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Il gioco e il “mettersi in gioco” nell`educazione ambientale

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Il gioco e il “mettersi in gioco” nell`educazione ambientale
Tratto da:
Perazzone A. e Tonon M.D., 2009, Il gioco e il “mettersi in gioco” nell’educazione ambientale. In Quaglia R.,
Prino L.E. e Sclavo E. (a cura di), Il gioco nella didattica. Un approccio ludico per la scuola dell’infanzia e
primaria, Erickson Ed., Trento, 159-180.
Il gioco e il “mettersi in gioco” nell’educazione ambientale
A. Perazzone e M.D. Tonon
L’educazione ambientale come processo teso a costruire identità ecologica
Qualunque idea si abbia di Educazione Ambientale le finalità ultime sembrano convergere sul cambiamento
del nostro modo di atteggiarci rispetto all’ambiente. L’atteggiamento e quindi i comportamenti che mettiamo
in atto sono funzione della nostra idea di ambiente e del nostro modo di percepire la relazione con esso. Più è
ampia la nostra idea di ambiente e forte la nostra percezione dell’interdipendenza più aumenta il nostro grado
di consapevolezza verso i problemi ambientali. Le ultime generazioni sono state così deprivate di natura che i
giovani di oggi fanno davvero fatica a riscoprire i fili che connettono le azioni quotidiane con tutto ciò che il
pianeta, la natura, ci offre in termini di bisogni primari. L’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, la verdura
che compriamo al supermercato, il legno del tavolo su cui stiamo scrivendo … tutto è dato per acquisito, come
se vivessimo su un pianeta in eterna crescita, che produce e ricicla materia seguendo i nostri ritmi (Perazzone e
Bertolino, 2005). I tempi della natura sono diversi da quelli umani (Tiezzi, 2001) e allora fare educazione
ambientale significa soprattutto aiutare le persone a definire e ri-scoprire una propria identità ecologica intesa
come il modo attraverso cui ciascuno di noi percepisce sé stesso in relazione alla natura (Thomashow, 1996).
Nella nostra esperienza di docenti impegnati sul fronte della formazione dei formatori abbiamo
sostanzialmente accompagnato i nostri studenti in percorsi laboratoriali tesi proprio alla costruzione
dell’identità ecologica, convinti che il presupposto fondamentale per divenire “buoni educatori ambientali” sia
lavorare su di sé, alla riscoperta di quel legame profondo che instauriamo con l’ambiente che ci circonda.
L’educazione ambientale, infatti è dimensione dell’educazione globale e come ogni educazione che mira allo
sviluppo integrale della persona, richiede di mettersi in gioco per maturare una riflessione, prima individuale e
poi collettiva, sul senso di quei valori che impregnano il processo educativo stesso siano essi pace, salute,
convivenza civile, intercultura o, come nel nostro caso, ambiente. Questo approccio educativo, che colloca
l’individuo nel suo ambiente naturale e sociale, si presenta come un’integrazione transdisciplinare, frutto
di una teoria sistemica che considera l’uomo come un agente composto da corpo, mente e cultura, in
grado di passare attraverso processi di crescita e di sviluppo che sono interdipendenti dall’ambiente e che
contribuiscono con la loro attività allo sviluppo di altri individui (Ingold, 2001). Il “mettersi in gioco” è
dunque non tanto (non solo) l’espediente didattico, metodologico, quanto, così come per i bambini, lo
strumento per conoscersi e rapportarsi con il mondo alla scoperta di potenzialità nascoste, di comportamenti e
atteggiamenti di cui si è perduto il senso, di significati che danno valore ai luoghi e al nostro modo di stare in
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quei luoghi. Ma quali sono le modalità di questo “mettersi in gioco”? Nei nostri percorsi laboratoriali abbiamo
sostanzialmente approfondito due diverse strade che tratteremo in questo contributo anche con brevi
esemplificazioni. La prima strada attiene a quanto in educazione ambientale va sotto i termini di attività in
natura e si realizza attraverso esperienze educative residenziali o escursioni giornaliere, generalmente in
località montane o comunque poco urbanizzate. L’ambiente naturale offre infinite occasioni di apprendimento
significativo in quanto attiva contemporaneamente la sfera emotiva, quella cognitiva e quella motoria. Stare in
ambiente naturale, non solo permette di scoprire cognitivamente la fitta rete di relazioni che determina le
caratteristiche delle componenti naturali e intuire il legame che la natura ha con il luogo in cui vivo, ma
genera anche una sorta di seduzione dei sensi. Noi siamo immersi in un crogiuolo di profumi, luci e ombre, di
freddo e di caldo, suoni e silenzi, …; la percezione cosciente ed estetica della natura si carica di “emotività” e
fa riscoprire il senso del preservare un territorio finalmente a misura di “essere vivente”, da valorizzare anche
dal punto di vista culturale, attraverso la lettura dei "segni dei tempi" lasciati dai nostri predecessori. Sono
moltissime le attività di percezione sensoriale e i giochi di simulazione in natura descritti in letteratura
(Borgarello e Trusel, 1990; Calvo, 1996; Borgarello et al., 1997) ed è soprattutto di questi che ci siamo
occupati inizialmente con laboratori che univano il lavoro sul territorio, quale dimensione fondamentale della
didattica naturalistica, ad esperienze più classiche e tipiche dell’educazione ambientale (Tonon, Perazzone e
Provera, 2005). Nell’ultimo periodo invece abbiamo sperimentato laboratori che mantengono la dimensione
della residenzialità “in natura”, per lavorare su un piano molto più intimo che lascia poco spazio alla
dimensione cognitiva, che emerge solo al termine dell’esperienza, quando gli studenti sono guidati in una
meta - riflessione che riguarda, più di ogni altra cosa, i risvolti di tipo professionale (e quindi educativo) di
quanto vissuto in prima persona. “Mettersi in gioco”, in questi laboratori, significa quindi innanzitutto
contemplare, lasciarsi avvolgere da quanto ci sta attorno per poi esprimere e condividere con gli altri emozioni
e pensieri attraverso la narrazione e l’esperienza artistica. In questo senso l’ambiente naturale diviene spazio di
gioco non strutturato, luogo in cui ci si sperimenta anche facendo riaffiorare i nostri ricordi di natura, per
riscoprire quelle corrispondenze e sintonie tra ambiente (paesaggio esterno) e qualcosa che si è costruito
dentro di noi (paesaggio interno). Oltre all’attività in natura, la riscoperta della nostra identità ecologica può
richiedere un lavoro di tipo cognitivo profondo, volto soprattutto a interiorizzare l’impatto personale e
pubblico sull’ambiente naturale da cui dipendiamo e su quello sociale entro cui siamo inseriti
quotidianamente. Su questo sperimentiamo, attraverso i nostri laboratori (questa volta non necessariamente
residenziali o all’aperto), la seconda modalità di quel “mettersi in gioco”, di cui si diceva sopra. E’ molto
difficile risolvere un problema se manca la consapevolezza di essere parte del problema stesso (Sterling, 2002)
ed è principalmente su questa consapevolezza che si dovrebbe lavorare quando si propongono, in contesti
educativi (e quindi non solo informativi e divulgativi), le questioni ambientali. Qui il gioco si fa “più gioco”,
con le sue regole, più o meno rigide, con gli elementi di conflitto e talvolta di competitività, con le simulazioni
di situazioni reali e le scelte individuali o di squadra da compiere per arrivare alla conclusione della “partita”.
