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Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze

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Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze
Prospettive in Pediatria
Gennaio-Marzo 2016 • Vol. 46 • N. 181 • Pp. 10-24
Malattie metaboliche ereditarie
Il trattamento delle
malattie metaboliche
ereditarie: speranze,
successi, delusioni
Rossella Parini1
Alessandra Brambilla1
Cinzia Galimberti1
Serena Gasperini1
Attilio Rovelli2
UOS Malattie Metaboliche Rare,
Clinica Pediatrica, Fondazione
MBBM, ASST-Monza, Monza;
2
UOS Trapianto di Midollo,
Clinica Pediatrica, Fondazione
MBBM, ASST-Monza, Monza
1
La comprensione sempre maggiore dei meccanismi fisiopatologici e l’acquisizione di sempre più raffinate tecniche di manipolazione cellulare hanno dato un grande impulso, a
partire dagli anni 2000, allo sviluppo di terapie specifiche per le malattie metaboliche,
anche associabili in terapia combinata, che permettono di aumentare l’attività enzimatica
attraverso diversi meccanismi d’azione o di detossificare o ridurre il substrato accumulato.
Ciò ha portato molte speranze all’interno della comunità scientifica, delle associazioni di
pazienti e della popolazione. Purtroppo ci si è poi resi conto del fatto che più frequentemente le manifestazioni della malattia sono solo attenuate dalla terapia innovativa, che lascia
un’importante componente non risolta di malattia residua, con conseguente riduzione della
qualità di vita del paziente e della famiglia. Vengono prese in considerazione in questo
articolo le terapie attualmente disponibili per le malattie metaboliche (terapia dietetica,
trapianto di cellule staminali ematopoietiche, terapia enzimatica sostitutiva, terapia genica,
terapia di riduzione del substrato, terapia di modificazione del substrato, terapia di stabilizzazione enzimatica), analizzandone i limiti di cui ci si è dovuti rendere conto (delusioni) a
lungo termine dopo le iniziali speranze e i successi verificati a breve termine.
Riassunto
With the progressive improvement of knowledge on pathophysiological mechanisms and
cell manipulation, from the year 2000 many specific innovative treatments for metabolic
diseases, as monotherapy or in combination, were developed that increased the activity
of the defective protein or decreased the amount of the accumulated substrate. Such
progress brought hope to the scientific community, patients associations and the general
population. However, it soon became clear that frequently such innovative drugs were only
able to attenuate the manifestations of the disease in patients, while significant burden of
disease remained which severely impacts quality of life for patients and families. Herein,
we focus on the available treatment options for metabolic diseases (diet therapy, haematopoietic stem cell transplantation, enzyme replacement therapy, gene therapy, substrate
reduction and substrate modification therapy, pharmacological chaperone therapy), analysing the limits of their efficiency in the long-term (disappointments) after the initial hopes
and achievements seen in the short-term.
Summary
Abbreviazioni
ADA-SCID: Sindrome da immunodeficienza combinata da
deficit congenito di adenosin-deaminasi
AIFA: Agenzia Italiana Farmaco
AS: Arginasi
BEE: Barriera emato-encefalica
BH4: Tetraidrobiopterina, cofattore della fenilalanina idrossilasi
10
BMT: Bone marrow transplantation = trapianto di midollo
CGD: Chronic granulomatous disease = malattia granulomatosa cronica
CPS: carbamilfosfato sintetasi
DGJ : 1-deossigalattonojirimicina
DQ: Developmental quotient = quoziente di sviluppo
E-IMD: European registry and network for intoxication type
metabolic diseases
Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni
ERT: Enzyme replacement therapy = terapia enzimatica
sostitutiva
GLD: Leucodistrofia a cellule globoidi (malattia di Krabbe)
GSD: Glycogen storage disease = glicogenosi
HSCT : Haematopoietic stem cell transplantation = trapianto di cellule staminali ematopoietiche
IVA: Isovaleric Acidemia = acidemia isovalerica
MLD: Leucodistrofia metacromatica
Mannosio 6P: Mannosio-6-fosfato
MMA: Methylmalonicacidemia = acidemia metilmalonica
MNGIE: Mitochondrial neurogastrointestinal encephalopathy = encefalopatia neuro-gastro-intestinale mitocondriale
MPS IH/H-S/S: Mucopolisaccaridosi I Hurler/Hurler-Scheie/
Scheie
MPS: Mucopolisaccaridosi
NAGS: N-acetilglutammato sintetasi
NYHA: New York Heart Association
OTC: ornitina transcarbamilasi
PKU: fenilchetonuria
PTC124: Sinonimo di Ataluren
SRT: Substrate reduction therapy = terapia di riduzione del
substrato
TES: Terapia enzimatica sostitutiva
Metodologia della ricerca
bibliografica
È stata svolta una ricerca attraverso PubMed utilizzando termini quali “inborn errors of metabolism”,
“metabolic diseases”, “genetic diseases”, “lysosomal
storage disease”, “organic acidemias”, “urea cycle defects”, “tyrosinemia”, “alkaptonuria”, “ADA-SCID”, “treatment efficacy”, “treatment outcome”, “guidelines”,
“recommendations”, “HSCT”, “BMT”, “substrate reduction therapy”, “enzyme enhancement therapy”, “ERT”,
“substrate modification”, “PTC124”, “pharmacological
chaperone therapy”, anche incrociandoli tra loro, con
filtro per articoli successivi al 2009. Sono stati inoltre
inclusi studi noti agli autori, anche se pubblicati prima
di quella data.
Introduzione
Molto è cambiato nel campo della patologia metabolica
ereditaria negli ultimi trent’anni, l’abbiamo vissuto giorno per giorno e forse stentiamo a rendercene conto. Il
cambiamento più evidente è stato sulle malattie da accumulo lisosomiale, malattie che trent’anni fa avevano
solo terapie palliative e ora hanno a disposizione sulla
carta una serie di diversi trattamenti con diversi meccanismi d’azione, anche associabili tra loro. Paradossalmente, la terapia in cui si riponevano allora le maggiori
speranze, la terapia genica, solo oggi inizia a proporsi,
e per un numero ancora molto limitato di malattie (leucodistrofia metacromatica, adrenoleucodistrofia), nella
realtà clinica (Aubourg, 2016).
Trent’anni fa molti di noi pensavano che in un tempo
ragionevole si sarebbe arrivati anche ad avere a disposizione una terapia risolutiva per le malattie metaboliche da intossicazione (acidosi organiche e difetti
del ciclo dell’urea), che sarebbe potuta essere la stessa terapia genica, o una molecola esogena capace
di metabolizzare il metabolita tossico, o un preparato che inibisse a monte la via metabolica bloccata.
Quest’ultima evenienza si è verificata in effetti per una
sola malattia, la tirosinemia tipo I che ha visto una
profonda modificazione della propria storia naturale.
Nonostante gli importanti avanzamenti che complessivamente sono stati ottenuti nella cura delle malattie
metaboliche, possiamo anche vedere chiaramente i
limiti di questo cammino verso la migliore terapia possibile che, non raggiungendo completamente l’obiettivo sperato (una “pseudo-guarigione”), porta con sé
costi prima di tutto umani e sociali non indifferenti.
Obiettivo
La presente review si è posta l’obiettivo di prendere
in considerazione le possibilità terapeutiche che sono
attualmente disponibili per vari tipi di malattie metaboliche rare e tentare di fare una revisione critica dei
successi e delle limitazioni di ognuno sulla base della
letteratura più recente.
