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Capitolo terzo ROMANI, LONGOBARDI, FRANCHI E

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Capitolo terzo ROMANI, LONGOBARDI, FRANCHI E
Capitolo terzo
ROMANI, LONGOBARDI, FRANCHI E BIZANTINI
Gli Ostrogoti svanirono senza lasciar traccia; non fu cosi per i loro successori. Verso
l'anno 900, l'Italia era divenuta una complicata mescolanza etnica. La massa della
popolazione era romana d'origini, pur se i Romani appaiono raramente come tali nelle
nostre fonti. A1 loro fianco troviamo i Longobardi, in ogni livello sociale, ma
particolarmente nell'aristocrazia; e nell'aristocrazia compaiono anche immigrati più
recenti: Franchi e Alemanni, e alcuni Burgundi e Bavaresi. Anche nelle aree italiane
mai conquistate dai Longobardi troviamo nuovi arrivati, stavolta dal Mediterraneo
orientale. L'Italia bizantina, però, costituiva il margine occidentale di un Impero che
manteneva legami ininterrotti col suo passato romano, e nell'Esarcato del VII e
del1,VI1I secolo è difficile distinguere i Romani indigeni da quelli immigrati.
Soltanto nelle province meridionali bizantine del X e dell'X secolo i Greci si
distinsero etnicamente, come vedremo in un prossimo capitolo.
I1 miscuglio di popolazioni costituisce il miglior contesto in cui trattare due problemi
inerenti alla continuità nella storia sociale dell'Italia. I1 primo tema è relativo alla
rottura verificatasi nel VI secolo; fino a che punto cioè l'occupazione longobarda
abbia distrutto la struttura sociale italiana, confinando la massa dei Romani nei ceti
più bassi del contadinato, e provocando una sorta di tabula rasa su cui la storia, per
cosi dire, riprendesse da zero il proprio corso. La seconda questione,
indissolubilmente legata alla prima, è quella della continuità dei quadri e degli uomini
costitutivi dell'aristocrazia durante i vari mutamenti politici in Italia. Entrambi questi
problemi sono stati spesso descritti come cambiamenti rivoluzionari all'interno della
società italiana. Ma a me non pare ci siano effettivamente stati. Per tutto il periodo
altomedievale, le fondamentali strutture sociali italiane e i modelli dell'aristocrazia
furono così saldamente collegati all'economia che le intrusioni di popolazioni nuove
non apportarono grandi modifiche.
L'invasione longobarda e le guerre che seguirono, fra il 568 e il 605, furono
certamente un disastro per l'Italia. Come abbiamo visto, gli italiani non avevano fatto
in tempo a riprendersi dalle Guerre Gotiche che vennero sprofondati in un'esperienza
altrettanto violenta e ancor più caotica. Gli osservatori del VI secolo non sentirono il
bisogno di dimostrare che i Longobardi erano barbari e distruttori, gens nefa?'dissima,
nelle parole di Gregorio Magno; la cosa era più che evidente. Le popolazioni di
alcune città situate in luoghi vulnerabili, come Orvieto e Civita Castellana lungo il
Tevere, si spostarono in cima alle colline per sfuggire agli assalti. Nella gran parte
delle città che avrebbero costituito i ducati di Spoleto e Benevento, l'episcopato
scomparve totalmente per almeno due secoli. Inoltre, i primi anni dell'invasione
longobarda furono anche anni di pestilenze e carestie; queste si ripeterono spesso,
accompagnate da altri disastri naturali, inondazioni e apparizioni di draghi, fino alla
fine del VI secolo. E’ come se l'Italia fosse stata visitata contemporaneamente da tutti
e quattro i cavalieri dell'Apocalisse1. I1 violento impatto coi Longobardi ci è descritto
molto chiaramente nelle opere di Gregorio di Tours, Mario di Avenches e Gregorio
Magno, che vissero in territori ripetutamente attaccati dai Longobardi, o ebbero
1
Paolo, H.L., 2. 4, 26; 3. 23-4; Mario di Avenches, Chronicon (MGH A.A., 11) s.a. 569-71, 580; cfr.
Ruggini, op. cit., pp. 466-89, per un elenco completo delle calamità sino al 700.
contatti con quelle aree. I1 destino degli sventurati abitanti dei territori italiani che i
Longobardi effettivamente controllavano venne ritenuto ancor più terribile. Nell'Italia
longobarda i Romani scompaiono praticamente dalla storia, tanto che nel XIX secolo
si poté sostenere che erano stati ridotti tutti in schiavitù. Nello stesso VIII secolo,
laddove inizia la nostra documentazione, troviamo rarissimi riferimenti a loro: tre o
quattro menzioni nelle leggi longobarde, due o tre in documenti sopravvissuti. Noi
intendiamo riferirci a tutti gli abitanti dell'Italia longobarda con l'epiteto di
'Longobardi'; le nostre fonti certo ce lo permettono. Ma sappiamo che la gran massa
degli Italiani deve esser stata etnicamente romana. Presumendo (con scarse prove) che
ci furono molti più Longobardi di quanti erano stati gli Ostrogoti, circa duecentomila,
i Longobardi non possono avere costituito più del 5-8% della popolazione nelle zone
occupate, e la percentuale può anche essere stata inferiore.
La storiografia relativa al destino-dei Romani è immensa, e non è basata su quasi
alcuna buona documentazione. Tra la morte di Alboino ed il regno di Agilulfo, i
contemporanei ci offrono informazioni minime. L'Italia longobarda fu praticamente
un paese chiuso, pur se molti dei suoi primi duchi erano disposti a negoziare con i
Bizantini. La sola storia che si stesse scrivendo nell'Italia dei primi Longobardi era
quella di Secondo di Non, che sembra essersi trovato in una parte piuttosto isolata del
Trentino, durante i primi anni dell'invasione longobarda; solo durante il regno di
Agilulfo egli entrò a far parte della corte reale, con un maggior accesso a informazioni
attendibili. L'historiola, o piccola storia, di Secondo non ci è giunta, ma è stata usata
da Paolo Diacono per la sua Storia Longobarda della fine del secolo VIII. Paolo è la
nostra unica fonte dettagliata, ma egli scrisse due secoli dopo gli avvenimenti, e usò
materiali che, se si eccettua Secondo, non sono particolarmente attendibili per quel
che riguarda la storia interna dell'Italia longobarda del tardo VI secolo: testimoni ostili
come Gregorio di Tours e Gregorio Magno, e occasionali tradizioni orali riguardanti
Alboino e Autari. Escluso Paolo, non v'è alcuna testimonianza scritta dell'Italia di
allora. I1 nostro solo altro materiale è costituito, da una parte dall'archeologia
cimiteriale, e dall'altra dalle estrapolazioni a ritroso desunte dalla società come si
presenta nei testi del1'VIII secolo. Inoltre, Gregorio Magno, a Roma, ci ha descritto in
modo assai valido i contrastanti atteggiamenti dell'Italia romano-bizantina nei
confronti dei Longobardi.
