoratore n. 2
Retribuzione annua lorda = 26.000 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione = 2 mesi e 16 giorni
Lavoratore n. 3
Retribuzione annua lorda = 15.600 euro per 13 mensilità
Periodo di occupazione = 1 mese e 6 giorni
Importo sanzionatorio
- euro 19.000:13 = 1.461,53 (retribuzione mensile lavoratore n. 1)
- euro 26.000:13 = 2.000 (retribuzione mensile lavoratore n. 2)
- euro 15.600:13 = 1.200 (retribuzione mensile lavoratore n. 3)
- euro 1.461,5350% = 731 (percentuale arrotondata di
retribuzione mensile lavoratore n. 1)
- euro 2.000*50% = 1.000 (percentuale retribuzione
mensile lavoratore n. 2)
- euro 1.200*50% = 600 (percentuale retribuzione
mensile lavoratore n. 3)
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Inserto
- euro 731*4 = 2.924 (percentuale retribuzione mensile per periodo occupazione lavoratore n. 1)
- euro 1.000*3 = 3.000 (percentuale retribuzione
mensile per periodo di occupazione lavoratore n. 2)
- euro 600*1 = 600 (percentuale retribuzione mensile
per periodo di occupazione lavoratore n. 3)
- euro(2.924+3.000+600):3 = 2.174,66 (importo sanzione ridotta ex art. 16 della legge n. 689/1981)
Come si è già avuto modo di sottolineare molti contratti collettivi presentano una percentuale complessiva tra contratti a termine e contratti di somministrazione: in questi casi, afferma il Ministero del lavoro,
gli organi di vigilanza dovranno verificare se la percentuale di riferimento è stata superata di una sola
unità attraverso il ricorso alla utilizzazione di un lavoratore somministrato: in questo caso non può trovare applicazione la sanzione specifica prevista per il
contratto a tempo determinato, ma quella più lieve
economicamente, individuata dall’art. 40, comma 1,
del D.Lgs. n. 81/2015 (la circolare parla di art. 18,
comma 3, del D.Lgs. n. 276/2003 ora abrogato dall’art. 55, comma 1, lettera d, del D.Lgs. n. 81/2015),
consistente in un importo pecuniario compreso tra
250 e 1.250 euro.
Diverso è, invece, il discorso relativo alla circostanza
che il limite contrattuale sia stato superato, ad esempio, con due unità (un contratto a termine ed uno,
successivo, di somministrazione): qui, la circolare n.
18 afferma che la sanzione da applicare complessivamente ai due rapporti è quella del superamento del limite attraverso due contratti a tempo determinato
(quindi, parametrata per entrambi sul 50% della retribuzione), con esclusione «dell’applicazione contestuale di entrambe le sanzioni»: la considerazione di
fondo, sottintesa a tale indirizzo, è che con il contratto di somministrazione il datore abbia violato la norma correlata al superamento del limite per il contratto
Diritto & Pratica del Lavoro 40/2015
a tempo determinato. Tale ricostruzione presenta il
fianco a qualche critica.
L’applicazione del quantum della sanzione amministrativa relativa ad un contratto a termine che abbia
“sforato” il limite (che, come affermato dal Ministero
del lavoro, va, per i rapporti in corso, dal momento
della instaurazione a quello della constatazione) pone
il problema di cosa possa avvenire se, successivamente, magari un altro organo di vigilanza intervenga
in azienda e trovi il lavoratore a termine “in soprannumero” ancora al lavoro.
A seguito del nuovo accesso, è possibile irrogare una
sanzione per il periodo intercorrente dal giorno successivo fino al giorno dell’accesso?
Il Dicastero del lavoro non si pone la questione che,
forse, potrebbe essere risolta con un interpello ma regole giuridiche e di buon senso farebbero optare per
una soluzione negativa.
Regole giuridiche: il datore di lavoro inottemperante
all’obbligo legale o contrattuale è già stato sanzionato
e, pertanto, dovrebbe valere il vecchio principio del
“ne bis in idem”. Qui un problema potrebbe porsi, però, in tutte quelle ipotesi nelle quali l’accertamento
della violazione è intervenuto nella prima quindicina
di giorni di svolgimento del rapporto, quando, l’ispettore, dopo aver accertato la violazione, non può emettere la sanzione in quanto, al momento, non si è giunti al sedicesimo giorno.
Regole di buon senso: dopo l’irrogazione della sanzione amministrativa il datore di lavoro non può recedere, impunemente, dal rapporto di lavoro che, per
gli elementi essenziali che lo costituiscono (al di fuori
del mancato rispetto della percentuale numerica) è
perfettamente valido, con la conseguenza che il lavoratore, a fronte di un provvedimento di recesso, potrebbe, quanto meno, chiedere, a titolo di risarcimento del danno, gli importi delle mensilità mancanti fino
alla data prevista di cessazione.
XIX
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Inserto
Contratti a termine
dopo il riordino della disciplina
Eufranio Massi – Esperto in Diritto del lavoro (*)
Art. 25: il principio di non discriminazione
Dalla lettura dell’art. 25 emerge chiaramente che al
lavoratore a termine spetta il trattamento economico e
normativo in essere nell’impresa per i lavoratori a
tempo indeterminato comparabili: con tale aggettivo
il legislatore delegato non fa altro che riprodurre un
principio già enunciato nell’art. 5 della legge n.
230/1962, in base al quale i prestatori da prendere
quale riferimento sono coloro che sono inquadrati
nello stesso livello sulla base dei criteri di classificazione dettati dalla contrattazione collettiva.
La disposizione è importante, in quanto è strettamente correlata ad alcune sanzioni amministrative esplicitamente previste dal comma 2 e, soprattutto, è la concreta applicazione di una delle finalità individuate
dalla direttiva 1999/70/Ce. Per completezza di informazione è opportuno ricordare come la violazione
(identica a quella già prevista dall’art. 6 del D.Lgs. n.
368/2001) sia punita con un importo compreso tra
25,82 e 154,94 euro: se si riferisce a più di cinque lavoratori la somma sale ed è compresa tra 154,94 e
1.032,91 euro.
Il principio di non discriminazione non si ferma soltanto ai richiami dell’art. 25 ma riguarda anche altre
disposizioni non richiamate che “toccano” la sfera individuale dei lavoratori.
Ci si riferisce, ad esempio, a tutte quelle previste dalla legge n. 265/1999 che disciplinano lo “status” degli amministratori locali. Vi sono una serie di garanzie (artt. 19 e 24) in favore degli amministratori, siano essi dipendenti pubblici o privati, senza alcuna
specificazione connessa alla durata del rapporto.
Uguali considerazioni possono farsi per eventuali permessi sindacali, atteso che la legge n. 300/1970 non
prevede alcuna esclusione per i lavoratori a termine,
oltre che, ovviamente, per i quindici giorni di congedo matrimoniale retribuito.
La non discriminazione passa anche attraverso l’applicazione di particolari istituti previsti da leggi sulle
quali, al momento, non ci si sofferma: ci si riferisce,
ad esempio, alla tutela ed al trattamento economico
in caso di assenze dovute a malattie, per le quali trova piena applicazione l’art. 5 della legge n. 638/1983
o alle tutele disposte in favore delle lavoratrici madri
per effetto delle norme compendiate nel D.Lgs. n.
151/2001 che trovano applicazione anche nei confronti dei lavoratori pubblici con contratto a tempo
determinato: ci si riferisce, ad esempio, alle novità introdotte in materia di congedo parentale ad ore dal
D.Lgs. n. 80/2015, “spiegato” da un punto di vista
amministrativo dalla circolare Inps n. 149/2015.
Sotto l’aspetto del divieto di discriminazione è interessante sottolineare la sentenza della Corte di Cassazione n. 9864 del 6 luglio 2002 riferito allo “status”
di maternità in correlazione alla stipula di un contratto a tempo determinato: non c’è alcuna disposizione
che imponga alla lavoratrice gestante di far conoscere, al momento della stipula al datore di lavoro la natura del proprio stato, neppure quando venga assunta
a tempo determinato. Tale obbligo non può, infatti, ricavarsi dai canoni generali di correttezza e buona fede previsti dagli articoli 1175 e 1375 c.c. o da altro
generale previsto dal nostro ordinamento, considerato
che una diversa opinione condurrebbe a ravvisare nello stato di gravidanza e puerperio un ostacolo all’assunzione al lavoro della donna e finirebbe, così, per
legittimare operazioni interpretative destinate a minare in maniera rilevante la tutela apprestata a favore
delle lavoratrici madri.
Art. 26: la formazione
Da un punto di vista strettamente normativo il nuovo
art. 27, rispetto al precedente art. 7 del D.Lgs. n.
(*) Il presente inserto è suddiviso in due parti. La prima parte è stata pubblicata nel n. 40 della rivista.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
III
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Inserto
368/2001, è molto più “scarno”: infatti del vecchio
testo è ripreso soltanto il comma 2.
I contratti collettivi, quindi anche quelli aziendali,
possono prevedere modalità e strumenti diretti ad
agevolare l’accesso dei lavoratori a tempo determinato ad opportunità di formazione adeguata, per aumentarne la qualificazione, promuoverne la carriera e migliorarne la mobilità occupazionale. Si tratta, come si
vede, non soltanto di formazione adeguata finalizzata
alle mansioni che il lavoratore è destinato a svolgere
ma anche di qualcosa che sembra puntare ad un “investimento” professionale, atteso che si parla di “promozione di carriera” e di facilitazioni, attraverso l’esperienza formativa, nella mobilità occupazionale in
altri contesti.
Ma questa non può essere la sola formazione (tra l’altro, prevista soltanto da una eventuale contrattazione
collettiva) che il datore è tenuto ad erogare: ci si riferisce all’obbligo di formazione che rappresenta una
attuazione specifica delle prescrizioni in materia di
prevenzione (sia di informazione che di informazione) che rientrano tra gli oneri del datore, secondo la
previsione contenuta nel D.Lgs. n. 81/2008. I requisiti
di sufficienza e di adeguatezza della formazione debbono avere una sostanziale rispondenza nei rischi
specifici del lavoro da effettuare.
Sulla base dei contenuti dell’art. 2, comma 1, lettera
a), del D.Lgs. n. 81/2008, lo svolgimento della formazione per la tutela e la sicurezza è indipendente
dalla tipologia contrattuale. Da ciò ne consegue che il
datore di lavoro sottostà agli obblighi previsti ex art.
