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Capitolo terzo ROMANI, LONGOBARDI, FRANCHI E
Capitolo terzo ROMANI, LONGOBARDI, FRANCHI E BIZANTINI Gli Ostrogoti svanirono senza lasciar traccia; non fu cosi per i loro successori. Verso l'anno 900, l'Italia era divenuta una complicata mescolanza etnica. La massa della popolazione era romana d'origini, pur se i Romani appaiono raramente come tali nelle nostre fonti. A1 loro fianco troviamo i Longobardi, in ogni livello sociale, ma particolarmente nell'aristocrazia; e nell'aristocrazia compaiono anche immigrati più recenti: Franchi e Alemanni, e alcuni Burgundi e Bavaresi. Anche nelle aree italiane mai conquistate dai Longobardi troviamo nuovi arrivati, stavolta dal Mediterraneo orientale. L'Italia bizantina, però, costituiva il margine occidentale di un Impero che manteneva legami ininterrotti col suo passato romano, e nell'Esarcato del VII e del1,VI1I secolo è difficile distinguere i Romani indigeni da quelli immigrati. Soltanto nelle province meridionali bizantine del X e dell'X secolo i Greci si distinsero etnicamente, come vedremo in un prossimo capitolo. I1 miscuglio di popolazioni costituisce il miglior contesto in cui trattare due problemi inerenti alla continuità nella storia sociale dell'Italia. I1 primo tema è relativo alla rottura verificatasi nel VI secolo; fino a che punto cioè l'occupazione longobarda abbia distrutto la struttura sociale italiana, confinando la massa dei Romani nei ceti più bassi del contadinato, e provocando una sorta di tabula rasa su cui la storia, per cosi dire, riprendesse da zero il proprio corso. La seconda questione, indissolubilmente legata alla prima, è quella della continuità dei quadri e degli uomini costitutivi dell'aristocrazia durante i vari mutamenti politici in Italia. Entrambi questi problemi sono stati spesso descritti come cambiamenti rivoluzionari all'interno della società italiana. Ma a me non pare ci siano effettivamente stati. Per tutto il periodo altomedievale, le fondamentali strutture sociali italiane e i modelli dell'aristocrazia furono così saldamente collegati all'economia che le intrusioni di popolazioni nuove non apportarono grandi modifiche. L'invasione longobarda e le guerre che seguirono, fra il 568 e il 605, furono certamente un disastro per l'Italia. Come abbiamo visto, gli italiani non avevano fatto in tempo a riprendersi dalle Guerre Gotiche che vennero sprofondati in un'esperienza altrettanto violenta e ancor più caotica. Gli osservatori del VI secolo non sentirono il bisogno di dimostrare che i Longobardi erano barbari e distruttori, gens nefa?'dissima, nelle parole di Gregorio Magno; la cosa era più che evidente. Le popolazioni di alcune città situate in luoghi vulnerabili, come Orvieto e Civita Castellana lungo il Tevere, si spostarono in cima alle colline per sfuggire agli assalti. Nella gran parte delle città che avrebbero costituito i ducati di Spoleto e Benevento, l'episcopato scomparve totalmente per almeno due secoli. Inoltre, i primi anni dell'invasione longobarda furono anche anni di pestilenze e carestie; queste si ripeterono spesso, accompagnate da altri disastri naturali, inondazioni e apparizioni di draghi, fino alla fine del VI secolo. E’ come se l'Italia fosse stata visitata contemporaneamente da tutti e quattro i cavalieri dell'Apocalisse1. I1 violento impatto coi Longobardi ci è descritto molto chiaramente nelle opere di Gregorio di Tours, Mario di Avenches e Gregorio Magno, che vissero in territori ripetutamente attaccati dai Longobardi, o ebbero 1 Paolo, H.L., 2. 4, 26; 3. 23-4; Mario di Avenches, Chronicon (MGH A.A., 11) s.a. 569-71, 580; cfr. Ruggini, op. cit., pp. 466-89, per un elenco completo delle calamità sino al 700. contatti con quelle aree. I1 destino degli sventurati abitanti dei territori italiani che i Longobardi effettivamente controllavano venne ritenuto ancor più terribile. Nell'Italia longobarda i Romani scompaiono praticamente dalla storia, tanto che nel XIX secolo si poté sostenere che erano stati ridotti tutti in schiavitù. Nello stesso VIII secolo, laddove inizia la nostra documentazione, troviamo rarissimi riferimenti a loro: tre o quattro menzioni nelle leggi longobarde, due o tre in documenti sopravvissuti. Noi intendiamo riferirci a tutti gli abitanti dell'Italia longobarda con l'epiteto di 'Longobardi'; le nostre fonti certo ce lo permettono. Ma sappiamo che la gran massa degli Italiani deve esser stata etnicamente romana. Presumendo (con scarse prove) che ci furono molti più Longobardi di quanti erano stati gli Ostrogoti, circa duecentomila, i Longobardi non possono avere costituito più del 5-8% della popolazione nelle zone occupate, e la percentuale può anche essere stata inferiore. La storiografia relativa al destino-dei Romani è immensa, e non è basata su quasi alcuna buona documentazione. Tra la morte di Alboino ed il regno di Agilulfo, i contemporanei ci offrono informazioni minime. L'Italia longobarda fu praticamente un paese chiuso, pur se molti dei suoi primi duchi erano disposti a negoziare con i Bizantini. La sola storia che si stesse scrivendo nell'Italia dei primi Longobardi era quella di Secondo di Non, che sembra essersi trovato in una parte piuttosto isolata del Trentino, durante i primi anni dell'invasione longobarda; solo durante il regno di Agilulfo egli entrò a far parte della corte reale, con un maggior accesso a informazioni attendibili. L'historiola, o piccola storia, di Secondo non ci è giunta, ma è stata usata da Paolo Diacono per la sua Storia Longobarda della fine del secolo VIII. Paolo è la nostra unica fonte dettagliata, ma egli scrisse due secoli dopo gli avvenimenti, e usò materiali che, se si eccettua Secondo, non sono particolarmente attendibili per quel che riguarda la storia interna dell'Italia longobarda del tardo VI secolo: testimoni ostili come Gregorio di Tours e Gregorio Magno, e occasionali tradizioni orali riguardanti Alboino e Autari. Escluso Paolo, non v'è alcuna testimonianza scritta dell'Italia di allora. I1 nostro solo altro materiale è costituito, da una parte dall'archeologia cimiteriale, e dall'altra dalle estrapolazioni a ritroso desunte dalla società come si presenta nei testi del1'VIII secolo. Inoltre, Gregorio Magno, a Roma, ci ha descritto in modo assai valido i contrastanti atteggiamenti dell'Italia romano-bizantina nei confronti dei Longobardi. Due brani di Paolo sono tradizionalmente considerati testi-chiave: Costui [re Clefi] uccise molti uomini potenti, fra i Romani, con la spada, e altri [o: gli altri] mandò in esilio dall'Italia. [...] [Dopo la sua morte,] in quei giorni molti nobili romani furono uccisi per avidità. Gli altri vennero spartiti per hespites e obbligati a essere tributati, cosi che dovettero versare un terzo dei loro raccolti ai Longobardi. Il secondo brano è assai più breve, ed appare nel mezzo di un'esaltazione della felicità dell'Italia sotto Autari: « Ma gli oppressi vennero spartiti fra i Longobardi in qualità di hospites »2. I due brani non sono oscuri da un punto di vista linguistico: la parola hospites è di certo imparentata con hospitalitas, l'uso secondo il quale alcune tribù, fra 2 Paolo, HL., 2. 