Ed è sul processo che ha portato a questa conclusione che si compie poi il debreefing, ovvero la riflessione che
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fa acquisire consapevolezza sui propri atteggiamenti, sui punti di vista, sulle relazioni che rendono complesse
le dinamiche del gioco e più ancora gli sviluppi della situazione reale che il gioco vuole simulare. Anche su
ciò, e non a caso, la letteratura nel campo dell’educazione ambientale e di tutte quelle educazioni che si
confrontano con le emergenze della società contemporanea (intercultura, educazione alla pace, educazione alla
salute, …), è assai ricca sia di contributi teorici che di esperienze significative, che noi abbiamo ripreso e
riadattato a contesti di formazione (iniziale o in servizio) degli insegnanti.
Il gioco narrativo e artistico: condividere esperienze in/di natura.
Ogni narrazione si colloca in un luogo ben preciso, definito dalle coordinate spazio-temporali del racconto.
C’è un inizio e una fine, una successione e un trascorrere del tempo, una coesistenza e una disposizione nello
spazio dove gli eventi si collegano tra di loro attraverso le parole. Ogni storia di vita, in particolare, ha come
sfondo un determinato ambiente/territorio/paesaggio: diversi studi (Ammaniti e Stern, 1991; Pontecorvo,
1991; Carbaugh, 1996; Gallo Barbisio, 2001, 2002) hanno rilevato l’importanza dei luoghi nella costruzione
dell’identità personale e collettiva. Avendo evidenziato questo legame forte, alcuni psicologi di orientamento
cognitivista, hanno utilizzato l’espediente legato al racconto del paesaggio per giungere alla narrazione di sé e
della propria vita. Ogni narrazione evidenzia sempre il ruolo assunto dai luoghi nella costruzione dell’identità,
proprio perché risulta più facile per le persone comunicare raccontando non di sé ma dei luoghi della propria
esperienza. L’approccio narrativo è, in un contesto di educazione ambientale, importante per riflettere sui gesti
del quotidiano e sul proprio rapporto con la natura, narrando le proprie esperienze passate per operare le
trasformazioni di crescita in un ottica di sviluppo orientato al futuro (Fabbri, 1998). Il primo passo per iniziare
un percorso narrativo in tale contesto è sicuramente la creazione di uno “spazio naturale narrante”, un luogo
d’incontro tra la voce di chi narra e il desiderio di chi ascolta, dove anche i nostri sensi sono coinvolti e dove
lo scenario della natura è protagonista condiviso da tutti. E’ questo uno spazio comunicativo che si crea grazie
all’attesa e al desiderio di incontro tra soggetti diversi, disposti a vivere empaticamente le stesse emozioni,
stimolate dalle caratteristiche ambientali del territorio scelto come spazio narrante. Il luogo dell’azione narrata
e il luogo naturale in cui si svolge il racconto restano spesso fisicamente distinti, ma sono posti in relazione tra
loro in quanto portano i soggetti coinvolti a sperimentare un senso di appartenenza alla natura molto forte.
Perché questo spazio diventi lo sfondo narrante, è necessario che chi narra sia disposto a “mettersi in gioco” e
chi ascolta sia caratterizzato dal desiderio di ascoltare, secondo un atteggiamento attivo e partecipativo, in
grado di accogliere ogni contenuto espresso dal soggetto che racconta di sé e della natura. Le dinamiche tra gli
individui coinvolti in questo processo comunicativo sono anche influenzate dal rapporto fisico che intercorre
tra gli sguardi, le voci e i silenzi, la vicinanza o la distanza, la velocità o la lentezza tra le diverse storie e, non
di meno, dipendenti dagli odori, dai suoni, dai colori e dal contatto con altri esseri viventi che l’ambiente
fornisce. L’essere immersi in un teatro naturale dà anche libero sfogo all’immaginazione e alla percezione
sensoriale: per esempio, quando si ascolta una storia raccontata all’interno di un bosco e nell'oscurità della
notte non c'è nulla da vedere, c’è solo da ascoltare e sentire con il corpo. Questa straordinaria pratica
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estetica (aesthesis: percepire attraverso i sensi) è di importanza vitale sin dall’infanzia perché alimenta e
nutre le facoltà immaginifiche di ciascuno che, nei primi anni, nascono fragili e troppo spesso si
avvizziscono rapidamente. Paradossalmente, infatti, noi pur vivendo completamente immersi nella società
dell’immagine, abbiamo ben poche pratiche, contesti ambientali e strumenti didattici che ci aiutino a
prenderci cura del nostro immaginario. La scuola, infatti, con le sue artificiali separazioni tra sensibilità e
immaginazione individuale da una parte e conoscenze oggettive dall’altra, spesso è incapace di ascoltare e
prendere sul serio gli altri mondi dei bambini. Il ruolo del conduttore/educatore è un ruolo molto delicato:
innanzitutto egli è presente e partecipa nello spazio narrante come coprotagonista, mettendosi in gioco nelle
varie situazioni ed evitando di presentarsi come colui che si astrae o che individua tutte le strategie narrative
opportune attraverso interpretazioni che potrebbero essere corrette ma tacitanti lo sviluppo creativo del
gruppo. Chi conduce si limita a partecipare a quel processo costruttivo che ha progettato e avviato,
condividendo con tutti gli altri partecipanti un processo di costruzione di significati delle narrazioni stesse
(Nannicini, 1998). La possibilità di condividere uno spazio naturale, comune e intimo (possibilmente lontano
dai contesti metropolitani in cui ciascuno di noi si trova da agire nella quotidianità) legittima la possibilità di
narrare esperienze diversissime nei contenuti e, allo stesso tempo, fornisce i presupposti per trovare un
collegamento tra di essi. Nel nostro caso, l’ambiente naturale circostante diventa un pretesto per parlare
indirettamente del proprio rapporto con la natura e delle esperienze differenti, vissute in ambiti riconducibili al