17 (valutazione dei rischi e designazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione) ed
ex art. 18 (nomina del medico competente, visita medica preventiva per i neo assunti, obbligo di informazione e di addestramento, ecc.), oltre agli obblighi
specifici derivanti dalla stessa valutazione dei rischi
tipici di quelle lavorazioni.
Art. 27: i criteri di computo
Una disposizione relativa ai nuovi contratti a termine
che è passata quasi inosservata è quella contenuta
nell’art. 27 del D.Lgs. n. 81/2015: qui il Legislatore
delegato ha esteso alla “quasi” generalità dei casi ciò
che nel 2013, per effetto della legge comunitaria n.
97, era stato previsto per il calcolo dei dipendenti ai
fini delle garanzie delle rappresentanze sindacali
aziendali ex art. 35 della legge n. 300/1970.
Prima di entrare nel merito delle novità introdotte
credo che sia necessario ricordare come fu variato dal
Legislatore il computo del contratto a termine ai fini
sopra indicati.
Fino alla data di entrata in vigore della legge n.
97/2013, l’art. 8 del D.Lgs. n. 368/2001, affermava
che, ai fini del campo di operatività delineato dall’art.
35 della legge n. 300/1970, i contratti a termine erano
computabili ove il rapporto avesse avuto una durata
superiore a nove mesi. L’art. 12 della legge comunitaria appena citata, prendendo lo spunto dalla procedu-
IV
ra di infrazione della Comunità Europea n.
2010/2045 stabilisce che «i limiti prescritti dal primo
e secondo comma dell’art. 35 della legge 20 maggio
1970, n. 300, per il computo dei dipendenti si basano
sul numero medio mensile di lavoratori a tempo determinato impiegati negli ultimi due anni, sulla base
dell’effettiva durata dei loro rapporti di lavoro».
La disposizione, in vigore dal 4 settembre 2013, va
correlata, ora, con il D.Lgs. n. 81/2015, nella quale i
lavoratori in mobilità, esclusi dalla disciplina speciale
sui contratti a tempo determinato, vanno, in ogni caso, computati, ai fini dell’art. 25 (principio di non discriminazione) e 27 (computo per le finalità dell’art.
35 della legge n. 300/1970): ebbene, la circolare del
Ministero del lavoro n. 35/2013 afferma che i computabili (con le modalità stabilite dalla legge n.
97/2013) sono «esclusivamente quelli assunti a partire dal 23 agosto 2013».
L’art. 35 stabilisce che per le imprese industriali e
commerciali le norme contenute nel titolo III (attività
sindacale) ad eccezione del primo comma dell’art. 27
(locali a disposizione delle rappresentanze sindacali
aziendali), si applicano a ciascuna sede, stabilimento,
filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di
quindici dipendenti. Per quelle agricole, invece, il limite dimensionale è fissato ad almeno sei dipendenti.
Queste norme trovano applicazione anche nei confronti delle imprese industriali e commerciali che nello stesso comune occupano almeno sedici dipendenti
e delle imprese agricole che nel medesimo ambito
territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche
se ciascuna unità produttiva, di per sé considerata,
non raggiunge tali limiti. È appena il caso di ricordare come per unità produttiva si intenda, per giurisprudenza costante, quella entità aziendale che si caratterizzi per sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa, tali che in essa
si svolga e si concluda il ciclo relativo, o una frazione, o un momento essenziale dell’attività produttiva
aziendale.
Da quanto appena detto, discende una applicazione
concreta dei nuovi criteri: in presenza di più contratti
a termine sviluppatisi nel corso degli ultimi ventiquattro mesi (criterio mobile che va calcolato, a ritroso dal momento in cui sarà necessario fare il computo) dovranno essere sommate le durate dei singoli
rapporti per cui, ad esempio, se nel biennio precedente sono stati stipulati contratti a tempo determinato di
8, 10 e 9 mesi, occorrerà sommare i periodi ed il risultato di 27 dovrà essere diviso per 24, dando un totale di 1,12 arrotondato per difetto ad una unità lavorativa.
Detto questo, entro nel merito della questione osservando che il Legislatore delegato premette, all’applicazione della regola generale, la frase «salvo che sia
diversamente disposto», cosa che, ad esempio, riguarda una serie di disposizioni specifiche tra le quali
spicca il computo relativo alla base di calcolo per i
disabili.
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Inserto
L’art. 4, comma 27, della legge n. 92/2012, intervenendo sull’art. 4 della legge n. 68/1999, aveva cancellato, ai fini del calcolo, quell’esonero normativo
concernente i rapporti a tempo determinato fino a nove mesi. Tale “status”, però, è durato soltanto pochi
giorni, in quanto con l’art. 46-bis della legge n.
134/2012 si è verificata una parziale “marcia indietro”, nel senso che, oggi, sono esclusi dal computo i
contratti a termine di durata fino a sei mesi. Va, peraltro, sottolineato come il Ministero del lavoro, con la
circolare n. 18 del 18 luglio 2012, dettando le prime
indicazioni operative alle proprie strutture periferiche,
abbia affermato che nel computo non vanno inclusi i
rapporti stipulati per la sostituzione di lavoratori
aventi diritto alla conservazione del posto (es. maternità, infortunio, malattia, nel caso in cui questi ultimi
siano stati già calcolati) e che i singoli contratti vanno
computati con riferimento all’anno (due rapporti a
tempo determinato di sei mesi, valgono, ad esempio,
una unità).
Un’altra norma particolare concerne il lavoro a tempo
parziale e determinato, ove l’art. 9 del D.Lgs. n.
81/2015 afferma che “ai fini della applicazione di
qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per
la quale sia rilevante il numero dei dipendenti, i lavoratori a tempo parziale sono computati in proporzione
all’orario svolto, rapportato al tempo pieno. A tal fine, l’arrotondamento opera per le frazioni di orario
che eccedono la somma degli orari a tempo parziale
corrispondente ad unità intere di orario a tempo pieno». I lavoratori a tempo parziale con contratto a termine, vanno computati pro-quota in relazione all’orario svolto ma, ovviamente, ai fini delle quantificazioni di organico previste dall’art. 35 della legge n.
300/1970 per l’applicazione di particolari garanzie,
occorrerà effettuare il calcolo sulla base dei nuovi criteri introdotti dall’art. 12 della legge n. 97/2013.
Un discorso abbastanza analogo, nel senso che anche
qui si rinviene una disposizione particolare, lo troviamo per il contratto intermittente ove l’art. 18 del
D.Lgs. n. 81/2015 afferma che ai fini dell’applicazione di qualsiasi disciplina legale o contrattuale per la
quale sia rilevante il computo dei dipendenti del datore di lavoro, il lavoratore intermittente è computato
nell’organico dell’impresa in proporzione all’orario
di lavoro effettivamente svolto nell’arco di ciascun
semestre.
C’è, poi, la disposizione specifica contenuta nell’art.
18, comma 9, della legge n. 300/1970 ove si afferma
che ai fini del computo dei dipendenti lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale
vanno calcolati «per la quota di orario effettivamente
svolto».
Un altro istituto sul quale si incide, ai fini della computabilità, è quello della sicurezza.
L’art. 4, comma 1, lettera d), del D.Lgs. n. 81/2008,
che tratta, invece, gli obblighi in materia di sicurezza
ed igiene sul lavoro, esclude dal computo dei dipendenti utile per far scattare particolari obblighi in ma-
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teria di sicurezza ed igiene sul lavoro, i soggetti che
sono stati assunti con contratto a tempo determinato
in sostituzione di lavoratori aventi diritto alla conservazione del posto.
Va ricordato, inoltre, come i contratti a termine siano
espressamente esclusi dal computo del personale in
forza alla data del 1° gennaio dell’anno al quale si riferiscono le assunzioni a tempo determinato: infatti,
l’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2015, comprende, nella base
di calcolo, unicamente i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato.
Su chi va ad incidere la nuova determinazione contenuta nell’art. 27?
Innanzitutto, sulle imprese artigiane e, soprattutto, sui
limiti dimensionali previsti dalla legge n. 443/1985
ma anche (probabilmente, con effetti positivi per
l’impresa) sui limiti dimensionali delle aziende con
un organico inferiore alle venti unità le quali, in caso
di sostituzione di una lavoratrice avente diritto alla
conservazione del posto, godono per un massimo di
dodici mesi di una franchigia contributiva pari al
50%.
C’è, infine, quello che a me sembra l’aspetto di maggiore impatto: quello relativo ai limiti dimensionali
per l’applicazione della procedura di mobilità e dei
trattamenti conseguenti, dei trattamenti integrativi, e
della disciplina dei fondi di solidarietà per i quali è in
corso l’iter di approvazione del Decreto delegato e
che, presumibilmente, andrà in Gazzetta Ufficiale
verso la fine del prossimo mese di agosto. Qui si parla (art. 13 della bozza di decreto approvato, in prima
lettura, dal Consiglio de Ministri) di percentuali variabili della contribuzione ordinaria legate al numero
dei dipendenti, del numero medio di più di quindici
dipendenti riferito al semestre precedente per gli interventi integrativi straordinari (art. 20), del numero
individuato dalle parti sociali ai fini dei fondi di solidarietà bilaterali (art. 26), del fondo di solidarietà residuale (numero superiore alle quindici unità, secondo la dizione dell’art. 28) e del fondo di interazione
salariale che dovrebbe riguardare i datori di lavoro
che occupano mediamente più di cinque dipendenti
(art. 29) e che non rientrano nell’ambito di applicazione previsto dalla normativa generale. Quanto appena detto potrebbe avere un impatto notevole sia
sulla contribuzione dovuta che sulle prestazioni.
Ma qui, come sempre, occorrerà attendere ciò che sarà scritto nella versione definitiva del decreto e, soprattutto, l’orientamento sia del Ministero del lavoro
che dell’Inps.
Art. 28: decadenza e tutela
L’art. 28 ricorda che l’impugnazione del contratto a
tempo determinato deve avvenire, pena la decadenza,
entro centoventi giorni dalla sua comunicazione in
forma scritta o dalla comunicazione, sempre in forma
scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi
atto scritto, anche di natura extragiudiziale, idoneo a
rendere nota la volontà del lavoratore al datore di la-
V
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Inserto
voro anche attraverso l’intervento di una organizzazione sindacale: ovviamente, l’impugnazione è inefficace se non segue, con le modalità previste dal secondo comma dell’art. 6 della legge n. 604/1966, il deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale in
funzione di giudice del lavoro.