31-2; 3. 16. Per un commento tipicamente pessimista e intelligente, cfr. Bognetti, S.M.C., pp. 110.41; per controbilanciarlo: G. Fasoli, Aspetti di vita economica e sociale nell'ltalia del secolo 7 (Bs-c), pp. 109-16. cui gli Ostrogoti e i Burgondi, s'impossessavano di una porzione dei terreni (un terzo o due terzi) per il mantenimento degli eserciti. Tuttavia appaiono criptici per chi intende considerarli come una sorta di accurata guida sociologica. Nel primo testo, il termine alii (« altri ») significa che tutti i romani potenti sopravvissuti vennero esiliati, o che solo una parte di essi lo furono? E reliqui («il resto ») indica gli altri nobili, o il resto della popolazione? Su questi problemi non è possibile dare una risposta. Pur se questi brani furono fedelmente riportati da Secondo, cosa che non è certa, e pur se Secondo, al sicuro nella sua remota valle di montagna, ne seppe davvero molto sugli eventi relativi agli insediamenti longobardi, cosa altrettanto incerta, i testi non riescono a dirci in modo sufficientemente dettagliato cosa accadde ai Romani e, in particoIare, secondo quale protocollo (se mai ce ne fu uno) i Longobardi organizzatono i propri insediamenti, e fino a che punto la classe dei proprietari fondiari romani sopravvisse. La tendenza degli storici ad interpretare l'impatto Iongobardo in modo assolutamente pessimistico, può venir controbilanciata dalle testimonianze più indirette a nostra disposizione. Come abbiamo visto, Gregorio Magno considerò i Longobardi quasi una astratta forza di pura distruzione (almeno fino a che egli non costituì legami diplomatici con i cattolici della corte di Agilulfo). Ma ci sono indicazioni secondo Ie quali non tutti i suoi concittadini erano d'accordo con lui. Nel 592, i cittadini di Sovana, nefla Toscana meridionale, promisero di arrendersi pacificamente ad Ariulfo di Spoleto. Nel 595, Gregorio si lamentò del fatto che in Corsica le richieste dei giudici e degli esattori erano così irragionevoli che i proprietari terrieri cercavano di passare dalla parte dei Longobardi. Nel 599 pare qualcosa del genere succedesse anche a Napoli: « gli schiavi di varr nobili, il clero di molte chiese, i monaci di vari monasteri, gli uomini di molti giudici si sono arresi al nemico ». I contadini di Otranto avrebbero fatto la stessa cosa se i tribuni locali non avessero cessato di sfruttarli3. Ovviamente, quei comportamenti riflettevano teazioni diverse. E’ ben difficile che i contadini sull'orlo della fame si lasciassero impressionare dalla reputazione dei Longobardi in merito allo sfruttamento dei proprietari terrieri. Ma i cittadini di Sovana cercarono probabilmente di evitare uno sconvolgimento sociale, piuttosto che assecondarlo. E i proprietari terrieri corsi non possono aver creduto che i Longobardi avessero l'intenzione di spogliarli delle loro proprietà e delle loro vite. L'esistenza di tali atteggiamenti può venir certamente bilanciata da testimonianze opposte di difese lunghe ed eroiche di città contro gli attacchi longobardi, e di occasionali rivolte contro il dominio longobardo. La reazione romana ai Longobardi fu incoerente ma significativa. Fu la reazione di una popolazione civile che cercò di evitare i guai provocati da una guerra lunga e caotica. Troviamo simili esempi di resistenza e di resa durante le Guerre Gotiche del quinto decennio del secolo VI o durante la conquista araba della Siria nel quarto decennio del secolo VII. I Longobardi erano violenti e barbari, ma almeno non imponevano tasse. Per molti, venir conquistati da loro era meno grave che venir da loro combattuti. Come s'è visto, alcuni capi longobardi furono disposti ad accordarsi individualmente con i Bizantini ed a combattere al loro fianco. Questa sorta di compromesso si diffuse probabilmente, almeno per un certo periodo di tempo, fra la popolazione romana dell'Italia. Quanto meno, non siamo in grado di sostenere che i Longobardi abbiano perseguito una politica di sistematica espropriazione delle classi che detenevano la proprietà fondiaria, e la pratica, meno sistematica, di massacro e asservimento del contadinato. 3 Gregorio, Epp., 2. 33; 5. 38; 9. 205; 10. 5. Le altre nostre fonti sono di solito più tarde, ma vanno tutte in una direzione, quella di una rapida fusione culturale fra Longobardi e Romani. Ciò, come si vedrà, deve aver comportato una complessa mescolanza della società, che sarebbe stata impossibile se l'occupazione longobarda fosse stata radicale come la si è dipinta. E’ stato spesso sostenuto che i Longobardi s'insediarono in libere comunità di guerrieri staccate dalla popolazione romana, e i ritrovamenti archeologici parvero confermarlo4. La maggior parte dell'archeologia « longobarda » consiste nel rinvenimento di luoghi di sepoltura contenenti oggetti longobardi di metallo del VI-VII secolo, simili a quelli ritrovati nella Pannonia degli inizi del secola VI, dove i Longobardi furono stanziati fino al 568. Complessi cimiteriali (compresi all'interno delle centinaia che costituiscono i siti più vasti, quali Nocera Umbra in Umbria e Castel Trosino vicino ad Ascoli Piceno), contenenti oggetti in metallo nella maggior parte delle tombe, han tutto l'aspetto di singoli cimiteri per singole comunità longobarde. D'altra parte, se si eccettuano i più antichi cimiteri del nord, una gran percentuale della ceramica ritrovata in tali tombe è molto più simile sia nella forma che nel materiale a ceramica grezza tardo romana. Forse