contesto in cui si svolge la narrazione. Il contesto formativo si sviluppa, non come una formazione alla
narrazione, ma utilizza quest’ultima per invitare le persone ad indagare le proprie esperienze in/di natura e ad
assumere, di volta in volta, funzioni diverse all’interno del gruppo. L’utilizzo delle tecniche narrative sembra
favorire una partecipazione non formale, sostenendo la comunicazione e permettendo il confronto sincero e
diretto tra individui, in grado di migliorare la capacità di instaurare rapporti significativi in ambito personale e
naturalistico. A volte il gioco narrativo può essere stimolato dalla lettura di testi “ecologici”; essa può essere
utilizzata come una sorta di espediente per favorire l’avvio di narrazioni personali che si intreccino con il
mondo naturale: il conduttore deve quindi motivare i soggetti a spostare la propria riflessione dalla storia letta
e interpretata alla propria realtà quotidiana; il soggetto si avventurerà così, più o meno deliberatamente, nel
proprio racconto, arricchendolo di analogie e di metafore (Monge, 2006). La narrazione che si sviluppa in tale
ambito educativo solitamente consiste in un testo orale, instabile, incerto, mai concluso; raramente si ha il
racconto completo di una storia compiuta, spesso ogni storia appare senza soluzione apparente. Il senso ultimo
dell’esperienza condivisa risiede nella possibilità di accostare il proprio racconto a frammenti di storie
elaborate dagli altri, in momenti diversi, frutto di sensibilità differenti e di esperienze dissonanti (Lorenzoni e
Martinelli, 1998). In un intreccio tra ascolto e narrazioni, tra dialogo e silenzio, attraverso la continua ricerca
e lo sforzo di attribuire un significato alle esperienze di natura, ogni individuo giunge a una facoltà che
sembrava alienabile: la capacità di scambiare esperienze (Capelli e Lorenzoni, 2002). Inoltre la narrazione
conduce l’individuo a riflettere sulle modalità comunicative che utilizza quotidianamente e sulle peculiarità
che caratterizzano le diverse relazioni: quelle tra umani, quelle tra uomo e altri esseri viventi e quelle tra uomo
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e paesaggio. Come a dire che occorre mettere in relazione il nostro paesaggio interiore con ciò che ci
circonda, cioè con il paesaggio esterno, teatro della nostra vita. La percezione del mondo, infatti, si
sviluppa sempre in connessione con la percezione interna di noi stessi. E’ l’intrecciarsi di queste due
percezioni che ci permette di “vedere” altri mondi, che ci aiuta a rielaborare le nostre rappresentazioni e
interpretazioni della natura attraverso intuizioni, modelli, ipotesi o narrazioni del mondo, forme con cui
Gregory Bateson (1976) definisce le conoscenze scientifiche. L’ambiente naturale quindi può essere
considerato come fonte di narrazioni orali e di esperienze percettive e corporee. Esso fornisce ispirazione
per l’arte narrativa e simbolica (pittorica, fotografica, scultorea, ecc.). Sperimentare strategie di approccio
artistico con l’ambiente attraverso modalità di lavoro in gruppo, è utile per proporre contenuti scientifici,
conducendo gli studenti a compiere esperienze dirette sul campo. Poterle confrontare attraverso il
racconto o l’opera/installazione creata arricchisce sicuramente tutti i partecipanti di nuovi stimoli di
riflessione.
La narrazione autobiografica e la drammatizzazione teatrale come arte del gioco in natura.
Nei nostri laboratori residenziali abbiamo utilizzato spesso tecniche di narrazione autobiografica come
strumento per riflettere sul proprio rapporto, passato e presente, con la natura. Un esempio può essere fornito
un’attività che ha come obiettivo quello di far conoscere e mettere in contatto i componenti di un gruppo. Essa
ha infatti lo scopo di creare relazione tra studenti, che spesso non si conoscono, di modificare le dinamiche
all’interno del gruppo stesso e di condividere ricordi di natura. In questo caso, il conduttore contatta
precedentemente il partecipante al laboratorio chiedendogli di portare alcuni oggetti significativi (5 o 6 al
massimo) in grado di rappresentare il proprio rapporto con la natura o richiamare qualche esperienza
particolarmente importante che il soggetto ha vissuto in contesti di tipo naturale. Tali oggetti sono poi riposti
in sacchetti non riconoscibili, tutti uguali e anonimi. L’attività sul territorio consiste nello scambiarsi i
sacchetti e nel cercare di attribuire un significato ai vari oggetti di cui non si conosce il proprietario. La fase
successiva è rappresentata dalla condivisione dei diversi elaborati dove ciascun componente può verificare se
la relazione oggetto/soggetto/ambiente identificata corrisponde alla propria. Le potenzialità di questa attività
consistono nel rivelare, da un lato, la soggettività della relazione uomo/ambiente e, dall’altro, di far emergere
gli aspetti emotivi legati alla condivisione di esperienze comuni vissute in natura, riflettendo sul profondo
significato che esse hanno per la nostra vita. Oltre alle narrazioni autobiografiche, l’ambiente naturale può
servire da palcoscenico per improvvisazioni teatrali. Mentre nel teatro al chiuso, la scena consiste nello spazio
fisico tridimensionale nel quale si muovono gli attori, nelle drammatizzazioni in natura l’assenza di confini
netti tra gli studenti/attori e gli studenti/spettatori elimina la limitazione fisica del palcoscenico: tutti sono
immersi con i loro sensi nella scena e partecipano agli eventi. Lo spazio scenico costituito da un ambiente
naturale privo di confini è quindi anche uno spazio di gioco teatrale condiviso. Freud (1969) evidenziava
come, nella lingua tedesca si utilizzi lo stesso termine (spielen) per identificare l’atto del giocare e del
rappresentare. Mentre Winnicot (1992) sostiene che : “...è solo mentre si gioca che l’individuo è in grado di
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essere creativo e fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé”.
