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I CAMBIAMENTI DEL LAVORO: PERCHÉ OCCORRE UN
Assistenza Sociale n. 1-2 gennaio-giugno 2003
I CAMBIAMENTI DEL LAVORO:
PERCHÉ OCCORRE UN NUOVO WELFARE STATE
Paolo Barbieri, Enzo Mingione
Motorcars are travelling faster than they otherwise
would because they are provided with brakes
Joseph A. Schumpeter
1. Futuro del lavoro: una trasformazione storica epocale?
Le trasformazioni attuali sbilanciano gli equilibri che si sono sviluppati durante la lunga fase (durata più di due secoli, dalla seconda
metà del XVIII secolo fino ai trent’anni gloriosi del secondo dopoguerra) dell’espansione delle industrie manifatturiere. Questi equilibri
si sono basati tutti su una radicale trasformazione del modo di lavorare e del rapporto tra lavoro e società, cioè sulla diffusione del carattere astratto del lavoro, in cui si andavano perdendo i legami di senso
tra lavoratori, modalità di organizzare il lavoro e prodotto del lavoro
stesso. L’avvento del lavoro astratto è un passaggio sconvolgente sia
dal punto di vista sociale e culturale sia dal punto di vista psicologico.
Da un lato, i nuovi modi di lavorare comportano subordinazione alle
logiche dell’organizzazione delle imprese e scarso controllo della professionalità da parte del singolo lavoratore, ma, dall’altro lato, finiscono per emergere delle forme di compensazione in termini di garanzie di stabilità e protezione (sviluppo del diritto del lavoro e del
welfare). Inoltre la perdita di controllo sul prodotto e sul processo lavorativo è sostituita dal conferimento al lavoratore-massa (astratto e
universale) di una identità sociale e da un forte legame di interessi
comuni con tutti coloro che sono nella stessa posizione lavorativa,
tutti privati allo stesso modo del controllo sul rapporto specifico con
merci e procedimenti produttivi particolari per essere tutti coinvolti
in un unico standard/parametro di relazione di lavoro: il lavoro subordinato a tempo pieno e a durata indeterminata. È quello che il sociologo francese Robert Castel (1995) chiama «regime salariato».
Il processo attuale di destabilizzazione dei regimi sociali (e non solo lavorativi) è analogo a quello avvenuto con l’industrializzazione
(Gorz, 1992) quando la diffusione delle fabbriche ha sottratto al lavoratore il rapporto diretto (emozionale e particolare) con il contenuto e il prodotto della propria attività conferendogli in cambio una identità sociale. Ma, anche se non si tratta di un ritorno al passato,
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Europa. I cambiamenti del lavoro: perché occorre un nuovo welfare state
l’attuale processo di destabilizzazione ha caratteristiche opposte rispetto alla trasformazione industriale, perché i nuovi lavori sfuggono
alla disciplina aziendale e, soprattutto quando sono fatti da lavoratori
con elevate qualificazioni professionali, comportano alti livelli di controllo della propria professionalità, del proprio tempo di lavoro e, in
alcuni casi, anche del prodotto del proprio lavoro. I consulenti informatici, i telelavoratori o i venditori e i produttori con contratti di
franchising hanno «riconquistato» il controllo diretto sulle proprie modalità di lavorare a spese di un maggior rischio (Barbieri, 1999), di
minori garanzie di stabilità economica e di una identità sociale più
fragile (è in questo senso che Sennett parla di Corrosion of Character,
tradotto in italiano con il titolo infelice di L’uomo flessibile).
Una delle sfide interpretative degli attuali mutamenti del lavoro è
data dalla forte variabilità «locale». Come ha ricordato recentemente
Dahrendorf, «le reazioni alla globalizzazione saranno diverse a dispetto del fatto che il mercato globale richieda a tutti le stesse qualità
positive» (1995). Di qui l’errore di chi insiste troppo su modalità di
efficienza e di competitività «oggettive» e la debolezza del ricorso acritico ai modelli di successo: quello che può essere una buona soluzione e funzionare in un caso può non essere praticabile o avere risvolti negativi in un altro caso. Scienziati sociali e storici, d’altra parte, hanno ampiamente messo in luce come anche la trasformazione
industriale è stata assai variata e non ha seguito affatto il modello inglese «classico» dei passaggi dal commercio dei manufatti dei contadini a domicilio alle cottage industries, alle fabbriche con qualifiche artigianali fino alle grandi fabbriche con operai comuni alle macchine e
la quasi completa sparizione di contadini, artigiani e piccoli produttori. Tanto per fare un esempio significativo sul piano culturale, intense
relazioni tra i nuovi operai industriali e le famiglie rimaste in campagna o le esperienze degli «operai-contadini» hanno influenzato fino a
tempi recenti i modelli di sviluppo industriale dei paesi dell’Europa
continentale e del Giappone. Si può ricordare anche l’esempio del taylorismo, che ha funzionato bene soltanto in alcune grandi fabbriche
americane per disciplinare immigrati provenienti da differenti culture
europee, ma non è stata una modalità organizzativa praticabile dovunque e comunque. Il che finisce per sfatare l’idea che esista una
modalità organizzativa «scientifica» e universale, pur senza invalidare
la potenza dell’immagine della catena di montaggio e della parcellizzazione del lavoro come simbolo delle modalità di lavorare nel-l’era
dell’espansione manifatturiera. È però probabile che una delle componenti dominanti delle attuali forme di trasformazione sia il declino
delle forme di standardizzazione organizzativa, sia al livello degli individui, con l’entrata in crisi dell’omogeneità dei modelli familiari nu10
Paolo Barbieri, Enzo Mingione
cleari o dei corsi di vita impostati su traiettorie univoche «scuolalavoro-famiglia-figli-pensionamento», sia al livello degli Stati nazionali, sempre meno in grado di garantire l’efficacia e la legittimità del
controllo economico, politico e sociale in un mondo globalizzato.