Il termine di centoventi giorni rappresenta, nel sistema delle impugnazioni delle risoluzioni del rapporto
di lavoro, una eccezione rispetto al termine ordinario
perentorio di 60 giorni: ciò fu il frutto di quanto, allora, affermò l’art. 1, comma 11, della legge n. 92/2012
che, innovando l’art. 32, comma 3, lettera a), della
legge n. 183/2010, prese atto che lo “stacco” da un
contratto a tempo determinato e l’altro era fissato, rispettivamente, in sessanta e novanta giorni, rendendo,
di fatto, impossibile il rispetto del termine generale.
Ora, lo stacco è tornato a dieci e venti giorni, ma il
termine “lungo” per impugnare è rimasto lo stesso.
Il legislatore delegato, ha anche riaffermato, al comma 2, che nei casi di trasformazione (non si parla più
di conversione) del contratto a termine in un contratto
a tempo indeterminato, il giudice condanna il datore
al risarcimento del danno fissando una indennità di
natura onnicomprensiva compresa tra un minimo di
2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del Tfr (modalità già inserita dal D.Lgs. n. 23/2015 per il calcolo della indennità dei lavoratori assunti con “le tutele crescenti”), definendo l’importo sulla base dei criteri individuati dall’art. 8 della legge n. 604/1966 (numero dei
lavoratori occupati, dimensioni dell’azienda, anzianità
di servizio, comportamento e condizioni delle parti).
L’indennità ristora per intero il pregiudizio subito dal
lavoratore comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso tra la scadenza
del termine e la pronuncia con la quale il giudice ha
ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.
Qualora (comma 3) la contrattazione collettiva, anche
aziendale, secondo l’interpretazione fornita dall’art.
51, preveda l’assunzione a tempo indeterminato, di
lavoratori già occupati a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo di dodici mensilità viene ridotto a sei.
La legittimità di tale interpretazione (che riprende
quella analoga contenuta nell’art. 32, comma 5, della
legge n. 183/2010 e nell’art. 1, comma 13 della legge
n. 92/2012) è stata già oggetto di un intervento della
Corte Costituzionale con la sentenza n. 226 del 25 luglio 2014, investita dal Tribunale di Velletri circa la
conformità del risarcimento rispetto agli articoli 3 e
117 della Costituzione, in quanto rappresenterebbe
anche una riduzione delle tutele previste nella Direttiva Europea sui contratti a tempo determinato, la
1999/70 Ce.
La Consulta ha dichiarato infondato il ricorso, dopo
aver anche argomentato sulla volontà del Legislatore
comunitario. La forfetizzazione del risarcimento accompagnata dalla trasformazione del rapporto coniuga la tutela economica del prestatore al «bisogno di
VI
certezza dei rapporti giuridici tra le parti coinvolte
nei processi produttivi anche alfine di superare inevitabili divergenze applicative cui aveva dato luogo il
sistema previgente».
La specifica indennità risarcitoria in caso di trasformazione del contratto a termine è stata dichiarata
conforme alla Direttiva Europea da una sentenza della Corte Europea di Giustizia (C-361/2012) del 12 dicembre 2013 (l’esame riguardava il contenuto dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183/2010) che, decidendo su una remissione proveniente dal Tribunale
di Napoli, ha ritenuto che non si potesse parlare di discriminazione rispetto al trattamento di natura economica scaturente dall’applicazione dell’art. 18 della
legge n. 300/1970. La Corte ha ritenuto che la differenza di trattamento sia pienamente compatibile con
le disposizioni comunitarie che vietano l’approvazione di regole discriminatorie tra lavoratori con contratto a tempo determinato, ma non il trattamento differenziato tra situazioni giuridiche non equivalenti.
Una constatazione conclusiva, su questo argomento,
va fatta partendo dal fatto che la fine delle causali e
la novità introdotta con l’art. 23, comma 4, che esclude la trasformazione del contratto in caso di superamento del limite percentuale legale o contrattuale alla
stipula, hanno, di molto, ristretto l’operatività della
norma prevista dall’art. 28.
Una riflessione si rende necessaria in tema di licenziamento: quello di natura disciplinare legittima la
possibilità del recesso anticipato?
La risposta è positiva ma, il tutto, va riportato all’interno dell’art. 7 della legge n. 300/1970, in ottemperanza a ciò che affermò la Corte Costituzionale con
la sentenza n. 204 del 30 novembre 1982.
Un’altra riflessione va fatta sulla tutela della maternità in caso di cessazione del contratto a tempo determinato: l’art. 54 consente la risoluzione del rapporto
alla scadenza del termine.
Un breve cenno ad altre due considerazioni che riguardano le procedure collettive di riduzione di personale ed il periodo di preavviso: per quel che concerna il primo argomento si ricorda che l’art. 24,
comma 4, della legge n. 223/1991 afferma che esse
non riguardano «i casi di scadenza dei rapporti di lavoro a termine, di fine lavoro nelle costruzioni edili e
nei casi di attività stagionali e saltuarie».
Per quel che riguarda, invece, la seconda questione si
ricorda che la particolare configurazione del contratto
a termine ove esiste una scadenza prefissata esclude
che il datore di lavoro sia tenuto al rispetto dell’obbligo previsto dall’art. 2118 c.c.
Art. 55: abrogazioni relative a normative
sui contratti a termine
Nel D.Lgs. n. 81/2015 l’art. 55 rappresenta un po’ un
articolo “omnibus”, nel senso che comprende tutta
una serie di abrogazioni e norme transitorie che riguardano tutte le tipologie contrattuali e gli istituti
compresi nel provvedimento.
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Inserto
Per quel che riguarda il contratto a tempo determinato
viene abrogato, a partire dal 25 giugno 2015, il
D.Lgs. n. 368/2001 (comma 1, lettera b), ad eccezione dell’art. 2 (comma 2) la cui cancellazione è rimandata al 1° gennaio 2017.
Per la verità il Legislatore delegato parlando di abrogazione del D.Lgs. n. 368/2001 aggiunge «e fermo
restando quanto disposto dall’art. 9, comma 20, del
D.L. n. 78/2010 convertito, con modificazioni, nella
legge n. 122». Di cosa si tratta?
È una norma che, all’insegna del contenimento della
spesa pubblica fissa, nella Pubblica Amministrazione,
comprese le Agenzie, le Università e gli Enti pubblici
non economici. limiti alla utilizzazione di personale
con tipologie flessibili, tra cui il contratto a tempo determinato.
Il comma 2, invece, rinvia di circa 18 mesi l’abrogazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 368/2001 ai settori del
trasporto aereo, dei servizi aeroportuali ed a quelli
postali di avere una normativa del tutto particolare
che, almeno per il trasporto aereo, affonda le sue origini nell’art. 1, lettera f), della legge n. 230/1962.
Per quel che concerne il trasporto aereo ed i servizi
aeroportuali (se ne parla perché la norma sarà vigente
anche l’anno prossimo) è previsto che le imprese possano stipulare contratti a termine per un periodo massimo complessivo di sei mesi tra aprile ed ottobre, o
di quattro mesi in altri periodi dell’anno nel rispetto
di una percentuale massima del 15% dell’organico
aziendale adibito costantemente. L’aliquota massima
va calcolata sul personale in forza alla data del 1°
gennaio dell’anno al quale si riferiscono le assunzioni. Nei c.d. “aeroporti minori” che lavorano oltre le
proprie normali possibilità in alcuni brevi periodi dell’anno il limite del 15% può essere sforato, ma è necessaria la preventiva autorizzazione della Direzione
territoriale del lavoro che è tenuta ad emettere il
provvedimento, entro i sessanta giorni successivi all’istanza (v. D.M. n. 227/1995), sulla base di considerazioni relative alla quantità dell’attività ed al parere
delle organizzazioni provinciali di categoria alle quali
vanno comunicate le richieste di assunzione.
Quanto detto per il trasporto aereo e per i servi aeroportuali si applica anche, per effetto del comma 1-bis
dell’art. 2, alle imprese concessionarie dei servizi nel
settore delle poste: qui il periodo massimo complessivo è di sei mesi tra aprile ed ottobre, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti. Anche in questo caso la percentuale è del 15% sull’organico in forza al 1° gennaio dell’anno al quale si riferiscono le
assunzioni, rispetto alle quali incombe sul datore di
lavoro un onere di comunicazione nei confronti delle
organizzazioni sindacali provinciali di categoria.
La norma specifica, dopo quella generale introdotta
nel nostro ordinamento dal D.L. n. 34/2014 e ripetuta
dall’art. 23 del D.Lgs. n. 81/2015, non aveva, ad avviso di chi scrive, più ragione di esistere e bene ha
fatto il Legislatore delegato a procedere all’abrogazione.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
Contratti a termine particolari previsti
dall’ordinamento
Assunzioni degli sportivi professionisti
Un altro contratto a termine che è fuori dalla disciplina del D.Lgs. n. 81/2015 (che non ne fa, assolutamente, cenno) è quello previsto dalla legge n.
91/1981 in materia di rapporti tra società sportive e
professionisti. Il rapporto può assumere diverse forme
e, per quel che ci interessa in questa trattazione, anche quello del contratto a tempo determinato che deve essere conforme (art. 4) ad un contratto tipo predisposto dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate. Il comma 8 del
medesimo articolo, oltre ad escludere l’applicazione
di disposizioni fondamentali della legge n. 300/1970
afferma che «ai contratti a termine non si applicano
le norme della legge n. 230/1962»: ovviamente, ora,
tale disposizione è da leggersi riferita al D.Lgs. n.
81/2015. Il contratto (art. 5) può contenere l’apposizione di un termine risolutivo, non superiore a cinque
anni, dalla data di inizio del rapporto ed è ammessa
la successione di contratto a termine fra gli stessi soggetti, come è ammessa la cessione del contratto. Si
tratta, in ogni caso, di un contratto tipico che deve rispettare le formalità previste dall’art. 4: se ciò non
avviene, affermò, a suo tempo, la Corte di Cassazione
(Cass., 8 giugno 1995, n. 6439), ricorrendone i presupposti, il contratto è di lavoro subordinato e, quindi, non operando la deroga prevista al comma 8 dell’art. 4, si applica la disciplina generale sul contratto
a tempo determinato.