Due brani di Paolo sono tradizionalmente considerati testi-chiave:
Costui [re Clefi] uccise molti uomini potenti, fra i Romani, con la spada, e altri [o: gli
altri] mandò in esilio dall'Italia. [...] [Dopo la sua morte,] in quei giorni molti nobili
romani furono uccisi per avidità. Gli altri vennero spartiti per hespites e obbligati a
essere tributati, cosi che dovettero versare un terzo dei loro raccolti ai Longobardi.
Il secondo brano è assai più breve, ed appare nel mezzo di un'esaltazione della felicità
dell'Italia sotto Autari: « Ma gli oppressi vennero spartiti fra i Longobardi in qualità di
hospites »2. I due brani non sono oscuri da un punto di vista linguistico: la parola
hospites è di certo imparentata con hospitalitas, l'uso secondo il quale alcune tribù, fra
2
Paolo, HL., 2. 31-2; 3. 16. Per un commento tipicamente pessimista e intelligente, cfr. Bognetti,
S.M.C., pp. 110.41; per controbilanciarlo: G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'ltalia del
secolo 7 (Bs-c), pp. 109-16.
cui gli Ostrogoti e i Burgondi, s'impossessavano di una porzione dei terreni (un terzo
o due terzi) per il mantenimento degli eserciti. Tuttavia appaiono criptici per chi
intende considerarli come una sorta di accurata guida sociologica. Nel primo testo, il
termine alii (« altri ») significa che tutti i romani potenti sopravvissuti vennero
esiliati, o che solo una parte di essi lo furono? E reliqui («il resto ») indica gli altri
nobili, o il resto della popolazione? Su questi problemi non è possibile dare una
risposta. Pur se questi brani furono fedelmente riportati da Secondo, cosa che non è
certa, e pur se Secondo, al sicuro nella sua remota valle di montagna, ne seppe
davvero molto sugli eventi relativi agli insediamenti longobardi, cosa altrettanto
incerta, i testi non riescono a dirci in modo sufficientemente dettagliato cosa accadde
ai Romani e, in particoIare, secondo quale protocollo (se mai ce ne fu uno) i
Longobardi organizzatono i propri insediamenti, e fino a che punto la classe dei
proprietari fondiari romani sopravvisse. La tendenza degli storici ad interpretare
l'impatto Iongobardo in modo assolutamente pessimistico, può venir controbilanciata
dalle testimonianze più indirette a nostra disposizione.
Come abbiamo visto, Gregorio Magno considerò i Longobardi quasi una astratta forza
di pura distruzione (almeno fino a che egli non costituì legami diplomatici con i
cattolici della corte di Agilulfo). Ma ci sono indicazioni secondo Ie quali non tutti i
suoi concittadini erano d'accordo con lui. Nel 592, i cittadini di Sovana, nefla Toscana
meridionale, promisero di arrendersi pacificamente ad Ariulfo di Spoleto. Nel 595,
Gregorio si lamentò del fatto che in Corsica le richieste dei giudici e degli esattori
erano così irragionevoli che i proprietari terrieri cercavano di passare dalla parte dei
Longobardi. Nel 599 pare qualcosa del genere succedesse anche a Napoli: « gli
schiavi di varr nobili, il clero di molte chiese, i monaci di vari monasteri, gli uomini di
molti giudici si sono arresi al nemico ». I contadini di Otranto avrebbero fatto la stessa
cosa se i tribuni locali non avessero cessato di sfruttarli3. Ovviamente, quei
comportamenti riflettevano teazioni diverse. E’ ben difficile che i contadini sull'orlo
della fame si lasciassero impressionare dalla reputazione dei Longobardi in merito
allo sfruttamento dei proprietari terrieri. Ma i cittadini di Sovana cercarono
probabilmente di evitare uno sconvolgimento sociale, piuttosto che assecondarlo. E i
proprietari terrieri corsi non possono aver creduto che i Longobardi avessero
l'intenzione di spogliarli delle loro proprietà e delle loro vite. L'esistenza di tali
atteggiamenti può venir certamente bilanciata da testimonianze opposte di difese
lunghe ed eroiche di città contro gli attacchi longobardi, e di occasionali rivolte contro
il dominio longobardo. La reazione romana ai Longobardi fu incoerente ma
significativa. Fu la reazione di una popolazione civile che cercò di evitare i guai
provocati da una guerra lunga e caotica. Troviamo simili esempi di resistenza e di resa
durante le Guerre Gotiche del quinto decennio del secolo VI o durante la conquista
araba della Siria nel quarto decennio del secolo VII. I Longobardi erano violenti e
barbari, ma almeno non imponevano tasse. Per molti, venir conquistati da loro era
meno grave che venir da loro combattuti. Come s'è visto, alcuni capi longobardi
furono disposti ad accordarsi individualmente con i Bizantini ed a combattere al loro
fianco. Questa sorta di compromesso si diffuse probabilmente, almeno per un certo
periodo di tempo, fra la popolazione romana dell'Italia. Quanto meno, non siamo in
grado di sostenere che i Longobardi abbiano perseguito una politica di sistematica
espropriazione delle classi che detenevano la proprietà fondiaria, e la pratica, meno
sistematica, di massacro e asservimento del contadinato.
3
Gregorio, Epp., 2. 33; 5. 38; 9. 205; 10. 5.
Le altre nostre fonti sono di solito più tarde, ma vanno tutte in una direzione, quella di
una rapida fusione culturale fra Longobardi e Romani. Ciò, come si vedrà, deve aver
comportato una complessa mescolanza della società, che sarebbe stata impossibile se
l'occupazione longobarda fosse stata radicale come la si è dipinta. E’ stato spesso
sostenuto che i Longobardi s'insediarono in libere comunità di guerrieri staccate dalla
popolazione romana, e i ritrovamenti archeologici parvero confermarlo4. La maggior
parte dell'archeologia « longobarda » consiste nel rinvenimento di luoghi di sepoltura
contenenti oggetti longobardi di metallo del VI-VII secolo, simili a quelli ritrovati
nella Pannonia degli inizi del secola VI, dove i Longobardi furono stanziati fino al
568. Complessi cimiteriali (compresi all'interno delle centinaia che costituiscono i siti
più vasti, quali Nocera Umbra in Umbria e Castel Trosino vicino ad Ascoli Piceno),
contenenti oggetti in metallo nella maggior parte delle tombe, han tutto l'aspetto di
singoli cimiteri per singole comunità longobarde. D'altra parte, se si eccettuano i più
antichi cimiteri del nord, una gran percentuale della ceramica ritrovata in tali tombe è
molto più simile sia nella forma che nel materiale a ceramica grezza tardo romana.
