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Dilemmi morali
Carla Bagnoli
DILEMMI MORALI
(Draft 18/10/04)
© Carla Bagnoli, 2004
Under contract, De Ferrari, Genova
Please, do not cite or quote without the Author’s permission
Indice
Introduzione
1
La fenomenologia del dilemma morale
1.1
L’argomento del rincrescimento di Williams
1.2
R.M. Hare e l’appropriatezza dell’esperienza emotiva
1.3
Per una fenomenologia della scelta dilemmatica
2
Il dilemma morale: come definirlo?
2.1
Il conflitto di obblighi e l’obiezione di incoerenza
2.2
Strategie di contenimento dell’incoerenza
2.3
Il principio di agglomerazione
2.4
L’ambiguità di ‘potere’ e il principio secondo cui dovere implica potere
2.5
La relazione tra “dovere” e “potere”
2.6
La neutralità non è una virtù
2.7
La natura stipulativa e ricostruttiva delle definizioni
2.7.1
La definizione di obbligo
2.7.2
La definizione di dilemma morale
3
I dilemmi morali e la deliberazione
3.1.1
La deliberazione e il conflitto pratico
3.2
Ambivalenza, perplessità, e scissione del sé
3.3
Il giudizio di arbitrarietà
3.4.
Unità e integrità
3.5
Azione arbitraria e continuità nel tempo
3.6
Integrità e continuità narrativa
3.7
L’integrità e le attività riparatrici del sé
4
I dilemmi morali e l’incommensurabilità dei valori
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
2
4.1
Scelte simmetriche
4.2
Strategie di arbitraggio
4.3
Decisioni arbitrarie
4.4
Strategie di arbitraggio esportabili
4.5
Dai casi di parità ai dilemmi morali simmetrici
4.6
La randomizzazione nei dilemmi morali asimmetrici
4.7
Deliberare, comparare e misurare
5
I limiti della deliberazione e l’importanza del teorizzare in etica
Bibliografia
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
3
Quaestio mihi factus sum
Agostino, Confessioni, X 33 50
a Luca, Serena e Clotilde
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
4
Ringraziamenti
Questo saggio costituisce uno sviluppo delle riflessioni sulla rilevanza filosofica del
dilemma morale che mi impegnano da diverso tempo. Gran parte di questo lavoro è stato
scritto nel vecchio osservatorio astronomico di Madison durante l’anno accademico
2003-04, grazie ad una fellowship all’Institute for Research in the Humanities che mi ha
sollevata da impegni didattici e amministrativi. Ho avuto l’opportunità di discutere gli
argomenti dei capitoli 2, 3, e 4 in varie occasioni: all’American Philosophical
Association, alla Special Conference on Value at UW-Steven Point, alla University of
Illinois at Chicago, a Marquette University, alla University of Wisconsin-Madison, e alla
Università di Rjieka. Per i commenti offertimi in queste occasioni, ringrazio Elvio
Baccarini, Clotilde Calabi, Claudia Card, Joshua Gert, Peter Hylton, Christine Korsgaard,
Tony Laden, Elijah Millgram, Amélie Rorty, George Rey, Abe Roth, Marina Sbisà,
Marya Schechtman, Sally Sedgwick, Julius Sensat, Tamar Shapiro, David Velleman, e
Gabriele Usberti. Sono grata a Carlo Penco, per avermi incoraggiato a scrivere questo
saggio e per i preziosi suggerimenti di stile e di sostanza.
Desidero ringraziare in modo particolare Luca Ferrero che è stato il primo lettore di
questo libro e quindi anche il suo primo critico, ma soprattutto colui che ha ispirato le
mie riflessioni sull’integrità e l’unità deliberativa. Questo libro è dedicato a lui, a Serena
e a Clotilde, con la speranza e l’augurio che i dilemmi morali rimangano per loro solo un
problema filosofico.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
5
Introduzione
Questo saggio tratta del dilemma morale e del suo significato filosofico. La convinzione
che governa questa indagine è che vi siano dilemmi morali genuini, cioè conflitti morali
irrisolvibili, in cui l’azione è arbitraria, cioè non giustificata da ragioni. Chiedersi se vi
siano dilemmi morali non è come chiedersi se vi siano unicorni. La definizione di
unicorno non è materia di discussione, e la questione se ve ne siano può essere
determinata attraverso un’indagine empirica. Non così per il dilemma. Vi è disaccordo
filosofico su che cosa sia un dilemma morale, e quindi anche su come interpretare
l’esperienza di quegli agenti che si dicono intrappolati in un dilemma morale. La
questione, insomma, non è se il dilemma sia un fenomeno genuino, ma piuttosto di che
fenomeno si tratti. Prendiamo, per esempio, il caso dello studente di J.P. Sartre, diviso tra
il dovere di combattere nelle Forces Françaises Libres e il dovere di rimanere al fianco
della madre (Sartre, 1946, pp. 39-40). Lo studente è vincolato da due doveri contrastanti,
si potrebbe dire; oppure si potrebbe dire che la sua volontà è divisa, o anche che interessi
contrastanti lo spingono in direzioni opposte. La questione filosofica interessante non è
tanto “Che cosa si dovrebbe fare in una situazione del genere?” ma piuttosto come
descrivere e comprendere il problema morale di questo agente, e identificarne le
conseguenze. Si tratta di un caso di perplessità morale, in cui l’agente attraverso un
processo deliberativo apparentemente corretto arriva a due conclusioni contrastanti su che
cosa deve fare. Ma la perplessità morale che contraddistingue lo studente è anche
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
6
indicativo di un dilemma morale genuino? Bisogna dare credito all’esperienza di un
agente perplesso? Questo è il problema con cui si apre questa indagine. Si tratta, in parte,
di una questione che riguarda la fenomenologia morale, cioè il resoconto filosofico di ciò
che consideriamo come “esperienza morale”. L’appello all’esperienza non è un
argomento definitivo pro o contro la possibilità di dilemmi morali autentici, poiché un
agente perplesso può, evidentemente, essere in errore, e quindi avere l’impressione di
trovarsi di fronte ad un dilemma che invece ha una soluzione. Ma l’esperienza dell'agente
perplesso deve comunque essere il punto di partenza della investigazione filosofica del
dilemma. Un resoconto filosofico adeguato deve poter spiegare perché si esperiscono i
dilemmi morali, perché si tratta di esperienze drammatiche, che cosa si guadagna
attraverso la risoluzione del conflitto morale, perché è così importante risolvere i propri
conflitti, che cosa è in gioco quando deliberiamo di questioni morali.
Perché si esperiscono dilemmi morali? A questa domanda sono state offerte due tipi
di risposta. Una prima ipotesi è che il dilemma morale sorga a causa di certi difetti
cognitivi, morali, o logici dell’agente. L’agente che esperisce il dilemma ha compiuto un
errore di qualche tipo, e per questa ragione non riconosce la soluzione giusta, oppure ha
creato le condizioni per cui non ci può essere una soluzione giusta. Per esempio, l’agente
compie un misfatto, e poi si trova a confrontarsi con un dilemma ancora più grave: la
menzogna di ieri crea le condizioni per una serie di menzogne sempre più impegnative.
In altri casi, l’agente esperisce un dilemma perché non delibera correttamente: si mostra
particolarmente disattento riguardo a certi dettagli rilevanti della situazione, e perciò non
ha gli elementi necessari per risolvere il suo problema. In certi casi questa disattenzione è
un vizio morale, una negligenza colpevole; in altri casi è scusabile, e tuttavia impedisce
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
7
di scorgere una via d’uscita che sarebbe, se non ovvia, almeno risolutiva. Infine, la
perplessità dell’agente si può spiegare con la limitatezza delle capacità logiche e
cognitive o con la semplice carenza di informazioni rilevanti. Per esempio, supponiamo
che un dottore sia indeciso tra due terapie diverse che hanno effetti devastanti l’una sulla
madre e l’altra sul feto e non sa prevedere quali siano le probabilità di riuscita di
ciascuna. Queste spiegazioni insistono sul fatto innegabile che siamo deliberatori limitati
e deboli, e suggeriscono anche che, in realtà, non vi sono conflitti morali che meritano la
qualificazione di “dilemmi”, ma solo casi di scelta difficili in cui non riusciamo a
discernere la soluzione giusta.
Accogliere questa spiegazione, però, è come dire che non vi sono conflitti morali
irrisolvibili, ma solo agenti difettosi, che lo stato di perplessità morale dell’agente non è
indicativo di un dilemma genuino. Il medico esperisce il dilemma in ragione della
limitatezza delle sue informazioni, il bugiardo in conseguenza delle sue menzogne, lo
studente di Sartre perché non riesce a giudicare correttamente la situazione. Ma se questi
agenti fossero perfettamente informati, virtuosi e capaci di ragionare correttamente,
saprebbero come risolvere i loro conflitti. Chi accetta questa spiegazione è incline a
ritenere che la teoria etica ci debba dire come superare i conflitti morali offrendoci un
metodo di ragionamento pratico appropriato (Hare, 1981). Oppure ritiene che la teoria
etica offra uno standard ideale di identità morale ideale, che l’agente non può mai
realizzare appieno per via dei suoi limiti, ma che deve comunque considerare il criterio
con cui valutare le sue scelte e le sue debolezze (Korsgaard, 1996).
Il secondo tipo di spiegazione non parte da un’ipotesi di psicologia morale, ma da
un’ipotesi sulla natura del valore. In questa prospettiva, i dilemmi morali si generano
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
8
perché vi sono valori differenti e incomparabili (Nagel, 1979; Williams, 1981). Un agente
che riconosce tali valori si trova perciò inevitabilmente vincolato da obblighi che possono
entrare in conflitto. Quando gli obblighi entrano in conflitto non c’è un metodo per
risolverli, e si genera necessariamente una perdita di valore. A differenza della prima,
questa spiegazione prende sul serio l’esperienza dell’agente perplesso, ovvero, ammette
che vi siano conflitti morali che non presentano soluzione alcuna. L’agente perplesso
percepisce dunque qualcosa di vero a proposito della situazione di scelta in cui si trova, è
veramente sottoposto ad obblighi genuini eppure incompatibili.
Questo secondo tipo di spiegazione ha il merito di rendere conto in modo più
caritatevole dell’esperienza dell’agente che affronta una scelta dilemmatica, e che proprio
per questo si espone ad una difficoltà importante. I conflitti di obblighi sembrano simili a
delle incoerenze: l’agente deve e non deve fare una certa azione. Se l’esperienza
dell’agente perplesso è credibile, e quindi vi sono conflitti di obblighi, e perciò delle
incoerenze, come può la teoria etica considerarsi un’impresa legittima? Una teoria etica
che ammetta i dilemmi, e con ciò delle contraddizioni, rinuncia a presentarsi come un
sistema coerente di principi morali. Per questo essa sembra fallire proprio nel suo
compito precipuo: quello di guidare le scelte dell’agente.
Ciascuna delle due ipotesi sullo status della perplessità porta con sè una certa
lettura della rilevanza filosofica del dilemma morale. Chi accetta la seconda ipotesi sulla
natura del dilemma morale si trova a concludere che la rilevanza filosofica del dilemma
consiste nel suo rappresentare un test di adeguatezza per la teoria etica. Investigare la
possibilità del dilemma dal punto di vista filosofico significa chiedersi se è possibile
ammettere il dilemma in una teoria etica adeguata. In particolare, ciò comporta
Carla Bagnoli, Dilemmi morali
9
un’indagine sulla natura del valore, sulla possibilità di scelte ragionate in contesti di
scelta in cui sono in gioco valori differenti, sulla natura e le conseguenze della coerenza
in etica. In questo senso il significato filosofico del dilemma è meta-morale: si considera
il suo impatto sulla teoria etica, di cui viene valutata la plausibilità descrittiva, la coerenza
interna, e la determinatezza normativa. I filosofi che argomentano contro la possibilità del
dilemma morale sostengono che ammettere che la perplessità morale corrisponde ad un
dilemma genuino significa dire che la teoria etica è incoerente o indeterminata, cioé che
dà istruzioni contraddittorie oppure insufficienti su come comportarsi di fronte ad un
conflitto morale (Hare, 1981). Chi invece argomenta a favore della possibilità del
dilemma morale sostiene che una teoria che ammette il dilemma è falsa rispetto ai fatti,
disconosce sistematicamente l’esperienza dell’agente e quindi viola il requisito di
plausibilità descrittiva. In ogni caso, in questa prospettiva, il dilemma morale è un caso
filosoficamente interessante perché ci fa riflettere sui compiti della teoria etica.
La prima ipotesi sulla natura del dilemma morale, invece, sposta la questione dal
piano meta-morale a quello normativo. Siccome considera la perplessità morale come
uno stato difettoso, ci invita a considerare quale teoria normativa dia maggiori garanzie di
risolvere il conflitto morale, di correggere i nostri errori di percezione. Questo modello
vanta il merito di spiegare la perplessità morale senza compromettere la possibilità della
teoria etica poiché implica che, laddove essa potesse essere adeguatamente applicata, i
conflitti troverebbero sempre la loro risoluzione. Il dilemma sorge, dunque, a causa delle
condizioni di implementazione della teoria che sono da imputare alla limitata razionalità
dell’agente. Da ciò si conclude, però, che i dilemmi morali sono spuri, e ciò in quanto
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 10
sono sempre risolvibili se solo si applicasse correttamente la teoria etica (Mac Intyre,
1990; Donagan, 1996).
Ora, ciascuno di questi due approcci al problema del dilemma morale presenta seri
limiti. Se si affronta la questione del dilemma da un punto di vista puramente metamorale, si corre il rischio di presentarlo come un problema filosofico che ci interessa
esclusivamente in quanto teorici dell’etica, anziché come un problema che ci affligge in
quanto agenti (Gowans, 1987; Mason, 1996; Bagnoli, 2000). D’altra parte, se lo si
affronta dal punto di vista normativo o della cosiddetta etica applicata si rischia di
concentrarsi su strategie di risoluzione del conflitto e quindi di ridurre i dilemmi a casi di
scelta difficili, perdendo così di vista la peculiarità del dilemma, cioè il fatto che non
ammette una risoluzione razionale. L’approccio normativo potrebbe apparire comunque
più interessante di quello meta-morale poiché promette di assolvere un compito pratico
importante, e cioè quello di guidarci nelle scelte difficili. Tuttavia, a mio avviso, questo
approccio non indaga la natura del conflitto morale né la natura della necessità di
risolverlo, non coglie la peculiarità dei casi dilemmatici di scelta, e perciò non ci aiuta a
comprendere appieno l’importanza e la rilevanza filosofica del dilemma morale.
Sullo sfondo di questo modello esplicativo vi è, poi, una certa concezione non solo
dei compiti della teoria etica ma anche dei suoi destinatari. In primo luogo, quando si
dice che la teoria etica ha compiti pratici da assolvere, si implicitamente che tali compiti
riguardino specificatamente l’azione, e che siano da assolvere tramite la proposta di una
procedura decisionale completa, cioè capace di dare istruzioni determinate su che cosa si
deve fare (Hare, 1981, cap. 2), oppure un sistema coerente e determinato di obblighi
(Donagan, 1984). Di conseguenza, il lavoro deliberativo dell’agente viene rappresentato
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 11
come
“applicazione”
di
una
procedura
al
caso
particolare,
oppure
come
l’implementazione di un algoritmo. I dilemmi morali si spiegano con errori dovuti alla
limitatezza delle informazioni ed altri difetti cognitivi di chi applica la teoria; gli errori
cognitivi sono mere interferenze (Donagan, 1984, pp. 291-309). In secondo luogo, la
determinatezza normativa di una teoria e la completezza della procedura decisionale che
ci mette a disposizione sono valutate dal punto di vista di agenti ideali. In questa
prospettiva, quando ci interroghiamo sulla possibilità di dilemmi genuini ci chiediamo se
agenti ideali, che operano in condizioni di razionalità perfetta, possano esperire il
dilemma morale. Ma siccome la sorgente del dilemma è identificata con un errore o un
difetto cognitivo, naturalmente la risposta è che agenti ideali non possono esperire
dilemmi. La conclusione è che i dilemmi così come li esperiamo noi agenti imperfetti
sono in realtà inautentici, a meno che non si dimostri, indipendentemente dal riferimento
all’esperienza
dell’agente,
che
obblighi
incompatibili
procedono
da
valori
incommensurabili. La rilevanza filosofica del dilemma morale viene perciò ridotta alla
questione della razionalità della scelta in contesti caratterizzati da incommensurabilità del
valore.
Lo scopo principale di questo saggio è di offrire una interpretazione alternativa della
rilevanza filosofica del dilemma morale. Da una parte, si tratta di mostrare che
l’esperienza morale ha una intelligibilità ed una importanza che è indipendente dalle
ipotesi sulla natura del valore. La perplessità morale merita una spiegazione filosofica
indipendente da considerazioni sulla natura del valore. Il significato pratico della teoria
etica non consiste nel metterci a disposizione una procedura decisionale da applicare, ma
piuttosto nel guidarci nelle nostre scelte. Può farlo in modo intelligente ed efficace solo
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 12
se ci rende comprensibile la nostra esperienza della scelta. Una fenomenologia accurata
della deliberazione nei contesti dilemmatici mostra che dal punto di vista dell’agente non
v’è differenza tra dilemmi simmetrici (generati da ragioni che provengono dalla stessa
sorgente di valore) e dilemmi asimmetrici (generati da valori incommensurabili). La
rilevanza filosofica del dilemma morale non consiste perciò nel farci riflettere su come
scegliere in condizioni di razionalità imperfetta o di incommensurabilità del valore, ma
nell’incoraggiarci a ripensare il fine e l’ambito della deliberazione. Una delle assunzioni
tacite che governano la riflessione filosofica sul dilemma morale è che la deliberazione
ha il compito precipuo di risolvere il conflitto e indicare all’agente che cosa fare. Come
cercherò di mostrare, ci sono buone ragioni per rifiutare una tale assunzione sulla natura e
i compiti della deliberazione morale, e quindi anche per leggere altrimenti la rilevanza
filosofica del dilemma morale.
Si tratta, alla fine, di correggere l’errore prospettico che ha viziato il dibattito
contemporaneo sulla possibilità del dilemma morale, il quale si è snodato secondo due
direttrici principali, quella meta-morale e quella normativa. Dal punto di vista metamorale il significato filosofico del dilemma morale è conciso con la questione delle sue
ripercussioni sulla teoria etica; dal punto di vista normativo, ci si è interrogati su come
potremmo evitare i dilemmi se solo fossimo agenti ideali. In questo saggio mi propongo
invece di affrontare la questione del dilemma morale interrogandomi sul perché
costituisca un problema morale peculiare non per i teorici dell’etica o per esseri ideali,
ma per agenti deboli e imperfetti quali noi siamo. Si tratta di capire come bisogna
rappresentare la nostra debolezza ed imperfezione, e perché il dilemma morale
rappresenti un’esperienza drammatica. Porsi questi obbiettivi non significa rinunciare alla
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 13
teoria in etica, né significa trascurare il fatto che una teoria etica deve proporci un ideale
rispetto al quale valutare le nostre scelte. Piuttosto, sosterrò che l’interesse filosofico del
dilemma morale consiste nel farci riflettere sul perché deliberiamo avendo in mente un
ideale, sul perché ci è necessario agire con criterio e dare ragione delle nostre scelte, e
perché è in gioco la nostra integrità quando le nostre azioni non sono espressive della
nostra identità pratica come accade nei contesti dilemmatici. Il dilemma morale è una
minaccia alla nostra integrità perché ci pone di fronte ad una scelta necessaria senza che
si possa disporre di ragioni decisive. Eppure riconoscere l’arbitrarietà dell’azione, la
necessità della scelta, e quindi la drammaticità del dilemma è anche l’unico modo che
abbiamo di costruire e determinare la propria integrità: è questo il fenomeno che attende
una spiegazione filosofica.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 14
1 La fenomenologia del dilemma morale
Il dilemma morale esibisce una fenomenologia peculiare. Gli agenti morali che
esperiscono un dilemma morale sono smarriti e perplessi non perché siano incerti rispetto
ai loro doveri, ma perché non sembra esservi una rappresentazione della situazione che
permetta loro di individuare qual è l’azione obbligatoria. La scelta in condizioni
dilemmatiche sembra, cioè, non già infondata o irrazionale, ma arbitraria, cioè non basata
su ragioni. Se la perplessità qualifica lo stato che precede l’azione in contesti
dilemmatici, il senso di colpa, il rimorso, il rincrescimento sono i sentimenti che vengono
anticipati durante la deliberazione ed inevitabilmente emergono dopo che la scelta è stata
operata, quale che sia l’azione portata a termine. Si tratta di sentimenti che si
accompagnano in modo caratteristico alla percezione di un fallimento da parte
dell’agente, e generalmente segnalano la violazione di ragioni morali, ragioni che hanno
un ruolo importante nella concezione che l’agente ha di sé. L’agire nei contesti
dilemmatici comporta tipicamente l’esperienza di questi sentimenti, ed è questione
filosofica aperta come debba interpretarsi questo fenomeno. In primo luogo, è questione
dibattuta se tali sentimenti abbiano status morale. In secondo luogo, è controverso se si
accompagnino semplicemente alla percezione di un errore morale, oppure se siano parte
costitutiva di tale esperienza. Infine, è oggetto di discussione se la presenza di sentimenti
morali negativi indichi che la deliberazione ha generato una perdita di valore. Si tratta di
tre questioni distinte ciascuna delle quali richiede un’interpretazione filosofica della
fenomenologia del dilemma morale.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 15
Se si guarda all’esperienza di sofferenza dell’agente, la fenomenologia della scelta
dilemmatica è molto simile alla scelta tragica. Sia l’agente che è costretto dalle
circostanze a scegliere senza una ragione apparente, sia l’agente che sceglie il male
minore prova rimorso, rincrescimento, o senso di colpa. Evidentemente, l’agire secondo
ragioni non ci protegge dalla sofferenza. Ciò sembra indicare che l’appello alla presenza
di sentimenti negativi non rappresenta un argomento definitivo per la possibilità del
dilemma morale (in cui non v’è un corso d’azione obbligatorio), ma se mai una prova
della tragicità di certe scelte (in cui l’azione obbligatoria è comunque moralmente
ripugnante, o tale che impone un sacrificio e la violazione di una ragione morale). Infatti,
i sentimenti negativi sono presenti anche quando l’azione non è arbitraria, ma fondata su
ragioni predominanti.
C’è dunque bisogno di una qualificazione ulteriore per spiegare l’occorrenza e la
rilevanza morale di tali sentimenti nei contesti dilemmatici. Dire che sono sentimenti
appropriati quando l’agente ha agito senza ragioni predominanti o ha scelto il male
minore, significa dire che questi sentimenti non sono solo negativi, ma anche residuali.
Mentre la prima qualificazione è puramente fenomenologica, la seconda è normativa e
implica una certa presa di posizione a proposito della struttura della deliberazione che ha
preceduto l’azione. Senza dubbio i sentimenti residuali segnalano che la deliberazione ha
avuto un costo considerevole (a meno che non ci siano prove indipendenti che l’agente è
irrazionale o addirittura incompetente). Ma qual è precisamente il significato e la natura
di questo costo? È su questo che si gioca la questione della possibilità del dilemma
morale.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 16
Si possono isolare due posizioni al riguardo. Coloro che intendono negare la
possibilità del dilemma morale, sostengono che tale costo non ha natura morale e che la
deliberazione, quando viene portata a termine correttamente, non lascia residui di sorta in
un agente razionale e competente (vd. Hare, 1981). Il sentimento che costituisce il
residuo della deliberazione è considerato il prodotto di scarto di un ragionamento
incompleto o errato. L’agente non ha ragione di ripensare o rincrescersi della propria
decisione quando essa è fondata su buone ragioni, o quando non c’erano corsi d’azione
migliori (come nel caso del dilemma).
Secondo Bernard Williams (Williams, 1963, 1965), invece, bisogna dar pieno
credito all’esperienza emotiva dell’agente. La presenza del rincrescimento non solo fa
parte di una descrizione corretta della situazione, ma è costitutiva dell’esperienza del
dilemma. In altre parole, si percepisce il dilemma attraverso l’esperienza del
rincrescimento. Il disaccordo fondamentale tra Hare e Williams riguarda in particolare la
natura residuale dei sentimenti che compaiono nei contesti dilemmatici, e la natura dei
giudizi tutto-considerato che determinano la scelta in tali contesti.
1.1 L’argomento del rincrescimento di Williams
Si noti che Williams non sostiene che si possa evincere la possibilità del dilemma morale
semplicemente appellandosi all’esperienza emotiva dell’agente, né ritiene che la mera
insorgenza di rincrescimento sia prova che l’agente ha compiuto una scelta senza avere
ragioni determinanti. Piuttosto, Williams sostiene che vi è un tipo particolare di
rincrescimento che segnala qualcosa di importante a proposito della natura del contesto di
scelta in cui l’agente ha operato. Conviene allora esaminare le caratteristiche peculiari di
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 17
questo fenomeno. Si tratta, in primo luogo, di un sentimento che pertiene ad un agente,
anziché ad uno spettatore. È un sentimento che emerge, cioè, per il tramite di un
ragionamento in prima persona su ciò che l’agente deve fare. Tuttavia, a differenza di
altri sentimenti come la colpa o il rimorso, il rincrescimento non segnala la percezione di
un vizio morale o di un errore deliberativo. Né il fatto che l’agente provi rincrescimento
implica il desiderio, tutto considerato, di aver agito diversamente (Williams, 1981, p. 46.)
Ci si può rincrescere della propria scelta senza perciò considerarla sbagliata o infondata.