Le malattie metaboliche rare
e le terapie
Le malattie metaboliche rare sono malattie genetiche
monogeniche che interessano il metabolismo intermedio degli aminoacidi, degli zuccheri o dei lipidi, il
metabolismo/traffico delle molecole nei vari organelli
intracellulari e altre particolari vie metaboliche che
comprendono il metabolismo dei metalli, degli acidi
nucleici, della sintesi dell’eme, degli acidi biliari, degli ormoni, dei neurotrasmettittori. Sono trasmesse
nella maggior parte dei casi in maniera autosomica
recessiva, alcune sono X-linked e altre riconoscono
una trasmissione matri-lineare perché dovute ad alterazioni del DNA mitocondriale. La cura per qualunque
malattia metabolica può essere ideata solo quando
sia ben nota la fisiopatologia e quando sia disponibile
la tecnologia di supporto (ad esempio per le malattie
da accumulo è stato necessario comprendere il ruolo
del mannosio-6P, biomarker presente sulla maggior
parte degli enzimi indirizzati al lisosoma e sviluppare la tecnica del DNA ricombinante). Presentiamo qui
aggiornamenti e considerazioni riguardo alla maggior
parte delle terapie disponibili attualmente per le malattie metaboliche, seguendo un ordine temporale di
introduzione nella pratica clinica.
Terapia dietetica
La terapia dietetica rappresenta la base del trattamento delle malattie da difetto del catabolismo proteico (aminoacidopatie, acidosi organiche, difetti del ciclo dell’urea), delle glicogenosi (difetti di catabolismo
del glicogeno) e dei difetti della beta ossidazione dei
grassi (difetti di utilizzo dei lipidi). I principi su cui si
11
R. Parini et al.
basa la terapia dietetica di questi gruppi di patologie
sono stati ben definiti nella seconda metà del ’900 e
sono sintetizzati nella tabella I. Alla terapia dietetica
si associano farmaci diversi nelle diverse patologie
(Tab. I) e anche per questi non si sono registrate
grandi novità negli ultimi anni, salvo la disponibilità
di un nuovo preparato detossificante (scavenger) per
via endovenosa per le iperammoniemie che associa sodio benzoato e sodio fenilacetato (Ammonul®)
(Häberle et al., 2012) e l’acido carglumico (Carbaglu®), disponibile per via orale per il difetto di N-acetlglutammato sintetasi (NAGS), un raro difetto del ciclo
dell’urea e in corso di studio per le iperammoniemie
secondarie delle acidosi organiche. L’acido carglumico è un analogo strutturale dell’N-acetilglutammato a
cui si sostituisce nel difetto di NAGS per attivare la
carbamilfosfato sintetasi (Häberle et al., 2012).
Aminoacidopatie/acidosi organiche/difetti
del ciclo dell’urea
Rilevanti negli ultimi anni per queste patologie sono
stati i tentativi di sistematizzare le informazioni sulla
storia naturale e la terapia con studi multicentrici indipendenti, soprattutto a livello europeo (se ne citano
solo alcuni: Häberle et al., 2012, Huemer et al., 2015a,
Huemer et al., 2015b, Huemer et al., 2016; Baumgartner et al., 2014). In quest’ottica è anche la creazione
di un registro per le acidosi organiche e i difetti del
ciclo dell’urea nel contesto di un consorzio (E-IMD)
finanziato dall’Unione Europea, che ha raccolto dati
su 795 pazienti (Kölker et al., 2015a, 2015b, 2015c,
Heringer et al., 2015). Questi lodevoli sforzi non hanno per il momento sortito particolari nuove indicazioni
in merito al trattamento dei pazienti.
Una riflessione sulla medicalizzazione eccessiva che
è sempre in agguato può essere fatta leggendo due
lavori del gruppo di Venditti (NIH, Bethesda, USA) sulle
acidemie metilmaloniche, isolata e con omocistinuria
(Manoli et al., 2015a; Manoli et al., 2015b). Questi lavori
mostrano che l’uso eccessivo di miscele aminoacidiche prive dei precursori (valina, isoleucina, treonina e
metionina) determina verosimilmente uno sbilanciamento degli apporti aminoacidici a favore della leucina, portando a una riduzione di valina e isoleucina
plasmatiche e in ultima analisi a un deficit di accrescimento nell’acidemia metilmalonica isolata, mentre i
pazienti con acidemia metilmalonica con omocistinuria
corrono un rischio ancora più grave, in quanto possono
andare incontro a una carenza di metionina che può
portare gravi danni allo sviluppo cerebrale (Manoli et
al., 2015b). Se associamo questi dati all’informazione
che la qualità di vita di questi pazienti e dei loro famigliari è peggiore di quella dei bambini leucemici, dei
pazienti Down e di quelli con anemia falciforme e che
la necessità di dieta rigida occupa un posto importante
nella riduzione della qualità di vita (Fabre et al., 2013),
ci rendiamo conto della necessità di fare passi avanti
nella terapia di questi pazienti.
Tabella I. Terapia dietetica e farmaci associati.
Gruppo di malattie
Principale obiettivo
della dieta
Altri
scopi
Terapie farmacologiche
associate
Difetti del
catabolismo
degli aminoacidi
Riduzione apporto
proteico
Evitare catabolismo proteico,
mantenere buon accrescimento,
evitare carenze nutrizionali
B12 (MMA),
B6 (omocistinuria)
Glicina (IVA)
Biotina (def biotinidasi)
Carnitina (acidurie organiche)
Nitisinone (tirosinemia tipo I,
Alcaptonuria?)
BH4 nella PKU
Difetti
del ciclo dell’urea
Riduzione apporto
proteico
Evitare catabolismo proteico,
mantenere buon accrescimento,
evitare carenze nutrizionali
Citrullina (per CPS e OTC),
arginina (tranne che per AS),
acido carglumico (per difetto di
NAGS)
Farmaci detossificanti
(scavenger): sodio fenilbutirrato,
sodio benzoato, sodio fenilacetato
Difetti della
degradazione
o della sintesi
del glicogeno
Pasti piccoli
e frequenti
Diverso rapporto carboidrati/
proteine/lipidi in relazione alle vie
metaboliche funzionanti, mantenere
buon accrescimento, evitare
carenze nutrizionali
Sintomatici
Difetti della
beta-ossidazione
degli acidi grassi
Pasti piccoli
e frequenti
Scarso apporto lipidico. Mantenere
buon accrescimento, evitare
carenze nutrizionali
Riboflavina nelle forme sensibili
Carnitina in alcuni difetti
12
Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni
Glicogenosi (GSD)
Un’altra riflessione va fatta sul trattamento dietetico della GSD tipo III che dovrebbe essere iperproteico per
sfruttare la neoglucogenesi normalmente funzionante
in questi pazienti e il più possibile ipoglucidico per evitare l’accumulo di molecole di glicogeno anormale nei
muscoli, nel cuore e nel fegato (Kishnani et al., 2010).
L’indicazione contemporanea a utilizzare la maizena
cruda se il paziente non è in grado di mantenere la
glicemia tra un pasto e l’altro diventa in qualche modo
contradditoria, perché la maizena è un carboidrato e
la dieta a quel punto nella pratica non può più essere
ipoglucidica. Molti pazienti trattati con la dieta iperproteica ma non ipoglucidica, sviluppano grave ipostenia,
cardiomiopatia e cirrosi. Come uscire da questo circolo
vizioso? Sono stati pubblicati negli ultimi anni un certo
numero di casi trattati con dieta iperlipidica, oltre che
iperproteica, e tutti hanno avuto un netto miglioramento della cardiomiopatia e delle performance muscolari
(Valayannopoulos et al., 2011; Brambilla et al., 2014;
Mayorandan et al., 2014a) L’apporto di lipidi si associava a quello proteico per produrre energia attraverso la
neoglucogenesi e i pazienti non avevano più necessità
di maizena cruda per mantenere la glicemia. Questi
risultati che sembrano indicare una superiorità della
dieta iperproteica e iperlipidica sulla semplice dieta
iperproteica nel mantenere l’omeostasi glucidica pur
riducendo l’apporto di glucidi, necessitano di ulteriori
conferme soprattutto sulla sicurezza di questa dieta a
lungo termine.
