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La nostra storia - Cantina Sociale di Ormelle

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La nostra storia - Cantina Sociale di Ormelle
A tutti i viticoltori
delle terre del Piave.
Ai soci della Cantina
Sociale di Ormelle.
Al loro sudore,
e alla loro passione.
Ai risultati.
CANTINA SOCIALE
CINQUANT’ANNI DI ATTIVITÀ
ORMELLE
VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
a cura di
Angelo Squizzato
fotografie
Copertina e immagini di vigneti
di Francesco Barro
traduzioni
StudioCentro Quater, Vicenza
realizzazione e stampa
Grafiche Antiga, Crocetta del Montello (TV)
Terra Ferma - Vicenza
www.terra-ferma.it
[email protected]
ISBN 978-88-6322-048-3
© 2009 Cantina Sociale di Ormelle
Severina Cancellier
Sante Carnelos
Angelo Squizzato
Un omaggio a tutti i nostri Soci
Rino Cadamuro
Presidente della Cantina Sociale di Ormelle
Ricordo bene gli anni in cui mosse i primi passi la Cantina Sociale di Ormelle. Aspri ma
anche carichi di speranza.
Si viveva soprattutto di agricoltura, i giorni dell’industria erano da venire.
Ricordo strade polverose percorse da file di carri sui quali giganteggiavano le brente cariche
di uve appena raccolte. Li trainavano cavalli, buoi e i primi trattori. L’aria era ebbra.
Sembrano tempi mitici, lontanissimi. Ma è soltanto ieri.
Oggi è tutto diverso. È cambiato il nostro piccolo mondo, è cambiato il mondo.
Ma le nostre terre sono sempre rivestite di vigneti che ne sono icona e anima. Ne sono la bellezza e la ricchezza.
Vite, uva e vino sono prodotti con antica e nuova sapienza. Con cuore onesto e con mani esperte. La nostra gente ama i suoi vigneti e ama la sua terra che ricambia con i suoi doni.
La terra non tradisce mai colui che le vuol bene.
Compie cinquant’anni la Cantina Sociale di Ormelle: un cammino pieno di risultati, di successi, di gratificazioni.
Sono superati ostacoli e difficoltà anche forti, momenti di tensione, preoccupazioni per orizzonti che sembrano chiusi, per situazioni apparentemente senza sbocco.
È speranza dei nostri vignaioli, sicurezza, punto di riferimento. Un ruolo attualissimo.
La Cantina Sociale festeggia oggi i suoi Cinquant’anni orgogliosa del suo passato, determinata nei suoi obiettivi di crescita e di rappresentazione degli interessi dei viticoltori del territorio del Piave che ruota attorno a Ormelle.
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Un traguardo importante
Luca Zaia
Ministro delle politiche agricole alimentari e forestali
Ha uomini, mezzi e strutture. Sono 582 i soci che le danno fiducia e che le conferiscono, media
degli ultimi anni, 190 mila quintali di uva.
Questo libro è un viaggio per cinquant’anni di vita della Cantina. Racconta uomini, luoghi e
fatti. Al centro di tutto c’è il territorio, con la sua storia millenaria che sa di uva e di vino.
Rapide pennellate storiche segnalano nobili tracce locali dell’eterno scorrere del tempo.
La memoria dei giorni passati è stimolo per il futuro che ci attende. Dà forza e coraggio e spinge all’intraprendenza. Infonde fiducia.
Il libro è, in particolare, un omaggio a tutti i soci della Cantina. Di ieri e di oggi. A quanti
hanno lavorato e lavorano per consentire alla stessa di interpretare al meglio la sua mission.
A tutti siamo grati e riconoscenti.
Mi piace concludere con un aforisma di Leonardo Da Vinci, citatissimo ma sempre fresco: «Et
però credo che molta felicità sia agli uomini che nascono dove si trovano vini buoni».
Sia felicità a tutti gli uomini che nascono in questa terra del Piave che da sempre produce vini
buoni.
La cantina sociale di Ormelle compie cinquant’anni.
Un traguardo importante che racconta una storia di famiglie, amicizie, fatiche e successi.
In questi cinquant’anni, la cantina è diventata una delle più importanti realtà della Marca
Trevigiana, con 582 soci che conferiscono 190 mila quintali di uva.
Se i vini del Piave sono conosciuti in tutto il mondo, è grazie alle condizioni favorevoli di terra
e clima, ma soprattutto grazie all’impegno e alla dedizione di tante famiglie venete, che
hanno dimostrato di saper coniugare la sapienza della tradizione con la capacità d’innovarsi continuamente.
Insieme abbiamo un obiettivo: promuovere e difendere la qualità. Questa è la strada per
essere competitivi sui mercati internazionali, e per tutelare la tipicità e la territorialità dei
nostri prodotti.
In un momento di difficoltà, l’agricoltura è l’unico settore economico del nostro Paese in espansione: non a caso possiamo parlare di Rinascimento agricolo.
Il settore primario ha un futuro su cui scommettono in molti, a partire dalle nuove generazioni.
Lo dimostrano i soci della cantina di Ormelle, che sono i più giovani del Trevigiano.
Giovani che ci mettono passione, anni di studio e preparazione, ricerca continua di novità.
Senza dimenticare la storia millenaria delle nostre splendide terre.
Il nostro vino, infatti, è legato da sempre alla nostra tradizione contadina. Evoca un mondo
genuino, fatto di affetti e rapporti solidali, di solidarietà e amicizia.
Un mondo antico, che guarda al futuro con ottimismo e che oggi scommette sulla possibilità
di conquistare i mercati internazionali, puntando sulla qualità.
E i nostri vini del Piave, con le loro distese di vigneti, hanno contribuito a rendere il nostro
patrimonio enogastronomico unico in tutto il mondo.
Il Vino, identità di un Paesaggio
Franco Manzato
Vicepresidente della Regione Veneto
Il vigneto accompagna da millenni la civiltà della terra del Piave, la sua storia, la cultura, le
tradizioni, il paesaggio, la poesia. La vite e il vino sono una sorta di simbolo identitario per
questo territorio e hanno accompagnato lo sviluppo delle comunità locali che si affacciano alle
rive del fiume.
È strettissimo il legame del vino con la vita della gente, della quale da sempre scandisce le stagioni e ne anima lo spirito, fino a determinare comportamenti, usanze tradizioni. E di questa
terra il vino è anche fattore di ricchezza.
Il piacere di celebrare vigneti e vini e quanti ne hanno cura e li producono è ancora maggiore
in occasione del mezzo secolo di vita della Cantina Sociale di Ormelle, presenza attiva e significativa per il territorio, che ha contribuito a far crescere in benessere puntando a livelli di
eccellenza nella qualità, senza mai dimenticare i richiami etici e di solidarietà che la cosiddetta globalizzazione e la finanza non sembrano tenere in grande considerazione.
Un buon vino non nasce per caso o in laboratorio, ma è espressione di una terra e di un popolo e del suo universo di valori, in cui l’impegno individuale si rappresenta anche in maniera
collettiva e identitaria. Ed è il risultato di saperi antichi e moderni e di una cultura del lavoro che generazioni di uomini e donne hanno coltivato e sempre aggiornato, credendo nelle proprie radici e nel proprio territorio, del quale sono i veri protagonisti.
Il vino non è insomma un “semplice” prodotto agricolo, ma il risultato di una cultura e di una
storia nobile ed è sulla civiltà della comunità che lo produce che se ne misura anche la qualità. Come Regione siamo in prima fila nel promuovere l’identità nobile del vino veneto, della
quale la terra del Piave è estremamente rappresentativa. Il vino diventa in questo caso elemento di una valorizzazione complessiva e coordinata del territorio, del quale è espressione
fino a costruirne l’armonia del paesaggio e l’equilibrio ambientale.
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Cinquant’anni di progresso
Andrea Manente
Sindaco di Ormelle
Il libro, che ricorda i primi cinquant’anni di vita della Cantina, “Ormelle, vino, società, territorio”, esprime tutto questo, mettendo doverosamente in primo piano uomini, eventi, successi
e traguardi raggiunti, e si apre ad orizzonti più vasti offrendo una bella immagine di tutto il
meraviglioso e prestigioso “Vigneto del Piave”. Racconta l’anima, il paesaggio, il folclore, lo
sviluppo di tutto un territorio.
È l’approccio giusto e virtuoso: i vini del Piave, come gli altri prestigiosi vini del Veneto e
d’Italia, diventano vincenti in tutto il mondo se promossi e valorizzati nel loro insieme, legati
al territorio di origine, alla civiltà di cui sono espressione, al paesaggio che impreziosiscono.
Da poco si era conclusa la guerra e le persone, che ancora erano segnate dalle sofferenze, si
affidavano al futuro e, con lavoro e costanza, contavano di potercela fare e mettere finalmente fine alle avversità.
Ed infatti ci fu chi non tenne richiuso il proposito solamente nel guscio della sterile speranza,
ma fu attivo, intraprendente e lungimirante. Non si trattò di una sola persona, bensì di un
gruppo, di un sodalizio, di un insieme determinato di cooperatori, pronto a sfidare le difficoltà per il benessere proprio, dei propri cari, del proprio territorio: i fondatori della Cantina
Sociale di Ormelle.
Da un’agricoltura magra e faticosa, che purtroppo dominava la vita economica della comunità, dove il beneficio delle produzioni era, tra l’altro, troppo spesso assottigliato per chi sulla
terra ci stava a tutto vantaggio invece di chi la sfruttava a solo scopo mercantilistico, s’ebbe
finalmente la stura per una diversa e creativa concezione, fondata sulla partecipazione e sull’utile diretto del piccolo proprietario, che dunque potette a quel punto accingersi a divenire
imprenditore di se stesso.
Non impiegò molto, del resto, la neonata Cantina Sociale per radicarsi nelle più tipiche consuetudini di Ormelle e degli ormellesi.
Della lunga teoria di trattori e carri, che, in ordinata fila, talora s’allungava fino alla piazza
Vittoria, ancora vive il ricordo in chi fu ragazzo nei decenni sessanta e settanta del
Novecento. Ed è, fortunatamente, una memoria pulsante e felice di un fatto che da solo carat-
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I nostri valori sociali
Raffaello Zanatta
Direttore Cantina Sociale di Ormelle
terizzava un periodo di emblematica scansione dello scorrere delle stagioni, nella ricorrenza
dell’inesauribile freschezza pittorica dell’arrivo delle uve appena vendemmiate.
Il poderoso significato dei cinquant’anni, che oggi si celebrano, deriva anche da questi trascorsi, apparentemente semplici, ma in realtà autentici promotori di coscienza condivisa; cioè
quella dell’impegno e della dedizione, che è stata la premessa essenziale per il passaggio
sostanziale dall’economia povera e depressa a quella tecnologica e dell’innovazione, della
quale, buon titolo, questi luoghi ne vanno fieri.
Di tutto ciò la Cantina Sociale di Ormelle ne fu e, certamente, lo è tuttora esempio limpido,
intangibile ed illustre.
Sono orgoglioso di trovarmi nel ruolo di direttore della Cantina Sociale di Ormelle a
vivere questo particolare ed emozionante momento. Celebrare significa inevitabilmente ricordare, riflettere e riproporre. Sono tre momenti che possono trasformarsi
in vanità per un’azienda che compie cinquant’anni di vita, in realtà rappresentano
opportunità di ragionare su valori, propositi, impegni, attività.
Nel Trevigiano sono molte le cantine sociali che hanno raggiunto o stanno raggiungendo questo ambìto traguardo, e ciò è segno evidente che queste strutture hanno
saputo nel tempo tener testa alle molteplici e spesso complesse evoluzioni del settore vitivinicolo e diventare anche uno stimolo e una certezza economica per il nostro
territorio.
Tenendo presente che le cantine sociali sono nate per il raggiungimento di un bisogno organizzativo comune degli agricoltori, quasi tutte quelle sorte tra gli anni
Cinquanta e i primi anni Sessanta, si sono date come oggetto sociale l’impegno della
lavorazione in comune delle uve dei soci per farne vini sani e genuini, secondo i dettami della scienza e della tecnica enologica.
Altro obiettivo: la vendita in comune dei vini, il cui ricavato viene suddiviso, dedotti oneri e spese, in relazione alla quantità, alla qualità e al pregio delle uve.
Questa formula apparentemente superata soprattutto sotto l’impostazione letterale,
fa parte dei principi sociali e degli indirizzi ideali che restano tuttora vivi e vitali. Mi
riferisco alla ricerca della qualità, al controllo e all’organizzazione delle vendite, alle
economie di gestione per ridurre i costi, il tutto integrato in un contesto economico
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I NOSTRI VALORI SOCIALI
e sociale radicalmente trasformato, soprattutto dal processo di globalizzazione.
Vediamo quindi che, al di là dell’evoluzione tecnologica, nulla di base si è modificato fino ad ora, in mezzo secolo di vita dell’azienda. Con questo non significa che cinquant’anni siano stati una passeggiata.
In ogni decennio ci sono stati cambiamenti. Negli anni Sessanta c’era l’esigenza di
far crescere l’azienda sotto il profilo organizzativo e tecnico per essere al passo con
l’evoluzione viticola varietale, una produzione sempre in crescita e l’impegno di
garantire un adeguato reddito agli agricoltori.
Negli anni Settanta, con l’inizio del cambiamento dei costumi sociali, si cominciano
a vivere i primi problemi di eccedenza produttiva. Negli anni Ottanta il settore viticolo enologico si reinventa. Purtroppo, a questa evoluzione, contribuisce in modo
significativo il tragico evento del vino al metanolo, che lascerà un segno indelebile
nella storia enologica del nostro Paese.
È il periodo della modernizzazione delle cantine sociali e dello sviluppo di nuove
piccole aziende: tutti sono consapevoli dell’esigenza di percorrere la strada della
qualità. Gli anni Novanta sono investiti da straordinari processi di internazionalizzazione dei flussi commerciali e si va strutturando un sistema-vino più articolato
con nuovi paesi concorrenti come Australia, Stati Uniti, Cile, Sudafrica e altri. Si delinea un’arena competitiva complessa con una varietà di imprese e di strategie di identificazione dei prodotti molto ampia e articolata; mi riferisco ai vini con forte connotazione territoriale, ai vini varietali, ai brand.
Contrasta con questa evoluzione l’intervento della distillazione obbligatoria alla
quale i produttori veneti si opposero in modo deciso e fermo, non tanto per principio, quanto perché i nostri prodotti riuscivano ad avere sempre adeguati sbocchi di
mercato.
La distillazione era quindi una forma di coercizione nei confronti di un’area che proprio per la sua imprenditorialità e capacità commerciale, non sentiva l’esigenza di
alcuna misura di sostegno.
Nel Duemila si vive, tra l’altro, la riorganizzazione catastale attraverso la quale si
delinea il calo europeo delle superfici vitate attorno al 15%, mentre crescono i vigneti negli Stati Uniti, in Australia e in Cile.
L’Europa purtroppo deve fare anche i conti con una riconversione viticola lenta e
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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burocratizzata e ora il nostro futuro e le nostre strategie sono affidate alla nuova
OCM (Organizzazione comune di mercato), che ci accompagnerà alla globalizzazione dei mercati, la quale ormai non conosce limiti o frontiere.
In uno scenario di questo tipo la Cantina Sociale non è una semplice istituzione economica dalla rilevante attività produttiva e finanziaria, ma tocca in modo non marginale la sfera del sociale e non ultima quella culturale dell’area in cui si trova.
La nostra, dunque, è un’impresa nella quale la persona-socio prevale sull’elemento
economico, sebbene il profitto sia una condizione operativa primaria per essere efficienti e garantire la crescita sociale ed economica dei soci. Alla base c’è la comune
volontà dei soci di crescere insieme, ma ognuno protagonista con il proprio lavoro.
La comune gestione, caratterizzata dalla mutualità, permette di non essere in uno
stato di inferiorità nei confronti di chi, come i grandi gruppi, detiene una posizione
di forza sul mercato.
I tempi che viviamo e le sfide che dobbiamo affrontare richiedono grande efficienza
al nostro lavoro, ma anche costante attenzione allo sviluppo di forme di moderna
cooperazione e quindi un sempre più maturo senso di responsabilità e di impegno
nella ricerca delle soluzioni più efficaci ai nostri problemi, per rilanciare la competitività dei produttori, in un mondo di globalizzazione mercantile.
Ricerca, aggregazione, pianificazione produttiva e organizzativa ed evoluzione tecnologica sono i fattori strategici da implementare. Questo risultato si potrà garantire solo attraverso una forte coesione sociale sia a livello di persone che di gruppi, in
uno spirito di leale condivisione. Ovviamente ciò che è stato appena detto altro non
è che una veloce analisi dello spirito di aggregazione che trova la massima espressione in questa nostra struttura sociale, pur con tutti i suoi punti deboli.
In basi sociali ampie ed attive basta poco per sollevare situazioni conflittuali, ma è
anche altrettanto importante evidenziare come le stesse possano diventare la forza
di reazione per effetto di quegli equilibri che la democrazia permette in un sistema
pluralistico.
Non voglio quindi parlare di passato, presentato ampiamente in questo libro, ma
di futuro, che paradossalmente comincia in anni difficili per il settore. Gli ultimi
anni del Duemila sono stati caratterizzati da alti e bassi e da un certo nervosismo
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La Cantina Sociale di Ormelle
I NOSTRI VALORI SOCIALI
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
Centro di raccolta e di vinificazione di Negrisia
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I NOSTRI VALORI SOCIALI
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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nulla di quello che è stato fatto. Le vicende si vivono giorno dopo giorno, non con
l’intelligenza del poi. La Cantina Sociale di Ormelle si è data l’obiettivo di crescere e
di rimanere in pista da campione.
Nella provincia di Treviso i soci della nostra Cantina sono i più giovani, le superfici
pro capite a vigneto sono le più elevate, il rapido sviluppo della meccanizzazione nel
vigneto, dalle principali lavorazioni alla raccolta, evidenziano una forte innovazione che è comune a tutta l’area.
Tutto questo fa sì che il sistema sia vincente. Il mercato richiede dinamismo, servizi
ed efficienza e la Cantina di Ormelle con i suoi investimenti, la modernizzazione del
sistema produttivo e organizzativo, la ricerca di sempre nuovi partner per il completamento della filiera produttiva vuole essere all’altezza del sistema. Spesso in questo
settore ci si abbandona a facili e superficiali generalizzazioni.
Il Consiglio di Amministrazione della Cantina Sociale di Ormelle, 2009. Da sinistra: Barattin Francesco,
Toffoli Dario, Spessotto Amedeo, Dal Pos Angelo, Rivaben Fernando (vicepresidente), Casonato Luigi,
Cadamuro Rino (presidente), Baro Sergio, Zaninotto Lucio, Spessotto Silvano, Barro Francesco, Scotton Ezio,
Narder Gabriele, Zanatta Raffaello (direttore)
che rendeva particolarmente problematico dialogare anche a livello di filiera.
Ora i tempi sembrano cambiare per effetto delle forti accelerazioni impresse dal
sistema che ha messo a dura prova il singolo imprenditore e strutture sociali come
la nostra Cantina. Sono convinto, comunque, che a risolvere la situazione siano la
sicurezza e la determinazione di chi gestisce e conduce l’impresa e la lungimiranza
dei produttori che sono la spina dorsale del sistema.
In un organismo umano nulla è superfluo e nessun organo è meno importante di un
altro, altrimenti si crea una invalidità e questa riduce l’efficienza. Sono molte le cose
che la Cantina ha fatto negli anni e se tornassimo indietro, forse, non scarteremmo
Le pagine che seguono hanno lo scopo di raccontare la storia di un’azienda e dell’evoluzione di una zona che è il vanto di tutti noi, con l’orgoglio di appartenere a un
lungo percorso che si è spinto fino ad attivare, dopo cinquant’anni di storia, una profonda voglia di ricominciare in una sfida che ormai non trova più il verbo in quell’oggetto sociale che ho menzionato inizialmente.