Il contratto degli sportivi professionisti è, a tutti gli
effetti, una tipologia di lavoro subordinato, sia pure a
termine, nella maggior parte dei casi (nel settore calcistico la durata massima del contratto è di cinque anni). Ciò comporta la necessità di tutti gli adempimenti
amministrativi conseguenti alla instaurazione ed alla
gestione di un normale rapporto di lavoro (comunicazione anticipata al centro per l’impiego, scritturazioni
sul Libro Unico del Lavoro alle scadenze prefissate,
ecc.), ma anche, nell’ipotesi di una risoluzione anticipata sia consensuale (cosa frequentissima nel c.d.
“mercato calciatori”) che per dimissioni, quella della
convalida dell’atto rescissorio, secondo la procedura
individuata dall’art. 4, commi 17 e seguenti, della
legge n. 92/2012 e che sta per essere cambiata dal decreto legislativo sulla semplificazione nei rapporti di
lavoro.
Il D.Lgs. n. 81/2015 non trova, in alcun modo, applicazione e le stesse eventuali rivendicazioni di natura
giudiziaria non possono essere avanzate direttamente,
in quanto la clausola compromissoria prevede che
sulle stesse si pronunci un collegio arbitrale.
Assunzioni nelle imprese qualificate come
“start-up innovative”
C’è, poi, il contratto a tempo determinato attivabile
nelle c.d. “start-up innovative” e che trova la propria
VII
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Inserto
disciplina fondamentale nell’art. 28 della legge n.
223/1991. I requisiti per la costituzione di queste imprese sono espressamente indicati dall’art. 25 che, in
alcuni punti, è stato innovato attraverso l’art. 9 del
D.L. n. 76/2013 e che prevede cospicui vantaggi di
natura fiscale, economica e normativa.
La materia delle “start-up innovative” è, in questa sede, unicamente trattata per i rapporti a tempo determinato i quali si sviluppano con disposizioni fortemente derogative rispetto al D.Lgs. n. 81/2015.
Il comma 1 dell’art. 28 afferma che le disposizioni si
applicano per un periodo di quattro anni (quindi, non
sono strutturali) dalla data di costituzione dell’impresa innovativa o se è già stata costituita nei due anni
precedenti il 20 ottobre 2012, data di entrata in vigore
del D.L. n. 179/2012, per scendere a tre se la “nascita” risale al triennio precedente e a due se la costituzione è avvenuta nei quattro anni antecedenti.
Il successivo comma 2 “tagliava”, anticipando quello
che, a partire dal 21 marzo 2014 sarebbe avvenuto
con il D.L. n. 34/2014, le motivazioni tecnico, produttive, organizzative e sostitutive. Affermando che
le stesse si ritenevano sussistenti allorquando erano
inerenti o strumentali all’oggetto sociale della startup.
Il comma 3 si preoccupa di toccare altri aspetti importanti che rappresentano una deroga sia alla durata
che al periodo di “stacco” tra un contratto e l’altro,
che all’istituto della proroga, che alla stipula di un ulteriore contratto a tempo determinato al raggiungimento della “soglia” dei trentasei mesi che, infine, alla non computabilità sotto l’aspetto quantitativo di tali contratti, secondo la previsione confermata dall’art.
23, comma 2, lettera b) del D.Lgs. n. 81/2015.
La durata minima del contratto è di sei mesi, quella
massima di trentasei. È tuttavia possibile prevedere
una durata inferiore ai sei mesi.
Lo “stop and go” tra un contratto e l’altro (dieci o
venti giorni secondo la durata del primo rapporto)
non trova applicazione: queste imprese possono anche “attaccare” un contratto all’altro senza soluzione
di continuità e senza correre il rischio della trasformazione a tempo indeterminato.
Il limite massimo dei rapporti a termine trova il “muro” dei trentasei mesi: anche qui, ai fini della computabilità, valgono le regole generali, che a partire dal
18 luglio 2012, comprendono anche le utilizzazioni
con contratto di somministrazione. Superata la soglia,
il contratto si considera a tempo indeterminato a meno che, prima dello “sforamento”, le parti non sottoscrivano, presso la Direzione territoriale del Lavoro
competente per territorio, un ulteriore contratto a termine la cui durata massima è fissata dal Legislatore
in dodici mesi: la particolarità, rispetto alla regola generale allora vigente, era che non c’era bisogno di alcun accordo collettivo che fissasse il limite massimo
e non necessariamente il lavoratore doveva sottoscrivere il contratto con l’assistenza di un rappresentante
VIII
sindacale (cose che, ora, sono state generalizzate dal
D.Lgs. n. 81/2015).
Se il datore di lavoro arriva al limite dei trentasei
mesi, non stipula l’ulteriore contratto a termine e
non trasforma il rapporto a tempo indeterminato,
può continuare ad avvalersi dell’opera del lavoratore?
Il legislatore si è preoccupato che un uso “distorto” o
“capzioso” della norma consenta l’utilizzazione del
lavoratore con altre forme contrattuali e, pertanto, ha
affermato al comma 5 che la «trasformazione in contratti di collaborazione priva dei caratteri della prestazione d’opera o professionale determina la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato». Detto
questo, però, non va dimenticata anche l’interpretazione fornita dal Ministero del lavoro per tutti i contratti a termine nella circolare n. 18/2012: è possibile
un impiego successivo dello stesso lavoratore attraverso contratti di somministrazione, atteso che il
“blocco” riguarda soltanto i contratti a tempo determinato.
Il comma 6 si può definire come una disposizione di
“chiusura”: vi si afferma che, per quanto non previsto
esplicitamente, valgono le regole del D.Lgs. n.
368/2001 (ora del D.Lgs. n. 81/2015) e quelle del capo I, titolo II, del D.Lgs. n. 276/2003, che disciplina i
rapporti in somministrazione che però, ora, sono
“normati” dagli articoli da 30 a 39 del D.Lgs. n.
81/2015: tra questi si potrebbero citare i termini per
l’impugnativa del licenziamento per nullità del termine da esternare al datore di lavoro entro centoventi
giorni, con ricorso in giudizio entro i centottanta giorni o il risarcimento del danno che accompagna la
reintegra, in caso di illegittimità del licenziamento,
fissata, in un’indennità risarcitoria compresa tra 2,5 e
12 mensilità, comprensiva delle conseguenze retributive e contributive (art. 28 del D.Lgs. n. 81/2015).
Collocamento dei disabili
La normativa sul contratto a termine va, necessariamente, rapportata, ad avviso di chi scrive, ad altre
leggi come, ad esempio, la n. 68/1999 che interessa il
collocamento dei disabili.
Il contratto a termine viene in evidenza per due aspetti:
a) ai fini della computabilità nella base di calcolo per
la individuazione della copertura d’obbligo relativa ai
datori di lavoro pubblici e privati soggetti all’onere,
come previsto dall’art. 4, comma 1;
b) ai fini dell’assolvimento dell’obbligo, attraverso le
convenzioni per l’inserimento lavorativo, nella previsione dell’art. 11, comma 2.
In ordine al primo aspetto si osserva che la norma afferma, tra le altre cose, la non computabilità dei soggetti con contratto a tempo determinato di durata non
superiore a sei mesi (a ciò si è giunti dopo le modifiche introdotte con l’art. 46-bis della legge n.
134/2012). Il problema che si pone è se il calcolo vada effettuato sulla base del singolo contratto o della
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Inserto
sommatoria di più contratti nel periodo considerato
(si fa la “fotografia” dell’organico al 31 dicembre essendo, al momento, l’obbligo di presentazione del
prospetto fissato al 31 gennaio successivo). La risposta, attenendosi alla dizione letterale della norma, non
può che propendere per la prima tesi.
Il Ministero del lavoro, con la circolare n. 4 del 17
gennaio 2000, ha affrontato il problema relativo ai
datori di lavoro che svolgono attività stagionale, affermando che sono esclusi dalla base di computo i lavoratori che abbiano prestato attività nell’arco dell’anno solare, anche se non continuativamente, per un
periodo complessivo di nove mesi (ora ridotto a sei
mesi), calcolato sulla base delle corrispondenti giornate lavorative.
Per quel che concerne il secondo aspetto va sottolineato come nell’ottica di favorire l’inserimento dei
soggetti portatori di handicap, il Legislatore ha previsto la possibilità, attraverso l’istituto della convenzione tra datore di lavoro e servizio territoriale competente del collocamento dei disabili, di contratti a tempo determinato.
L’assunzione di un lavoratore disabile con contratto a
termine è stata ritenuta, in passato, in linea di massima, non coerente con il dettato, allora previsto, dalla
legge n. 482/1968, che calcolava le carenze d’obbligo
sulla base delle scoperture relative al personale a tempo indeterminato, fatta eccezione per le attività a carattere stagionale di durata superiore a tre mesi: e la
Magistratura di merito fu coerente con tale principio
sostenendo (Trib. Milano, 28 luglio 1982, Pret. Sestri
Ponente, 18 febbraio 1989) che il fine generale della
legge era quello di assicurare un’occupazione stabile
e duratura al disabile.
Ora, un’assunzione a termine è possibile nell’ambito
di una convenzione ex art. 11 della legge n. 68/1999
ove, all’accordo tra il servizio disabili e l’impresa, sovrintende, a mo’ di regia, il comitato tecnico, previsto
dall’art. 6: lo spirito della convenzione è quello di venire, da un lato, incontro alle esigenze del datore di
lavoro e, dall’altro, quello di favorire il proficuo inserimento di soggetti con particolari handicap. Ciò che
è importante sottolineare (anche ai fini di una eventualità risarcitoria) è che, comunque, risulti dalla richiesta di avviamento inviata all’organo del collocamento (qui, c’è sempre il nulla-osta) dalla quale risulti che l’instaurando rapporto è a tempo determinato
(Cass. 26 settembre 1998, n. 9658).
La previsione del contratto a termine per un lavoratore disabile era già fuori dalle specifiche motivazioni
previste all’art. 1, comma 1, del D.Lgs. n. 368/2001:
lo aveva affermato la Cassazione con la sentenza n.