In questo senso, allora, il rincrescimento è compatibile con il riconoscimento che la scelta
operata era basata su ragioni che continuano a sembrarci valide. L’argomento di Williams
è che la presenza del rincrescimento sebbene non sia un modo di mettere in dubbio la
giustificazione dell’azione compiuta, rivela che qualcosa è andato perso durante la
deliberazione. Agire ha comportato una perdita di valore, il sacrificio di qualcosa di
molto importante per la propria integrità. Dunque la presenza di rincrescimento, anche
quando non vi erano corsi d’azione migliori, è giustificata e indica che il contesto di
scelta in cui l’agente ha operato era pluralista. In questo senso, ha poca importanza per
Williams che il rincrescimento non discrimini tra casi di scelta tragica in cui l’agente ha
scelto il minore dei mali, e casi dilemmatici in cui non ci sono ragioni determinanti per
l’azione. La questione centrale è che il rincrescimento indica un residuo della
deliberazione e, più precisamente, una perdita di valore. Come ho appena osservato,
questo residuo non segnala che c’è stato un errore durante la deliberazione, oppure che il
ragionamento non è andato a buon fine. Piuttosto, il rincrescimento segnala che l’agente
ha dovuto scegliere tra obblighi conflittuali la cui forza normativa dipende da sorgenti di
valore diverse. Il dilemma morale è per Williams, alla fine, un conflitto tra valori diversi
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 18
e in certa misura incommensurabili. Riconoscere che, operando la scelta, l’agente si
rende vulnerabile al rincrescimento è come dire che la deliberazione lascia
necessariamente un residuo quando si scontrano valori incommensurabili.
Questo perché il rincrescimento è un sentimento che l’agente prova
appropriatamente sia quando si trova a scegliere pur essendo vincolato tra ragioni
contrastanti che derivano da valori incommensurabili, sia quando prende una decisione
basandosi su una ragione predominante, sia quando la sua scelta è arbitraria. Questa
osservazione ha implicazioni notevoli per quanto riguarda la natura della deliberazione in
caso di conflitto morale, e non solo nei casi particolari di dilemma e scelta tragica.
Williams ne ricava che il residuo (sottoforma di rincrescimento) è una caratteristica
fondamentale e costitutiva dei conflitti morali. L’agente che si interroga sul da farsi non
sta cercando di capire quale dei due obblighi in conflitto è quello falso; cerca invece di
rispondere adeguatamente alle richieste della moralità. Fa il possibile, ma non è
abbastanza.
Sotto questo aspetto il conflitto morale presenta una fenomenologia molto diversa
dal conflitto di credenze. Il rincrescimento, si può dire, marca il confine tra l’ambito
pratico e l’ambito teoretico. La scoperta di un conflitto di credenze dà inizio ad una
revisione che ha come scopo l’espulsione della credenza falsa. La preoccupazione di chi
esperisce il conflitto di credenze è di evitare l’incoerenza per potersi fidare delle credenze
di cui dispone. Risolvere il conflitto epistemico significa determinare che una delle due
credenze contrastanti è falsa, e la risoluzione di questo conflitto non può lasciare alcun
rincrescimento. Sarebbe irrazionale per un agente rincrescersi di aver estromesso dal
proprio corredo epistemico la credenza secondo cui la luna brilla di luce propria. Invece,
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 19
il conflitto pratico può lasciare residui anche se si è deliberato correttamente. Non è
irrazionale provare rincrescimento dopo aver scelto tra due desideri incompatibili (per
esempio, di seguire due strade che divergono nel bosco), anche se si è scelto con criterio
(la strada meno battuta). È comprensibile che si guardi con rincrescimento la strada non
presa delle due che divergono nel bosco anche se il fatto che quella intrapresa sia la meno
battuta ci sembra ancora una ragione valida. Ciò mostra che la ragione inascoltata
continua ad esercitare una certa attrazione che viene avvertita, dopo la deliberazione,
sotto forma di rincrescimento. L’oggetto del rincrescimento in questo caso non è un
errore deliberativo, ma una possibilità che abbiamo lasciato cadere, un’alternativa che
rimane di valore anche se la sua ragionevolezza non è stata considerata una ragione
predominante e non ci ha guidato nella scelta (Bagnoli, 2000a). L’esperienza del
rincrescimento è il modo in cui attribuiamo valore a questa alternativa non perseguita che
ci appare ancora desiderabile. Sotto questo aspetto, allora, i conflitti morali somigliano
più ai conflitti di desideri che non ai conflitti epistemici. Nei conflitti morali, così come
nei conflitti dei desideri, il rincrescimento mostra che la scelta ragionata non ha
cancellato la desiderabilità dell’azione che non abbiamo compiuto, e quindi ci indica che
la ragione morale rimasta inascoltata continua ad essere vincolante, anche se non ha
predominato nella deliberazione. Il rincrescimento mostra, in questi casi, che
riconosciamo ancora la forza normativa della ragione che non ha prevalso durante la
deliberazione, e perciò continua ad esercitare una certa pressione su di noi. La questione è
se tale pressione abbia anche autorità normativa. Williams ritiene di sì, e perciò tratta il
residuo come indicativo della presenza di una ragione ancora vincolante dal punto di
vista normativo, non solo presente nel corredo motivazionale dell’agente.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 20
A differenza dei conflitti di desideri, tuttavia, i conflitti morali non consentono
all’agente di non prestare attenzione all’alternativa lasciata cadere. Mentre il desiderio di
intraprendere la strada non presa e il conseguente rincrescimento può essere
semplicemente ignorato o accantonato, il rincrescimento che segnala un conflitto morale
richiede di essere preso in considerazione. La possibilità di sottrarsi a questa richiesta è
preclusa dalla natura stessa della ragione morale (Williams, 1963, p. 178; Williams,
1981, p. 75). La ragione morale è tale per cui ci impone di essere presa in considerazione
e quando non si risolve in azione, si ripresenta alla mente del valutante sotto forma di
rincrescimento. Ciò significa che la possibilità di risolvere il conflitto morale senza
residuo è un tentativo destinato all’insuccesso (Williams, 1963, p. 179). Certo la
deliberazione può darsi nella forma di un soppesamento delle ragioni morali, e l’agente
può formulare un giudizio tutto-considerato su ciò che deve fare una volta che ha preso in
esame tutte le considerazioni moralmente rilevanti. Ma nei casi in cui vi è un conflitto di
valori, Williams insiste, il giudizio tutto-considerato non può considerarsi la risoluzione
morale del conflitto. Si tratta, piuttosto, di un modo di risolvere lo stallo deliberativo. Un
tale giudizio determina che cosa l’agente deve fare, ma solo nel senso che una delle due
ragioni morali in conflitto prevale sull’altra.
1.2 R.M. Hare e l’appropriatezza dell’esperienza emotiva
Proprio perché il rincrescimento è un sentimento che si prova appropriatamente in
occasioni diversissime nelle quali siamo impegnati nel ragionamento pratico, sembra
implausibile sostenere che la presenza di un tale sentimento, anche quando è residuale,
mostri la possibilità di dilemmi morali genuini. Hare ritiene che la questione rilevante, a
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 21
proposito del dilemma, sia se l’agente può ragionevolmente provare rimorso nei casi di
conflitto morale. Il rimorso è irrazionale quando l’agente ha agito per il meglio o quando
non ha potuto fare altrimenti. Se l’agente ha deliberato secondo i canoni del
ragionamento morale, non ha ragione di provare rimorso. Il rimorso è razionale solo nel
caso in cui l’agente si rende conto di aver compiuto un errore deliberativo. Se però
l’agente riconosce di aver deliberato correttamente e non rinnega la propria decisione, il
sentimento morale che può appropriatamente provare è il rincrescimento. Ma questo tipo
di sentimento è perfettamente compatibile con l’idea che tutti i conflitti abbiano una
soluzione morale. Hare suggerisce che nell’argomento dei sentimenti residuali si sia
confuso il rincrescimento con il rimorso; quest’ultimo sentimento risponde a criteri di
appropriatezza peculiari. Il rincrescimento non ha la rilevanza morale che avrebbe il
rimorso e ciò in quanto il rincrescimento non è un sentimento morale (Hare, 1981, p. 62).
Alla luce di queste considerazioni, si potrebbe pensare di emendare l’argomento
del rincrescimento considerando un’altra classe di sentimenti marcatamente morali, come
il rimorso e il senso di colpa. Ma è facile immaginare dei casi in cui la presenza di questi
sentimenti non indica un vero e proprio errore morale o l’assenza di una ragione di
giustificazione per ciò che si è compiuto. Gli esempi abbondano: un agente che ha subito
un’educazione repressiva vivrà con pesanti sensi di colpa la propria omosessualità, anche
se non crede che vi sia niente di sbagliato o di ingiustificato nella propria condotta; le
vittime di violenza sessuale spesso si sentono in colpa e biasimano se stessi per quel che
hanno subito; i superstiti di una grave catastrofe si sentono in colpa per essere
sopravvissuti ai loro familiari e amici. Per isolare una fenomenologia specifica del
dilemma morale bisogna avere dei criteri normativi in grado di determinare la rilevanza,
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 22
il significato, e l’appropriatezza di questi sentimenti. Sollevare la questione della
rilevanza e dell’appropriatezza significa riconoscere che l’esperienza emotiva dell’agente
deve essere valutata criticamente. La questione è che cosa significa “prendere sul serio”
l’esperienza emotiva dell’agente.
In risposta alle tesi di Williams sulla rilevanza ed il significato del rincrescimento
dell’agente, Richard Hare sostiene che non bisogna considerare l’esperienza emotiva
dell’agente come se fosse l’autorità ultima. I compiti della teoria etica a questo proposito
sono due. In primo luogo, si tratta di fornire all’agente i criteri normativi con cui valutare
la situazione, determinare le ragioni morali in gioco. In secondo luogo, si tratta di offrire
un resoconto dei meccanismi psicologici in virtù dei quali l’agente percepisce la
situazione in un certo modo. Secondo Hare, la teoria deve istruire l’agente su che cosa
deve fare, determinare un corso d’azione preciso, ma deve anche spiegargli perché gli
sembra che nessun corso d’azione sia percorribile, (cioè, perché gli sembra di esperire un
dilemma morale). Per esempio, supponiamo che Mattia abbia concluso di dover rimanere
a casa ad assistere il figlio febbricitante, anziché andare a teatro con la sua amica, come
aveva promesso. Sebbene sia convinto della giustezza di questa decisione, prova un senso
di colpa genuino per avere violato la promessa. Questo è un esempio di deliberazione in
cui l’agente arriva ad un giudizio tutto-considerato che determina una ragione
predominante per l’azione. Il sentimento di colpa che Mattia esperisce non è un motivo
sufficiente per riconsiderare il processo deliberativo e mettere in dubbio lo status
normativo dell’azione intrapresa, e tuttavia questo sentimento non è semplicemente
irrazionale, inintelligibile o fuori luogo. Sebbene non indichi un errore deliberativo,
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 23
questo sentimento ha significato morale; in questo caso, per esempio, indica che Mattia
ha dei doveri di riparazione verso l’amica.
Riconoscere che il sentimento di colpa di Mattia ha rilevanza morale non significa
però sostenere che segnala la violazione di un obbligo, o l’esistenza di un conflitto di
valori. In questo caso, infatti, la deliberazione di Mattia ha lasciato un residuo solo nel
senso che la sua scelta ha creato le premesse per una nuova situazione deliberativa che
coinvolge Mattia e la sua amica. Il residuo non rappresenta un obbligo non soddisfatto
che riemerge sotto forma di sentimento negativo, ma piuttosto un incitamento a
proseguire il proprio lavoro deliberativo ponendosi la questione di come riparare o
ristrutturare la relazione con l’amica. In questo senso, il residuo non indica un errore o un
difetto deliberativo, ma la necessità di impegnarsi in ulteriori processi deliberativi. Perché
ciò sia plausibile, occorre che il sentimento morale sia associato al dovere prima facie,
cosicché anche quando l’agente delibera che, tutto considerato, deve compiere una certa
azione, prova senso di colpa per l’azione prescritta dal giudizio prima facie. In altre
parole, la giustificazione del giudizio tutto-considerato non cancella l’importanza che i
giudizi prima facie hanno, anche se questi non costituiscono, in quel particolare contesto
deliberativo, delle ragioni per l’azione determinanti.
Per rendere conto della relazione tra giudizio prima facie e sentimenti negativi,
Hare si avvale di una teoria morale a due livelli. Solo una teoria così strutturata può,
secondo Hare, spiegare la fenomenologia del dilemma morale senza incorrere nelle
obiezioni canoniche di incoerenza e incompletezza. Cioè, solo una teoria a due livelli può
spiegare perché si esperiscono sentimenti residuali anche quando abbiamo deliberato
correttamente su ciò che dobbiamo fare. Siamo agenti che operano in condizioni di
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 24
razionalità imperfetta: abbiamo poco tempo a disposizione per deliberare, le nostre
capacità cognitive e logiche sono limitate, e quindi la nostra comprensione della
situazione deliberativa in cui ci troviamo è seriamente limitata. Se fossimo agenti che
operano in condizioni perfette di razionalità, con un tempo infinito e capacità cognitive e
logiche perfette, troveremmo sempre una soluzione ai conflitti morali, e quindi non ci
sarebbe ragione di provare sentimenti negativi. Ma date le nostre limitazioni, possiamo
affidarci solo a regole morali generali che ammettono eccezioni e che possono essere
predominate da altre regole durante la deliberazione. Perché i principi morali siano
davvero efficaci, debbono essere abbastanza generali da poter essere imparati e trasmessi
(Hare, 1952, 2:2; Hare, 1963, 2:8, e 3:5). Ma proprio in quanto generali, i principi morali
entrano facilmente in collisione. Quando impariamo il contenuto di queste regole morali
(i doveri prima facie) impariamo anche ad associarvi dei sentimenti morali. In altre
parole, queste regole morali vengono internalizzate, e i sentimenti morali funzionano da
sanzioni interne: ci compiaciamo di noi stessi quando facciamo il nostro dovere, ci
puniamo con il rimorso o il senso di colpa quando manchiamo di farlo. I sentimenti
negativi, come il rimorso o il senso di colpa svolgono dunque un ruolo fondamentale nel
processo di internalizzazione delle regole morali. Essi fungono da incentivi o deterrenti
per l’osservanza di norme, e quindi la loro occorrenza è giustificata ogni qual volta la
norma è violata o predominata.
Hare ritiene che la teoria etica adeguata per agenti che operano in condizioni
perfette di razionalità pratica sia l’utilitarismo dell’atto. A questo livello gli agenti
dispongono di tutte le informazioni rilevanti, di tempo infinito e di una capacità perfetta
di immedesimarsi con gli altri. Questi agenti sono perciò in grado di applicare
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 25
l’utilitarismo dell’atto e sono sempre in grado di determinare delle risposte alle questioni
morali. Per agenti imperfetti quali noi siamo, è impossibile calcolare quale atto è
giustificato utilitaristicamente. Bisogna perciò affidarsi a regole morali che sono a loro
volta utilitaristicamente giustificate. In certi casi particolarmente difficili di conflitto
morale, la deliberazione dell’agente imperfetto non riesce ad arbitrare tra due regole
morali in conflitto, e a determinare un giudizio tutto-considerato. In questi casi allora
l’agente crede di essere soggetto a due obblighi contraddittori, e quindi di esperire un
dilemma morale. Ma non si tratta di dilemmi morali autentici, sostiene Hare, perché uno
dei due obblighi in conflitto non è, in realtà, un obbligo. Il dilemma che l’agente
imperfetto esperisce non sarebbe un dilemma se l’agente operasse in condizioni di
razionalità perfetta e potesse esercitare il ragionamento morale correttamente, cioè
applicando l’utilitarismo dell’atto.
Il resoconto di Hare spiega la fenomenologia del dilemma morale senza riconoscere
conflitti di obblighi genuini. Ciò perché i sentimenti morali negativi, come il rimorso o il
senso di colpa, sono appropriati sia nel caso che l’agente abbia violato un obbligo
genuino, sia nel caso che abbia violato un obbligo prima facie. Il fatto che l’agente provi
giustificatamente dei sentimenti negativi mostra che la deliberazione ha lasciato un
residuo di cui l’agente deve occuparsi, ma non mostra che l’agente ha violato un obbligo.
I sentimenti negativi sopravvivono alla deliberazione, anche quando le norme a cui sono
stati associati sono predominate, e quindi sono giustificati anche dopo una deliberazione
corretta. Così, Mattia prova giustificatamente rimorso per aver violato la promessa fatta
all’amica, anche se il dovere di mantenere la promessa è stato predominato nella
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 26
deliberazione. Questa resoconto della fenomenologia del dilemma si basa su una
concezione della deliberazione che merita un esame attento.
Il giudizio di dovere prima facie (a cui vengono associati i sentimenti morali) non è
una specie di ragione apparente la cui forza normativa viene completamente cancellata
dal giudizio tutto-considerato. Piuttosto, è una norma che stabilisce ciò che ha rilevanza
morale, ed è una norma che rimane importante per l’agente anche dopo che ha deliberato
a proposito della sua predominanza. Lo status normativo del giudizio di dovere prima
facie è diverso dallo status normativo del giudizio tutto-considerato. Il giudizio tuttoconsiderato non reitera semplicemente il contenuto del dovere prima facie, è invece la
conclusione di un processo deliberativo che stabilisce una relazione di predominanza tra i
due doveri prima facie in conflitto. Ma la relazione di predominanza che viene stabilita
tra i due doveri prima facie non equivale ad un nuovo ordinamento o ad una revisione
dell’assetto normativo dell’agente. Il giudizio tutto-considerato non cancella la forza
normativa dei doveri prima facie, piuttosto, esso stabilisce che in questo contesto
deliberativo un dovere (p.e. il dovere di accudire i propri figli) predomina sull’altro (il
dovere di mantenere le promesse). Ciò nonostante, il dovere prima facie di mantenere le
proprie promesse rimane di vitale importanza per l’agente. La deliberazione non ha
stabilito che in caso di conflitto, il dovere di mantenere le promesse viene sempre
predominato dal dovere di accudire qualcuno. Questo spiega anche perché l’agente possa
incorrere in altri conflitti dello stesso tipo, in cui deve decidere se accudire qualcuno
oppure rispettare i propri impegni. La relazione di predominanza che il giudizio tuttoconsiderato ha stabilito in un certo contesto deliberativo non può essere esportato in un
altro.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 27
Si osservi che il giudizio tutto-considerato propone una soluzione morale al
conflitto di doveri prima facie. Quindi la presenza di sentimenti morali negativi non
indica un residuo morale della deliberazione, cioè non mostra che il problema morale che
aveva dato inizio alla deliberazione è rimasto irrisolto, ma piuttosto che ha un seguito.
Per esempio, il caso di Mattia mostra che il problema morale se accudire il proprio figlio
oppure andare a teatro come promesso all’amica, ha trovato una soluzione, ma ha anche
posto un altro problema: come riparare nei confronti dell’amica? La residualità dei
sentimenti negativi che si manifestano dopo la scelta nei casi di conflitto risolto deve
perciò essere intesa nella prospettiva del futuro deliberativo dell’agente: la scelta passata
è moralmente giustificata, ma mette l’agente di fronte a nuovi compiti deliberativi.
Se è così, allora la fenomenologia del dilemma morale può essere spiegata
adeguatamente senza ammettere dilemmi morali genuini. Perché vi sia un autentico
dilemma morale, sostiene Hare, bisogna che l’agente sia vincolato da due obblighi
incompatibili. Questo non si dà mai perché vi è sempre una soluzione dettata dai canoni
dell’utilitarismo dell’atto. In alternativa a Williams, Hare sostiene dunque che
l’esperienza emotiva dell’agente non è un criterio sufficiente per provare che vi sono
dilemmi morali autentici, in cui si è sottoposti ad obblighi ugualmente vincolanti eppure
incompatibili. Ciò perché si può spiegare l’intelligibilità, la razionalità e l’appropriatezza
di questi sentimenti senza far appello ad un conflitto di obblighi o di valori
incommensurabili.
Il disaccordo tra Williams e Hare riguarda, innanzitutto, lo status del giudizio tuttoconsiderato. Per Williams tale giudizio differisce dai doveri prima facie non solo per
quanto riguarda lo status normativo, ma anche perché non ha status morale. Secondo
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 28
Williams il giudizio tutto-considerato stabilisce che cosa fare dal punto di vista
deliberativo, ma non rappresenta una soluzione morale. Il residuo che lascia è perciò un
residuo morale: uno degli obblighi non soddisfatti reclama di essere preso in
considerazione, e denuncia una perdita di valore, o più precisamente rivela che un genere
di valore è stato sacrificato ad un altro. Così, il fatto che Mattia provi rimorso per non
aver mantenuto la promessa mostra che il suo giudizio tutto-considerato ha lasciato un
residuo morale, e l’amore per l’amica è stato sacrificato all’amore per il figlio. Per Hare,
invece, il giudizio tutto-considerato conta come una risoluzione morale e quindi la
residualità dei sentimenti negativi che seguono la scelta deve essere intesa altrimenti,
come diretta al futuro deliberativo, anziché al passato. La questione è se sia necessario
leggere la residualità dei sentimenti negativi come avente status morale allo scopo di
spiegare la fenomenologia morale e dire, con Williams, che il rimorso di Mattia segnala
un residuo morale e, alla fine, il sacrificio di un valore. Mi sembra che la conclusione di
Williams non sia ovvia né condivisibile, e che si debbano trarre altre conclusioni da un
esame attento della fenomenologia morale.
Dalla contrapposizione di queste due rappresentazioni della fenomenologia del
dilemma morale si devono ricavare tre lezioni importanti. Primo, gli argomenti basati
sulla fenomenologia del dilemma e l’esperienza emotiva dell’agente non sono sufficienti
a stabilire che vi sono dilemmi morali autentici. Che l’agente provi rimorso o senso di
colpa dopo aver deliberato secondo i canoni del ragionamento pratico non mostra che la
sua deliberazione abbia lasciato un residuo morale. Quindi l’esperienza emotiva non può
essere usata come un criterio per stabilire che l’agente ha davvero esperito un dilemma
morale, cioè che è vincolato da obblighi incompatibili. Sotto questo aspetto, Hare ha
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 29
ragione a respingere l’argomento di Williams secondo cui la mera presenza di
rincrescimento (e per estensione dei sentimenti negativi) prova la possibilità di conflitti
irrisolvibili. Ciò perché la fenomenologia del dilemma (in cui non c’è soluzione, né
giustificazione) è simile a quella della scelta tragica (in cui si sceglie giustificatamente il
minore di due mali).
Tuttavia, bisogna andare oltre il resoconto di Hare per far spazio alla tesi che i
sentimenti morali sono modi in cui percepiamo e valutiamo la situazione in cui ci
troviamo. Un’analisi dei sentimenti morali ci istruisce sui modi in cui l’agente intende la
propria situazione e costruisce il proprio problema morale. In questo senso, i sentimenti
morali operano in modi più complessi di quelli previsti da Hare, e svolgono funzioni
diverse da quelle della semplice internalizzazione delle norme: non sono solo punizioni
che l’agente si infligge avendo riconosciuto una propria mancanza. Perché allora
proviamo sentimenti negativi, a che ci servono? Ci sono dei sentimenti morali peculiari
della scelta dilemmatica? Che cosa ci dicono a proposito del dilemma morale? Nel
prossimo paragrafo cercherò di rispondere a queste domande.
1.3 Per una fenomenologia della scelta dilemmatica
È curioso che i filosofi che si sono occupati del dilemma morale abbiano preso in
considerazione solo i sentimenti morali che si manifestano dopo la scelta, come il
rincrescimento, il rimorso o il senso di colpa (Bagnoli, 2004). La percezione del dilemma
morale attraverso i sentimenti viene descritta attraverso una specie di ragionamento
ipotetico: quando l’agente si accinge alla scelta si immagina rovinato dal rimorso o dalla
colpa, sia che agisca in un modo, sia che agisca in un altro. La fenomenologia del
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 30
dilemma è così rappresentata da questa categoria di sentimenti (il senso di colpa e
rimorso, il rincrescimento, la vergogna) che vengono anticipati nella deliberazione, e che
sono inevitabili dopo la scelta. Si tratta di una rappresentazione filosofica, dettata da certi
presupposti che ora bisogna esplicitare.
In primo luogo, il senso di colpa, il rincrescimento, il rimorso e la vergogna sono
sentimenti agente-relativi che si associano alla percezione di un fallimento, e quindi
manifestano una specie di insoddisfazione riguardo a sé stessi come agenti, il proprio
carattere, le proprie azioni, o ciò che ne è seguito. Tali sentimenti si manifestano nelle
menti “propriamente educate”, e funzionano fondamentalmente come sanzioni interne,
ovvero, come punizioni che l’agente si auto-infligge avendo riconosciuto la propria
manchevolezza, il proprio vizio, il proprio errore. Si tratta di una una specie di autorimprovero e “l’idea che esso esprime è che, se operiamo razionalmente, proteggiamo noi
stessi dai rimproveri del nostro io futuro” (Williams, 1981, p. 50). L’assenza di questi
sentimenti dopo un errore morale o un fallimento deliberativo di qualche genere mostra
che l’agente non è sensibile alla morale. In secondo luogo, si tratta di sentimenti che
tipicamente servono a spiegare la forza motivazionale degli obblighi morali. In diversi
resoconti filosofici questi sentimenti sono chiamati in gioco per spiegarci da dove
l’obbligo morale trae la sua forza obbligante, cioè vincolante e motivante (Mill, 1861,
cap. 2; Gibbard, 1990, p. 294; Korsgaard, 1996, p.151) Quindi non solo i sentimenti
come il rimorso o il senso di colpa funzionano tipicamente da sanzioni interne, ma si
associano tipicamente a degli obblighi.
Quando la fenomenologia del dilemma morale viene rappresentata nei termini di
questa categoria di sentimenti negativi (che vengono anticipati durante la deliberazione, e
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 31
esperiti dopo la scelta) vengono suggerite, implicitamente, due tesi importanti a proposito
del dilemma morale. In primo luogo, viene usata una definizione particolare del dilemma
come un conflitto tra obblighi. In secondo luogo, viene suggerito che nei contesti
dilemmatici la scelta è sempre analoga ad un errore deliberativo. Nel prossimo capitolo
cercherò di mostrare che la definizione del dilemma come conflitto di obblighi costituisce
un’ipotesi di lavoro poco vantaggiosa per un’indagine filosofica del dilemma morale.