Anche se non è scontato che si tratti di una svolta epocale, è innegabile la discontinuità dei cambiamenti dell’ultimo trentennio rispetto
al processo che ha progressivamente consolidato, in modalità nazionali diverse ma tutte rispettose dello stesso copione, la centralità e la
standardizzazione delle carriere lavorative dei maschi adulti (e una rigida divisione del lavoro tra uomini e donne, con queste ultime confinate nelle responsabilità domestiche di cura), il contratto di lavoro a
tempo indeterminato, il diritto del lavoro, l’organizzazione gerarchica
delle imprese, il sindacato e le associazioni professionali come rappresentanti di interessi omogenei e diffusi, la compatibilità economica degli investimenti, pubblici o privati, nel welfare.
Gli interrogativi teorici nascono quindi proprio dal fatto che i cambiamenti attuali nel mondo del lavoro stanno lentamente erodendo, in
modalità varie e perciò più difficili da interpretare, gli equilibri consolidati, con conseguenze serie su tutti gli aspetti della vita sociale.
2. Gli attori collettivi: le imprese, il lavoro, le donne
In questo processo durato decenni e tuttora in corso, che ruolo
hanno avuto gli attori collettivi? Abbiamo identificato tre soggetti
collettivi: le imprese e i loro percorsi di adattamento industriale all’apertura dei mercati globali; il lavoro normato e organizzato; e le
donne, terzo attore a lungo escluso e oggi tornate prepotentemente
in gioco come uno dei principali fattori di trasformazione sociale e di
ridiscussione dei meccanismi di gestione (tradizionali: la famiglia) dei
rischi sociali.
Vediamo che ne è stato di loro.
2.1 Le imprese
L’era industriale coincide con il consolidamento di un tipo di azienda (prevalentemente manifatturiera, ma il modello organizzativo
«ford-taylorista» si applicava anche alle grandi organizzazioni burocratiche) orientata alle economie di scala, con una organizzazione centralizzata e burocratizzata. A questo tipo di azienda e di organizzazione
della produzione corrispondono i contratti di lavoro dipendente a
tempo indeterminato basati su una completa subordinazione (che
consente l’esercizio del controllo diretto da parte degli apparati buro11
Europa. I cambiamenti del lavoro: perché occorre un nuovo welfare state
cratici) e una lealtà dei lavoratori compensata da garanzie di stabilità
occupazionale e di sicurezza sociale. Le nuove aziende vertically disintegrated, a rete, con alte dosi di interazione informatica, riflettono forme organizzative e di controllo completamente diverse. Utilizzano
telelavoratori, consulenti, imprese di subappalto, collaboratori esterni, e questo può significare più produttività con costi più bassi, ma
modifica anche il sistema di controllo dei lavoratori e quindi la natura
stessa dell’azienda.
Infine, non va dimenticato come i processi di terziarizzazione economica innalzando i tassi di nati-mortalità e riducendo le dimensioni aziendali compromettano notevolmente, rispetto al passato, la
figura dell’impresa come «centro» e principio di organizzazione non
solo del lavoro (e dei tempi di lavoro) ma anche della vita (e dei tempi/cicli di vita) individuali. Se la grande impresa fordista scambiava
subordinazione alla disciplina d’azienda con un sistema di diritti politici e sociali (diretti o indiretti che fossero) garantiti «a vita» o per lo
meno per tutta la carriera lavorativa degli addetti, ciò poteva accadere
perché nella fase dell’espansione manifatturiera fordista, le imprese si
muovevano all’interno di in un ambiente stabile, sicuro, prevedibile
se non direttamente influenzabile. Non era raro, infatti, che le stesse
(grandi) imprese fossero in grado di creare da se stesse la domanda di
cui avevano bisogno. Senza scomodare Say, basta ricordare il circuito
virtuoso dello sviluppo basato su produzioni di massa di beni altrettanto di massa, acquistati dagli stessi lavoratori-massa che contribuivano a produrli. Il tutto all’interno di un ordine macroeconomico altrettanto stabile e saldamente controllato dai grandi equilibri di potere politico-economico.
Tale stabilità e prevedibilità macroeconomica costituisce ormai largamente un ricordo del passato. Le nuove imprese «flessibili» e ridotte, «a rete» o virtuali, sono esse stesse in balia di mercati e movimenti
economici – o peggio: aspettative economiche – fluttuanti se non totalmente speculative, che le lasciano spesso appese al filo sottile di
andamenti macro che non controllano affatto. Microimprese dei servizi soggette ad un’elevatissima nati-mortalità, piccole e piccolissime
imprese operanti in mercati aperti, non protetti perché globalizzati,
come possono ragionevolmente essere chiamate ad assicurare – per
non dire ad estendere – i diritti sociali propri del modello fordista? In
tali condizioni, le imprese inevitabilmente perdono la possibilità di
«essere responsabili» per la tutela dei diritti sociali dei lavoratori, con
conseguenze che – nel medio-lungo termine – saranno inevitabilmente più gravi nei sistemi di protezione sociale impostati sul principio assicurativo-contributivo, cioè nei sistemi di welfare lavoristici,
come quello italiano.
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Paolo Barbieri, Enzo Mingione
2.2 Il lavoro normato e organizzato
Per quanto concerne il lavoro, questo ha conosciuto un progressivo processo di organizzazione collettiva e di normazione legislativa,
che ne hanno favorito e promosso la progressiva autonomizzazione
dal potere unilaterale dell’impresa. Sindacati e diritto del lavoro costituiscono due aspetti di un complessivo allargamento dei diritti politici, per citare T.H. Marshall, che indubitabilmente ha rappresentato
un elemento di progresso civile.