Forse i Longobardi imitarono i Romani: è evidente una qualche sorta di mescolanza di
culture. E, in efletti, un uomo o una donna che indossino una fibula di stile
longobardo non sono necessariamente longobardi, così come una famiglia di Vercelli
che possegga una Toyota non è necessariamente giapponese; i reperti artigianali non
sono guide sicure delle origini etniche5. La mescolanza stilistica dei manufatti, d'altra
parte, è una spia del contatto fra le culture. In uno dei rari scavi completi di un luogo
d'insediamento del periodo longobardo, la fortificazione di confine di Invillino, nelle
Alpi friulane, i ricercatori hanno trovato una tale mescolanza, con un gran predominio
di manufatti « romani », nonostante le caratteristiche militari del luogo. Contatti
sociali tra Longobardi e Romani sono suggeriti anche dalla scoperta di cimiteri «
longobardi » dentro le città o nella loro immediata periferia, ad esempio a Fiesole,
Brescia e Cividale6. Pare che i Longobardi abbandonassero ben presto la loro lingua,
forse prima del 700. I prestiti che si ritrovano nell'italiano si riferiscono per lo più ad
oggetti umili (di solito agricoli): greppia, melma, bica, schifo, gualdo. A1 tempo di
Paolo i Longobardi avevano anche già abbandonato i loro vecchi modi di vestirsi e
pettinarsi, che egli poté ritrovare soltanto grazie ai dipinti murali del Palazzo di
Monza: capelli lunghi separati nel mezzo, abiti di lino simili a quelli degli
Anglosassoni, con strisce multicolori. Adottarono invece gli usi romani sia per i
vestiti che per le calzature e i pantaloni7. Un tal progresso indica l'influsso culturale
romano sui Longobardi, che non sarebbe potuto avvenire se i Longobardi avessero
avuto contatti sociali con i Romani esclusivamente in qualità di padroni, con i
fittavoli, o di soldati, con la popolazione civile sottomessa. Esso pare invece
comportare una fusione dalla base di proporzioni piuttosto ampie.
4
Così pensava F. Schneider (B3-b), pp. 155-64, 177ss. (con i Romani sopravvissuti); S.M.C., pp. 141-9
(senza di essi).
5
Nella Grancia (prov. di Grosseto), da ottanta tombe (di cui circa dieci con oggetti di metallo
longobardi) è stata trovata un'arma soltanto. se si trattava di defunti longobardi, certo non si trattava
almeno di soldati. Cfr. O. von Hessen, Primo contributo alla archeologia longobarda in Toscana
(Firenze, 1971), pp. 53-80. Per le ceramiche: I. Baldassare, Le ceramiche delle necropoli longobarde di
Nocera Umbra e Castel Trosino, « Altomedioevo », I (1967), pp. 141-85.
6
G. Fingerlin et al., Gli scavi nel castello longobardo di Ib1igo Invillino (B3-6). Per i cimiteri nelle
città: SM, XlV (1973), pp. 1136-41; xv (1974), pp. 1118s., 112S.
7
Paolo, H.L., 4. 22; B. Migliorini, Storia della lingua italiana (Firenze, 19S8), pp. 79-80.
La fusione è ancor più evidente nelle fonti dell'VIII secolo. L'onomastica per esempio,
mostra una mescolanza assolutamente asistematica di forme longobarde e di forme
romane. Uno dei documenti più antichi in nostro possesso, relativo a Fortonato, un
proprietario terriero lucchese dal chiaro nome romano, e risalente al secondo decennio
dell'vIII secolo, elenca anche i cinque Egli di lui: Benetato è un nome romano, ma
Bonualdo, Rodualdo, Radualdo e Baronte sono indiscutibilmente nomi longobardi.
Altre famiglie mostrano simili mescolanze. In casi estremi si trovano elementi
longobardi e romani nello stesso nome, come accade per Daviprando (a Lucca nel
774) o Pauliperto (nella cerchia di Carlomagno nel 788). Giovanni Tabacco ha
mostrato come i nomi longobardi superano quelli romani (quasi il doppio) nei
documenti del regno longobardo relativi a proprietari terrieri e soldati; ma le sue
conclusioni, secondo le quali gli elementi etnici longobardi dominavano
completamente quei gruppi, sono piuttosto ridimensionate dal fatto che anche un gran
numero di schiavi avesse nomi longobardi8. Non è possibile che i Longobardi fossero
diventati l'intera popolazione; dobbiamo dedurne che l'influsso culturale dei loro usi
relativi all'onomastica aveva penetrato la società romana da cima a fondo.
La mescolanza fra Romani e Longobardi si può rintracciare chiaramente nel campo
del diritto. I1 diritto romano continuò ad esistere. I1 diritto longobardo lo menzionò
raramente, ma i re legiferarono soltanto per i loro sudditi longobardi; le allusioni fatte
da Liutprando al diritto romano dimostrano che esso era stato mantenuto in vigore con
pari importanza. I1 diritto individuale longobardo cominciò ad essere influenzato dal
diritto romano nell'VIII secolo, ma solo marginalmente (cfr. pp. 62-63). D'altra parte,
i pochi Romani che si dichiararono esplicitamente tali nell'VIII secolo avevano
adottato tutti usanze che appartengono propriamente solo alla legge longobarda, come
accadde a Felex di Treviso, il quale cedette delle proprietà alla figlia nel 780,
accettando in cambio « un fazzoletto, come launigild, secondo la legge romana ». Ma
il launigild era concetto tipicarnente longobardo, che si riferiva allo scambio di doni,
ovvero al contro dono che rendeva valido il primo secondo la legge longobarda9. La
cosa non deve sorprendere molto. I1 diritto romano scritto si dev'essere fossilizzato
dopo il 568, per gli abitanti dell'Italia longobarda, e i re legiferavano solo per i
Longobardi, mentre la legislazione romana diveniva inadeguata ad affrontare la
situazione radicalmente nuova dello stato longobardo. L'unica soluzione era quella di
prendere a prestito il diritto altrui, e quello longobardo era il più accessibile. Tali
prestiti devono essere stati molto comuni, infatti non è possibile distinguere tra una
tradizione legale longobarda ed una romana nei documenti che si riferiscono ad atti
giuridici di italiani di ogni livello sociale.
Ma l'influsso non fu comunque unidirezionale. Le leggi che governavano i rapporti
interpersonali nel secolo VIII sembrano avere avuto uno stampo decisamente
longobardo. Le leggi sulla proprietà, invece, rimasero saldamente romane. Gianpiero
Bognetti pare avere sostenuto a volte anche il concetto longobardo di proprietà, di
possesso diretto (gewere), di solito da parte di una collettività (fara: si veda qui di se.
guito a pp. 152ss.), si sostituì talmente al sistema romano della proprietà che qualsiasi
8
Per Fortonato: Schiaparelli, 16. Per i nomi misti: Schiaparelli, 287, Chronicon Salernitanum, c. 25 (a
cura di U. Westerbergh, Stoccolma, 1956). Per gli schiavi: cfr., per esempio, Schiaparelli, 154. G.