i Longobardi imitarono i Romani: è evidente una qualche sorta di mescolanza di culture. E, in efletti, un uomo o una donna che indossino una fibula di stile longobardo non sono necessariamente longobardi, così come una famiglia di Vercelli che possegga una Toyota non è necessariamente giapponese; i reperti artigianali non sono guide sicure delle origini etniche5. La mescolanza stilistica dei manufatti, d'altra parte, è una spia del contatto fra le culture. In uno dei rari scavi completi di un luogo d'insediamento del periodo longobardo, la fortificazione di confine di Invillino, nelle Alpi friulane, i ricercatori hanno trovato una tale mescolanza, con un gran predominio di manufatti « romani », nonostante le caratteristiche militari del luogo. Contatti sociali tra Longobardi e Romani sono suggeriti anche dalla scoperta di cimiteri « longobardi » dentro le città o nella loro immediata periferia, ad esempio a Fiesole, Brescia e Cividale6. Pare che i Longobardi abbandonassero ben presto la loro lingua, forse prima del 700. I prestiti che si ritrovano nell'italiano si riferiscono per lo più ad oggetti umili (di solito agricoli): greppia, melma, bica, schifo, gualdo. A1 tempo di Paolo i Longobardi avevano anche già abbandonato i loro vecchi modi di vestirsi e pettinarsi, che egli poté ritrovare soltanto grazie ai dipinti murali del Palazzo di Monza: capelli lunghi separati nel mezzo, abiti di lino simili a quelli degli Anglosassoni, con strisce multicolori. Adottarono invece gli usi romani sia per i vestiti che per le calzature e i pantaloni7. Un tal progresso indica l'influsso culturale romano sui Longobardi, che non sarebbe potuto avvenire se i Longobardi avessero avuto contatti sociali con i Romani esclusivamente in qualità di padroni, con i fittavoli, o di soldati, con la popolazione civile sottomessa. Esso pare invece comportare una fusione dalla base di proporzioni piuttosto ampie. 4 Così pensava F. Schneider (B3-b), pp. 155-64, 177ss. (con i Romani sopravvissuti); S.M.C., pp. 141-9 (senza di essi). 5 Nella Grancia (prov. di Grosseto), da ottanta tombe (di cui circa dieci con oggetti di metallo longobardi) è stata trovata un'arma soltanto. se si trattava di defunti longobardi, certo non si trattava almeno di soldati. Cfr. O. von Hessen, Primo contributo alla archeologia longobarda in Toscana (Firenze, 1971), pp. 53-80. Per le ceramiche: I. Baldassare, Le ceramiche delle necropoli longobarde di Nocera Umbra e Castel Trosino, « Altomedioevo », I (1967), pp. 141-85. 6 G. Fingerlin et al., Gli scavi nel castello longobardo di Ib1igo Invillino (B3-6). Per i cimiteri nelle città: SM, XlV (1973), pp. 1136-41; xv (1974), pp. 1118s., 112S. 7 Paolo, H.L., 4. 22; B. Migliorini, Storia della lingua italiana (Firenze, 19S8), pp. 79-80. La fusione è ancor più evidente nelle fonti dell'VIII secolo. L'onomastica per esempio, mostra una mescolanza assolutamente asistematica di forme longobarde e di forme romane. Uno dei documenti più antichi in nostro possesso, relativo a Fortonato, un proprietario terriero lucchese dal chiaro nome romano, e risalente al secondo decennio dell'vIII secolo, elenca anche i cinque Egli di lui: Benetato è un nome romano, ma Bonualdo, Rodualdo, Radualdo e Baronte sono indiscutibilmente nomi longobardi. Altre famiglie mostrano simili mescolanze. In casi estremi si trovano elementi longobardi e romani nello stesso nome, come accade per Daviprando (a Lucca nel 774) o Pauliperto (nella cerchia di Carlomagno nel 788). Giovanni Tabacco ha mostrato come i nomi longobardi superano quelli romani (quasi il doppio) nei documenti del regno longobardo relativi a proprietari terrieri e soldati; ma le sue conclusioni, secondo le quali gli elementi etnici longobardi dominavano completamente quei gruppi, sono piuttosto ridimensionate dal fatto che anche un gran numero di schiavi avesse nomi longobardi8. Non è possibile che i Longobardi fossero diventati l'intera popolazione; dobbiamo dedurne che l'influsso culturale dei loro usi relativi all'onomastica aveva penetrato la società romana da cima a fondo. La mescolanza fra Romani e Longobardi si può rintracciare chiaramente nel campo del diritto. I1 diritto romano continuò ad esistere. I1 diritto longobardo lo menzionò raramente, ma i re legiferarono soltanto per i loro sudditi longobardi; le allusioni fatte da Liutprando al diritto romano dimostrano che esso era stato mantenuto in vigore con pari importanza. I1 diritto individuale longobardo cominciò ad essere influenzato dal diritto romano nell'VIII secolo, ma solo marginalmente (cfr. pp. 62-63). D'altra parte, i pochi Romani che si dichiararono esplicitamente tali nell'VIII secolo avevano adottato tutti usanze che appartengono propriamente solo alla legge longobarda, come accadde a Felex di Treviso, il quale cedette delle proprietà alla figlia nel 780, accettando in cambio « un fazzoletto, come launigild, secondo la legge romana ». Ma il launigild era concetto tipicarnente longobardo, che si riferiva allo scambio di doni, ovvero al contro dono che rendeva valido il primo secondo la legge longobarda9. La cosa non deve sorprendere molto. I1 diritto romano scritto si dev'essere fossilizzato dopo il 568, per gli abitanti dell'Italia longobarda, e i re legiferavano solo per i Longobardi, mentre la legislazione romana diveniva inadeguata ad affrontare la situazione radicalmente nuova dello stato longobardo. L'unica soluzione era quella di prendere a prestito il diritto altrui, e quello longobardo era il più accessibile. Tali prestiti devono essere stati molto comuni, infatti non è possibile distinguere tra una tradizione legale longobarda ed una romana nei documenti che si riferiscono ad atti giuridici di italiani di ogni livello sociale. Ma l'influsso non fu comunque unidirezionale. Le leggi che governavano i rapporti interpersonali nel secolo VIII sembrano avere avuto uno stampo decisamente longobardo. Le leggi sulla proprietà, invece, rimasero saldamente romane. Gianpiero Bognetti pare avere sostenuto a volte anche il concetto longobardo di proprietà, di possesso diretto (gewere), di solito da parte di una collettività (fara: si veda qui di se. guito a pp. 152ss.), si sostituì talmente al sistema romano della proprietà che qualsiasi 8 Per Fortonato: Schiaparelli, 16. Per i nomi misti: Schiaparelli, 287, Chronicon Salernitanum, c. 25 (a cura di U. Westerbergh, Stoccolma, 1956). Per gli schiavi: cfr., per esempio, Schiaparelli, 154. G. Tabacco, Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda (B4), pp. 228-34. 