Quando il dilemma è descritto come un caso di incertezza o indeterminatezza, si
suggerisce anche che la deliberazione in questi casi è stata incompleta o inefficace. La
percezione di un dilemma morale è dunque la percezione di una inadeguatezza. Ciò che
l’agente è costretto a ricavare dall’esperienza dolorosa del dilemma è la constatazione dei
propri limiti, delle proprie debolezze e mancanze, della propria miopia. Sosterrò che è
fuorviante considerare il dilemma morale come il risultato di un errore deliberativo.
Accettare questa tesi implica che la deliberazione consegue il suo fine quando dà un
verdetto preciso e determinato su che cosa l’agente deve fare.
Se si abbandona la definizione del dilemma morale come conflitto tra obblighi si
mettono a fuoco sentimenti morali diversi da quelli retrospettivi, auto-sanzionatori, autopunitivi quali il rincrescimento, il rimorso, il senso di colpa o la vergogna. Di fronte ad
una scelta arbitraria, ci si può sentire perplessi, paralizzati, confusi, schiacciati dal peso di
responsabilità che non possiamo assolvere, oppure possiamo provare un sentimento di
rivolta verso la situazione stessa che ci impone di prendere una decisione “impossibile”, o
meglio, ci impone di decidere quando veramente non si tratta per noi di “scegliere”. A
mio avviso, l’enfasi sulla perplessità e l’arbitrarietà ci consente di prestare attenzione alla
ragione fondamentale per cui i dilemmi morali rappresentanto un problema serio per
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 32
l’agente: la questione cruciale non è tanto che cosa fare, ma perché, cioé che cosa fare
sulla base di ragioni con cui ci identifichiamo e che riteniamo valide. La mia ipotesi è che
il dilemma mette a repentaglio la nostra integrità mettendo in pericolo le condizioni alle
quali possiamo esercitare ed esprimere le nostra identità pratica. Si tratta ora di dare un
resoconto filosofico di questa ipotesi, e di trarne le conseguenze. Il compito più
immediato è quello di proporre una definizione alternativa di dilemma morale, ciò che
farò nel prossimo capitolo.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 33
2
Il dilemma morale: come definirlo?
Così come Williams e Hare, la maggior parte dei filosofi che si sono occupati della
possibilità e delle conseguenze del dilemmma morale ha assunto che se vi sono dilemmi
morali, questi sono da intendersi come conflitti di obblighi e, alla fine, di obblighi che
procedono da sorgenti normative differenti. Sophie ha l’obbligo di risparmiare la vita di
ciascuno dei due figli, ma non può risparmiarli entrambi. Lo studente di Sartre ha
l’obbligo di combattere per la libertà e l’obbligo di accudire sua madre, ma non può
soddisfare entrambi gli obblighi. Comunque agiscano, gli agenti che affrontano scelte
dilemmatiche violano di un obbligo, e dunque si espongono ad una colpa inevitabile. In
questo capitolo esaminerò gli argomenti principali sulla possibilità e le conseguenze dei
conflitti di obblighi. Infine, proporrò una definizione alternativa di dilemma morale che
dà modo di pensare altrimenti il suo significato filosofico, e consente di rendere conto
adeguatamente della sua complessa fenomenologia.
2.1 Il conflitto di obblighi e l’obiezione di incoerenza
Molti ritengono che il conflitto tra obblighi morali sia analogo all’incoerenza logica, e
ritengono anche che ammetterne la possibilità comprometta la teoria etica come impresa
teorica e pratica (vd. Donagan 1984, Brink 1994, McIntyre 1990). Assumendo che il
dilemma morale è un conflitto di obblighi, si assume anche che la sua rilevanza filosofica
consista nel rappresentare un test per la teoria etica: una teoria etica che ammette dilemmi
morali si mostra incoerente. Se è incoerente, la teoria etica è incapace di assolvere il suo
compito pratico precipuo, quello di guidare la condotta dell’agente.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 34
L’argomento con cui si deriva l’incoerenza fa appello a due principi che sembrano
intuitivamente accettabili. Secondo il principio ‘dovere’ implica ‘potere’: un agente deve
poter fare ciò che è obbligato a fare, altrimenti l’obbligo non sussiste. Il secondo
principio regola l’agglomerazione degli obblighi: se un agente deve fare a e deve fare b,
allora deve fare a & b. Questi principi sono considerati assiomi nella logica deontica
ordinaria. Dati tali assiomi, e dati C operatore di possibilità, O operatore deontico, a e b
variabili che stanno per azioni, si costruisce il seguente argomento:
1) -C (a & b) premessa
2) Oa premessa
3) Ob premessa
4) (Oa & Ob) => O(a & b) principio di agglomerazione
5) O(a & b) => C(a & b) principio ‘dovere implica potere’
6) O(a & b) per calcolo proposizionale da 2, 3 e 4
7) -O(a & b) per calcolo proposizionale da 1, 5,
8) O(a & b) & -O(a & b) da 6 e 7
L’argomento serve a mostrare che ammettere la possibilità del dilemma è come
riconoscere l’incoerenza della teoria etica, e quindi la sua inefficacia e impraticabilità. In
alcune formalizzazioni il dilemma è trattato come un caso di contraddizione. Eppure, non
sempre il dilemma morale si può esprimere con una formula contraddittoria del tipo (Oa
& O-a). In certi casi si ha un dilemma perché vi sono due obblighi diversi e incompatibili
Oa, Ob, anziché due obblighi opposti (Oa, O-a). In questo caso, la contraddizione si
deriva solo aggiungendo una premessa empirica secondo la quale i due obblighi non
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 35
possono essere soddisfatti contemporaneamente -C(a & b) (Ladd, 1958; Lemmon, 1962;
Carey, 1985).
In ciascuna di queste formalizzazioni del dilemma, tuttavia, si assume una
particolare interpretazione dell’obbligo morale secondo il quale esso è analogo alla
necessità modale. I giudizi morali di obbligo in cui compare ‘dovere’ vengono trattati
come i giudizi in cui compare ‘è necessario che’. L’obiezione di incoerenza si regge
perciò sull’idea che vi sia un’assiomatizzazione logico-deontica analoga a quella dei
sistemi modali aletici ordinari. Gli argomenti contro l’ammissibilità del dilemma morale
in una teoria etica adeguata funzionano a patto di prendere sul serio questa analogia.
Perciò la prima questione da affrontare è se dobbiamo accettare questa analogia, o se
invece non convenga modificare l’assiomatizzazione deontica per far posto al dilemma.
Una considerazione rilevante per determinare tale questione è se l’analogia tra deontica
morale e sistemi modali aletici ordinari sia rispettosa del modo in cui il concetto morale
di dovere si comporta nel linguaggio naturale.
2.2 Strategie di contenimento dell’incoerenza
La prima e più immediata replica all’obiezione dell’incoerenza consiste nell’indebolire
l’assiomatizzazione dei sistemi di logica deontica ordinaria in modo da far posto al
dilemma
morale
senza
dar
luogo
a
contraddizioni.
L’indebolimento
dell’
assiomatizzazione logico deontica standard può avvenire in diversi modi: l’incoerenza
può essere contenuta rinunciando al principio di agglomerazione (Williams, 1965, pp.
106-107; van Fraassen, 1973, Barcan Marcus, 1980; Tannsjo, 1985, pp. 116-17; Forrest,
1990, p. 29), sospendendo il principio ‘dovere implica potere’ (Lemmon, 1962; Nagel
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 36
1979; Trigg, 1971, p. 46), oppure riqualificando questi principi che compaiono come
assiomi (Sinnott-Armstrong , 1987, p. 138; Brink, 1994, p. 237).
2.3 Il principio di agglomerazione
Consideriamo il principio di agglomerazione. Perché dovremmo accettarlo come un
assioma?
Come
ho
osservato,
una
considerazione
importante
nella
scelta
dell’assiomatizzazione logica è quanto essa rispetti le nostre intuizioni linguistiche. Ma
tali intuizioni sono discordanti: il concetto di dovere non ha un uso uniforme nel
linguaggio ordinario. Si tratta allora di costruire un modello idealizzato o artificiale di
dovere. La questione è se tale modello deve rispecchiare quello della modalità aletica.
La costruzione di modelli artificiali di ‘dovere’ è motivata dalla pretesa di
rimediare alle ambiguità che il termine ‘dovere’ ha nel linguaggio naturale. In seno a
questo progetto, l’assenza di dilemmi viene proposta come il risultato di un processo di
idealizzazione del linguaggio morale. Il modello articifiale o idealizzato non si propone
di spiegare l’accadere di conflitti tra giudizi morali di dovere, e quindi non ha pretese
descrittive o ricostruttive. Esso è costruito per mostrare non come di fatto si comporta il
termine ‘dovere’ che usiamo nel linguaggio naturale, ma come dovrebbe comportarsi,
ovvero come si userebbe se fossimo capaci di rispettarne sempre tutte le proprietà
logiche. La costruzione di un modello artificiale e idealizzato di dovere si accompagna ad
una concezione specifica dei compiti e delle aspirazioni della teoria etica, secondo cui
essa ci offre dei canoni di ragionamento morale che ci dicono come dovremmo
comportarci, se fossimo agenti ideali (Hare, 1981).
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 37
I tentativi di costruire un modello ideale di ‘dovere’ condividono l’idea che tale
concetto abbia un comportamento uniforme perché vi è una sola sorgente normativa di
obblighi. Con questa tesi assiologica riguardo alla natura del valore si impedisce la
possibilità che si scontrino obblighi che hanno sorgenti diverse. Siccome la fonte
normativa è una, il comportamento logico del dovere che la rappresenta non ammette
sfumature, ambiguità, o devianze. Per questo l’operatore deontico è distributivo rispetto
alla congiunzione: si possono agglomerare gli obblighi quando e in quanto sono dello
stesso genere. Questo modello artificiale può sembrare povero o sterile solo a patto che si
risconoscano e che si voglia rendere conto di sorgenti normative diverse di obbligo (vd.
Hurley, 1992). Se vi fossero sorgenti normative distinte, ci sarebbero anche obblighi
distinti, e bisognerebbe sospendere il principio di agglomerazione. Se è cosi, allora la
questione fondamentale è stabilire quale sia la sorgente normativa degli obblighi in caso
di conflitto. Tale questione è, evidentemente, normativa.
Si è cercato di motivare la sospensione del principio di agglomerazione con
considerazioni a proposito della natura del valore. La tesi dell’univocità della nozione di
obbligo o dovere viene respinta, e l’applicabilità del principio di agglomerazione viene
limitata quando occorrono sensi diversi di ‘dovere’. Le condizioni di validità del
principio diventano in tal modo determinabili solo dopo che si sia proceduto alla
disambiguazione del verbo ‘dovere’, cioè dopo che si sia risolto il problema normativo
delle sorgenti di valore.
2.4 L’ambiguità di ‘potere’ e il principio secondo cui dovere implica potere
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 38
Anche rispetto al principio ‘dovere implica potere’ abbiamo intuizioni contrastanti.
Bisogna chiedersi allora in quale senso il verbo ‘potere’ è inteso e quali casi il principio
‘dovere implica potere’ è chiamato a regolare. Van Fraassen interpreta il principio
‘dovere implica potere’ come il divieto di chiedere che si debba compiere l’impossibile.
Questa richiesta porterebbe al collasso deontico, cioè alla banalizzazione delle distinzioni
tra ciò che è doveroso, permesso e proibito. Quindi il principio deve figurare come
assioma per garantire un uso congruente delle distinzioni deontiche (van Fraassen, 1973).
Tuttavia, non è ovvio che la sospensione del principio ‘dovere implica potere’ porti al
collasso deontico. Questo esito catastrofico si consegue solo se si ritiene che, se
un’azione è impossibile, allora qualsiasi altra azione può costituirne la condizione
necessaria; ma non c’è ragione di condividere questa tesi (Mc Connell, 1976, p. 410).
Naturalmente, per la realizzabilità di un obbligo è decisivo che l’agente si trovi
nella condizione di poter agire di conseguenza. Ma ciò non implica che l’obbligo sia
condizionale rispetto alla possibilità di ottemperarlo. Anzi, nei contesti morali, ‘dovere’ è
incondizionale, o almeno tale per cui non si può dire che un’azione è obbligatoria solo a
condizione che ci sia possibile compierla in qualsiasi accezione di ‘possibile’. Per
esempio, supponiamo che Mattia dica “Dovevo raggiungerla come avevo promesso, ma
non ho potuto perché me ne sono dimenticato”. Questo è un giudizio retrospettivo su
un’azione doverosa che non è stata realizzata perchè all’agente non è parsa possibile.
Evidentemente, l’appello all’impossibilità non cancella l’obbligo di mantenere le
promesse, né rappresenta una scusa per l’omissione, o una circostanza attenuante. Anzi,
in questo caso proprio il fatto che l’agente non ha potuto mantenere la propria promessa
mostra la sua colpevolezza e rivela la natura morale dell’errore. Diverso è il caso in cui
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 39
Mattia dica “Dovevo raggiungerla come avevo promesso, ma non ho potuto perché sono
stato paralizzato dalla paura”; qui è un impedimento interno ciò che rende impossibile a
Mattia la realizzazione di un obbligo morale. L’incapacità di superare o controllare la
propria paura non ha necessariamente natura morale, ma in certi casi estremi rende
l’agente non tanto colpevole quanto incompetente. In questi casi estremi non si può dire
che l’agente abbia compiuto un errore morale, ma si dirà piuttosto che le sue condizioni
psicologiche lo rendono incapace di apprezzare e seguire ragioni morali. Ancora diverso
è il caso in cui Mattia dica: “Dovevo raggiungerla come avevo promesso, ma non ho
potuto perché sono stato immobilizzato”. L’impossibilità fisica e la mancanza di
opportunità contano come scuse che giustificano l’omissione, eppure non cancellano
l’obbligatorietà del mantenere le promesse. Quindi anche se in quest’ultimo caso Mattia
non è colpevole perché gli è stato impedito di compiere l’azione obbligatoria, non si tratta
comunque di un caso in cui l’obbligatorietà di mantenere le promesse dipende dall’
opportunità dell’agente.
Questi esempi ci danno due indicazioni. In primo luogo, essi ci rivelano che il
senso di ‘potere’ che compare nel principio ‘dovere implica potere’ non ha natura logica,
ma pratica. Bisogna investigare attentamente quando il senso pratico di ‘potere’
rappresenta una condizione di applicabilità di ‘dovere’, quando conta come scusa per
un’omissione, e quando costringe a rivedere lo status deontico dell’azione obbligatoria.
In secondo luogo, gli esempi sono sufficienti screditare l’idea che questo principio debba
figurare come assioma senza qualificazioni. Il principio ‘dovere implica potere’ non dà
modo di distinguere tra situazioni in cui l’azione non è, tutto sommato, doverosa perché
l’agente non è capace di eseguirla e situazioni in cui non ha l’opportunità di eseguirla.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 40
Non è possibile impiegare tale principio in modo differenziato rispetto ai tre casi in cui
Mattia dice di non aver potuto compiere un’azione che riteneva obbligatoria. Eppure
questi tre casi non possono essere trattati alla stessa stregua.
Una distinzione importante per qualificare il principio è quella tra capacità e
opportunità, tra l’aspetto interno e l’aspetto esterno di ‘potere’. Ma proprio la differenza
tra il primo caso in cui Mattia fa appello ad una dimenticanza e il secondo caso in cui fa
appello alla paura non si può spiegare facendo ricorso a questa dicotomia. La distinzione
tra aspetto esterno ed interno di ‘potere’, opportunità e capacità, non è ancora sufficiente
a chiarire le condizioni di applicabilità del principio. Ci sono delle incapacità di cui siamo
(almeno in parte) responsabili, e che non ci scusano per non aver adempiuto ai nostri
obblighi. In altri casi, invece, non avere la capacità di compiere un’azione doverosa
costituisce non un’attenuante o una scusante ma addirittura indica che non siamo agenti
morali competenti.
La questione della qualificazione del principio ‘dovere implica potere’ potrebbe
essere riformulata chiedendoci a quali condizioni l’impossibilità di ottemperare il proprio
dovere ci sottrae al biasimo. Se riconosciamo che l’agente avrebbe potuto fare altrimenti,
saremo inclini a biasimarlo. Il principio ‘dovere implica potere’ non si applica quando
l’incapacità dell’agente di adempiere il proprio obbligo è frutto di un suo errore morale,
(vd. Sinnott-Armstrong, 1984, p. 259). Il biasimo è il sentimento di disapprovazione con
cui vengono sanzionati gli atti immorali, atti di omissione o di inadempienza e implica
che l’incapacità dell’agente non costituisce una scusante. Ma anche la capacità è una
nozione morale. Essa può avere, cioè, sia una connotazione morale positiva (nel senso
descrittivo che si oppone a ‘non-morale’ e nel senso normativo che si oppone a
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 41
‘immorale’) sia una connotazione morale negativa (ovvero ‘morale’ in senso descrittivo
ma ‘immorale’ in senso normativo). Quest’ultimo caso è facile da immaginare. Vi è certo
un uso, per così dire, disonesto dell’espressione ‘non ho potuto fare altrimenti’ in cui
l’impossibilità è chiamata in causa per giustificare un errore o una mancanza morale.
Attraverso il biasimo si intende condannare il fatto che la capacità non è stata esercitata
per ragioni inaccettabili, ragioni che non costituiscono una giustificazione morale o una
scusa per l’omissione (vd. Sinnott-Armstrong, 1984, p. 253). Come osserva Williams,
esistono casi del primo tipo in cui l’incapacità è espressione di un ideale morale di
integrità (Williams, 1995, pp. 46-56). Si potrebbe dire che “Mattia non è capace di
mentire”, oppure “Sophie non può scegliere”. Serve, insomma, un criterio per decidere
quando e se l’incapacità dipende dall’agente. E nel cercare questo criterio bisogna tener
presente che è la teoria etica a decidere dell’‘immoralità’ di certe incapacità e
dell’ammirevolezza di altre.
Per semplicità, si potrebbe proporre di limitare l’applicazione del principio
‘dovere implica potere’ ai casi in cui è coinvolta la mera opportunità di agire dell’agente.
Ciò che interessa, in questo caso, non è la condizione di disposizione interna dell’agente
verso l’azione, ma la questione se l’azione rappresenta per lui un’opzione reale. Questa
qualificazione rende il principio più plausibile, ma non neutrale: la distinzione tra
‘capacità’ e ‘opportunità’ in seno al verbo ‘potere’ è essa stessa una distinzione di natura
morale. E anche la nozione di ‘opportunità’ può avere connotazione morale. Per esempio,
in virtù della sua posizione, storia, e cultura, l’agente può pensare di avere meno (o più)
opportunità di quelle che ha davvero. Le opportunità che un agente contempla come tali
sono in parte il prodotto della sua deliberazione, cioè del modo in cui si pensa quando si
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 42
pensa in qualità di agente. Dicendo che Mattia non può mentire si dice che quella di
mentire non è un’opportunità di cui Mattia può avvalersi, e quindi non conta come
opzione reale, non fa parte dello spettro di alternative per lui moralmente rilevanti. In
questo senso, anche le opportunità sono determinate da un ideale di identità pratica.
Ciò significa che, sia nella forma non qualificata, sia nella forma qualificata, il
principio ha comunque forti implicazioni sui compiti normativi che una teoria etica
adeguata deve assolvere e su come tali compiti devono essere interpretati ed espletati.
Nella sua formulazione non qualificata, il principio impone alla teoria etica una funzione
esclusivamente prescrittiva e circoscrive il giudizio morale di dovere all’ambito delle
azioni che sono sotto il controllo dell’agente. D’altra parte, le condizioni di applicabilità
possono essere specificate proponendo una certa interpretazione della nozione modale di
possibilità, per esempio limitando l’applicazione al caso di opportunità. Anche in questo
caso il principio influenza i compiti della teoria etica. Ma in tal modo la teoria etica può
tollerare casi di dilemma senza incorrere nell’obiezione di incoerenza.
2.5 La relazione tra “dovere” e “potere”
In difesa del principio ‘dovere implica potere’ senza qualificazioni si è sostenuto che la
relazione tra ‘dovere’ e ‘potere’ è di tipo concettuale, ossia dipende dalla logica del
concetto di ‘dovere’. Affinché la questione del dovere si sollevi, occorre che l’agente
possa agire. Secondo Hare, per esempio, se l’agente è nell’impossibilità di agire, dire che
ha il dovere di farlo diventa incomprensibile. Domandarsi se Mattia dovrebbe fare ciò che
ha promesso all’amica sapendo che non può farlo sarebbe come domandarsi “Entrerò
nella stanza sbagliata per errore?” (Hare, 1963, p. 59).
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 43
Eppure il giudizio “Mattia dovrebbe scrivere anche se non può” è del tutto
comprensibile, e non mi sembra rivelare alcuna contraddizione concettuale. La tesi
concettuale risponde, però, ad una intuizione importante a proposito della relazione tra
‘dovere’ e ‘potere’. Nei casi di impossibilità fisica o di forte incapacità psicologica
(intesa in senso non morale) che rendono l’agente incompetente, la questione del dovere
non si solleva in modo intelligibile. L’incomprensibilità del dovere è dovuta al fatto che i
giudizi di dovere sono solitamente prescrittivi e perciò hanno senso in contesti in cui
l’agente ha possibilità di scelta: ha la capacità e l’opportunità di agire in conformità a
differenti linee di azione. Quando non è in gioco la competenza dell’agente, il suo status
di agente, il giudizio “Mattia dovrebbe raggiungerla, anche se non può” non è un
proferimento incomprensibile o inintelligibile come sostiene Hare. Lo scopo principale
del giudizio morale di dovere non è di prescrivere un’azione particolare, quanto di
presentare delle ragioni morali per l’azione che possano servire da guida ad un agente.
Perciò il giudizio di dovere deve offrire delle ragioni anche se l’agente non è
(momentaneamente) nelle condizioni di agire in conformità ad esse, per mancanza di
opportunità, o per debolezza. In questa interpretazione, l’agente continua ad avere delle
ragioni morali che rimangono inascoltate perché egli non può agire in conformità ad esse:
quindi non si dice che non ha ragioni morali solo perché non le può ascoltare. Mattia
continua a ritenere che sia suo dovere raggiungere l’amica, anche se è impossibilitato a
farlo. In altre parole, l’impossibilità di agire non cancella la forza normativa del dovere.
Anche in questi casi, il giudizio morale di dovere continua a svolgere la sua funzione di
prescrivere o proibire un certo tipo di condotta sulla base di ragioni. Nella misura in cui il
principio ‘dovere implica potere’ chiama in causa la funzione del giudizio morale, e in
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 44
seconda istanza, la teoria etica come impresa pratica, è una meta-norma, una norma di
secondo livello. Come meta-norma il principio detta le condizioni di applicabilità dei
giudizi morali di dovere. Una teoria etica che intende guidare l’azione deve fare in modo
che i doveri che derivano da essa siano praticabili.
2.6 La neutralità non è una virtù
Se si è creduto che argomenti logico-formali potessero dirimere la questione
dell’ammissibilità di dilemmi morali in una teoria coerente è perché si è creduto che la
logica deontica possa e debba essere uno strumento neutrale. I tentativi di indebolimento
della logica deontica ordinaria partono proprio dall’esigenza di adottare una logica che
sul piano normativo impegni il meno possibile. La non-neutralità è considerata un vizio
metodologico, e la neutralità una virtù realizzabile.
Le considerazioni che ho presentato nei paragrafi precedenti sono sufficienti a
mostrare che gli assiomi di agglomerazione e ‘dovere implica potere’ poggiano su precise
presupposizioni normative e assiologiche. In generale ogni tentativo di formalizzazione
logico-deontica del dilemma morale è condizionato da pesanti assunzioni sulla natura del
valore che ne hanno determinato l’esclusione. Per dar spazio al dilemma morale è perciò
sembrato opportuno epurare la logica deontica da compromissioni normative ed
assiologiche (Van Fraassen, 1973). La difesa della possibilità del dilemma morale si è
fondata sul cosiddetto principio di neutralità deontica. Inteso in modo rigoroso, questo
principio prescrive che ciascun assioma e regola sia compatibile con tutte le teorie etiche
consistenti.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 45
Il disaccordo sui principi che devono essere considerati assiomi della logica
deontica cela un disaccordo a proposito dei compiti della teoria etica. Appena si mettono
a confronto modelli diversi di ‘dovere’ e si pone la questione della scelta degli assiomi
che devono regolare il comportamento logico di questo termine, emerge la natura
normativa del problema. La questione normativa si solleva a tre livelli: quello delle
definizioni
stipulative
di
obbligo
e
dilemma
morale,
quello
della
scelta
dell’assiomatizzazione logico-deontica, quello dei meta-criteri con cui si deve giudicare
l’adeguatezza della teoria. Di fronte alla necessità di fare delle scelte su questi tre piani
occorre riconsiderare la questione se la neutralità costituisca davvero una virtù
metodologica. A mio parere, proporre una logica neutrale è una mossa non solo sospetta,
ma anche inutile. È sospetta perché si lascia credere che la neutralità sia realizzabile,
mentre non lo può essere: la scelta delle assiomatizzazioni deontiche segue un certo
ideale normativo di ciò che conta come una teoria etica adeguata. Ma rinunciare alla
neutralità non significa incorrere in un vizio metodologico: ciò che ci serve non è una
logica che si adatti a qualsiasi teoria etica, ma una logica deontica che ci permetta di
formulare distinzioni morali adeguate. In questo senso la neutralità non è una virtù.