Queste occasioni e celebrazioni sono anche uno stimolo, direi quasi un’istigazione,
a ripercorrere emotivamente e criticamente le vicende che fanno parte del passato,
riconoscendo il valore di tutti coloro che, con la loro opera e la loro determinazione,
hanno contribuito in cinquant’anni allo sviluppo socio-economico di questa realtà
imprenditoriale eno-viticola.
Sono convinto che questa ambizione e responsabilità non verranno mai meno neppure in questo momento difficile che ci accompagna nel nostro ambizioso traguardo.
T
he Ormelle Cooperative Winery is a guarantee for the vine growers of the
Piave district. It has followed their growth, supported their development and
fostered changes for the better.
It has enabled its members to face troubling crises, creating conditions for a generally
satisfactory income, providing both security as well as prospects. It has guaranteed
quality. It is a cooperative, and the limitations which this may involve are greatly
outnumbered by the benefits.
The Ormelle Cooperative Winery is now more cutting edge than ever before – an
outstanding success. Its long-sightedness over the years means it is ready for the
challenges to come and can now boast motivated, enterprising human resources,
offering efficient services and highly innovative equipment.
The winery has succeeded in keeping up with the times and has, on many occasions,
even set the pace for others.
It has always looked ahead, beyond circumstantial difficulties.
It is the cooperative winery with the highest number of young members in Treviso,
all wine lovers dedicated to making a better product. They are passionate about their
work in the vineyards.
They stand for its hope, its strength. Its prime value.
Cantina Sociale di Ormelle. Cinquant’anni
Angelo Squizzato
Incomincia l’ultimo giovedì di agosto del 1958 la storia della Cantina Sociale di
Ormelle. La giornata è afosa, l’aria profuma di uva matura.
I vigneti promettono bene. Ma il momento è positivo anche per altri prodotti della terra.
Il quotidiano “Il Gazzettino” proprio quel giorno pubblica le previsioni della Camera di
Commercio di Treviso, che sono favorevoli, in genere, per il granoturco, l’uva e la frutta.
Solo i bachi da seta tradiscono: per l’eccessiva siccità ne sono prodotti soltanto 3
milioni 500 mila chili. La bachicoltura ha ancora un peso sensibile nell’economia
agricola. Impegna risorse e dà reddito.
Ma presto i bachi cesseranno di filare. Cederanno il passo a laboratori e fabbriche, il
cui rumore si imporrà sul loro silenzioso lavorio.
Nel Foro boario di Oderzo si registra la presenza di 700 capi di bestiame.
Si attarda la società rurale, però preme già la febbre imprenditoriale che in pochi
decenni sconvolgerà il ritmo dei giorni e delle stagioni e del lavoro dell’uomo.
Si pratica ancora la mezzadria. Le cronache del tempo sottolineano come stia
aumentando la produzione del ramo manifatturiero. Siamo appena agli inizi, ma la
figura del mezzadro incomincia a scontornarsi per essere sempre più “metalmezzadro”. Sulla grande campagna veneta attraversata dal fiume Piave fioriscono timidamente le prime piccole industrie.
Ormelle e dintorni, ad ogni modo, sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso,
si coltivano nella tradizione; fanno notizia fatterelli che oggi portano a sorridere e
regalano la dolcezza e la nostalgia del tempo che fu. Sempre nel Gazzettino di quel
giorno si legge che un agricoltore di Ormelle inciampa e si lussa una spalla attraversando un campo.
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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L’atto costitutivo della Cantina Sociale di Ormelle (il nome ufficiale è Azienda agricola Francesco Giacomini – Cantina di Ormelle – società a responsabilità limitata) è
firmato nello studio del notaio Rosanna Turchetto il 28 agosto. Lo sottoscrivono
Francesco Giacomini, Gracco Pettoello, Angelo Camerin, Mario De Poli, Anastasio
De Polo, Attilio Andreetta, Mario Tardivo.
Il capitale sociale è di 240 mila lire, dei quali 200 mila sono messi a disposizione da
Francesco Giacomini, un proprietario terriero, che assume la presidenza della Cantina.
Suo è il terreno e sua è la cantina che vengono affittati per incominciare l’attività,
che sin dalle prime battute dimostra un grande dinamismo, tanto che se ne preoccupano le vicine cantine sociali.
Alla testa ci sono uomini autorevoli che mettono a disposizione le risorse necessarie
per far decollare la società che è a responsabilità limitata e che in seguito diventerà
società per azioni.
È una scelta che obbedisce a una precisa strategia: non si vogliono i condizionamenti di una tradizionale cooperativa agricola, i quali non compenserebbero i possibili
vantaggi che ne deriverebbero. In altri termini, si vogliono mani libere per muoversi con scioltezza sul mercato per cogliere ottimali opportunità.
Un autorevole testimone del tempo, Bruno De Polo, che appartiene alla storia della
viticoltura del luogo: «Si voleva essere padroni: nella società cooperativa, invece,
comandano tutti».
Proprio per questo la nuova realtà è vista con un pizzico di diffidenza da politici e
amministratori pubblici, un atteggiamento che di fatto continua per diversi anni.
Se ne apprezzano i successi, l’intraprendenza, la rapidità decisionale, ma si mantengono le distanze proprio per il fatto che si tratta della sola cantina sociale “per azioni” nel Trevigiano e una delle poche nel Veneto e in Italia. Se ne sottolineano differenza e per tanti aspetti l’anomalia e soprattutto l’indipendenza che viene anche
ostentata con orgoglio e proprio per questo non è vista di buon occhio.
Altro aspetto molto importante per capire il rapido decollo è la disponibilità di denaro fresco per strutture e macchine e per pagare le uve.
Le banche inseguono gli uomini della Cantina per offrire finanziamenti a condizioni eccezionali tanto si sentono sicure della loro solidità e affidabilità.
L’atto costitutivo della Cantina Sociale di Ormelle, 28 agosto 1958
Obiettivi e impegni sono fissati dallo statuto allegato all’atto costitutivo. Si compone di 33 articoli.
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
Una brenta carica di uva su un carro trainato da buoi verso la Cantina Sociale, un’immagine familiare fino a ieri
È particolarmente importante il secondo perché fissa scopi e traccia i confini dell’attività. «La società ha per scopo la lavorazione in comune delle uve ed, eventualmente, di altri generi agricoli di produzione dei soci, onde trarne, mediante dettami della
scienza e della tecnica, migliori prodotti; l’utilizzazione e la vendita di sottoprodotti
della vinificazione o la loro cessione; la vendita in comune dei vini fatta eccezione
per quelli ritirati dai soci per il fabbisogno famigliare.
La società potrà estendere la propria attività a qualsiasi altra iniziativa, industria,
commercio servizio che risulti utile per l’incremento, la valorizzazione e lo sfruttamento dei prodotti agricoli dei soci anche al di fuori del campo vinicolo. Potrà istituire succursali, recapiti, centri di raccolta e magazzini ovunque lo creda opportuno.
La società potrà prendere parte e dare partecipazione ed interessenze in azioni aventi oggetto analogo sia direttamente che indirettamente, acquistare, vendere, locare
immobili e impianti, assumere a qualsiasi titolo l’esercizio, gestione, liquidazione di
aziende aventi gli scopi affini a quelli sociali e potrà compiere tutte le operazioni
mobiliari, immobiliari, economiche e finanziarie necessarie al raggiungimento
degli scopi sociali».
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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L’articolo tre indica le condizioni per essere soci: «La qualità di socio della A.A.F.G.
non potrà essere riconosciuta a chi non sia proprietario – affittuario – enfiteuta –
usufruttuario – beneficiario – mezzadro di terreni vitati nei comuni del Distretto di
Oderzo – Motta di Livenza e Conegliano e zone limitrofe, la cui domanda di ammissione non sia accolta dal Consiglio di amministrazione con decisione insindacabile.
L’acquisizione della qualità di socio importa l’obbligo del conferimento totale alla
Cantina delle uve bianche e nere di propria produzione per la loro lavorazione in
comune secondo le disposizioni dell’articolo due.
Il Consiglio potrà esonerare il socio dal conferimento di speciali qualità di uve la cui
lavorazione in comune non sia tecnicamente possibile e conveniente. Il socio che
per qualunque causa cessi dall’essere produttore di uva nella zona del distretto di
Oderzo – Motta – Conegliano e limitrofi perde il diritto di continuare della Società».
Si prevede, inoltre, che la Cantina possa «ricevere per la lavorazione uve appartenenti anche a produttori non soci, con preferenza per i mezzadri dei soci e per i piccoli
coltivatori purché ne facciano domanda scritta al Consiglio di amministrazione
entro il 30 agosto di ogni anno, indicando la quantità e la qualità di uva che il richiedente intende consegnare per la lavorazione».
È uno statuto che bene puntualizza la mission di una cantina sociale “atipica” per
tanti aspetti, ma i cui dirigenti hanno idee ben chiare sul da farsi e su come conseguire risultati soddisfacenti per i soci, che danno ad essi ampio consenso e aperta
disponibilità.
La nuova realtà suscita nella zona notevoli attese. Nasce da una situazione di disagio
per tanti vignaioli, soprattutto per i maggiori produttori, che ritengono insufficiente e inadeguato il servizio e la rimunerazione dell’uva da parte delle cantine operanti nel territorio. I più anziani ricordano le interminabili file di carri trainati tra trattori, da cavalli, da buoi davanti alle cantine, in attesa di consegnare le uve. Le foto del
tempo fanno intravedere anche piccoli carrettini attaccati a biciclette. Si pigia di
notte, sino alle ore piccole.
Il mercato è capriccioso e non paga abbastanza. La speculazione è una tentazione
sempre forte e tutte le occasioni e tutti pretesti sono buoni per approfittarne.
La Cantina di Ormelle è pensata in questo contesto di strutture insufficienti, di precarietà di prezzi, di incertezza di prospettive e di abbondanza di offerta di prodotto.
Vuole essere una risposta innovativa ed efficace.
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
Di uva, comunque, ce n’è tanta, ma non troppa, come si intuisce da una lunga intervista di Annibale Cosmo, capo ispettorato agrario provinciale, che leggiamo nel quotidiano “ Il Gazzettino” del 30 agosto 1958, nella quale egli fa il quadro della situazione vitivinicola nel Trevigiano.
Afferma che le scorte di vino sono appena sufficienti ad arrivare alla nuova produzione; però, se ne venissero a mancare, c’è sempre «la possibilità di inoltrare sui mercati dell’Italia settentrionale i vini del meridione, dove la vendemmia inizia con un
certo anticipo rispetto alla nostra».
Nella tarda estate del 1958, l’insufficienza di vino sarebbe la causa del rincaro dell’ombretta, che passa da 15 a 25 lire, tra lo sconcerto della gente. Si legge, sempre nel
Gazzettino (30 agosto) «mormorii di scontento e disapprovazione serpeggiarono tra
la numerosa clientela che assiduamente frequenta bars, trattorie e ritrovi pubblici
per trascorrere dinanzi a un bicchiere di bianco o di rosso, dieci minuti in piacevoli
conversari».
L’intervista è interessante, inoltre, perché pone in evidenza la necessità di dare identità e quindi tutela ai vini rossi e in particolare al «Raboso Piave, un vino da mezzo
taglio per la sua ricchezza in materiale colorante, acidità eccetera».
Per Annibale Cosmo si deve salvaguardare e valorizzare i vini del Piave, fissandone
tipicità, caratteristiche e standard qualitativi per ottenere un adeguato riconoscimento da parte del mercato.
Sono concetti che troveranno applicazione presto, tanto che nell’anno successivo, il
14 agosto, si varerà il Consorzio dei vini del Piave per perseguire tali obiettivi. Si
legge nell’atto costitutivo firmato davanti al notaio Cornelia Olivi: «È costituito, a
norma degli articoli 2602 e 2615 del codice civile un Consorzio con sede in Treviso
presso al Camera di Commercio, Industria e Agricoltura e con la denominazione
“Consorzio dei vini tipici del Piave” avente per oggetto principale la tutela del vino
“Piave” nei suoi tipi “Rosso e Bianco”».
La Cantina Sociale di Ormelle sarà tra i soci fondatori più convinti e attivi. Con questa adesione conferma il suo impegno per la ricerca della qualità nel vigneto e nella
lavorazione dell’uva in modo da ottenere i massimi vantaggi commerciali. È delegato a rappresentarla il consigliere Domenico Mattiuzzi.
È significativo rilevare come si parli semplicemente di vini bianchi e rossi.
All’osteria si ordina ancora un bicchiere di bianco e di rosso.
Passerà parecchio tempo prima che si incominci a dare un nome a un bianco e un
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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rosso. La cultura del bere, come la intendiamo oggi, è un dato elitario, e vigneto e uva
sono coltivati con criteri molto tradizionali e approssimativi.
La produzione di uve nel 1958, in provincia di Treviso, è sul milione e 800 mila quintali. C’è sempre una forte presenza di Clinton, di Bacò e di ibridi, destinati presto a
perdere di peso e di valenza commerciale.
I primi mesi di attività sono intensi: la raccolta di uve è più che soddisfacente. Si
intravedono all’orizzonte notevoli potenzialità tanto che si decide di aumentare il
capitale sociale portandolo da 240 mila lire a un milione. Le nuove risorse permetteranno di accrescere le capacità di lavorazione e di vinificazione.
Si ritiene, inoltre, opportuna una modifica del nome della società: da “Azienda agricola Francesco Giacomini – Cantina di Ormelle – società a responsabilità limitata” a
“Cantina Sociale di Ormelle – società a responsabilità limitata”.
Il cambiamento è proposto «allo scopo di evitare confusioni per omonimie» – si
legge nei verbali dell’assemblea straordinaria del 5 dicembre 1958, presente il notaio Guglielmo Santomauro; in realtà si apre la strada all’ipotesi, che resta però lontanissima, di una cantina sociale a tutti gli effetti e con tutti i possibili benefici.
Il 1959 è un anno fondamentale per il consolidamento della Cantina: nell’assemblea
del 24 giugno si vota l’acquisto di 3.600 metri quadrati a Negrisia di Ponte di Piave
per costruire un Centro di raccolta e di vinificazione.
Segue subito un’altra assemblea straordinaria, l’8 luglio, nella quale si cambia ragione sociale: la cantina di Ormelle da società a responsabilità limitata diventa società
per azioni. Il capitale sociale è portato da un milione a cinque milioni.
Si dà il via al Centro di raccolta e di vinificazione di Negrisia.
Il primo bilancio esalta i risultati conseguiti: si è oltre le più rosee attese. La macchina è partita bene e lascia intravedere un percorso allettante.
Dal verbale del primo esercizio sociale: «La gestione ha soddisfatto le aspettative e,
per quanto ai risultati, non sfigurò al confronto di altre analoghe iniziative dei dintorni. […]
Gli amministratori, d’accordo con il collegio di controllo ed in vista del ben più largo
sviluppo che l’iniziativa promette, si presentano a voi dimissionari e vi danno così
modo di provvedere a nuove nomine (Ormelle 31 dicembre 1959)».
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
Cambio di presidente con l’assemblea del 22 maggio 1960: a Francesco Giacomini
subentra Gracco Pattoello, di professione farmacista in Oderzo, persona illuminata e
pratica.
Egli, dopo avere evidenziato successi e impegni, presenta un programma di ampio
respiro, che prevede l’acquisto dell’immobile della cantina, che è sempre in affitto,
con l’obiettivo di ampliarla e di accrescerne le capacità. Propone l’aumento del capitale sociale da 5 a 25 milioni e l’emissione di 20 mila nuove azioni per soddisfare la
crescente domanda di aspiranti soci. Per diventarlo occorre conferire almeno 10
quintali di uva: 2 quintali di uva per azione.
L’operazione si rende necessaria per superare una contraddizione che non viene vissuta bene. I soci della cantina sono sempre sette, i fondatori, ma coloro che conferiscono l’uva (93 mila quintali nel 1959) sono ben 615.
«Una situazione così anormale tra soci effettivi e conferenti annui non poteva certo
continuare» si sottolinea nel verbale dell’assemblea del 26 maggio 1963, in cui si
ripercorrono i primi anni della Cantina, che da quel momento assume i connotati
sostanziali di una cantina sociale, «secondo i principi della cooperazione e della
mutualità, con 438 soci effettivi in luogo dei sette e con impegno di conferimento
uve a carattere continuativo di 50 mila quintali» (dal verbale dell’assemblea generale ordinaria del 26 maggio 1963).
Gracco Pattoello invita i soci (ne sono presenti 182) «ad avere fiducia perché ogni azione sarà diretta al potenziamento della società nell’interesse dei produttori vitivinicoli».
È piuttosto tesa l’assemblea del 26 febbraio 1961, preceduta da un pesante foglio
anonimo che viene ampiamente diffuso, il quale contiene un duro attacco alla dirigenza di ieri e di oggi.
Il fatto, comunque, non scalfisce la fiducia della stragrande maggioranza dei soci (ne
sono presenti all’appuntamento ben 342), i quali valutano i risultati, lasciando da
parte critiche e sospetti che non trovano motivazione.
Nel gruppo dirigente viene inserito il professor Antonio Cella, persona di alto profilo
professionale: un’autorità sul fronte dell’agricoltura.
Nel 1961 viene eletto presidente della Cantina, il cui capitale sociale nel frattempo è
portato da 25 a 40 milioni con l’obiettivo di «stabilire un più equilibrato rapporto tra
gli immobilizzi sociali ed il capitale della società e rendere possibile a nuovi conferenti di uva di diventare azionisti».
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I soci si avviano verso quota cinquecento. La Cantina di Ormelle naviga su acque
tranquille, i conti tornano.
Dalla relazione relativa al bilancio al 31 agosto 1961 del professor Cella: «La situazione patrimoniale ed economica della nostra cantina è chiara e tranquilla ed il suo prestigio va sempre più affermandosi perché mira ad una sola meta, quella di difendere
dalla speculazione e dalla instabilità dei mercati un prodotto che sta diventando
sempre più importante per la vita e per l’avvenire delle nostre genti».
C’è dunque la consapevolezza della crescente importanza della vitivinicoltura nella
zona, anche se il mercato dell’uva e del vino è molto fiacco. Il professor Cella nella
relazione sottolinea come la vendemmia del 1960 sia stata abbondante, ma «molto
deficiente in qualità, con un grado zuccherino eccezionalmente basso… All’inizio
della vendemmia ed anche successivamente le uve si presentarono così scadenti da
destare non poche preoccupazioni sul buon esito della vinificazione».
Si mette in risalto il ruolo attivo delle Cantine sociali, «unica arma di salvezza per il
produttore… Se fossero mancate le Cantine sociali o se la loro consistenza non fosse
stata efficiente, la grandissima parte della produzione 1960 sarebbe stata irrimediabilmente compromessa perché non avrebbe potuto trovare sul mercato sufficiente e
remunerativo collocamento».
Complessivamente alla Cantina di Ormelle sono portati 87 mila 184 quintali di uve
con un grado zuccherino medio di 14,02.
La struttura non regge a tanto conferimento tanto che si pone il problema di affittare altre cantine della zona e in prospettiva di potenziare gli impianti di Ormelle e di
Negrisia. Il progetto è di portarli a una capacità di trattare centomila quintali di uva.
Si ipotizza un nuovo gruppo di vasche a Negrisia.
È una stima realistica, che tuttavia è limitata rispetto al conferimento di uva che sarà
fatto negli anni immediatamente successivi (più di 111 mila quintali nel 1962 e oltre
130 mila quintali nel 1964, due vendemmie particolarmente abbondanti).
Crescono anche i soci che nel 1962 quasi sfiorano quota 600, quando il capitale
sociale passa da 25 a 40 milioni.
Si accompagna tanta lievitazione di attività migliorando e ampliando strutture e servizi sia ad Ormelle, dove si acquista un ettaro di terreno accanto alla cantina, nel lato
sud, che a Negrisia. Ci si dota di nuove vasche.
Nel frattempo ci si disfa della “Centrale vinicola lombarda”, le cui azioni sono per un
intero anno in possesso della Cantina. Non ci sono più le condizioni per mantenerle.
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
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L’esperienza, pensata sin dai primi passi della Cantina per supportare la vendita
diretta di vino a Milano e dintorni, è ritenuta insostenibile. La Lombardia è una piazza importante per i vini di Ormelle: un camion, che fa spola con Milano, ha una
grande scritta sul cassone: “Vino del Piave per i milanesi”.