13285 del 31 maggio 2010, sostenendo che non era
necessario indicare le ragioni che giustificavano la
scelta, in quanto l’assunzione era regolata dalla legge
n. 68/1999 che non prevedeva tale giustificazione.
Ora, a maggior ragione, tale tesi è attuale, in considerazione della abrogazione delle ragioni giustificatrici.
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Lavoratori marittimi
Va, da subito, sottolineato come nel caso di specie, si
sia, completamente, al di fuori del D.Lgs. n. 81/2015.
Infatti, il contratto a termine dei lavoratori marittimi
trova la propria specifica disciplina nel R.D. 30 marzo 1942, n. 327 (c.d. “codice della navigazione”) il
quale, all’art. 325 stabilisce che il contratto di arruolamento può essere stipulato:
a) per un dato viaggio o per più viaggi;
b) a tempo determinato;
c) a tempo indeterminato.
Agli effetti del contratto di arruolamento per viaggio
si intende il complesso delle traversate tra porto di
caricazione e porto di ultima destinazione, oltre all’eventuale traversata in zavorra per raggiungere il porto
di caricazione.
Il successivo art. 326 afferma che il contratto a tempo
determinato e quello per più viaggi possono essere
stipulati per una durata non superiore ad un anno: se
sono stipulati per una durata superiore, si considerano
a tempo indeterminato.
Se, in forza di più contratti di viaggio o più contratti
a termine, o con più contratti dell’uno o dell’altro tipo, l’arruolato presti servizio ininterrotto alle dipendenze dello stesso armatore per oltre un anno, il rapporto di arruolamento viene regolato dalle disposizioni concernenti il contratto a tempo indeterminato.
Una prestazione si considera ininterrotta se lo stacco
tra la stipula di un contratto e l’altro intercorre un periodo pari od inferiore a 60 giorni.
Le disposizioni del codice della navigazione sono state oggetto di una decisione della Corte Europea di
Giustizia il 3 luglio 2014 (cause riunite C-362/13, C363/13 e C-407/13), interpellata dalla Corte di Cassazione con ordinanze del 3 aprile 2013, pervenute il
28 giugno ed il 17 luglio 2013, la quale, investita da
ricorsi di tre lavoratori adibiti al trasporto marittimo
ferroviario nello stretto di Messina, chiedeva se la
normativa di riferimento fosse compatibile con l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato nel settore, concluso il 18 marzo 1999, figurante come allegato alla Direttiva 1999/70/Ce, e con la Direttiva
2009/13/Ce, recante attuazione dell’accordo concluso
dall’Associazione armatori della Comunità Europea e
dalla Federazione europea dei lavoratori dei trasporti.
Le conclusioni della Corte Europea, chiamata anche a
definire se la legge nazionale poteva indicare la durata del contratto ma non il termine sono state le seguenti:
a) l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato,
concluso il 18 marzo 1999, figurante quale allegato
alla Direttiva 1999/70/Ce del Consiglio del 28 giugno
1999, relativo all’accordo quadro Ces, Unice e Ceep
sul lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che si applica a lavoratori, quali i ricorrenti nei procedimenti principali, occupati in qualità
di marittimi con contratti a tempo determinato su traghetti che effettuano un tragitto marittimo tra due
porti situati nel medesimo Stato membro;
IX
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Inserto
b) le disposizioni dell’accordo quadro sul lavoro a
tempo determinato devono essere interpretate nel senso che esse non ostano a una normativa nazionale,
quale quella in questione nei procedimenti principali,
la quale prevede che i contratti di lavoro a tempo determinato debbono indicare la loro durata, ma non il
loro termine;
c) la clausola 5 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato deve essere interpretata nel senso che
essa non osta, in linea di principio, a una normativa
nazionale, quale quella di cui trattasi nei procedimenti principali, la quale prevede la trasformazione dei
contratti a tempo determinato in un rapporto a tempo
indeterminato unicamente nel caso in cui un lavoratore interessato sia stato occupato ininterrottamente in
forza di contratti del genere dallo stesso datore di lavoro per una durata superiore ad un anno, tenendo
presente che il rapporto va considerato ininterrotto
quando i contratti a tempo determinato sono separati
da un intervallo inferiore o pari a 60 giorni. Spetta,
tuttavia, al giudice del rinvio verificare che i presupposti per l’applicazione nonché l’effettiva attuazione
di detta normativa costituiscano una misura adeguata
per prevenire e punire l’uso abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato.
Pubblico impiego
Sul contratto a tempo determinato nelle Pubbliche
Amministrazioni, il Legislatore è intervenuto più volte e l’originario testo contenuto nell’art. 36 del
D.Lgs. n. 165/2001 è stato riscritto più volte, come
dimostra l’art. 49 della legge n. 133/2008 e da, ultimo, il D.L. 31 agosto 2013, n. 101 convertito, con
modificazioni, nella legge n. 125/2013. Il Legislatore
fa riferimento, a più riprese, al D.Lgs. n. 368/2001
(che, ora, va inteso al D.Lgs. n. 81/2015) ma, come
cercherò di dimostrare, molte sono le disposizioni
che non trovano applicazione o che sono difficili da
applicare.
È proprio partendo dai contenuti dell’art. 4 della legge n. 125, entrato nel “corpus” dell’art. 36, che possiamo capire quale è, al momento, lo “stato dell’arte”.
Negli ultimi anni l’obiettivo che i vari Governi si sono posti, spesso con risultati altalenanti, è stato quello
di contenere la spesa pubblica, sia intervenendo sulle
assunzioni in pianta stabile con il blocco delle stesse,
sia intervenendo con il c.d. “patto di stabilità” sulle
spese del personale, sia, infine, cercando di limitare il
ricorso a forme contrattuali flessibili.
Per quel che riguarda i rapporti a tempo determinato
vengono, ora, stabiliti due punti essenziali ed inderogabili:
a) i contratti possono essere instaurati «per rispondere
ad esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o
eccezionale». Rispetto al vecchio testo è stato aggiunto l’avverbio «esclusivamente» che dovrebbe costitui-
X
re una remora normativa, finalizzata a far sì che la disposizione non venga aggirata;
b) il contratto a termine deve trovare specifico riferimento in una ben precisa motivazione, pur mancando,
nella normativa generale del D.Lgs. n. 81/2015, le ragioni giustificatrici: ciò significa che dovranno essere
chiaramente riportate e specificate le motivazioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive alla base
dell’assunzione che, ovviamente, debbono trovare anche una stretta correlazione con le “esigenze di carattere esclusivamente temporaneo o eccezionale”. Esse
non debbono essere delle “clausole di stile” (che la
Giurisprudenza ha, più volte, annullato nel settore
privato sotto l’imperio del D.Lgs. n. 368/2001), ma
debbono avere un contenuto particolarmente esaustivo finalizzato a giustificare quel tipo di assunzione a
termine che resta pur sempre eccezionale.
Il D.L. n. 101/2013 non è intervenuto sul comma 5bis dell’art. 36: da ciò ne discende che l’esercizio del
diritto di precedenza per assunzioni a tempo indeterminato che scatta dopo almeno sei mesi di rapporto,
quello per lavoro stagionale (entrambi debbono essere
esercitati, per iscritto, rispettivamente, entro sei e tre
mesi dalla scadenza), è valido unicamente per i contratti sottoscritti a seguito di avviamento a selezione
per qualifiche e profili professionali per i quali si
chiede, quale titolo, la scuola dell’obbligo. La ragione
appare evidente: l’avviamento a selezione (in origine,
previsto dall’art. 16 della legge n. 86/1987) fu pensato come sostituto del concorso pubblico, per ovviare
alle “lunghezze procedurali” di quest’ultimo.
Il comma 5-ter che è stato aggiunto dal D.L. n.
101/2013 afferma che il D.Lgs. n. 368/2001 (ora è da
intendersi il D.Lgs. n. 81/2015) si applica a tutte le
Pubbliche Amministrazioni (che sono quelle individuate dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165/2001) e
che il contratto a tempo determinato (al di fuori della
ipotesi sopra evidenziata del comma 5-bis) non può
essere trasformato a tempo indeterminato.
Quali sono le conseguenze del mancato rispetto di
queste disposizioni?
I contratti a termine posti in essere sono nulli e determinano responsabilità erariale (comma 5-quater).
Quest’ultimo concetto fa sì che, da un punto di vista
economico, il lavoratore va retribuito per le prestazioni effettuate (con i relativi oneri contributivi), ma chi
“paga” è il Dirigente responsabile per il quale viene
espressamente richiamato l’art. 21 (mancato raggiungimento degli obiettivi, inosservanza delle direttive
che possono comportare anche l’impossibilità del rinnovo dell’incarico dirigenziale, con posizionamento
“fuori ruolo” o, nei casi più gravi, con la risoluzione
del rapporto, previa contestazione disciplinare). Sotto
l’aspetto prettamente pratico, la norma ricorda che al
Dirigente responsabile di irregolarità nell’utilizzo del
lavoro flessibile (quindi, non soltanto, il contratto a
tempo determinato ma anche quello di somministrazione o le prestazioni accessorie, rivisti nelle forme e
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
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Inserto
nei contenuti dal D.Lgs. n. 81/2015), non può essere
erogata la retribuzione di risultato.
L’applicazione integrale della normativa sui contratti
a termine, ora disciplinati non più dal D.Lgs. n.
368/2001, ma dagli articoli compresi tra il 19 ed il 29
del D.Lgs. n. 81/2015, significa verificare anche sino
a che punto sono utilizzabili taluni istituti come la
proroga e l’ulteriore contratto a tempo determinato
dopo il raggiungimento del tetto massimo dei 36 mesi.
Premesso che dell’ulteriore contratto ne parlerò al termine di questa riflessione, andiamo a verificare come,
in che termini, e con quali limiti si possa parlare della
proroga nei contratti a termine nella Pubblica Amministrazione.
L’art. 21 del D.Lgs. n. 81/2015, proseguendo nella
semplificazione già portata avanti con la legge n.
78/2014, ha previsto un massimo di 5 proroghe nell’arco temporale di 36 mesi, ha ipotizzato che in caso
di superamento del limite massimo il contratto si considera a tempo indeterminato a partire dalla sesta proroga, ha tolto il riferimento «alla stessa attività», lasciando, ovviamente, la manifestazione del consenso
alla prosecuzione da parte del lavoratore e considerando che, per effetto dell’art. 3, il lavoratore può essere adibito a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime
effettivamente svolte.