Tabacco, Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda (B4), pp. 228-34.
9
Storia del diritto italiano. Il diritto privato, III, a cura di P.S. Leicht (Milano' 1948), pp. 193-4; cfr.
Rotari, 175.
proprietario terriero residente lontano dalle sue terre fu automaticamente spodestato
dal codice longobardo. Ma ciò è davvero eccessivo. Ernst Levy ha dimostrato che la
legge tardoromana sulla proprietà era già così simile al concetto di genere che
quest'ultimo pottebbe essersi addirittura formato per l'influsso della prima. Fin dal
codice di Rotari, la proprietà terriera è interamente privata e basata, pare, su norme
legali romane. Nelle documentazioni dei secoli VI-II e IX in nostro possesso, le forme
della proprietà sono, salvo rarissime eccezioni, totalmente romane. Le forme meglio
documentate di possesso, proprietà e affittanza sono strettamente imparentate ai
concetti giuridid tardoromani, e quasi identiche alle forme in vigore allora a Ravenna,
dove non si può presumere vi fosse un influsso longobardo10.I1 perdurare del concetto
romano di proprietà sembra più logico se si postula anche il perdurare di proprietari
romani.
Abbiamo già osservato altri aspetti dell'influsso romano sui Longobardi: la nozione
longobarda dello stato e del suo ruolo amministrativo, per esempio; la distinzione fra
pubblico e privato. E, in parte come risultato del perdurare della tradizione
amministrativa romana, l'aristocrazia longobarda si trasferì nelle città e seguì i
modelli delI'aristocrazia urbana dell'Impero. E’possibile verificare ciò sin dai primi
anni dell'insediamento: già verso il 574, un gran numero di città romane ebbero duchi
longobardi; nel 585, quando i Franchi invasero l'Italia, le città furono le roccaforti
naturali dei Longobardi. Come s'è visto, ci sono testimonianze archeologiche della
presenza dei Longobardi nelle città. All'inizio, tale occupazione delle città può essere
stata esclusivamente militare. Ma già durante il regno di Cuniperto, quando Paolo
finalmente ci fornisce un resoconto abbastanza dettagliato, a Brescia, e probabilmente
a Pavia, Vicenza e parecchie altre città, vi sono cittadini che sono aristocratici
longobardi senza alcuna carica ufficiale11. L'attrazione della vita urbana e le sue
conseguenze economiche verranno discusse in un prossimo capitolo; ma tutto ciò
sarebbe stato inconcepibile senza la continuità della presenza dei cittadini romani e
dell'ideologia urbana che essi perpetuarono. Anche nelle città, poi, diventa
impossibile, a partire dal secolo VIII, distinguere i Longobardi dai Romani.
L'invasione longobarda dell'Italia fu ovviamente violenta, ma ciò accadde in parte
proprio perché fu disorganizzata. Ogni regione deve averne ricevuto una diversa
impressione. L'insediamento longobardo variò in intensità: più forte attorno a Milano
e Pavia, Brescia e Verona, e nel Friuli; meno forte nell'Emilia occidentale e attorno a
Lucca; quasi inesistente più a sud. Cominciano ad apparire anche differenze regionali
non direttamente dovute ai Longobardi. Sin dal 700, nei documenti e contratti in
nostro possesso, ogni area italiana ha le proprie tradizioni e caratteristiche locali, la
sua particolare gerarchia sociale, le sue formule legali, i suoi pesi e le sue misure. Ciò
può indicare lo sviluppo separato di diverse località dopo il 568, o, più probabilmente,
la prima chiara testimonianza deLte profonde divergenze locali che i Romani non
avevano mai sradicato. Ma indica anche che era improbabile una riorganizzazione
sistematica della società da parte dei Longobardi. La maggior parte del contadinato, la
massa della società, era e rimase romana: un singolo documento pistoiese del 767
allude addirittura ai fittavoli col nome di romani. Ma i Longobardi ebbero pure
10
Bognetti, S.M.C., capitolo 1. 8; La proprietà della terra, E.L., IV, pp. 76ss.
Ma cfr. E. Levy (4), pp. 87-99, 187ss. Per alcune eccezioni: per esempio Schiaparelli, 49 (730).
11
Paolo, H.L., 2. 32; 3. 17; 5.38-9.
schiavi propri, i liberti e i semiaffrancati, come mostra l'editto di Rotari, e questi,
come si vedrà, vennero assorbiti all'interno delle classi inferiori romane. L'infiusso
romano sulla società dell'VIII secolo implica la sopravvivenza in misura rilevante
delle dassi di proprietari terrieri romani, dai proprietari di piccoli fondi ai grandi
proprietari dimoranti in città. Un chiaro esempio di quest'ultimo gruppo è
rappresentato dal nobile pavese Senatore, figlio di Albino, che fondò un monastero a
Pavia nel 714 con terreni donatigli in parte dal re12.
L'insediamento longobardo non produsse, quindi, un mutamento radicale della
struttura sociale. Certamente, molti proprietari terrieri romani furono spodestati per
avidità, come afferma Paolo, ma ne devono essere sopravvissuti abbastanza da
assicurare il predominio dell'ideologia romana relativa alla proprietà nei secoli
seguenti, così come accadde per le caratteristiche romane nel sistema governativo
monarchico di cui si è visto nel capitolo precedente. La pretesa parità fra legge
romana e legge longobarda affermata da Liutprando mostra che non vi era
necessariamente distinzione fra ranghi sociali derivante dall'essere longobardi e
romani, pur se non v'è dubbio che la maggior parte dei Romani erano contadini
dipendenti e che una gran percentuale dei Longobardi non lo era. In alcuni luoghi può
anche darsi che i Longobardi praticassero il sistema a cui fa riferimento Paolo, della
bospitalitas, ma non ci è possibile verificarlo. Non furono comunque tanto numerosi
da distruggere le gerarchie sociali italiane, e la loro veloce fusione con i Romani deve
suggerirci che non riuscirono a farlo. Quando arrivarono i Franchi, Longobardi e
Romani erano assai più simili gli uni agli altri di quanto essi non lo fossero nei
confronti degli invasori settentrionali.
La caratteristica della società longobarda che era, e rimase, unicamente longobarda fu
l'ideologia del popolo guerriero connessa con l'immagine di una società di uomini
liberi e di aristocratici. Tabacco ha mostrato come nelle leggi di Liutprando, «soldato»
(exercitalis, o l'equivalente longobardo latinizzato arimannus) è usato come
equivalente di « proprietario » e di «uomo libero » (liber homo). ciò non significa che
i tre termini fossero esatti sinonimi. C'eran già nell'VIII secolo degli uomini liberi che
avevano perduto le loro proprietà o che non ne avevano avuta mai alcuna (cfr. pp. 141
ss.), e non erano sempre sottoposti all'obbligo del servizio militare (cfr. pp. 177 ss).