L’autonomia giuridica del diritto del lavoro è fondata sul consolidamento e sulla diffusione del contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e sulla necessità di compensare il lavoratore, in
quanto soggetto giuridico più debole, con garanzie di stabilità e sicurezza rispetto alla perdita completa di controllo della sua professionalità e del suo modo di lavorare a favore della subordinazione alla
disciplina organizzativa d’impresa. Questo trade off è stato particolarmente forte nei paesi dell’Europa continentale e meridionale dove
non si è sviluppato un sistema di welfare universalistico di tipo scandinavo (che fornisce a tutti i cittadini alcune delle contropartite che
altrove sono concesse ai soli lavoratori dipendenti e alle loro famiglie) ma dove altresì il modello di relazioni industriali sviluppatosi ha
saputo evitare che le garanzie giuridiche e sociali venissero lasciate ad
una diffusa varietà di contrattazioni aziendali specifiche, come invece
è accaduto nei paesi anglosassoni. È quindi in questi casi (tra cui
l’Italia, ovviamente), più che altrove, che la flessibilizzazione e la crescente eterogeneità delle forme di lavoro dipendente investono i sindacati e la disciplina del diritto del lavoro fino a metterne in discussione l’autonomia. Sia il caso dell’Olanda (che si è decisamente spostata su una configurazione più scandinava che consente una grande
eterogeneità di esperienze lavorative, accompagnandole con integrazioni e servizi di welfare) sia le conclusioni del rapporto Supiot 1, steso
da un gruppo di esperti dell’Unione Europea che ha lavorato sul futuro del lavoro e le trasformazioni del diritto del lavoro, a favore dei
droits de tirage sociaux (diritti di prelievo sociale), vanno in direzione di
un progressivo smantellamento della tradizionale uniformità regolativa dei rapporti di lavoro (propria dei sistemi a contrattazione collettiva nazionale e dello stesso diritto del lavoro) compensato da un sistema di diritti sociali offerti, seppure in modalità variabili e condizionate ai tipi diversi di impegno sociale e/o lavorativo, a tutti i cit1 Alain Supiot (a cura di), Au-delà de l’emploi: transformation du travail et devenir du droit
du travail en Europe, 1999, edizione italiana a cura di Paolo Barbieri e Enzo Mingione,
Carocci, Roma, 2003.
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Europa. I cambiamenti del lavoro: perché occorre un nuovo welfare state
tadini 2.
2.3 Le donne
I regimi occupazionali fordisti hanno sempre ruotato attorno ad
un’accentuata divisione di genere del lavoro. Anche se con notevoli
variazioni di contesto, dipendenti principalmente dai regimi di welfare
sopra-ordinati ai modelli occupazionali, il maschio adulto ha «normalmente» rappresentato il breadwinner, colui che ha le responsabilità
preminenti nel guadagnare il reddito per mantenere la famiglia (di qui
redditi più alti e forte stabilità occupazionale) mentre la donna sposata ha un forte carico di responsabilità domestiche e di cura, anche se
o quando è occupata. Questo forte squilibrio si è combinato con
un’accentuata standardizzazione dei corsi di vita individuali (età dei
coniugi, età al matrimonio, numero dei figli, organizzazione del consumo, e così via) e del modello di famiglia nucleare fondata su unioni
stabili.
L’influenza dei modelli di welfare sulle chances delle donne di partecipare attivamente alla vita produttiva, oltre che a quella sociale, è
stata da tempo sottolineata dalla letteratura (Esping-Andersen, 1990).
È un dato che i modelli di welfare che realizzano i maggiori tassi di attività e di occupazione femminile siano quello universalistico, proprio dei paesi dell’area scandinava, e quello residualista anglosassone 3. In un caso, l’occupazione femminile si realizza nei servizi pubblici di welfare (anche grazie ad una non trascurabile diffusione del
part-time) nell’altro, la domanda di servizi (privati) funziona da volano per un’occupazione nelle attività di servizi alla persona e al consumo che è creata dal mercato (a costi – leggi salari – estremamente
compressi).
Diversa la situazione nei modelli di welfare continentali e mediterranei, dove le attività di cura e di servizi sono «endogenizzate» nella
famiglia, con conseguente esclusione delle donne dal mercato del lavoro retribuito (Esping-Andersen, 1985; Mingione, 1997). Solo apparentemente, dunque, costituisce un paradosso il fatto che il modello
In realtà, il «modello» proposto dal rapporto Supiot rifiuta esplicitamente di abbandonare la classica logica lavoristico-contributiva del modello di welfare assicurativo
(e del diritto del lavoro) nel quale l’accesso ai diritti sociali è subordinato al possesso di
una condizione occupazionale. La crisi di tale modello viene quindi gestita «allargando» il campo di ciò che viene considerato «condizione lavorativa» dei soggetti, a ricomprendere attività di studio/formazione, lavori sociali, di cura, attività socialmente
utili e periodi di disoccupazione fra episodi di lavori «atipici».
3 I valori di tali tassi di attività femminili, oggi, si aggirano attorno all’80%, contro
valori che variano fra il 45-55% per i paesi dell’area centro-meridionale europea.
2
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Paolo Barbieri, Enzo Mingione
di welfare che ha maggiori capacità di demercificazione degli individui
sia anche quello che maggiormente «mercifica» (in specie le donne)
attraverso la forma del lavoro retribuito. La partecipazione femminile
al mercato del lavoro, infatti, se da un lato comporta mercificazione
del lavoro delle donne, dall’altro ne favorisce l’emancipazione e l’indipendenza dai modelli e dagli schemi (anche culturali) di divisione
sessuale del lavoro tradizionali. Si tratta di un elemento da non sottovalutare nella descrizione e nell’analisi dei mutamenti socioeconomici avvenuti dal dopoguerra ad oggi, in particolare nei paesi dell’Europa centro-meridionale, dove il modello di regolazione sociale si è
fondato sull’esclusione femminile da una compiuta forma di partecipazione sociale, cioè realizzata anche attraverso la piena libertà di partecipare al lavoro retribuito per il mercato 4.