Ebbene, questi principi non sono facilmente trasportabili per le seguenti considerazioni:
a) nel settore privato, il datore di lavoro, a fronte di
esigenze lavorative che egli stesso valuta e delle quali
non deve rispondere a nessuno, decide di prorogare il
contratto come crede. Nel settore pubblico ciò non è
così semplice, nel senso che il Dirigente deve verificare se le esigenze temporanee ed eccezionali (che
debbono essere esclusive) sussistono ancora (e per
quanto) e se sussiste la copertura economica (contributiva e salariale), derivante dall’impegno finanziario
previsto: si tratta di passaggi importanti che, se non
rispettati, potrebbero portare anche ad una responsabilità di natura erariale;
b) nel settore privato, il datore di lavoro se “sbaglia”
il computo delle proroghe vede il rapporto trasformato a tempo indeterminato a partire dalla sesta ed è lo
stesso a “pagarne” le conseguenze. Nel settore pubblico, invece, non c’è la trasformazione del rapporto
a tempo indeterminato, attesa la previsione dell’art.
97 della Costituzione, ed il Dirigente risponde, personalmente, del danno economico (legato alle prestazioni svolte dal lavoratore) qualora il proprio comportamento sia dovuto a dolo o colpa grave.
Le nuove disposizioni sui contratti a termine esplicano anche i propri effetti sull’art. 7, comma 6, della
legge n. 125/2013, che consente la stipula di contratti
a termine o di collaborazione, anche di natura occasionale, per esigenze rispetto alle quali non possono
far fronte con il “normale organico”. Senza andare
nello specifico (cosa che ci porterebbe lontano dalla
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nostra riflessione, atteso che si tratta di un fenomeno
molto abusato per gli uffici di diretta collaborazione
del personale politico di “vertice”), si ricorda che il
comma 3 (con la non erogazione del premio di risultato per il Dirigente responsabile) si applica anche a
tali ipotesi e, fermo restando il divieto della trasformazione a tempo indeterminato, trovano applicazione
le disposizioni del comma 5-quater dell’art. 36 (nullità del contratto, responsabilità erariale e responsabilità dirigenziale).
La normativa italiana che esclude nel settore pubblico
la trasformazione (il D.Lgs. n. 81/2015 non parla più
di “conversione”) a tempo indeterminato dei contratti
a termine per violazione delle disposizioni che li regolano, è stata oggetto anche di una pronuncia della
Corte Europea di Giustizia il 7 settembre 2006, nella
causa C – 180/04. Nel dispositivo, pubblicato sulla
Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 28 ottobre 2006, si afferma che «l’accordo quadro sul lavoro
a termine, del 18 marzo 1999, che figura nell’allegato
all a di rett iva del Consi g li o 2 8 g iugno 1999,
1999/70/Ce, relativa all’accordo quadro Ces, Unice e
Ceep su lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso
di abuso derivante dall’utilizzo di una successione di
contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato
da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore
pubblico, che questi siano trasformati in contratti o
rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale
trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di
lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente
al settore privato, qualora tale normativa contenga
un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del
caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un
datore di lavoro rientrante nel settore pubblico».
C’è, poi, la questione della contribuzione: le Amministrazioni Pubbliche non debbono pagare il contributo
aggiuntivo dell’1,40% su tutti i contratti a termine (le
eccezioni riguardano anche i c.d. “contratti sostitutivi”, quelli stagionali e frutto di avvisi comuni, e l’apprendistato, nella sola ipotesi nella quale è considerato contratto a termine - settore del turismo in ambito
stagionale - atteso che si tratta di un contratto a tempo indeterminato): lo afferma, espressamente, l’art. 2,
comma 29, della legge n. 92/2012. All’atto della cessazione del rapporto a tempo determinato il lavoratore ha diritto al trattamento di NASpI secondo le modalità, gli importi e la temporalità fissati dal D.Lgs.
n. 22/2015.
Due parole, inoltre, legate agli adempimenti burocratici: tutte le Pubbliche Amministrazioni debbono
adempiere alle comunicazioni obbligatorie telematiche nei confronti del centro per l’impiego entro il 20
del mese successivo a quello nel quale è avvenuto
l’evento, attraverso il modello “Unilav”: ciò riguarda
sia le instaurazioni che le proroghe, che, infine, le
cessazioni. Per quel che riguarda il contratto a tempo
XI
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Inserto
determinato se, all’atto della comunicazione di avvenuta assunzione è già stato fissato il termine finale, la
comunicazione di cessazione non va effettuata.
Il mancato assolvimento di tali oneri comporta l’irrogazione, per ogni violazione, di una sanzione amministrativa compresa tra 100 e 500 euro, diffidabile ex
D.Lgs. n. 124/2004 e sanabile con il pagamento in
misura minima, nei termini consentivi, pari a 100 euro oltre alle spese di notifica.
Va, poi, ricordato come la Corte Europea di Giustizia
con la sentenza del 26 novembre 2014 (C-22/2013)
relativa al personale a tempo determinato della scuola, abbia stabilito alcuni punti importanti che debbono
valere anche per altri comparti pubblici: la reiterazione dei contratti a termine oltre il limite massimo di
36 mesi finalizzata a coprire le carenze di organico,
senza alcuna previsione di procedura concorsuale, è
contraria alla Direttiva comunitaria 1999/70 Ce.
Quanto appena detto offre la possibilità di trattare
l’ultimo argomento relativo alla stipula di un ulteriore
contratto a tempo determinato, secondo la previsione
contenuta nell’art. 19, comma 3, del D.Lgs. n.
81/2015.
Vi sono delle oggettive difficoltà per la stipula di un
ulteriore contratto a termine per la durata massima di
dodici mesi sottoscritto avanti al funzionario della Direzione territoriale del lavoro competente per territorio: se il nuovo contratto va a coprire carenze di organico, sia pure “mascherate” con altre motivazioni, è
senz’altro contrario alla Direttiva comunitaria ma, al
contempo, pur se non lo fosse, dovrebbe trovare una
oggettiva giustificazione nelle motivazioni già alla
base del contratto (esigenze di natura esclusivamente
temporanea ed eccezionale alle quali non si può far
fronte con il normale organico). In tale ipotesi sarebbe opportuno acquisire “a priori” un parere dell’ufficio legale dell’Ente e, magari, se possibile, ottenere
una sorta di avallo preventivo degli organi di controllo, finalizzato a certificare che le ragioni eccezionali
(ad esempio, eventi sismici) che lo hanno determinato
non sono ancora terminate.
Il rischio di una richiesta di danno erariale da parte
degli organi di controllo della Corte dei Conti (che
potrebbe riguardare anche il funzionario della Direzione del lavoro che ha siglato l’accordo sottoscritto
dalle parti) appare estremamente possibile.
Lavoro stagionale dei cittadini
extracomunitari
Un caso del tutto particolare di lavoro a termine di
carattere stagionale è quello previsto dall’art. 24 del
D.Lgs. n. 286/1998 che ha subito notevoli modifiche
attraverso l’art. 17 del D.L. n. 5/2012, convertito, con
modificazioni, nella legge n. 35/2012.
C’è, subito, da sottolineare come il D.Lgs. n.
368/2001 (ed, ora, il D.Lgs. n. 81/2015) non sia,
automaticamente, applicabile a tale fattispecie che fa
riferimento sia alle modalità di costituzione, che al rilascio del permesso di soggiorno che alle durate mini-
XII
me e massime dei rapporti, al D.Lgs. n. 286/1998 ed
al regolamento applicativo contenuto nel D.P.R. n.
394/1999.
Il c.d. “decreto flussi” relativo all’anno, emanato con
un D.P.C.M., stabilisce il numero delle quote di ingresso per lavoro stagionale, riferito alle singole nazionalità, con precedenza per quei Paesi con i quali
l’Italia ha siglato accordi di collaborazione. Il numero
delle quote viene ripartito, su base provinciale, dalla
Direzione Generale per l’immigrazione del Ministero
del lavoro, sulla base sia dei fabbisogni che delle determinazioni adottate “in congiunta” con il Dicastero
dell’Interno. Gli ingressi per lavoro stagionale, riguardano, appunto, quelle attività che per la loro conformazione sono da definirsi come tali (si pensi al
settore turistico ma, soprattutto, a quello agricolo):non possono, ad esempio, essere considerate “stagionali” attività che seppur facenti riferimento al mondo
agricolo, tali non sono (si pensi, ad esempio, alla cura
del bestiame).
La durata complessiva del rapporto o dei rapporti che
legittimano l’ingresso nel nostro Paese va da un minimo di venti giorni ad un massimo di nove mesi.
Le istanze vanno presentate allo Sportello Unico per
l’Immigrazione, ubicato presso la Prefettura, esclusivamente in via telematica e l’autorizzazione all’ingresso viene rilasciata al termine di un veloce iter
procedimentale che vede coinvolte, a vario titolo, la
Direzioni territoriale del lavoro e la Questura. Le domande possono essere presentate anche dalle associazioni di categoria per conto degli imprenditori agricoli associati, come affermato dalla circolare del Ministero del lavoro n. 6/2007.
L’art. 17, della legge n. 35/2012, oltre a modificare
l’art. 24 del D.Lgs. n. 286/1998, afferma (comma 1)
che attraverso la comunicazione obbligatoria anticipata al centro per l’impiego ex art. 9-bis della legge n.
608/1996, il datore di lavoro assolve anche a tutti gli
obblighi di comunicazione della stipula del contratto
di soggiorno concluso direttamente tra le parti per
l’assunzione di un lavoratore con permesso di soggiorno per motivi di lavoro subordinato in corso di
validità.
L’art. 24 del T.U. n. 286/1998 viene modificato nei
commi 2 e 3, sicché, ora, la normativa di riferimento
prevede che nel caso in cui siano trascorsi venti giorni dalla presentazione dell’istanza per l’ingresso di un
lavoratore extra comunitario per lavoro stagionale e
lo sportello unico per l’immigrazione non abbia
espresso il proprio diniego, la domanda si intende accolta in virtù del principio del silenzio-assenso, qualora sussistano due precise condizioni:
• la richiesta riguardi un lavoratore già autorizzato
nell’anno precedente a prestare la propria attività lavorativa presso lo stesso datore di lavoro;
• il lavoratore stagionale sia stato effettivamente assunto dal datore di lavoro ed abbia rispettato tutte le
condizioni inserite nel permesso di soggiorno.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
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Inserto
Nel “corpus” normativo viene, poi, inserito un nuovo
comma, il 3-bis, con il quale si stabilisce che, fermo
restando il periodo massimo di nove mesi del permesso di lavoro stagionale, l’autorizzazione si intende
prorogata ed il permesso di soggiorno può essere rinnovato nel caso in cui si presenti una nuova opportunità di lavoro stagionale offerta dallo stesso o da altro
datore di lavoro.