Nel 1961 si aderisce alla proposta di costituzione di una Cooperativa di secondo
grado tra le cantine sociali del Veneto per lo sfruttamento dei sottoprodotti della
vinificazione: è un’iniziativa proposta dalla Consulta regionale dell’Agricoltura e
dalla Stazione di viticoltura di Conegliano.
La sottoscrivono 23 cantine sociali venete che si impegnano a consegnare più di 100
mila quintali di vinacce.
Nel 1963 il capitale sociale è portato da 40 a 50 milioni e si apre la discussione sull’opportunità di una modifica dello statuto «per renderlo più consono alle nuove
direttive governative che sempre più si delineano in favore della forma cooperativa
pura. È una proposta che si continuerà a dibattere per decenni».
«È una questione unicamente di forma – chiosa il presidente Cella – perché la sostanza che anima i concetti cooperativistici e mutualistici è più che mai viva ed operante».
Egli traccia l’immagine della Cantina come «di una grande famiglia in continuo
aumento; al presente con oltre 600 componenti che devono sempre più comprendersi. Nella unione concorde, fiduciosa, costruttiva, sincera sta la nostra forza, sta il
segreto per il raggiungimento delle nostre aspirazioni in difesa dei nostri interessi
riguardanti il settore viticolo che costituisce il lievito principale di vita del nostro
ambiente la cui economia riposa in grandiosa parte sul prodotto dell’uva».
Nel 1964 l’attenzione è concentrata sulla realizzazione della difesa antigrandine. Si
installano ben 64 postazioni, dotate ciascuna della rampa di lancio e di una riserva
di dieci razzi. La Cantina anticipa le spese che sono a carico di Comitati locali in rapporto alla superficie coltivata. L’area è particolarmente colpita, i danni sono sempre
pesanti. È significativo che sul fronte di un capitello di Roncadelle, in via Saletto, ci
sia in grande l’invocazione: “A fulgore et tempestate libera nos” (Liberaci, Signore,
dai fulmini e dalla tempesta).
Proprio nel 1964 una violenta grandinata si abbatte su un’ampia fascia di campagna
di Negrisia, Roncadelle, Faè ed Ormelle compromettendo in maniera sensibile raccolti e vendemmia.
Roncadelle, capitello di via Saletto: «antigrandine divina»
Seguono tre anni di navigazione tranquilla: si investe molto nell’adeguare strutture,
nella dotazione di mezzi e di attrezzature, nel rendere più rapide le operazioni di
consegna delle uve. Si fa la recinzione della proprietà.
La stima, di cui gode la Cantina, è confermata dall’aumento costante dei soci: nel
1966 si arriva a quota 672.
Le uve vengono liquidate a un prezzo ritenuto soddisfacente. Ci sono soci, tuttavia,
che sono tentati dal disobbedire all’impegno di consegnare le uve senza giustificati
motivi. Altri invece ne conferiscono più del previsto.
Si invita tutti a rispettare “i patti” per consentire di operare in maniera ordinata e
secondo un programma fissato, e questo per il bene di tutti. Si promuovono verifiche per scoraggiare i possibili “furbetti”, che rappresenterebbero però un fenomeno
abbastanza isolato.
Si sottolinea, con orgoglio, un primato che si raggiunge nel 1965. Ormelle «ha superato in uva conferita, tutte le cantine della provincia di Treviso, ottenendo, così,
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ancora una volta la dimostrazione dell’attaccamento della quasi totalità dei soci
verso la loro istituzione».
Ne è conferma il bilancio che di anno in anno cresce per numeri e per qualità. La situazione patrimoniale supera abbondantemente il miliardo di lire. I conti sono a posto.
C’è spazio e c’è sempre voglia di nuovi investimenti per restare al passo con i tempi,
con la tecnologia, con lo sviluppo della coltura della vite e del vino nell’area del Piave.
Nell’assemblea del 4 dicembre 1966 si rivolge un pensiero commosso e di solidarietà con quanti sono rimasti coinvolti e sconvolti nella grande alluvione di novembre
che ha provocato fortissimi danni in tutta Italia. Ne è stata fortemente toccata anche
l’area del Piave e in particolare la zona di operatività della Cantina di Ormelle. Case,
strade, campi, vigneti devastati.
Nel 1967 il professor Antonio Cella per ragioni di salute si dimette da presidente e
consegna il testimone a Umberto Carrer.
Tutto accade nel segno della continuità in un clima sereno e costruttivo. La relazione è letta dal vicepresidente Giovanni Soligoni.
Aria di “Sessantotto” in cantina. Serpeggiano “contestazioni”, critiche, malumori; si
denunciano disagi; si lasciano intendere irregolarità.
Si cerca di affrontare la situazione con equilibrio, tenendo saldo il timone. Il “venticello” passa senza lasciare code velenose.
Sono anni in cui si insiste sulla necessità di una sempre maggiore disciplina nei processi produttivi, nei rapporti con la Cantina, nel conferimento delle uve per il quale
si stabilisce un regolamento che disciplina obblighi e procedure.
La Cantina di Ormelle compie dieci anni: una ricorrenza della quale non c’è traccia
nei verbali delle assemblee organizzate nel corso dell’anno. Parlano le opere, i progetti e le realizzazioni che dicono che la situazione è più che mai florida.
Per la prima volta la pigiatura, nel 1968, è fatta con pianali ribaltabili, che sveltisce
in maniera impressionante, rispetto alla tradizione, le operazioni, riduce i costi, fa
risparmiare in manodopera che comincia a scarseggiare. Si ha una notevole crescita di uve conferite per l’entrata in produzione di nuovi vigneti che compensano la
minore produzione per ettaro, dovuta al cattivo andamento climatico.
Lo scenario che si delinea è molto impegnativo perché si tratta di anticipare i tempi
rispetto a esigenze crescenti, soprattutto di fronte a un prevedibile aumento di uva
conferita, delle quali si intuiscono segnali evidenti.
nelle pagine precedenti:
Alluvione 1966, vigneti completamente allagati. Le acque toccano quasi la “volta” delle bellussere
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
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Si stabilisce perciò di rafforzare a Ormelle le linee di vinificazione con l’installazione di un torchio continuo a pressione definitiva e di grande portata oraria in catena
con silos per le vinacce; per il Centro di Negrisia si propone la costituzione della
linea di vinificazione in bianco in sostituzione della vecchia attrezzatura ritenuta
superata sotto tutti i profili.
Si lavora per le strutture, ma anche per la qualità del vino, che, in definitiva, è il vero
obiettivo.
Nell’assemblea del 14 dicembre si lancia il proposito di potenziare e sviluppare «il
settore di invecchiamento dei vini» dal momento che il consumatore si sta orientando sempre più «verso i vini di pregio» che è disposto a pagare bene «pur di bere bene».
Ne beneficeranno i margini di guadagno della Cantina, che potrà quindi procedere a
una «migliore liquidazione delle uve».
I progetti dunque non mancano, gli impegni sono forti. La loro traduzione in opere
non incontra ostacoli particolari tanto più che la struttura è solida e si mettono
insieme, senza grosse difficoltà, le risorse necessarie.
Nel 1970 un’altra ondata di sospetti che fanno parlare molto: 72 soci chiedono al tribunale di Treviso un’ispezione per verificare eventuali irregolarità. La denuncia è
respinta, tutto risulta a posto, ma il fatto, oltre a seminare dubbi, intralcia l’operatività della cantina, fa rinviare la domanda di un mutuo per lavori di ampliamento,
disturba le vendite di vino.
Sono piccoli episodi, che non meriterebbero di essere ricordati perché non incidono
nella storia della Cantina Sociale di Ormelle, ma il loro ripetersi impressiona e pone il
problema di una più matura coscienza sociale e di una maggiore responsabilità civile.
La Società va avanti. Nell’assemblea del 4 ottobre 1970 si vota un aumento del capitale sociale che sale a 60 milioni di lire.
I 670 soci, che in larghissima maggioranza confermano stima e fiducia nei dirigenti,
si impegnano a conferire 111 mila quintali di uva, ma la consegna effettiva si aggira
sui 140 mila quintali. La liquidazione delle uve è ritenuta «senz’altro lusinghiera» e
«tale da reggere ogni confronto».
Il vino prodotto risulta apprezzato sia in Italia che all’estero.
Tutto questo mette in risalto il presidente Umberto Carrer nella relazione del 4 ottobre 1970, delineando un orizzonte ambizioso che si apre «verso impegnative mete di
sviluppo».
Il ministro Mario Ferrari Aggradi arriva all’inaugurazione dei nuovi impianti della Cantina Sociale, 1970
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
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Un passaggio del suo discorso è particolarmente interessante poiché rivela il proposito di allargare il raggio di azione della cantina, di pensare in termini commerciali
più ampi rispetto ai tradizionali canali, di puntare anche sull’estero. In questa prospettiva la struttura dimostra capacità di intercettare le novità e di coglierne quindi
le dinamiche sul piano operativo.
Egli sostiene che «il futuro del nostro settore vinicolo proiettato su basi europee
impone la rivalutazione qualitativa del nostro prodotto e in tal senso nulla verrà tralasciato per ottener vini di qualità che possano validamente competere con le produzioni migliori.
Sarà potenziato e sviluppato il reparto invecchiamento attraverso un attento esame
delle premesse commerciali che si sono verificate sia su scala nazionale che europea».
L’inaugurazione dei nuovi impianti della Cantina Sociale, 1970
Gli anni Settanta si aprono sotto buoni auspici. Nel 1970 c’è un’ottima vendemmia e si
registra un nuovo primato nel conferimento di uve (138.500 quintali). Peccato che il mercato sia stanco, che i consumi interni siano in flessione e che le scorte aumentino. La
liquidazione delle uve però è considerata «soddisfacente, superiore a ogni previsione».
I lavori di ampliamento e la dotazione di nuove macchine e attrezzature sono completate. Con la seconda torre vinaria, la nuova pavimentazione e la soffittatura la
Cantina di Ormelle dà un’immagine di modernità e di spinta imprenditorialità.
Adesso si può organizzare una festa per inaugurare la rinnovata struttura e per sottolineare quanto è stato fatto e i progetti che sono ambiziosi. Si è convinti che ci sia
molto spazio per allargarsi e per migliorare.
Partecipa alla manifestazione il ministro Mario Ferrari Aggradi, un politico di grande prestigio, molto legato al mondo agricolo e in particolare al territorio del Piave.
A questo punto merita riportare quanto si legge nella relazione del Consiglio di
amministrazione relativa all’esercizio 1970-71: «L’inaugurazione da parte del ministro del Tesoro onorevole Mario Ferrari Aggradi ha sottolineato il cammino percorso in dieci anni dalla nostra Istituzione, tra le molte difficoltà iniziali, il rapido sviluppo, i successi ottenuti a dimostrazione dell’attaccamento dei soci all’Istituzione.
Ora la Cantina, raggiunta la dimensione ottimale, può guardare con fiducia ad un
avvenire più tranquillo in cui i nostri soci potranno andare orgogliosi e godere il
frutto del loro lavoro e del loro sacrificio».
Migliorano le quotazioni del vino nel 1971. Si piazzano bene «i vini invecchiati e
imbottigliati con tappo a sughero».
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È l’anno dalla Doc Piave (denominazione di origine controllata), istituita con il
decreto del Presidente della Repubblica dell’11 agosto. Comprende il territorio di 50
comuni della provincia di Treviso e 12 della provincia di Venezia, che appartengono
al bacino del fiume.
Il disciplinare è piuttosto rigoroso: stabilisce la quantità massima di uva per ettaro e
prevede controlli in cantina e nel momento in cui il vino è immesso nel mercato.
È una garanzia di qualità, dà maggiore certezza ai vignaioli impegnati per migliorare vigneto e lavorazione dell’uva.
Segnali positivi arrivano dal mercato e in particolare da piazze estere, come la Germania: si ha un’impennata nelle esportazioni.
Il momento si può definire felice. La situazione della cantina è ritenuta florida. Aria
di ritrovata fiducia e di rinnovato entusiasmo sociale. Il mercato è bene intonato.
Nel 1974, in seguito a una multa per mancato versamento dell’Iva, si ripropone la
questione di sempre: è il caso o no di trasformarsi in cantina sociale cooperativa a
tutti gli effetti? Ci si rende conto che si è di fronte a una contraddizione che prima o
poi si dovrà affrontare.
Pareri diversi, interpretazioni differenti, difficoltà nel decidere. Alla fine si preferisce
rinviare la questione, anche perché si è sempre in attesa di una possibile riforma
fiscale che potrebbe portare un definitivo chiarimento sulla strada da percorrere.
Nell’assemblea di rinnovo delle cariche del 2 febbraio 1975 si presenta il bilancio del
triennio precedente. Nella relazione del presidente Umberto Carrer c’è l’orgoglio di
consegnare un’ «azienda economicamente sana, ai primi posti tra le cantine sociali
venete, consolidata nella sua efficienza tecnica e commerciale».
La capacità di incantinamento raggiunge i 125 mila quintali, il triplo di quando si
era partiti. I soci sono impegnati a consegnare 120 mila quintali di uva. L’invenduto
in cantina è minimo, benché il mercato sia stagnante. La situazione finanziaria di
Ormelle è definita “favorevole”.
Sempre nel 1975 si ha il cambio di presidente: Umberto Carrer passa il testimone a
Basilio Toffoli. Lo scenario cambia in maniera sensibile dal finire dell’estate. La situazione di mercato peggiora in maniera forte. Scoppia la guerra del vino con la Francia,
che vara un provvedimento, ritenuto iniquo e illegale, contro le importazioni di
vino italiano con un dazio che si aggira sul 15 per cento.
Storiche bottiglie della Cantina Sociale
L’evento scuote i mercati e ne risentono anche i vini Piave, come si deduce dagli
interventi all’assemblea del 30 novembre e del 24 ottobre 1976. Il clima di austerità,
che si sta imponendo nel Paese per l’aggravarsi delle difficoltà economiche, appesantisce la situazione.
Si premia la qualità nel vigneto: per le uve riconosciute Doc dalla Camera di
Commercio si danno 300 lire in più al quintale nel 1965; 400 lire in più nell’anno
successivo. La differenza di valore sarà mantenuta negli anni a venire, con aggiornamenti dettati dall’andamento delle vendemmie e dei prezzi.
Sul finire degli anni Settanta si è preoccupati in particolare della crescita dell’inflazione e dei costi di gestione aziendale, che si cerca di contenere attraverso la dotazione di nuove macchine e lo sfruttamento ottimale degli impianti.
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
Il mercato arranca, ci sono difficoltà di collocamento del prodotto all’estero e si registra un aumento delle scorte di vino vecchio, mentre si sottolinea la sensazione di
troppo “vino fabbricato” in circolazione.
Dalla relazione sulla campagna vendemmiale del 1978-1979 (assemblea del 25
novembre 1979): «La situazione, anche se alla superficie appare tutta colorata in
rosa per quanto riguarda la produzione di uva, tanto da predisporre all’ottimismo, fa
affiorare però più di qualche incognita sulla situazione del mercato vinicolo che è
tutt’altro che tranquillante.
La più importante di queste incognite è quella che riguarda le scorte di vino vecchio
sul mercato, delle quali non si conosce con precisione l’entità complessiva ma che si
dubita ammontino a una quantità enorme (qualche decina di milioni di ettolitri) in
rapporto all’abbondante produzione delle uve di quest’anno. E tutto questo mentre
da ogni parte si lamenta una lenta ma progressiva restrizione nei consumi.
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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Altra incognita: si tratta veramente di riduzione del consumo o piuttosto di immissione sul mercato di ingenti quantitativi di vino “fabbricato”?
Allora o le rilevazioni statistiche ufficiali sono sbagliate per quanto riguarda i consumi, oppure di “vino industriale” se ne produce tantissimo, a milioni di ettolitri.
Dalla soluzione di questo enigma dipende la giustificazione o meno delle scorte che
gli operatori hanno portato in conto nell’anno nuovo».
Gli anni Ottanta si aprono con un’assemblea straordinaria (27 aprile 1980) in cui si
decide l’aumento del capitale da 60 milioni a 204 milioni 600 mila. Il provvedimento è necessario per usufruire delle agevolazioni fiscali.
La produzione di vino è sempre elevata, i prezzi sono al ribasso. Si è preoccupati per
la crescente disaffezione dei consumatori.
Dalla relazione del presidente Basilio Toffoli relativa al triennio 1978-1981: «Ci si
trova ora in una inversione di tendenza e nella stretta di una situazione pesante, dalla
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
quale è tanto più difficile uscire in quanto le difficoltà del settore sono accentuate
dalle condizioni generali di manifesto malessere in cui si sta dibattendo l’economia
italiana. Le distillazioni straordinarie e quelle del vino stoccato a lungo termine e l’alleggerimento determinato da consistenti acquisti specie di vini bianchi da parte di
operatori stranieri, francesi, tedeschi e russi, non sono state sufficienti a ridurre la
pesantezza del mercato vinicolo con prezzi bassi e certamente non rimunerativi».
La ricetta suggerita: «Bisogna seguire e curare l’esportazione ma soprattutto fare affidamento sul consumo interno avallando la tesi che un giusto consumo giornaliero
di vino, come completamento dei pasti, è vantaggioso per la salute e non nocivo,
come viene sostenuto da certa stampa in campagne antialcoliche».
La situazione non migliora di molto negli anni successivi: produzione, qualità e
prezzi oscillano in base all’andamento del tempo e quindi della vendemmia.
Così nel 1983 si ha una raccolta molto avara con un calo del 24,5 per cento di produzione di vino, la cui quotazione è ritenuta “abbastanza accettabile”. C’è pure un alleggerimento delle giacenze.
Prevalgono, comunque, instabilità e incertezza, che però non fermano gli investimenti della Cantina sul fronte dell’innovazione e dell’ammodernamento di impianti e strutture sia a Ormelle che nel Centro di raccolta di Negrisia. Sono tanti interventi, piccoli o più impegnativi, che danno l’idea di una realtà vitale con notevoli potenzialità.
Si legge nella relazione del Consiglio di amministrazione sull’attività svolta nel
triennio 1981-1984: «Questi sono fatti che non si possono sottovalutare e che danno
la dimostrazione della utilità della Istituzione nonché dell’attaccamento della grande maggioranza dei soci verso la stessa. Ma questo attaccamento non ci esime dal
ripetere che la vita, lo sviluppo e il progresso di una organizzazione sono strettamente legati alla concordia, alla collaborazione, alla giusta comprensione da parte di
tutti i componenti».
Anni di navigazione tranquilla per la Cantina: i numeri sono sempre sostanzialmente positivi, i soci confermano piena fiducia, il conferimento di uve tendenzialmente
è in crescita.
Ci si pone il problema dell’uva raccolta meccanicamente, per la quale non si è attrezzati. Per la verità, non c’è grande interesse nei suoi confronti perché si è convinti che
così non si ottenga un vino eccellente.
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Emerge la necessità di nuove attrezzature per far fronte al lavoro che aumenta progressivamente (linee di pressatura soffice, impianti di filtrazione per i mosti, potenziamento dei vinificatori per le uve rosse, ampliamento degli spazi). Nel 1985 sono conferiti quasi 180 mila quintali, il 16,80 per cento in più rispetto all’anno precedente.
Nel marzo del 1986 scoppia lo scandalo del vino al metanolo. L’effetto è devastante.
Una debacle per le esportazioni. Crolla la fiducia dei consumatori. È considerata la
più grossa e la più tragica frode alimentare fatta nel nostro Paese.
La Cantina di Ormelle non ne è coinvolta: però ugualmente, come tutto il “vigneto
Italia”, ne soffre.
A volte è bene che gli scandali accadano perché affiori la verità: nel nostro caso è la
verità di scarsi controlli, di troppi furbi in circolazione, di speculatori, di una produzione e di un mercato troppo frazionato. Troppo spazio è lasciato all’illegalità.
È quanto viene messo in luce nell’assemblea del 23 novembre. Dalla relazione del
Consiglio di amministrazione: «Va detto però che il settore è troppo frazionato e che
la presenza sul mercato di improvvisatori senza scrupoli nuoce alla credibilità e alle
vendite.