2.7 La natura stipulativa e ricostruttiva delle definizioni
L’argomento dell’incoerenza contro l’ammissibilità del dilemma morale finora discusso
funziona solo a patto che si condivida non solo una certa assiomatizzazione logicodeontica, ma anche una concezione particolare dell’obbligo morale. Mostrare che non
può esservi una logica deontica che sia neutrale dal punto di vista morale non significa
ammettere che non vi siano argomenti validi a favore o contro l’ammissibilità del
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 46
dilemma morale in una teoria etica adeguata. Piuttosto, bisogna riconoscere la natura
parzialmente stipulativa e non solo ricostruttiva delle nozioni di obbligo morale e di
dilemma, e conseguentemente scegliere una logica-deontica che vi si adatti.
La constatazione della natura stipulativa e ricostruttiva della definizione di
obbligo morale ha conseguenze importanti. In primo luogo, ci suggerisce di investigare le
implicazioni normative delle diverse assiomatizzazioni e vagliarne la plausibilità. In
secondo luogo, ci invita a discutere le definizioni di obbligo e di dilemma morale sulla
base di argomenti sostantivi. Tali definizioni non registrano meramente gli usi effettivi
dei due termini nel linguaggio naturale, ma non sono completamente artificiali, sono in
parte ricostruttive e cioè vantano delle pretese di plausibilità descrittiva. Infine, si tratta di
definizioni abbastanza generali da poter essere accettabili come ipotesi di lavoro in
combinazione con teorie normative differenti.
2.7.1 La definizione di obbligo
I contesti in cui occorre il termine ‘obbligo’ sono contesti che richiedono ragioni di
giustificazione. I giudizi di dovere sono giudizi per i quali è necessario offrire delle
ragioni di sostegno; la richiesta di ragioni non solo può sollevarsi adeguatamente, ma si
solleva necessariamente. Lo scambio di ragioni è una pratica che caratterizza i contesti
intenzionali (vd. Gibbard, 1990, pp. 38-39; Scanlon, 1995). Solo in tali contesti, infatti,
l’agente può e deve giustificare il suo operato. Sotto questo aspetto, i giudizi morali di
dovere sono simili ai giudizi di dovere tipici dei contesti intenzionali non-morali come i
giudizi di razionalità (“Mattia dovrebbe licenziarsi”) o di prudenza (“Mattia dovrebbe
curarsi”). Perché la questione del dovere si sollevi occorre parlare di azioni -per le quali
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 47
si richiedono e offrono ragioni. La pratica dello scambio di ragioni ha senso per esseri
che sono sensibili alle ragioni, cioè capaci e disposti a pianificare e riconsiderare le
proprie azioni sulla base di ragioni.
I giudizi morali di dovere si differenziano dagli altri giudizi di dovere (prudenziali
e razionali) in quanto viene loro attribuita un’autorità ed un’importanza speciali che li
rende specialmente vincolanti o necessitanti. Il carattere necessitante o incondizionato
dell’obbligo consiste nel suo essere ineludibile. La sua violazione produce una violazione
dell’integrità dell’agente, anche quando tale violazione è inevitabile (come nel caso dei
dilemmi). È in questo senso eminentemente pratico che l’obbligo è un tipo di necessità.
Queste considerazioni sulla natura dell’obbligo morale non intendono definire
l’ambito della moralità, né devono essere interpretate come una resistenza a vincolare il
contenuto delle ragioni. Certamente vi sono limiti a ciò che può essere ritenuto una
ragione morale, ma tali limiti non sono di natura logica. È il carattere vincolante
dell’obbligo e la sua relazione con l’integrità dell’agente a marcare l’ampio dominio della
morale.
Propongo di definire l’obbligo morale in termini di ragioni per l’azione che sono
vincolanti e determinanti. Il carattere vincolante è una proprietà dell’obbligo che non è il
risultato della deliberazione. Questa proprietà non viene cancellata se l’obbligo viene
violato o predominato. In questo senso che riguarda solo il suo aspetto vincolante,
l’obbligo morale non ha natura costruttiva, poiché la sua importanza non è determinata
dalla deliberazione ma è, anzi, un vincolo sulla deliberazione. Più precisamente, le
ragioni morali sono vincolanti in quanto ragioni morali. Ma il loro carattere vincolante
non determina anche la loro priorità deliberativa, cioè la loro capacità di prevalere su
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 48
altre ragioni durante la deliberazione. Questa priorità, la caratteristica di predominanza
dell’obbligo, è anzi il risultato della deliberazione. La predominanza non è una proprietà
di tutte le ragioni morali, ma solo di quelle alle quali la deliberazione conferisce lo status
di obbligo.
A mio avviso, la predominanza deve essere intesa come una relazione che si
stabilisce tra ragioni morali per l’azione e dipende dai contesti deliberativi. Poiché questa
relazione viene stabilita attraverso la deliberazione ha natura costruttiva. La
predominanza è una relazione di priorità tra le ragioni morali stabilita in qualche modo
moralmente rilevante. Essa è formale, cioè, non vincola i contenuti delle ragioni. Ciò
significa che non c’è un metodo per stabilire la predominanza di certi tipi di ragioni in
base ai loro contenuti. La predominanza non comporta la cancellazione della ragione che
viene predominata. Che una ragione sia predominante rispetto ad un’altra non impegna a
dire che tale ragione sia capace di cancellare la forza normativa della ragione morale su
cui predomina. Quindi se una ragione morale viene predominata nel corso della
deliberazione ciò non significa che venga estromessa dall’assetto normativo dell’agente;
né significa che l’agente non possa provare giustificamente dei sentimenti simili a quelli
che seguono la violazione di un obbligo, come il rincrescimento o il rimorso. I modi in
cui una ragione predomina su un’altra, i modi in cui una ragione viene predominata sono
vari, e presentano una fenomenologia diversificata (Nozick, 1968). La predominanza è
dunque una relazione normativa contestuale, che viene stabilita dalla deliberazione in
particolari contesti deliberativi.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 49
2.7.2 La definizione di dilemma morale
La disputa sulla possibilità del dilemma è principalmente una disputa su come bisogna
definire il dilemma morale. Se lo si definisce come un conflitto di obbligo, la sua
rilevanza filosofica viene ridotta ad un test sulla coerenza e la plausibilità della teoria
etica, e la discussione filosofica si sposta sulle strategie di contenimento dell’incoerenza e
sulla possibilità di approntare una assiomatizzazione abbastanza neutrale da non
pregiudicare la possibilità di dilemmi autentici. Il mio scopo è proporre una definizione di
dilemma morale che ‘salvi i fenomeni’, cioè renda conto della complessa fenomenologia
del dilemma morale, e metta a fuoco le ragioni per cui consideriamo il dilemma morale
un problema per l’agente, prima che per la teoria etica. Il dilemma morale è,
evidentemente, un problema per i teorici dell’etica, ma lo è nella misura in cui devono
spiegare perché è un problema per noi agenti.
Come ho osservato nel capitolo precedente discutendo della peculiare
fenomenologia del dilemma, l’agente che esperisce il dilemma è un agente perplesso che
patisce l’arbitrarietà di tutte le alternative che gli si prospettano. Per rendere conto di
questo genere di perplessità mi sembra inadeguato parlare di conflitto di obblighi. Il
dilemma è un tipo particolare di conflitto in cui, per l’agente, non c’è una risoluzione
giustificata dal punto di vista morale. Questo agente dispone di due ragioni morali che gli
raccomandano azioni incompatibili. Ciascuna ragione è importante, ma nessuna è
decisiva e risolutiva, eppure il contesto è tale per cui è necessario che egli prenda una
decisione.
Questa
decisione
genererà
inevitabilmente
sentimenti
di
colpa
o
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 50
rincrescimento rispetto a ciò che l’agente non ha fatto, sebbene non si possa dire che
abbia avuto alternative migliori.
Per rendere conto di questo fenomeno propongo prendere la nozione di “ragione
per l’azione” come primitiva. Una ragione per l’azione è una considerazione che conta in
favore di compiere una certa azione o adottare un certo atteggiamento morale. Un’azione
è moralmente obbligatoria se è sostenuta da ragioni predominanti e vincolanti. In caso di
dilemma morale, non si scontrano obblighi contraddittori, ma si hanno (i) diverse ragioni
per l’azione tutte moralmente vincolanti, (ii) nessuna delle quali è predominante, (iii)
nessuna delle quali è predominata, e tali che (iv) giustificano azioni incompatibili.
Secondo questa definizione, non tutti i conflitti tra ragioni per l’azione sono
dilemmi morali; e non tutti i conflitti morali sono dilemmi perché alcuni conflitti
presentano una risoluzione morale, cioé, ammettono un giudizio tutto considerato di
obbligo. In questi casi l’agente delibera che vi è una ragione morale predominante. I
dilemmi, invece, sono casi in cui è impossibile giungere tramite deliberazione ad un
giudizio tutto considerato che stabilisca quale azione è obbligatoria. In altre parole, una
volta esaminate tutte le considerazioni rilevanti, e una volta constatata la presenza di
ragioni vincolanti eppure incompatibili, non-predominate eppure non-predominanti,
l’agente non può deliberare ulteriormente su che cosa fare.
Che cosa c’è da guadagnare nell’accogliere questa definizione? In primo luogo, la
definizione che propongomette in luce caratteristiche importanti di ciò che
ordinariamente conta come dilemma morale, e quindi è descrittivamente plausibile. In
particolare, essa è capace di spiegare il fenomeno della perplessità che caratterizza lo
stato mentale di chi esperisce il dilemma. In secondo luogo, descrivendo la scelta in
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 51
termini di ragioni morali incompatibili, questa definizione evita di ridurre la
problematicità filosofica del dilemma morale al dibattito sull’incoerenza logica. Questa
definizione ci consente, cioè, di mettere a fuoco la questione del dilemma morale come
un problema pratico, anziché logico. In terzo luogo, la definizione non vincola il
contenuto delle ragioni. Questo è un merito rispetto alla definizione di dilemma in termini
di doveri legati ai ruoli. Per esempio, il conflitto morale dello studente di Sartre può
essere spiegato dicendo che emerge dallo scontro di un dovere derivante dal ruolo di
cittadino (il dovere di lottare per la libertà) e un dovere che derivata dal ruolo di figlio (il
dovere di accudire la madre). Alcuni filosofi sostengono che bisogna prestare attenzione
alla sorgente degli obblighi per rendersi conto di una scissione insanabile tra doveri
imparziali e parziali, universali e speciali (Nagel, 1979). La definizione che propongo è
abbastanza generale da poter descrivere sia i conflitti di ruolo, sia i conflitti tra ragioni
parziali e imparziali. Eppure tale definizione non riduce tutti i dilemmi a casi in cui si
scontrano doveri derivanti da ruoli diversi, o da sorgenti imparziali e parziali del valore.
Anzi, tale definizione è neutrale rispetto alla questione della sorgente del valore.
Essa non riduce la possibilità di dilemmi morali alla possibilità di conflitti tra obblighi
che derivano da valori incommensurabili. Questa definizione permette di dire
dilemmatiche quelle scelte morali che avvengono tra alternative che producono lo stesso
tipo di valore, o che richiedono atteggiamenti valutativi diversi rispetto ad uno stesso
valore. Sotto questo aspetto, allora, la definizione di dilemma che propongo ha il merito
di spostare la questione della possibilità del dilemma dalla controversia sul pluralismo di
valore alla controversia sull’indeterminatezza e le conseguenze dell’arbitrarietà.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 52
Quando si presta attenzione alla caratteristica di arbitrarietà della scelta in
condizioni dilemmatiche emerge una differenza importante tra il dilemma e i casi tragici
che si è spesso tentati di trascurare. Le scelte tragiche sono moralmente ripugnanti, ma
non sono arbitrarie. Agamennone che decide di sacrificare Ifigenia pur di far salpare la
sua flotta compie un gesto moralmente discutibile, ma non senza criterio. La scelta
tragica
rappresenta ‘il male minore’ ed è, perciò, la migliore azione disponibile
all’agente, anche se non è un’azione buona e l’agente avrebbe certo preferito non trovarsi
nelle condizioni di doverla scegliere. Nei dilemmi morali autentici, invece, l’azione è
arbitraria anche nel senso che non vi è un’azione che possa essere detta ‘migliore’ o la
‘meno peggio’.
Infine, la definizione che propongo ha il pregio di insistere sulla relazione tra
l’importanza delle ragioni per l’azione e l’integrità dell’agente. Le ragioni morali per
l’azione sono vincolanti proprio in virtù di questo legame con l’agente. Questa è una
caratteristica di grande importanza per comprendere l’indeterminatezza (epistemica o
normativa) che ha generato il dilemma. Il dilemma è autentico nella misura in cui
l’agente non può risolvere questo impedimento della deliberazione. L’agente che agisce
in condizioni dilemmatiche è come ‘intrappolato’, condannato a violare una ragione
morale qualsiasi sia l’azione che intraprende. Questa immagine della trappola
deliberativa suggerisce che la posta in gioco, nella questione della possibilità del dilemma
morale, è l’integrità e l’identità morale dell’agente, anziché una preoccupazione di ordine
logico. Quando il dilemma è genuino e non ammette soluzioni di sorta, l’integrità
dell’agente è inevitabilmente compromessa dall’azione poiché non si può agire sulla base
delle migliori ragioni: la nozione stessa di ‘azione migliore’ risulta inapplicabile. Si dirà
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 53
che la scelta in contesti dilemmatici è arbitraria, cioè non è confortata da ragioni
determinanti in suo favore. Siccome ciascuna delle ragioni morali in conflitto mantiene
forza vincolante e autorevolezza, questa arbitrarietà ha un impatto significativo
sull’integrità dell’agente. L’integrità dell’agente, anziché la sua inadeguatezza, è dunque
il tema che attende un’esplorazione filosofica.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 54
3 I dilemmi morali e la deliberazione
In un dilemma morale l’agente è perplesso, diviso tra modi di concepire la situazione,
sensibile a due ragioni contrastanti su che cosa deve fare. La deliberazione sembra in
questi casi incepparsi o non concludersi come dovrebbe, cioè con un giudizio sull’azione
da compiere. Che il dilemma mostri un errore oppure un fallimento deliberativo è una tesi
generalmente accettata, così come l’idea che si deliberi per stabilire che cosa fare.
Affrontare la domanda “Che cosa devo fare?” non è sempre necessario per agire
razionalmente, ma tale domanda si solleva in modo appropriato quando ci sono
considerazioni contrastanti che contano come ragioni per agire. Sebbene vi sia un
disaccordo significativo su come concepire la deliberazione morale, i filosofi si trovano
concordi nel ritenere che si delibera per risolvere il conflitto tra considerazioni che
contano come ragioni per l’azione. Un processo deliberativo è completo, cioè si conclude
felicemente, quando produce un giudizio sull’azione basato su ragioni decisive, cioè
ragioni che sono state valutate migliori, più autorevoli rispetto alle altre. In questa
prospettiva, allora, il dilemma morale è un caso in cui la deliberazione non ha assolto
questo compito. In una situazione dilemmatica la decisione è perciò arbitraria, cioè non
giustificata da ragioni decisive.
La riflessione filosofica sul dilemma morale si è concentrata principalmente
sull’esame delle sorgenti di tale arbitrarietà, e sulle sue conseguenze per la teoria etica.
Secondo alcuni, tale arbitrarietà dipende dall’incoerenza o dall’indeterminatezza
normativa della teoria etica (Hare, 1981, Donagan, 1984); secondo altri, dalla natura
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 55
incommensurabile dei valori (Nagel, 1979, Williams, 1981), oppure dalla limitatezza
delle nostre capacità cognitive e dalle peculiarità delle interazioni difettose tra agenti
morali limitati e imperfetti (Korsgaard, 1996). Ma l’idea che la percezione
dell’arbitrarietà di un’azione sia la percezione del fallimento della deliberazione sembra
del tutto incontestabile. Un agente che percepisce il dilemma morale è rappresentato alla
stregua di un ragionatore fallace, stolto, disinformato, o debole di carattere. È proprio
questa rappresentazione che intendo mettere in dubbio. Mi sembra, infatti, che essa
falsifichi l’esperienza del dilemma morale e suggerisca una visione distorta del suo
significato filosofico. In questo capitolo offrirò una spiegazione alternativa del significato
dell’arbitrarietà dell’azione nei contesti dilemmatici. Sosterrò che in tali contesti
l’arbitrarietà dell’azione non mostra un errore o un fallimento deliberativo, e che è anzi
un modo con cui l’agente giudica di esprimere la propria integrità.
3.2 La deliberazione e il conflitto pratico
Perché deliberiamo? Filosofi di diversa estrazione sono concordi nel rispondere che
deliberiamo per risolvere un problema di scelta, per capire che cosa dobbiamo fare in una
certa situazione. Chi delibera è un agente che esibisce diverse caratteristiche interessanti.
Si tratta, innanzitutto, di un agente riflessivo, che non agisce d’impulso. Inoltre, è un
agente libero di scegliere tra diversi corsi alternativi d’azione. E, soprattutto, è qualcuno a
cui preme operare una scelta ragionata, cioè giustificata da ragioni. Le azioni sono
movimenti intelligenti con cui rispondiamo al mondo esterno, secondo certe
rappresentazioni e concezioni di ciò che siamo e di ciò con cui ci confrontiamo. Si
delibera quando non ci è ovvio come dovremmo rispondere. In questo senso, la
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 56
deliberazione parte da un certo modo di rappresentare e concepire il problema pratico.
Essa inizia con la ricognizione di un certo spettro di possibilità che sono opzioni reali per
l’agente. Ciascuna di queste possibilità presenta degli aspetti di desiderabilità, delle
caratteristiche che la rendono attraente, e che offrono all’agente una ragione per
realizzarla, cioè per agire in un certo modo. Si delibera, appunto, per vagliare la forza
normativa o l’autorevolezza di queste ragioni.
Si delibera su ciò di cui si può disporre, di cose per le quali fa una differenza se
siamo noi ad agire, ad essere interessati e coinvolti. Si delibera su ciò che ci compete;
anche quando agiamo insieme ad altri, c’è una divisione del lavoro deliberativo, ci
assumiamo certi compiti e cerchiamo il modo di assolverli correttamente. Attraverso la
deliberazione stabiliamo una relazione diretta con il mondo esterno, ne cambiamo
l’assetto modificandone gli stati di cose. Questa caratteristica della deliberazione ha
favorito una certa rappresentazione della deliberazione come un’operazione della volontà,
come se l’ambito deliberativo fosse confinato ad oggetti di cui abbiamo il pieno
controllo. Il modello della mente morale che ha prevalso, tra chi ha accolto questa
rappresentazione della deliberazione, è quello della volontà divisa.
Secondo questo modello, nei casi tipici di deliberazione, l’agente che percepisce
un problema pratico e si chiede che cosa fare è una volontà frammentata. Tipicamente, e
dunque non solo nei casi di deliberazione difficili, dilemmatici, o tragici, l’attenzione
della mente deliberante è richiamata su aspetti diversi della situazione, che si offrono
come ragioni per agire in un certo modo anziché in un altro. Lo scopo della deliberazione
è di ricomporre questi aspetti discordanti in modo che emerga una visione unitaria della
situazione che ci metta in grado di identificare l’azione giustificata dalle migliori ragioni.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 57
Insomma, si delibera per raggiungere una volontà unitaria, e l’azione non è che
l’espressione di questa unità. Secondo alcuni filosofi, per valutare le considerazioni
discordi che si alternano nella mente durante la deliberazione, bisogna che si costituisca
un punto di vista, un io permanente dalla cui prospettiva vengono vagliate le opzioni. Per
altri, invece, la frammentazione del volere coincide con la fragilità del sè; ciò in quanto i
confini del sé sono determinati dall’esercizio della volontà. L’atto con cui si sceglie tra
ragioni per l’azione, è anche un atto costitutivo della propria identità pratica, un atto con
cui si marcano o si ridefiniscono precisamente i confini del sé. Il problema pratico di che
cosa fare è quindi, alla fine, il problema di chi essere. Ma proprio perché tipicamente la
deliberazione coincide con l’esperienza di una volontà divisa, l’agente è sempre sul punto
di ‘disfarsi’ e continuamente impegnato ad arginare questa minaccia.
Questa concezione della deliberazione, e soprattutto la tesi che i confini del
proprio sé coincidono con le operazioni della volontà, vanta una tradizione imponente
che è stata recentemente recuperata da Harry Frankfurt. Secondo Frankfurt, i conflitti
pratici costituiscono delle minacce alla nostra identità pratica, cioè alla nostra identità di
agenti, e deliberiamo allo scopo di rispondere a questa minaccia. La risposta è risolutiva
quando la deliberazione dà un giudizio determinato su che cosa fare e, dunque, su chi
essere. La completezza della deliberazione coincide con il successo del progetto con cui
ci unifichiamo e ci identifichiamo nel tempo attraverso l’identificazione di oggetti che ci
premono davvero.
La nostra unità ed identità pratica può essere messa alla prova in due modi. In
certi casi di conflitto pratico siamo indecisi rispetto alla questione di quale ragione per
l’azione ha priorità. In certi altri casi, siamo incerti rispetto alla questione di quali aspetti
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 58
della situazione devono contare come ragioni genuine per l’azione. In entrambi i casi si
tratta di determinare il valore delle opzioni che riconosciamo come rilevanti, e con ciò di
decretare i confini del nostro sé. Ma diversi sono i modi di risoluzione che pertengono a
ciascuno di questi due casi.
Prendiamo il caso in cui un agente deve decidere se cenare prima o dopo lo
spettacolo teatrale. Qui si tratta di ordinare le proprie ragioni, di dar loro una scansione
temporale. Quando si decreta la successione temporale di queste azioni si dà anche un
giudizio di importanza; si dice, per esempio, che preferiamo cenare prima di vedere uno
spettacolo. I nostri desideri di cenare e di vedere lo spettacolo teatrale contano come
ragioni per l’azione, e la deliberazione serve a stabilire una relazione di priorità tra queste
ragioni. L’esempio è banale, eppure è un esempio in cui si deve dire che l’agente sta
deliberando sui confini del proprio sé: decidendo di cenare prima dello spettacolo
teatrale, l’agente si è identificato con un certo ordinamento di importanza, ha stabilito chi
è, decretando che cosa gli sta più a cuore.
Ci sono altri casi di conflitto pratico in cui non si tratta di ordinare, ma di vagliare
l’autorità ed esaminare la legittimità di certe considerazioni che si propongono come
ragioni. In questi casi l’agente non si chiede quale desiderio abbia priorità, ma se debba
avere autorità e quindi se abbia peso normativo, cioè se conti come una ragione genuina.
Supponiamo che Mattia desideri davvero rivedere Shrek con il proprio figlio per la
trentesima volta, ma desideri anche andare a vedere Lost in translation con l’amica.
Supponiamo anche che questo conflitto di desideri si presenti con una certa
fenomenologia: il desiderio di uscire con l’amica gli evoca pesanti sensi di colpa, mentre
il desiderio di rimanere con il figlio gli evoca una specie di auto-compiacimento, un
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 59
confortevole senso di adeguatezza. In questo caso l’agente non si sta domandando come
ordinare, rendere compatibili e realizzare questi desideri. Piuttosto, si sta interrogando
sulla loro legittimità. Il suo problema è se dar spazio ad un desiderio piuttosto che ad un
altro. Il suo lavoro deliberativo consiste in una scrematura dei desideri con cui si
identifica e che ritiene debbano essere vincolanti. La risoluzione di questo genere di
conflitti pratici non è un ordinamento temporale, né un giudizio di importanza che
conferisce priorità ad uno dei due desideri incompatibili. Stabilire la legittimità delle
proprie volizioni è un’operazione molto più radicale dell’ordinamento. Si tratta di un atto
fondativo vero e proprio attraverso il quale si delimita il proprio sé.
La metafora dei confini del sé mi sembra utile proprio per mettere in luce che
decretare la legittimità di uno dei desideri in conflitto è un atto fondativo, simile
all’erezione delle mura di cinta della città. L’agente che determina che il desiderio di
passare il tempo con l’amica, anziché con il proprio figlio, è illegittimo si identifica
totalmente con il proprio ruolo di padre, e traccia così i confini del proprio sé. Tale
identificazione coincide, d’altra parte, con l’estromissione dell’altro desiderio al di fuori
del sé. Dopo l’atto di identificazione, il desiderio estromesso diventa una forza estranea,
non appartiene più all’insieme di progetti e obbiettivi che all’agente preme coltivare e
realizzare.
Naturalmente, il fatto che l’agente decreti che un desiderio non ha autorità, e che
non lo riconosca come suo, non ne determina necessariamente la sparizione,
l’attenuazione, o la modificazione; anzi, il l’estromissione del desiderio spesso è causa
della sua esacerbazione o del suo inasprimento. Ciò costituisce una fonte importante di
complicazioni per il ragionamento pratico. Ma qui mi preme solo precisare in che modo il
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 60
desiderio di cui si è decretata l’illegittimità viene percepito quando ricompare, come è
prevedibile che accada, in occasioni successive di deliberazione. È esperito come una
minaccia, e una minaccia alla propria integrità e stabilità. Le pressioni che questo
desiderio continuerà ad esercitare saranno d’ora innanzi percepite come un’invasione da
arginare. Il conflitto che si genera tra i desideri legittimi e desideri illegittimi è
rappresentato come una lotta che l’agente ingaggia contro un nemico esterno, una forza
estranea a lui. Il desiderio che prima era suo ora gli sembra una presenza aliena da
combattere e respingere (Frankfurt, 1988, 61; Frankfurt, 1999). L’unità della volontà
viene quindi stabilita attraverso la demarcazione dei confini del sé: così come le mura di
cinta sono il primo atto di fondazione e significano confinamento ed esclusione di ciò che
sta all’esterno, appartenenza e identificazione con ciò che sta all’interno.