Il superamento della fase di regolazione sociale «fordista» ha coinvolto comunque tutti i paesi occidentali avanzati, indipendentemente
dalla loro appartenenza ad un determinato sistema o regime di welfare. La crescita dei livelli di istruzione delle giovani, il conseguente
aumento dell’occupazione femminile e il combinarsi di tale maggiore
partecipazione al mercato del lavoro con una crescente autonomia
civile e sociale delle donne ed una maggiore instabilità familiare ha
attraversato, destabilizzandoli, tutti i regimi sociali fordisti, compresi
quindi anche quelli in cui (ma non è il caso dell’Italia!) il processo di
mutamento è stato accompagnato dall’aumento dei servizi, pubblici e
privati, di welfare. È importante notare come, in una certa misura, tale
nuova modalità di partecipazione delle donne alla costruzione sociale
dei modelli e delle soluzioni specifiche di vita collettiva abbia rappresentato probabilmente il più rilevante processo di trasformazione dei rapporti sociali avvenuto nei paesi occidentali avanzati, la cui portata è stata
tale da «attraversare» persino le grandi divisioni macro-istituzionali.
Nei paesi europei centro-meridionali (e in particolare per l’Italia
dagli anni ’70-80), le chances di individualizzazione e di indipendenza
delle (giovani coorti di) donne sono diventate più effettive con il crescere di una partecipazione al mercato del lavoro che si è molto spesso realizzata attraverso i «nuovi lavori atipici» o comunque privi delle
robuste protezioni tipiche delle occupazioni degli «insiders fordisti» 5.
Si tratta di un elemento che merita di essere considerato attentamente, in quanto troppo spesso la letteratura che analizza la transizione al
4 Il mercato, infatti, ha in sé una potentissima carica «libertaria» e di emancipazione
da qualunque «legame». Di solito, i sociologi sottolineano gli aspetti distruttivi della
coesione sociale derivanti da tale principio di (non) regolazione, ma ovviamente non si
possono scordare gli effetti «liberatori» e di mutamento sociale.
5 Ricordiamo come i tassi di attività femminili delle regioni «forti» del Nord Italia
siano oggi sostanzialmente simili a quelli centro-europei.
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Europa. I cambiamenti del lavoro: perché occorre un nuovo welfare state
«post-fordismo» pecca di un (fastidioso) «rimpianto» per la stabilità,
la sicurezza, la prevedibilità del «vecchio» modello di regolazione sociale 6. I nuovi lavori, infatti, come ci mostrano le ricerche più recenti
(Barbieri e al., 1999, Istat, 2000; Schizzerotto, 2002; Barbieri, 2003),
sono in larga parte appannaggio di coloro che – almeno sino alla fine
degli anni ’80 in Italia – erano gli esclusi dal mercato del lavoro: i
giovani e le donne. Sono questi i soggetti che oggi stanno faticosamente entrando nel mercato del lavoro, anche se «dalla porta di servizio». Si tratta di una porta che è ancora stretta – e che probabilmente non va nemmeno «spalancata spensieratamente», pena il non
essere più in grado di controllare i rischi sociali connessi – ma che sarebbe antistorico, oggi, cercare di richiudere.
Il problema, semmai, è quello di trovare nuovi e più appropriati sistemi di gestione dei (vecchi e nuovi) rischi sociali in questa società
incerta, instabile e insicura, che in mancanza di termini migliori continuiamo a definire «post-fordista».
3. Le posizioni in campo
Il dibattito sulle trasformazioni della «società del lavoro» – e soprattutto sul conseguente «che fare?» – appare oggi (specie nel nostro
paese) intrappolato tra due posizioni contrapposte, entrambe deboli
di fronte a critiche attente e ben documentate, ma entrambe potenti
politicamente come rappresentazioni di interessi diversi. Si tratta, da
un lato, dell’idea neoliberista che per promuovere crescita economica, sviluppo e competitività si debba accompagnare la trasformazione
del lavoro con forme radicali di deregolazione che eliminino le garanzie e il controllo pubblico conquistate nei trent’anni dell’espansione manifatturiera post-bellica attorno agli standard – per condizioni contrattuali e di accesso ai diritti di welfare – del lavoro dipendente a tempo indeterminato proprio delle medie e grandi organizzazioni economiche. Dal lato opposto, si pensa invece che l’unico modo per affrontare le trasformazioni del lavoro senza produrre una
devastante crisi sociale – che sarebbe determinata dalla diffusione
della precarietà e instabilità delle nuove occupazioni «atipiche», le
quali non garantiscono lo stesso pieno accesso alla cittadinanza sociale garantito dal «lavoro standard» – sia quello di rafforzare ed estendere
le forme di regolazione sociale maturate nell’era fordista, e gli annessi
diritti sociali dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, a tutte
6 È il caso, ad esempio, degli economisti che appartengono o si rifanno alla cosiddetta scuola della «Regolazione» francese, e ai loro epigoni nostrani.
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Paolo Barbieri, Enzo Mingione
le nuove occupazioni «post-fordiste».
Ad una logica «riduzionista» si oppone quindi una – speculare e
opposta – logica «estensiva» che, al pari della prima, però, sembra
non fare i conti né con le mutate condizioni di stabilità complessiva
del sistema (quindi stabilità delle condizioni macroeconomiche, stabilità delle condizioni produttive, di organizzazione della vita sociale)
né con la ridefinizione dei rischi sociali rispetto alla società fordista.