9 Storia del diritto italiano. Il diritto privato, III, a cura di P.S. Leicht (Milano' 1948), pp. 193-4; cfr. Rotari, 175. proprietario terriero residente lontano dalle sue terre fu automaticamente spodestato dal codice longobardo. Ma ciò è davvero eccessivo. Ernst Levy ha dimostrato che la legge tardoromana sulla proprietà era già così simile al concetto di genere che quest'ultimo pottebbe essersi addirittura formato per l'influsso della prima. Fin dal codice di Rotari, la proprietà terriera è interamente privata e basata, pare, su norme legali romane. Nelle documentazioni dei secoli VI-II e IX in nostro possesso, le forme della proprietà sono, salvo rarissime eccezioni, totalmente romane. Le forme meglio documentate di possesso, proprietà e affittanza sono strettamente imparentate ai concetti giuridid tardoromani, e quasi identiche alle forme in vigore allora a Ravenna, dove non si può presumere vi fosse un influsso longobardo10.I1 perdurare del concetto romano di proprietà sembra più logico se si postula anche il perdurare di proprietari romani. Abbiamo già osservato altri aspetti dell'influsso romano sui Longobardi: la nozione longobarda dello stato e del suo ruolo amministrativo, per esempio; la distinzione fra pubblico e privato. E, in parte come risultato del perdurare della tradizione amministrativa romana, l'aristocrazia longobarda si trasferì nelle città e seguì i modelli delI'aristocrazia urbana dell'Impero. E’possibile verificare ciò sin dai primi anni dell'insediamento: già verso il 574, un gran numero di città romane ebbero duchi longobardi; nel 585, quando i Franchi invasero l'Italia, le città furono le roccaforti naturali dei Longobardi. Come s'è visto, ci sono testimonianze archeologiche della presenza dei Longobardi nelle città. All'inizio, tale occupazione delle città può essere stata esclusivamente militare. Ma già durante il regno di Cuniperto, quando Paolo finalmente ci fornisce un resoconto abbastanza dettagliato, a Brescia, e probabilmente a Pavia, Vicenza e parecchie altre città, vi sono cittadini che sono aristocratici longobardi senza alcuna carica ufficiale11. L'attrazione della vita urbana e le sue conseguenze economiche verranno discusse in un prossimo capitolo; ma tutto ciò sarebbe stato inconcepibile senza la continuità della presenza dei cittadini romani e dell'ideologia urbana che essi perpetuarono. Anche nelle città, poi, diventa impossibile, a partire dal secolo VIII, distinguere i Longobardi dai Romani. L'invasione longobarda dell'Italia fu ovviamente violenta, ma ciò accadde in parte proprio perché fu disorganizzata. Ogni regione deve averne ricevuto una diversa impressione. L'insediamento longobardo variò in intensità: più forte attorno a Milano e Pavia, Brescia e Verona, e nel Friuli; meno forte nell'Emilia occidentale e attorno a Lucca; quasi inesistente più a sud. Cominciano ad apparire anche differenze regionali non direttamente dovute ai Longobardi. Sin dal 700, nei documenti e contratti in nostro possesso, ogni area italiana ha le proprie tradizioni e caratteristiche locali, la sua particolare gerarchia sociale, le sue formule legali, i suoi pesi e le sue misure. Ciò può indicare lo sviluppo separato di diverse località dopo il 568, o, più probabilmente, la prima chiara testimonianza deLte profonde divergenze locali che i Romani non avevano mai sradicato. Ma indica anche che era improbabile una riorganizzazione sistematica della società da parte dei Longobardi. La maggior parte del contadinato, la massa della società, era e rimase romana: un singolo documento pistoiese del 767 allude addirittura ai fittavoli col nome di romani. Ma i Longobardi ebbero pure 10 Bognetti, S.M.C., capitolo 1. 8; La proprietà della terra, E.L., IV, pp. 76ss. Ma cfr. E. Levy (4), pp. 87-99, 187ss. Per alcune eccezioni: per esempio Schiaparelli, 49 (730). 11 Paolo, H.L., 2. 32; 3. 17; 5.38-9. schiavi propri, i liberti e i semiaffrancati, come mostra l'editto di Rotari, e questi, come si vedrà, vennero assorbiti all'interno delle classi inferiori romane. L'infiusso romano sulla società dell'VIII secolo implica la sopravvivenza in misura rilevante delle dassi di proprietari terrieri romani, dai proprietari di piccoli fondi ai grandi proprietari dimoranti in città. Un chiaro esempio di quest'ultimo gruppo è rappresentato dal nobile pavese Senatore, figlio di Albino, che fondò un monastero a Pavia nel 714 con terreni donatigli in parte dal re12. L'insediamento longobardo non produsse, quindi, un mutamento radicale della struttura sociale. Certamente, molti proprietari terrieri romani furono spodestati per avidità, come afferma Paolo, ma ne devono essere sopravvissuti abbastanza da assicurare il predominio dell'ideologia romana relativa alla proprietà nei secoli seguenti, così come accadde per le caratteristiche romane nel sistema governativo monarchico di cui si è visto nel capitolo precedente. La pretesa parità fra legge romana e legge longobarda affermata da Liutprando mostra che non vi era necessariamente distinzione fra ranghi sociali derivante dall'essere longobardi e romani, pur se non v'è dubbio che la maggior parte dei Romani erano contadini dipendenti e che una gran percentuale dei Longobardi non lo era. In alcuni luoghi può anche darsi che i Longobardi praticassero il sistema a cui fa riferimento Paolo, della bospitalitas, ma non ci è possibile verificarlo. Non furono comunque tanto numerosi da distruggere le gerarchie sociali italiane, e la loro veloce fusione con i Romani deve suggerirci che non riuscirono a farlo. Quando arrivarono i Franchi, Longobardi e Romani erano assai più simili gli uni agli altri di quanto essi non lo fossero nei confronti degli invasori settentrionali. La caratteristica della società longobarda che era, e rimase, unicamente longobarda fu l'ideologia del popolo guerriero connessa con l'immagine di una società di uomini liberi e di aristocratici. Tabacco ha mostrato come nelle leggi di Liutprando, «soldato» (exercitalis, o l'equivalente longobardo latinizzato arimannus) è usato come equivalente di « proprietario » e di «uomo libero » (liber homo). ciò