La definizione di un esterno e un interno è un meccanismo elementare di autodifesa che abbiamo in comune con molti organismi, e ma di cui abbiamo fatto un’arte
(Dennett, 1991, pp. 414-417). Per quanto riguarda gli esseri umani, infatti, i confini non
solo identificano ed isolano un interno ed un esterno (come per l’ameba e il paguro), ma
delimitano anche in modo importante l’ambito di attività dell’agente. Essere agenti
significa non solo essere reattivi (respingere un nemico esterno, demarcare e difendere i
propri confini) ma soprattutto essere attivi, cioè capaci di organizzare i propri atti e i
propri piani in modo intelligente, secondo fini propri. L’attività precipua e distintiva
dell’agente è dunque il dare origine, l’essere il principio, progettatore, autore, creatore. In
questo senso ciò che si oppone all’essere agenti, o ciò che risiede al di là dei contorni del
sé, è tutto ciò verso il quale il sé è passivo. Quindi i confini del sé non segnano solo la
differenza tra esclusione e appartenenza, ma anche quella tra passività e attività. L’attività
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 61
che ci qualifica come agenti ci vede capaci di identificarci e riconoscersi nei propri piani
e fini. Rendersi vulnerabili all’esterno significa perdere il controllo delle proprie azioni,
cioè rendersi passivi, subire le pressioni esterne, non essere più autori dei propri piani.
L’estrema vulnerabilità, l’estrema friabilità dei confini del sé coincide con la passività,
con l’abdicazione a pensarsi come agenti, cioè come esseri intelligenti che sono capaci di
darsi dei fini e modificare il mondo esterno per realizzarli (Frankfurt, 1999; Korsgaard,
1999).
L’atto di fondazione e di esclusione con cui si stabiliscono i confini del sé e
l’ambito delle sue attività deve essere interpretato come un modo di distanziarsi da ciò
che non si vuole essere, e quindi come un modo di giudicare i desideri secondo un certo
ideale di identità pratica. È questo ideale che ci fornisce il criterio per determinare la
legittimità dei pensieri e dei desideri che ci occorrono. Una volta stabilita l’unità tramite
l’adozione di questo ideale, certi desideri non ci appartengono più e quindi non
rappresentano più delle ragioni genuine. Di conseguenza, certe possibilità che prima
avevamo contemplato non sono più opzioni reali per noi: è impensabile andare al cinema
con l’amica anziché rivedere Shrek col proprio figlio. È diventata un’impossibilità pratica
(Williams, 1994). Se per debolezza, distrazione o sconsideratezza, cedessimo alla
tentazione di rinunciare a vedere Shrek per la trentesima volta, il nostro figlioletto
smarrito avrebbe ragione a protestare: “Non ti riconosco più!”
Secondo Harry Frankfurt si può rendere conto dei nostri movimenti interiori, della
nostra vita mentale intera, parlando di questi due modi di risolvere i conflitti pratici:
l’ordinamento e l’esclusione. Gli atti di scansione temporale e di ordinamento dei
desideri che competono per la priorità, e gli atti di esclusione e identificazione
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 62
garantiscono una specie di integrazione statica del sé in quanto sono il fondamento di una
struttura riflessiva e gerarchica. Ma garantiscono anche un’integrazione dinamica, in
quanto gettano le basi per una coerenza deliberativa che si estende nel tempo (Frankfurt,
1988, p. 175). L’unità del volere e quindi la determinatezza nell’agire sono caratteristiche
di un sé sano, che esibisce una condizione speciale di libertà interiore, cioè, è libero di
fare ciò che ha deciso, senza dover combattere alcuna interferenza che provenga
dall’interno. Questo agente si compiace nell’azione, per così dire, e il suo compiacimento
è ad un tempo segno e premio di una deliberazione corretta. L’unità del volere è perciò il
bene più alto e il compito più arduo e più meritevole che ci dobbiamo proporre di
raggiungere quando ci pensiamo come agenti (Frankfurt, 2001, p.12).
Si badi che il ritratto del deliberatore che si costituisce e si compiace nell’azione
non è aristotelico. Infatti, la divisione del volere è caratteristica non solo dell’uomo
vizioso o incontinente, in balia delle proprie emozioni, e quindi condannato ad esperire
rincrescimento, come suggerisce Aristotele (Aristotele, 1166b5-25). Piuttosto, in questo
modello, la divisione del volere è la condizione propria degli esseri umani che si pensano
come agenti. L’essere divisi, essere costantemente impegnati nell’impresa di ricostituirsi,
di rimarcare i propri confini, di ricucire le falle del sé è la caratteristica condizione
umana. Questa impresa di auto-costituzione è continuamente rinnovata e rappresenta la
vita mentale, l’attività che fa di noi degli agenti. Per questa ragione la vita mentale è
senza posa, gli agenti sono sempre in movimento verso se stessi, e bisogna dare un
resoconto filosofico di questo movimento continuo, di questa plasticità (Arendt, 1971, pp.
44 ss; Lear, 1998, pp. 80-122 ; Korsgaard, 1999).
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 63
È facile osservare che la soluzione che Frankfurt prospetta, cioè l’estromissione di
uno dei desideri in conflitto, e l’identificazione con il suo opposto, presenta somiglianze
sospette con meccanismi di difesa quali la negazione e la rimozione. In un’ottica
psicodinamica, questi meccanismi spiegano i disordini di personalità. Prendiamo, ad
esempio, un famoso caso freudiano di ambivalenza: l’uomo dei topi. La causa della
nevrosi dell’uomo dei topi, che ama e odia suo padre, non è tanto l’ambivalenza, ma le
modalità con cui questo paziente si confronta con l’ambivalenza: cioè, appunto, la sua
identificazione totale con una sorgente del conflitto (l’amore per il padre), e la totale
negazione e rimozione dell’altra sorgente (l’odio per il padre). Tale negazione non
cancella, però, l’odio: negato e reso illegittimo, anziché scomparire, il sentimento di odio
si rafforza e trova espressione o personificazione in un’altra personalità, viene “ospitato”,
per così dire, da un altro locus di identità pratica. Prendendo spunto da questo caso
clinico, David Velleman obbietta a Frankfurt che l’esclusione del desiderio illegittimo
non è tanto la cura per il sé frammentato, quanto la causa della sua malattia (Velleman,
1999, p. 102).
Ma ci sono differenze importanti tra i meccanismi difensivi dell’ambivalente e
l’unificazione tramite identificazione e separazione che prospetta Frankfurt e che ho
illustrato con l’esempio di Mattia. In primo luogo, l’uomo dei topi non è consapevole del
proprio conflitto; anzi, il conflitto non viene mai a coscienza (Wollheim 1983, pp. 174182). In secondo luogo, la rimozione è un meccanismo difensivo irriflessivo e
inconsapevole con cui l’ambivalente gestisce la propria ambivalenza, mentre la
separazione di cui parla Frankfurt è una strategia consapevole e deliberata, è anzi uno dei
due modi fondamentali della deliberazione. L’identificazione non è dunque solo un
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 64
meccanismo psicologico, ma è una strategia tramite la quale l’agente costituisce
deliberatamente la propria identità pratica. Si tratta, inoltre, di una strategia che viene
raccomandata come il modo con cui si deve raggiungere l’unità del volere, e dunque non
solo ha natura normativa (a differenza della rimozione e di altri meccanismi psicologici),
ma ha anche uno statuto normativo privilegiato. Essa, cioè, non ci dà solo un criterio per
stabilire chi siamo, uno dei modi in cui si può costruire la propria identità pratica, ma il
criterio con cui bisognerebbe farlo. Perché possa svolgere questa sua funzione normativa
il metodo dell’identificazione e separazione deve essere adottato in modo trasparente.
Quando l’uomo dei topi tenta di ricostruire il proprio problema, utilizza delle
razionalizzazioni che conferiscono significato e struttura alla sua esperienza (Lear, 1998,
p. 96). Sebbene intelligibili, e cioè dotate di senso, queste ricostruzioni non sono però
trasparenti, appunto perché l’ambivalente non è nemmeno cosciente della sua
ambivalenza, e attinge a risorse psicologiche non deliberate. Al contrario, nell’esempio
che ho illustrato, Mattia è consapevole del proprio conflitto, delibera allo scopo di
risolverlo non per accantonarlo, e la sua decisione non è solo intelligibile, ma anche
giustificata alla luce della concezione di se stesso che ha maturato durante la
deliberazione.
Queste caratteristiche di consapevolezza, normatività e trasparenza, distinguono
in modo importante l’identificazione di cui parla Frankfut dalla rimozione, e sono perciò
sufficienti a replicare all’obiezione di Velleman. Tuttavia, l’idea che si possano, e si
debbano, tracciare i confini del sé attraverso un atto deliberato, trasparente e riflessivo,
mi sembra piuttosto problematica (Raz, 1997; Moran, 2002). Ci sono caratteristiche della
nostra personalità, atteggiamenti e desideri che vorremmo non avere, e di cui tuttavia non
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 65
siamo sempre pronti a sbarazzarci dichiarandoli estranei. Lo stesso si può dire di desideri
che non avevamo anticipato, e che ora complicano irrimediabilmente la nostra vita. Il
punto non sembra essere che senza questi tratti o desideri “scomodi” staremmo meglio,
non incontreremmo impedimenti interni e saremmo più contenti di noi stessi. Anche
quando crediamo fermamente di non dover dare seguito a certi atteggiamenti o desideri,
questo non ci richiede di negar loro appartenenza, relegandoli al di fuori del nostro sé.
Supponiamo che Mattia ami profondamente il proprio figlio, ma percepisca anche la
paternità come un onere gravoso. Supponiamo che consapevole di questi atteggiamenti
confliggenti, decida di sopportare un tale onere, e magari di sottoporsi alla trentesima
visione di Shrek. È in questo atto che Mattia si definisce. Se non sapessimo della
presenza di atteggiamenti confliggenti non sapremmo di che natura è la sua azione, né
che valore dare al suo sacrificio, se di sacrificio si è trattato. È importante per Mattia
riconoscersi in ciascuno di questi atteggiamenti. Ed è importante prendere in
considerazione ciascuno di questi sentimenti per rendere conto della qualità della
deliberazione e della scelta di Mattia.
Questo è vero anche nei casi in cui l’agente fallisce, sbaglia o è manchevole.
Supponiamo che un attore particolarmente sensibile al favore del pubblico si trovi ad
accettare copioni scadenti ma di effetto sicuro. Supponiamo che questo attore,
consapevole delle sue debolezze e dell’effetto deleterio che hanno sulla sua
professionalità, si rincresca profondamente delle scelte dettate dalla vanagloria. Se però
tentasse di giustificarsi dicendo che era “in preda ad un impulso che non riconosce come
suo”, saremmo inclini a dubitare delle sue parole, e in ogni caso a non considerarle
sufficienti a discolparlo. In un senso importante quest’uomo è responsabile di ciò che fa
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 66
per strappare l’applauso e guadagnare l’approvazione altrui, i suoi errori gli sono
imputabili anche se sono espressione di un atteggiamento che lui stesso vorrebbe non
avere. Sebbene non approvi la sua vanagloria, ci aspettiamo che l’attore si assuma la
responsabilità di quello che fa per vanagloria, e questo gli richiede, necessariamente, che
riconosca questa qualità come “sua”. Per dare significato al suo rincrescimento, bisogna
comprendere la forza di ciò che combatte e a cui soccombe. E per comprendere la misura
e il significato pratico della sua sofferenza bisogna situare quel desiderio entro i confini
del sé. Desideri, bisogni, interessi, qualità di cui non andiamo fieri sono tuttavia parte di
ciò che siamo. Sono nostri proprio nella misura in cui ci rappresentano ostacoli che
riteniamo degni di essere presi in considerazione, affrontati, compresi, combattuti,
superati o semplicemente respinti. Tali ostacoli non sono della stessa natura degli
impedimenti esterni che ci impediscono l’azione, come il ramo che ci blocca il passaggio,
la porta che troviamo chiusa. La lotta che sosteniamo per dar forma ai nostri desideri o
per trovar loro una collocazione o dar loro espressione, definisce non solo la nostra natura
di agenti limitati, ma anche la sostanza di ciò che siamo. Il giudizio che diamo di noi
stessi come agenti riguarda non solo il tipo di risposta pratica di cui siamo stati capaci,
ma anche le risorse deliberative che abbiamo attivato, e la natura e la grandezza degli
ostacoli che abbiamo percepito. Nella misura in cui i desideri ci pongono problemi
distintivamente pratici, e ci richiedono una risposta in qualità di agenti, sono in un senso
importante nostri anche quando non ci indentifichiamo con essi.
I desideri sono “nostri” non solo (e non sempre) nel senso che ci sono attribuibili.
Anzi, alcuni desideri non ci sono attribuibili perché per loro natura non sono modificabili
o sensibili al giudizio (Scanlon, 2002, p. 171). Tuttavia, la nostra identità di agenti viene
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 67
esercitata anche in relazione a questo tipo di desideri perché essi rappresentano dei
vincoli e degli ostacoli di cui ci dobbiamo preoccupare in quanto agenti. In altre parole,
tali desideri e qualità definiscono chi siamo perché limitano lo spettro di possibilità che
costituiscono per noi delle opzioni rilevanti. Essi rappresentano i nostri limiti ma anche le
nostre risorse. I contorni della nostra identità, e quindi i limiti del nostro essere agenti,
sono negoziati tramite le relazioni che gli elementi della personalità che ci capita di avere
intrattengono con l’ideale di identità pratica che abbiamo adottato. È quindi un errore
confondere i confini del sé con l’ambito dei desideri che meritano la nostra approvazione
e identificazione. Sgombrare il campo da questo errore significa anche prepararsi a
vedere la perplessità morale e le sue conseguenze filosofiche in una prospettiva diversa e,
a mio avviso, più adeguata.
La mancanza di integrazione del sé e la frammentazione della volontà danno
origine a fenomeni diversi. Se dovessimo seguire Frankfurt fino in fondo dovremmo dire
che in tutti i casi in cui gli agenti mancano delle risorse deliberative per raggiungere
l’unità della volontà, i confini del loro sé sono malcerti, porosi o friabili, e perciò questi
agenti mancano tutti di unità e di identità pratica. Nei paragrafi che seguono vorrei
mostrare che bisogna distinguere tra fenomeni in cui non c’è unità del volere, e fenomeni
in cui i confini del sé non sono marcati. L’investigazione di questa differenza mostra che
la perplessità morale non può essere trattata alla stregua di un conflitto pratico; per
comprendere appieno la rilevanza filosofica del dilemma morale bisogna dunque
ripensare il ruolo della deliberazione e la sua relazione con l’identità pratica.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 68
3.2 Ambivalenza, perplessità, e scissione del sé
Si potrebbe pensare che il fenomeno più simile alla perplessità morale, cioè
all’esperienza soggettiva del dilemma morale, sia l’ambivalenza. In entrambi questi casi
l’agente è diviso tra due atteggiamenti opposti, la sua attenzione si posa in modo
intermittente su aspetti della situazione che suggeriscono corsi di azione incompatibili.
Entrambi i fenomeni sono solitamente classificati come speci di incoerenza (Frankfurt,
2001, p. 11; Frankfurt, 1999, p. 127).
L’ambivalenza non è caratterizzabile semplicemente come “indecisione”.
L’ambivalente oscilla tra un giudizio e il suo contrario, perché è sensibile a descrizioni
contrastanti, e si sottopone a comandi contrari. Secondo Frankfurt l’ambivalenza è un
tipo particolarmente pernicioso di irrazionalità pratica perché impedisce l’azione, ed è
segno di un sé sofferente e instabile, dai confini ondeggianti e le basi malferme. L’azione
dell’ambivalente è continuamente impedita da ostacoli e vincoli interni. Le sue volizioni
rappresentano l’una all’altra ostacoli non meno pesanti da rimuovere di ostacoli esterni
(Neilly, 1974). Ma forse sarebbe più corretto dire che per l’ambivalente ha poco senso
distinguere tra ostacoli “esterni” ed “interni”, poiché si tratta di un individuo poco
individuato: è un agente che non ha ben marcata la linea di separazione tra ciò che ricade
all’interno e ciò che ricade all’esterno del suo sé.
Come l’ambivalente, l’agente perplesso oscilla ed è paralizzato. La deliberazione
di chi esperisce un dilemma morale è caratterizzata dall’impossibilità di considerare
determinanti ragioni che pur si impongono alla mente come inviolabili e ineludibili; da
qui, oscillazioni e paralisi. C’è, tuttavia, una differenza
sostanziale tra i due casi.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 69
L’ambivalente nutre atteggiamenti contrari verso lo stesso oggetto che gli impediscono di
unificare il propro volere e concepire l’azione. Nel dilemma, invece, l’agente giudica che
le ragioni che sta vagliando non giustificano alcuna linea di condotta, e perciò concepisce
la sua azione come arbitraria. Il giudizio di arbitrarietà a cui perviene l’agente perplesso è
una conclusione del processo deliberativo. Egli conclude, dopo aver dato fondo a tutte le
sue risorse deliberative, che nessuna delle ragioni per l’azione è determinante, cioé
predominante e non predominata da altre ragioni. Per l’ambivalente la paralisi e
l’oscillazione precedono la deliberazione; l’ambivalente semplicemente non è un agente.
Distinguere tra ambivalenza e perplessità morale ha conseguenze importanti per
stabilire la relazione tra come opera la volontà e come si tracciano i contorni del sé. Dare
plausibilità alla perplessità morale significa infatti ammettere che un processo
deliberativo condotto correttamente può non risultare nell’unificazione della volontà, e
quindi nella determinazione dell’azione. La questione che si solleva a questo punto, però,
è a che serva la deliberazione. Se la deliberazione non si conclude sempre con un
giudizio determinato sull’azione qual è il suo fine generale?
La mia proposta è che i compiti della deliberazione non riguardino solo l’azione
propriamente intesa, che è di necessità un’attività unificante e un’operazione della
volontà. Vi sono attività del sé differenti dalle operazioni della volontà che mirano a
costituire o a ricostituire l’integrità. L’unità della volontà, il compiacimento nell’azione,
non è l’unico modo che abbiamo per costituirci come agenti dotati di integrità.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 70
3.3 Il giudizio di arbitrarietà
Quando deliberiamo non cerchiamo solo di capire che cosa dobbiamo fare, ma offriamo e
valutiamo delle rappresentazioni e delle concezioni di noi stessi come agenti nello sforzo
di raggiungere l’integrità. Il conflitto morale rappresenta un problema per l’agente perché
ne minaccia l’unità e quindi mette in discussione l’immagine che egli ha di sé stesso. La
deliberazione ha lo scopo di portare all’unità le voci discordi che spingono ciascuna verso
azioni alternative. Risolvere il conflitto di ragioni per l’azione tramite deliberazione è il
modo fondamentale in cui si raggiunge l’integrità.
Ora, potrà sembrare che proprio per l’importanza che accorda all’integrità questo
resoconto della deliberazione è incapace di far posto al dilemma morale, così come l’ho
definito. Infatti, ho sostenuto che il dilemma morale non costituisce un fallimento della
deliberazione, e tuttavia è un caso in cui l’azione evidentemente non unifica la volontà,
non porta a compimento l’integrazione del sé. Ma questa caratteristica non è sufficiente a
considerare il dilemma alla stregua dell’ambivalenza, o dell’indecisione. Conviene
dunque esaminare nei dettagli che cosa comporta l’integrità e quali sono i modi dell’autointegrazione.
Vi sono molti modi in cui un agente (minimamente unificato, tanto da costituire
un locus di identità pratica, una “unità deliberativa” (unit of agency) può procedere ad
integrarsi, ma solo alcune strategie sono appropriate. Riservo il termine integrità a quella
condizione di unità che è stabile in quanto basata su ragioni, che viene raggiunta
attraverso la deliberazione, cioè attraverso procedimenti di valutazione razionale. Si
osservi che il termine integrità non ha connotazione morale, in questo contesto.
L’integrità è una condizione dell’agire morale, o anche costitutiva dell’agire morale, ma
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 71
non è una virtù o qualità morale (come la sincerità, per esempio). D’altra parte, l’integrità
di cui parlo non è nemmeno una qualità puramente psicologica. Ciò che preme, infatti,
non è l’integrazione psicologica, ma invece la costruzione di una prospettiva da cui
esaminare e criticare i nostri desideri, bisogni, interessi, e qualità. È per questo che
ricorriamo a ragioni per agire. L’idea che sta dietro a queste osservazioni è che solo la
valutazione razionale produrrà un agente appropriatamente unificato, cioè un agente
dotato di integrità.
In alcuni casi si tratta di stabilire delle relazioni di priorità; in altri casi di
stabilirne la legittimità. Alcuni conflitti morali possono essere risolti alla stregua di
conflitti pratici, cioè, attraverso l’individuazione di una scansione temporale, un
ordinamento gerarchico, oppure un esame di legittimità. Tuttavia, il dilemma morale non
appartiene a nessuna di queste categorie del conflitto pratico, e non ammette tipi di
risoluzione che sono caratteristici dei conflitti pratici. Né l’ordinamento temporale o
gerarchico, né l’esclusione sono soluzioni ammissibili. Il problema di chi affronta un
dilemma morale è proprio quello di preservare o riguadagnare l’integrità in assenza di
relazioni di priorità determinate tra ragioni morali pertinenti eppure non predominanti.
Per esempio, Sophie potrebbe rifiutarsi di pensare che la scelta impostale
dall’ufficiale nazista è un conflitto che sta a lei risolvere. Anziché pensare come uscire
dal dilemma, potrebbe rifiutare di cercare una soluzione e guardare alle condizioni di
ingiustizia che hanno dato origine al problema. Il giudizio a cui l’agente è arrivato
attraverso una deliberazione corretta, in questo esempio, è che la sua azione è in un senso
importante arbitraria: si tratta di un’azione che non può essere giustificata da alcuna
ragione predominante. Non c’è alcuna considerazione che possa giustificare alcuna delle
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 72
azioni alternative che l’ufficiale tedesco le presenta come opzioni. Nessuna di queste
azioni è, dal punto di vista di Sophie, una vera possibilità, un’azione che ha senso
contemplare come opzione reale. Sophie giudica che non ci può essere giustificazione
alcuna. La percezione del dilemma viene a concludere la deliberazione, non ne segna
l’inizio. Non si può deliberare oltre.
Sarebbe un errore formidabile trattare la percezione del dilemma come fosse la
percezione di un bisogno di risolvere il conflitto. Si tratta, invece, della percezione che un
tale conflitto non può che rimanere irrisolto. Gli agenti che affrontano queste situazioni
preferirebbero non esservisi trovati. Desidererebbero non dover scegliere, anche quando
riconoscono che la scelta è urgente e necessaria. Ma è fuorviante dire che questi agenti si
interrogano, si disperano, cercano aiuto o consiglio allo scopo di risolvere il loro
conflitto. La scelta di Sophie posta di fronte al dilemma di consegnare uno dei suoi figli
all’ufficiale nazista non sarebbe tragica e orrenda quanto grottesca, se la si rappresentasse
come la ricerca di soluzione. Non ci può essere alcuna soluzione al dilemma di Sophie, e
Sophie lo sa meglio di chiunque altro.
Una persona che esperisce il dilemma morale non è dunque qualcuno che si trova
di fronte ad un ostacolo e cerca di superarlo o anche solo di aggirarlo attraverso la
deliberazione. Lo scopo della deliberazione non è semplicemente quello di rimuovere
impedimenti all’azione e determinarci, ma quello di determinarci in modo che abbia
ancora senso per noi parlare di integrità. Ora, si potrebbe obbiettare che questa
conclusione sia affrettata perché è basata su un tipo particolare di dilemma morale, quello
tragico. Consideriamo allora altri esempi.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 73
Emma è una donna omosessuale che matura un forte desiderio di maternità. La
legge del suo paese non consente a coppie omosessuali di adottare bambini. Emma si
trova perciò ad una scelta dilemmatica: abbandonare il suo progetto di maternità, oppure
la sua relazione omosessuale. Dopo averci deliberato sopra, Emma conclude che sebbene
questo sia un suo problema, non è a lei che spetta trovarne la soluzione. La soluzione del
problema
comporta
il
ridisegnare
istituzioni
più
giuste,
cancellare
pratiche
discriminatorie nei confronti degli omosessuali. Come Sophie, Emma conclude la sua
deliberazione con un giudizio che stabilisce l’arbitrarietà dell’azione, ma non considera
questo un suo fallimento deliberativo. Anche se la deliberazione non si è conclusa con
una prescrizione determinata, non ha lasciato immodificata la percezione che Emma
aveva della situazione. Attraverso la deliberazione Emma ha anzi conseguito un risultato
importante: ha capito perché nessuno dei corsi di azioni che le si presentano come
alternativi sono espressivi della sua integrità, ed ha compreso che ciò che conta come un
dilemma suo, è un problema che deve essere affrontato da un’altra unità deliberativa,
delegato a chi disegna le istituzioni. Questa conclusione, sebbene non sia un atto della
volontà che si esterna in un’azione, demarca in modo importante i confini dell’identità
pratica di Emma, le sue responsabilità e il suo dominio di attività. Emma non sta
constatando un fallimento deliberativo, né sta affrontando un conflitto di obblighi, eppure
non sta scegliendo il male minore.
Non tutti i dilemmi morali hanno come cause condizioni di ingiustizia così
pervasive e profonde come nel caso di Sophie, ma tutti i dilemmi morali sono casi in cui
l’azione individuale non cancella l’arbitrarietà della scelta, e quindi non è mai una
risposta pratica adeguata. Allora ci si deve chiedere che cosa può contare come una
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 74
risposta adeguata in tali contesti, e di quali risorse disponiamo. A mio avviso, i sentimenti
morali sono le risorse pratiche a cui fare appello, ma per accogliere questa proposta
bisogna prima considerare qual è l’ambito e lo scopo della deliberazione.
3.4. Unità e integrità
Questi esempi ci pongono di fronte al seguente interrogativo: in che modo si può dire che
il giudizio di arbitrarietà conserva l’integrità dell’agente? Il giudizio di arbitrarietà è la
conclusione del processo deliberativo di un agente che ha vagliato accuratamente tutte le
ragioni morali da cui si sente vincolato. Giudicando che non vi è alcuna risoluzione
morale, l’agente rafforza la propria lealtà e fedeltà rispetto alle ragioni che ritiene
vincolanti, presta attenzione ai modi in cui il dilemma minaccia la sua integrità morale, e
riafferma la propria personalità morale. È attraverso la denuncia dell’arbitrarietà
dell’azione, la constatazione dell’impossibilità di operare una scelta giustificata da
ragioni, che l’agente si mette nella posizione di ricostituire la propria integrità morale.