Se la prospettiva «estensiva» delle garanzie fordiste si scontra con
le granitiche limitazioni poste dalle compatibilità macroeconomiche e
dai vincoli di bilancio esistenti, la prospettiva neo-liberista, sempre
presente in posizioni che richiamano la priorità del mercato come
principio di allocazione delle risorse e di gestione dei rischi sociali, ha
goduto per lungo tempo di un vasto credito e di un ancor più ampio
palcoscenico. Essa, in breve, ripropone in versioni aggiornate un’argomentazione per la quale – semplificando un po’ – il mercato stesso, lasciato libero di agire, sarebbe in grado di far crescere le opportunità di lavoro, ovviamente anche quelle più «labour intensive» o comunque meno compatibili con le modalità specifiche di inserimento
socio-culturale e di vita familiare. Proprio questa crescita continua
dovrebbe produrre le condizioni (economiche e di mercato del lavoro, cioè di domanda di servizi e quindi di creazione di occasioni di
lavoro) per la gestione – privatistica – dei rischi sociali 7.
Questa assunzione è stata fatta propria dalle maggiori istituzioni
macroeconomiche internazionali per almeno gli ultimi due decenni, e
ciò nonostante il ricco dibattito teorico contemporaneo, largamente
ispirato al contributo di Karl Polanyi, abbia avanzato critiche all’idea
che possa effettivamente darsi un’autoregolazione del mercato del lavoro (il quale per di più dovrebbe essere anche in grado di gestire i
vecchi e nuovi rischi sociali) come invece ritengono i sostenitori del
market clearing.
A questo proposito, ci concediamo il vezzo di ricordare l’ormai
antica e dimenticata polemica tra Marx e gli economisti neo-classici, i
padri del pensiero neo-liberale, sulla vicenda del «fondo salariale fisso», cioè quel minimo salariale che avrebbe «alleggerito» la competizione sul mercato del lavoro tra i lavoratori dei comparti sviluppati e
l’offerta lavorativa esterna sovrabbondante. Marx era propenso a ritenere che lo sviluppo incontrollato del capitalismo avrebbe prodotto
contestualmente una crescita dell’offerta di lavoro (in seguito alla pe7 In effetti, i rischi sociali e la loro «gestione» nelle società liberiste non rappresentano quasi mai una preoccupazione dal punto di vista politico-sociale: al più, come ricordava anche Robert Freeman, sono un problema di polizia. Si veda anche Western e
Beckett, 1999.
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Europa. I cambiamenti del lavoro: perché occorre un nuovo welfare state
netrazione dell’organizzazione capitalistica della produzione anche
nei settori meno produttivi) e una tendenziale contrazione della domanda (soprattutto per la diffusione di tecnologie e di modalità organizzative labour saving). Tale situazione avrebbe finito per impoverire le condizioni di vita dei lavoratori con la conseguenza che il capitalismo sarebbe quindi stato di fatto travolto dal proprio stesso esasperato trionfo. Per Marx l’idea di una regolazione dei minimi salariali era intrinsecamente incompatibile con la logica del sistema capitalistico. Ironicamente, si potrebbe dire che i padri del liberismo economico si affidavano invece alla previsione che società e politica avrebbero costruito regolazioni abbastanza solide da proteggere lo sviluppo del sistema capitalistico «da se stesso», cioè dall’agire di una
competizione a tutto campo sul mercato del lavoro. Tale sistema di
regolazione, fatto di «vincoli benefici» alla competizione, si è poi effettivamente realizzato, nei paesi europei, anche se non certo per merito dei teorici neoliberisti.
La storia ha dato quindi ragione ai primi sostenitori del «fondo salariale fisso» rivelando però come tale azione regolativa ed equilibrativa non sia mai posta in essere dal mercato stesso, ma piuttosto dalle
istituzioni politiche e sociali, le uniche in grado di creare una regolazione protettiva delle condizioni di crescita economica e sviluppo. Le
prospettive di successo e di crescita economica infatti non sono date
da pure opportunità di competizione (dall’esistenza di un’offerta di
lavoro «usa e getta» o da una compressione esasperata dei salari) ma,
al contrario, dalla capacità di coniugare con appropriate forme regolative un buon rendimento lavorativo (in termini di qualificazione e
professionalità della forza lavoro, dedizione, spirito di collaborazione, e così via) con un livello sufficiente di inserimento nel sistema di
cittadinanza sociale (in termini di diritti sociali e di welfare, partecipazione, accettazione da parte degli altri membri della comunità di vita,
e così via). Questa combinazione è ovviamente diversa in differenti
contesti storici e culturali e quindi cambiano sia le opportunità lavorative praticabili sia le modalità di regolazione. In questo senso il dibattito sulle varietà dei capitalismi e in particolare i modelli del «capitalismo renano» (per la Germania) o delle piccole e medie imprese a
specializzazione flessibile (nelle aree distrettuali italiane) hanno ampiamente mostrato come gli obiettivi di competitività delle imprese
siano sostenuti da condizioni normative, salariali e di regolazione del
lavoro avanzate. I «vincoli benefici» rappresentati dall’azione di un
avanzato sistema di relazioni industriali costituiscono impulsi positivi
per lo sviluppo tecnologico e produttivo delle imprese che si orientano così verso modelli innovativi di «produzioni diversificate di qualità» invece che su produzioni labour-intensive a bassa qualità del prodot18
Paolo Barbieri, Enzo Mingione
to.
3.1 Persistenza, innovazione e welfare
Sin qui, abbiamo ricapitolato «lo stato dell’arte». Una seconda questione, sollevata dalle trasformazioni del lavoro, risulta meno facile
da aggredire in quanto priva di un suo statuto propriamente teorico.
Essa concerne la presenza e la persistenza di aspetti o esternalità positive nel portato del modello sociale che continuiamo ad identificare
col termine di «fordista».
In primo luogo, abbiamo già ricordato che alcune protezioni forti
del lavoro dipendente a tempo indeterminato sono compensazioni
indispensabili della subordinazione e della rinuncia, compiuta dai lavoratori, a controllare e usare sul mercato del lavoro la propria capacità professionale e di mobilitazione collettiva. In questo senso possiamo ora riconoscere che tali «forti protezioni fordiste» proteggono
un bene comune di stabilità sociale ed economica e sono irrinunciabili almeno fino a quando sussistono le condizioni di fondo che le
hanno generate (le quali non è detto che si siano completamente estinte: condizioni fordiste o neo-fordiste sono tuttora presenti o addirittura prevalenti in molte aree del nostro come di altri paesi europei).