Si potrebbe aggiungere che il gioco/laboratorio/teatro in natura aiuta a scoprire, condividere e a recuperare il
rapporto uomo/natura. In uno dei nostri laboratori residenziali abbiamo inserito un’attività, in cui i diversi
gruppi di teatranti creano una rappresentazione, a partire da un canovaccio comune iniziale. La storia da
elaborare deve essere necessariamente ambientata (e poi rappresentata) in un luogo naturale (il reale
sfondo della rappresentazione), in cui i personaggi interpretati dagli studenti (persone, animali, vegetali o
oggetti naturali) si muovono ed interagiscono con esso. Un altro punto fermo del racconto è costituito
dalla presenza di due eventi naturali, le cui dinamiche hanno velocità e tempistiche differenti: uno
avviene in tempi geologici o storici e comporta cambiamenti a grande scala nel paesaggio; l’altro è rapido
e a scala locale. Infine, è stato chiesto ai gruppi di inserire nella drammatizzazione un
riparo/ricovero/casa/tana, che deve essere realmente costruito nella scena naturale con gli oggetti raccolti
nell’ambiente. L’obiettivo di tale attività è quello di integrare le esperienze cognitive, emotive e psicomotorie
che nascono dalla conoscenza e percezione dell’ambiente/palcoscenico nel quale si opera. E’ quanto avviene
nel teatro “povero” di Grotowski (1970), dove si realizzano gruppi che, insieme e senza copione, lavorano alla
ricerca di azioni organiche che si svolgono in luoghi naturali, prendendo coscienza del proprio corpo e delle
sostanze naturali che costituiscono il mondo stesso.
L’uso del componimento haiku: le fotografie verbali e le immagini associate.
Nella cultura giapponese, gli haiku rappresentano una parte molto importante e caratteristica dell'essenza
più profonda della poesia nipponica. Ciò che giustifica l’utilizzo didattico di questo tipo di poesia è la
convinzione che attraverso il linguaggio comune sia difficile evidenziare l’organizzazione sistemica della
natura in una visione di tipo olistico. Alla base della poesia haiku vi è un approccio legato alla cultura
Zen, il cui intento è quello di far tornare il linguaggio alla sua essenza pura, ovvero alla sua nudità, pur
conservando elementi che nella loro sinteticità evidenziano le connessioni. Nessun oggetto naturale o
evento, neppure il più piccolo e banale, è indegno di essere trattato dagli scrittori di haiku. Ogni cosa
infatti fornisce una serie di stimoli che possono alimentare lo stupore della scoperta/ri-scoperta, sempre
che si sia in grado di osservare la realtà attraverso “nuovi occhi”, liberandosi delle proprie convinzioni
stereotipate e dei propri preconcetti, fino a spingersi al limite del razionale. Un haiku in realtà non
rappresenta una visione di tipo simbolista-crepuscolare, ricca di allusioni e dissolvenze ma ci parla di
cose reali, di oggetti definiti che rispecchiano la visione del mondo di chi li ha scritti. Ogni haiku è un
piccolo universo definito, in una sua istantanea percezione di tempo e di spazio (Vasio, 1999). E poiché
ogni evento naturale è dinamico, “vivo”, l’attività di redazione di uno haiku, seppure nella sua semplicità,
permette di esprimere questo movimento. Attraverso le associazioni di parole e le metafore risultanti, esso
consente di evidenziare la relazione oggettiva ed emotiva nel rapporto uomo/ambiente, l'esigenza cioè
dell'uomo di essere tutt’uno con la natura, come ogni altra forma di vita di questo pianeta. Anche se
veicolo di questa comunione, l'haiku non è mai semplice descrizione realistica ma metafora verbale che
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va sempre interpretata come testimonianza di una visione della realtà che si spinge oltre gli schemi
convenzionali. Matsuo Basho, uno dei massimi poeti di haiku della metà del seicento, dopo aver letto una
composizione di uno dei suoi discepoli, disse: "Pecchi di debolezza nel voler stupire. Cerchi versi
splendidi per cose lontane; dovresti trovarli per cose che ti sono vicine". Nelle poesie haiku, lo scrittore è
chiamato ad esprimere la natura nella sua interezza e complessità ma a prescindere dal suo carattere
esotico e selvaggio: l'acqua, le rocce, i fiori, il sole, le nuvole e le stelle, gli animali, le piante, il mare e il
vento e insieme a tutto ciò, le emozioni dell’osservatore: il dolore e la gioia dell'uomo, l’estasi e il
tormento. Tutto si colloca, natura e corpo dello scrittore in un'unità inscindibile, nella condizione estatica
della contemplazione e della fusione con il tutto, anche quando il tutto è semplicemente il nostro giardino
di casa. La tecnica di redazione degli haiku è da noi utilizzata in alcuni laboratori residenziali, laddove ci
sembra importante mettere in evidenza la valenza della componente emotiva e la soggettività
dell’esperienze e quindi della relazione che ciascuno di noi instaura con l’ambiente naturale. In tale
attività si chiede agli studenti di isolarsi all’interno dell’ambiente bosco e di soffermarsi ad osservare
alcuni elementi naturali o eventi che accadono intorno. La consegna è quella di sintetizzare l’osservato
attraverso la scrittura di un haiku, che evidenzi il loro modo di interpretare la natura (Bogina e Roberts,
2005). Successivamente si ricopiano tutti i componimenti su fogli uguali e anonimi e li si ripone in un
cesto. Poi, a piccoli gruppi, gli studenti prelevano a caso un certo numero di componimenti e si
sparpagliano sul territorio muniti di macchine fotografiche per catturare l’immagine di ciò che
verbalmente è rappresentato nell’haiku stesso. Allo scopo di condividere le esperienze si associano tutti
gli haiku (le “fotografie” verbali) e le immagini fotografiche scattate, organizzando una lettura collettiva
associata alla videoproiezione delle immagini scattate. Il prodotto artistico finale suscita generalmente
emozioni positive, spesso molto forti, che riescono ad essere condivise con grande soddisfazione da tutti i
partecipanti. Quello strano gioco di specchi che si viene a creare fra l’emozione vissuta in natura e
l’interpretazione che altri danno alle parole scaturite da quella esperienza individuale, rende evidente sia
la diversità dei nostri modi di stare al mondo, sia la comune percezione dell’essere parte di un unico
sistema. Qui di seguito sono riportati due esempi di associazioni haiku e fotografie:
Esili gocce
scorrono su verdi traiettorie,
a misurare il tempo.
Una legnosa rete
di radici antiche,
mi ricorda i legami con la terra.