non significa che i tre termini fossero esatti sinonimi. C'eran già nell'VIII secolo degli uomini liberi che avevano perduto le loro proprietà o che non ne avevano avuta mai alcuna (cfr. pp. 141 ss.), e non erano sempre sottoposti all'obbligo del servizio militare (cfr. pp. 177 ss). Né fu vero che i proprietari dovessero essere necessariamente longobardi. Ma Tabacco sostiene che nell'insieme lo erano, poiché i re presumevano (come accadde spesso, anche nel periodo carolingio), che « Longobardo » e « proprietario libero e armato » significassero più o meno la stessa cosa. Lo stato, il regnum Langobardorum, pur se romano in ogni suo lineamento, era quel che il suo nome diceva: dei Longobardi e basta. Non vi è indizio di un'imponente assimilazione giuridica e militare di una libera popolazione romana da parte dei Longobardi. Dunque, lo sconvolgimento delle condizioni del possesso alla fine del VI secolo fu più vasto e radicale di quanto l'annientamento dell'aristocrazia romana già facesse supporre13. Sotto tale aspetto, lo stato longobardo ottenne senz'altro un'indiscutibile vittoria ideologica; i Romani divennero socialmente marginali ad ogni livello. Ma Tabacco 12 13 Per il nome romani: Schiaparelli, 206. Per il senatore: Schiaparelli, 18. Tabacco, La storia politica e sociale, cit., p. 62; cfr. « Dai possessori... », Cit. deve essersi sbagliato nel desumere da ciò l'allontanamento dell'aristocrazia romana, e ancor meno del contadino proprietario di terre. La proprietà terriera fu nell'VIII secolo l'unico criterio che distinguesse in pratica il rango sociale. Ma, in un periodo in cui lo stato è forte e influente, il rango sociale dipende quasi completamente, nelle sue forme, dalla struttura e dall'ideologia dello stato stesso. Un proprietario terriero romano non avrebbe trovato vantaggioso comportarsi come Boezio. Status sociale e onori dipendevano dalla capacità di combattere, e probabilmente di professare l'adesione alla legge longobarda. Nel Medio Evo era possibile mutar le leggi abbastanza facilmente... cosa da cui derivò, senz'altro, la scomparsa degli Ostrogoti. E da ciò derivò anche, nel XII secolo, la rapida vittoria (poco più di due generazioni) del diritto romano, modifcato, sul diritto longobardo. La 'franchizzazione' dell'aristocrazia romana nella Gallia del VI e VII secolo è cosa risaputa e ben documentata: dapprima nel costume (il servizio militare, e la crescente violenza del comportamento di cui si lamenta Gregorio di Tours), poi nell'onomastica, infine nel diritto. Nell’VIII secolo c'erano solo Franchi a nord della Loira. La trasformazione pacifica dell'aristocrazia nell'Italia bizantina è altrettanto evidente, come si vedrà. Trasformare l'intera forma della società aristocratica e dei suoi valori, per una ideologia dominante è più facile di quanto non ritenga Tabacco. Viceversa, mutano meno facilmente le realtà economiche relative alla proprietà fondiaria. Al tempo del regno di Astolfo, a quanto sembra, il criterio determinante gli obblighi delle prestazioni rnilitari era divenuto la proprietà pura e semplice, indipendentemente dalla matrice etnica14. E, pur se persistette l'immagine longobarda del guerriero armato e libero, nel periodo carolingio la prestazione militare cominciò ad escludere gradualmente i poveri, come si vedrà. L'occupazione franca, dopo il 774, non venne ad alterare questo predominio longobardo, pur se contribuì alla fusione fra Longobardi e Romani in quanto popolazioni italiane indigene: gli Italiani. Un formulario del secolo XI esprime la prossimità nella procedura legale dei Longobardi e dei Romani in contrasto con quella degli invasori nordici. Negli atti di vendita dei terreni, ad esempio, i Longobardi e i Romani dovevano allegare un documento contenente certe formule che esplicitavano gli obblighi legali derivati dall'assunzione della somma pattuita. Inoltre, per i venditori franchi, visigoti, alemanni, bavaresi e burgundi c'era l'obbligo di « porre il contratto per terra, e gettare su di esso un coltello [con l'eccezione dei Bavaresi e dei Burgundi], un bastone segnato, un guanto, una zolla di terra, il ramo di un albero, e un calamaio ». I1 formulario include anche elaborazioni abbastanza tarde, ma sappiamo che Franchi e Alemanni eseguirono tali riti, come risulta da contratti del IX secolo15. La nuova immigrazione fu per due terzi franca, e per circa un terzo alemanna (particolarmente a Verona); gli altri gruppi costituirono entità assai inferiori. Abbiamo già visto come i Carolingi nominassero dei Franchi in incarichi ufficiali della gerarchia secolare. I conti e la maggior parte dei missi furono per lo più franchi nell'Italia settentrionale fino alla metà del X secolo, ma i Longobardi riapparvero presto nella Toscana meridionale e a Spoleto, dove i Franchi non si insediarono mai. Un insediamento di piccoli aristocratici e di soldati franchi nella fascia di terra in 14 15 Astolfo, 2, 3. MGH Leges, IV, p. 595; cfr. R. Bordone, Un'attiva minoranza etnica nell'alto medioevo (B3-f). Hlawitschka (B3-c) rappresenta il testo fondamentale per capire l'insediamento franco. fondo ai maggiori passi alpini fra Pavia e Verona, e in altre zone strategiche (Asti, Piacenza, e in minor misura Lucca), per lo più aristocrazia rurale, è ben documentato. Di raro li troviamo nelle città, se non nelle loro vesti di funzionari, e a ciò è dovuto in parte il fatto che i Franchi, con l'eccezione delle famiglie più prestigiose, non ebbero influsso locale sufficiente a divenir vescovi. I vescovi non eletti dai re provenivano generalmente da farniglie longobarde. All'interno delle classi dei proprietari terrieri, i Longobardi (e i Romani) superarono di gran misura i Franchi (e gli Alemanni); nelle classi inferiori, probabilmente, i Franchi erano del tutto assenti. Ma, come s'è visto, per i Longobardi l'essere in pochi non costituì uno svantaggio due secoli prima, quando erano essi diventati il gruppo sociale predominante. Tuttavia, come s'è detto nel capitolo precedente, i Carolingi non franchizzarono lo stato, ma solo i suoi funzionari, particolarmente nel governo locale e nel comando degli eserciti. I Longobardi, se non si ribellavano, non erano privati delle loro terre. Sin dalla penultima decade dell'VIII secolo figurano come vassalli alla corte del Re Pipino. Non furono più i