Il trapianto di fegato
Utilizzato da tempo per i difetti del ciclo dell’urea e per
le acidosi organiche, il trapianto di fegato mantiene la
sua importanza soprattutto per i primi (Häberle et al.,
2012). È in corso un dibattito riguardo all’indicazione
per l’aciduria argininosuccinica in quanto non è chiaro
se un trapianto precoce possa o meno prevenire il ritardo mentale (Nagamani et al., 2012). Solo negli Stati
Uniti dal 1987 al 2010 sono stati trapiantati di fegato
265 soggetti pediatrici e 13 adulti affetti da difetti del
ciclo dell’urea con sopravvivenza a 10 anni del 87%
(Yu et al., 2015).
Il trapianto di cellule staminali
ematopoietiche
Il trapianto di cellule staminali ematopoietiche (Haematopoietic Stem Cell Transplantation – HSCT) da
midollo osseo o sangue cordonale è stato proposto
sin dagli anni ’80 per le malattie da accumulo lisosomiale ed è a tutt’oggi l’unica terapia con dimostrata
efficacia nella protezione del sistema nervoso centrale (Platt e Lachmann, 2009; Shapiro et al., 2015).
Il HSCT permette di trasferire da un donatore sano
al malato cellule multipotenti scarsamente differenziate che colonizzeranno vari tessuti. Queste cellule
secernono l’enzima carente nei liquidi biologici in cui
si trovano, permettendo così che le cellule del paziente, prive dell’enzima, possano captarlo e utilizzarlo. È
stato dimostrato che, se si effettua un buon condizionamento, le cellule trapiantate attecchiscono e passano la barriera ematoencefalica (BEE) diventando cellule della microglia; popolano così progressivamente
il sistema nervoso centrale, ottenendo che l’enzima
carente sia presente in concentrazioni efficaci anche
al di là della BEE (Capotondo et al., 2012).
Sulla base dei successi ottenuti inizialmente sulla
malattia di Hurler (Hobbs et al., 1981), negli ultimi
anni ’80 e negli anni ’90 erano sorte molte speranze di poter trattare con il trapianto tutta una serie di
malattie lisosomiali, ma solo per poche di esse si è
potuto dimostrare un chiaro beneficio soprattutto riguardo al sistema nervoso centrale (Orchard e Tolar,
2010; Aldenhoven et al., 2015). Molto presto si comprese che il trapianto, nonostante fosse chiaramente
efficace nella MPS I, non poteva essere la terapia di
scelta per molte malattie con danno cerebrale molto precoce (Gaucher tipo II, forme gravi neonatali di
mucolipidosi tipo II, GM 1 gangliosidosi e malattia di
Krabbe a esordio precoce infantile), per la MPS III,
dove il ritardo mentale è profondo e la diagnosi è
spesso tardiva perché i segni somatici sono più sfumati, e neppure per la MPS II che di primo acchito
poteva sembrare così simile clinicamente alla MPS I.
Nella MPS I un trapianto precoce nel primo anno di
vita, con quoziente di sviluppo normale, garantisce
una buona protezione del sistema nervoso centrale
(Aldenhoven et al., 2015), mentre non ha un effetto
altrettanto brillante sulla statura e sulla struttura delle
ossa che hanno verosimilmente un danno molto precoce e poco reversibile. Anche il trattamento associato ad ERT peri-trapianto, per garantire un buon livello
enzimatico dal momento della diagnosi, non è stato
sufficiente a modificare sostanzialmente il quadro
scheletrico. La recente dimostrazione di una normale
evoluzione dello scheletro nei topi MPS I trapiantati in età neonatale (Pievani et al., 2015) suggerisce
che il trattamento pre-sintomatico potrebbe prevenire
il danno osseo. Mentre per la MPS I esiste un’esperienza convalidata da più di 500 casi (Aldenhoven et
al., 2015), per molte altre malattie lisosomiali l’esperienza è molto più limitata ed è spesso difficile trarre
conclusioni definitive (Platt e Lachmann, 2009; Hollak
e Wijburg, 2014). Nonostante alcuni autori indichino
HSCT come terapia “standard” anche per malattia di
Krabbe (GLD) e leucodistrofia metacromatica (MLD)
se asintomatiche o con sintomi lievissimi (Boelens et
al., 2014) in realtà il ruolo di HSCT è ancora dibattuto
per queste patologie e va considerato sperimentale
(Boucher et al., 2015; Duffner et al., 2009). Maggiore
accordo si ha nel mondo scientifico riguardo all’adrenoleucodistrofia X-linked, per la quale è stato riportato che oltre il 50% dei sopravviventi trapiantati con
minimi deficit neurologici e minimo interessamento
alla risonanza magnetica, mantenevano stabili fun13
R. Parini et al.
zioni neurologiche e cognitive a lungo termine dopo
il trapianto (Miller et al., 2011). Un lavoro retrospettivo
recente sui 5 pazienti olandesi che avevano raggiunto
l’età adulta, riporta però che 3 su 5 hanno sviluppato
mielopatia nella terza decade di vita, mettendo così in
dubbio l’efficacia di HSCT a lungo termine (van Geel
et al., 2015).
Per tutte le altre malattie metaboliche, HSCT può essere una delle diverse opzioni terapeutiche per specifici casi selezionati, o un approccio “sperimentale”,
perché non sono disponibili a oggi sufficienti dimostrazioni di efficacia o addirittura controindicato poiché non efficace (Tab. II).
Negli anni il rischio di morbilità e mortalità di HSCT
è progressivamente diminuito, come dimostrano i
dati disponibili su MPS I: overall survival 78% negli
anni ’94-2004, 95% nel decennio successivo; event
free survival 40% negli anni ’94-2004 e 90% negli
anni 2004-’14 (Aldenhoven et al., 2015). La minore
attuale tossicità del trapianto ha portato:
1) al suggerimento di estendere l’indicazione a soggetti MPS I Hurler-Scheie, meno gravi dei pazienti
Hurler, ma con lento declino del quoziente di sviluppo (de Ru et al., 2011);
2) a riconsiderare la possibilità di riapplicare HSCT
solo all’interno di protocolli sperimentali ben definiti, in alcune patologie che sono di fatto ancora
orfane di terapia, come ad esempio la forma severa di malattia di Hunter (MPS II), sulla base del
fatto che la letteratura disponibile sulle esperienze fatte in passato è scarsa, riporta spesso piccole serie di soggetti trattati con protocolli differenti
in centri diversi, spesso trapiantati da sorella portatrice e soprattutto in fase già sintomatica (Guffon et al., 2009; Tanaka et al., 2012).
Terapia enzimatica sostitutiva
L’approccio terapeutico alle patologie da accumulo
Tabella II. Trapianto di cellule staminali ematopoietiche. Indicazioni.
Patologia
MPS I H
Terapia
standard^
Opzionale*
Sperimentale §
Se il paziente
ha un DQ ≥ 80.
MPS I H/S, MPS I S,
MPS IIB, MPS IV, MPS VI
Farber; Tay-Sachs;
Sandhoff
Pompe
Niemann-Pick A e B
Riferimenti
bibliografici
Se malattia
avanzata
Aldenhoven
et al., 2015
Boelens
et al., 2014
Da valutare
su base
individuale
insieme ad
altre opzioni
MPS III
Adrenoleucodistrofia
X-linked; MLD; GLD
Controindicato $
Se paziente
asintomatico o
segni lievissimi
Se paziente
asintomatico o
segni lievissimi
Sempre
Welling
et al., 2015
Se malattia
avanzata
Boelens
et al., 2014
Se malattia
avanzata
Boelens
et al., 2014
Si
Boelens
et al., 2014
Se paziente
asintomatico o
segni lievissimi
Boelens
et al., 2014
Niemann-Pick C tipo 1
Sempre
Vanier, 2010
Niemann-Pick C tipo 2
Si
Vanier, 2010;
Breen
et al., 2013
Deficit multiplo di
solfatasi
Si
Boelens
et al., 2014
MNGIE
Si
Halter
et al., 2015
^ Terapia di prima linea
* È fattibile e può dare risultati ma non è la terapia di prima linea
§
Non sono disponibili evidenze di efficacia sufficienti ma è possibile che sia efficace
$
Quando è noto o si suppone che la malattia non possa rispondere al trapianto
14
Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni
lisosomiale è cambiato enormemente dopo l’introduzione della Terapia Enzimatica Sostitutiva (TES
o, termine più usato, dall’inglese ERT cioè Enzyme
Replacement Therapy). Tale strategia terapeutica ha
infatti rappresentato la più significativa acquisizione
degli ultimi decenni nel trattamento delle patologie da
accumulo lisosomiale, pur avendo a priori il grosso limite di non passare la BEE (Platt e Lachmann, 2009)
(Tab. III).