Né fu vero che i proprietari dovessero essere necessariamente longobardi. Ma
Tabacco sostiene che nell'insieme lo erano, poiché i re presumevano (come accadde
spesso, anche nel periodo carolingio), che « Longobardo » e « proprietario libero e
armato » significassero più o meno la stessa cosa. Lo stato, il regnum
Langobardorum, pur se romano in ogni suo lineamento, era quel che il suo nome
diceva: dei Longobardi e basta.
Non vi è indizio di un'imponente assimilazione giuridica e militare di una libera
popolazione romana da parte dei Longobardi. Dunque, lo sconvolgimento delle
condizioni del possesso alla fine del VI secolo fu più vasto e radicale di quanto
l'annientamento dell'aristocrazia romana già facesse supporre13.
Sotto tale aspetto, lo stato longobardo ottenne senz'altro un'indiscutibile vittoria
ideologica; i Romani divennero socialmente marginali ad ogni livello. Ma Tabacco
12
13
Per il nome romani: Schiaparelli, 206. Per il senatore: Schiaparelli, 18.
Tabacco, La storia politica e sociale, cit., p. 62; cfr. « Dai possessori... », Cit.
deve essersi sbagliato nel desumere da ciò l'allontanamento dell'aristocrazia romana, e
ancor meno del contadino proprietario di terre. La proprietà terriera fu nell'VIII secolo
l'unico criterio che distinguesse in pratica il rango sociale. Ma, in un periodo in cui lo
stato è forte e influente, il rango sociale dipende quasi completamente, nelle sue
forme, dalla struttura e dall'ideologia dello stato stesso. Un proprietario terriero
romano non avrebbe trovato vantaggioso comportarsi come Boezio. Status sociale e
onori dipendevano dalla capacità di combattere, e probabilmente di professare
l'adesione alla legge longobarda. Nel Medio Evo era possibile mutar le leggi
abbastanza facilmente... cosa da cui derivò, senz'altro, la scomparsa degli Ostrogoti. E
da ciò derivò anche, nel XII secolo, la rapida vittoria (poco più di due generazioni) del
diritto romano, modifcato, sul diritto longobardo.
La 'franchizzazione' dell'aristocrazia romana nella Gallia del VI e VII secolo è cosa
risaputa e ben documentata: dapprima nel costume (il servizio militare, e la crescente
violenza del comportamento di cui si lamenta Gregorio di Tours), poi nell'onomastica,
infine nel diritto. Nell’VIII secolo c'erano solo Franchi a nord della Loira. La
trasformazione pacifica dell'aristocrazia nell'Italia bizantina è altrettanto evidente,
come si vedrà. Trasformare l'intera forma della società aristocratica e dei suoi valori,
per una ideologia dominante è più facile di quanto non ritenga Tabacco. Viceversa,
mutano meno facilmente le realtà economiche relative alla proprietà fondiaria. Al
tempo del regno di Astolfo, a quanto sembra, il criterio determinante gli obblighi delle
prestazioni rnilitari era divenuto la proprietà pura e semplice, indipendentemente dalla
matrice etnica14. E, pur se persistette l'immagine longobarda del guerriero armato e
libero, nel periodo carolingio la prestazione militare cominciò ad escludere
gradualmente i poveri, come si vedrà.
L'occupazione franca, dopo il 774, non venne ad alterare questo predominio
longobardo, pur se contribuì alla fusione fra Longobardi e Romani in quanto
popolazioni italiane indigene: gli Italiani. Un formulario del secolo XI esprime la
prossimità nella procedura legale dei Longobardi e dei Romani in contrasto con quella
degli invasori nordici. Negli atti di vendita dei terreni, ad esempio, i Longobardi e i
Romani dovevano allegare un documento contenente certe formule che esplicitavano
gli obblighi legali derivati dall'assunzione della somma pattuita. Inoltre, per i
venditori franchi, visigoti, alemanni, bavaresi e burgundi c'era l'obbligo di « porre il
contratto per terra, e gettare su di esso un coltello [con l'eccezione dei Bavaresi e dei
Burgundi], un bastone segnato, un guanto, una zolla di terra, il ramo di un albero, e un
calamaio ». I1 formulario include anche elaborazioni abbastanza tarde, ma sappiamo
che Franchi e Alemanni eseguirono tali riti, come risulta da contratti del IX secolo15.
La nuova immigrazione fu per due terzi franca, e per circa un terzo alemanna
(particolarmente a Verona); gli altri gruppi costituirono entità assai inferiori. Abbiamo
già visto come i Carolingi nominassero dei Franchi in incarichi ufficiali della
gerarchia secolare. I conti e la maggior parte dei missi furono per lo più franchi
nell'Italia settentrionale fino alla metà del X secolo, ma i Longobardi riapparvero
presto nella Toscana meridionale e a Spoleto, dove i Franchi non si insediarono mai.
Un insediamento di piccoli aristocratici e di soldati franchi nella fascia di terra in
14
15
Astolfo, 2, 3.
MGH Leges, IV, p. 595; cfr. R. Bordone, Un'attiva minoranza etnica nell'alto medioevo (B3-f).
Hlawitschka (B3-c) rappresenta il testo fondamentale per capire l'insediamento franco.
fondo ai maggiori passi alpini fra Pavia e Verona, e in altre zone strategiche (Asti,
Piacenza, e in minor misura Lucca), per lo più aristocrazia rurale, è ben documentato.
Di raro li troviamo nelle città, se non nelle loro vesti di funzionari, e a ciò è dovuto in
parte il fatto che i Franchi, con l'eccezione delle famiglie più prestigiose, non ebbero
influsso locale sufficiente a divenir vescovi. I vescovi non eletti dai re provenivano
generalmente da farniglie longobarde.