maggiori benefciari del favore del re, e ciò indeboli forse la loro posizione, soprattutto durante il regno di Lotario, ma a partire da Lodovico II i Longobardi ricominciarono a godere dell'interessamento reale. Per esempio, gli Aldobrandeschi furono una famiglia longobarda di Lucca: dopo l'800, cominciarono ad accumulare proprietà nella Toscana meridionaie, comprandole o affittandole, stabilendo una base per un forte potere locale protetto dai rivali dalla distanza, proprio negli anni in cui gli aristocratici longobardi godettero del minimo appoggio da parte del re. In tal modo, la famiglia si trovò in posizione eccellente allorché Lodovico volle controbilanciare il potere di Adalberto I nella Toscana settentrionale: Geremia divenne vescovo di Lucca, suo fratello Eriprando missus imperiale, e il terzo fratello, Ildebrando, conte. Successivamente Geremia cedette o aífittò ai suoi fratelli tutta la proprietà episcopale nella Toscana meridionale, permettendo loro di stabilire una potenza familiare immensa che durò cinque secoli16. Né si trattò, con gli Aldobrandeschi, di un caso isolato. Gran parte della « nuova » nobiltà della Toscana del x secolo può venir fatta risalire alle famiglie Iongobarde del secolo VIII grazie all'eccezionale documentazione che abbiamo della Lucca altomedievale. La stessa cosa valse, per lo più, per gli aristocratici longobardi settentrionali del X secolo. I quadri delle dassi superiori rimasero longobarde, in particolare quelle relative alla posizione di arimanni, i liberi guerrieri, pur se tale rango includeva allora anche dei Franchi. Le potenti famiglie comitali francesi si trovarono a doversi infiltrare entro una cornice ancor essenzialmente immutata dai tempi dei re longobardi. I1 perno dell'attività sociale rimaneva la città, diversamente da quanto accadeva al nord delle Alpi, e le riforme amministrative carolinge contribuirono a rafforzare tale tendenza. Laddove le famiglie franche non si inurbavano, come accadde nella maggior parte dei casi, divenivano socialmente marginali. Giacché i Carolingi non cercarono di alterare le fondamenta ideologiche e le basi materiali dello stato, le famiglie aristocratiche longobarde non dovettero divenire franche per sopravvivere, come era accaduto ai loro predecessori (e forse antenati) romani. Anche se avessero dovuto farlo, alcuni degli elementi basilari della struttura sociale, quali la tendenza degli aristocratici ad inurbarsi, sarebbero sopravvissuti. 16 Cfr. il breve resoconto in G. Rossetti, Società e istituzioni nei secoli 9 e 10: Pisa, Volterra, Populonia, 5° Congresso, cit., pp. 296ss. Lo sviluppo sociale dell'Italia bizantina conferma alcune osservazioni già fatte su Longobardi e Franchi. Le principali zone italiane che i Longobardi non riuscirono mai a conquistare pienamente furono 1'Esarcato di Ravenna (o meglio, Esarcato e Pentapolis) ed il ducato di Roma. Venezia, l'Istria e Napoli furono pure esenti da tali occupazioni, come accadde per le zone più greche del sud, di cui si parlerà nel capitolo sesto. L'Esarca era il governatore civile e militare dell'Italia sin dal tardo secolo VI, speditovi da Costantinopoli e mutato con grande frequenza. L'Italia era distante dalle province centrali dell'Impero, e se ai governanti locali fosse stato concesso troppo tempo per ambientarsi, avrebbero potuto finire col ribellarsi—come in effetti accadde nel 619 e nel 651. I Romani e i Ravennati non erano sudditi facili, poi, e seri disordini locali si verificarono più di dieci volte fra il 600 e la conquista dell'Esarcato da parte di Astolfo nel 75117. La struttura sociale delle aree bizantine per le quali abbiamo una migliore documentazione, Ravenna, Roma e Napoli, discendeva direttamente da quella di Roma, senza alcuna rottura del tipo causato in altri luoghi dagli insediamenti longobardi. Verso l'anno 700, però, era mutata fino ad essere irriconoscibile ed assomigliava, piuttosto, a quella dello stato longobardo. Per almeno un aspetto importante, la somiglianza era superficiale: nell'Esarcato lo stato continuava ad imporre le tasse, e con quelle manteneva un'amministrazione complessa e un esercito (pur se dopo la metà del secolo VII la paga che l'esercito riscuoteva in Italia era probabilmente molto bassa in confronto alle rendite che riceveva dai terreni di sua proprietà). Le tasse erano piuttosto alte, almeno agli inizi. Le proprietà della chiesa di Ravenna in Sicilia ai tempi dell'arcivescovo Mauro (642-73) rendevano 50.000 modia di grano (e altro reddito in natura), e 31.000 solidi d'oro. Di questi ultimi, ben 15.000 se ne andavano in tasse18. D'altra parte, è assai probabile che proprietari terrieri meno responsabili fossero in grado di evadere le tasse (come accadde nel V secolo) e ciò sembra particolarmente probabile per i soldati. L'Italia bizantina, diversamente dalla tarda romanità, non manteneva una gerarchia militar-amministrativa distinta dall'aristocrazia civile. La struttura dello stato si era semplificata, e l'élite al potere completamente militarizzata. Tale processo era iniziato fin dai tempi degli Ostrogoti, come si è visto nel capitolo primo; dinanzi alle pressioni delle invasioni longobarde, divenne ancor più rapido. I capi dei numeri, o unità militari, divennero predominanti figure sociali, i senatori si trasferirono a sud, in Sicilia, dove si trovavano ancora nel VI secolo, e ad oriente, a Costantinopoli. Verso la fine del VI secolo, la Curia, il consiglio cittadino, non esisteva più in alcuna città bizantina del nord, eccetto forse Ravenna. Solo a Napoli, che non dovette temere alcuna seria minaccia longobarda fino alla fine del secolo VI, la militarizzazione della società si compì piuttosto tardi. Gregorio Magno descrive le fazioni delle città che si distinguevano a seconda della loro associazione od opposizione ai vescovi, in una tradizione tipicamente tardoromana19. Napoli era città prospera, e la sua base rimase essenzialmente civile. I soldati costituivano una minoranza, e la Curia sopravvisse fino al X secolo, pur se già nell'VIII secolo il comandante militare, console (o duca), fu il governante incontrastato di Napoli. 17 Per l'Esarcato: A. Guillou (B3-b), e particolarmente T.S. Brown, The Church of Ravenna and the imperial administration in the 7th century, e il suo libro di prossima pubblicazione (A3-b). 