ERT si basa sulla somministrazione tramite infusioni
endovenose periodiche di enzimi lisosomiali ricombinanti che, una volta infusi, si distribuiscono ai tessuti e
vengono internalizzati dalle cellule e diretti ai lisosomi
grazie alla presenza di marcatori (quali ad esempio il
mannosio-6-fosfato). Nel compartimento lisosomiale
questi agiscono ristabilendo l’attività dell’enzima deficitario.
La ERT è stata introdotta in clinica nei primi anni ’90
per il trattamento della malattia di Gaucher, patologia dovuta a deficit dell’enzima glucocerebrosidasi e
caratterizzata dal coinvolgimento del compartimento macrofagico viscerale. L’impiego della ERT nella
malattia di Gaucher tipo I, la forma più comune priva
di interessamento del sistema nervoso centrale, ha
portato a un tale miglioramento del quadro clinico
che dopo circa un decennio dalla sua introduzione,
uno dei massimi esperti di malattia di Gaucher nel
2004 affermava che “senza esagerare, la terapia enzimatica è stata una rivoluzione nella cura [dei pazienti con la malattia di Gaucher]” (Grabowski, 2004).
Dopo l’inizio del trattamento con ERT, nei pazienti
Gaucher si può osservare un miglioramento rapido
di anemia, trombocitopenia ed epatosplenomegalia
(alcuni mesi), mentre i cambiamenti in termini di aumento della densità minerale ossea richiedono anche
4-8 anni (Goker-Alpan, 2011).
Il successo della ERT nella malattia di Gaucher stimolò lo sviluppo di questo approccio per il trattamento
di altre malattie da accumulo come la malattia di Fabry, le MPS di tipo I, II, IV e VI e la malattia di Pompe. Per queste malattie l’effetto della ERT non si è
dimostrato così dirompente come per la malattia di
Gaucher, come già Grabowski aveva previsto, sulla
base della patogenesi e del diverso coinvolgimento
Tabella III. Malattie per le quali è disponibile ERT e trial selezionati, ancora in corso, con ERT modificato.
Patologia
ERT disponibile
ERT attualmente
in trial
Riferimenti bibliografici
o codice identificativo in
https://clinicaltrials.gov
MPS I
ERT: Laronidase (Aldurazyme®)
ERT intratecale associata
a HSCT
Hollak e Wijburg, 2014
NCT00638547
MPS II
ERT: Idursulfase (Elaprase®)
ERT intratecale
Hollak e Wijburg, 2014
NCT02055118 e altri
ERT intratecale
NCT02716246
MPS III A
MPS III B
ERT intratecale
NCT02324049
MPS IV
ERT: Elosulfase (Vimizim®)
Hendriksz et al., 2014
MPS VI
ERT: Galsulfase (Naglazyme®)
Hollak e Wijburg, 2014
MPS VII
ERT
NCT02432144
Gaucher
ERT: Imiglucerase (Cerezyme®)
Velaglucerase alfa (Vpriv®)
Taliglucerase (Elelyso®)
Hollak and Wijburg, 2014
Fabry
ERT: Agalsidasi alfa (Replagal®);
Agalsidasi beta (Fabrazyme®)
El Dib et al., 2013
Pompe
ERT (Myozyme®)
ERT modificato +
Chaperone
(ATB200/AT2221)
Kishnani et al. 2009a
Niemann-Pick tipo B
ERT (sfingomielinasi
ricombinante)
NCT02292654
Deficit di lipasi acida
lisosomiale (LAL)
ERT Sebelipase alfa
NCT01757184
Alfa mannosidosi
ERT alfa mannosidasi
ricombinante (Lamazym®)
NCT01285700
Ceroidolipofuscinosi
tipo 2
ERT intratecale
(Rh Tripeptidyl peptidase
1- BMN190)
Ortolano et al., 2014
NCT00976352
15
R. Parini et al.
tessutale, nell’editoriale già citato (Grabowski, 2004).
Tutte le ERT che progressivamente, dal 2001 a oggi,
hanno ricevuto l’“autorizzazione all’immissione in
commercio”, hanno superato il vaglio dell’agenzia regolatrice europea (EMA) e di quella italiana (AIFA),
dopo che la loro efficacia era stata dimostrata dagli
studi clinici di fase III previsti. Progressivamente negli
anni il numero di pazienti che si consideravano necessari per una buona riuscita di questo tipo di studi
è aumentato fino ai 176 pazienti, che hanno partecipato nel 2012-2014 al trial di fase III della terapia
con elosulfase alfa per la malattia di Morquio A (MPS
IVA), mentre i test richiesti per valutarne l’efficacia a
breve termine sono rimasti molto simili. Nonostante
il continuo miglioramento della qualità dei protocolli
di studio, esistono attualmente molte perplessità sulla
reale efficacia a lungo termine della ERT in queste
malattie, che possono riferirsi a vari aspetti:
A. prima di tutto esistono i limiti degli strumenti correntemente utilizzati, necessariamente endpoints
a breve termine, per dimostrare l’efficacia di ERT
nei trial clinici, spesso distanti dalla realtà clinica,
dove possono essere impiegati a lungo termine
solo su un numero limitato e selezionato di soggetti – si escludono ad esempio i pazienti non collaboranti come i bambini troppo piccoli o i pazienti
con ritardo mentale e quelli che non possono per
ragioni fisiche sostenere questi test (Glamuzina et
al., 2011) –, richiedono tempo disponibile da parte
dell’équipe medica e un’uniformità di esecuzione
che non sempre può essere raggiunta. Gli stessi test inoltre, sul lungo termine, hanno a volte rivelato outcome differenti (Tylki-Szymanska et al.,
2010; Parini et al., 2015). Da questo punto di vista
risultano essere sempre più cruciali gli studi collaborativi internazionali necessari per determinare
l’efficacia a lungo termine della ERT e le nuove
complicanze a distanza associate alle patologie in
questione;
B. solo per pochi organi/apparati (come fegato, milza, tessuto muscolare cardiaco) ci si può aspettare
di ottenere con l’ERT una regressione dei segni
di malattia, mentre nella maggior parte dei casi
l’ERT si limita a stabilizzare la situazione quo ante
o rallentare la progressione. È questo il caso soprattutto del tessuto osseo e cartilagineo, dell’occhio e delle valvole cardiache per le MPS, degli
apparati cardio-vascolare e renale già colpiti da
danno fibrotico avanzato nella malattia di Fabry,
del tessuto muscolare scheletrico per la malattia
di Pompe (Hollak e Wijburg, 2014). Ciò accade verosimilmente per una serie di ragioni:
1. l’accumulo del substrato è molto precoce e si
hanno dimostrazioni che avvenga già durante
la vita fetale (Muenzer, 2014).
2. questo provoca all’interno della cellula una serie di reazioni secondarie e terziarie a catena,
tra le quali alterato riconoscimento dei segnali
16
intracellulari, attivazione di vie sintetiche proinfiammatorie, precoce apoptosi cellulare, che
determinerebbero in alcuni tessuti, come ad
esempio la cartilagine di accrescimento nelle
MPS, un danno irreversibile;
3. la scarsa efficacia sul tessuto osseo e quindi
sulla crescita staturale sarebbe favorita anche
dalla scarsa penetrazione della ERT, per la ridotta vascolarizzazione del tessuto osseo.