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La ri-scoperta delle risorse naturali e la loro “manifattura artistica”
Da sempre la specie umana ha avuto bisogno, per garantirsi la sopravvivenza, di risorse primarie legate
all’alimentazione, all’abitazione e al vestirsi per proteggersi dal freddo. E’ proprio questo il principale tema
trattato in uno dei laboratori proposti nel Corso di Laurea in Scienze della Formazione Primaria: le risorse
alimentari, le fibre naturali utilizzate per la manifattura di indumenti e i materiali naturali da costruzione
vengono riscoperti e valorizzati in quanto in grado di soddisfare bisogni primari. L’obiettivo è quello di
recuperare il senso del nostro rapporto con la natura, percependone il legame di stretta dipendenza. Per mezzo
di attività pratiche sensoriali e manipolative, si possono scoprire e riscoprire le relazioni tra le risorse naturali e
gli oggetti d’uso quotidiano. Grazie a pratiche di espressione artistica, utilizzando spesso un approccio ludico,
si creano manufatti realizzati con materiale di origine naturale, precedentemente raccolto dagli studenti
durante uscite sul territorio. Queste escursioni tematiche si alternano ad incontri in aula, permettendo agli
studenti di realizzare raccolte e catalogazioni in natura di materiali in situ e successivamente di elaborare
questi materiali, ricreando, scomponendo e ricomponendo le materie prime, in modo da creare manufatti
utilizzati nella vita quotidiana o prodotti artistici in grado di comunicare lo stretto legame tra la natura e la
sfera antropica. E’ stato per esempio riprodotto sperimentalmente il percorso a ritroso dal vestito alla fibra
vegetale e, viceversa, si è ricavata una fibra filata da un materiale vegetale grezzo (ortica, lino, canapa). In
altre escursioni sono state invece raccolte e selezionate materie prime litiche e lignee per poi costruire
modellini di strutture abitative o altri prodotti artistici che rappresentassero il territorio esplorato. Per quanto
riguarda le risorse alimentari si è effettuata la selezione, la raccolta e la preparazione di alcune erbe selvatiche
sino ad ottenerne un pasto completo, consumato dai partecipanti in prossimità del luogo stesso di prelievo.
Il gioco come strumento per affrontare questioni ambientali complesse e controverse.
Tutte le questioni ambientali, come in genere i problemi reali, sono complesse e controverse.
Semplificando si potrebbe dire che la complessità nasce dalla moltitudine di fattori che entrano in gioco e
dalle relazioni non lineari che governano i processi naturali e le dinamiche interne alle società umane. La
controversia invece nasce dalle diverse prospettive, dai molti interessi in gioco, dai diversi sistemi di
valori attraverso i quali ciascuno di noi interpreta i fatti e fa ipotesi per il futuro. Il tutto calato in una
condizione che, anche dal punto di vista scientifico, è di profonda ignoranza. Ignoranza rispetto alle
conseguenze delle nostre azioni e ai loro effetti sinergici, ma anche rispetto alle dinamiche terrestri,
indipendentemente dagli squilibri determinati dalla nostra specie. Ciascuno di noi di fronte a tali
problematiche si sente in parte distante e in parte impotente e difficilmente riesce a percepirsi come parte
in causa, a meno che non entrino in gioco suoi specifici interessi o non vengano lesi diritti individuali.
Ciò genera due dei principali ostacoli al cambiamento a cui si può / si deve contrapporre il processo di
educazione ambientale. Primo ostacolo è il differimento nel tempo: spesso i problemi ambientali hanno
ripercussioni più nel futuro che nel presente ed è difficile identificarsi in se stessi fra 10 o 20 anni, in
condizioni diverse rispetto all’accesso alle risorse, o rispetto al proprio stato di salute, o alle condizioni
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del proprio ambiente di vita. Se le difficoltà nate dal degrado ambientale sono differite nel tempo
tendiamo a non modificare in alcun modo i nostri comportamenti o comunque a rimandare a domani. Il
secondo ostacolo al cambiamento è dato dalla dislocazione nello spazio degli effetti delle nostre azioni: se
i costi dei comportamenti sociali, e quindi delle nostre azioni sull’ambiente, si verificano lontano da noi, o
anche solo là dove non arrivano i nostri occhi, tendiamo a perpetuare i nostri gesti con disinvoltura e
senza sentirci chiamati in causa. Eppure lo siamo sempre! Lo siamo quando facciamo la spesa al
supermercato, quando scegliamo come spostarci per raggiungere i luoghi della nostra quotidianità,
quando decidiamo di come sbarazzarci degli oggetti che non ci servono più, quando prendiamo parte al
dibattito politico e lo siamo anche quando decidiamo come e a cosa educare i nostri figli o i nostri
studenti. Possiamo scoprire la nostra identità ecologica in ogni gesto e in ogni scelta che compiamo
quotidianamente, sebbene questa operazione richieda sforzo e anche una certa dose di disponibilità ad
accogliere i valori che danno senso al cambiamento. Se l’educazione ambientale, come si diceva
all’inizio, si deve occupare proprio di questo cambiamento diventa importante capire quali strategie
debbano essere didatticamente utilizzate per rendere più evidenti quei fili che ci legano indissolubilmente
ad ogni tematica ambientale complessa e controversa. I giochi di simulazione sono indiscutibilmente uno
degli strumenti più utili a questo scopo e più ricchi di quegli indicatori di qualità universalmente
riconosciuti nel campo dell’educazione ambientale (Ammassari e Palleschi, 1991; Borgarello e Bottiroli
A., 1997). Simulare significa progettare il modello di un sistema reale e condurre esperimenti con esso,
allo scopo di comprenderne il comportamento o di valutare diverse strategie per operare sul sistema stesso
(Brusa, 1985). L’idea di modello è quindi implicita nel concetto stesso di simulazione, che riduce
l’insieme dei dati che rappresentano la realtà di un sistema complesso (su cui è impossibile fare
previsioni) ad un sistema complicato che si riesce più agevolmente a manipolare. Per astrarre il modello
devo innanzitutto concettualizzare la realtà, selezionare da essa alcuni elementi, e quindi avviare un
processo di semplificazione. Il modello è sempre soggettivo, prospettico, accentua alcuni aspetti e ne
tralascia altri, per rendere disponibili e trasparenti alcuni aspetti della realtà. I giochi di simulazione, pur
essendo dei modelli, si distinguono da essi per essere dinamici, ovvero in divenire. Essi partono da una
base statica, ma si dinamizzano nel processo di gioco, rappresentando una serie di relazioni in
movimento. Dal punto di vista educativo è il confronto fra il sistema simulato e quello reale che fa
emergere in tutta la sua evidenza:
• la complessità e la necessità di imparare a gestirla senza rimanerne travolti;
• l’importanza delle relazioni fra i dati di conoscenza, nelle dinamiche interpersonali, nella controversia di
valori finalmente esplicitati, nei processi che portano alle scelte e all’azione verso il cambiamento;
• la rilevanza delle scelte individuali e degli stili relazionali e comportamentali rispetto al cambiamento
della realtà che ci circonda;
• la pluralità e la legittimità dei punti di vista;
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• la rilevanza delle cosiddette qualità dinamiche, ovvero spirito critico, capacità di prendere decisioni in
situazioni complesse, capacità di ascolto e di decentramento, capacità di dialogo e di confronto, flessibilità,
attitudine alla ricerca di nessi e relazioni.