18 Agnello, c. 111 19 Gregorio, Epp., 2. 12, 18; 3. 1, 2, 60; 9. 47, 76. Mano a mano che i vertici della società bizantina corrispondevano sempre più ai vertici militari, l'aristocrazia civile perdeva il proprio status. Pur continuando ad esistere, in quanto la distinzione fra gerarchia civile e gerarchia militare venne scrupolosamente mantenuta, i suoi membri più autorevoli penetrarono tra i ranghi dell'esercito. Viceversa, soldati di tutti i ranghi militari, ricorrendo ai loro legami con la ricca rete di protezionismi, basata sul sistema fiscale, che copriva l'intera amministrazione (e, come si vedrà, anche la Chiesa), riuscivano facilmente a divenire proprietari terrieri, tramite acquisti, matrimoni, aífitti o mezzi meno leciti. Verso il 700, la maggior parte dei grandi proprietari terrieri era costituita da militari. L'esercito del tardo secolo VI era di provenienza in massima parte orientale, e la sua origine sociale è evidente nei testi a nostra disposizione. Nel 591, Tzita, appartenente al numerus dei Perso-Armeni, era sposato con un'appartenente alla classe dei proprietari terrieri (suo suocero Felice era defensor della chiesa di Ravenna)20. L'onomastica, come era accaduto nell'Italia longobarda segul questi infIussi. Nel secolo VII, quasi la metà dei nomi registrati nei documenti ravennati sono di origine orientale. Le complesse regole dell'onomastica del l'Impero Romano svanirono. Oltre a questi nomi orientali (e ad alcuni residui di nomi goti), c'erano molti che si chiamavano semplicemente Stefano, Giovanni o Sergio, con i nomi dei santi. Diventa piuttosto difficile seguire la storia delle famiglie nel secolo VII, come succede anche per l'Italia longobarda, pur se gli antenati di tribuni o giudici di nome Giovanni, nella Ravenna dell'VIII secolo, avrebbero potuto essere aristocratici ravennati del secolo VI, i Melminii o i Pompilii. Tale sviluppo nell'onomastica è di certo collegato in qualche modo con la militarizzazione della gerarchia sociale, poiché nell'esercito l'onomastica non era mai stata cosl complessa; comunque, esso non indica una vasta immigrazione orientale. Né i nomi orientaleggianti del VII secolo, né quelli derivati dai santi nei secoli VII e VIII, indicano l'affermarsi di famiglie nuove, pur se ve ne furono senz'altro alcune. Non è possibile d siano mai stati molti orientali in Italia; di certo costituivano una porzione di popolazione inferiore di gran lunga persino a quella costituita dai Longobardi nell'Italia longobarda. Nel VII secolo, in effetti, anche se il numero dei nomi orientali continuava ad essere piuttosto alto, l'immigrazione era già cessata. I Bizantini ebbero bisogno di tutti i soldati che poterono reperire per le guerre contro i Persiani e contro gli Arabi. I1 reclutamento militare in Italia tornò ad avere base locale: nuovi numeri vennero costituiti in città italiane, Rimini, o Fermo, o Nepi. Ma l'influsso militare orientale aveva già avuto i suoi effetti. L'intera terminologia dell'organizzazione sociale si era militarizzata: gli abitanti di Comacchio, alla frontiera, venivano chiamati milites, « soldati », persino dai Longobardi; l'intero corpo cittadino triestino veniva definito un numerus nel caso giudiziario di Rizana nell'804. La militarizzazione dell'immagine sociale ha notevoli paralleli con l'Italia longobarda, in cui i governanti locali erano duchi, e i comuni uomini liberi avevano titoli militari quali vir devotus. La popolazione di Siena nel 730 venne definita un esercito (exercitus)21 L'esercito longobardo e la sua gerarchia compenetravano l'intera società, proprio come l'esercito bizantino, ma ciò non significa, in nessuno dei due casi, che 20 21 G. Marini, I papiri diplomatici (Roma, 1805), n. 122. LM. Hartmann (BSb), pp. 123-4, per Comacchio; Manaresi, 17, per Trieste; Schiaparelli, 50, per siena. l'intera società servisse nell'esercito. Nell'Italia bizantina, in effetti, l'esercito era divenuto una vera élite di professionisti, e i Triestini, a Rizana, come si vedrà, stavano solo appellandosi contro la prestazione militare da rendere ai loro nuovi padroni franchi, e solo in teoria costituivano un numerus. Questi mutamenti della terminologia dimostrano soltanto una trasformazione dell'orientamento, e fino a un certo punto dell'ideologia, dei ranghi sociali più elevati. I capi della gerarchia sociale avevano incarichi diversi, diverse funzioni e diversi nomi dei loro predecessori. Ma la base di quella leadership continuava ad essere la terra, e almeno alcune delle principali famiglie delI'Italia bizantina devono essere ancora state le stesse che nei secoli V e VI, anche se sotto diverse mascherature, pur se ci furono alcune famiglie nuove, sia orientali che indigene. Il fatto che una tal completa trasformazione potesse avvenire pacificamente dovrebbe dimostrare che qualcosa del genere avrebbe potuto verificarsi anche tra i Longobardi. In entrambi i casi l'aristocrazia civile romana cessò di essere politicamente influente. Alcuni dei suoi membri affondarono, espropriati (almeno nell'Italia longobarda), esuli a Costantinopoli o in Sicilia, o incapaci di conservare il possesso di proprietà sparse in troppe zone teatro di guerra. Molti altri, però, scamparono divenendo membri di questa nuova élite, accanto ad aristocratici militari bizantini o longobardi, o a semplicissimi soldati affermatisi in battaglia: fusioni attuate spesso con matrimoni, dopo dei quali le differenze d'origine cessavano di contare. Per un altro aspetto, la società del VII secolo a Ravenna, Roma e Napoli, fu diversa da quella dell'Italia longobarda (anche se le città longobarde sarebbero giunte agli stessi risultati in due o tre secoli): il ruolo della Chiesa. Si è visto come nell'Italia settentrionale tardoromana i vescovi divenissero importanti elementi dell'amministrazione civile. Con i Longobardi cessarono di esserlo, e anche quando i Longobardi accettarono il cattolicesimo rimasero politicamente marginali, almeno a livello nazionale. Nelle città bizantine, però, ciò non accadde. A Roma i Papi possedevano già vastissime terre e, col crollo del Senato, si assunsero decisamente il governo della città nel VI secolo, mantenendo la popolazione con distribuzioni di grano. Anche gli arcivescovi di Ravenna avevano cominciato ad accumulare terreni, in particolare successivamente a