Sulla qualità dei vini del Piave esperti ed enologi concordano tutti. È importantissimo in questo momento rilanciare l’immagine del vino italiano all’estero.
Nel settore però occorre maggiore disciplina e l’adozione di interventi e misure
interne intese a dare garanzia al consumatore.
Sulla vicenda metanolo sono state evidenziate carenze settoriali; è oggi necessario
promuovere manifestazioni di supporto e una grossa campagna di immagine non
solo per la riqualificazione all’estero, ma per restituire naturalità al prodotto.
In questa sede è doveroso rivolgere a ciascuno di noi un responsabile invito a cercare nella produzione più la qualità che la quantità; infatti, nella presente situazione è
anzitutto necessario ridonare piena fiducia al nostro prodotto».
Ecco, molto in sintesi, bene delineate le strategie per uscire dal tunnel.
Nel frattempo ci sono severi controlli dei Servizi repressione frodi e delle Unità sanitarie locali che accertano la genuinità del vino prodotto nella Cantina Sociale di
Ormelle e di altre cantine sociali.
La qualità in vigneto e in cantina è il leitmotiv delle assemblee e degli incontri che
vengono organizzati a vario livello negli anni successivi per far innalzare l’immagine e il valore dei vini del Piave, tanto più che ci si trova di fronte a una crescita di
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produzione per ettaro e a uve con basse gradazioni. Nel 1986 si conferiscono alla
Cantina 204 mila quintali di uva, cifra record.
L’anno dopo, fortunatamente, anche per la tenuta delle strutture e degli impianti che
si delibera di rinnovare e potenziare, si ha una vendemmia magrissima, e il conferimento di uve scende del 20,25 per cento.
I vignaioli, comunque, sono invitati ad agire sulla potatura e a limitarsi nella concimazione dei vigneti. Si tratta di scoraggiare la corsa alle rese per far emergere i pregi,
la qualità, l’identità del vino del luogo.
Scandalo Metanolo, 1986. La Cantina Sociale tranquillizza i soci: il documento con il quale
si garantisce l’assoluta estraneità
La tendenza è evidente e la mette bene in risalto il presidente Basilio Toffoli commentando il bilancio di esercizio 1988-89: «Bisogna valorizzare la produzione di qualità in quanto la domanda del prodotto è in continua fase di crescita».
Un’annata da ricordare il 1989, come si legge nella relazione del presidente Basilio
Toffoli all’assemblea del 10 novembre: «Il mercato grazie anche ad una maggiore
intesa e collaborazione tra le cantine sociali ha avuto un’impennata al rialzo mai
verificata prima, ma in questo momento è esitante in quanto, stante il sensibile
aumento del prezzo, l’incerta situazione economica, monetaria e sociale, i commercianti vogliono aspettare. Ad ogni modo continua il consolidamento delle quotazioni sui prezzi superiori dal 20 al 40 per cento, con punte anche del 50 per cento rispetto all’annata precedente».
I prezzi si mantengono su livelli ritenuti buoni, anche se si è preoccupati per la diminuzione dei consumi di vino rilevata dall’Istat, l’Istituto nazionale di statistica, e per
la propaganda antialcol promossa dalla stampa italiana. C’è inoltre una flessione
nelle esportazioni, in particolare verso gli Stati Uniti, a causa del rinvenimento in
partite di bottiglie di tracce di un antibotritico ritenuto irregolare.
Nel 1992 è varata la legge 164 sull’Igt, indicazione geografica tipica, che viene concessa a vini identificati da un nome geografico indicante un’area generalmente
ampia. Il disciplinare, che è meno rigido rispetto alla Doc (istituita nel 1963), qualifica vini provenienti da grandi regioni vitivinicole.
Nell’etichetta si possono aggiungere il colore del vino, il nome del vitigno, l’anno
della vendemmia.
L’Igt, che richiama l’indicazione francese “Vin de Pays” o la tedesca “Landwein”, è molto
importante per il consumatore perché precisa la provenienza del vino il quale non è da
considerare di serie B, tant’è che tra gli Igt oggi si trovano vini di elevatissima qualità.
56
CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
Per i vini Piave l’Igt arriverà alla fine del 1995 e sarà salutata con grande favore dai vignaioli perché darà ad essi un valore aggiunto e quindi prestigio. Si lega ancora di più
il vino al territorio, alla sua civiltà, alla sua cultura, alle sue tradizioni, alla sua vita.
Assemblea straordinaria il 19 luglio 1992: si vota l’aumento del capitale sociale, che
da 272 milioni 800 mila sale a 620 milioni, e si dettano precise regole sul conferimento delle uve.
Al socio è imposto l’obbligo di «dichiarare le varietà delle uve impegnate e la provenienza delle stesse con l’indicazione catastale del terreno di produzione».
L’orizzonte è di nuovo carico di nubi. L’economia generale è stagnante, consumi di
vino sempre in calo, mentre la produzione tendenzialmente è in aumento.
Prezzi in discesa, difficoltà di collocamento del prodotto, nonostante l’alleggerimento dell’offerta dovuto alla distillazione.
Basilio Toffoli, nella relazione del 12 dicembre: «Sappiamo tutti che i prossimi anni
non saranno facili per nessuno, ma non c’è ragione per cedere al pessimismo: la possibilità di costruire un futuro migliore non è al di fuori delle nostre forze e delle
nostre capacità».
Umori piuttosto neri nell’assemblea del 6 dicembre 1994, e critici i commenti: i prezzi di liquidazione delle uve non sono ritenuti remunerativi e non coprirebbero le
spese di produzione. Il reddito agricolo diminuirebbe di anno in anno.
Per contenere i costi si propone di chiudere il Centro di raccolta di Negrisia, e questo
dà l’idea di come il momento sia particolarmente difficile e sofferto.
La struttura finanziaria della Cantina è ritenuta equilibrata e sostanzialmente solida. Si adeguano costantemente gli spazi, si ristrutturano gli impianti, si acquistano
nuovi macchinari e attrezzature, si procede ad aggiornamenti tecnologici e si
migliora il servizio di ricevimento delle uve che viene previsto anche di domenica.
Nel 1996 i soci sono 631.
Gli anni successivi si svolgono tra attese e preoccupazioni. Si registra un progressivo
calo dei consumi, mentre le quotazioni del vino non danno segnali incoraggianti.
Per la Cantina, ad ogni modo, il percorso è sostanzialmente tranquillo, riflette l’andamento del settore a livello nazionale e internazionale. Tra difficoltà, incertezze e
qualche piccola tensione i conti comunque tornano.
Nel 1999 cambio di presidente: Basilio Toffoli lascia l’incarico che ha retto per venti-
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
57
quattro anni. L’annuncio è dato dallo stesso nell’assemblea del 25 aprile. Parole semplici e commosse.
«Ora consentite poche parole anche a me perché mi corre l’obbligo di rivolgere, in questo momento, in cui sto per lasciare la presidenza, un riconoscimento vivissimo a tutti.
Per espressa volontà del sottoscritto, questa volta non avete trovato il mio nome
nella scheda elettorale. Dopo 40 anni di presenza all’interno di questa società, prima
come consigliere e poi per 24 anni come presidente, è venuto il momento di voltare
pagina e di passare il testimone a forze più giovani».
Lunghissimi e calorosi applausi per l’uomo che ha segnato con forte personalità e
con grande disponibilità e intelligenza la vita della Cantina, che, come si legge nel
verbale dell’assemblea, si presenta come una struttura associativa di notevole valore sotto tutti i profili: «forse non tanto appariscente, ma ben radicata nel territorio,
solida da un punto di vista patrimoniale, aggiornata sotto l’aspetto tecnologico, valida sul piano delle risorse umane».
Nuovo presidente è Federico Trevisan, che si presenta ai soci nell’assemblea dell’11
dicembre 1999 delineando un programma nel segno della continuità e prospetta un
impegno ancora maggiore per adeguare la cantina alle nuove esigenze di mercato.
Annuncia, inoltre, la revisione dello statuto «per meglio definire i rapporti tra socio
e società, in particolare per quanto riguarda le norme che regolano gli impegni dei
conferimenti e la dichiarazione delle varietà delle uve».
Si entra nel terzo millennio con il raddoppio del capitale sociale votato dall’assemblea straordinaria del 4 giugno 2000: si passa da 682 milioni a oltre un miliardo 463 milioni di lire.
Due gli obiettivi che si vogliono raggiungere con tale decisione: uno di natura strategica per dare un forte contributo di solidità al patrimonio della cantina ed evitare
l’assunzione di rischi non opportunamente valutati; l’altro per sostenere l’evoluzione tecnica e professionale della struttura.
E, a proposito di questo, il presidente Federico Trevisan sottolinea che «l’indirizzo
principale della società è rivolto alla produzione più che alla distribuzione capillare
del prodotto, che è dunque necessario potenziare gli impianti per i quali è stato predisposto un tale programma ed è dunque su questa premessa che si fonda la proposta di aumento di capitale sociale».
Si disciplina in maniera più netta la consegna delle uve per scoraggiare comportamenti scorretti che generano sempre tensione: è l’antica questione di conferimento
di uva alterata o adulterata.
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
Da questo momento (articolo 7 dello statuto sociale) il «socio ha l’obbligo di dichiarare l’esatta varietà dell’uva». Se questa dovesse risultare diversa o non conforme alle
caratteristiche previste, «sarà applicata una penale consistente nella perdita del credito che egli vanterebbe in relazione alla varietà e qualità dell’uva consegnata». In
sostanza sarà come se egli non l’avesse conferita.
Si stabilisce, infine, di chiudere l’esercizio sociale un mese prima, al 31 luglio anziché al 31 agosto, e questo per la semplice ragione che, rispetto al passato, si vendemmia con sensibile anticipo.
L’assemblea si conclude con due temi di scottante attualità: la sanzione amministrativa di un miliardo 524 milioni 750 mila lire relativa alla distillazione obbligatoria
degli anni 1993 e 1994, contro la quale si decide di procedere con il ricorso. Si discute quindi dell’Inventario e dello Schedario vitivinicolo, previsto dalla riforma
dell’Ocm, organizzazioni comuni dei mercati agricoli. È un obbligo nei confronti del
quale ci sono ritardi e resistenze. I soci della Cantina sono invitati a superarli perché
è nell’interesse del mondo produttivo viticolo «raggiungere nei tempi previsti
l’adempimento di questi obblighi in quanto è la base essenziale per una accorta politica del settore in grado di assicurare tranquillità e reddito ai produttori».
È improntata alla prudenza l’assemblea di fine anno (16 dicembre). Dalla relazione
del presidente Trevisan: «I risultati sono moderatamente buoni (medaglia di bronzo), ma comunque la remunerazione del prodotto è bassa e non garantisce un giusto
ricavo al produttore.
Se i prezzi rimarranno tali i vigneti verranno estirpati e i giovani non si dedicheranno più alla lavorazione della terra».
Egli ritiene perciò «necessario continuare nella linea di prudenza e dei piccoli passi
negli investimenti per mantenere un equilibrio finanziario».
Veramente bassa la quotazione del vino: meno 30 per cento rispetto all’anno precedente.
Il 2001 è l’anno dell’euro, moneta europea nella quale è convertito il capitale sociale della Cantina, che è pari a 755.22 euro.
Nella vendemmia si evidenzia un problema che viene denunciato nell’assemblea del
24 novembre: la raccolta meccanizzata presenta un’uva non sufficientemente ripulita
da foglie e tralci tanto che si intasano le pigiatrici e ne consegue una perdita di tempo.
La discussione si conclude con la raccomandazione di pulire le uve da foglie e da tralci.
Ma preoccupano, soprattutto, la liquidazione poco remunerativa delle uve e il crescente divario tra prezzi alla produzione e prezzi al consumo.
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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Con la legge Finanziaria del 2001 si pone termine alla vertenza relativa alla distillazione obbligatoria negli anni 1993 e 1994: è approvata una sorta di “transazione” che
riduce la sanzione per il mancato adempimento all’obbligo da 50 mila a 18 mila lire
all’ettolitro. È prevista inoltre la possibilità di pagare in dieci rate semestrali.
Si valuta l’opportunità di dotare la Cantina di una nuova batteria di vinificatori, in
considerazione del fatto che la raccolta di uva si concentra sempre più in pochi giorni.
Nuovo Consiglio di amministrazione con l’assemblea del 28 aprile 2002. È l’occasione per fare il punto sulla difficile situazione in cui versa il settore.
Si prospetta ai soci la necessità di acquistare nuove attrezzature «per fronteggiare il
mercato che diventa sempre più concorrenziale». Occorre in particolare una nuova
centrifuga.
Federico Trevisan è confermato presidente.
Viene dato in affitto per sei anni uno spazio della torre vinaria per l’installazione di
apparati radio e di supporti per una antenna, contro la quale sorge a Ormelle un
comitato che denuncia rischi per la salute.
Le apparecchiature però risultano a norma di legge e non nocive, quindi non vengono rimosse.
È sottotono l’assemblea di fine anno (30 novembre). I conti non sembrano tornare; ci
si guarda attorno e si ha l’impressione che altrove si stia meglio. Nebbia all’orizzonte.
Si valutano diversi percorsi per uscire da una situazione che appare stagnante: la
modifica dello statuto per dare alla Cantina «un’operatività che vada al di là della
lavorazione e vendita esclusiva delle uve conferite dai soci»; «l’eventuale opportunità di modificare la forma giuridica da “Società per azioni” a “Cooperativa”»; «la valutazione di possibili fusioni o accorpamenti con strutture analoghe».
Si replica a proposte e a sottolineature critiche sostenendo che si è operato con massima trasparenza e responsabilità, che si è in linea con l’andamento del mercato e
con i comportamenti di cantine concorrenti e che i costi di gestione sono contenuti
e non si discostano da quelli di analoghe strutture.
Le vendemmie del 2002 e del 2003 sono tra le più scarse degli ultimi dieci anni: un
calo inatteso e superiore alle più pessimistiche previsioni. Il mercato va in fibrillazione, con prezzi in salita.
Nel primo semestre del 2004 si ha una caduta verticale di vendite all’estero nella
quale sono compresi anche i vini di qualità. Sullo scenario mondiale appaiono altri
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
Paesi competitori, come l’Australia che erode fette di mercato ai vini italiani.
Si mette in discussione la validità della classificazione dei vini. Dalla relazione del
Consiglio di amministrazione fatta nell’assemblea del 4 dicembre 2004: «L’impalcatura delle denominazioni di origine dei vini ha fatto il suo tempo, scricchiola sotto
il peso della burocrazia e della concorrenza».
Si insiste «sulla necessità di produrre uve di qualità a costi competitivi e vini in linea
con le tendenze dei nuovi consumi.
Oggi il vino di qualità è prodotto un po’ ovunque, abbiamo imparato a farlo bene. In
futuro dovremo saper produrre alta qualità a costi contenuti legandoci sempre più
al territorio, creando una specie di filiera paese perché è certo che uniti si vince».
Avanzano stagioni problematiche e critiche che si riflettono nella vita della Cantina.
Nell’assemblea del 4 dicembre 2004 il presidente Federico Trevisan comunica l’intenzione di passare il testimone al termine del mandato.
Relazioni ed interventi vertono su prezzi e qualità delle uve, sulle possibilità di far
fronte a impegni e a investimenti, sull’evoluzione del mercato vinicolo interno e
mondiale, su problemi specifici della Cantina (sistemazione di strutture, aggiornamento tecnologico, esigenza di nuove attrezzature).
Con l’assemblea del 20 gennaio 2005 incomincia un triennio impegnativo. Ci sono
sensibili cambiamenti: nuovo presidente, Renzo Biasotto e nuovo direttore, Raffaello
Zanatta.
Ancora un rinnovo di statuto con l’assemblea straordinaria del 12 luglio del 2005.
Contenuti e obiettivi, già ampiamente dibattuti in assemblee di zona, sono illustrati
dal presidente Biasotto, che ne mette in risalto spirito, passaggi salienti, motivazioni.
È una riforma – puntualizza – resasi necessaria per adeguarsi alla nuova disciplina del
diritto societario e per sfruttare semplificazioni e opportunità che ne conseguono.
Nella denominazione sociale si introduce l’aggettivo “agricolo”, considerato molto
importante per definire il campo di operatività della società. Il nuovo nome quindi
è: “Cantina Sociale di Ormelle, società agricola per azioni”.
Si allarga il fronte delle possibili attività che viene esteso anche alla lavorazione, trasformazione e commercializzazione di altri prodotti agricoli, oltre all’uva, conferiti
dai soci in base a programmi deliberati.
Si dà la possibilità alla società di partecipare ad altre imprese che abbiano scopi integrativi o complementari.
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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Le assemblee ordinarie e straordinarie si potranno convocare attraverso avvisi su
quotidiani locali, o a mezzo fax o posta elettronica.
La nuova possibilità è sfruttata per l’assemblea del 10 dicembre, la cui convocazione
avviene attraverso un avviso pubblicato sul quotidiano “Il Gazzettino” in data 13
novembre.
È un piccolo ma significativo segnale dei tempi nuovi che incalzano e che – sottolinea il presidente nella relazione all’assemblea – «richiedono rapidità e flessibilità
nelle decisioni per cogliere nel modo migliore le opportunità offerte dal mercato».
Preoccupano i prezzi che giocano al ribasso anche per i vini di qualità. Si legge nella
relazione del Consiglio di amministrazione (gestione al 31 luglio): «La qualità è stata
azzerata da una domanda irrazionalmente livellante e proiettata verso il prezzo
basso anche per i vini di maggiore pregio. È il caso di dire, sia pure a denti stretti, che
quest’anno la qualità non paga, sebbene si siano venduti con più facilità i prodotti
organoletticamente superiori.
La continua corsa al ribasso ha portato pure con sé uno stato di sudditanza nei confronti dei clienti anche più seri e conosciuti, che in molti casi ci hanno creato situazioni di tensione e preoccupazione per il ritardo dei ritiri dei vini confermati.
I vini rossi come il Merlot e il Cabernet a giugno e a luglio scendono nel mercato
sotto i venti centesimi di euro a litro su base di dieci gradi. È leggermente migliore,
ma comunque non è soddisfacente la situazione per i bianchi».
Il presidente Biasotto: «Questo stato di cose ci porta ad esprimere un giudizio di forte
preoccupazione per il prossimo futuro se il mercato dovesse rimanere incerto, ingiustificato e imprevedibile come quello attuale, in netto contrasto con i costi sempre
crescenti di campagna e vini. Le quotazioni attuali dei vini risalgono nella memoria
degli anni Ottanta e sono addirittura inferiori a quelli del periodo della distillazione
obbligatoria».
La crisi però non deve comportare «immobilità operativa e progettuale». Si attuano
quindi i programmi di miglioramento organizzativo e commerciale, benché non
siano «previsti particolari investimenti».
Sono impegni e obiettivi che vengono confermati nell’assemblea del 2 dicembre
2006, mentre il mercato si mantiene su valori bassi.
Si registrano alcuni interventi critici su strategie seguite dalla Cantina e su possibili
proposte che vengono indicate per superare situazioni ritenute penalizzanti e per
conseguire risultati più vantaggiosi.
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
Il presidente Biasotto, riferendosi agli interventi per il futuro prossimo, marca
l’aspetto commerciale che «è sicuramente il più importante e richiede pochi ma determinati interventi già presentati in passato in questa Assemblea. Questi non sono
ancora stati attuati perché richiedono una perfetta convergenza di volontà, unita ad
una riservatezza operativa che ancora non ci è propria ed è purtroppo causa di notevoli danni economici e di immagine.
Uno di questi interventi riguarda la possibilità di trasformarci in Cooperativa per
permetterci di godere di alcune importanti agevolazioni fiscali e commerciali caratteristiche di questa categoria di aziende e la possibilità di una fattiva e remunerativa
collaborazione con altre realtà della zona. Vedendo alcune liquidazioni di cantine
cooperative qualcuno può essere portato a pensare diversamente.
In realtà, se potessimo godere anche solo in parte dei benefici sopra citati, la nostra
liquidazione potrebbe essere superiore di almeno il 10 per cento in base, ovviamente, alla nostra intraprendenza».