L’art. 17 continua, poi, intervenendo sul regolamento
attuativo del T.U. n. 286/1998, con alcuni chiarimenti
relativi agli articoli 38 e 38-bis del D.P.R. n.
394/1999 ed introducendo un ulteriore periodo al
comma 3 dell’art. 38-bis: queste sono le novità:
• l’autorizzazione al lavoro può essere concessa a più
datori di lavoro, dopo il primo, che utilizzano lo stesso lavoratore stagionale in periodi successivi, ed è rilasciata a ciascuno di essi pur se il lavoratore si trovi,
legittimamente nel nostro Paese, a causa dell’avvenuta instaurazione del primo rapporto di lavoro stagionale: il lavoratore è esonerato dall’obbligo di rientro
nel proprio Paese per il visto consolare d’ingresso, ed
il permesso è rinnovato fino alla scadenza del nuovo
rapporto stagionale, nel rispetto del limite massimo
(nove mesi);
• la richiesta di assunzione per gli anni successivi al
primo, può essere effettuata da un datore di lavoro diverso da quello che ha ottenuto il nulla osta triennale
al lavoro stagionale.
C’è un’ultima questione che riguarda la contribuzione
aggiuntiva dell’1,4%, a partire dal 1° gennaio 2013:
la stessa non si applica ai datori di lavoro che occupano lavoratori extra comunitari stagionali, in quanto la
caratteristica del contratto è proprio quella della stagionalità.
Incentivi per l’assunzione con contratto
a tempo determinato
La Legislazione italiana relativa alle agevolazioni per
le assunzioni è cresciuta, nel corso degli anni, in maniera disordinata ed “affastellata”: più volte si è cercato di razionalizzare la materia e, per certi aspetti,
anche la legge delega n. 183/2014 ci prova.
Ovviamente, la maggior parte degli incentivi (che
possono essere di natura economica, contributiva, fiscale e normativa) sono finalizzati alle assunzioni a
tempo indeterminato, come dimostrano, da ultimo, le
disposizioni agevolatrici contenute nella legge n.
190/2014. Basti pensare all’esonero contributivo fino
ad un massimo di 8.060 euro sulla quota a carico del
datore di lavoro da far valere per ognuno dei tre anni
successivi alla instaurazione del rapporto, con l’unico
limite, per il lavoratore, dato dal non aver avuto negli
ultimi sei mesi un contratto a tempo indeterminato
(art. 1, comma 118), dalla esclusione dalla base di
calcolo dell’Irap del costo del personale assunto a
tempo indeterminato (art. 1, commi da 20 a 26).
Detto questo, tuttavia, se vi va a “spulciare” la normativa, ci si accorge che anche per i contratti a tempo
determinato c’è qualcosa di interessante.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
La breve disamina che segue tratterà, quindi, unicamente gli incentivi per le assunzioni a tempo determinato, ricordando che il presupposto per il godimento
delle agevolazioni è il rispetto della previsione contenuta nell’art. 1, commi 1175 e 1176 della legge n.
296/2006 (possesso del Durc ed applicazione del trattamento economico e normativo previsto nel Ccnl di
categoria stipulato dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative a livello nazionale e, se
esistenti, da quello disciplinato dal contratto di secondo livello) ed il rispetto delle condizioni stabilite dall’art. 4, commi 12 e seguenti della legge n. 92/2012 e
che si sostanzia, fondamentalmente, nel rispetto dei
diritti di precedenza, nel non riconoscimento dei benefici in caso di interventi integrativi salariali straordinari in corso e nel non riconoscimento nelle ipotesi
in cui le assunzioni a termine riguardino lavoratori licenziati, negli ultimi sei mesi dallo stesso datore di
lavoro o da imprese collegate o controllate.
Andiamo con ordine:
a) assunzione a termine dei lavoratori in mobilità
(art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991)
I lavoratori in mobilità possono essere assunti con un
contratto a tempo determinato di durata non superiore
a dodici mesi. L’assunzione presenta una specifica
agevolazione: il, datore di lavoro “gode” di una contribuzione ridotta sulla quota a suo carico, del tutto
analoga a quella prevista in via ordinaria per gli apprendisti (10%).
Le caratteristiche del contratto a termine sono essenzialmente due: la prima fa riferimento ad un principio
consolidato che è quello in base al quale, già prima
delle novità introdotte con la legge n. 78/2014, non
era in alcun modo necessaria la individuazione di una
delle motivazioni individuate dal vecchio art. 1 del
D.Lgs. n. 368/2001, principio ora confermato dall’art.
29, comma 1, lettera a) del D.Lgs. n. 81/2015. Lo disse, da subito, in via amministrativa, il Ministero del
Lavoro, lo sostenne la Cassazione pur in vigenza della legge n. 230/1962, lo dice, ora, la norma che del
D.Lgs. n. 81/2015 ritiene applicabili soltanto gli artt.
25 (divieto di discriminazione) e 27 (criteri di computo).
La seconda riguarda la durata dell’agevolazione contributiva: essa non può essere superiore (riferita al
singolo lavoratore) a dodici mesi (raggiungibili con
uno o più contratti, anche prorogati).
Il contratto a termine può essere anche a tempo parziale: ovviamente, la contribuzione agevolata incide
soltanto sulle ore lavorate.
La trasformazione del rapporto a tempo indeterminato
comporta, se avviene nel corso del 2015, la piena applicabilità delle agevolazioni previste dalla legge n.
190/2014 (8.060 euro all’anno per tre anni, ma senza
cumulabilità della agevolazione contributiva ridotta
del 10% prevista dalla legge n. 223/1991), alle quali
si aggiunge, secondo la circolare Inps n. 17/2015, il
50% dell’indennità di mobilità non ancora percepita
dal lavoratore.
XIII
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Inserto
La platea dei soggetti “potenzialmente” interessati al
contratto a termine è composta da tutti i lavoratori
iscritti nelle liste di mobilità sia perché licenziati al
termine di una procedura collettiva di riduzione di
personale che per giustificato motivo oggettivo, con
esclusione dal 1° gennaio 2013 dei lavoratori licenziati da aziende che occupano fino a quindici dipendenti.
È appena il caso di ricordare che, non trovando applicazione il D.Lgs. n. 81/2015, i contratti a termine per
i lavoratori in mobilità, non rientrano nella sommatoria dei trentasei mesi e non sono sottoposti, all’interno dei dodici mesi massimi di durata, alle disposizioni sull’intervallo tra un contratto a termine, alla disciplina del diritto di precedenza (tranne che ciò non sia
previsto da una disposizione contrattuale, non trovando applicazione l’art. 24) ed al numero massimo di
proroghe;
b) assunzione a termine per sostituzione di lavoratrici o lavoratori in astensione obbligatoria o facoltativa per maternità presso datori di lavoro sotto dimensionati alle venti unità (art. 4, commi 2, 3 e 4, del
D.Lgs. n. 151/2001)
L’art. 10, comma 2, della legge n. 53/2000, poi confluito nell’art. 4 del D.Lgs. n. 151/2001, nell’intento
di favorire l’occupazione, sia pure temporanea, dei lavoratori attraverso il contratto a termine con motivazione “sostitutiva per maternità”, ha previsto che nelle aziende con meno di venti dipendenti venga concesso uno sgravio contributivo del 50% fino al compimento di un anno di età del figlio della lavoratrice
o del lavoratore in congedo, o per un anno dall’accoglienza del minore adottato o in affidamento. Se la
sostituzione avviene con un contratto di somministrazione a tempo determinato, l’impresa utilizzatrice recupera lo sgravio contributivo direttamente dalla
Agenzia per il lavoro.
Nelle aziende in cui operano lavoratrici autonome in
maternità (che sono tutte quelle comprese nel Capo V
del D.Lgs. n. 151/2001) è possibile procedere entro il
primo anno di età del bambino nel primo anno di accoglienza del minore adottato o in affidamento con lo
sgravio contributivo che è sempre pari al 50%.
Come si vede, si tratta di una tutela ad “ampio spettro” che va esaminata con particolare attenzione.
Va, innanzitutto, verificato il sistema di calcolo degli
addetti. Nel computo rientrano tutti i lavoratori in forza, compresi quelli a domicilio ed i dirigenti, fatta eccezione di coloro che sono i sostituti “a termine” dei
titolari aventi diritto alla conservazione del posto (ovviamente, se computati).
Nella base di calcolo non rientrano gli apprendisti
(art. 47, comma 3, del D.Lgs. n. 81/2015), gli assunti
con contratto di reinserimento (art. 20 della legge n.
223/1991) ed i lavoratori già impiegati in lavori socialmente utili ed assunti a tempo indeterminato (art.
7 del D.Lgs. n. 81/2000), mentre i lavoratori con contratto a tempo parziale sono calcolati “pro-quota” in
XIV
relazione all’orario svolto rispetto a quello contrattuale (art. 9 del D.Lgs. n. 81/2015).
Secondo l’Inps lo sgravio è riconosciuto anche nell’ipotesi in cui il lavoratore o la lavoratrice siano stati
sostituiti da due lavoratori a tempo parziale, purché la
somma delle loro prestazioni orarie sia uguale a quella di chi è stato sostituito (messaggio n. 28 del 14
febbraio 2001).
Cosa deve fare il datore di lavoro per accedere al beneficio contributivo?
Secondo la circolare Inps n. 117 del 20 giugno 2001
è sufficiente un’autocertificazione con la quale l’interessato dichiara di avere un organico inferiore alle
venti unità e che l’assunzione è avvenuta in sostituzione di lavoratrice assente per maternità.