In secondo luogo, va ricordato come all’interno di garanzie che
per lo più sono tipiche del lavoro dipendente ve ne sono molte orientate a proteggere le condizioni di vita sociale in generale. Tali «garanzie fordiste» quindi riguardano, potenzialmente o effettivamente, tutti
i cittadini, come la tutela della maternità, la cura dei figli, il diritto alla
salute (non solo in termini di accesso al sistema sanitario ma anche di
reddito durante i periodi di malattia), la tutela della vecchiaia, e così
via.
Rispetto a tale necessità di proteggere le condizioni di vita sociale
in generale tutelando un’ampia quota di popolazione e di gestire rischi sociali omogenei e comuni, è innegabile che i contesti che hanno
sviluppato un welfare universalistico rivelino oggi un «vantaggio competitivo» di adattabilità alle trasformazioni del lavoro rispetto a quelli
ancora caratterizzati da un prevalente welfare lavoristico-assicurativo.
Più in generale si è osservato che un appropriato sistema di garanzie
sociali, fondamentalmente legate al grado di copertura del welfare (ma
anche alla sua capacità di investire in politiche attive del lavoro) può
addirittura essere funzionale alla flessibilizzazione del mercato del lavoro e alla capacità di un sistema produttivo nazionale di adeguarsi ai
mutamenti e agli shock esogeni. In effetti, la considerazione che in
assenza di adeguate garanzie sociali la disponibilità individuale alla
flessibilità viene logicamente meno è stata più volte avanzata dai so19
Europa. I cambiamenti del lavoro: perché occorre un nuovo welfare state
ciologi del lavoro e dell’economia. Allo stesso modo, il trade-off fra
grado di estensione e di universalismo dei sistemi di welfare e il bisogno di fornire un elevato grado di protezione del lavoro dipendente è
stata segnalata da più analisi (Barbieri, 2002). L’osservazione che, in
definitiva, il paese con il mercato del lavoro più flessibile in assoluto in
Europa – sulla base degli standard di protezione del lavoro dipendente
elaborati da Oecd – sia anche quello con il sistema di welfare universalistico più protettivo e demercificante, e con la quota più elevata di investimenti in politiche sociali (attive e passive) nell’area Oecd (si tratta della
Danimarca) rende evidente quanto il nesso welfare-mercato del lavoro costituisca un punto di partenza cruciale per qualunque considerazione sociologica e di political economy centrata sull’evoluzione del lavoro.
Da questo punto di vista, l’arroccamento su una configurazione particolare di protezione, ancorata al rapporto di lavoro «standard» (che non
sta scomparendo anche se sta progressivamente perdendo il carattere di
forma dominante di riferimento) inibisce la capacità innovativa e lascia in
ombra esigenze di garanzia che non coinvolgono più direttamente lo
scambio fra compensazione della subordinazione e assenza del controllo
individuale del lavoratore sulle sue capacità professionali, ma numerose
altre questioni, come ad esempio l’esigenza di dotare i lavoratori di strumenti per aggiornare la propria capacità professionale indipendentemente dai rapporti di lavoro immediati, o la necessità di mantenere a tutti una
dotazione di diritti sociali di cittadinanza anche in periodi o fasi del ciclo
di vita prive di una condizione professionale/lavorativa retribuita.
Proprio in relazione a queste considerazioni e a questi problemi, il
rapporto Supiot ha tentato di far emergere sia la fisionomia complessa e articolata della trasformazione dei modi di lavorare e di regolare
il lavoro nei paesi europei, sia il significato e le esigenze delle prospettive e degli indirizzi regolativi in contesti dove i rapporti occupazionali sono sempre meno omogenei e stabili. Il cambiamento che
emerge dall’analisi comparata europea elaborata dal rapporto Supiot
non è certo quello di una rapida scomparsa di tradizioni regolative
manifatturiere. Il pacchetto: «stabilità occupazionale del maschio adulto + diritti, doveri e risorse micro-redistribuiti attraverso una organizzazione relativamente omogenea di famiglie nucleari + monopolio dello spazio regolativo nazionale» è resistente (soprattutto se
guardiamo ai grandi paesi dell’Europa centro-meridionale) ma va riconosciuto che, su tutti e tre i fronti, si sono aperte brecce che richiedono lo sviluppo di nuove forme di regolazione.
Prima di passare oltre è necessario sollevare ancora una questione
che è particolarmente vistosa nel dibattito italiano. Il circuito vizioso
della contrapposizione tra innovatori e tutori/estensori del pacchetto
di garanzie «fordiste» è esacerbato dal fatto che i primi sostengono
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che le innovazioni non possono partire senza un attacco in profondità al pacchetto difeso dai secondi. L’allarme sociale che questa posizione crea è amplificato dalla consapevolezza che spesso questo significa togliere a qualcuno senza poi effettivamente restituire in termini di innovazione della protezione offerta ai nuovi lavoratori «non
standard» 8. Data la scarsità di risorse finanziarie disponibili, a fronte
di un elevato costo delle riforme richieste, l’esito di un processo di riforma del welfare è, ad oggi, quanto mai incerto, ed è quindi comprensibile – anche se ciò non significa ipso facto giustificabile – che gli attori collettivi tendano a privilegiare la difesa dello status quo. Il problema, però, sta nel fatto che, nel frattempo, le trasformazioni procedono ad una velocità maggiore rispetto alla capacità degli attori di
gestirle, e i conseguenti processi di ridefinizione dei rischi sociali si
avviano verso esiti drammatici.