Se tutto ciò emerge progressivamente durante il gioco di simulazione, è nella fase di debriefing che si struttura
in consapevolezza. Nei processi di apprendimento basati sull’esperienza, si presume che l’esperienza vissuta
sia un insieme di dati essenziali ma grezzi dai quali ha origine l’apprendimento; essendo l’esperienza, per sua
stessa natura, un modo di conoscere soggettivo, individuale, personalizzato, diventa necessario un momento di
riflessione post-esperenziale per far emergere i vissuti personali in un momento di condivisione col gruppo. Il
debriefing non rappresenta tanto la fine del gioco quanto l’inizio della comprensione di quello che è successo
durante il gioco stesso, un’autentica analisi dei vissuti propri e altrui, un importante momento di svelamento,
decostruzione del modello all’interno del quale l’esperienza si è svolta. E’ essenzialmente un processo di
negoziazione di significati in cui entrano in campo la dimensione cognitiva, affettiva e creativa. In tutto ciò il
ruolo del conduttore diventa strategico. Sebbene la carica è tale che il debriefing avverrà qualunque cosa si
faccia, è bene strutturare questo momento prevedendo un tempo adeguato e preparando uno schema-cornice
che può prevedere (Marcato, Bernacchia e Del Guasta, 2007, pp.167-195):
• la descrizione di quello che è accaduto durante il gioco, dando spazio alle emozioni provate e alle
aspettative del pre-gioco;
• l’analisi in dettaglio delle dinamiche del gioco e le analogie con situazioni reali o con esperienze vissute;
• l’individuazione del modello e delle possibili applicazioni delle conoscenze apprese in altri contesti.
Qui di seguito, così come nel paragrafo precedente, riportiamo alcune esemplificazioni di tipologie differenti
di attività di simulazione adattate al contesto della formazione dei formatori. Esse fanno parte del nostro
bagaglio di esperienze laboratoriali e, sebbene non contegano elementi particolarmente innovativi nel campo
dell’educazione ambientale, possono dare l’idea della diversità di approcci alle questioni ambientali che si
possono creare attraverso la tecnica del gioco e la disponibilità del “mettersi in gioco”.
Il dilemma del prigioniero: la cooperazione nei comportamenti ecologici
Il dilemma del prigioniero proposto, da Merril Flood e Malvin Drasher nel 1950 come parte delle ricerche
sulla teoria dei giochi promosse dalla Rand Corporation, non è un vero e proprio gioco di simulazione, anche
se in qualche modo "simula" una problematica a cui si deve dare soluzione.
Il dilemma del prigioniero è così riassumibile: due criminali sono stati arrestati e messi in due celle separate;
due investigatori li stanno interrogando separatamente affinché confessino un crimine maggiore che altrimenti
i poliziotti non sarebbero in grado di provare (es. un omicidio), mentre sono in grado di provarne uno minore
(es. una rapina). A ognuno vengono date due scelte: confessare l'accaduto, oppure non confessare. Viene
inoltre spiegato loro che:
- Se uno solo dei due incolpa l’altro, l’accusatore viene rilasciato (0 anni), l’accusato avrà il massimo della
pena (20 anni).
10
- Se nessuno dei due parla, saranno entrambi accusati della pena minore (5 anni)
- Se tutte e due si accusano a vicenda, entrambi sconteranno una pena intermedia (10 anni)
P
R
I
G
I
O
N
I
E
R
O
PRIGIONIERO 2
Coopera
Defeziona
1
Coopera
Defeziona
Strategia A
P1 (5 anni)
P2 (5 anni)
Strategia C
P1 (0 anni)
P2 (20 anni)
Strategia B
P1 (20 anni)
P2 (0 anni)
Strategia D
P1 (10 anni)
P2 (10 anni)
I due prigionieri coopereranno per ridurre al minimo la condanna di entrambi o uno dei due tradirà l'altro per
minimizzare la propria? Quale comportamento ci si aspetta che adottino e, in seconda battuta, quale
comportamento conviene loro adottare? Si nota subito una discrepanza fra le risposte possibili alle due domande:
la strategia prevista è la D, ovvero un risultato subottimale per i due giocatori, che se invece scegliessero
ambedue di cooperare ridurrebbero al minimo la condanna di entrambi. Il dilemma del prigioniero evidenzia
bene che, se ogni individuo agisce pensando al proprio interesse si ottiene un risultato collettivo peggiore di
quello che si otterrebbe attraverso la cooperazione tra individui. In altre parole il prigioniero dovrebbe vedere il
problema dal punto di vista dell’altro e mentre lo fa dovrebbe vedere se stesso intento a decidere. Può essere
interessante utilizzare tale modello in contesti di educazione ambientale come paradigma dell’agire
ecologicamente orientato, ed in effetti si possono costruire, e far costruire, molteplici varianti che pongono
l’accento sulle scelte comportamentali dei singoli in relazione ai vantaggi e agli svantaggi dell’intera comunità.
Qui sotto proponiamo un’esemplificazione tratta dalla tesi di laurea di una studentessa di scienze della
formazione primaria (Portioli, 2005 ).
ALTRI
BICI
IO
AUTO
BICI
IO fatico
ALTRI faticano
AUTO
IO fatico
ALTRI non faticano
ARIA PULITA
ARIA INQUINATA
IO non fatico
ALTRI faticano
IO non fatico
ALTRI non faticano
ARIA PULITA
ARIA INQUINATA
Questo schema prende in considerazione le scelte individuali di trasporto privato in relazione a quelle della
collettività: se ogni individuo opera nel suo interesse, ovvero non vuole faticare pedalando, avrà nel suo
ambiente un alto tasso di inquinamento atmosferico, ma poiché l’ambiente è un bene pubblico il degrado
ambientale si riflette anche su coloro che non traggono direttamente beneficio dal suo “consumo”.