Per Renzo Biasotto si impone sempre più «una modernizzazione non solo tecnologica ma anche di pensiero», in considerazione che «una volta il bilancio si faceva con
il vigneto, ora lo dobbiamo dare con le strategie di cantina».
È breve la presidenza Biasotto: nel 2007 gli subentra Rino Cadamuro. Il passaggio è
delicato e non privo di tensioni.
Il primo dicembre si svolge l’assemblea dei soci per il rinnovo del Consiglio direttivo.
Il confronto tocca un po’ tutti i temi relativi a vigneto, vini, cantina, consumi. Il
momento è delicato su diversi fronti. Si tende a esasperare episodi, che però non
fanno testo e che sono marginali rispetto all’andamento della Cantina.
Il mercato è fiacco e ci sono difficoltà di vendita per gran parte dei vini. I più penalizzati sono i rossi.
«Le cause – spiega il presidente Rino Cadamuro – sono sempre le stesse, vale a dire
cambiamento dei gusti per quanto riguarda i vini rossi, scarsa capacità di spesa del
consumatore finale, organizzazione distributiva in mano a gruppi sempre più potenti ed organizzati a fronte di una sempre maggiore polverizzazione della produzione».
Intanto picchia forte la crisi che è di portata planetaria. Nel giro di pochi mesi si arriva ad uno stato comatoso dell’economia: crollo delle borse, terribile raffreddamento
dei sistemi produttivi, mercati bloccati, famiglie sempre più povere, consumi in
discesa. La barca fa acqua da tutte le parti. La festa sembra proprio finita.
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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È con questo scenario che deve fare i conti anche il mondo del vino, che localmente
registra un 2007 sostanzialmente positivo e lascia intravedere una ripresa per i rossi,
«i quali dopo avere rullato a lungo sulla pista non riescono mai a decollare». Ma la
situazione non dura: i prezzi riprendono a calare e quindi a deludere i vignaioli.
Il 2007 è ricordato per la vendemmia turbolenta a causa dei tanti controlli “attirati”,
forse, da troppe voci messe in giro in maniera irresponsabile.
«Purtroppo – si commenta in un’assemblea – i controlli sono spesso dovuti alla scarsa riservatezza che contraddistingue la nostra Cantina… Non abbiamo nulla da
nascondere se non quelle piccole cose che, lavorando, a tutti possono sfuggire nella
totale buona fede».
L’esito dei controlli è negativo, nel senso che si trova tutto sostanzialmente in regola. È la conferma della bontà dell’operato.
Per la cantina si prevedono interventi prudenti, ma necessari sia sotto il profilo tecnico che operativo.
«Dovremmo – si legge nella relazione del Presidente – attuare programmi che rendano più flessibile la lavorazione delle uve dei soci per ottenere prodotti più apprezzati dalla clientela… Lo scenario rimane sempre molto competitivo ed impone che
anche la nostra azienda definisca con attenzione un piano industriale e strategico
attraverso l’attuazione di politiche industriali capaci di rendere sempre più efficiente la nostra competitività».
Il 28 agosto 2008 compie cinquant’anni la Cantina Sociale di Ormelle, società agricola per azioni, ma i festeggiamenti vengono fatti slittare nel 2009. Si parte per il
conteggio dal compimento del primo anno di attività, dai primi passi vincenti, con i
quali comincia un cammino di prestigio e di risultati a favore del vigneto del Piave.
L’attenzione nel 2008, anno positivo per valori di liquidazione delle uve, è fissata su
aspetti organizzativi e gestionali e sulla ricerca di nuovi mercati.
Fa discutere il fatto che la Cantina non aderisca all’accordo tra imbottigliatori e cantine sociali per l’imbottigliamento del prosecco perché ritiene che ci sia poca chiarezza tra i soggetti interessati. Chiosa il presidente Cadamuro: «Non si sa se sia stata
una scelta vantaggiosa oppure no, ma di certo abbiamo operato ritenendo questa
scelta corretta rispetto alla nostra posizione produttiva».
La Cantina si arricchisce di un nuovo impianto di pigiatura e di attrezzature di pres-
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CANTINA SOCIALE DI ORMELLE. CINQUANT’ANNI
satura e movimentazione del pigiato, di cui si sono già constatati efficacia, funzionalità e benefici.
A tradire è sempre il mercato: ancora una fase riflessiva dovuta alla crisi mondiale
che penalizza i consumi.
«La volontà della Cantina – si legge nella relazione all’assemblea del presidente Rino
Cadamuro – è quella di farsi strada e vincere con la qualità. L’impostazione degli impianti permette ora maggiori selezioni in cantina e lavorazioni decisamente più snelle ed efficaci a tutto vantaggio delle caratteristiche organolettiche dei vini ottenuti».
Per i viticoltori del Piave egli prospetta la necessità di una professionalità fortemente imprenditoriale, aperta e competitiva a tutti i livelli: «Dobbiamo essere sempre
più pronti ad affrontare le difficoltà di un futuro che non si presenta facile.
La nostra professionalità di viticoltori non deve fermarsi alla vigna, ma continuare
comprendendo l’evoluzione legislativa del settore che in molti casi rappresenta
anche la traccia da seguire per la nostra crescita.
Ci riferiamo all’uso corretto degli antiparassitari, alle gradazioni minime dell’uva,
allo stato di maturazione fenolica delle uve, all’igiene nella raccolta e nel conferimento dell’uva e a tanti altri particolari che avremo occasione di approfondire anche
in altri incontri informali nel corso dell’anno».
Dunque un’immagine di viticoltore che guarda con fiducia ai giorni a venire, professionalmente aggiornato, pronto a cogliere le novità e i cambiamenti, attento alla
qualità, rispettoso dell’ambiente. Un vignaiolo preparato a cogliere la sfida della
competitività a tutti i livelli e a navigare nel mercato globale con i suoi vini tradizionali e innovativi che riflettono la civiltà di cui sono espressione.
Per lui si apre una sfida bella e affascinante. È la sfida rappresentata dalla giovane
americana, protagonista del film Un’ottima annata, che approda in Francia, in un
vigneto della Provenza, dove impone tecniche di coltivazione e di produzione “made
in Usa” e dà lezioni di degustazione.
Il messaggio è emblematico e chiaro: il vigore giovanile della viticoltura americana
vince sulla storica patria del vino. Vigneto e vino parlano sempre più inglese.
Sarà. A noi piace però pensare, e ne siamo convinti, che ci sarà spazio crescente per
vini di territorio di grande tradizione, come quelli del Piave, frutto di un sapere di
vigna e di cantina forte di tremila anni di storia.
Non è immaginabile un vino pregiato in un territorio povero di civiltà e di tradizione. E quindi di grande umanità.
T
he Ormelle Cooperative Winery has recently turned fifty. The company deed
of incorporation was signed on August 28th 1958. Its founders included land
owners and tenant farmers.
Growth was rapid, proving that the idea was a good one and met the real needs of
local vine growers, struggling with surplus production, discouraging markets and
traders’ speculations. The cooperative formula was shown to be the most effective
solution in an area where property is fragmented and vineyards small.
Incorporated as a limited company, it almost immediately transformed into a joint
stock company, setting it apart from other cooperative wineries in Treviso.
This solution was chosen for its improved market flexibility and possibility of
yielding solid results, and in fact the winery began to achieve success and a growing
number of members. Business was good, despite the troubled times which were
affecting the entire sector. The wine-making centre was started up in Negrisia, a
district of Ponte di Piave, targeting quality right from the outset, both in the vineyard
as well as the wine-making facility.
The Ormelle Cooperative Winery has been one of the most ardent promoters and
supporters of the Piave Wine Consortium and therefore careful to comply with the
guidelines governing DOC and IGT wines.
During the terrible methanol wine scandal in the 1980s it was able to provide both
members and consumers with full guarantees, producing authentic wine and using
transparent methods in its pursuit of quality.
Besides, the winery has always been an open book, monitored in particular by its
members, who are the first to ask for information, explanations and guarantees,
especially during general and area meetings, where turnout is always large.
Fifty years: a short chapter in the annals of history, but long enough to evaluate the
quality, validity, soundness, prospects and future of a project and a product.
Today, the Ormelle Cooperative Winery is a positive force in the world of wine: it has
the manpower, facilities and resources to meet all its members’ expectations and to
tackle the market at all levels. It looks to the future with confidence, having all the
requisites to play a winning game.
It has 582 vine growing members who together supply a total of 19,000 tonnes of
grapes (an average of recent years).
Tempio, suggestive testimonianze della Domus de campagna
dei Templari, ordine cavalleresco tragicamente soppresso
Nella terra dei Templari
Sante Carnelos
Ormelle e dintorni è da sempre terra di vini. La loro presenza è fatta risalire ad almeno tre millenni fa: ci inoltriamo dunque nella preistoria e nelle testimonianze precarie che da essa arrivano.
Sicuramente la vite è l’icona del luogo. Ne è strettamente legata al paesaggio, alla
civiltà, alla storia, all’economia, alle tradizioni, al costume e ai comportamenti.
È difficile immaginare questa terra senza la vite, o il suo paesaggio non scandito da
filari attorno ai quali si celebrano l’avvicendarsi delle stagioni e il tempo dell’uomo.
È significativo che uno dei primi documenti, in cui compare il nome di Ormelle, si
riferisca a un fatto di cronaca giudiziaria: riguarda la sentenza contro un uomo che
ha tagliato le viti di un vigneto. Accade il 19 marzo 1211. È perciò ben antico, e non
solo dei nostri tempi, il vandalismo contro i vigneti per vendetta o per semplice cattiveria o invidia.
È suggestivo, inoltre, che il nome del paese Ormelle possa derivare da ormèe, recipienti fatti con giovani piante di ornello per spillare il vino. L’ornello (Fraxinus
ornus), chiamato anche orno oppure orniello, è una pianta utilizzata in agricoltura
come sostegno alle viti.
La versione più accredita, però, lega Ormelle all’olmo, pianta molto diffusa nella
zona e da sempre legata alla vite, uno sposalizio che ispira poeti di tutti i tempi.
L’olmo è cantato come il principe consorte della vite regina o come il marito che sorregge amorevolmente la moglie. Si trovano spesso citati i delicati riferimenti che ne
fanno i poeti latini Virgilio e Catullo.
Il rosso, che domina lo stemma del Comune di Ormelle, rappresenterebbe il colore
rosso rubino carico del Raboso, il vino principe della zona.
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NELLA TERRA DEI TEMPLARI
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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Lo scrittore Sandro Zanotto, che ama la sinistra Piave, in un poetico viaggio lungo la
strada del vino rosso annota come il vino sia «un prodotto culturale prima che agricolo». E aggiunge: «il vino pregiato presuppone una tradizione secolare nella coltivazione e nella produzione».
Poetica la descrizione delle vecchie case rustiche, le quali «isolate in mezzo alle viti,
con il loro portico ad archi, in cui la càneva [cantina] occupa un posto preminente
assieme alla cucina col foghèr [focolare] che determina una sorta di abside sporgente dal muro, sono un elemento decisivo di questo paesaggio, che trova la sua principale bellezza nella purezza funzionale dei suoi elementi, senza interferenze».
Dunque una civiltà, una cultura, un paesaggio, una storia strettamente legati alla
vite e al vino, che sono da sempre beni essenziali dell’economia della zona.
La conferma viene dagli antichi atti notarili in cui si citano espressamente, dando quindi peso e valore, le cantine e si precisa il carattere della «terra videgada» (i terreni vitati).
Nel Medioevo danno particolare impulso alla coltivazione della vite, migliorandone
i sistemi produttivi, i monaci Cistercensi di Follina che si insediano tra Roncadelle e
Stabiuzzo, dove, sul finire del XII secolo, danno vita ad una granza, un insediamento
permanente a carattere agricolo.
Subito dopo (si ritiene nel 1190), approdano in zona i Templari (Ordine militare-religioso del Tempio di Gerusalemme) che si stabiliscono sulla riva del fiume Lia e organizzano una masòn, un insediamento il cui obiettivo principale è rifornire di prodotti agricoli i cavalieri che vanno in Crociata per difendere il Santo Sepolcro.
La posizione è strategica: vicino passano storiche vie romane, come la Postumia, e
soprattutto da qui, lungo i fiumi, in particolare il Piave, si possono portare facilmente i prodotti a Venezia, dove sono imbarcati diretti a Gerusalemme.
La masòn templare, una precettoria conosciuta anche come “Domus de Campagna”,
cresce rapidamente in ricchezza, potenza e prestigio. Vive una stagione dorata fino
agli inizi del Trecento, quando sui Templari si abbatte una feroce e mortale persecuzione, della quale è regista il re di Francia Filippo il Bello.
Nel 1312 papa Clemente V con la bolla “Vox in excelso” scioglie l’Ordine, i cui beni
vengono trasferiti ai cavalieri dell’Ordine dell’Ospedale di san Giovanni di
Gerusalemme (i Cavalieri di Malta). Di fatto in Francia finiscono nelle mani del Re;
il resto del patrimonio, con il tempo, viene disperso. È questo il destino della masòn
di Tempio di Ormelle.
Acquerello del 1755. Sono rappresentati i beni dell’Abbazia di Follina in località Stabiuzzo
(Archivio di Stato di Venezia)
Ne resta testimone la bellissima chiesa di Santa Maria del Tempio, ritenuta uno dei
documenti più emblematici e suggestivi dei cavalieri che un papa debole e un re di
Francia avido e ingordo spietatamente sopprimono, ricorrendo ad accuse infondate.
Troppa gola fanno le loro ricchezze con le quali possono condizionare papato e re.
Per i Templari del resto l’ora è scaduta: chiusa la partita con le Crociate, si ritrovano
senza mission, potentissimi ma privi della ragione di essere, senza ideale, senza meta
e senza riferimenti; grandi in guerra, fuori posto nella ordinaria vita civile e amministrativa. Superati.
Anche i Templari, come già i Cistercensi, si dedicano alla coltivazione della vite e
alla produzione di vino, di cui fanno largo uso. La loro regola, ispirata da san
Bernardo, prevede che ne sia bevuto «secondo necessità per cacciare il freddo».
Ma, da quanto si può dedurre da documenti e da testimonianze, tra i cavalieri non
74
NELLA TERRA DEI TEMPLARI
manca chi ne abusa, visto che nella “Regola catalana” si sente la necessità di puntualizzare che «se un fratello è abituato a bere tanto da diventare ubriaco e non vuole
correggersi, bisogna punire la sua colpa».
Correva anche un detto, “bere come un Templare”.
Nel Medioevo si consuma una notevole quantità di vino nelle cerimonie religiose,
durante la messa, quando tutti lo assumono con il pane, e questo spiega perché la
coltivazione della vite e la produzione di vino siano tanto incentivate da vescovi e
monaci e abbiano quindi un’ampia diffusione.
Il vino e la vite sono simboli evangelici, immagini forti per i cristiani. Il vino è identificato con il sangue di Cristo: «Questo è il mio sangue». E la vigna è Cristo stesso:
«Io sono la vera vite e il padre mio è il vignaiolo»; «Io sono la vite e voi siete i tralci».
La tradizione vuole che gli apostoli andassero per il mondo avendo per viatico una
forma di pane e una fiasca di vino.
L’usanza di assumere il vino con il pane durante la messa si spegne sul finire del
Medioevo, quando si stabilisce che il calice sia riservato solo al sacerdote.
Il cambiamento non piace a tanti, che però a poco a poco si adeguano; ma c’è chi lo
contesta fermamente, come il movimento religioso riformista degli hussiti, dal
nome del teologo boemo Giovanni Hus, bruciato sul rogo come eretico nel 1415. Essi
vengono chiamati “calicisti”, in quanto sostengono che l’amministrazione dell’Eucaristia deve essere fatta sotto la doppia specie del pane e del vino distribuito con il
calice (sub utraque specie, e per questo chiamati anche “utraquisti”).
Il vino, comunque, rimane una bevanda rituale necessaria che, quando si può e ci
sono le condizioni, si cerca di produrre in proprio.
Molto vino dei Templari della “Domus de Campagna” è spedito con barconi a Venezia: una parte è consumata in città, il resto è destinato ai Crociati in partenza per la
Terra santa.
La cantina è il cuore degli edifici rurali della masòn, come lo è nelle case coloniche
della zona. Ed è imponente, come si ricava da una relazione del 1731 sull’insediamento templare di Tempio: «Vi è il sottoportico con i suoi pilastri di pietra cotta, che
formano cinque archi nel mezzo de quali è la porta della caneva, et sopra di esso portico, et caneva, esiste il granaro capace di stare trecento».
Vino, granaglie, e animali finiscono nel mercato per raccogliere fondi a sostegno
delle Crociate.
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
75
I barconi da vino, che collegano la zona con Venezia, fanno parte del paesaggio
umano. Continuano anche con il tramonto dei Templari. Nella Serenissima Repubblica se ne consuma e soprattutto se ne commercia molto; grosse partite vengono
esportate.
Ci sono, a proposito, precisi riscontri che riguardano i vigneti del Piave e quindi
anche di Ormelle.
Ecco come Alvise Semenzi, in Treviso e la sua provincia, descrive le grandi piogge del
1708 e quindi il freddo terribile che è seguito nell’area di Ormelle e dintorni: «Cominciarono le grandi stravaganze: prima fu dell’acqua qual fe’ una crescenza così
grande che la Piavesella haverebbe portato una barca da vino. L’anno susseguente fu
un freddo così crudele che fecce morir quasi tutte le viti così a tal segno che il vino
arrivò di prezzo circa ducati 40».
Per Piavesella si intende la Lietta. È un documento illuminante per capire il grande
peso che hanno vite e vino nella vita, nel paesaggio e nell’economia del territorio. Ne
sono un dato creativo di civiltà tanto da suggerire immagini colorate al linguaggio
della gente. Si ricorre al fertile potere evocativo della vite e del vino per descrivere
situazioni o per tradurre impressioni o per comunicare suggestioni.
Si comprende allora perché ci sia sempre una grande attenzione per i terreni vitati.
Si dà preferenza in particolare ai rossi perché sono robusti e perché sono forti e come
tali sono in grado di resistere ai trasporti. È per questo – ricorda, alla fine del Settecento, Giovanni Nardi, medico cultore di agricoltura – che sono preferiti dalla Serenissima dominante.
Migliorano sistemi di produzione e tecniche di vinificazione, sia pure con la lentezza di una tradizione che resiste. C’è un passo diverso rispetto a quello di oggi.
Vicino a Ormelle abitano i fratelli Girolamo e Antonio Bellussi, gli ideatori del sistema di vigneto a raggi, la “bellussera” (a beussera), che dà eccellenti risultati in termini di miglioramento della produttività e della qualità dell’uva. Sarebbe sempre
attuale, ma sta per essere abbandonato in quanto incompatibile con la viticoltura
meccanizzata.
Infine una curiosità: si racconta che i soldati austroungarici non siano fermati dalle
acque del fiume Piave e dall’arditezza dei nostri fanti, ma dal vino Raboso del quale
approfittano.
Il Piave sì mormora “Non passa lo straniero”, ma a bloccarlo sono le cantine dei bravi
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NELLA TERRA DEI TEMPLARI
O
Soldati austriaci in una cantina sulla riva sinistra del fiume Piave, appena colpita dalle bombe, 1918
vignaioli della sinistra Piave nelle quali essi annegano: questo hanno raccontato i
nostri bisnonni e i nostri nonni testimoni del tragico tempo. E a noi piace credere ai
nostri cari vecchi, ai loro mitici racconti che sanno di vita vissuta e dicono verità non
manipolate da piccoli e grandi poteri e che i libri di scuola ignorano.
Tra tanta bolsa retorica ci sta anche la realistica immagine del soldato euforico in
una cantina della Sinistra Piave, che ci è arrivata da quei giorni terribili di inutili
stragi. Un barlume di umanità sulla ferocia della guerra.
rmelle and its surroundings, an area of vines and wines. It is difficult to
imagine this place without the vineyards that make up its human, historical
and scenic fabric. Wine pervades its air, articulates its days, and links it to historic
events, to traditions and to legends. It is the life, the poetry and the splendour of this
slice of Piave territory.