4. Perché abbiamo bisogno di un nuovo welfare state
Dopo che per oltre un decennio il pensiero economico e politicoeconomico mainstream aveva fatto del nesso «smantellamento dei sistemi di garanzie sociali (welfare state) e deregolamentazione del mercato del lavoro» un tutt’uno inscindibile, giustificato dalla necessità di
ridurre i costi pubblici, eliminare i disincentivi al rientro immediato
nel mondo del lavoro dei disoccupati e rendere più celere il turnover
fra occupati e senza-lavoro, recentemente la stessa letteratura economica ha cominciato a riconsiderare la «necessità» di tale legame (Atkinson, 1999; 2001). Nel nostro paese, diversi autori (Reyneri, Negri) mentre ricordavano come le garanzie sociali apparissero profondamente connesse con la sicurezza del «posto», segnalavano anche gli
inconvenienti di un tale modello di gestione dei rischi sociali, alla luce delle trasformazioni che si avanzavano sul mercato del lavoro. In
effetti, sulla spinta della crisi economica e delle necessità imposte dal
processo di unificazione europea, anche in Italia una serie di provvedimenti deregolazionisti del mercato del lavoro sono stati introdotti.
Oggi è dunque possibile trarre un primo bilancio dell’esperienza
deregolazionista e dei nessi esistenti fra il modello dominante di gestione dei principali rischi sociali (il modello di welfare assicurativo italiano) e il modello di regolazione vigente sul mercato del lavoro. La
deregolazione avvenuta nel nostro paese, infatti, ha seguito abbastan8 Questo problema diviene particolarmente grave alla luce dell’attuale processo di
«regionalizzazione» della gestione di taluni diritti sociali (il termine «assistenza» in questo caso richiama troppo l’idea di welfare residualistico!).
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Europa. I cambiamenti del lavoro: perché occorre un nuovo welfare state
za da vicino le orme dell’esperienza spagnola – la quale ha già dato
una pessima prova di sé (Bentolila, Dolado, 1994) – deregolando le
protezioni del lavoro per i nuovi ingressi, mentre ha lasciato inalterate
le protezioni del lavoro dipendente in vigore per coloro che erano
entrati nel mercato del lavoro nelle decadi precedenti. L’esito di un
tale modello (o meglio: di un tale scambio implicito, come lo definisce Soskice, rifacendosi alla letteratura neo-corporatista) è stato il
mantenimento di un sistema di forti garanzie per parte del lavoro dipendente, a fronte di una segmentazione per coorti anagrafiche del
mercato del lavoro stesso, con i giovani assolutamente penalizzati sia
dalla deregolazione «parziale e selettiva» (Esping-Andersen, Regini,
2000) del mercato del lavoro sia dalla – per altri aspetti necessaria e
meritoria – riforma del sistema pensionistico contestualmente introdotta a partire dai primi anni ’90.
Questo andamento, che abbiamo descritto con particolare riferimento al nostro paese, è comunque diffuso in tutti i principali paesi
dell’Europa centrale e meridionale, costituendo probabilmente la risposta comune che le democrazie di mercato europee appartenenti
alle aree franco-tedesca e mediterranea hanno dato al problema della
flessibilità dei mercati del lavoro 9.
La precarizzazione dei nuovi ingressi nel mercato del lavoro rappresenta oggi un fenomeno sostanzialmente riconosciuto dalla letteratura (Barbieri e al., 1999; Contini e al., 2000; Istat, 2000). A questo
proposito, va ricordato come, in sé, il fatto che sempre più primi impieghi siano «atipici», a termine, di tipo parasubordinato e/o semi-autonomo, non necessariamente costituisca un elemento negativo per
una valutazione dei provvedimenti stessi né per l’evoluzione del mercato del lavoro italiano. Ciò che è invece essenziale, è poter valutare
se e quanto i nuovi lavori «non garantiti» costituiscano delle entry ports
o delle job traps, cioè se coloro che attraverso tali impieghi fanno il loro ingresso nel mercato del lavoro riescano a migliorare in seguito la
loro posizione professionale e contrattuale o se invece restino «intrappolati» in occupazioni «di serie B» (Barbieri, 2002b).
Inoltre, è oggi assolutamente indispensabile poter stabilire se e quanto
il peso delle preesistenti linee di disuguaglianza sociale operanti (disuguaglianze di genere, di istruzione e capitale umano, di origine sociale e territoriale) venga aggravato o meno dalle nuove forme di occupazione non protetta introdotte nel nostro paese (come nel resto
9 Differenti, invece, le soluzioni adottate nel caso dei paesi anglosassoni, in cui si è
sostanzialmente proceduto ad una complessiva deregolazione del mercato del lavoro
erga omnes per così dire, nonché nei paesi dell’area scandinava, dove la protezione nei
confronti dei rischi sociali è tradizionalmente stata considerata come un diritto legato
alla cittadinanza e non allo status lavorativo.
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Paolo Barbieri, Enzo Mingione
d’Europa). È abbastanza evidente infatti il rischio che le nuove disuguaglianze occupazionali fra coorti, originate sul mercato del lavoro
dai provvedimenti deregolativi introdotti, si sommino alle preesistenti disuguaglianze strutturali, rinforzandone i meccanismi attraverso cui queste già oggi operano10. Su questo punto, i risultati di ricerca disponibili sono ancora insoddisfacenti. Mentre taluni autori
sembrano indicare che – per il caso italiano – ci troviamo in presenza
di semplici entry ports (Schizzerotto, 2002) altre fonti fanno apparire
quadri più foschi in linea con quella che è stata l’evoluzione delle occupazioni «a garanzie limitate» sia in Europa che negli stessi Stati Uniti (Istat, 2000; Kalleberg, 2000).