Appare chiaro ormai nelle MPS, da osservazioni su coppie di fratelli, che il trattamento precoce, quasi pre-sintomatico, permette di ottenere
una migliore evoluzione della crescita e della
struttura dell’osso (McGill et al., 2010, Tajima
et al., 2013, Laraway et al., 2013, Leal et al.,
2014, Gabrielli et al., 2016) come a dimostrare
che il problema principale non sia tanto la penetrazione nel tessuto osseo, quanto l’impossibilità di intervenire su tessuti già alquanto danneggiati sia dall’accumulo che dalla cascata di
reazioni a catena innescata dall’accumulo. Da
qui l’accento che viene posto, sia dalle società
scientifiche che dalle associazioni di famiglie,
sulla necessità che il medico sappia riconoscere i primi segni/sintomi di malattia (diagnosi
precoce) e che i servizi sanitari pubblici prendano in considerazione l’attivazione dello screening neonatale per le malattie da accumulo
lisosomiale, che hanno una possibilità terapeutica (Meikle et al., 2006);
C. esiste una difficoltà nel verificare/predire i benefici
della ERT in popolazioni di pazienti con quadri clinici molto eterogenei, sia per età che per gravità,
che per diverso coinvolgimento di organi e apparati (Hollak e Wijburg, 2014). Tutto ciò va anche considerato nel contesto della rarità di queste malattie
e della carenza, di cui si sta diventando consapevoli, di dati dettagliati e circostanziati riguardanti
la storia naturale delle patologie da accumulo e
i diversi fenotipi clinici. A questo proposito, va segnalato lo sforzo fatto recentemente, correlato al
trial di fase III per la ERT della MPS IVa, di valutare per almeno due anni la storia naturale di un
ampio gruppo di pazienti non trattati, utilizzando
gli stessi test approvati per il trial clinico (Harmatz
et al., 2015);
D. anticorpi anti-ERT vengono prodotti soprattutto dai
pazienti con le forme più gravi che, non sintetizzando completamente la proteina, riconoscono la
ERT come una molecola estranea al proprio organismo. Questo effetto, cellule T-dipendente, è particolarmente evidente nei pazienti con la forma infantile di malattia di Pompe, ma è stato segnalato
anche per altre patologie (Broomfield et al., 2016).
Nella malattia di Pompe, la ERT si è dimostrata efficace sia nella forma classica infantile con cardiomiopatia (Kishnani et al., 2009a), che nella forma a esordio
tardivo, dove il cuore è in genere risparmiato e si ha
Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni
un interessamento selettivo del muscolo scheletrico
(Toscano e Schoser, 2013). Purtroppo però, soprattutto nelle forme più gravi di malattia di Pompe classica
(CRIM negativi), come abbiamo detto, la ERT provoca la comparsa di anticorpi ad alto titolo che verosimilmente inibiscono gli effetti benefici della terapia
(Banugaria et al., 2011). A oggi tuttavia, l’induzione
profilattica di una tolleranza immunologica con l’utilizzo di rituximab e methotrexate sembrerebbe efficace
nel ridurre l’insorgenza di tale temibile complicanza
(Banugaria et al., 2013). Anche per questa malattia
è auspicabile uno studio europeo indipendente che
cerchi di chiarire l’impatto dei diversi regimi terapeutici
sull’evoluzione della patologia. La ERT inoltre non è in
grado, dato che non passa la BEE, di agire sul danno
da verosimile accumulo di glicogeno nella sostanza
bianca cerebrale, che si osserva ormai da alcuni anni
nei lungo-sopravviventi. Inoltre, anche nei pazienti di
questo gruppo che rispondono meglio alla terapia, si
osserva un lento peggioramento della funzione muscolare negli anni (Prater et al., 2012).
Al di là delle perplessità sulla reale efficacia a lungo termine, last but not least, c’è il problema del costo molto elevato di questi farmaci innovativi (circa
200.000 Euro per paziente/anno in media) che causa
un rapporto costo/efficacia molto alto (Hollak et al.,
2015). Va detto da una parte che la collaborazione
con le industrie farmaceutiche è fondamentale per lo
sviluppo e la produzione di farmaci innovativi, e che
le aziende, salvo eccezioni, si attengono a un codice
etico molto preciso (vedi per l’Italia codice Farmindustria), dall’altra, che l’attività di ricerca in questa direzione da parte delle aziende è aumentata in maniera
esponenziale a partire dall’anno 2000, quando anche
l’Europa, dopo gli Stati Uniti, ha promosso leggi atte
a favorire la produzione di farmaci cosiddetti “orfani”
per malattie rare.
Nonostante questo sia in assoluto un bene, vi sono
ragioni sufficienti per proporre, come si sta facendo
da parte del mondo scientifico sempre più insistentemente (Hollak et al., 2011; Hollak e Wijburg, 2014), che
il follow-up a lungo termine dell’efficacia dei farmaci
nella cosiddetta fase IV (post-commercializzazione)
sia basato sulla malattia e non sul farmaco e affidato
in modo esclusivo ai ricercatori per fare in modo di
ottenere in breve tempo dati di alta qualità (Hollak et
al., 2015).
L’esempio più noto di questa difficoltà di valutare l’efficacia dei farmaci è quello della malattia di Fabry.
Per questa malattia sono attualmente disponibili due
farmaci per ERT, agalsidasi alfa e agalsidasi beta, la
cui immissione in commercio è stata autorizzata contemporaneamente nell’Unione Europea più di 10 anni
fa. Le differenze tra i due farmaci riguardano principalmente la struttura del radicale glucidico della glicoproteina enzimatica che, essendo specie-specifico, è
differente perché agalsidasi alfa è prodotta su cellule
umane in coltura, mentre agalsidasi beta su cellule di
ovaio di criceto. I due farmaci sono stati registrati con
differenti indicazioni di dosaggio/kg e la posologia non
è per il momento modulabile, come invece è avvenuto
per la malattia di Gaucher (Kishnani et al., 2009b).
Per questi due farmaci esistono due registri internazionali separati, supportati dalle rispettive aziende
produttrici, che raccolgono le informazioni cliniche dei
pazienti. Nonostante ciò, una review sistematica degli
effetti dei due farmaci (El Dib et al., 2013) si conclude con l’indicazione che sono necessari ulteriori studi
prospettici per dimostrare l’efficacia a lungo termine
della terapia e per identificare eventualmente la superiorità di un farmaco rispetto all’altro.
Terapia genica
La terapia genica è stata il sogno degli anni ’70 (Friedmann e Roblin, 1972), il traguardo prossimo che
avrebbe rivoluzionato la cura delle malattie genetiche
negli anni ’90 (Hess, 1996) e l’obiettivo da raggiungere con molta cautela forse solo per alcune malattie genetiche negli anni 2000 (Blaese, 2007). Di fatto,
come spesso accade, l’aumento delle conoscenze e
le prime esperienze hanno dimostrato che la materia era molto più complicata di quello che si poteva
pensare 10 anni prima (Blaese, 2007). Riportiamo
qui due esempi noti. I primi tentativi di terapia genica
per via sistemica, non organo-mirata, in una malattia genetica monogenica sono stati effettuati nei primi anni ’90 su pazienti affetti da immunodeficienza
combinata severa (SCID) dovuta a deficit di adenosin-deaminasi (Aiuti e Roncarolo, 2009). La terapia
genica consisteva nell’infusione di linfociti o cellule
staminali ematopoietiche del paziente dopo correzione genica in vitro. Pochi anni dopo il trattamento si
estese ad altre immunodeficienze congenite, come
la SCID X-linked e la malattia granulomatosa cronica (CGD). Purtroppo un discreto numero di pazienti
SCID-X linked e CGD sviluppò leucemia linfatica acuta a cellule T (SCID-X linked) o mielodisplasia (CGD);
queste patologie ematologiche erano causate da un
effetto tossico correlato al trasferimento genico: il vettore gamma-retrovirale con sequenze finali enhancer
e promoter mantenute attive era in grado, non solo
di attivare il gene terapeutico, ma anche di regolare
verso l’alto l’espressione di oncogeni nelle vicinanze
del sito di inserzione (mutagenesi inserzionale) (Montiel-Equihua et al., 2012). Alcuni anni dopo, nel 1999,
il signor Jesse Gelsinger, 18enne con forma lieve di
deficit di ornitina-transcarbamilasi, un difetto del ciclo
dell’urea con trasmissione X-linked, che aveva volontariamente partecipato al trial di terapia genica con
somministrazione diretta del vettore nel tessuto epatico, moriva 98 ore dopo aver ricevuto il vettore, per
una estesa e fulminante sindrome infiammatoria che
aveva indotto insufficienza multiorgano. La vicenda
andò sui mezzi di informazione di massa e fece molto clamore. Successivamente James Wilson (2009),