At the time of the medieval crusades the Templar Knights settled in Ormelle’s Tempio
district, military monks who gave a major boost to the production of wine, both for their
own consumption as well as to supply the Knights leaving Venice for the Holy Land.
Other monks, the Cistercians, came to Follina and between Roncadelle and
Stabiuzzo built a granza, an agricultural settlement of which the vineyard constituted
a considerable part.
Both wine and the vine are strong Christian images from the Gospels - wine being the
symbol of the blood of Christ. Large quantities were consumed in the Middle Ages
during religious ceremonies such as mass, when everyone drank wine with bread,
which explains why vine cultivation was so encouraged by bishops, priests and monks.
Vineyards were highly valued and highlighted in notary documents, in deeds of sale
or wills. Then as now.
The red wines of the Piave were appreciated by the Most Serene Republic of Venice,
as they were robust, long lasting and transport-resistant.
A familiar sight on the Piave river were the barges that transported wines to Venice.
Wine barges, as they were called.
The old folk tell a delightful story: During World War I, Austro-Hungarian soldiers
were said to be detained, not by the perilous flood waters of the Piave, but by the
wines of the local wineries. Photos show them tipsy in the winery instead of battling
fiercely on the front - a glimpse of humanity amidst the horrors of war.
Le vigne del Piave
Storia, Tradizioni, Attualità
Severina Cancellier
Le origini
Il Piave nel territorio trevigiano: pergamena del Trivisan, 1558 (Archivio di Stato di Venezia)
Dell’antica viticoltura della zona del Piave non sono rimaste tracce. A distruggerle ci
ha pensato proprio il nostro fiume che un tempo discendeva capricciosamente nella
pianura, mutando corso a piacimento e conseguentemente allagando e trascinando
con sé quanto trovava sulla sua via.
A noi piace ricordare che le origini dell’attuale viticoltura siano legate all’approdo
degli Heneti al seguito di Antenore, mitico fondatore di Padova, partiti dal
Peloponneso a seguito della sconfitta patita nella guerra di Troia. Il popolo heneto,
originario della Paflagonia, terra in cui anticamente era diffusa la coltivazione della
vite, nella sua forzata migrazione si sarebbe portato appresso i tralci delle varietà che
coltivava al proprio Paese. Questi tralci attecchirono e produssero buoni prodotti,
tanto da sostituire le “vitacee” allora presenti nel territorio veneto e la cui testimonianza è comprovata dalle varie impronte fossili che si trovano a Bolca, nella alta
Valle d’Alpone, nel Veronese.
L’influenza degli Heneti e delle loro viti si sviluppò contribuendo allo sviluppo viticolo che si ebbe nella civiltà paleoveneta, tra il VI e il V secolo a.C.
Al loro arrivo i Romani trovarono comunque una viticoltura già sviluppata e fiorente, grazie anche agli apporti della civiltà etrusca-retica. Percorrendo la via militare
Claudia Augusta, che congiungendo Opitergium a Tridentum passa proprio per la
nostra pianura, oppure la via Postumia che la attraversa da ovest a est, avranno certamente ammirato le grandi viti allevate sugli alberi, di cui avranno sicuramente
gustato il vino.
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LE VIGNE DEL PIAVE
La Serenissima
Fondamentale per la conoscenza della realtà viticola della Sinistra Piave, quell’area
che poi diventerà la zona eletta per il vino Raboso, è il libro Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa, summa della propria esperienza agraria, scritto e pubblicato da Giacomo Agostinetti nel 1679. Agostinetti era nativo di Cimadolmo, paese confinante con Ormelle, ma aveva passato la vita lavorando come fattore a servizio di
diversi nobili, conseguendo così notevole esperienza e competenza, che, rientrato al
paese natìo, ormai ottuagenario, pensò di mettere per iscritto. Ne esce un bello spaccato della vita e delle abitudini agricole della zona del Piave e non solo. Grazie a lui
conosciamo la quotidianità, i vizi, i problemi e le astuzie del mondo agricolo suo
contemporaneo; apprendiamo inoltre quali erano le colture praticate nella campagna e con quali tecniche. Molto importanti per quel che ci riguarda sono i capitoli
dedicati alla coltura della vite, che spaziano dalla scelta del vitigno da impiantare, al
modo e tempo di impiantare e di vendemmiare. Non mancano poi i suggerimenti
relativi agli attrezzi, alla pulizia e alle pratiche di cantina. Chi lo legge si stupisce per
la modernità di alcuni consigli enologici, pur nell’ignoranza delle motivazioni profonde per cui tali pratiche venivano suggerite, alcune delle quali troveranno vasto
sviluppo, proposte in altre zone viticole, in tempi successivi.
Il Settecento inizia con cattivi auspici, infatti si susseguono annate climaticamente
molto sfavorevoli, con estese e durature gelate invernali, che culmineranno nella
grande gelata del 1709. Una testimonianza della situazione viene riportata nei registri canonici della parrocchia di Tezze: «Fu un freddo così vigoroso che fece morir
quasi tutte le viti […] e che appena il vino d’esquisita qualità si poteva cavar dalla
botte et cavato si gelava. Li huomeni caminavano sopra delle lagune e si portavano
a Venezia sopra il ghiaccio». Questa suggestiva immagine della piana del Piave
ghiacciata si addice più alle grandi pianure del Nord che non ai nostri siti, e provocò
notevoli danni. Si ebbe infatti un’estesa moria di tutte le piante coltivate, più adatte
a climi temperati, cioè ulivi, fichi e soprattutto la vite.
Un’ecatombe agraria, aggravata dalla circostanza della ridotta disponibilità di concimazione organica; infatti la privatizzazione dei terreni comunali, con lo sviluppo di
coltivazioni maggiormente remunerative a danno del pascolo, aveva di molto ridotto l’allevamento degli animali e, conseguentemente, la disponibilità di concime
organico, che era l’unico a quel momento disponibile. Ciò comportava in un’econo-
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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mia prettamente rurale un periodo di difficoltà economiche, diventando una crisi
che avrebbe portato a estrema povertà soprattutto i ceti meno abbienti.
Si ricostruì la viticoltura, ma scegliendo i vitigni con un occhio di riguardo verso la
quantità della produzione che non sempre coincide con la qualità. Questo comportò una diminuzione della qualità dei vini prodotti nei nostri territori. La Repubblica,
ormai in decadenza, cercò di arginare il problema favorendo la nascita di accademie,
in cui si ritrovavano i personaggi più dotti e sensibili, con il compito di analizzare il
problema ed elaborare un modo per risolverlo. Molto importante per la zona del
Piave fu l’Accademia Agraria degli Aspiranti di Conegliano.
Caduta la Repubblica di Venezia la nostra piana seguì le sorti del Veneto, con la
dominazione francese e poi austriaca.
L’Ottocento, un secolo fondamentale
Bisogna arrivare al regno d’Italia per avere un fermento di interesse per la valorizzazione della nostra viticoltura. Durante il periodo austriaco era sorta a Conegliano, a
opera del medico Francesco Gera, la Scuola di Agricoltura, attiva dal 1864 al 1867,
interrotta dalla morte del fondatore. Gera vi aveva chiamato a insegnare due insigni
personaggi: Antonio Carpenè, chimico ed enologo e Angelo Vianello, profondo
conoscitore delle cose di agricoltura.
Carpenè e Vianello, convinti che la strada iniziata da Gera fosse giusta, fondarono
nel 1868 la Società Enologica trevigiana, con il duplice scopo di migliorare qualitativamente i vini trevigiani, ma anche, non meno importante, di migliorare le conoscenze di chi si occupa di viticoltura ed enologia, riconoscendo così l’importanza
dell’istruzione agraria.
La spesso scarsa qualità delle uve era dovuta in gran parte al grandissimo numero dei
vitigni coltivati, che non sempre erano qualitativamente validi. La Società Enologica
si concentrò sui vini prodotti da due vitigni: uno bianco, Prosecco e uno rosso, il
Raboso da sempre coltivato nell’area del Piave.
Il Ministero dell’Agricoltura del Regno, dove era a quel tempo segretario generale il
veneziano Luigi Luzzatti, promosse inoltre un’indagine ampelografica su scala
nazionale che per la provincia di Treviso venne commissionata al Comizio Agrario
di Conegliano, allo scopo di verificare quali vitigni fossero presenti in provincia e,
82
LE VIGNE DEL PIAVE
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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Grappolo di raboso tratto dalla Ampelografia generale della provincia di Treviso, 1870
Carta enografica della provincia di Treviso. Dalmasso, 1936
soprattutto, quale fosse il loro effettivo valore qualitativo. Infatti essi furono suddivisi in base alla qualità dei vini in «varietà preferibile per vino fino e da lusso», «preferibile per vino dolce» e quelli di qualità inferiore definiti adatti alla produzione di
«vino comune, oppure ordinario, oppure ancora, inferiore». Nella vendemmia del
1869 vennero censiti e descritti ben 41 vitigni a bacca nera e 54 vitigni a bacca bianca, alcuni dei quali furono anche corredati da preziose fotografie, opera del fotografo trevigiano Giuseppe Ferretto. Il lavoro, rimasto manoscritto e con le foto originali, è proprietà dell’attuale CRA - Centro di Ricerca per la Viticoltura (ex Istituto
Sperimentale) di Conegliano, ma sono disponibili anche ottime copie anastatiche.
Nel frattempo, nel 1874, Vianello e Carpenè diedero alle stampe un’opera fondamentale per la conoscenza delle condizioni della viticoltura e dell’enologia nella nostra
zona, La vite ed il vino nella provincia di Treviso.
Per avere la “fotografia” dell’allora stato viticolo essi avevano coinvolto i comuni,
chiedendo loro di comunicare i dati della diffusione locale della viticoltura, la produzione di vino e da quali vitigni, bianchi e rossi, questo vino provenisse in maniera preponderante.
Il comune di Ormelle era compreso nel distretto di Oderzo. A quel tempo Ormelle
contava 2450 abitanti; la superficie vitata era di ben 1360 ettari su 1760. Vi si producevano 2000 ettolitri di vino, per la maggior parte rosso. I vitigni maggiormente presenti erano tra i bianchi il Pignolo e il Raboso e uno solo, il Raboso, tra i rossi, quindi due vitigni chiamati con lo stesso nome, Raboso. Il vitigno comunque maggiormente coltivato in senso assoluto era il Raboso rosso, come anche negli altri comuni limitrofi verso Conegliano.
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LE VIGNE DEL PIAVE
La scuola enologica
Come si è detto, nella seconda metà dell’800 si prese coscienza dello stato di degrado
in cui si trovavano la viticoltura e l’enologia italiane, comprendendo che il loro
miglioramento passava attraverso una più razionale applicazione della tecnica e
una migliore conoscenza delle recenti acquisizioni e scoperte in campo biologico.
Ciò comportava naturalmente poter seguire una istruzione specifica anche per il
campo agrario.
Questa esigenza era già stata sentita e affrontata in altri Paesi europei.
Nell’impero austro-ungarico ad esempio erano già sorte alcune scuole professionali:
fin dal 1860 era attiva quella di Klosterneuburg e nel 1874 nel Tirolo, veniva istituito l’Istituto Agrario Provinciale di San Michele all’Adige, altre scuole erano sorte in
altri Paesi viticoli europei.
Il Ministero dell’Agricoltura italiano, sempre grazie alla sensibilità di Luigi Luzzati,
mandò all’estero per perfezionare gli studi alcuni giovani studiosi, tra cui «l’ingegner Giovan Battista Cerletti, che nel 1870 ottiene una borsa di studio di perfezionamento all’estero nelle discipline agrarie».
Come abbiamo già visto l’enologia trevigiana era approssimativa, e pressoché sconosciuta qualunque pratica atta ad ottenere dei vini qualitativamente migliori e più
conservabili.
C’era comunque la consapevolezza di trovarsi in una zona viticola molto vocata,
dove si coltivavano troppi vitigni, dei quali solo alcuni di pregio e meritevoli di maggiore attenzione, e dove la mancanza di qualsiasi conoscenza tecnica non consentiva prodotti di qualità.
Carpenè, sempre molto attivo e determinato, promosse un dibattito pubblico sulla
necessità dell’istruzione in campo vitienologico, sia in una dettagliata relazione
inviata al Ministero dell’Agricoltura, sia in una lettera indirizzata a Cerletti attraverso la “Rivista di Viticoltura e Enologia italiana”, dove gli chiese di «aiutarlo a sviluppare il concetto del come si possa arrivare a promuovere e più efficacemente tutelare lo sviluppo enologico con la istituzione di una Scuola di Enologia nel Veneto».
Il valtellinese Cerletti gli rispose prontamente e in modo dettagliato.
In quegli anni a Conegliano si stava creando il giusto interesse e la giusta sensibilità
per la soluzione del problema, grazie anche all’apporto ideale e di sostegno da parte
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
85
di personaggi della cultura quali ad esempio il trevigiano Antonio Caccianiga e il
bellunese conte Giovanni Battista Bellati; Conegliano arrivò a concretizzare quanto
richiesto nel progetto di Cerletti per la Scuola da lui prospettata.
Il Comune offrì gratuitamente i locali e un podere di circa sei ettari; lo stesso
Comune, assieme alle Provincie di Treviso, Rovigo, Belluno e Udine raccolse il capitale occorrente; la Società Enologica trevigiana mise a disposizione la cantina.
Così, con regio decreto del 9 luglio 1876 fu istituita la Regia Scuola di Viticoltura e di
Enologia di Conegliano.
Le lezioni iniziarono il 15 gennaio 1877 e nelle diverse discipline furono chiamati i
migliori insegnanti. La Scuola Enologica, come sarà chiamata da tutti, diventò la
sede della conoscenza, della ricerca e dello sviluppo delle tecniche viticole ed enologiche del Veneto, e non solo.
Lì studieranno e si diplomeranno molti giovani studenti di Ormelle e della zona del Piave.
Dall’alberata al filare
Da tempo antico, nella zona della Piave, la vite si allevava appoggiata su alberi
(“maritata”) e i tralci tirati da un albero all’altro, in modo da sostenersi a vicenda.
Le viti erano molto rade, e tra i filari trovavano posto le colture erbacee.
In collina la vite era “maritata” all’orno, all’acero e talvolta al ciliegio; in piano si utilizzavano anche l’olmo, il pioppo e talvolta il salice. Veniva utilizzato anche il gelso,
il cui fogliame permetteva un raccolto aggiuntivo, il baco da seta.
I filari erano posti a distanze variabili, da 12 a 30 metri, e nell’interfilare, come detto,
si coltivavano altre piante. Gli alberi si ponevano nei filari a distanze intorno ai 5
metri, e le viti in numero variabile da una a tre per parte a ogni albero.
Il numero di viti a ettaro risultava quindi molto basso, variando da un minimo di
140 a un massimo di 166 piante.
Le viti naturalmente erano piantate franche di piede e i tempi di allevamento e di
messa in produzione erano molto lunghi. Il periodo di crescita delle piante era
molto lento, così si irrobustivano e duravano a lungo: «La vite si lascia correre a suo
talento per tre, quattro, cinque e talvolta sei anni; quando sia vigorosa sufficientemente […] la si taglia […] per invitare la pianta a gettare dei bei tralci […] e si stende la
parte superiore della vite nella direzione del filare».
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LE VIGNE DEL PIAVE
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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sistema ingegnoso che permetteva, attraverso la potatura a Sylvoz, di separare i tralci produttivi da quelli destinati al rinnovo; inoltre tutta la vegetazione veniva esposta ai raggi del sole, consentendo il massimo utilizzo degli stessi e quindi rendimenti qualitativi e quantitativi superiori rispetto all’alberata. Non indifferente anche la
considerazione che, evitando l’affastellamento di tralci e grappoli che si ha nell’alberata, i grappoli erano più arieggiati, risentendo quindi meno di muffe. Altra considerazione a favore del sistema a raggi e dovuta al minore groviglio tra fogliame e grappoli, è la migliore penetrazione fino agli organi da trattare, dei prodotti antiparassitari che, purtroppo, si dovettero cominciare ad usare a partire dalla metà del secolo.
Condizione questa molto importante, visto che tali prodotti venivano distribuiti
con apparecchi rudimentali, non in grado di penetrare con pressione all’interno
della vegetazione. Il sistema a raggi o “bellussera”, al pari dell’alberata, inoltre, mantenendo la vegetazione a una certa altezza del terreno, al di sopra di nefaste nebbioline autunnali, preservava le uve dalle muffe; rispetto all’alberata inoltre permetteva di aumentare il numero di piante per unità di superficie.
I due geniali viticoltori si chiamavano Antonio e Girolamo Bellussi.
Questo modo di allevare la vite suscitò molta curiosità e, per le sue caratteristiche
positive, si diffuse rapidamente, non solo nella zona del Piave. Infatti i vitigni che vi
erano coltivati erano vigorosi e, così allevati in quei fertili terreni della piana del
Piave, davano libero sfogo a questa loro caratteristica fornendo nel contempo uve
sane e di buona qualità.
Innesti in campo
Questo il sistema di allevare le viti nella zona della Piave, già riportato nel Seicento
dall’Agostinetti, e che era rimasto pressoché immutato fino alla fine del 1800. Nella
seconda metà di questo secolo infatti, due viticoltori di Tezze di Piave, paese vicino a
Ormelle, apportarono alcune modifiche all’alberata: la vite veniva sempre sostenuta
da un albero, ma branche e tralci, anziché passare da un albero all’altro nel senso del
filare, erano sostenuti da fili di ferro messi a “raggio” ed erano collegati con gli alberi del filare vicino. Il tutto con un perfetto e pittoresco intreccio di fili e tralci. Era un
Nel secondo dopoguerra si apportarono ulteriori modifiche al sistema a raggi, e non
tutte furono positive.
La naturale generosità dei vitigni, unitamente alla natura dei terreni, in presenza di
laute concimazioni, soprattutto letamiche e di irrigazioni, hanno infatti condotto i
viticoltori, per necessità o per ingordigia, a spingere in modo esasperato le produzioni.
Nel sistema originario, i raggi che partivano dal sostegno, vivo o secco, erano quattro,
uno per ogni vite, e correvano incrociati sull’interfilare. Per aumentare la produzione,
i viticoltori introdussero il cosiddetto raggio in pianta, che correva lungo il filare, e a
volte ne aggiunsero un altro sopra questo. I capi a frutto cominciarono a essere più
lunghi e, per risparmiare il costo delle barbatelle, si ridusse il numero delle viti per
ogni posta, arrivando addirittura a due in luogo delle quattro originalmente previste.
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LE VIGNE DEL PIAVE
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
In questa situazione la vite continuò generosamente a produrre, ma il carico produttivo per ogni singola pianta era tale che la qualità cominciò a risentirne, e così la
forma di allevamento della vite a raggi fu oggetto di severe critiche. Gli elevati costi
di impianto e di gestione del sistema e la progressiva riduzione della disponibilità di
manodopera fecero il resto.
Così, a poco più di un secolo dalla sua ideazione, la forma di allevamento a raggi, detta
anche Bellussi o “bellussera”, rischia di sparire, sostituita da altre forme di allevamento più moderne e in cui le varie operazioni, ma soprattutto la vendemmia, possono
essere facilmente meccanizzabili, causando una notevole perdita per la storia, la tradizione e cultura del territorio, ma anche per il paesaggio delle terre del Piave, nel
quale le geometrie del sistema formavano un tipico e inconfondibile intreccio.
Comunque sia dobbiamo ricordarci che la ricchezza agricola, che si è creata dagli
anni ’50 dello scorso secolo nella zona del Piave, è dovuta alla laboriosità e alla parsimonia dei coltivatori, agli interventi di sostegno dello Stato (vedi Piani Verdi), ma
anche al sistema Bellussi, su cui venivano coltivati con grande profitto sia i vecchi
vitigni Raboso, Prosecco e Verduzzo, ma anche quelli che si stavano sempre più diffondendo nella zona, quali Merlot, Cabernet, Pinot.
Le malattie da oltreoceano
Ai primi dell’800 i botanici europei, soprattutto francesi, cominciarono l’esplorazione,
lo studio e la catalogazione delle diverse specie del genere Vitis presenti nelle Americhe.