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La gestione delle risorse comuni e il concetto di limite
Da quanto detto si evince come varianti del gioco precedente possono rendere evidente un altro concetto di
grande interesse nell’ottica di una sostenibilità ambientale: la gestione delle risorse comuni. Tutto ciò di cui
disponiamo, tutto quanto viene prodotto e consumato implica l’utilizzo di materie prime e quindi di risorse che
rappresentano dal punto di vista umano una sorta di capitale naturale di cui possiamo disporre in modo più o
meno saggio. Le risorse sul pianeta non sono equamente distribuite e il loro accesso è vincolato alle
disponibilità tecnologiche ed economiche. A questo si aggiunge l’evidenza di abitare all’interno di sistema
chiuso entro il quale la materia è limitata e si ricicla in tempi geologici o comunque non compatibili con il
sovra sfruttamento imposto dai nostri attuali livelli di consumo. Creare questo tipo di consapevolezza è forse
la chiave di un’educazione alla sostenibilità e anche in questo ci possono venire in aiuto modelli e simulazioni
che giocano proprio sul concetto di limite. Il primo che proponiamo è un’attività molto semplice che in genere
va sotto il nome di “Arraffa, arraffa” (Morozzi e Valer, 2001, p.225) o di “Gioco dei fermagli”. Viene
posizionata su di un piano la posta iniziale consistente di 2n + 2 fermagli, dove n è il numero dei giocatori. Al
VIA ciascun giocatore cercherà di prender i fermagli sapendo che:
•
Vince chi arriva a possedere 2n + 4
•
Allo STOP verrà raddoppiato il n di fermagli rimasti sul tavolo senza superare la prima posta
•
Il conduttore non risponde a domande ma può rileggere le regole
I giocatori non possono parlarsi, se non quando lo dice il conduttore che può però riprendere il gioco
all’improvviso per bloccare gli accordi. Nei nostri laboratori il gioco viene proposto senza fare minimamente
accenno al concetto di risorsa e alle possibili situazioni reali che il modello vuole simulare. Se questo
avvenisse, infatti, lo stile di gioco e il risultato finale sarebbero notevolmente influenzati. Quello che invece
accade abitualmente è che alla prima manche i giocatori arraffino tutti i fermagli depauperando interamente la
risorsa che non potrà più essere rinnovata dal conduttore del gioco. Le manches successive avranno
andamento variabile e il risultato finale sarà, fra l’altro, determinato dal tempo lasciato ai giocatori per
ragionare su una strategia comune che, nel migliore dei casi, può portare alla vincita contemporanea di tutti.
La riflessione post-gioco viene condotta facendo emergere le analogie con la realtà (fermagli = risorse;
dinamiche fra i giocatori = approccio alle risorse) e il fatto che un utilizzo limitato e rispettoso delle risorse è
quello che garantisce beneficio per tutti e per lungo tempo: l’autolimitazione è la condizione necessaria per
evitare di giungere al punto di non ritorno. Compiere scelte sulla base di criteri di sostenibilità significa
sentirsi parte di un sistema e immaginare i nostri atti come inseriti in un contesto generale in cui tutto è
correlato. Il limite allora non rappresenta più un ostacolo alla propria libertà e realizzazione, ma un fattore
indispensabile per trovare l’equilibrio tra uomo e ambiente, tra risorse e consumi, tra nord e sud del mondo,
nella misura in cui stimola il sentirsi parte di un sistema ambientale e sociale più vasto. Anche in questo caso
si possono immaginare molteplici varianti da utilizzare in alternativa o in rinforzo all’attività appena esposta.
Nel nostro caso spesso al gioco dei fermagli viene fatta seguire un’attività di simulazione più complessa e
strutturata che rappresenta un problema di cosiddetta azione collettiva. Hardin (1968) parla di tragedia dei
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commons ovvero del problema che sorge quando più individui dipendono da una stessa risorsa comune.
Razionalmente ciascuno sfrutterà i benefici dati dall’utilizzo della risorsa finché questi non saranno bilanciati
dal lavoro necessario per lo sfruttamento della risorsa stessa. Il problema consiste nel fatto che mentre i
benefici di un aumento della quantità di risorsa vengono interamente percepiti dal proprietario, i costi
(rappresentati dal consumo o dal depauperamento della risorsa) vengono distribuiti tra tutti gli attori che la
condividono. In caso di una risorsa non sovrabbondante, si crea una situazione in cui ciascuno ha interesse a
sfruttarla al di sopra di un livello collettivamente sostenibile, con conseguenze anche gravi per tutti. Nel caso
simulato in aula ogni partecipante, od ogni squadra, assume il ruolo di una azienda di pesca, che esercita la
propria attività in diretta concorrenza con le aziende degli altri giocatori. In quel tratto di mare esiste una certa
popolazione ittica che rappresenta la risorsa comune che l'insieme delle aziende dovrà in qualche modo
gestire. Ogni azienda, per semplicità, ha uno stesso capitale iniziale posto uguale a 100. Un'annata di pesca
rappresenta un turno di gioco e, ad ogni turno, le aziende decidono autonomamente e senza poter comunicare
in alcun modo, quanto capitale investire nella pesca per quell'anno. Il capitale non investito frutterà un 5%
fisso di interesse, mentre quello investito entrerà nel calcolo complessivo e rappresenterà l'impegno finanziario
per far fronte all'attività di pesca (gestione barche nuovi acquisti, manutenzione, combustibili, stipendi al
personale, etc...). Maggiore è l'investimento, tendenzialmente maggiore dovrebbe essere la quantità di pesce
pescato e quindi la redditività dell'azienda. Il modello è formalizzato matematicamente e permette al
conduttore, sulla base di una precisa formula, di comunicare ad ogni inizio turno lo stato della risorsa, ovvero
quanto pesce c'è in quel tratto di mare. La quantità della risorsa è chiaramente il fattore limitante, ma i
giocatori non hanno elementi per valutare l'incidenza che il loro investimento avrà sul mantenimento o il
depauperamento della risorsa. Ogni singola aziende infatti comunica in modo segreto il suo investimento al
conduttore il quale procede nei calcoli e restituisce, sempre privatamente, il valore di capitale aggiornato sulla
base delle performance di quell'anno. Quando la risorsa scende sotto il 50%, come nel caso dei fermagli, il
conduttore invita i giocatori a cercare un accordo, per evitare uno sfruttamento eccessivo e la conseguente
distruzione della risorsa. In realtà in questo caso non esistono garanzie che le aziende poi rispettino davvero gli
accordi. Questa attività permette di cogliere il senso di frustrazione che può essere vissuto trovandosi
all’interno di un meccanismo che tende a sfuggire dalla propria pianificazione. Il gioco è descritto nel dettaglio
nel sito del Centro Interuniversitario IRIS (Istituto di Ricerche Interdisciplinari sulla sostenibilità) in
particolare all’indirizzo http://www.iris-sostenibilita.net/iris/sostenibilita/03f-interaz01.htm.