All'interno delle classi dei proprietari terrieri, i Longobardi (e i Romani) superarono di
gran misura i Franchi (e gli Alemanni); nelle classi inferiori, probabilmente, i Franchi
erano del tutto assenti. Ma, come s'è visto, per i Longobardi l'essere in pochi non
costituì uno svantaggio due secoli prima, quando erano essi diventati il gruppo sociale
predominante. Tuttavia, come s'è detto nel capitolo precedente, i Carolingi non
franchizzarono lo stato, ma solo i suoi funzionari, particolarmente nel governo locale
e nel comando degli eserciti. I Longobardi, se non si ribellavano, non erano privati
delle loro terre. Sin dalla penultima decade dell'VIII secolo figurano come vassalli
alla corte del Re Pipino. Non furono più i maggiori benefciari del favore del re, e ciò
indeboli forse la loro posizione, soprattutto durante il regno di Lotario, ma a partire da
Lodovico II i Longobardi ricominciarono a godere dell'interessamento reale. Per
esempio, gli Aldobrandeschi furono una famiglia longobarda di Lucca: dopo l'800,
cominciarono ad accumulare proprietà nella Toscana meridionaie, comprandole o
affittandole, stabilendo una base per un forte potere locale protetto dai rivali dalla
distanza, proprio negli anni in cui gli aristocratici longobardi godettero del minimo
appoggio da parte del re. In tal modo, la famiglia si trovò in posizione eccellente
allorché Lodovico volle controbilanciare il potere di Adalberto I nella Toscana
settentrionale: Geremia divenne vescovo di Lucca, suo fratello Eriprando missus
imperiale, e il terzo fratello, Ildebrando, conte. Successivamente Geremia cedette o
aífittò ai suoi fratelli tutta la proprietà episcopale nella Toscana meridionale,
permettendo loro di stabilire una potenza familiare immensa che durò cinque secoli16.
Né si trattò, con gli Aldobrandeschi, di un caso isolato. Gran parte della « nuova »
nobiltà della Toscana del x secolo può venir fatta risalire alle famiglie Iongobarde del
secolo VIII grazie all'eccezionale documentazione che abbiamo della Lucca
altomedievale. La stessa cosa valse, per lo più, per gli aristocratici longobardi
settentrionali del X secolo. I quadri delle dassi superiori rimasero longobarde, in
particolare quelle relative alla posizione di arimanni, i liberi guerrieri, pur se tale
rango includeva allora anche dei Franchi. Le potenti famiglie comitali francesi si
trovarono a doversi infiltrare entro una cornice ancor essenzialmente immutata dai
tempi dei re longobardi. I1 perno dell'attività sociale rimaneva la città, diversamente
da quanto accadeva al nord delle Alpi, e le riforme amministrative carolinge
contribuirono a rafforzare tale tendenza. Laddove le famiglie franche non si
inurbavano, come accadde nella maggior parte dei casi, divenivano socialmente
marginali. Giacché i Carolingi non cercarono di alterare le fondamenta ideologiche e
le basi materiali dello stato, le famiglie aristocratiche longobarde non dovettero
divenire franche per sopravvivere, come era accaduto ai loro predecessori (e forse
antenati) romani. Anche se avessero dovuto farlo, alcuni degli elementi basilari della
struttura sociale, quali la tendenza degli aristocratici ad inurbarsi, sarebbero
sopravvissuti.
16
Cfr. il breve resoconto in G. Rossetti, Società e istituzioni nei secoli 9 e 10: Pisa, Volterra,
Populonia, 5° Congresso, cit., pp. 296ss.
Lo sviluppo sociale dell'Italia bizantina conferma alcune osservazioni già fatte su
Longobardi e Franchi. Le principali zone italiane che i Longobardi non riuscirono mai
a conquistare pienamente furono 1'Esarcato di Ravenna (o meglio, Esarcato e
Pentapolis) ed il ducato di Roma. Venezia, l'Istria e Napoli furono pure esenti da tali
occupazioni, come accadde per le zone più greche del sud, di cui si parlerà nel
capitolo sesto. L'Esarca era il governatore civile e militare dell'Italia sin dal tardo
secolo VI, speditovi da Costantinopoli e mutato con grande frequenza. L'Italia era
distante dalle province centrali dell'Impero, e se ai governanti locali fosse stato
concesso troppo tempo per ambientarsi, avrebbero potuto finire col ribellarsi—come
in effetti accadde nel 619 e nel 651. I Romani e i Ravennati non erano sudditi facili,
poi, e seri disordini locali si verificarono più di dieci volte fra il 600 e la conquista
dell'Esarcato da parte di Astolfo nel 75117.
La struttura sociale delle aree bizantine per le quali abbiamo una migliore
documentazione, Ravenna, Roma e Napoli, discendeva direttamente da quella di
Roma, senza alcuna rottura del tipo causato in altri luoghi dagli insediamenti
longobardi. Verso l'anno 700, però, era mutata fino ad essere irriconoscibile ed
assomigliava, piuttosto, a quella dello stato longobardo. Per almeno un aspetto
importante, la somiglianza era superficiale: nell'Esarcato lo stato continuava ad
imporre le tasse, e con quelle manteneva un'amministrazione complessa e un esercito
(pur se dopo la metà del secolo VII la paga che l'esercito riscuoteva in Italia era
probabilmente molto bassa in confronto alle rendite che riceveva dai terreni di sua
proprietà). Le tasse erano piuttosto alte, almeno agli inizi. Le proprietà della chiesa di
Ravenna in Sicilia ai tempi dell'arcivescovo Mauro (642-73) rendevano 50.000 modia
di grano (e altro reddito in natura), e 31.000 solidi d'oro. Di questi ultimi, ben 15.000
se ne andavano in tasse18. D'altra parte, è assai probabile che proprietari terrieri meno
responsabili fossero in grado di evadere le tasse (come accadde nel V secolo) e ciò
sembra particolarmente probabile per i soldati. L'Italia bizantina, diversamente dalla
tarda romanità, non manteneva una gerarchia militar-amministrativa distinta
dall'aristocrazia civile. La struttura dello stato si era semplificata, e l'élite al potere
completamente militarizzata. Tale processo era iniziato fin dai tempi degli Ostrogoti,
come si è visto nel capitolo primo; dinanzi alle pressioni delle invasioni longobarde,
divenne ancor più rapido. I capi dei numeri, o unità militari, divennero predominanti
figure sociali, i senatori si trasferirono a sud, in Sicilia, dove si trovavano ancora nel
VI secolo, e ad oriente, a Costantinopoli. Verso la fine del VI secolo, la Curia, il
consiglio cittadino, non esisteva più in alcuna città bizantina del nord, eccetto forse
Ravenna. Solo a Napoli, che non dovette temere alcuna seria minaccia longobarda
fino alla fine del secolo VI, la militarizzazione della società si compì piuttosto tardi.
Gregorio Magno descrive le fazioni delle città che si distinguevano a seconda della
loro associazione od opposizione ai vescovi, in una tradizione tipicamente
tardoromana19. Napoli era città prospera, e la sua base rimase essenzialmente civile. I
soldati costituivano una minoranza, e la Curia sopravvisse fino al X secolo, pur se già
nell'VIII secolo il comandante militare, console (o duca), fu il governante
incontrastato di Napoli.
17
Per l'Esarcato: A. Guillou (B3-b), e particolarmente T.S. Brown, The Church of Ravenna and the
imperial administration in the 7th century, e il suo libro di prossima pubblicazione (A3-b).