Laddove non vi sia un’azione giustificabile, la personalità e l’integrità dell’agente si
esprimono attraverso l’adozione di atteggiamenti morali appropriati.
Conviene a questo punto precisare e distinguere tra integrità e unità. Ho sostenuto
che la deliberazione mira all’unificazione del sé. Ciò significa che chi siamo dipende in
gran parte da come deliberiamo, e quindi siamo partecipi e responsabili del proprio
carattere. Siamo dotati di risorse psicologiche per contenere o arginare le conseguenze di
atti e scelte distruttivi del sé, e siamo capaci di meccanismi difensivi quali lo
spostamento,
la
manipolazione,
la
negazione,
la
sublimazione,
la
compartimentalizzazione, la disattenzione, o l’oblio. Se il nostro scopo di animali
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 75
razionali fosse solo quello di conservare una certa unità e, quindi garantire la propria
auto-intelligibilità, cioè la possibilità di raccontarsi in modo coerente e intelligente, ci
sarebbe sufficiente dimenticare, autoingannarsi, o semplicemente negare l’importanza
delle ragioni che non abbiamo potuto ascoltare. La mente divisa non sa dare un resoconto
coerente ed intelligibile dei suoi percorsi: l’uomo deliberante non si può narrare proprio
perché non ha ancora raggiunto un centro di gravità narrativa, questo sarà il risultato della
deliberazione. Dare unità significa conferire un centro di gravità narrativa intorno al
quale organizzare l’intelligibilità delle proprie azioni, e alla fine, di sé stessi. La
perplessità è un caso estremo di mancanza di centro di gravità narrativa.
Non tutti i tipi di integrazione sono moralmente ammissibili e non tutti i modi di
perseguire unità e darsi una struttura intelligibile si equivalgono. L’integrità è un tipo
specifico di integrazione normativa del sé che ci guida come un ideale regolativo durante
la deliberazione. Siccome le scelte che affrontiamo sono sempre diverse e muovono
continue sfide alla nostra integrità, non si può dire che questa sia uno stato permanente,
ma se mai una condizione ideale a cui aspirare. Appartiene all’indagine normativa la
specificazione delle caratteristiche di questo ideale, ma sia sufficiente dire che non tutte
le modalità di auto-integrazione sono moralmente e praticamente ammissibili.
Torniamo allora alla questione se la percezione del dilemma è la percezione del
fallimento deliberativo, della perdita di unità e integrità, di una smagliatura irrimediabile
nel tessuto narrativo del sé. Per rispondere adeguatamente a queste domande bisogna, a
mio avviso, apprezzare tre caratteristiche fondamentali del dilemma. In primo luogo, gli
agenti moralmente perplessi non sono semplicemente sopraffatti dall’enormità della
scelta che si trovano ad affrontare. Il loro giudizio di arbitrarietà è il risultato ponderato
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 76
della deliberazione. In secondo luogo, tale giudizio implica che la risposta appropriata in
questa situazione non è un’azione: non c’è un’azione tra le alternative disponibili
all’agente che possa dirsi espressiva e anzi costitutiva della personalità e dell’identità
pratica dell’agente. Ciò significa che l’azione (p.e. l’azione di Sophie di consegnare
all’ufficiale tedesco la figlia) non è rappresentativa dell’ideale di identità pratica in cui
Sophie si identifica e quindi non può proporsi come risoluzione del conflitto. Ciò
significa anche che l’azione non è il tipo di attività che conclude la deliberazione
dell’agente, che la può unificare e ricostituire. In terzo luogo, le sorgenti di arbitrarietà
possono essere diverse, e possono essere identificate attraverso un’investigazione
filosofica della fenomenologia con cui si presentano, cioè prestando attenzione
all’atteggiamento che l’agente ha verso le proprie opzioni. Merita ora soffermarsi su
questi due ultimi aspetti.
3.5 Azione arbitraria e continuità nel tempo
Si potrebbe dire che nei dilemmi morali tragici come quelli di Sophie o di Agamennone
non vi è alcuna attività che può ricostituire e re-integrare la mente dell’agente diviso, e
che dunque si deve parlare non più di un agente diviso (come lo è all’inizio della
deliberazione), ma di un agente distrutto da un conflitto insuperabile. Per Frankfurt il
conflitto morale tragico è paradigmatico della dissoluzione del sé. Più precisamente,
l’azione intrapresa in assenza di ragioni morali predominanti è un’azione che invece di
costituire o affermare l’identità dell’agente, la viola, la sacrifica. L’azione arbitraria viene
cioè caratterizzata non solo come una violazione ma anche come un tradimento di sé
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 77
stessi. Metafore come il tradimento e il sacrificio sono particolarmente congrue alle scelte
tragiche. Per esempio, scrive Harry Frankfurt:
Agamennone in Aulide fu distrutto da un conflitto
inevitabile tra due elementi ugualmente fondamentali della
sua natura, l’amore per la figlia e l’amore per la flotta che
comandava. Quando si trova costretto a sacrificare uno di
questi elementi si trova costretto a tradire sé stesso.
Raramente tragedie di questo tipo hanno un seguito, se mai
lo hanno. Dal momento che l’unità del volere dell’eroe
tragico è stata irreparabilmente compromessa, c’è un senso
in cui la persona che è stata non esiste più. Dunque non può
esservi una continuazione della storia. (Frankfurt, 1999, p.
139 n38.)
Questo trattamento del dilemma morale è spesso sottinteso o difeso solo implicitamente
nelle teorie contemporanee della deliberazione (Korsgaard 1996, p. 100). Si tratta di un
resoconto che sebbene intuitivamente attraente e plausibile, si regge su premesse teoriche
che, una volta esplicitate non sono né ovvie né così attraenti. Ciò che è promettente in
questa concezione del dilemma morale è che la portata filosofica viene spiegata dal punto
di vista dell’agente. L’identità pratica di un agente è determinata dall’adozione di certi
desideri. Nei casi di dilemmi, questi desideri che sono definitori del sé e identificano
l’agente praticamente, non possono essere soddisfatti contemporaneamente. L’azione in
questi casi porta allora alla disintegrazione del sé. Si badi che questa non è una metafora:
Frankfurt non sostiene solo che l’esperienza traumatica del dilemma cambia per sempre
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 78
l’agente, ma che ne modifica sostanzialmente i contorni della sua identità pratica, tanto
che non si può parlare più dello stesso agente. L’esperienza del dilemma è descritta alla
stregua di un tradimento di sé. Il sacrificio di Ifigenia macchia Agamennone di una colpa
da cui non c’è riscatto: con la vittima muore anche il carnefice, che ha rinnegato se
stesso. La vendetta di Clitennestra giungerà ormai troppo tardi. Sotto questo aspetto le
decisioni tragiche somigliano alle conversioni radicali: Agamennone in Aulide è come
Saulo sulla strada di Damasco. Dopo la decisione nessuno di questi agenti può dirsi la
stessa persona. Non è solo che la loro vita sarà per sempre diversa, ma che i loro sé
acquisiscono un diverso centro di gravitazione narrativa, i contorni della loro identità
pratica vengono ridisegnati altrimenti, secondo altre direttrici.
Ora, sebbene suggestivo, questo accostamento è alquanto fuorviante. Per
comprendere la conversione di Saulo, e rendere conto della sua esperienza della
conversione è necessario dire che Saulo e Paolo sono due persone essenzialmente
diverse. Il significato della conversione consiste proprio in questa soluzione di continuità;
e forse anche la possibilità del riscatto morale coincide con una cesura, con il
rinnegamento del sé precedente. Ma per comprendere la gravità della decisione di
Agamennone, e le sue conseguenze, è importante non rinunciare a ritenerlo il medesimo
locus di responsabilità. La sua scelta risulta tragica proprio perché Agamennone continua
a identificarsi con gli stessi desideri e progetti fondamentali che lo identificavano prima
del sacrificio di Ifigenia. Se Agamennone non si percepisse essenzialmente come la
stessa persona, gli sarebbe impossibile guardare alla sua decisione con rincrescimento,
ascoltare con vergogna il rimproveri del coro, aspettare con un misto di rassegnazione e
sollievo la vendetta di Clitennestra. Accogliere la tesi secondo cui l’esperienza del
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 79
dilemma morale è dissolutiva del sé significa cioè impedirsi di comprendere gli
atteggiamenti (di rincrescimento, colpa, rimorso), le azioni autopunitive o riparatorie che
sono tipiche degli agenti che hanno esperito il dilemma. Tali atteggiamenti e azioni
riparatorie e auto-riparatorie ci dicono qualcosa di molto importante a proposito
dell’agente, anzi di altrettanto importante e rivelatorio di quanto lo sia l’azione in caso di
conflitto. L’azione arbitraria ha comportato una violazione del sé dell’agente, ma non la
sua disintegrazione.
Ci sono importanti vantaggi teorici a prendere sul serio la tesi della continuità del
sé prima e dopo la scelta tragica, e dunque la continuità dell’agente attraverso
l’esperienza del conflitto. In primo luogo, la tesi della continuità ci consente di mettere in
luce una caratteristica distintiva della nostra identità pratica, e cioè l’auto-riflessività
diacronica. La nostra natura di agenti non si dispiega solo attraverso l’esecuzione di
azioni e la realizzazione di piani, ma anche attraverso il riesame di attività, progetti e
desideri con cui ci eravamo identificati in passato. L’aspetto decisionale ed esecutivo del
nostro essere agenti è certo un aspetto essenziale, ma non è l’unico modo in cui
esprimiamo la nostra razionalità pratica e la riaffermiamo re-identificandoci nel tempo
(Bagnoli, 2004b). Per esempio, l’identità pratica di Agamennone emerge non solo nella
decisione di sacrificare Ifigenia, ma anche nella qualità della sua deliberazione in
proposito, nel sentimento di rincrescimento che segue il sacrificio, nella perplessità che lo
precede, nel modo in cui interpreta il corso degli eventi, nello spettro di possibilità che
contempla prima e dopo l’esecuzione dell’atto sacrificale. Per ritrarre Agamennone come
un agente auto-riflessivo, capace non solo di pianificare un’azione, ma anche di
riesaminare il proprio operato e sottoporre a scrutinio i propri sentimenti e atteggiamenti,
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 80
bisogna accogliere la tesi della continuità. È questa tesi che ci consente di affrontare una
serie di questioni riguardo ad Agamennone che altrimenti ci sono precluse. Tali questioni
riguardano il cambiamento di Agamennone attraverso l’esperienza del dilemma, il modo
in cui patisce e subisce le condizioni dilemmatiche di scelta, il modo in cui reagisce a tale
esperienza, e quindi anche le attività riparatorie ed auto-riparatorie che è in grado di
mettere in atto dopo la decisione. Affrontare tali questioni significa cessare di considerare
il dilemma morale come un caso di scelta isolato, e invece riconsiderarlo alla luce della
storia dell’agente.
3.6 Integrità e continuità narrativa
L’importanza di insistere su questo aspetto del dilemma morale, cioé sulla sua
collocazione all’interno della storia dell’agente ci rivela un’altra caratteristica essenziale
dell’identità pratica, ovvero la sua struttura narrativa. Ciò che ci qualifica come agenti
non è solo la nostra capacità di essere in controllo delle proprie azioni, le operazioni del
nostra volontà, ma la capacità di rappresentarci in un certo modo e di dirigere la nostra
influenza sul mondo secondo certi piani e a partire da queste rappresentazioni. Un’autorappresentazione intelligente o auto-riflessiva ha struttura narrativa (Dennett, 1990, pp.
74-100; Bruner, 1990; Freeman, 1993; Schechtman, 1996; Lear, 1998). È vero che la
deliberazione ha come scopo principale quello di stabilire che cosa fare; ma la domanda
“che fare?” non viene posta nel vuoto. Quando ci interroghiamo su che cosa fare ci
interroghiamo sulle possibilità che hanno senso per noi, secondo la narrativa che abbiamo
costruito di noi stessi.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 81
Ma ciò significa anche che le risorse deliberative a cui possiamo attingere sono
più varie e diversificate di quelle che dirigono la nostra attenzione su un particolare corso
d’azione. Il dilemma morale ci insegna dunque che quando l’azione è arbitraria bisogna
guardare ad altri modi per esprimere (preservare, proteggere, costituire o riparare) la
propria integrità.
3.7 L’integrità e le attività riparatrici del sé
Gli agenti perplessi si sentono e sono scissi perché non vi è una rappresentazione unica
della situazione che può esprimere pienamente il loro punto di vista e dar voce a tutte le
loro esigenze. Non c’è speranza che intraprendere un corso di azione anziché un altro li
costituisca o ricostituisca come agenti unificati. Al contrario, è proprio l’azione che li
scinde, talvolta irrimediabilmente. La domanda che si impone a questo punto è qual è
l’attività pratica che preserva o esprime l’integrità dell’agente in condizioni di scelta
dilemmatiche, quando non si può trovare unità nell’azione. Il giudizio di arbitrarietà
significa non solo che il dilemma è un caso di conflitto morale irrisolvibile, ma anche che
la risposta appropriata in tali circostanze, cioè la risposta pratica che conserva ed esprime
l’integrità dell’agente, non può darsi come azione. I corsi di azione disponibili non sono
rappresentativi di ciò che l’agente considera una risoluzione appropriata. Perciò l’attività
pratica che costituisce o ri-costituisce l’agente diviso da ragioni morali incompatibili non
può darsi sotto forma di azione. L’alternativa emerge se prendiamo in considerazione lo
spettro di atteggiamenti e sentimenti morali che emergono dopo la deliberazione in
condizioni dilemmatiche. Per esempio, la scelta di Sophie può provocarle disperazione,
senso di annichilimento, umiliazione, rimorso. Agamennone prova rincrescimento. Emma
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 82
prova umiliazione, senso di colpa e rabbia. Questi atteggiamenti rivelano modi differenti
in cui l’agente sopporta la disintegrazione del sé o la violazione della propria integrità, e
indicano anche significati diversi delle scelte che hanno operato, e segnalano modalità
diverse di auto-ricomposizione o di riparazione in seguito alla scelta dilemmatica. Tutti
questi atteggiamenti rivelano una sorta di scissione e disintegrazione, che sono
caratteristiche
della
fenomenologia
del
dilemma
morale,
ma
non
rivelano
necessariamente un fallimento deliberativo. I dilemmi di Sophie e Emma, in particolare,
non sono esempi di errori deliberativi, di decisioni sbagliate, ma denunciano le condizioni
di ingiustizia in cui queste persone si sono trovate ad agire. In questi casi, allora, la
percezione del dilemma non è la percezione di un errore imputabile all’agente, ma
richiama l’attenzione sulle condizioni esterne che rendono qualsiasi azione inadeguata. In
condizioni dilemmatiche di scelta, gli atteggiamenti con cui l’agente affronta il conflitto e
sopporta le conseguenze della sua azione arbitraria sono più espressivi e anzi costitutivi
dell’integrità dell’agente che non l’azione.
Ora, per poter sostenere che l’agente esprime e addirittura costituisce la propria
identità pratica attraverso certi atteggiamenti e sentimenti, bisogna avere una certa teoria
della sensibilità morale. Bisogna poter dire, cioè, che gli atteggiamenti e i sentimenti
morali hanno autonomia valutativa, sono modi indipendenti con cui si attribuisce valore.
La loro giustificazione non passa necessariamente attraverso la giustificazione di giudizi
corrispettivi ai quali essi si accompagnano. Il sentimento morale conta come una risposta
valutativa autentica, piuttosto che come una reazione emotiva che si accompagna ad un
giudizio valutativo. Può darsi anzi che il valutante non sia ancora in grado di formulare
un giudizio e che la formulazione del giudizio sia, in questo modo, preannunciata e
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 83
preparata da un sentimento morale. E tuttavia, anche in questo caso, non si può dire che il
giudizio si basa su un sentimento: il giudizio non c’è ancora, le emozioni lo precedono.
Può darsi, per esempio, che riflettendo sulle cause possibili del suo senso di colpa per non
aver mantenuto la promessa fatta all’amica, Mattia ‘scopra’ quanta importanza ha per lui
quell’amicizia. Questo giudizio di importanza non preesiste al senso di colpa, ma anzi
viene preannunciato da esso. Questa è una scoperta di quelle scoperte che riguardano noi
stessi: attraverso l’esperienza della colpa l’agente matura una certa valutazione delle
relazioni personali che intrattiene, la quale non apparteneva ancora alla sua riflessione
morale, di cui cioè non aveva ancora piena consapevolezza nel momento della decisione.
In questo caso i sentimenti svolgono una funzione euristica.
Nei casi di scelta dilemmatici, però, i sentimenti hanno un ruolo ancor più centrale
rispetto alla questione dell’integrità dell’agente. In primo luogo, essi hanno un ruolo
cognitivo in quanto richiamano l’attenzione sulle alternative che sono state trascurate
durante la deliberazione, o quelle che sono stata scartate di proposito. Essi segnalano
quegli aspetti dell’azione che hanno rilevanza morale, e li registrano come aspetti di cui
tenere conto in simili occasioni future di deliberazione. In secondo luogo, i sentimenti
morali esprimono l’atteggiamento dell’agente verso la propria scelta, verso la natura della
propria deliberazione, e verso le condizioni in cui si è trovato ad operare. In questo senso,
essi manifestano il carattere e la personalità dell’agente ed hanno significato espressivo.
Infine, i sentimenti morali sono modi in cui si attribuisce valore; sono, cioè, risposte
valutative autonome. In ragione di ciò, è riduttivo considerare i sentimenti morali
associati all’esperienza del dilemma solo nella loro funzione auto-punitiva e auto-
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 84
sanzionatoria. Essi sono importanti nella determinazione e anche nella riparazione
dell’integrità dell’agente in modi diversi e più complessi.
Dire che i sentimenti negativi possono fungere da risposte pratiche autonome
significa dire che sono la risposta appropriata che l’agente deve offrire in situazioni
deliberative in cui l’azione è impedita o l'agente non può scegliere per il meglio. In questi
casi i sentimenti non sostituiscono dei giudizi valutativi. Piuttosto, essi sostituiscono
l’azione morale. Si tratta di atteggiamenti deliberati nel senso che l’agente che è capace
di rincrescersi è anche un agente capace di ragionamento morale (Rorty, 1980, pp. 49092; Calhoun & Solomon, 1984; Bagnoli, 2000a). In questo senso essi sono il frutto della
deliberazione, e perciò non indicano l’incompletezza della deliberazione, ma anzi il suo
compimento. In certi casi, e specialmente nei dilemmi morali, l’agente non può far altro
che rincrescersi, e quindi deve essere giudicato sulla base della sua capacità di
rincrescersi.
Ciò mostra che la deliberazione non riguarda solo l’agire, ma anche il sentire: essa
riguarda, in genere, la definizione di sé come agente morale. I sentimenti morali hanno un
ruolo positivo di ridefinizione del sé in quanto ci rendono capaci di riconoscere noi stessi
come agenti dopo il conflitto, anche se non abbiamo potuto o saputo risolverlo in modo
morale. I sentimenti negativi ci consentono dunque di continuare il nostro lavoro di
agenti, dalla propria posizione di agenti, attraverso il conflitto, e nonostante il dilemma.
La possibilità che ho appena illustrato di continuare il proprio lavoro deliberativo
attraverso l’esperienza di certi atteggiamenti, quando l’azione è impossibile, fa emergere
due aspetti importanti della deliberazione: la sua inevitabilità e il suo carattere incessante.
Ricordiamoci l’esempio di Mattia: delibera correttamente di rimanere con il figlio
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 85
febbricitante anziché uscire con l’amica come le aveva promesso, eppure esperisce, e
appropriatamente, dei sentimenti di colpa per non avere mantenuto la promessa. Questo
esempio ci offre una direzione di indagine importante. La sofferenza di Mattia non è il
segno di un errore o di una sua debolezza, ma della risonanza che le scelte hanno per la
propria integrità. Si potrebbe dire che questo significa semplicemente che bisogna
prendersi cura delle conseguenze delle proprie decisioni, e considerare l’impatto che
hanno sul mondo, sia quando sono arbitrarie sia quando sono giustificate da ragioni
predominanti. Ma ciò che mi sembra importante qui non è tanto la relazione tra l’azione e
le sue conseguenze, quanto la continuità della deliberazione. Che Mattia, pur avendo
risolto correttamente il suo problema, ne abbia anche creato un altro (come riparare nei
confronti dell’amica?), e che questo nuovo problema ora meriti la sua attenzione,
significa che egli non può smettere di deliberare. Il dilemma morale è un caso particolare
solo perché il lavoro deliberativo dell’agente non può essere condotto attraverso l’agire e
non si conclude con l’azione. Eppure possiamo attingere ad altre risorse per continuare il
nostro lavoro deliberativo attraverso il conflitto. Essere agenti vuol dire principalmente
questo: essere ‘condannati’ a costruire problemi e cercare di risolverli, esaminare e
riesaminare il significato delle nostre risoluzioni, l’autenticità delle proprie ragioni, e
quindi riconsiderare la propria stabilità e trasparenza. Si delibera quando siamo diventati
degli interrogativi a noi stessi.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 86
4 I dilemmi morali e l’incommensurabilità dei valori
La concezione del dilemma morale e della deliberazione che ho proposto si pone in
alternativa ad un’altra che ha dominato incontrastata il dibattito filosofico
contemporaneo, e secondo la quale il conflitto morale è, alla radice, un conflitto tra valori
(Nagel, 1979, pp. 128-141; Williams, 1981, pp.54-70; Hare, 1981, cap. 2; Lukes, 1997).
In questa prospettiva, il dilemma morale viene spiegato con una certa ipotesi sulla natura
dei valori, l’incommensurabilità. Dire che i valori sono incommensurabili è come dire
che non c’è una scala unitaria comune con cui misurarli, e per questa ragione non si
possono sempre dare giudizi determinati su quale di due azioni è migliore, peggiore o
uguale, quando le azioni realizzano valori diversi. In questa prospettiva, è la
commensurabilità dei valori che garantisce la completezza della deliberazione, e la
capacità di dare giudizi determinati sull’azione. Il dilemma morale è un difetto
deliberativo nella misura in cui è un difetto di misurazione o di
comparazione
determinata tra alternative di valore. C’è dunque solo una sorgente interessante di
arbitrarietà, e cioè l’incommensurabilità dei valori. Se ne ricava, allora, che le teorie
pluraliste che ammettono un qualche grado di incommensurabilità debbano preoccuparsi
della possibilità del dilemma come una minaccia costante e come un problema a loro
peculiare. Infine, si sottintende che i dilemmi morali interessanti sorgono esclusivamente
in contesti in cui sono in gioco valori incommensurabili; la scelta in contesti dilemmatici
ma non pluralisti è una scelta priva di importanza morale. Questo significa anche che è
sufficiente ammettere l’incommensurabilità del valore per scongiurare la possibilità di
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 87
scelte dilemmatiche significative. In questo capitolo mi riservo il compito di mostrare che
la commensurabilità non ci mette in salvo da scelte gravi e dilemmatiche. Il mio
argomento a favore di quest’ultima tesi si basa sull’interpretazione morale dei cosiddetti
dilemmi simmetrici.
I dilemmi simmetrici sono casi in cui sono in conflitto due ragioni morali che
traggono la loro pari forza normativa dalla stessa sorgente di valore. Molti ritengono che
tali dilemmi non siano genuini perché la scelta riguarda quantità uguali dello stesso tipo
di valore. Che si scelga l’una opzione piuttosto che l’altra sembra, in questo caso,
indifferente. Ma se si accetta che il dilemma morale sia un fenomeno importante in
ragione della sua rilevanza per l’integrità dell’agente, come ho sostenuto nel Capitolo 3,
il giudizio di indifferenza diventa inaccettabile. A mio parere, ritenere che queste scelte
siano indifferenti mostra disinteresse e mancanza di rispetto per l’integrità dell’agente,
fraintende la ragione per cui i dilemmi sono una difficoltà per la teoria etica, e oscura la
ragione per cui sono un problema filosofico. Questa riflessione sulla natura morale della
scelta in contesti dilemmatici offre anche delle ragioni per riconsiderare la relazione tra
deliberare e commensurare. Sosterrò che la commensurabilità e l’incommensurabilità non
sono da trattarsi come ipotesi sulla natura del valore che vincolano e strutturano i contesti
deliberativi, ma sono invece il risultato della deliberazione.
4.1 Scelte simmetriche
I dilemmi simmetrici riguardano due ragioni in conflitto e delle quali nessuna è
predominante o predominata. Per esempio, supponiamo che Beatrice stia riflettendo
sull’educazione delle sue figlie gemelle, Gemma e Gaia. Ciascuna di esse ha diritto ad
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 88
un’educazione adeguata, ciascuna è dotata di notevole talento musicale, ma Beatrice non
può permettersi di far studiare pianoforte ad entrambe. Il dilemma di Beatrice riguarda
due piani di azione incompatibili giustificate da ragioni che traggono pari forza normativa
dalla stessa sorgente di valore. Questo dilemma potrebbe presentarsi in qualsiasi teoria
etica monista che riconosca un’unica sorgente di valore e quindi un solo modo di
determinare il valore delle azioni. Proviamo a formulare il problema nei termini di una
particolare teoria etica monista che è solitamente apprezzata per le sue alte capacità
normative, l’utilitarismo.
Supponiamo che Beatrice concepisca la deliberazione come un calcolo e che il suo
proposito sia di determinare quali delle alternative pesi di più e debba perciò essere
conseguita. Poniamo anche che Beatrice adotti una versione particolarmente esigente, e
proprio perciò promettente, della teoria utilitarista secondo la quale il valore differisce
solo in quantità, e le alternative possono essere ordinate esattamente in modo cardinale.