Iniziarono gli scambi di materiali vegetali: i laboratori e le collezioni europee furono
invasi da viti che avevano nomi strani, come Cordifoglia, Riparia, Rupestris, Labrusca.
Contrariamente alla Vitis vinifera del vecchio mondo, i frutti di queste Vitis avevano
poco o nullo valore enologico.
Assieme a questi materiali di sicuro interesse scientifico, vennero purtroppo inavvertitamente portati anche alcuni parassiti di queste viti, fino ad allora sconosciuti in
Europa. I loro nomi in ordine cronologico di arrivo sono oidio, peronospora, fillossera.
Le viti americane avevano dovuto trovare un equilibrio con questi parassiti, sviluppando delle resistenze per potervi convivere; così non era per le viti europee, che si
trovarono completamente disarmate e subirono danni tali da compromettere addirittura l’esistenza stessa della viticoltura.
Ciclo della fillossera
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LE VIGNE DEL PIAVE
L’oidio (Uncinula Necator, Oidium Tuckeri) arrivò nel 1850; è un fungo che colpisce
foglie ed acini formando la caratteristica polverina bianca esterna all’organo. Le
parti degli acini attaccati bloccano il loro sviluppo, mentre la restante parte continua il naturale accrescimento, con conseguenti spaccature profonde, spesso sede
anche di successivi insediamenti di botrite.
I vitigni più sensibili a questa malattia soffrirono particolarmente il suo arrivo, perdendo completamente la produzione. Fu questa la causa della quasi scomparsa del
Marzemino, il più diffuso vitigno nella provincia di Treviso prima dell’arrivo dell’oidio.
Una curiosità: l’uso di piantare rosai all’inizio del filare è dovuto alla loro sensibilità
a questa malattia, tanto da essere utilizzati come indicatore rivelante il momento
opportuno per iniziare i trattamenti anticrittogamici.
Contro l’oidio si trovò un metodo di lotta efficace nell’utilizzo dello zolfo.
Nel 1880 si ebbero in provincia di Treviso i primi attacchi di peronospora (Plasmopara viticola), altro fungo di importazione americana. Anche la peronospora portò ad
annate di perdita completa del prodotto; ancora oggi, in annate particolarmente
umide e piovose, la difesa delle nostre viti può essere di difficoltosa risoluzione.
Tutta l’Europa fu impegnata, seguendo diverse scuole di pensiero, nella ricerca di
anticrittogamici efficaci in grado di debellarla. Per un periodo a Bordeaux il professor Millardet era sicuro che il rimedio fosse il solfato di rame, che però usato da solo
e in dosi elevate provocava bruciature con ulteriori danni a foglie e grappoli: era la
scuola dei “rameisti”. Alla Scuola Enologica di Conegliano invece si provava con successo il trattamento con latte di calce, per cui si pensava che questa fosse la soluzione: era la scuola dei “lattisti”. Dopo alcuni anni di prove, di vittorie e di sconfitte, fu
messa a punto la “poltiglia bordolese”, dosando armoniosamente solfato di rame e
latte di calce.
Ma il vero flagello, la fillossera (Fillossera vastatrix) doveva ancora manifestarsi: era
già sbarcata in Europa e fu segnalata per la prima volta in una serra vicino a Londra.
Da allora fu tutto un susseguirsi di segnalazioni di vigneti in inspiegabile stato di
deperimento fino alla prima individuazione di un focolaio italiano avvenuta nel
1879. In provincia di Treviso fu trovata nel 1900.
La fillossera è un afide che sulla vite europea attacca sia le radici che le foglie; nelle
specie americane, come detto, si era creato un equilibrio per cui prosperava solo sulle
foglie lasciando intatte le radici; così ambedue, Vitis e fillossera, sopravvivevano.
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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Una volta entrata in contatto con le nuove e indifese viti europee, la fillossera non trovò
alcuna resistenza e attaccò anche le radici delle piante, provocando danni irreparabili.
Gli unici vigneti che si salvavano erano quelli piantati in terreni sabbiosi, dove la fillossera era impossibilitata a qualsiasi spostamento. Ma nella zona del Piave i terreni,
memori degli spostamenti fluviali, non sono omogenei, c’è un continuo susseguirsi
di terreni ciottolosi, limosi, di medio impasto e anche qui i danni cominciarono a
farsi evidenti.
La fillossera era un grosso problema da risolvere, e si formarono due differenti correnti di pensiero.
La prima proponeva di verificare se qualche vite americana fosse nello stesso tempo
resistente e in grado di dare un vino qualitativamente accettabile; verificato che questa condizione non esisteva in natura, si propose di creare ex novo, mediante incroci tra viti resistenti e viti qualitative, nuove varietà che portassero entrambe le caratteristiche per sostituire con queste le varietà tradizionali.
L’altra partiva dal presupposto che la tradizione varietale europea dovesse essere
mantenuta, tutt’al più solamente un po’ più selezionata; perciò si propose di “beffare” l’ingorda fillossera sostituendo alle radici europee quelle americane, non appetite, e mantenere come parte aerea i nostri vitigni.
Fu questa seconda linea che prese il sopravvento portando all’uso pressoché universale della barbatella innestata e creando una fiorente industria vivaistica.
QUADRETTI DI VITA AGRICOLA
Com’era la vita dei contadini quando nacque la Cantina di Ormelle, subito dopo la
metà dello scorso secolo?
Fortunatamente era molto cambiata rispetto a quella che si faceva fino alla seconda
guerra mondiale. Le lunghe serate invernali passate quasi al buio nell’unico locale
caldo della casa, la stalla, erano per quasi tutti solo un lontano ricordo; quasi tutte le
case avevano la corrente elettrica, ma poche avevano l’acqua corrente e i “servizi
igienici” erano situati all’esterno, in una angusta costruzione. Il riscaldamento era
delegato alla cucina economica, a qualche stufa in terracotta rossa, ma pochi avevano legna sufficiente per ottenere un tepore soddisfacente. I piani superiori, dove si
trovavano le camere e i granai, erano divisi dal pianterreno e separati tramite una
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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porta, in modo che il calore prodotto rimanesse tutto nella grande stanza che serviva da cucina, salotto, stanza da lavoro per le donne e luogo dove fare i compiti per i
bimbi che andavano a scuola.
La sera ci si coricava con la borsa dell’acqua calda, ma talvolta il freddo in camera era
tale da vedere distintamente il fiato. Talvolta, se la temperatura era eccessivamente
rigida, si bruciava un po’ di alcool in un catino di alluminio, così si stemperava un
po’, ma facendo molta attenzione a non provocare un incendio.
Ci si vestiva molto pesante: maglia di lana con le maniche lunghe, calze di lana, gli
uomini avevano i mutandoni di lana e gli indumenti esterni, che erano numerosi,
erano abbastanza grezzi e spesso di maglia lavorata a mano dalle donne.
L’annata agraria si concludeva a san Martino, data in cui avvenivano anche le risoluzioni dei contratti e il conseguente possibile trasferimento di tutta la famiglia con le
poche povere masserizie ad altro proprietario. Era il momento di fare il bilancio dell’annata e, in ogni caso, cantare un Te Deum di ringraziamento al buon Dio per quanto si era raccolto, perché, anche se magari non c’era stato un raccolto abbondante,
poteva andare anche peggio. Era anche il momento delle castagne, per chi poteva
permettersele, e del vino nuovo.
Con il freddo cominciava anche la stagione del “sacrificio” del maiale, che era una
festa per tutti. Ci si alzava di buon’ora e presto arrivavano anche il norcino e gli aiutanti. I bambini tenevano la testa sotto le coperte per non sentire le sue povere, lancinanti e inutili urla, ma alla sera, dopo una lunga giornata di lavoro, era cena per
tutti con la braciola cotta nel latte.
Subito dopo Natale cominciavano i preparativi per il panevin, ultimo retaggio pagano
della cultura contadina in cui ci si affidava alle divinità della luce che stavano vincendo
sulle tenebre avvicinando la primavera. Per fare il panevin si utilizzavano i legni di potatura delle viti, ma solo quelli molto sottili, dato che gli altri servivano per fare un po’ di
fuoco in casa; erano molto usati anche i rovi che infestavano le numerose siepi che attorniavano i campi. Tagliarli e trasportarli nel luogo dove si sarebbe preparato il panevin era
il divertimento dei ragazzi, che li estraevano e trascinavano grazie a un attrezzo fatto di
solito con un ramo lungo di sambuco, altra pianta infestante delle siepi, tagliandone un
altro subito dopo una biforcazione. Ai ragazzi era riservato anche un altro compito che
li divertiva moltissimo ed era fare la guardia affinché qualche malintenzionato, per
scherzo o per invidia, non appiccasse prematuramente il fuoco al panevin già preparato.
Panevin
96
LE VIGNE DEL PIAVE
Le donne avevano il loro daffare a preparare la pinza, dolce tradizionale dell’Epifania,
fatto di povere cose: zucca, poca di farina di frumento, farina di granturco; il tutto condito con fichi secchi, uvette e semi di finocchio e la qualità e quantità del condimento faceva la differenza sociale, il grado di agiatezza o povertà delle famiglie.
Per fare un bel panevin collaboravano diverse famiglie, mettendo in comune legna e
manodopera. Importante era che il panevin non cadesse e continuasse ad ardere ben
saldo sui suoi supporti.
Dopo cena si andava ad accenderlo, e mentre le fiamme salivano al cielo scintillanti, si formulavano gli auspici per l’anno appena iniziato: Se le buife va a matina ciol su
el sac e va a farina, se le va a sera, poenta a pien cagliera.
Si cantavano le antanie, cioè le litanie e poi quelle antiche cante che erano proprio cantar panevin: …che Dio ne dae la sanità del panevin del vin del pan… Alcune famiglie erano
molto brave a cantare e si ascoltavano volentieri quelle belle voci nella fredda notte.
Poi si andava in casa a mangiare la pinza, a bere il vino nuovo e… ad aspettare la
Befana, che chissà perché, come san Nicolò e Gesù bambino, portava soltanto cose
utili per la scuola, quaderni e matite e due mandarini. Quanto freddo si pativa in
quelle belle serate! Tutti bollenti dalla parte del fuoco, gelati dall’altra.
Le strade erano quasi tutte bianche, da asfaltare e i mezzi di locomozione ancora primitivi: ci si muoveva a piedi, con il cavallo, ma sempre meno, in bicicletta o con la
corriera. Quando si doveva spostare tutta la famiglia si noleggiava un’auto con l’autista, ma erano occasioni molto rare.
I bambini andavano a scuola a piedi, spesso tagliando per i viottoli nei campi, soprattutto quando la stagione cominciava ad essere propizia.
L’inverno era il tempo della potatura, operazione che i viticoltori svolgevano con
tranquillità dato che avevano diversi mesi a disposizione.
Ad aprile tutto si risvegliava, le viti e il gelso germogliavano, l’erba cresceva, si seminava il mais di primo raccolto, si controllava che il frumento fosse ben accestito.
Tutto si preparava per i grandi lavori che sarebbero seguiti; la fienagione, con il
primo taglio a maggio, la trebbiatura di giugno e soprattutto il superlavoro di un
mese o poco più per l’allevamento dei bachi.
Si stava anche sempre molto attenti all’andamento meteorologico, augurandosi che
non ci fossero gelate tardive, ai primi del mese di maggio; per questo, per preservar-
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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si dalla grandine garantendosi comunque una piovosità estiva regolare, si eseguiva
la pratica delle rogazioni: Ad fulgure et tempestate… libera nos domine.
Se dopo una fredda e serena nottata si prevedeva una gelata che avrebbe compromesso i
giovani germogli della vite, gli adulti si alzavano all’alba e cominciavano a sfalciare dell’erba, a cui sarebbe stato dato fuoco. L’erba naturalmente faticava ad ardere e produceva
molto fumo che faceva da “intercapedine” tra le viti e l’aria fredda sovrastante preservando così foglioline e grappolini. Se invece ad impaurire era un brutto temporale allora le
donne prendevano l’ulivo benedetto, accendevano la “candela ceriola” e imploravano
l’intercessione della divinità affinché la tempesta non cadesse distruggendo i raccolti.
Più tardi, a questa impotente implorazione venne associato l’uso dei cannoni antigrandine, la cui entrata in azione oltre che speranza per gli adulti era anche fonte di
gioia e di entusiasmo per i bambini.
L’allevamento del baco da seta
Maggio era il tempo dei bachi da seta, che venivano allevati, in quantitativi proporzionati alla disponibilità di manodopera e di foglia, pressoché in tutte le case coloniche. Ai primi del mese si portavano a casa i minuscoli vermiciattoli scuri e si mettevano in una stanza calda della casa, spesso addirittura in cucina. Mangiavano come
forsennati e bisognava continuare ad andare nei campi a tagliare i rami del gelso per
nutrirli; donne e bambini provvedevano a strappare le foglie che venivano tritate via
via sempre più grossolanamente man mano che il baco cresceva. Lo si cambiava di
letto, per le quattro mute che subiva, aumentava di volume e diventava di colore
bianco. Finalmente per l’ultima muta gli si preparava l’ambiente giusto dove si
costruiva la sua ultima dimora, il bozzolo, in modo che lo stesso non si sporcasse,
dato che quelli macchiati dovevano essere scartati. Gli si costruiva un alloggio con i
rami di acero mettendogli a disposizione molta erica secca, chiamata pezoea; lui si
perdeva e cominciava a emettere dalla bocca quel sottile filo di seta con cui si riparava per mutare. La seta era bianca, ma in anni precedenti si utilizzavano bachi che la
producevano gialla.
Finalmente tutto tace nel granaio, non si sente più il rumore delle mandibole che
febbrilmente triturano la foglia: al posto dei bianchi bachi ci sono solo bozzoli, le
gaete, pronti per essere raccolti e lavorati.
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LE VIGNE DEL PIAVE
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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La fienagione
La calda e afosa estate era cominciata, e con essa tutti i lavori estivi.
C’erano i trattamenti da fare alle viti, il fieno da portare in cascina, irrigare le piante
se la stagione era particolarmente secca.
Fare il fieno, dato che ogni azienda aveva la propria stalla più o meno grande, era uno
degli impegni principali. Nei primi anni Cinquanta dello scorso secolo, quando
sorse la Cantina Sociale di Ormelle, le varie operazioni venivano effettuate prevalentemente senza l’ausilio delle macchine che ora siamo abituati a vedere.
Lo sfalcio, la distribuzione del fieno, il mettere in andana, fare i mar, cioè i mucchi di
fieno per metterlo al riparo dalle intemperie, il successivo spargimento per permetterne
l’essiccagione; il carico e lo scarico in fienile: tutte operazioni compiute manualmente.
Se tutto andava bene il lavoro si svolgeva con un tranquillo, anche se operoso, andamento; se il tempo si guastava e minacciava il temporale, la tranquillità diveniva frenesia per riparare in qualche modo il prodotto. Se il fieno era quasi essiccato celermente si approntava la sua sistemazione nel fienile; altrimenti, via di corsa a fare i
mucchi, in modo che fosse il meno esposto possibile alla intemperie. C’era una tecnica anche per fare i mucchi, come per caricarlo e intassarlo nel fienile: dovevano
essere di una certa dimensione e dovevano essere solidi, per non rovesciarsi; inoltre,
dopo aver concluso il mucchio di fieno, esso veniva pettinato con il rastrello, sempre
per preservarlo dall’acqua imminente.
Allevamento bachi da seta
E finalmente il raccolto: tutta la famiglia è impegnata, accorrono ad aiutare anche
amici e parenti.
Si raccolgono i bozzoli, che vengono puliti dall’involucro più esterno e portati al
centro di raccolta; è il primo raccolto dell’anno, che arriva in un momento in cui i
soldini in famiglia scarseggiano.
Spesso i bimbi più curiosi trafugavano qualche bozzolo e lo nascondevano nel cassetto del comodino per vedere cosa sarebbe successo. E dopo qualche tempo vedevano uscire una tozza farfalla bianca, che deponeva molte uova.
Quelle che erano andate al centro di raccolta, invece, non sarebbero mai uscite vive dal
bozzolo che avevano costruito con tanta cura, per la continuazione della loro specie.
L’estate era la stagione preferita dai ragazzi; c’erano le vacanze e, anche se bisognava
contribuire ai lavori di campagna, si disponeva del tempo per godere appieno della
bella stagione.
La bella stagione, con i bagni sul Piave, dove qualcuno lasciava la vita, con la “raccolta
spontanea” della frutta: i ragazzi conoscevano bene sia la dislocazione che l’epoca di
maturazione delle diverse piante di ciliegie, pere, prugne, susine e mele che erano ancora presenti nei vigneti. Quando gli adulti erano a letto a riposare, dopo una levataccia
mattutina e prima della conclusione della lunga giornata di lavoro, fingevano di andare
a letto come volevano i genitori. Ma dopo, o per le scale o più avventurosamente dalle
finestre delle camere, partivano. La destinazione variava, o i campi dei propri genitori, o
“ospiti” da amici, oppure, via, facendo molta attenzione, a “rubare” in quello degli altri.
Si conosceva a menadito quello che ora non si sa più: che ogni frutto ha la sua stagione!
100
LE VIGNE DEL PIAVE
La vendemmia
Il momento del raccolto principale era finalmente arrivato. Le vendemmie cominciavano ai primi di settembre, con l’uva Tocai, poi c’era il Merlot, il Cabernet, il
Verduzzo, quel poco di Prosecco, e, finalmente il Raboso, veronese e Piave, che portava a vendemmiare alla fine di ottobre e talvolta anche dopo la ricorrenza dei Morti,
ai primi di novembre.
L’atmosfera era operosamente febbrile, ma allo stesso tempo piena di allegria.
Finalmente si portava al coperto anche questo importante raccolto.
Si raccoglieva l’uva stando in cima ai carri, data l’altezza di tutta la struttura della
“bellussera”.
Chi accudiva ai buoi o alla vacchetta che provvedevano al traino del carro rimaneva
a terra e tagliava i capi a frutto “le centene” più basse.
L’uva tagliata si depositava in cesti che poi si scaricavano nei tini o in cassette che si
era provveduto a costruire in azienda durante l’estate.
Finalmente si scarica tutta una tensione che durava dal germogliamento: superate o
evitate le gelate primaverili, le malattie, la siccità, la temuta e odiosa grandine. Ecco
finalmente il sole fatto uva, è garantito il raccolto e la sopravvivenza o la prosperità
della famiglia. E tutto si scioglie in allegria, in canti che vengono improvvisati tra i
vendemmiatori, e sono canzoni tradizionali, o di guerra; qualcuno, più dotato, si
avventura anche in un accenno di qualche aria d’opera più popolare…
Finalmente si vendemmia. Gli auspici evocati e sperati con il panevin si stanno concretizzando. Tutta la famiglia è impegnata nel lavoro, dai più piccoli ai vecchi, e tutti
fanno progetti, l’ottimismo finalmente trionfa in un lavoro sempre duro ed incerto.
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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Ma la gran parte del raccolto veniva o venduto a cantine private o conferito alla
Cantina Sociale. E la Cantina Sociale è stata per il viticoltore una grandissima soluzione ai propri problemi, consentendogli di non essere più in balia dei capricci del
mercato e del commerciante, cosa che a volte lo costringeva, stretto dal bisogno e
dall’impossibilità di collocare altrimenti l’uva, ad accettare di vendere a dei prezzi
certamente non remunerativi.
L’uva raccolta veniva portata, con i tini o più tardi in cassetta, alla Cantina Sociale. Il
carro era trainato dal paziente animale di cui si disponeva.