Il Ministero del lavoro ha avuto modo di interessarsi
agli sgravi contributivi riconosciuti per tale tipologia
di contratto a termine rispondendo ad un interpello
(n. 36 del 1° settembre 2008) con il quale era stato
chiesto se l’incentivo poteva essere riconosciuto fino
al compimento di un anno di età del bambino, in presenza di un titolo di assenza mutato (da congedo a ferie). Il Dicastero del Welfare ha risposto negativamente, osservando che «non sembrano ravvisabili
margini interpretativi per poter procedere ad un ampliamento degli sgravi contributivi, in presenza di
una casistica compiutamente delineata dal Legislatore», circoscritta alla sola sostituzione di lavoratrici e
lavoratori in congedo;
c) incentivi al reimpiego di personale con qualifica
dirigenziale e sostegno alla piccola impresa (art. 20
della legge n. 266/1997)
Le imprese che occupano meno di duecentocinquanta
dipendenti o i loro consorzi che intendono assumere,
anche con contratto a termine, dirigenti privi di occupazione usufruiscono di uno sgravio complessivo della quota contributiva (sia a carico del datore che del
lavoratore) pari al 50% per una durata non superiore
a dodici mesi. Le modalità operative sono contenute
nel messaggio Inps n. 23786 del 24 giugno 2005 e
nella circolare del Ministero del lavoro n. 218 del 6
novembre 2007;
d) l’assunzione con contratto a termine degli ultracinquantenni (art. 4, comma 8, della legge n.
92/2012)
Nell’intento di favorire l’occupazione dei soggetti di
difficile ricollocazione, il Legislatore ha previsto che,
a partire dal 1° gennaio 2013, i datori di lavoro (con
esclusione di quelli domestici) che assumono con
contratto a termine, anche in somministrazione, lavoratori “over 50”, disoccupati da oltre dodici mesi,
hanno diritto alla riduzione del 50% dei contributi a
carico del datore di lavoro per un periodo massimo di
dodici mesi.
Sull’argomento sono intervenute le circolari Inps n.
111/2013 e quella del Ministero del lavoro n. 34/2013
che hanno trattato l’argomento, sia anche per le assunzioni a tempo indeterminato, sottolineando la necessità, ai fini del riconoscimento dei benefici di al-
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
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Inserto
cune condizioni, riferibili alla regolarità contributiva,
all’applicazione dei trattamenti economici previsti
dalla contrattazione collettiva, al rispetto dei diritti di
precedenza ex art. 4, comma 12 della legge n.
92/2012, all’incremento occupazionale, richiesto dal
Regolamento Ce n. 800/2008.
Il Legislatore parla di contratti a termine: qui si pone
un primo problema che è quello di decidere se essi
rientrano nella sfera d’influenza del D.Lgs. n.
81/2015, oppure no. La risposta, è, senz’altro, positiva in quanto la norma non individua alcuna esclusione, come, invece, è avvenuto per il contratto a tempo
determinato ex art. 8, comma 2, della legge n.
223/1991, escluso espressamente dall’art. 29, comma
1, lettera a), del D.Lgs. n. 81/2015.
Il Legislatore riconosce un massimo di dodici mesi di
sgravio contributivo: ciò non significa che il contratto
non possa avere una durata superiore (e, magari, con
la proroga arrivare fino a trentasei mesi), ma esso
rappresenta il tetto massimo rispetto al quale opera lo
sgravio, al quale (con la sola eccezione del contratto
per sostituzione di lavoratore assente avente diritto alla conservazione del posto, o di quello per attività
stagionali), si applica il contributo addizionale
dell’1,4%, restituibile, in caso di trasformazione del
rapporto a tempo indeterminato grazie alla previsione
contenuta nell’art. 1, comma 135, della legge n.
147/2013 che ha superato il limite posto dalla legge
“Fornero” relativo agli ultimi sei mesi. La restituzione del contributo addizionale, sotto forma di conguaglio, avviene anche nell’ipotesi in cui il contratto a
tempo indeterminato venga instaurato entro i sei mesi
successivi alla cessazione del rapporto a termine: in
questo caso vengono detratti i mesi “di non lavoro”
intercorrenti tra la cessazione del primo contratto e
l’inizio del secondo.
Qualora la trasformazione del contratto a termine degli “over 50” avvenga nel corso del 2015, sono applicabili le agevolazioni previste dall’art. 1, comma 118,
della legge n. 190/2014: lo afferma la circolare Inps
n. 17/2015 che, tuttavia, richiama il rispetto delle
condizioni generali e specifiche di cui si è parlato pocanzi.
La descrizione, sia pure sommaria, delle agevolazioni
disposte in favore delle imprese che assumono lavoratori “over 50” disoccupati da oltre un anno, suscita
una domanda: si tratta di una nuova tipologia assuntiva, oppure nel nostro ordinamento già c’era qualcosa
di simile?
Il pensiero corre agli incentivi per l’occupazione previsti, in maniera non strutturale dall’art. 2 della legge
n. 191/2009 e, segnatamente, al comma 134, prorogato, per tutto il 2012, attraverso l’art. 33, comma 25,
della legge n. 183/2011, per i quali la contribuzione
ridotta a carico dei datori di lavoro era del tutto pari a
quella prevista, in via ordinaria, per gli apprendisti
(10%). Tale disposizione ammetteva al beneficio chi
assume lavoratori titolari dell’indennità di disoccupazione con requisiti normali che avessero compiuto al-
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
meno cinquanta anni (non c’era l’ulteriore requisito
dello “status” che si protrae da almeno un anno). Il
beneficio spettava anche alle società cooperative per
il socio con il quale era stato, successivamente, instaurato un rapporto di lavoro subordinato. Il contratto poteva essere a tempo determinato, indeterminato,
a tempo pieno o parziale, con varie gradualità negli
incentivi e con possibilità di cumulo con altre agevolazioni previste, se ne ricorrevano i presupposti dal
comma 151. Tale beneficio (D.M. n. 53343 del 26 luglio 2010 e circ. Inps n. 22/2011) non era riconosciuto in alcuni casi che si trovano, oggi, riportati al comma 12 dell’art. 4);
e) incentivi alle assunzioni di donne di qualsiasi età
(art. 4, comma 11, della legge n. 92/2012)
Le stesse disposizioni (e questo è un ulteriore incentivo) trovano applicazione, nel rispetto del regolamento
Ce n. 800/2008, nei confronti delle assunzioni di donne di qualsiasi età, prive di un impiego regolarmente
retribuito da almeno sei mesi, residenti in regioni ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi strutturali europei e nelle aree individuate dal Ministro
del lavoro in “concerto” con quello dell’economia, e
che presentano determinati requisiti (art. 2, punto 18,
lettera e del regolamento sopra citato), nonché in relazione alle assunzioni di donne di qualsiasi età prive
di un impiego regolarmente retribuito da almeno ventiquattro mesi, residenti su tutto il territorio nazionale.
Su questi aspetti sono intervenuti a regolamentare la
materia sia la circolare Inps n. 111/2013 che quella
del Ministero del lavoro n. 34/2013, la quale ultima,
tra l’altro, ha fornito una definizione relativa al requisito del lavoro non regolarmente retribuito da almeno
sei mesi, affermando che lo stesso deve avere quale
parametro di riferimento non tanto la temporaneità,
quanto la congruità del guadagno. Alla luce di quanto
appena detto sono da prendere in considerazione le
novità introdotte con il D.L. n. 76/2013 che, riformando quanto affermato nella legge n. 92/2012, consente il mantenimento dell’iscrizione nelle liste in
presenza di un reddito da lavoro subordinato o di collaborazione coordinata e continuativa non superiore a
8.000 euro l’anno e 4.800 in caso di lavoro autonomo.
La situazione concernente le donne in cerca di occupazione da almeno sei mesi residenti nelle Regioni
ammissibili ai finanziamenti nell’ambito dei fondi
strutturali dell’Unione europea sembrava, però, cambiata a partire dal 1° luglio 2014: ne dava notizia il
messaggio n. 6235 dell’Inps del 23 luglio 2014 il
quale affermava che l’incentivo era venuto meno non
per carenza di fondi ma perché nella normativa europea non c’era più la definizione di aree svantaggiate
alla quale fare riferimento (la disposizione era scaduta il 31 dicembre 2013 e la successiva proroga fino al
successivo 30 giugno era passata “senza colpo ferire”). Da ciò ne conseguiva, sotto l’aspetto operativo,
che dal 1° luglio 2014 non riceveva più il modello
XV
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Inserto
con il quale, in via preventiva, i datori di lavoro chiedevano la fruizione dell’agevolazione. Ma il 29 luglio
successivo (messaggio n. 6319) l’Istituto annullava il
messaggio precedente a seguito di un intervento del
Ministero del lavoro del 25 luglio (nota n.
40/00228096) il quale chiariva che l’incentivo previsto costituisce un regime di aiuti in favore dei lavoratori svantaggiati, sicché è possibile continuare a considerare utili ai fini dell’applicazione dell’incentivo le
aree indicate nella Carta, adottata con decisione
2007/5618, recepita nella legislazione nazionale con
D.M. del Ministro dello sviluppo economico del 27
marzo 2008, fino all’adozione della nuova Carta.
Per quel che riguarda la possibilità di assunzione a
tempo determinato, partendo dalla previsione contenuta nelle prime parole del comma 11, e ribadendo, si
può sostenere che:
a) lo sgravio contributivo del 50% è per un massimo
di dodici mesi: in caso di trasformazione del rapporto
a tempo indeterminato, lo stesso viene riconosciuto
XVI
per altri sei mesi, ma se ciò avviene nel corso del
2015, trovano applicazione le indicazioni previste
nella circolare Inps n. 17/2015 con l’applicazione, nel
rispetto di alcune previsioni generali, dell’incentivo
più favorevole previsto dall’art. 1, comma 118, della
legge n. 190/2014:
b) il contratto a termine può essere stipulato senza far
alcun riferimento a ragioni giustificatrici;
c) il contratto a termine così stipulato (a meno che
non si tratti di un contratto per attività stagionali)
rientra nella sommatoria dei trentasei mesi che rappresentano, sommati ai contratti di somministrazione,
il limite massimo, superato il quale, senza alcuna soluzione di continuità, il contratto diviene a tempo indeterminato;
d) a partire dal 1° gennaio 2013, trova applicazione il
contributo addizionale dell’1,40%, a meno che il contratto a termine non sia stato stipulato per ragioni “sostitutive” o per attività stagionali.
Diritto & Pratica del Lavoro 41/2015
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