In altre parole, Beatrice assume che c’è commensurabilità, cioé, che le opzioni possono
essere misurate secondo una singola scala di valori. Per evitare un’obiezione che si
solleva subito a questo punto, circa la carente plausibilità descrittiva di questo tipo di
utilitarismo, dirò anche che Beatrice non è una utilitarista ingenua: è consapevole di
quanto il suo resoconto normativo semplifichi ed impoverisca la sua esperienza del
conflitto, e tuttavia è pronta a sopportare i costi di questa semplificazione nella speranza
di raggiungere una decisione razionale. Adottando questa versione così esigente di
utilitarismo monista, Beatrice è capace di ridescrivere il conflitto come un caso di parità
(tie): una scelta tra due opzioni che hanno esattamente lo stesso valore, uguale valore
dello stesso tipo.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 89
È una tesi condivisa che questo genere di conflitti sia poco interessante perché
presentano una soluzione ‘ovvia’: come dire che dilemmi morali genuini sono impossibili
in questa rappresentazione utilitarista. Naturalmente si può discutere se valga la pena
accettare una semplificazione così estrema della fenomenologia della scelta morale allo
scopo di raggiungere una decisione, ma vi è un accordo piuttosto generale sull’idea che
una tale semplificazione è sufficiente a garantire la determinatezza normativa. Ciò che
motiva questo accordo è l’idea che la parità non sia un problema morale genuino. Per
alcuni la parità non è un problema morale perché in tali casi l’agente ha solo un obbligo
disgiuntivo; così, Beatrice ha l’obbligo di far studiare musica ad una delle due figlie, ma
non a tutte e due (vd. Feldman, 1986, p. 201; Herman, 1993, pp. 159-173; Statman, 1995,
pp.112, 75; Hansson, 1999, pp. 433-440). Altri ritengono invece che la parità, così come
altri casi più complessi di dilemma simmetrico, non siano problemi genuini perché
possono essere facilmente risolti tramite randomizzazione. Di questo parere sono Alan
Donagan e Alastair MacIntyre, i quali negano la rilevanza morale dei dilemma
simmetrici, e li riducono a dilemmi della razionalità in cui si dovrebbe scegliere una delle
due opzioni, non importa quale (Donagan, 1984; MacIntyre, 1990).
Il mio proposito è di mostrare che questi argomenti si fondano su una confusione
riguardo al significato della scelta. Il primo argomento secondo il quale nelle scelte
simmetriche si ha solo un obbligo disgiuntivo non è convincente: proprio perché vi è solo
un obbligo disgiuntivo l’agente si trova nella difficoltà di decidere che cosa fare. Non
solo questa descrizione del conflitto non aiuta l’agente a prendere una decisione, ma non
rende nemmeno conto del perché questa possa essere una scelta sofferta. Proprio perché
Beatrice è costretta da un obbligo disgiuntivo si trova nella difficoltà di decidere che cosa
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 90
fare. Dire che semplicemente non importa quale opzione Beatrice scelga, purché ne
scelga una, non rende giustizia al modo in cui Beatrice percepisce il suo problema
morale. Si potrebbe dire che quando l’obbligo è disgiuntivo non ci si trova di fronte ad
una indeterminatezza preoccupante perché l’agente in fondo non può sbagliare: qualsiasi
alternativa va bene. Ma questa è una consolazione di poco conto per l’agente, e
soprattutto assume ciò che invece bisogna mostrare, e cioè che in caso di parità la scelta è
indifferente. Questa stessa tesi è alla base anche del secondo argomento. Nei due
paragrafi che seguono cercherò di mostrare che la tesi dell’indifferenza della scelta è
implausibile, e che per questa ragione gli argomenti principali contro la rilevanza morale
dei dilemmi simmetrici sono scorretti.
Ma come si spiega che vi è un accordo così generale sulla marginalità o l’irrilevanza
dei dilemmi simmetrici? Vi è una preoccupazione generale che spinge a dubitare della
rilevanza dei dilemmi simmetrici. Sembra che considerare questi casi di scelta come
dilemmatici abbia effetti devastanti per la teoria etica e conduca l’agente ad una specie di
paralisi. Questo sembra seguire dall’idea che se una scelta simmetrica è dilemmatica
allora tutte le alternative sono proibite; si finisce così per rendere proibite tutte le azioni
che
realizzano pari valore. Ma non è affatto ovvio che in un dilemma morale le
alternative siano tutte proibite. Anzi, in base alla definizione che ho offerto nel Capitolo
2, non segue che in un dilemma tutte le alternative siano proibite.
Inoltre, questo modo di porre il problema suggerisce che i dilemmi genuini siano
scelte impossibili tra due mali, e che non si possa mai considerare dilemmatica una scelta
tra due beni (Gowans, 1994; Statman, 1995; Foot, 1995). Questo suggerimento è però
piuttosto curioso perché presumibilmente un agente morale dovrebbe interessarsi di dare
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 91
ragione delle proprie azioni, sia nel caso che le alternative contemplate siano cattive sia
nel caso che siano buone. In particolare, questo argomento ha implicazioni piuttosto
discutibili quando si considerano i contesti pluralisti di scelta nei quali il problema
morale dell’agente è proprio di scegliere tra corsi di azioni differenti che sono giustificati
sulla base di valori differenti e incommensurabili. Se la scelta tra beni non ha rilevanza
morale, allora si deve dire che in tutti i contesti pluralisti la scelta non è moralmente
problematica né interessante: è un mero embarrass de richesse. Ma questa
caratterizzazione della natura della scelta nei contesti pluralisti è, evidentemente, molto
discutibile.
Nei conflitti morali (simmetrici e non-simmetrici) è importante non tanto che una
decisione venga presa, quanto che l’agente possa dare ragione della propria scelta, e
considerarla quindi espressiva e costitutiva della propria identità pratica.
4.2 Strategie di arbitraggio
Gli argomenti contro la rilevanza filosofica dei casi simmetrici di dilemma si basano
sull’assunzione che in tali casi la scelta è indifferente. Eppure questa è una tesi che non
può essere sostenuta senza qualificazioni. Se davvero non importasse come si sceglie nei
dilemmi simmetrici, allora non dovrebbe importare neanche come si supera un giudizio
di parità. L’agente potrebbe arbitrare (break the tie) seguendo una semplice preferenza
personale o delegando la scelta a qualcun altro. Per esempio, Beatrice potrebbe decidere
di agire guidata dalla sua predilezione per la figlia Gemma, sebbene con il solo intento di
evitare lo stallo deliberativo. Questa decisione suona subito iniqua nei confronti di Gaia;
un atto di discriminazione ingiustificata nei suoi confronti. Supponiamo, allora, che per
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 92
evitare atti discriminatori, e non sapendo come altro scegliere, Beatrice decida di delegare
la questione al padre delle gemelle; sarà lui a prendere una decisione purché sia. Con
questa manovra, però, Beatrice non risolve il problema morale, vi ha rinunciato; con un
atto di delega, ha semplicemente passato il problema ad un altro agente. Se tutto ciò che
importa è che l’agente superi lo stallo deliberativo e prenda una decisione purchessia, non
c’è nemmeno spazio per opporsi all’idea che in questi casi gli agenti siano “costretti” a
scegliere, che venga imposto loro un ordinamento esterno, che qualcun altro decida per
loro (vd. Putnam, 1989, pp. 19-28). Un ordinamento basato sulla mera preferenza
personale può plausibilmente essere rifiutato come un esempio immorale di favoritismo.
D’altra parte, costringere l’agente perplesso ad agire secondo un ordinamento a lei alieno
pone in dubbio la stessa nozione di scelta. Quindi importa assai come si arbitra in casi di
parità. Non tutte le strategie di arbitraggio sono moralmente ammissibili. Importa che
l’agente sia capace di scegliere, ma importa più di tutto che sia capace di scegliere con
criterio, sulla base di ragioni. È per questo che è un compito importante quello di offrire
una guida all’agente perplesso, anche in quei contesti in cui, per ipotesi, il valore delle
opzioni è pari.
Per sostenere questa conclusione, prenderò in esame una strategia di arbitraggio che
è
generalmente
considerata
legittima in quanto imparziale e autonoma, la
randomizzazione. Quando non c’è differenza morale tra due alternative doverose, e
l’inazione introduce lo scenario peggiore, la randomizzazione è spesso invocata come una
risoluzione morale del conflitto (Hare, 1981, p. 201; Donagan, 1984; MacIntyre, 1990).
Strategie come il tirare la monetina sembrano legittime perché sono imparziali: non
favoriscono un’opzione per un mero capriccio, o per una preferenza ingiustificata.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 93
In molti casi il ricorso alla randomizzazione è considerato doveroso in quanto
qualsiasi altra strategia deliberativa sarebbe iniqua. Per esempio, nel caso di Beatrice, si
può dire che ricorrere alla randomizzazione non è un modo qualunque di arbitrare: è
l’unico modo equo. Ma dire che adottando una strategia equa Beatrice ha superato lo
stallo deliberativo non significa che abbia con ciò dato una risoluzione morale al
dilemma. L’idea di usare alla randomizzazione per risolvere i propri problemi morali non
è solo frustrante o bizzarra. Anche coloro che considerano la randomizzazione un modo
razionale ed equo di arbitrare vedono quanto sia increscioso doverci ricorrere. Sarebbe
sorprendente se Beatrice fosse contenta della sua decisione perché è il risultato di una
procedura imparziale di randomizzazione, e ancor più sorprendente se consigliasse un
amico in difficoltà di tirare la monetina per uscire dal dilemma. C’è qualcosa di
insoddisfacente nel tentativo di risolvere i conflitti morali con la randomizzazione, anche
quando è stato stabilito che tutte le risorse deliberative sono state esplorate e esaurite.
Come si spiega questa insoddisfazione? I resoconti filosofici in proposito divergono.
Rosalind Hursthouse, una sostenitrice dell’etica della virtù, pensa che un agente virtuoso
giudicherebbe il ricorso alla randomizzazione come un atto di irresponsabilità morale o
anche di incapacità morale (Hursthouse, 1996). Peter Railton, utilitarista, crede che la
scelta operata ricorrendo alla massimizzazione elimini il dilemma e lo trasformi in un
semplice embarrass de richesse (Railton, 1996, p. 153). Simon Blackburn considera la
riluttanza ad adottare la randomizzazione come un pregiudizio, uno scrupolo inutile, e
ritiene che bisogna adottare la randomizzazione quando non ci sono altre risorse
deliberative, anche se ciò comporta inevitabilmente sentimenti dolorosi (Blackburn,
1996, pp. 129, 131). Richard Hare, invece, non avverte alcuna insoddisfazione, né vede
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 94
alcuna ragione per considerare insoddisfacente una scelta operata tirando in aria la
monetina (Hare, 1981, p. 201).
Contrariamente a Hare e Blackburn, credo che la riluttanza ad usare la
randomizzazione come riposta appropriata nei casi di dilemma simmetrico ci dica
qualcosa di molto importante a proposito della natura della scelta morale. Questa
insoddisfazione merita perciò un’investigazione filosofica più accurata. Sono
dell’opinione che la scelta operata per randomizzazione esibisca una relazione infelice tra
l’agente e la sua azione. Il mio argomento è che la decisione raggiunta usando la
randomizzazione non può contare come risoluzione morale del dilemma perché non è
basata su una decisione di principio, non è cioè una scelta basata su una ragione.
La randomizzazione non ci serve a scoprire una differenza morale tra opzioni
simmetriche, ma a produrre un’asimmetria che determinerà la decisione dell’agente.
L’asimmetria così prodotta è dunque rilevante ed utilizzabile solo in una singola
occasione. Ciò significa che la decisione presa per randomizzazione non è una decisione
di principio, e non è esportabile ad altri contesti di scelta. Se domandassimo a Beatrice
perché ha scelto di offrire a Gemma anziché a Gaia le lezioni di piano, risponderebbe che
lo ha fatto perché così ha determinato la monetina. Ma questa risposta non può essere
considerata l’esplicitazione di una ragione per l’azione. Anzi, se si prende come un
tentativo di dar ragione delle proprie azioni, la risposta di Beatrice appare elusiva e
inappropriata. Ci si aspetta che Beatrice confessi di non aver avuto alcuna ragione per
scegliere Gemma, e di essersi perciò affidata al caso. Anche se siamo d’accordo che è
stato il caso a determinare la scelta, non ci aspettiamo che Beatrice sostenga che tirare la
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 95
monetina conti come una ragione per scegliere Gemma, cioè una considerazione in
favore di Gemma che è esportabile in simili contesti di scelta.
L’implicazione di questa tesi non è che una scelta ragionata deve essere derivata da
un principio universale preesistente. Le decisioni di principio sono chiamate così perché
sono il risultato della deliberazione, sono basate su un giudizio che conta come ragione.
Una ragione è una considerazione rilevante in favore di qualcosa, tale che rimane stabile
o invariante attraverso contesti rilevantemente simili. Non si ha da riesaminare l’autorità
di una ragione che ha concluso il nostro processo deliberativo, a meno che la sua autorità
non sia messa in discussione da altre considerazioni rilevanti. Ceteris paribus, questa
ragione sarà presa per buona nelle deliberazioni future.
Naturalmente si può decretare che in presenza di dilemmi simmetrici bisogna
ricorrere alla monetina. Per esempio, si può dire che considerazioni di equità richiedono
che il dilemma di Beatrice sia risolto usando il metodo di randomizzazione. In questo
senso, la randomizzazione è una strategia di arbitraggio esportabile. Ma questo non
significa che tale strategia dia ragioni, cioé considerazioni stabili, che rimangono
invariate in contesti rilevantemente simili. Prova ne sia che se dilemmi simili occorrono
in futuro, l’agente è costretto di nuovo a tirare la monetina. Invece una risoluzione
genuina estingue il conflitto, riducendo le ragioni confliggenti a ragioni apparenti o
predominate, che quindi non contano più come rilevanti in contesti di scelta simili.
Perché è così importante che l’agente scelga sulla base di ragioni? Perché non ci è
sufficiente che sia disponibile un metodo applicabile in contesti simili? L’agente che si
trova in un dilemma non sta cercando semplicemente di prendere una decisione per
togliersi d’impiccio. I dilemmi sono una minaccia all’integrità, e quindi il tentativo di
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 96
risolvere il conflitto è anche un tentativo di riparare o raggiungere l’integrità. L’agente
che si confronta con un dilemma è un agente diviso il cui problema pratico è di
conquistare o riacquistare unità. Decidere sulla base di ragioni è ciò che riconferisce
integrità e fa di un agente un agente.
Quando isoliamo una ragione predominante siamo con ciò capaci di basare la propria
azione su una considerazione che riflette ed esprime pienamente chi noi siamo. Quindi
agire sulla base di ragioni, di considerazioni esportabili, prendere decisioni di principio
non è semplicemente un modo di determinare che cosa fare, ma il modo in cui
esercitiamo ed esprimiamo pienamente la nostra identità di agenti. Non è possibile
raggiungere questo scopo attraverso la randomizzazione, e questa è la ragione per cui
Beatrice non può dire di aver risolto il suo problema. Dunque anche in quei casi nei quali
considerazioni di equità impongono che si tiri a sorte, non possiamo dire che il metodo di
randomizzazione giustifichi l’unità dell’agente e gli offra una ragione esportabile e
rinnovabile, stabile o invariante attraverso contesti di scelta rilevantemente simili.
Si osservi che non sto sostenendo che questa peculiarità della decisione di Beatrice
dipende da caratteristiche del contesto morale di scelta. Non è perché la scelta è morale
che la risoluzione deve essere una decisione di principio e fondata su una ragione. Per
rendere più chiaro questo punto si può usare un esempio non morale. Supponiamo che
Irene sia indecisa su quale di due film andare a vedere. Ha letto delle recensioni
entusiaste su entrambi, e non può acquisire altre informazioni rilevanti su nessuno dei
due. Perciò si risolve a tirare la monetina. Un’amica chiede ad Irene quale film merita di
essere visto prima. Ecco, sarebbe scorretto da parte di Irene suggerire all’amica di andare
a vedere prima il film che lei ha visto per primo. Certamente, avendo visto uno dei film
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 97
Irene ha ora acquisito informazioni ulteriori, ma queste informazioni non possono contare
come delle ragioni per giustificare la scelta di Irene, sebbene possano giustificare
decisioni future oppure costituire un fondamento plausibile per consigliare un’opzione
piuttosto che un’altra. Quindi il tirare a sorte di Irene non è di alcun aiuto all’amica
perché non ha prodotto nessuna ragione per l’azione, e quindi nessuna considerazione
esportabile. Nei contesti morali come nei contesti non-morali di scelta, la giustificazione
della decisione dovrebbe dipendere dal confronto dei meriti delle alternative, secondo una
certa valutazione della situazione. Ma quando i meriti sono simmetrici, non ci sono
considerazioni predominanti che possano giustificare un corso di azione piuttosto che un
altro. In questi casi la scelta è inevitabilmente arbitraria.
Siccome la randomizzazione non determina le ragioni per l’azione ma solo un modo
di uscire dallo stallo deliberativo, non si può dire che fornisca una risoluzione morale,
cioè una risoluzione decisiva per l’azione che predomina su tutte le altre considerazioni
rilevanti. Di conseguenza, la disponibilità di un metodo di arbitraggio equo, qual è la
randomizzazione, non mostra che i dilemmi simmetrici sono spuri perché non mostra che
vi è una risoluzione per tali dilemmi.
4.3 Decisioni arbitrarie
Scegliere senza una ragione decisiva, o anche scegliere senza ragione, non è segno di
irrazionalità pratica. Anzi, sia nei contesti morali sia in quelli non morali è razionale agire
senza ragioni se l’inazione realizza l’opzione inferiore. Per esempio, Beatrice sarebbe
irrazionale se non agisse, privando entrambe le gemelle dell’opportunità di educare il loro
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 98
talento musicale. L’arbitrarietà è segno di una decisione presa in assenza di ragioni, ma
non è segno di irrazionalità.
Sebbene le decisioni arbitrarie non espongano un difetto di razionalità dell’agente,
segnalano tuttavia una relazione peculiare che l’agente intrattiene con la sua azione.
Un’azione determinata tramite randomizzazione non è un’azione che appartiene
pienamente all’agente, non è propriamente “sua”, un’attività in cui ella si riconosce
completamente, anche se ne è responsabile. Le decisioni arbitrarie danno luogo ad azioni
che non sono completamente espressive dell’identità dell’agente, né indicative della
percezione che l’agente ha della situazione. Questa mancata identificazione con l’azione
è esattamente ciò che ci preoccupa quando ci troviamo di fronte ad un dilemma morale.
Ci importa agire sulla base di ragioni in cui ci riconosciamo; vogliamo riconoscerci in ciò
che facciamo perché solo così noi, come agenti, abbiamo un impatto sul mondo.
L’impatto che hanno le azioni arbitrarie è in qualche modo indipendente da noi perché
tali azioni hanno avuto origine in modo indipendente dalla nostra deliberazione. Ciò che
sembra cruciale nel valutare il significato della scelta nei casi simmetrici è che in tali casi
mancano le risorse deliberative per dirigere la nostra azione in un modo che sia
completamente espressivo e costitutivo della nostra integrità.
La conclusione di questa investigazione non è che la randomizzazione non offre una
risoluzione morale al dilemma. L’implicazione su cui insisto non è che sia un metodo
improprio nelle scelte morali, un atto di auto-indulgenza o di irresponsabilità, come
suggerisce Hursthouse. Coloro che rigettano la randomizzazione in quanto morale non
negano che essa sia un metodo risolutivo, cioè capace di isolare delle considerazioni
predominanti ed esportabili (sebbene moralmente discutibili). Al contrario, il mio
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 99
argomento è che la randomizzazione non produce alcuna ragione per l’azione, e di
conseguenza non dà alcuna risoluzione morale.
Quando vi è una risoluzione al conflitto morale, deliberare se un’opzione piuttosto
che l’altra sia moralmente giustificata è un processo che modifica la comprensione e la
visione che l’agente ha del proprio problema. Naturalmente risolvere il proprio conflitto
non equivale a banalizzarlo, a negargli rilevanza e gravità, né a riclassificarlo come
spurio. Nel risolvere il conflitto morale l’agente fa un passo avanti nella comprensione e
nella valutazione del proprio problema morale. Nessuna di queste considerazioni riguarda
il caso della decisione arbitraria. Avendo preso la decisione di tirare la monetina, in
assenza di altre risorse deliberative per giustificare la propria azione, l’agente può
certamente sentirsi sollevato per aver posto fine ad una situazione incresciosa di stallo,
ma non può dire di avere capito qualcosa di più, di aver maturato una visione diversa del
proprio problema morale. L’atto di tirare la monetina non ha alcun effetto di
ristrutturazione dell’assetto normativo e assiologico dell’agente, e quindi non ha alcun
impatto sulle considerazioni che contano per la valutazione del caso. Così, il tirare a sorte
non ha alcun effetto sulla visione che Beatrice ha del suo problema morale, e non le
indica alcuna ragione per ripensare l’importanza comparativa delle sue alternative: lascia
le cose come stanno, un problema morale irrisolto. Che non ci sia alcun miglioramento o
cambiamento nel modo in cui l’agente concepisce il proprio dilemma si può chiarire con
un altro esempio. Se un’amica fosse in una situazione simile, Beatrice non avrebbe altro
consiglio da darle che offrirle una monetina.
Ciò non implica che la scelta per randomizzazione non porti con sé conseguenze di
cui l’agente debba essere ritenuto responsabile. Che siano basate su ragioni o meno, le
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 100
decisioni hanno un impatto sul mondo, ne modificano l’assetto, contribuiscono a dare
forma al nostro futuro, e creano occasioni ulteriori per la deliberazione. A causa della
decisione di Beatrice, le cose tra Gemma e Gaia sono cambiate. Le gemelle non sono più
in posizioni simmetriche, e forse simmetrie di quel tipo non potranno più generarsi. Ma il
riconoscimento di questa eventualità non implica che Beatrice abbia guadagnato una
prospettiva diversa o una diversa valutazione della situazione in virtù del fatto che ha
tirato a sorte; né implica che Beatrice abbia risolto il problema.
4.4
Strategie di arbitraggio esportabili
Si potrebbe obbiettare che il mio argomento non prova che i dilemmi simmetrici non
possono essere risolti tramite strategie puramente deliberative per arbitrare il conflitto in
caso di parità (tie-breaking) perché ho preso in esame solo la randomizzazione. La
randomizzazione è infatti un tipo peculiare di strategia deliberativa perché non mira a
produrre ragioni, cioè considerazioni in favore di un’azione che contano come rilevanti in
contesti di scelta rilevantemente simili. Ma ci sono altre strategie che producono delle
asimmetrie che sono esportabili in contesti di scelta rilevantemente simili. Per esempio,
supponiamo che Beatrice cerchi di risolvere il suo problema morale stabilendo delle
priorità e cioè costruendo un ordinamento di opzioni sulla base di considerazioni
secondarie, per esempio la motivazione allo studio. In condizioni normali questa
considerazione non costituirebbe un fattore discriminante, ma vista la simmetria tra
Gemma e Gaia, il ricorso a ragioni secondarie consente a Beatrice di uscire dallo stallo
deliberativo, determinando chi delle due gemelle è più motivata. Il ricorso a queste
considerazioni secondarie può essere esportato in contesti deliberativi rilevantemente
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 101
simili, anche se l’agente riconosce che non si tratta del modo migliore di risolvere il
problema. Beatrice può continuare a ritenere che l’ordinamento moralmente più corretto
sia quello determinato sulla base di considerazioni primarie, come il dovere di un
genitore di aiutare i propri figli a coltivare i loro talenti. In alcuni casi, allora,
l’ordinamento in base a considerazioni primarie risulta incompleto ma può essere
integrato tramite il ricorso a considerazioni secondarie. Ma se è così allora ci sono delle
strategie deliberative esportabili per risolvere i dilemmi simmetrici; e quindi non si tratta
di dilemmi genuini.
Contrariamente a quanto può sembrare, questo non è un contro-esempio
all’argomento del paragrafo precedente. La strategie di costruzione di un ordinamento
secondario è un’opzione solo se le alternative in gioco non sono davvero simmetriche, e
dunque l’agente può contare su risorse deliberative ulteriori per risolvere il suo problema
di scelta. Le considerazioni secondarie sono sufficienti non solo a superare la simmetria
ma a risolvere il conflitto. In un dilemma genuino, però, il conflitto tra le ragioni in gioco
non ammette risoluzioni di alcun tipo. Ciò significa che la possibilità di ricorrere a
strategie deliberative che sfruttano considerazioni secondarie come fattori discriminanti
tra opzioni altrimenti simmetriche non dimostra che i dilemmi morali simmetrici sono
spuri. Quando il ricorso a considerazioni secondarie è determinante per la risoluzione del
conflitto è perché le opzioni in gioco non erano davvero simmetriche. Nei casi
perfettamente simmetrici le opzioni possono essere ordinate solo attraverso la
randomizzazione la quale permette di superare lo stallo deliberativo, ma non risolve il
problema e non offre nuove considerazioni per ridescrivere o rappresentare diversamente
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 102
la situazione. Quindi i dilemmi simmetrici non ammettono una risoluzione, e l’agente che
vi si confronta agisce in modo arbitrario.
4.5
Dai casi di parità ai dilemmi morali simmetrici
Come abbiamo visto in 4.3, quando le alternative differiscono solo in quantità e le
opzioni possono essere ordinate in modo completo e cardinale, come nella
rappresentazione che darebbe un utilitarista radicale, il ricorso alla momentina non
sembra particolarmente problematico. Eppure, l’adozione di una strategia deliberativa di
arbitraggio in caso di parità non costituisce una vera e propria risoluzione del dilemma
morale. Questa conclusione può essere estesa ad altri tipi di dilemmi simmetrici, per
esempio, ai casi di ordinamento ordinale per i quali l’agente deve determinare le relazioni
di priorità, ma senza specificare di quanto un’opzione è più importante rispetto all’altra,
oppure ai casi di parità approssimativa, o di ordinamenti imprecisi (Lukes, 1997, 184196). In quest’ultimo caso l’agente può ancora ambire a costruire un ordinamento
algoritmico delle sue alternative, e trovarsi in una situazione in cui due alternative
incompatibili occupano lo stesso posto nell’ordinamento. Questo è un dilemma
simmetrico, ma non è un caso di parità (tie) perché le opzioni in gioco non sono misurate
uguali ma bilanciate (on a par).