18
Agnello, c. 111
19
Gregorio, Epp., 2. 12, 18; 3. 1, 2, 60; 9. 47, 76.
Mano a mano che i vertici della società bizantina corrispondevano sempre più ai
vertici militari, l'aristocrazia civile perdeva il proprio status. Pur continuando ad
esistere, in quanto la distinzione fra gerarchia civile e gerarchia militare venne
scrupolosamente mantenuta, i suoi membri più autorevoli penetrarono tra i ranghi
dell'esercito. Viceversa, soldati di tutti i ranghi militari, ricorrendo ai loro legami con
la ricca rete di protezionismi, basata sul sistema fiscale, che copriva l'intera
amministrazione (e, come si vedrà, anche la Chiesa), riuscivano facilmente a divenire
proprietari terrieri, tramite acquisti, matrimoni, aífitti o mezzi meno leciti. Verso il
700, la maggior parte dei grandi proprietari terrieri era costituita da militari.
L'esercito del tardo secolo VI era di provenienza in massima parte orientale, e la sua
origine sociale è evidente nei testi a nostra disposizione. Nel 591, Tzita, appartenente
al numerus dei Perso-Armeni, era sposato con un'appartenente alla classe dei
proprietari terrieri (suo suocero Felice era defensor della chiesa di Ravenna)20.
L'onomastica, come era accaduto nell'Italia longobarda segul questi infIussi. Nel
secolo VII, quasi la metà dei nomi registrati nei documenti ravennati sono di origine
orientale. Le complesse regole dell'onomastica del l'Impero Romano svanirono. Oltre
a questi nomi orientali (e ad alcuni residui di nomi goti), c'erano molti che si
chiamavano semplicemente Stefano, Giovanni o Sergio, con i nomi dei santi. Diventa
piuttosto difficile seguire la storia delle famiglie nel secolo VII, come succede anche
per l'Italia longobarda, pur se gli antenati di tribuni o giudici di nome Giovanni, nella
Ravenna dell'VIII secolo, avrebbero potuto essere aristocratici ravennati del secolo
VI, i Melminii o i Pompilii. Tale sviluppo nell'onomastica è di certo collegato in
qualche modo con la militarizzazione della gerarchia sociale, poiché nell'esercito
l'onomastica non era mai stata cosl complessa; comunque, esso non indica una vasta
immigrazione orientale. Né i nomi orientaleggianti del VII secolo, né quelli derivati
dai santi nei secoli VII e VIII, indicano l'affermarsi di famiglie nuove, pur se ve ne
furono senz'altro alcune. Non è possibile d siano mai stati molti orientali in Italia; di
certo costituivano una porzione di popolazione inferiore di gran lunga persino a quella
costituita dai Longobardi nell'Italia longobarda. Nel VII secolo, in effetti, anche se il
numero dei nomi orientali continuava ad essere piuttosto alto, l'immigrazione era già
cessata. I Bizantini ebbero bisogno di tutti i soldati che poterono reperire per le guerre
contro i Persiani e contro gli Arabi. I1 reclutamento militare in Italia tornò ad avere
base locale: nuovi numeri vennero costituiti in città italiane, Rimini, o Fermo, o Nepi.
Ma l'influsso militare orientale aveva già avuto i suoi effetti. L'intera terminologia
dell'organizzazione sociale si era militarizzata: gli abitanti di Comacchio, alla
frontiera, venivano chiamati milites, « soldati », persino dai Longobardi; l'intero
corpo cittadino triestino veniva definito un numerus nel caso giudiziario di Rizana
nell'804.
La militarizzazione dell'immagine sociale ha notevoli paralleli con l'Italia longobarda,
in cui i governanti locali erano duchi, e i comuni uomini liberi avevano titoli militari
quali vir devotus. La popolazione di Siena nel 730 venne definita un esercito
(exercitus)21 L'esercito longobardo e la sua gerarchia compenetravano l'intera società,
proprio come l'esercito bizantino, ma ciò non significa, in nessuno dei due casi, che
20
21
G. Marini, I papiri diplomatici (Roma, 1805), n. 122.
LM. Hartmann (BSb), pp. 123-4, per Comacchio; Manaresi, 17, per Trieste; Schiaparelli, 50, per
siena.
l'intera società servisse nell'esercito. Nell'Italia bizantina, in effetti, l'esercito era
divenuto una vera élite di professionisti, e i Triestini, a Rizana, come si vedrà, stavano
solo appellandosi contro la prestazione militare da rendere ai loro nuovi padroni
franchi, e solo in teoria costituivano un numerus. Questi mutamenti della terminologia
dimostrano soltanto una trasformazione dell'orientamento, e fino a un certo punto
dell'ideologia, dei ranghi sociali più elevati. I capi della gerarchia sociale avevano
incarichi diversi, diverse funzioni e diversi nomi dei loro predecessori. Ma la base di
quella leadership continuava ad essere la terra, e almeno alcune delle principali
famiglie delI'Italia bizantina devono essere ancora state le stesse che nei secoli V e
VI, anche se sotto diverse mascherature, pur se ci furono alcune famiglie nuove, sia
orientali che indigene. Il fatto che una tal completa trasformazione potesse avvenire
pacificamente dovrebbe dimostrare che qualcosa del genere avrebbe potuto verificarsi
anche tra i Longobardi. In entrambi i casi l'aristocrazia civile romana cessò di essere
politicamente influente. Alcuni dei suoi membri affondarono, espropriati (almeno
nell'Italia longobarda), esuli a Costantinopoli o in Sicilia, o incapaci di conservare il
possesso di proprietà sparse in troppe zone teatro di guerra. Molti altri, però,
scamparono divenendo membri di questa nuova élite, accanto ad aristocratici militari
bizantini o longobardi, o a semplicissimi soldati affermatisi in battaglia: fusioni
attuate spesso con matrimoni, dopo dei quali le differenze d'origine cessavano di
contare.