17
R. Parini et al.
allora direttore dell’Istituto di Terapia genica umana
alla Università di Pennsylvania, descrisse la vicenda
analizzando i fatti retrospettivamente e traendo alcuni suggerimenti utili per migliorare la preparazione di
futuri trial. Tra questi anche un’interessante riflessione
su come deve essere richiesto il consenso informato.
Nonostante queste prime difficoltà, le ricerche sulla
terapia genica negli ultimi 15 anni sono progredite:
Biffi et al. (2013) hanno pubblicato i risultati favorevoli
della terapia genica ex vivo per la leucodistrofia metacromatica ottenuti sui primi tre pazienti; sono inoltre
in corso trial clinici per MPS II, MPS IIIA, MPS IIIB,
MPS VI, malattie di Pompe, Gaucher, Fabry e ceroidolipofuscinosi neuronale (Parenti et al., 2015a). Negli anni la terapia genica è diventata più sicura con
l’utilizzo dei Lentivirus, ma la sua efficacia nel lungo
periodo deve essere ancora documentata. A tutt’oggi
nessun tipo di terapia genica è disponibile in commercio.
Altri approcci terapeutici
con piccole molecole
Oltre alla somministrazione di cellule sane che producono l’enzima carente (HSCT), alla somministrazione per via endovenosa dello stesso enzima (ERT)
e al trasferimento del gene cosiddetto wild-type cioè
sano, nell’individuo affetto, esiste la possibilità di ridurre l’accumulo del substrato inibendone la produzione (Terapia di riduzione del substrato, Substrate
Reduction Therapy – SRT), di modificare il substrato
per sottoporlo ad altri meccanismi di degradazione, di
migliorare la stabilità di un enzima difettoso per fare in
modo che possa passare il “controllo qualità” cellulare
ed entrare nel lisosoma (utilizzando un chaperone),
invece di essere degradato nel reticolo endoplasmico.
I farmaci utilizzati a questo scopo sono piccole molecole che hanno il vantaggio di poter essere assunte
oralmente, di diffondersi bene in tutti i tessuti e di non
essere immunogene (Tab. IV).
Terapia di riduzione del substrato
(Substrate Reduction Therapy – SRT)
La SRT ha al suo attivo un grande successo con la
tirosinemia tipo I (Mayorandan et al. 2014b) e risultati
meno dirompenti e più controversi per le malattie da
accumulo lisosomiale (Hollak e Wijburg, 2014).
La tirosinemia tipo I, grave malattia che porta molto
precocemente a insufficienza epatica con elevatissimo rischio di degenerazione maligna e tubulopatia
per la tossicità principalmente del succinilacetone,
che si forma e si accumula a causa del difetto enzimatico di fumarilacetoacetasi, è l’unico esempio di
malattia da intossicazione per la quale sia stata utilizzata con successo una SRT. Il farmaco è il nitisinone,
sostanza utilizzata in passato come erbicida (Arnoux
et al., 2015), impiegato nel trattamento della tirosine18
mia tipo I, perché è in grado di inibire in modo efficiente l’enzima 4- idrossifenilpiruvico diossigenasi, sulla
via di degradazione della tirosina, alcuni passaggi a
monte della fumarilacetoacetasi. I pazienti affetti da
tirosinemia tipo I hanno visto ridursi in modo drastico
il rischio di sviluppare tumori epatici e non sviluppano
più insufficienza epatica o tubulopatia. Hanno però,
per l’inibizione “alta” indotta dal nitisinone, un rischio
concreto di avere un’ipertirosinemia che potrebbe essere la causa o la concausa del ritardo mentale riconosciuto in molti di questi pazienti, che ora sono
diventati lungo-sopravviventi (Arnoux et al., 2015). Ne
consegue che i soggetti affetti da tirosinemia tipo I
che sono trattati col nitisinone devono anche assumere una terapia dietetica discretamente rigida (apporto di proteine naturali comparabile a quello che
viene somministrato nella fenilchetonuria) (de Laet et
al., 2013). Ha interesse segnalare che il nitisinone potrebbe essere efficace anche nella cura dell’alcaptonuria, o oocronosi, la malattia delle urine scure e della
cute grigio-blu da depositi di acido omogentisico. L’acido omogentisico, accumulato per il difetto dell’enzima omogentisico ossidasi, che pure è sulla via di
degradazione della tirosina, si deposita nelle cartilagini articolari determinando una grave e invalidante
osteoartrite nell’adulto. Sembrava evidente che il nitisinone avrebbe potuto agire anche su questa malattia esattamente attraverso lo stesso meccanismo
di inibizione del substrato, ma i trial conclusi fino ad
ora non sono stati in grado di dimostrare un’efficacia
clinica del farmaco (Introne et al., 2011; Arnoux et al.,
2015) mentre hanno mostrato una riduzione del 95%
dell’acido omogentisico in plasma e urine. Farmaco
davvero inefficace o difficoltà di dimostrare l’efficacia
in una malattia con progressione molto lenta? In questo caso si tende a pensare che lo strumento “trial
clinico classico”, che in genere valuta risultati a breve
termine, non sia adeguato per dimostrare l’efficacia
del nitisinone nell’alcaptonuria (Arnoux et al., 2015).
Più variegato è il campo delle malattie da accumulo
lisosomiale, dove sono molte le malattie per le quali
è o è stato proposto questo trattamento (Tab. IV). Il
primo prodotto autorizzato è stato il miglustat per la
malattia di Gaucher, imino-zucchero in grado di inibire
l’attività enzimatica della glucosilceramide transferasi, che catalizza il primo passaggio della biosintesi dei
glicosfingolipidi (Sechi et al., 2016). Questo farmaco
si è rivelato in grado di ridurre alcune manifestazioni
viscerali della malattia di Gaucher (Weinreb, 2013),
pur presentando solo una modesta efficacia e determinando alcuni effetti collaterali soprattutto gastrointestinali (Weinreb, 2013). Di fatto, dopo circa 10 anni
dalla sua immissione in commercio il suo uso è limitato e molti pazienti che l’hanno sperimentato per
un certo tempo sono poi ripassati alla ERT (Hollak
e Wijburg, 2014). Da notare anche che, nonostante
passi liberamente la BEE, il miglustat non sembra
essere efficace sulle forme neuronopatiche (Weinreb,
Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni
Tabella IV. Terapie con piccole molecole, già in uso o attualmente valutate in studi clinici.