I dati di fonte Istat conosciuti sembrerebbero accreditare le valutazioni più «negative» degli esiti nel medio periodo delle nuove occupazioni non protette: una quantità crescente di lavoratori (e soprattutto
di lavoratrici) a diversi anni di distanza dall’ingresso nel mercato del lavoro resterebbe «intrappolata» in attività a bassa protezione sociale. Il
problema, che riguarda tutti i livelli di istruzione, diviene particolarmente vessatorio se si considerano i loop fra lavori precari e disoccupazione: in questi percorsi ciechi si concentrano soprattutto i meno
istruiti. Il rischio, quindi, di una crescente esclusione sociale dei soggetti più deboli appare oggi reale, specie in considerazione dello specifico modello di welfare «sub-protettivo» (Gallie, Paugam, 2000) che
caratterizza l’Italia (a differenza di quanto accade invece in altri paesi
europei con sistemi di welfare meno escludenti).
La diffusione dei «nuovi lavori» a garanzie ridotte introduce una
questione che attiene al livello di cittadinanza sociale che desideriamo
per il nostro paese. Esiste ed è ormai improcrastinabile la necessità di
fornire un accesso alla cittadinanza sociale a coloro che in tali «nuovi
lavori» spenderanno la propria vita lavorativa, fornendo loro sia un
accesso ai diritti sociali «classici» (pensione) sia una protezione rispetto ai rischi sociali nuovi. Si pensi, ad esempio, all’aumento dei passaggi da un lavoro all’altro, alle nuove esigenze di formazione scolastica e professionale con aggiornamenti continui, alla diffusione di
10 Un portato decisamente «nocivo» della pubblicistica su «post-fordismo», «società
del rischio» ecc. è dato dal fatto che tali approcci sembrano ritenere – pur in assenza
di qualsiasi analisi empirica in grado di suffragarlo – che le «classiche» dimensioni di
disuguaglianza sociale siano in via di superamento o comunque stiano perdendo la loro capacità di segmentazione sociale. Si tratta di una sciocchezza, oltre che di un grossolano errore sociologico. Tutte le analisi serie sull’agire dei meccanismi di disuguaglianza sociale, infatti, dimostrano come le «classiche» dimensioni strutturali della disuguaglianza (genere, istruzione, origine sociale, classe occupazionale, area territoriale,
tanto per ricordarne qualcuna) abbiano mantenuto pressoché inalterato il loro effetto
di stratificazione sociale (Gallie, Paugam, 2000).
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Europa. I cambiamenti del lavoro: perché occorre un nuovo welfare state
lavori troppo poco pagati per consentire di mantenere una famiglia, a
fronte di condizioni di vita mutate (aumento della longevità, instabilità dei matrimoni, diffusione delle famiglie monoparentali con figli minori
a carico, e così via). L’opinione pubblica ha registrato solo due punti critici nel rapporto lavoro-welfare che sono stati politicamente drammatizzati: le pensioni e «l’articolo 18». Ma i fronti dell’adattamento ad un modo
di vivere e di lavorare diverso sono molto più numerosi.
In conclusione, è venuto forse il momento di chiederci se sia ancora compatibile con le trasformazioni economiche e sociali in atto
un modello di welfare «lavoristico-assicurativo» che, per definizione,
richiede lunghe e ininterrotte carriere contributive e che comunque
lascia sulle imprese un onere di responsabilità sociali cui – venuta
meno la stabilità macroeconomica al pari della grande impresa fordista – le imprese oggi non sono forse nemmeno più oggettivamente in
grado di far fronte. È forse utile, infine, ricordare come il nostro paese spenda troppo poco e troppo male 11 per finanziare il suo modello di
protezione sociale, a fronte di una contribuzione che risulta decisamente sbilanciata a sfavore delle imprese e del lavoro dipendente –
rispetto al resto del mondo del lavoro – e di una redistribuzione dei
benefici di welfare altrettanto sbilanciata a favore delle vecchie generazioni, le quali talvolta o più spesso – per la natura corporativa e particolaristica del sistema di protezione sociale – non hanno neppure
contribuito in misura proporzionata ai benefici che oggi traggono12. I
problemi aperti dalle trasformazioni sociali e dall’emergere di nuovi
rischi sociali richiedono nuove soluzioni e nuovi investimenti. Pur richiamando l’importanza di un maggior investimento economico sul sistema di protezione sociale e di un contemporaneo rimodellamento
dello stesso secondo principi più adatti alla gestione delle nuove configurazioni di rischio, si può comunque osservare come la stessa costruzione e allargamento di forme già esistenti di diritti sociali e/o di
«diritti di prelievo sociale» (si pensi ai periodi di aspettativa retribuita
per attività di studio o auto/formazione, ai congedi parentali, ecc.)
rappresenterebbe un primo, reale, passo verso la direzione di un ri11 La quota italiana di spesa in politiche sociali sul Pil è più bassa della stessa media
Eu15 in materia (25,2 versus 27,3 nel 2000). La stessa Uk spende di più per il suo modello di welfare (residualistico). Soprattutto, una quota oscillante fra il 60% e il 70% delle spese sociali (a seconda delle modalità di calcolo e di spese incluse al numeratore:
evitiamo al lettore gli aspetti contabili. Eurostat riporta una quota del 63,4 nel 2000) è
destinata al pagamento delle pensioni di anzianità/reversibilità. Su questi temi si veda
Eurostat 2000, l’ultimo libro di Boeri (2002) e il saggio di Brambilla (2002).
12 Si pensi ai vari «fondi speciali» Inps che, dopo aver accumulato gestioni fallimentari concedendo pensioni letteralmente d’oro ai propri iscritti, hanno riversato sulla
gestione ordinaria Inps – cioè sulla collettività – i loro deficit.
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pensamento delle forme del welfare che estenda anche ai nuovi soggetti
del «nuovo mondo del lavoro» l’accesso alla cittadinanza sociale. Ma è
comunque chiaro per noi che sarà sempre più la collettività nel suo insieme a doversi far carico di un nuovo modello di cittadinanza sociale.
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