Per un altro aspetto, la società del VII secolo a Ravenna, Roma e Napoli, fu diversa da
quella dell'Italia longobarda (anche se le città longobarde sarebbero giunte agli stessi
risultati in due o tre secoli): il ruolo della Chiesa. Si è visto come nell'Italia
settentrionale tardoromana i vescovi divenissero importanti elementi
dell'amministrazione civile. Con i Longobardi cessarono di esserlo, e anche quando i
Longobardi accettarono il cattolicesimo rimasero politicamente marginali, almeno a
livello nazionale. Nelle città bizantine, però, ciò non accadde. A Roma i Papi
possedevano già vastissime terre e, col crollo del Senato, si assunsero decisamente il
governo della città nel VI secolo, mantenendo la popolazione con distribuzioni di
grano. Anche gli arcivescovi di Ravenna avevano cominciato ad accumulare terreni,
in particolare successivamente a parecchie generosissime concessioni imperiali (in
alcuni casi come corrispettivi di prestiti), dal 550 in poi. Nel VII secolo l'arcivescovo
fu secondo soltanto all'Esarca, nd potere; di solito i due collaboravano strettamente,
con reciproco vantaggio (diversamente dai conti e dai vescovi catolingi, e
diversamente da Papa ed Esarca, con le loro tempestose relazioni). Gli enormi
possedimenti del Papa e dell'arcivescovo rappresentavano direttamente un potere
politico ed economico vastissimo. Rappresentavano anche, però, l'occasione per
esteso clientelismo. Dal VII secolo in poi, sia a Ravenna che a Roma, gli aristocratici
militari cominciarono a prendere in affitto terreni della Chiesa. In alcuni casi la
Chiesa non aveva scelta. L'alternativa al concedere un terreno in affitto (per una cifra
fissa, sovente nominale, per diverse generazioni), spesso era la perdita totale di esso,
ma queste concessioni in affitto comportavano l'acquisizione di un appoggio politico,
che a volte veniva esplicitamente richiesto per iscritto nel contratto22. Una famiglia
nobile era in grado di accumulare una notevole proprietà fondiaria tramite i contratti
di aditto, in un'epoca in cui in altre parti d'Italia i contratti d'affitto erano concessi
soltanto al contadinato. In tal modo la Chiesa si legava strettamente alle fortune
politiche dei suoi nuovi aristocratici affittuari. Gli arcivescovi di Ravenna furono
22
Agnello, c. 152.
spesso scelti nell'ambito di quelle famiglie; e così cominciò ad accadere anche un po'
più tardi, dal 750, per i Papi. A Napoli, a partire dal tardo secolo VIlI, solo una o due
famiglie prevalsero, fornendo di solito dalle loro file sia il vescovo che il duca
console; a volte, come accadde con Stefano II (754-800) e soprattutto con Atanasio II
(876-898), la stessa persona copri entrambe le cariche23. Ovviamente, Napoli aveva un
territorio piccolo, e offriva poche occasioni perché si potesse costruire una complessa
rete di famiglie nobili. Le famiglie della fine del secolo VI persero probabilmente la
loro base fondiaria allorché i Longobardi conquistarono il resto della Campania. Le
altre città-stato bizantine dei secoli VIII e IX ed oltre mostrarono simili
sovrapposizioni di incarichi laici ed ecclesiastici all'interno delle famiglie principali: a
Gaeta, ad Amalfi, e anche a Venezia, con l'egemonia nel IX secolo della famiglia dei
Partecipazio, che divenne la più antica grande dinastia veneziana. In tutta l'Italia
bizantina, infatti, l'importanza della Chiesa si specchiava negli stretti legami di questa
con la gerarchia sociale cittadina. Nell'VIII secolo, anche in alcune città longobarde,
cominciò a rivelarsi un fenomeno simile; i vescovi di Bergamo e di Lucca erano ben
visibilmente degli aristocratid. Quando, nel IX secolo, le chiese cominciarono ad
affittare i loro terreni agli aristocratici, I'intero fenomeno diviene visibile. Col X
secolo, come si vedrà, gli affittuari dei terreni della Chiesa costituirono la nuova
aristocrazia, e divennero spesso vescovi loro stessi, come era successo a Ravenna nel
secolo VII.
Lo stato bizantino in Italia fu più complesso del suo vicino longobardo-carolingio.
Ciò appare benissimo nel caso giuridico di Rilana nell'804, nel quale gli abitanti
dell'Istria e delle sue nove città, recentemente conquistate dai Franchi, si lamentano
per le imposizioni introdotte dal nuovo governatore, il duca franco Giovanni.
Elencano i privilegi goduti precedentemente, e i doveri precedentemente prestati allo
stato bizantino. E invece, Giovanni stera impadronito di terre, aveva modificato le
usanze, e s'era arrogato diritti fiscali. Tra le altre cose, gli Istriani si videro sottratti i
loro diritti di pesca nel mare e di pascolo nelle selve pubbliche. Le loro gerarchie di
funzionari, le posizioni di tribuno, domesticus, vicarius, e hypatus (console), erano
state eliminate o assunte da Franchi; alcuni Istriani furono obbligati a servire
personalmente nell'esercito, assieme ai propri schiavi; Giovanni aveva cominciato a
pretendere lavori di corvée alla maniera franca, e continuava a chiedere tributi fiscali
(344 solidi mancusi dalle nove città) che teneva per sé.
A tutti questi obblighi noi siamo forzati con la violenza, e mai era accaduta cosa del
genere ai nostri avi; i nostri parenti e vicini, a Venezia e nella Dalmazia, che sono
ancora sotto il dominio greco, come noi fummo prima, ci deridono. Se l'imperatore
Carlo ci aiuta, possiamo sopravvivere; se non ci aiuta, per noi è preferibile la morte
alla vita.
Giovanni, nel difendersi, sostenne che la cosa era successa in gran parte per il fatto
ch'egli non era a conoscenza delle usanze dell'Istria, e che ovviamente avrebbe fatto
ammenda e non avrebbe più imposto lavori di corvée. Se poi lo fece o no, è per noi
sconosciuto24. I1 quadro che si ottiene da quel caso giuridico, con tutti i suoi
complicati dettagli, è quello di un Franco spietato e incolto che pesta rozzamente i
23
24
Giovanni Diacono, Gesta episcoporum neapolitanorum, c. 42 (S.R.L., p. 425).
Manaresi, 17; resoconto e commento in Guillou (B3-b), pp. 294-307.
suoi piedi su un organismo dall'equilibrio delicatissimo, retto dalle convenzioni
sociali, almeno nella forma in cui la memoria degli Istriani le idealizzava
deliberatamente. Ma alcune cose erano già mutate: i 344 solidi, se costituivano il
residuo dell'imposta fondiaria, rappresentavano una frazione di quella romana. Sotto
tale punto di vista lo stesso stato bizantino si era semplificato. Gli incarichi che gli
Istriani avevano perduto avevano i loro equivalenti nello stato longobardo-carolingio,
pur se con una gerarchia meno comp]icata. Le strutture della società, che
esamineremo nei prossimi due capitoli, erano verso l’800 più o meno le stesse dalle
due parti dei confini, in Italia. Le linee di sviluppo erano pure simili, anche se la
velocità dello sviluppo variava da un posto all'altro. E in nessuna delle due parti venne
a introdursi nel tessuto sociale qualche differenza dovuta all'immigrazione. Se alcuni
immigrati si sostituirono a singoli Romani, non alterarono comunque le strutture
socioeconomiche della vita italiana. Solo insediamenti di massa avrebbero potuto
farla e di questi, come si è visto, non ve ne furono. L'economia italiana altomedievale
era in ogni suo importante aspetto l'erede diretta di quella dell'Impero.
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