parecchie generosissime concessioni imperiali (in alcuni casi come corrispettivi di prestiti), dal 550 in poi. Nel VII secolo l'arcivescovo fu secondo soltanto all'Esarca, nd potere; di solito i due collaboravano strettamente, con reciproco vantaggio (diversamente dai conti e dai vescovi catolingi, e diversamente da Papa ed Esarca, con le loro tempestose relazioni). Gli enormi possedimenti del Papa e dell'arcivescovo rappresentavano direttamente un potere politico ed economico vastissimo. Rappresentavano anche, però, l'occasione per esteso clientelismo. Dal VII secolo in poi, sia a Ravenna che a Roma, gli aristocratici militari cominciarono a prendere in affitto terreni della Chiesa. In alcuni casi la Chiesa non aveva scelta. L'alternativa al concedere un terreno in affitto (per una cifra fissa, sovente nominale, per diverse generazioni), spesso era la perdita totale di esso, ma queste concessioni in affitto comportavano l'acquisizione di un appoggio politico, che a volte veniva esplicitamente richiesto per iscritto nel contratto22. Una famiglia nobile era in grado di accumulare una notevole proprietà fondiaria tramite i contratti di aditto, in un'epoca in cui in altre parti d'Italia i contratti d'affitto erano concessi soltanto al contadinato. In tal modo la Chiesa si legava strettamente alle fortune politiche dei suoi nuovi aristocratici affittuari. Gli arcivescovi di Ravenna furono 22 Agnello, c. 152. spesso scelti nell'ambito di quelle famiglie; e così cominciò ad accadere anche un po' più tardi, dal 750, per i Papi. A Napoli, a partire dal tardo secolo VIlI, solo una o due famiglie prevalsero, fornendo di solito dalle loro file sia il vescovo che il duca console; a volte, come accadde con Stefano II (754-800) e soprattutto con Atanasio II (876-898), la stessa persona copri entrambe le cariche23. Ovviamente, Napoli aveva un territorio piccolo, e offriva poche occasioni perché si potesse costruire una complessa rete di famiglie nobili. Le famiglie della fine del secolo VI persero probabilmente la loro base fondiaria allorché i Longobardi conquistarono il resto della Campania. Le altre città-stato bizantine dei secoli VIII e IX ed oltre mostrarono simili sovrapposizioni di incarichi laici ed ecclesiastici all'interno delle famiglie principali: a Gaeta, ad Amalfi, e anche a Venezia, con l'egemonia nel IX secolo della famiglia dei Partecipazio, che divenne la più antica grande dinastia veneziana. In tutta l'Italia bizantina, infatti, l'importanza della Chiesa si specchiava negli stretti legami di questa con la gerarchia sociale cittadina. Nell'VIII secolo, anche in alcune città longobarde, cominciò a rivelarsi un fenomeno simile; i vescovi di Bergamo e di Lucca erano ben visibilmente degli aristocratid. Quando, nel IX secolo, le chiese cominciarono ad affittare i loro terreni agli aristocratici, I'intero fenomeno diviene visibile. Col X secolo, come si vedrà, gli affittuari dei terreni della Chiesa costituirono la nuova aristocrazia, e divennero spesso vescovi loro stessi, come era successo a Ravenna nel secolo VII. Lo stato bizantino in Italia fu più complesso del suo vicino longobardo-carolingio. Ciò appare benissimo nel caso giuridico di Rilana nell'804, nel quale gli abitanti dell'Istria e delle sue nove città, recentemente conquistate dai Franchi, si lamentano per le imposizioni introdotte dal nuovo governatore, il duca franco Giovanni. Elencano i privilegi goduti precedentemente, e i doveri precedentemente prestati allo stato bizantino. E invece, Giovanni stera impadronito di terre, aveva modificato le usanze, e s'era arrogato diritti fiscali. Tra le altre cose, gli Istriani si videro sottratti i loro diritti di pesca nel mare e di pascolo nelle selve pubbliche. Le loro gerarchie di funzionari, le posizioni di tribuno, domesticus, vicarius, e hypatus (console), erano state eliminate o assunte da Franchi; alcuni Istriani furono obbligati a servire personalmente nell'esercito, assieme ai propri schiavi; Giovanni aveva cominciato a pretendere lavori di corvée alla maniera franca, e continuava a chiedere tributi fiscali (344 solidi mancusi dalle nove città) che teneva per sé. A tutti questi obblighi noi siamo forzati con la violenza, e mai era accaduta cosa del genere ai nostri avi; i nostri parenti e vicini, a Venezia e nella Dalmazia, che sono ancora sotto il dominio greco, come noi fummo prima, ci deridono. Se l'imperatore Carlo ci aiuta, possiamo sopravvivere; se non ci aiuta, per noi è preferibile la morte alla vita. Giovanni, nel difendersi, sostenne che la cosa era successa in gran parte per il fatto ch'egli non era a conoscenza delle usanze dell'Istria, e che ovviamente avrebbe fatto ammenda e non avrebbe più imposto lavori di corvée. Se poi lo fece o no, è per noi sconosciuto24. I1 quadro che si ottiene da quel caso giuridico, con tutti i suoi complicati dettagli, è quello di un Franco spietato e incolto che pesta rozzamente i 23 24 Giovanni Diacono, Gesta episcoporum neapolitanorum, c. 42 (S.R.L., p. 425). Manaresi, 17; resoconto e commento in Guillou (B3-b), pp. 294-307. suoi piedi su un organismo dall'equilibrio delicatissimo, retto dalle convenzioni sociali, almeno nella forma in cui la memoria degli Istriani le idealizzava deliberatamente. Ma alcune cose erano già mutate: i 344 solidi, se costituivano il residuo dell'imposta fondiaria, rappresentavano una frazione di quella romana. Sotto tale punto di vista lo stesso stato bizantino si era semplificato. Gli incarichi che gli Istriani avevano perduto avevano i loro equivalenti nello stato longobardo-carolingio, pur se con una gerarchia meno comp]icata. Le strutture della società, che esamineremo nei prossimi due capitoli, erano verso l’800 più o meno le stesse dalle due parti dei confini, in Italia. Le linee di sviluppo erano pure simili, anche se la velocità dello sviluppo variava da un posto all'altro. E in nessuna delle due parti venne a introdursi nel tessuto sociale qualche differenza dovuta all'immigrazione. Se alcuni immigrati si sostituirono a singoli Romani, non alterarono comunque le strutture socioeconomiche della vita italiana. Solo insediamenti di massa avrebbero potuto farla e di questi, come si è visto, non ve ne furono. L'economia italiana altomedievale era in ogni suo importante aspetto l'erede diretta di quella dell'Impero.