Giochi di ruolo e problemi STAS – Scienze Tecnologia Ambiente Società
Per quanto detto sopra, circa la complessità e la controversia tipica dei problemi socio-ambientali, può essere
utile didatticamente prevedere una simulazione che implica un minor grado di astrazione rispetto ai giochi
descritti sopra e una maggior enfasi sulla dimensione del ruolo. In particolare l’operazione consentita dai
cosiddetti role-playing porta i giocatori a distaccarci dal proprio punto di vista per assumere quello di un altro,
non allo scopo di cambiare il sistema di valori ma per cogliere meglio le ragioni degli altri e quindi i diversi
13
aspetti del problema. Nell’ambito dell’educazione ambientale in Italia sono stati proposti diversi giochi di
ruolo molti dei quali realizzati e sperimentati dal Gruppo di Ricerca in Didattica delle Scienze Naturali
dell’Università di Torino, e in particolare da Elena Camino (1993, 1995) e Carla Calcagno (1991, 1992, 1994)
e da altri collaboratori (Ferrero, Camino e Calcagno, 1995; Calcagno, Camino, Caccia e Zappi, 1998; Colucci
e Camino, 2000). In particolare la struttura dei giochi proposta dal gruppo suddetto (di cui gli autori di questo
contributo fanno parte) prevede le fasi qui di seguito brevemente descritte.
- Il tema del gioco: viene proposta una problematica reale STAS (il problema delle piogge acide, la questione
dello smaltimento dei rifiuti, l’acquacultura intensiva, …), controversa e complessa ma allo stesso tempo
capace di coinvolgere i giocatori.
- La discussione preliminare: una discussione fa emergere carenza di informazioni, problemi di competenze,
pregiudizi, lasciando un senso di superficialità e di insoddisfazione che motiva e spinge i giocatori ad
approfondire la questione indagata.
- La presentazione dello scenario e l’assegnazione delle carte dei ruoli: viene contestualizzata la controversia e
vengono distribuite ai giocatori le carte dei ruoli (personaggi con nome, cognome, professione, convinzioni e
dubbi rispetto alla problematica in questione, …) che possono appartenere a due o tre gruppi che esprimono
posizioni contrapposte.
- La ricerca di documenti: ai giocatori viene consegnato e/o fatto ricercare materiale utile al fine di aumentare
le conoscenze relative al problema, per poter assumere più consapevolmente il proprio ruolo e sostenere la
posizione che esso esprime.
- Il dibattito: durante il dibattito i giocatori argomentano le proprie tesi, solitamente dopo aver concordato una
strategia di gruppo. In genere i pareri sono discordi in quanto ogni gruppo mira a difendere i propri interessi.
Sta ai giocatori affrontare la controversia identificando vie alternative di azione al fine di valutare la scelta più
appropriata. In questa fase emergono la capacità organizzativa, espositiva e di mediazione del gruppo e dei
singoli.
- La decisione: la decisione avviene dopo aver riconosciuto gli interessi e i valori dei vari gruppi implicati nel
problema e dopo aver valutato attentamente i rischi e i benefici delle proposte alternative. La scelta può essere
presa da un gruppo di decisori, oppure da tutti i partecipanti tramite una votazione o la ricerca di una soluzione
consensuale.
- La riflessione: in questa fase si ripercorrono i momenti del processo decisionale, si compie una metariflessione sull’argomento e sulle modalità di gioco per verificare l’acquisizione dei contenuti e per esaminare
le dinamiche che si sono susseguite nel corso dell’attività.
La dimensione della controversia in questo tipo di attività viene enormemente esaltata facendo emergere la
diversità di interpretazione nei dati di conoscenza, la diversità di valori e gli interessi più o meno legittimi che
entrano in gioco. L’interpretazione del ruolo riveste poi un’importanza determinante rispetto agli sviluppi
dell’attività e al suo esito finale. Se da un lato viene messa in evidenza l’importanza del saper argomentare le
proprie posizioni (dopo essersi documentati), dall’altro possono emergere abilità insospettate di giocatori che,
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proprio dietro la copertura del ruolo che devono recitare, riescono ad esprimere con efficacia un punto di vista
anche in contrasto con il proprio modo di pensare. Se si ha a disposizione un tempo sufficientemente lungo e
una documentazione ben organizzata e significativa i partecipanti, motivati dalle dinamiche del gioco, possono
raggiungere buone competenze anche sul piano delle conoscenze interdisciplinari implicate nella controversia.
Detto ciò, l’obbiettivo prioritario dei giochi di ruolo rimane quello di far cogliere, all’interno della
complessità, la relazione, che sempre esiste, fra il problema in questione e il nostro modo di pensare e agire.
Parlando di formazione di educatori, l’attività di costruzione di un gioco di ruolo può risultare assai utile
proprio perché emerge con estrema chiarezza come non sia sufficiente la dimensione delle conoscenze per
strutturare l’attività e preparare le carte dei ruoli.
Conclusione
Le esperienze qui brevemente descritte sono accomunate dall’idea di laboratorio come spazio di costruzione di
sé e di identificazione della relazione fra sé e ciò che sta fuori. In questa chiave di lettura talvolta i ruoli di coloro
che conducono l’attività si confondono con quelli di coloro che devono essere formati, rendendo il contesto
educativo un vero luogo della ricerca-insieme. L’educazione ambientale dovrebbe in effetti essere uno spazio di
emancipazione,in cui tutti sono chiamati ad esprimere i propri personali obiettivi e a progettare l’azione per il
cambiamento. Non si tratta di promuovere un generico valore di rispetto per l’ambiente (difficile non essere
d’accordo!). Si tratta di valorizzare la diversità portandola alla luce e promuovendola come ricchezza del
soggetto e del contesto educativo. Solo così si sostengono capacità importanti (ascolto, decentramento, spirito
critico, …) che consentono di gestire responsabilmente la dimensione della “scelta” e del “cambiamento”.
Questa la sfida, questo il lavoro che portiamo avanti con i nostri studenti (educatori e futuri insegnanti) che
insieme a noi… hanno giocato!
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