Per scaricare l’uva bisognava armarsi di tanta pazienza, dato che tutto era fatto a mano e
le pigiatrici non erano sicuramente quelle attuali. A volte, quando la raccolta era al suo
massimo, bisognava preventivare di stare fuori tutta la notte, soprattutto il sabato, giorno
in cui i primi “metalmezzadri” erano a casa e partecipavano al lavoro agricolo. L’attesa,
anche se lunga e appesantita da un periodo di lavoro senza soste, era comunque un
momento di socializzazione. Ci si parlava, si parlava, anche se con timore quasi reverenziale, anche ai dipendenti della cantina, a chi faceva il grado, qualche volta al direttore…
Il momento della determinazione della gradazione zuccherina dell’uva conferita era
sempre drammatico. Il viticoltore, che racchiudeva in sé una memoria secolare, era
spesso timoroso e in guardia per il sospetto che lo volessero raggirare. Si faceva il
campione sotto la pigiatrice e poi, con il Babo e negli anni successivi con il rifrattometro, si determinava il parametro utilizzato, assieme alla quantità, per la liquidazione dell’uva conferita. Quante discussioni in quel momento: «ma ieri era uguale e
ha fatto di più», «ma non è possibile, era un’uva bellissima»… Qualcun altro non
commentava, forse piacevolmente sorpreso…
Il tempo passava lento, come sospeso; la fatica era tanta, ma si gioiva e, speranzosi, si
facevano progetti da attuare con il denaro che si sarebbe guadagnato.
Come è cambiato tutto da allora. Eppure sono solo cinquant’anni!
Il conferimento alla cantina
Solitamente si teneva a casa un po’ di uva per fare il vino per la famiglia; a seconda
dei gusti era Prosecco, Verduzzo, Merlot, un po’ di Cabernet e l’immancabile Raboso.
Anche se il Raboso era un vino che a volte, per essere bevuto, richiedeva tutte le proprie facoltà, era il vino per eccellenza; non si poteva pensare in estate di berne un
altro: aspro, di poco alcol, con un colore che se lo spandevi ti macchiava tutto… Era
il Raboso.
I VITIGNI NEL TEMPO
Dagli anni cinquanta all’attualità.
Chi negli anni Cinquanta del secolo scorso percorreva il tratto dell’attuale “Strada
dei vini del Piave” poteva ammirare le “bellussere” che ininterrottamente gli facevano da corona, ed erano soprattutto “bellussere” monovarietali di Raboso, Tocai,
102
LE VIGNE DEL PIAVE
Verduzzo trevigiano, Merlot e Cabernet
franc. Rimanevano solo pochi, sparuti
vecchi vigneti che contenevano alcuni
vitigni prefillosserici, tipici della collina,
ma presenti anche in pianura quali
Bianchetta, Marzemina bianca da noi
chiamata Sciampagna, Pignola, Prosecco, Verdiso. Vigneti destinati a sparire di
lì a breve. Nei decenni successivi il volto
della nostra viticoltura cominciò a cambiare: non più “bellussera”, ma vigneti
concepiti in funzione della meccanizzazione, messi a filare o GDC. Anche i vitigni furono cambiati; si utilizzava sempre
meno Raboso, Tocai e Verduzzo trevigiano a vantaggio di vitigni internazionali
quali Chardonnay, Pinot grigio, Cabernet
sauvignon e ultimamente, sull’onda del
grande successo, anche Prosecco.
Le radici però non possono essere dimenticate, anche perché costituiscono quello che diversifica e caratterizza il territorio viticolo del Piave dagli altri. Ecco così il rilancio di due nostri vitigni: uno rosso,
il Raboso Piave e uno bianco, il Verduzzo trevigiano.
Raboso Piave
È il vecchio vitigno caratteristico della zona del Piave. È coltivato, da alcune centinaia di anni, anche nella zona di Bagnoli nella pianura padovana, dove prende il nome
di Friularo, dato che vi è stato introdotto dalla zona della sinistra Piave.
La prima citazione per la nostra area risale ad Agostinetti, nel Seicento. Tra i nomi
dei vitigni ivi coltivati egli infatti rende grandi onori per la qualità del vino all’uva
Recandina che alcuni «chiamano rabbosa per essere di natura forte». È un vitigno
rustico, con grandi grappoli compatti, acini dalla buccia blu-nero, caratterizzato da
una maturazione molto tardiva, dopo le prime gelate, che lascia le uve ricche di acidità. Il vino infatti è coloratissimo, non molto alcolico, acido.
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ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
Pinot Grigio (foto Vivai Cooperativi Rauscedo)
Raboso Piave
Già nel Settecento era il vitigno più coltivato nella pianura e con esso si producevano i vini neri tanto apprezzati a Venezia. La sua fortuna aumentò nei secoli, tanto
che nella prima metà del Novecento tutta la pianura della sinistra Piave da
Conegliano a Oderzo venne definita “zona del Raboso Piave”. Quella sottostante è la
“zona del Raboso veronese”.
Esistono infatti due tipi di Raboso: il Piave e il veronese. Quello più antico, che con
il nome di «Rabosa nostrana» è descritto anche nell’ampelografia del 1870, è il Piave;
in quella interessante e preziosa ampelografia, il veronese viene definito «di introduzione non molto antica dal veronese». Ma è veramente arrivato dal Veronese?
L’origine del Raboso veronese
Ebbene sì, sembra che arrivi proprio da lì, e più precisamente da Sabbion di Cologna
Veneta, dove i conti Papadopoli avevano dei possedimenti. Ma i Papadopoli ne avevano anche a San Polo di Piave, paese confinante con Ormelle, zona classica del
104
LE VIGNE DEL PIAVE
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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Verduzzo trevigiano
Verduzzo (foto Vivai Cooperativi Rauscedo)
Raboso Veronese
Raboso, che sicuramente hanno piantato anche nel Veronese, dato che esso viene
censito dalla ottocentesca Commissione Ampelografica veronese.
Con l’analisi del DNA si è verificato che il Raboso veronese aveva per madre il
Raboso Piave. Successivamente si è trovata anche la varietà che fornendo il polline,
era il padre, e si trattava della Marzemina bianca.
Uno studioso vicentino dei primi del Novecento, Norberto Marzotto, parlando del
Raboso veronese ci specifica che esso è stato diffuso dai possedimenti dei Papadopoli
di Sabbion e di San Polo. A quel tempo non essendoci la fillossera, si usava allevare in
sostituzione delle viti mancanti quelle nate spontaneamente alla base delle alberate.
Crescendo, il semenzale fortunosamente nato da Raboso Piave e Marzemina bianca,
e che poi diventò il Raboso veronese, manifestò una notevole somiglianza con il
Raboso, di cui peraltro era figlio, e venne quindi chiamato genericamente “Raboso”
data la somiglianza, e, quando fu introdotto nel Trevigiano per distinguerlo, venne
specificata la sua provenienza: “veronese”.
Anche per le origini del Verduzzo trevigiano per molto tempo si è brancolato un po’ nel
buio. Infatti un grande ampelografo del Novecento quale Italo Cosmo, riferiva di non
averne trovato traccia nelle informazioni storiche disponibili. E infatti Cosmo ipotizza
che il Verduzzo trevigiano sia in realtà di provenienza sarda, trapiantato in quel di
Motta di Livenza, come si legge in uno scritto dello studioso mottense Lepido Rocco.
Ma Ulderico Bernardi in una sua opera riferisce che un contadino di Oderzo, quindi vicino ad Ormelle, cita una varietà coltivata in quel luogo che veniva chiamata Verdazza.
Probabilmente la verità sull’origine del Verduzzo trevigiano è stata recuperata.
Infatti nella Ampelografia generale della provincia di Treviso, preziosa opera manoscritta con fotografie di Giuseppe Ferretto del 1870, di cui recentemente è uscita una
ristampa anastatica, sono descritti diversi vitigni con il nome di Verduzzo: Verduzzo
bianco, Verduzzo bianco gentile, Verduzzo folto e Verduzza, tutti molto diffusi sui
colli di Conegliano.
Il vitigno chiamato «Verduzzo bianco», definito di «antichissima coltivazione» per
le caratteristiche ampelografiche (foglia pentalobata con lobi pronunciati, grappolo
grande, spargolo, acino appena ovale), e per la dichiarata sensibilità all’oidio, corrisponde al nostro Verduzzo trevigiano. Non un vitigno esotico, quindi, ma un già allora vecchio vitigno della nostra sinistra Piave!
Ma come mai non c’era ricordo di questo vitigno? Probabilmente fu proprio a causa
della sua sensibilità all’oidio.
Ricordiamo che all’epoca, dopo il 1850, non si usavano i vigneti monovarietali, anzi,
le piantate erano abbastanza variegate con mescolanze di diversi vitigni sia a bacca
bianca che a bacca nera. Il nostro Verduzzo era quindi presente, pur se con meno frequenza, anche nella nostra pianura.
L’ambiente collinare, in cui l’oidio allignava in maniera distruttiva, ha comportato
che i vitigni ad esso sensibili, quali il Verduzzo, ma anche il Marzemino, ne soffrissero in maniera particolare, con perdite pressoché totali della produzione. Naturalmente gli agricoltori estirparono questi vitigni sensibili; ma nell’ambiente di pianura, soprattutto tra Piave e Livenza, a Motta, i danni subiti erano meno gravi, e questo vitigno vigoroso e produttivo vi rimase; anzi, trovati i mezzi di lotta efficaci contro la crittogama, cominciò ad espandersi nella pianura e venne denominato spesso
Verduzzo di Motta. E così il nostro vecchio, ma ancora moderno ed eclettico vitigno,
è diventato un simbolo della terra del Piave.
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LE VIGNE DEL PIAVE
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ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
Prosecco
La prima citazione in assoluto del
Prosecco non è quella di Acanti del 1754
e riferita per il «Prosecco di Monte
Berico», quindi vicentino, ma è contenuta nella Bagozzeide, scritta oltre una
trentina di anni prima, nel 1733, dal
commediografo Tommaso Mondini, che
scriveva con il nome di Sante Bagozzo.
La Bagozzeide «è una magnifica elencazione di quanto si poteva godere a Venezia, città dove non si produce niente e
si trova tutto. Carni d’ogni sorta, pesci,
selvaggina, pasticceria, vini». E nel banchetto di cui si riferisce, vengono servite tra le altre uve di Pignolla, Gatta,
Gorbina, Pinella, Pattaressa, Garganega
e Doretta, tutti nomi noti a chi segue i
lavori di recupero dei nostri vecchi vitigni veneti. E tra i vini degustati, di provenienze diverse sia italiane che estere, c’è anche un «Prosecco fatto». Se era degno
di menzione in una galleria così ampia come quella della Bagozzeide, vuol dire che
era già conosciuto e apprezzato a Venezia.
Dove fosse stato prodotto questo Prosecco non ci viene detto, e nulla vieta farci pensare che esso provenisse dalle nostre dolci colline tra Piave e Livenza.
Prosecco, Glera, Serprino, nomi diversi per chiamare un singolo vitigno, a seconda
dei luoghi dove esso si trova.
Il Prosecco è il sole che si fa uva e vino, e lo si vede già nei grappoli, quei bei grappoli piramidali, alati, giustamente spargoli, con acini di colore giallo, traslucido; sembra già di ammirarne il vino con quel leggero coinvolgente profumo. E poi in bocca,
con quel tanto di bollicine formate dalla tradizionale fermentazione in bottiglia sui
lieviti, ora la chiamano sur lie pensandola di invenzione francese, ma basterebbe leggere attentamente i nostri autori di tre secoli fa per capire che già allora da noi, nella
sinistra Piave, era una pratica tradizionale.
Manzoni Bianco (foto Vivai Cooperativi Rauscedo)
Merlot (foto Vivai Cooperativi Rauscedo)
I Manzoni
Un accenno a un gruppo di vitigni “nati” a Conegliano: sono quelli creati dal profesor Luigi Manzoni, insegnante e poi preside alla Scuola Enologica, tra la metà degli
anni ’20 e la fine degli anni ’30.
Tra quelli che hanno avuto finora maggior successo ricordiamo un vitigno a bacca
nera, l’Incrocio Manzoni 2-15 nato da una combinazione sbagliata tra Prosecco e
Cabernet sauvignon. Uno a bacca rosata, l’1-50, chiamato anche Manzoni rosa, delicatamente aromatico per l’apporto del genitore Traminer da cui proveniva il polline
fecondante il Trebbiano. Un altro a bacca nera, il 13.0.25, o meglio il Manzoni moscato, dove la madre è il ruvido raboso Piave e il padre, quell’uva da tavola che è il Moscato
Amburgo; ne nasce un vino aromatico, che se spumantizzato racchiude in sé tutta la
sua giovane modernità. Infine il re: 6.0.13, o Manzoni bianco, in cui si combinano al
meglio le pregevoli caratteristiche dei suoi genitori: Riesling renano e Pinot bianco.
T
he existence of vines in the lands around the Piave dates back thousands of
years, ancient traces which the whimsical river has cancelled forever in her
ever-changing downstream course.
The origins of today’s viticulture, far flung and legendary, would seem to date back
to the Eneti, a people from Paphlagonia, where vines and wines abounded.
They arrived in Veneto led by Antenor, the epic founder of Padua, and in the company of Aeneas, defeated in the Trojan war from which they fled in search of hospitable
lands. And this is where the myth ends.
The Roman Empire, the Middle Ages, the Most Serene Republic of Venice: century
after century the vineyards of the Piave gradually gained strength and acclaim for
the quality wine they produced.
The 1800s were essential to the evolution and success of the vines in the Piave area,
witnessing the establishment of the School of Agriculture followed by the Wine School,
which would together act as an international beacon in viticulture and wine-making.
Cultivation methods changed over the years, from alberata or tree-trained vines, to
rows (with branches stretching from one tree to another), to the bellussera system
(branches and shoots are trained along by cordons tied to the trees of the nearest row
in a ray or spoke formation).
Traditional vineyards were destroyed by diseases and pests from overseas, which
were then fought by creating new, hybrid varieties, more resistant vines and of superior quality.
New vineyards were cultivated on the lands of the river Piave, where Raboso Piave,
Merlot, Cabernet franc, Pinot grigio, Chardonnay, Prosecco, Tocai, Verduzzo and
Manzoni vines prevail.
Until fifty years ago, vine growing was combined with thriving silkworm farms,
nourished with the leaves of the mulberry trees that supported the vines.
Vines and wines are the very heart and soul of the Piave people: they mean life, tradition, customs, habits.
The grape-picking season is a family and community festival, and the first wine to
gush from the barrel is celebrated with cheer. Many social, folk, town and community events and occasions are organised as a tribute to the product which has always
been the lifeblood of the lands around the Piave - Italy’s sacred river.
“Libiamo, libiamo ne’ lieti calici”
Angelo Squizzato
Il viaggio lungo mezzo secolo di storia della Cantina Sociale di Ormelle si conclude
il 20 giugno 2009, quando si celebrano i cinquant’anni di attività. Festa, nostalgia in
chi ha macinato tante stagioni, tanta voglia di scommettere sul futuro in chi è più
giovane e sente che c’è una bella partita da giocare.
Cinquant’anni di storia bene vissuti e bene portati sono una base solida e importante
sulla quale posare il piede per continuare in maniera positiva e costruttiva il viaggio.
È bello rievocare non tanto per spirito passatista o per attardarsi su paesaggi conosciuti, trovando in essi motivi di rassicurazione e di compiacenza, quanto per scrutare orizzonti nuovi e cogliere nuove opportunità, raggiungere inediti successi.
I tempi non sono felici: si è nel cuore di una crisi economica e sociale che pare lunga
e dagli esiti preoccupanti, ma i tempi sono sempre stati duri e carichi di incognite.
Da sempre mette in conto i biblici sette anni di vacche magre chi lavora la terra, pota
le viti, raccoglie uva, fa maturare il vino in cantina. È consapevole che la vita è un
avvicendarsi di stagioni favorevoli e avverse, di tempo buono e di tempo cattivo, di
sole e di pioggia. Di tempesta anche.
Nelle Rogazioni, lo storico rito che si compiva in primavera, pregando per le strade
di campagna e sostando in crocicchi o dove sorgeva un capitello, con la rugiada che
bagnava i piedi spesso scalzi, perché anche lo zoccolo era ricchezza da risparmiare,
la preghiera che più si gridava al buon Dio era “Dalla folgore e dalla tempesta liberaci o Signore”.
La saggezza contadina di sempre è rassicurante; non invita alla disperazione, ma infonde fiducia e fa coltivare la certezza che arriveranno i biblici sette anni di vacche grasse.
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LIBIAMO, LIBIAMO NE’ LIETI CALICI
Sono cambiati i tempi, ma cuore,
vicende, passione, emozioni, suggestioni dell’uomo si ripetono.
Cambia la superficie, ma la sostanza è la stessa.
Cose impossibili ieri, sono realtà
oggi e saranno un’altra cosa domani. Il viaggio è bello anche
perché ci sono gli imprevisti: è
importante avere bussola e risorse per orientarsi e procedere.
La Cantina Sociale di Ormelle
parte il 28 agosto del 1958 come
una sfida all’esistente che si vuole a tutti i costi vincere. Sono bene presenti difficoltà e insidie.
Ci si rende conto però che non
c’è storia per chi sta fermo. Non
c’è orizzonte quindi per un vigneto il cui frutto non trova sbocco sul mercato o è
mortificato da speculazioni di mercanti. Occorre darglielo.
Il vino del Piave è sì di valore, ma non è che “negro” o “bianco”, perlopiù generico,
anonimo, scarsamente valutato.
Bisogna dunque mettere insieme mezzi e risorse, si deve qualificare il vino e piazzarlo a prezzo che ripaghi il sudore di chi lo produce.
La sfida è sostanzialmente giocata bene. Si attraversano cinquant’anni in un crescendo di attività e di affermazioni, al di là di episodi di stanchezza e di tensione. Vincono
intelligenza, concretezza operativa, costanza, lungimiranza, intelligenza.
Chi guarda in avanti per costruire qualcosa di meglio e di più avanzato vince posizioni su chi si sente appagato e tende a chiudersi dentro recinti di sicurezze apparentemente solide. È lui che lascia traccia.
Uomini, luoghi, eventi si susseguono e si raccontano. Ci regalano la prospettiva di
un tempo trascorso ma anche da venire.
ORMELLE. VINO, SOCIETÀ, TERRITORIO
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Ci portano da una società sostanzialmente agricola tradizionale a una realtà fortemente innovativa.
Ci narrano come si sia evoluto il paesaggio delle terre del Piave. Come siano cresciuti uomini, vigneti e vino. Come sia stato dato l’addio a viti maritate a oppi, morèr,
alberi da frutta, a gelsi, i re della campagna veneta, oggi archiviati con i bachi da seta.
Come si sia raffinato il gusto del bere e quindi come sia cambiata la civiltà della vite
e del vino a Ormelle e dintorni.
Uomini, luoghi ed eventi, nel loro avvicendarsi, confermano l’essenzialità di mettersi insieme, di essere solidali e coesi. Esaltano il ruolo della Cantina Sociale in un’area
dove il vigneto è molto frazionato: come potrebbe oggi il piccolo vignaiolo vinificare e commercializzare il proprio vino?
Ne spiegano l’affermazione e la qualità operativa, confermata dai numeri che vengono messi in vetrina nel giorno dei cinquant’anni.
Dai sette soci fondatori si arriva ai 582 di oggi; i conferenti attuali però sono 400 e
possiedono, media pro capite, poco più di 2 ettari a testa di vigneto.
Nei primi anni si lavorano poche decine di quintali di uve, la media degli ultimi anni
si avvicina ai 200 mila quintali. Provengono da 900 ettari di terreno dei comuni di
Ormelle, San Polo, Cimadolmo, Vazzola, Oderzo, Ponte di Piave, Fontanelle, Maserada, Mareno di Piave.
Il fatturato medio degli ultimi anni supera i 12 milioni di euro.
Due le sedi: la principale a Ormelle e il Centro di vinificazione di Negrisia.
Dunque è una realtà attiva, in piena espansione, con progetti di ulteriore crescita nel
segno della qualità.
La festa del 20 giugno è la celebrazione di tanto successo, è un omaggio prima di
tutto agli uomini che lo hanno reso possibile. Che hanno lavorato con generosità,
con passione, con amore per la propria terra, con spirito solidale.
Ad essi vanno innalzati i calici. Va dedicato il festoso brindisi verdiano: Libiamo, libiamo ne’ lieti calci che la bellezza infiora.
Finito di stampare
da Grafiche Antiga
Crocetta del Montello (Treviso)
maggio 2009
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