Patologia
Terapia associata/
efficacia
Riferimenti
bibliografici
Dieta ipoproteica/ottima
Mayorandan
et al., 2014b
Sintomatica/limitata
Weinreb, 2013
Nitisinone trial
in corso
Dieta ipoproteica
Arnoux
et al., 2015
1) Miglustat
(Zavesca®)
1) restrizione latticini/
buona viscerale e ossa,
non efficace su sistema
nervoso centrale, effetti
collaterali
Weinreb
et al., 2013
2) Eliglustat
(Cerdelga®)
2) -/buona viscerale
e ossa, non efficace
su sistema nervoso
centrale, dose
individualizzata
Sechi et al.,
2016
MPS III
Genisteina
-/in attesa di risultati del
trial in corso
Piotrowska et
al., 2011; Kim et
al., 2013
Niemann-Pick
C
Miglustat
(Zavesca®)
Restrizione latticini/
limitata
Fecarotta
et al., 2015
HSP70
-/in attesa di risultati del
trial che inizierà a breve
Ingemann e
Kirkegaard,
2014
Ciclodestrina
-/in attesa di risultati del
trial che inizierà a breve
Pontikis
et al., 2013
Tirosinemia
tipo I
SRT
Stabilizzazione
con chaperone
Nitisinone
(Orfadin®)
Cistinosi
Alcaptonuria
Gaucher
Altro
meccanismo
Cisteamina
bitartrato
(Cystagon®)
Niemnn-Pick C
Fabry
DGJ- Migalastat
monoterapia o in
associazione a ERT
-/risultati preliminari
incoraggianti
Germain et al.,
2012; Warnock
et al., 2015
Pompe
Miglustat
(Zavesca®) in
associazione a ERT
-/risultati preliminari
incoraggianti
Parenti
et al., 2014
2013). È stato recentemente approvato sia negli Stati
Uniti che in Europa un altro inibitore di substrato per
la malattia di Gaucher (Eliglustat) che sembra avere
buoni effetti viscerali, non è utile per il trattamento del
Gaucher neuronopatico, perché passa la BEE ma ne
viene subito estromesso e ha meno effetti collaterali intestinali di miglustat (Sechi et al., 2016; Balwani
et al., 2016). Il metabolismo del farmaco è principalmente epatico ed è più o meno veloce in relazione al
genotipo del citocromo CYP2D6, che si consiglia di
testare prima di iniziare il trattamento con Eliglustat,
per poter individualizzare la dose del farmaco (Sechi
et al., 2016).
Il Miglustat, per la sua capacità di inibire la glucosilceramide sintetasi, è stato proposto anche per altre malattie da accumulo lisosomiale (Weinreb, 2013) con
risultati poco convincenti. Al contrario, esistono dimostrazioni di efficacia nel trattamento della malattia di
Niemann-Pick tipo C, grave malattia neurodegenerativa e viscerale, dovuta a un disturbo del trasporto
intracellulare del colesterolo che causa secondariamente un accumulo di glicosfingolipidi. Numerosi lavori hanno riportato una riduzione della progressione
o una stabilizzazione delle manifestazioni neurologiche anche in forme tardo-infantili e a esordio giovanile (Hollak e Wijburg, 2014; Fecarotta et al., 2015). È
possibile che questo farmaco sia in grado di rallentare
o stabilizzare per un certo tempo la malattia, per lo
meno nelle forme a esordio più tardivo (Fecarotta et
al., 2015), ma non certo di arrestare definitivamente la
progressione, soprattutto nelle forme infantili (Di Rocco et al., 2015).
19
R. Parini et al.
La genisteina è un flavonoide che come è stato dimostrato (Piotrowska et al., 2006) inibisce la sintesi dei
glicosaminoglicani nei fibroblasti in coltura. Ciò avviene perché inibisce l’attività chinasica dell’epidermal growth factor receptor, necessaria per la piena
espressione di geni coinvolti nella sintesi dei glicosaminoglicani (Piotrowska et al., 2006). La genisteina è
stata somministrata inizialmente a dosi di 5 mg/kg/die
(Piotrowska et al., 2011), poi 15 mg/kg/die e più recentemente 150 mg/kg/die come genisteina aglicone
(Kim et al., 2013). È in corso uno studio di fase III monocentrico con genisteina aglicone ad alte dosi che
forse ci aiuterà a capire se la genisteina può essere
impiegata in clinica o no (Parenti et al., 2015a).
In conclusione la SRT:
1) si è dimostrata molto efficace nel trattamento della
tirosinemia tipo I e potrebbe esserlo per l’alcaptonuria ma è ancora da dimostrare;
2) per le malattie da accumulo lisosomiale ha dato
finora risultati limitati o controversi e per il momento può aver senso impiegarla in gruppi particolari
di pazienti (già stabilizzati o che per qualunque
ragione non possono assumere ERT) senza coinvolgimento neuronale. Potrebbe anche avere un
impiego in associazione ad altri farmaci.
Modificazione del substrato
Per la cistinosi è stato impiegato un farmaco che determina una “modificazione” del substrato. La malattia
è causata dalle mutazioni di un gene che codifica una
proteina di trasporto lisosomiale della cistina. La cistina intracellulare accumulata forma cristalli di cistina
che portano ad alterazione delle funzioni cellulari e a
precoce apoptosi. Il fenotipo è caratterizzato principalmente da danno corneale per la presenza di cristalli
di cistina con fotofobia e cecità e insufficienza renale
grave e precoce. Il trattamento con Cisteamina bitartrato, approvato da FDA nel 1994, penetra nei lisosomi e trasforma la cistina in cisteina e altri composti
che escono dal lisosoma con un diverso meccanismo
di trasporto. Il farmaco va assunto per os ogni 6 ore
e provoca vari effetti collaterali quali odore di zolfo,
alitosi, nausea, vomito e lesioni cutanee (angioendoteliomatosi) (Weinreb, 2013). Molti pazienti hanno
perciò una scarsa compliance, ma anche quando la
compliance è buona, questo farmaco è solo in grado
di rallentare la progressione della malattia, non di arrestarla (Cherqui, 2012; Brodin-Sartorius et al., 2012).
La terapia di stabilizzazione enzimatica
(chaperone farmacologici)
Il primo impiego in clinica di un chaperone farmacologico è descritto nel lavoro di Frustaci e collaboratori
(2001) dove un paziente affetto da malattia di Fabry
con attività enzimatica residua, in seguito a trattamento con infusioni di galattosio a giorni alterni per oltre
due anni, mostrava un importante miglioramento del20
la cardiomiopatia passando dalla classe funzionale
NYHA (New York Heart Association) IV alla classe I. Il
galattosio agiva legandosi come inibitore competitivo
all’enzima alfa-galattosidasi A e in questo modo aumentava o stabilizzava l’attività dell’enzima. Era allora
già noto che la 1-deossigalattonojirimicina (DGJ-Migalastat) aumentava con lo stesso meccanismo l’attività residua dell’alfa-galattosidasi A (Fan et al., 1999).
A oggi dopo circa 15 anni, il farmaco è stato studiato
sugli animali e in studi di fase I e II, sia in monoterapia
che in associazione ad ERT (Germain et al., 2012;
Warnock et al., 2015), ma non è ancora stato immesso sul mercato: attualmente è in attesa di valutazione
da parte di EMA. Altri possibili chaperone sono stati
valutati per altre malattie, uno dei quali è il miglustat
per la malattia di Pompe già in commercio come SRT
per la malattia di Gaucher (Parenti et al., 2014).
Complessivamente chaperone in monoterapia possono essere utilizzati solo per certi tipi di mutazioni,
cosiddette sensibili, quelle mutazioni cioè che danno luogo alla produzione di una proteina misfolded
(cioè con una struttura tridimensionale alterata) che
può essere stabilizzata da un chaperone. Vista però
la loro efficacia anche nella stabilizzazione dell’enzima esogeno, molecole chaperone potrebbero avere
un impiego in associazione alla ERT, per aumentarne
l’efficacia (Parenti et al., 2014 e 2015b).
Conclusioni
Le terapie attualmente disponibili per gli errori congeniti del metabolismo rappresentano un importante
avanzamento nella cura di queste malattie, ma sono
ben lungi dal controllare completamente la patologia.
Esiste una difficoltà nel riconoscere con chiarezza gli
effetti delle terapie a lungo termine, sia per le malattie da intossicazione che per le malattie da accumulo.
Questa difficoltà è legata a vari fattori: si tratta di malattie rare, sulle quali l’esperienza del singolo centro
è sempre limitata; il fenotipo clinico è caratterizzato
da un’ampia variabilità individuale; i registri di malattia sono spesso supportati dalle aziende che hanno
impostato ottimi registri giustamente farmaco-centrici
e non centrati sul paziente; per loro natura i registri
spesso contengono informazioni limitate e frammentarie, soprattutto sul lungo periodo. Gli sforzi recenti
indirizzati a costituire registri indipendenti che ottengano dati di buona qualità potranno forse aiutare a
migliorare questo aspetto.
L’evoluzione clinica dei pazienti potrebbe migliorare
se la diagnosi fosse più precoce, ancora in fase presintomatica, come potrebbe avvenire solo in caso di
famiglia con precedente caso indice o di screening
neonatale. Questo porterebbe con sé la necessità di
discriminare precocemente le forme gravi e lievi, per
scegliere i diversi trattamenti, cosa non sempre agevole, ma verosimilmente permetterebbe una prognosi
migliore a un buon numero di pazienti.
Il trattamento delle malattie metaboliche ereditarie: speranze, successi, delusioni
Molti sono attualmente gli sforzi al fine di migliorare
le criticità ancora presenti negli approcci terapeutici
finora utilizzati. Sono in corso trial di ERT intratecale
(oppure intratecale + intracerebrale) per la MPS IIIA
e IIIB e per la ceroidolipofuscinosi tipo 2 (Ortolano
et al., 2014) (Tab. III) e stanno per iniziare trial basati su nuove strategie terapeutiche: nella malattia
di Niemann-Pick tipo C con ciclodestrina, che avrebbe la proprietà di favorire l’uscita del colesterolo dal
compartimento lisosomiale (Pontikis et al., 2013), e
con heat-shock protein 70 (HSP70), chaperone che
agisce anche come stabilizzatore delle membrane
lisosomiali (Ingemann e Kirkegaard, 2014) (Tab. IV).
Secondo comunicazioni verbali dovrebbe anche iniziare a breve il trial per la MPS I con un’altra piccola
molecola: PTC 124 (Ataluren-Translarna®), molecola
già nota e utilizzata nel trattamento di altre malattie
genetiche come la distrofia muscolare di Duchenne
e la fibrosi cistica (Bushby et al., 2014; Shoseyov et
al., 2016) che è in grado di forzare il completamento
della sintesi di una proteina enzimatica sopprimen-
do un codone di stop: questo farmaco ha dunque il
potenziale di essere efficace in tutte le malattie monogeniche che abbiano almeno una mutazione nonsenso (cioè un codone che determina un’interruzione
prematura della sintesi proteica).
Nuovi approcci che riguardano la ERT includono metodi per il miglioramento della stabilità enzimatica o
per ridurre la risposta anticorpale alle proteine infuse, la produzione di enzimi modificati per aumentarne
l’uptake lisosomiale o per aumentare la loro emivita,
o per poter essere captati anche da cellule che non
esprimono il recettore per il mannosio-6P, la produzione di proteine chimeriche che siano in grado di
passare la BEE (Osborn et al., 2008), la produzione
di enzimi modificati come ad esempio alfa-N-acetilgalactosaminidasi che agisce sullo stesso substrato
dell’alfa galattosidasi nella Malattia di Fabry (Tajima et
al., 2009). Di tutti questi nuovi approcci non possiamo
ora dire quali si dimostreranno più efficaci e restiamo
con molto interesse in attesa dei risultati dei prossimi
studi clinici.
Box di orientamento
• Cosa si sapeva prima
Negli ultimi 15-20 anni sono stati fatti molti passi avanti riguardo alle terapie delle malattie metaboliche
che ne hanno migliorato la prognosi. Le terapie per le malattie metaboliche hanno attualmente un’efficacia parziale e i pazienti ora hanno un’importante “malattia residua” che riduce la loro qualità di vita.
• Cosa sappiamo adesso
Ogni nuova acquisizione sui meccanismi regolatori della vita cellulare ha permesso di intravedere nuove
possibilità terapeutiche che spesso sono state messe in pratica. Sembra verosimile che ancora per tanti
anni a venire la ricerca di base ci riserverà tante sorprese e ci darà tanti nuovi strumenti per trattare in
modo sempre più efficiente le malattie metaboliche.
• Quali ricadute sulla pratica clinica
Sempre più critico diventa il riconoscimento precoce di queste malattie che permette l’accesso alle terapie innovative. I medici di libera scelta e i pediatri di famiglia sono sempre più caricati della responsabilità
di saper riconoscere o almeno sospettare una malattia metabolica e inviarla tempestivamente al centro
specialistico. È compito di tutta la comunità medico-scientifica garantire la diffusione delle conoscenze al
suo interno. La comunicazione diagnostica deve tenere in considerazione il fatto che le possibilità terapeutiche si stanno ampliando e modificando anche velocemente nel corso degli anni.
Bibliografia
Aiuti A, Roncarolo MG. Ten years of gene
therapy for primary immune deficiencies.
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** Sono presentati i risultati a lungo
termine del trapianto nella MPS I nella più
ampia casistica finora pubblicata. Dimostra
importanza di età e sviluppo psicomotorio
al trapianto.
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* Sono mostrati dati sui pazienti con
21
R. Parini et al.
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una correlazione tra alto titolo anticorpale
e insoddisfacente outcome e viceversa tra
basso titolo e buon outcome.
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* Valutazione Cochrane dei dati di efficacia della ERT nella malattia di Fabry.
Dimostra che i dati attualmente disponibili
non sono sufficienti per dimostrare
l’efficacia della ERT e anche per dimostrare
una differenza di efficacia tra un farmaco
e l’altro.
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* Uno dei pochi lavori di follow-up a
lungo termine in due fratelli Hurler-Scheie
che hanno iniziato il trattamento con ERT
a età diverse. Dimostrazione di maggiore
efficacia della ERT se somministrata precocemente.
Germain D, Giugliani R, Hughes D, et al.
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pharmacological chaperone on a-galactoidase A activity and globotriaosylceramide
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* Valutazione retrospettiva di pazienti
Hunter in ERT con discussione della scarsa
possibilità di applicare gli end-points degli
studi clinici alle valutazioni a lungo termine
nella pratica clinica.
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** Commento con ampia prospettiva sui
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** Riporta i risultati dello studio clinico
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** Insieme al lavoro su Orphanet 2011,
interessante punto di vista e commento
sulla necessità di una valutazione indipendente, non mediata da registri sostenuti
dalle case farmaceutiche, dell’efficacia dei
farmaci a lungo termine nella fase IV.
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* Lavoro multicentrico su una casistica
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* Lavoro multicentrico su una casistica
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* Uno dei pochi lavori di follow-up a
lungo termine in tre fratelli Hurler-Scheie
che hanno iniziato il trattamento con ERT
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efficacia della ERT se somministrata precocemente.
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** Analisi degli effetti delle terapie dietetiche in uso su una casistica numerosa di
acidemia metilmalonica isolata. L’eccessiva manipolazione della dieta con alimenti
di sintesi può essere pericolosa.
Manoli I, Myles JG, Sloan JL, et al. A
critical reappraisal of dietary practices in
methylmalonic acidemia raises concerns
about the safety of medical foods. Part
2: cobalamin C deficiency. Genet Med
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** Analisi degli effetti delle terapie dietetiche in uso su una casistica numerosa di
acidemia metilmalonica con omocistinuria.
L’eccessiva manipolazione della dieta con
alimenti di sintesi può essere pericolosa.
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* Case report di miglioramento in due
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Corrispondenza
Rossella Parini
UOS Malattie Metaboliche Rare, Clinica Pediatrica, Fondazione MBBM, ASST-Monza, Monza E-mail: [email protected]
24
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