Tuttavia, si può concepire la deliberazione in modo completamente diverso e quindi
rinunciare all’idea che deliberare significhi fare confronti per costruire un ordinamento di
opzioni sulla base del quale determinare che cosa si deve fare (vd. Anderson, 1997, pp.
90-110; Stocker, 1997, pp. 196-214; McDowell, 1997). Per esempio, adottando il metodo
dell’universalizzazione l’agente potrebbe deliberare che due azioni incompatibili sono
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 103
doverose, e rendersi conto che non vi sono ulteriori risorse deliberative per determinare
che cosa fare. Questo è un caso di dilemma simmetrico perché l’agente è vincolato da due
doveri che sono incompatibili ma si basano sulla stessa giustificazione. Tuttavia, a
differenza dai casi di parità descritti sopra, questo tipo di dilemma simmetrico non si
solleva perché le alternative sono di valore uguale o perché occupano lo stesso posto in
un ordinamento non-algoritmico. Piuttosto, in questo caso le alternative doverose sono
simmetriche solo perché hanno la stessa sorgente normativa. Il giudizio di simmetria è
una valutazione del valore comparativo delle opzioni, ma non è necessariamente un
giudizio quantitativo. Infatti, può essere formulato da un agente che riconosce la pluralità
dei valori, e giudica che le sue alternative sono bilanciate. Ci sono delle differenze tra i
dilemmi morali asimmetrici e quelli simmetrici che giustificano un uso selettivo delle
strategie di arbitraggio?
4.6 La randomizzazione nei dilemmi morali asimmetrici
Chi ritiene che la randomizzazione risolva (o dissolva) il dilemma morale nei casi
simmetrici è animato dalla preoccupazione di evitare lo stallo, l’inerzia, l’inazione che
produrrebbero lo scenario peggiore. Come per l’asino di Buridano, è preferibile agire
senza ragione che non agire per nulla. In questa prospettiva, la randomizzazione sembra
accettabile moralmente, e perfino razionalmente doverosa. Se è così, perché non
dovremmo adottare questa strategia anche nei casi asimmetrici di dilemma morale?
Nei casi asimmetrici l’agente si confronta con un conflitto tra doveri che sono
giustificati da valori differenti. Questo può darsi perché tali valori sono in un certo senso
incomparabili oppure perché sono pari. Si osservi che l’esempio è formulato in termini di
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 104
comparabilità anziché di incommensurabilità. L’incommensurabilità ci dice che le
alternative non possono essere misurate precisamente su una scala singola di unità di
valore. A mio parere, tuttavia, la mancanza di una tale scala non comporta la non
confrontabilità delle alternative in gioco. Credo che il pluralismo di valore possa
ammettere una sorta di comparabilità limitata, senza rinunciare alla propria agenda, e
quindi evitando l’effetto indesiderabile di rendere dilemmatica qualsiasi scelta (Bagnoli,
2000b, Capp. VII-VIII). In questa prospettiva, è possible compiere confronti locali tra
valori sulla base di ragioni, e anche costruire ordinamenti parziali. Ciò non mi impegna a
dire, naturalmente, che il fine proprio della deliberazione sia quello di comparare e
ordinare le alternative. Anzi, il mio scopo è di far posto all’idea che la deliberazione non
si riduca al soppesamento delle alternative.
Come esempio di dilemma asimmetrico generato da incomparabilità di valori,
prendiamo il caso dello studente di Sartre che è diviso tra il dovere di partecipare
attivamente alla resistenza e quello di accudire la madre. Supponiamo che dopo una lunga
deliberazione, lo studente giudichi che la libertà e l’amore filiale siano valori
incomparabili e che perciò non può basare la sua scelta su una ragione decisiva. Lo
studente non considera questo un fallimento deliberativo, né crede di aver compiuto degli
errori di ragionamento. Al contrario, ritiene che proprio se si valutano appropriatamente
la libertà e l’amore filiale si è costretti a rifiutare qualsiasi compromesso e confronto.
Tuttavia, le opzioni non sono moralmente indifferenti, e la scelta non può essere
rimandata.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 105
Per illustrare un secondo tipo di dilemma asimmetrico dovuto a parità,1 supponiamo
che un terrorista deliberi che il valore della libertà e quello dei legami familiari siano
comparabili. Quest’uomo non si sottrae alla ricerca di una risoluzione, e sarebbe incline
ad accettare un compromesso, se fosse possibile. Dopo avere deliberato, giudica che
questi valori sono pari (on a par), e che le alternative corrispondenti sono bilanciate, cioè
occupano lo stesso posto nell’ordinamento, anche se non sono uguali perché non c’è
un’unità di misura comune. Per raggiungere un giudizio di parità, il terrorista opera un
certo tipo di confronto e soppesamento, sebbene non accolga la tesi di commensurabilità
del valore.
Ora, c’è un consenso significativo sul fatto che sarebbe moralmente eccepibile per lo
studente e per il terrorista risolvere i loro rispettivi problemi deliberativi tirando la
monetina. Infatti anche coloro che difendono l’uso della randomizzazione per risolvere le
scelte simmetriche si oppongono all’estensione di questo metodo ai casi simmetrici. Ciò
che deve far riflettere non è il disaccordo generato dalla questione se la randomizzazione
sia una strategia morale per risolvere i dilemmi, ma l’accordo riguardo alla tesi che
sarebbe comunque eccepibile nei casi asimmetrici. È difficile individuare con esattezza la
ragione su cui si può basare un uso selettivo della randomizzazione, e la questione viene
affrontata molto di rado.
Alcuni suggeriscono che la randomizzazione è inaccettabile nei casi asimmetrici di
dilemma morale perché risparmia l’onere della scelta e quindi implica che l’agente non
1
Contrariamente a Ruth Chang, non ritengo che la parità sia una quarta categoria di confronto, cfr. Chang,
2002, pp. 659-688. A mio avviso è un errore assumere che la valutazione delle alternative prenda sempre la
forma di un giudizio comparativo quantitativo (sia che si accetti o meno la tesi che vi sono solo tre relazioni
comparative.) Ma a parte queste considerazioni sulla natura della deliberazione, ci sono ragioni
indipendenti per respingere la proposta di Chang. Mi pare che Chang confonda il caso della parità esatta
(ties) in cui c’è commensurabilità e si è disposti dare un giudizio di uguaglianza, e il caso in cui non c’è
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 106
sia, alla fine, autore della sua azione; l’azione non gli appartiene, anche se gli è
attribuibile e imputabile. Questo è un elemento interessante ma ancora insufficiente a
spiegare perché una decisione arbitraria (e quindi un’azione non pienamente intenzionale)
sia accettabile nei casi simmetrici ma non in quelli asimmetrici. In entrambi i casi, infatti,
l’azione è arbitraria perché l’agente non giunge ad una ragione decisiva per l’azione
attraverso la deliberazione. In entrambi i casi rifiutarsi di agire significherebbe realizzare
il peggior scenario, e dunque la decisione non può essere rimandata. Lo studente di Sartre
e il terrorista hanno deliberato su tutto ciò su cui c’era da deliberare, hanno esaurito le
loro risorse deliberative, ed hanno portato a compimento la deliberazione concludendo
che si tratta di un dilemma morale, e che devono agire senza una ragione decisiva.
Supponiamo che questi due agenti prendano in considerazione l’uso della
randomizzazione con il solo proposito di superare lo stallo deliberativo, e quindi non
nella convinzione di fornire una risoluzione morale ai loro conflitti. Su quali basi
possiamo dire che sono giustificati ad agire in questo modo solo se il loro dilemma è
simmetrico?
Si potebbe pensare che nei dilemmi asimmetrici l’agente ha più risorse per risolvere
il proprio dilemma. Diversamente dai casi di parità, le opzioni sono abbastanza differenti
da fornire del materiale più variegato per la deliberazione. Per esempio, lo studente
potrebbe considerare se vi siano modi di lottare per la propria libertà che non richiedono
di sacrificare i doveri filiali. Oppure potrebbe ridescrivedere il proprio conflitto e
concludere che lottare per la resistenza è un modo fondamentalmente più auntentico di
sostenere la propria famiglia. Queste sono soluzioni morali possibili e perseguirle
modo di confrontare le alternative, eppure le opzioni non sono indifferenti, il che equivale ad ammettere un
certo grado di incommensurabilità.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 107
significa mostrare che il dilemma morale non era genuino: era invece un conflitto
difficile ma non impossibile da risolvere tramite deliberazione. Ciò che è peculiare al
dilemma morale è che l’agente, dopo aver deliberato, e proprio in virtù della sua
deliberazione, si trova vincolato da ragioni incompatibili. Dunque che la descrizione di
casi asimmetrici è più ricca e perspicua dei casi di parità è un fatto irrilevante.
L’intuizione che spiega la riluttanza ad usare la randomizzazione nei dilemmi
asimmetrici è che tali casi sono troppo importanti e gravi da essere trattati come casi di
parità. Ora, è vero che il caso dello studente e del terrorista sono seri e importanti, ma
perché lo sono? Viene talvolta suggerito, e spesso implicitamente, che nei casi
asimmetrici come questi la scelta è più importante che nei casi simmetrici perché
comporta un costo peculiare, un sacrificio di valore. Questo suggerimento si basa
sull’assunzione che i casi di parità non possano essere tragici perché non producono una
perdita di valore. Ma questa assunzione è sbagliata. Supponiamo, per esempio, che lo
studente e il terrorista non si trovino in dilemmi morali tragici, ma stiano per affrontare
un dilemma piuttosto banale. Si tratta di decidere se partecipare ad una manifestazione
anti-governativa oppure portare i bambini dal dentista per un controllo di routine.
Supponiamo anche che le gemelle di Beatrice abbiano bisogno di un serio intervento
chirurgico, e che Beatrice non possa sostenerne le spese dell’intervento per entrambe. È
ancora così ovvio, o anche solo intuitivamente corretto, dire che tirare la monetina
sarebbe giusto per Beatrice, ma non per il terrorista e lo studente? Questo si potrebbe
sostenere solo argomentando che la perdita di valore è significativa solo se è una perdita
di genere di valori. In questa prospettiva, però, la scelta asimmetrica dello studente di
andare alla manifestazione risulta più importante della scelta simmetrica della madre di
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 108
lasciar morire una delle due gemelle.2 Ma questo risultato è insostenibile. Inoltre, si può
parlare di perdita di valore anche quando c’è compensazione di genere: per esempio, ci si
può rincrescere di aver da scegliere tra due offerte di lavoro perfettamente equivalenti
sotto tutti gli aspetti rilevanti perché le si vorrebbe entrambe. Ciò che ci rende vulnerabili
alla perdita, in questo caso, non è che le alternative differiscono nel genere, ma
semplicemente che sono possibilità distinte e che l’agente preferirebbe non essere
costretto a scegliere. In alcuni casi, come quest’ultimo di Beatrice la perdita di valore è
tragica, anche quando le alternative sono perfettamente simmetriche e per ipotesi non c’è
perdita di genere di valore. È un errore connettere la natura tragica dei dilemmi morali
alla loro struttura asimmetrica. I dilemmi asimmetrici possono avere un impatto
drammatico e violento sulla nostra vita, ma non sono tragici in virtù della loro natura
asimmetrica. L’ultima serie di esempi è sufficiente a mettere in dubbio la tesi che la
randomizzazione se è accettabile, lo è solo nei casi commensurabili di parità (tie).
Forse la decisione di determinare le scelte per randomizzazione è sempre un atto di
disperazione, anziché un atto irrazionale o irresponsabile, quando gli agenti sono sensibili
al significato morale delle loro scelte, hanno fatto del loro meglio per deliberare a
proposito del loro conflitto, e hanno esaurito le loro risorse deliberative. Nel presentarvi
queste considerazioni, non sto cercando di mostrare che la randomizzazione non
dovrebbe essere usata né nei casi simmetrici, né nei casi asimmetrici di dilemma morale.
La mia idea è che se si ritiene che l’uso della randomizzazione sia obbiettabile nei casi
asimmetrici di dilemma, si dovrebbe anche trovarla obbiettabile nei casi simmetrici. La
distinzione tra casi simmetrici e asimmetrici in termini di genere di valore non offre
2
Si potrebbe obiettare che scegliere tra due persone implichi sempre una perdita di genere di valore, ma
questo sarebbe come negare di principio che vi possa essere commensurabilità in questi contesti di scelta.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 109
alcuna giustificazione plausibile ad un uso selettivo della randomizzazione. In nessuno
dei due casi, infatti, il superamento dello stallo deliberativo grazie alla randomizzazione
conta come una risoluzione morale del dilemma. Conta, invece, come si arbitra nei casi di
parità e come si cerca di risolvere il problema morale. Dunque focalizzare l’attenzione
sulla natura asimmetrica del dilemma e sulla perdita di genere di valore non illumina la
ragione per cui i dilemmi morali ci preoccupano. Bisogna, piuttosto, distinguere tra
risolvere e arbitrare un conflitto.
4.7 Deliberare, comparare e misurare
I tipi di dilemma morale che ho esemplificato hanno una caratteristica comune che viene
messa in luce quando prestiamo attenzione all’arbitrarietà della scelta e riconosciamo la
differenza tra arbitrare per superare uno stallo deliberativo, e risolvere un conflitto
morale. Quali sono le conseguenze di questo argomento?
Il primo risultato è che la scelta nei dilemmi morali simmetrici è tanto
significativa quanto la scelta nei dilemmi asimmetrici. Il fatto che i dilemmi asimmetrici
si originano da un conflitto di valori, e che quelli simmetrici si originano in un conflitto
tra doveri che hanno la stessa base assiologica di giustificazione non ci dicono nulla sulla
loro rilevanza filosofica né sull’impatto che hanno sulle nostre vite. Perciò è fuorviante
prendere il dilemma tragico asimmetrico come paradigma del dilemma morale: in questo
modo si restringe l’ambito di investigazione filosofica ad una varietà sola di dilemma
morale e si individua la loro sorgente nella mancanza di commensurabilità. Ma come ho
mostrato le scelte arbitrarie sono causate da un tipo di indeterminatezza normativa che
non è sempre segno di incommensurabilità del valore. Le etiche moniste (anche quelle
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 110
basate sulla tesi della commensurabilità) e le etiche pluraliste (che invece ammettono
sacche di incomparabilità) condividono gli stessi problemi deliberativi. Bisogna perciò
abbandonare l’idea che la commensurabilità sia sufficiente a garantire un modello
deliberativo che permette sempre di trovare una risoluzione morale. Il punto non è solo
che i dilemmi simmetrici sono problemi genuini, ma che possono essere tragici o banali
quanto quelli asimmetrici.
La tesi che ho difeso secondo la quale ciò che caratterizza il dilemma è
l’arbitrarietà, cioè, l’impossibilità di operare una scelta giustificata da ragioni
predominanti è stata spesso osteggiata. Philippa Foot, per esempio, sostiene che bisogna
chiamare dilemmi morali solo le scelte tragiche poiché l’assenza di risoluzione può
caratterizzare anche conflitti che riguardano “cose di poco conto, o laddove la scelta è tra
due beni anziché tra due mali, solo che non ci preoccupa” (Foot, 1995, p. 395). Molti
trovano appropriata questa restrizione (Hursthouse, 1996, p. 31 n15). Secondo me,
invece, proprio perché la mancanza di risoluzione interessa sia scelte tragiche sia
questioni da poco, non si dovrebbe restringere la nozione di dilemma alle scelte tragiche,
a rischio di fraintendere ciò che rende tali scelte dilemmatiche e ciò che le rende tragiche.
Anche quando l’arbitrarietà interessa solo “questioni da poco” dovrebbe premere
all’agente che vuole scegliere in modo responsabile. Gli errori e i vizi morali non si
manifestano sempre sotto forma di azioni drammatiche irreparabili, che sconvolgono la
nostra vita e quella degli altri, ma più spesso consistono in petites actions (Rorty, 1988, p.
285), piccole mancanze, disattenzioni, gesti mancati, uno sguardo freddo e distante,
l’intonazione dura della voce, o un certo modo di venire in soccorso privo di grazia e
compassione. Anche quando delibera tra due beni l’agente morale vorrà operare la sua
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 111
scelta sulla base di una buona ragione; e certamente non considererà il suo problema
come un mero “imbarazzo di scelta”. Il dilemma del terrorista non è lo stesso di chi trova
troppi bei romanzi sullo scaffale della libreria. La definizione restrittiva di dilemma
morale mal si attaglia a rendere conto della natura della scelta nei contesti pluralistici. Se
si adotta la definizione restrittiva di dilemma morale la scelta in contesti pluralistici sarà
sempre o banale (un imbarazzo di scelta) o tragica (una perdita di valore senza
compensazione di genere). Quando l’azione ha conseguenze tragiche sugli altri e su se
stessi, questo non è sempre a causa di un dilemma. I personaggi tragici non sono agenti
perplessi, dubbiosi o incerti. La decisione di Agamennone potrà essere giudicata
affrettata e basata su un piano scellerato, ma non è senza criterio; la determinazione di
sacrificare Ifigenia è ripugnante ma non arbitraria. Insistere sulla fenomenologia delle
scelte tragiche non aiuta a spiegare e comprendere la natura dei dilemmi.
Dobbiamo anche considerare se la definizione restrittiva del dilemma morale, che
privilegia le scelte tragiche tra due mali, sia davvero quella che rende conto meglio delle
nostre intuizioni. Essa invita ad una concezione della scelta morale come qualcosa di
radicale e drammatico, ma soprattutto scissa e separata dai complessi processi attraverso i
quali l’agente immagina, struttura e articola le sue alternative. Se si vuole capire che cosa
ci preoccupa nel dilemma morale dobbiamo prestare attenzione all’arbitrarietà. La mia
tesi non è che i dilemmi morali siano tutti dello stesso tipo, o che non vi sia differenza tra
scegliere tra alternative incomparabili e scegliere tra opzioni bilanciate o pari. Al
contrario, queste differenze sono importanti e devono essere investigate. La
fenomenologia del rifiuto di ordinare le proprie alternative è diversa dalla fenomenologia
dell’arbitraggio in caso di parità o bilanciamento. Talvolta si suggerisce che la metafora
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 112
delle transazioni (trade-off ) è appropriata per i casi di parità. Quando invece l’agente
rifiuta di costruire un ordinamento di valore perché ritiene incomparabili le sue
alternative, allora si preferisce parlare di sacrificio (Lukes, 1997, pp. 184-196). Ma se si
considerano i casi tragici di dilemma morale simmetrico, come quello di Beatrice che
deve decidere della vita delle sue figlie gemelle, non è così apparente che la metafora
delle transazioni sia più adeguata del sacrificio, o anche del tradimento di sé stessi. In
caso di parità l’arbitrarietà non si presenta come una perdita di valori di genere diverso;
tuttavia, la scelta può essere emotivamente e moralmente costosa, lasciare dei residui
come i sentimenti di colpa, dolore, il bisogno di riparare e di ripararsi.
Si deve concludere, allora, che un’investigazione attenta delle varietà del dilemma
morale e della sua fenomenologia non si esaurisce nella dicotomia tra dilemmi simmetrici
e asimmetrici. Tale investigazione non mostra che i dilemmi morali sono più significativi,
tragici, e quindi tali da rappresentare un tipo preoccupante di indeterminatezza normativa,
quando sono asimmetrici; né mostra che la scelta nel caso dei dilemmi simmetrici sia
moralmente indifferente. L’importanza e il significato della scelta nei dilemmi morali
dipende da caratteristiche del contesto di scelta diverse dalla sorgente di valore delle
alternative e di come queste contribuiscono alla nostra integrità.
Un esame delle varietà dei dilemmi morali e del significato della scelta in contesti
dilemmatici dovrebbe prendere avvio dalla considerazione di che cosa conta come
risoluzione morale, e procedere esaminando la natura dei residui che tali risoluzioni
lasciano nei casi particolari. L’attenzione alla natura della risoluzione e dei residui è
necessaria non solo per una tassonomia accurata dei dilemmi e dei conflitti morali, ma
anche per un ripensamento della natura e lo scopo della deliberazione.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 113
Il
secondo
risultato
di
questa
investigazione
riguarda
l’ipotesi
della
commensurabilità del valore, e la relazione tra deliberare e commensurare. Se
consideriamo i dilemmi come casi in cui viene meno la commensurabilità tra opzioni che
realizzano valori differenti, si cade preda di errori che mi sembrano fatali per una
comprensione corretta della fenomenologia della scelta morale. In primo luogo, la tesi
della commensurabilità del valore incoraggia la rappresentazione della deliberazione
come una specie di calcolo, di soppesamento intuitivo, oppure di applicazione di un certo
algoritmo, di una procedura di decisione che possa giustificare un giudizio comparativo e
quantitativo. Ma la commensurabilità non è un’ipotesi sul valore necessaria al buon
funzionamento della deliberazione, perché deliberare non equivale a misurare il valore
delle proprie opzioni.
In secondo luogo, se si tratta la commensurabilità come un’ipotesi sulla natura del
valore, e si riduce la deliberazione ad una forma di calcolo, si impoverisce enormemente
il linguaggio della scelta morale. Scegliere significa, in questa prospettiva semplificata,
stabilire delle relazioni comparative, quali “meglio di”, “peggio di”, “uguale a”; si sceglie
sulla base di giudizi quantitativi che determinano di quanto un’opzione è migliore o
peggiore dell’altra.
In terzo luogo, gli atteggiamenti di preferenza o indifferenza diventano gli unici
due atteggiamenti razionali che si possono assumere nei contesti di scelta. Mi sembra
che in questo modo si avvia un impoverimento concettuale che non solo falsifica la nostra
esperienza della scelta morale, ma ne impedisce anche un’adeguata investigazione
filosofica.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 114
Eppure, alcuni credono che la commensurabilità sia un’ipotesi necessaria anche se
si intende la deliberazione in modo più ampio, cioè come quel tipo di ragionamento
pratico volto ad elaborare una concezione di ciò che ci importa e con cui ci
identifichiamo.
Anziché considerare la commensurabilità (o l’incommensurabilità) come un’ipotesi
sulla natura del valore, propongo di considerarla come un problema che la deliberazione
fa emergere.3 In questa prospettiva, la questione se le opzioni rilevanti possono essere
ordinate è una questione che emerge durante la deliberazione, ed è risolta attraverso la
deliberazione. I giudizi di arbitrarietà dell’azioni sono giudizi che stabiliscono
l’incomparabilità o la parità di opzioni diverse, e contano come risultati della
deliberazione. In questo senso, tali giudizi non mostrano il fallimento della deliberazione
ma il suo completamento.
La valutazione comparativa delle opzioni è una operazione deliberativa. Prima e
indipendentemente del contesto deliberativo di scelta la questione se le opzioni in gioco
incarnano valori incommensurabili non è una questione intelligibile. Non ha senso per
Beatrice chiedersi se Gemma abbia la precedenza su Gaia, indipendentemente dalle
circostanze che determinano il contesto presente di scelta. La priorità tra le opzioni è una
questione deliberativa, che viene definita in contesti deliberativi particolari, che acquista
o perde importanza secondo la pratica della deliberazione, e per la risoluzione della quale
non è necessaria alcuna ipotesi generale sulla natura del valore.
3
Vd. Millgram, 1997, 151-184; Millgram, 2002. Millgram ritiene che la commensurabilità sia il risultato
della deliberazione, ma considera questo risultato come il segno che la deliberazione ha avuto successo, che
si conclude felicemente perché costituisce il modo in cui l’agente si unifica e si identifica nel tempo. A mio
avviso, invece, il risultato di una deliberazione completa e corretta non è necessariamente un giudizio di
commensurabilità, e il giudizio di arbitrarietà non coincide con un fallimento dell’unificazione dell’agente.
Non credo che “rendere i propri fini commensurabili sia il processo di acquisire la propria concezione di
ciò che ha importanza”, Millgram, 1997, p. 161.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 115
Si osservi che, contrariamente a Elizabeth Anderson, non sto suggerendo che sia
inutile o tedioso cimentarsi nell’operazione di misurare prospetti di azione (Anderson,
1997, 100). La mia idea non è che il tentativo di commensurare viola il principio
pragmatista secondo il quale l’agente deve pensare di avere un buon motivo per agire (no
good reason principle); non dico che il commensurare non serve ad alcuno scopo pratico,
ma che rappresenta un atteggiamento moralmente inappropriato di fronte alla scelta
morale. Cercare di misurare se e di quanto una delle due figlie vale più dell’altra è,
secondo me, un compito che un agente morale competente non dovrebbe assumersi.
Rifiutarsi di rispondere alla domanda “Chi vale di più? E di quanto?” non è solo un
atteggiamento adeguato e sano, ma anche l’unico atteggiamento che dimostra veramente
ed esprime l’amore per i propri figli e il riconoscimento del loro valore di persone e che
quindi è l’unico modo di essere congruente con la percezione del dilemma che l’agente
mostra di avere. Essere in grado di misurare e quantificare il proprio attaccamento e il
peso delle nostre attribuzioni di valore non ci mette in grado di deliberare correttamente a
proposito delle scelte future. Se le richieste di misurazione avessero senso per Sophie o
per Beatrice, il loro conflitto perderebbe tutta la sua tragicità e dilemmaticità. Forse
sarebbe più facile, al contrario di quanto suggerisce Anderson, vivere in un mondo in cui
queste transazioni e misurazioni sono possibili e ammettono risposte precise; e tuttavia,
tali operazioni rimarrebbero a mio avviso immorali o fuor di luogo. Questo è vero anche
in casi in cui le scelte non sono drammatiche, come nell’esempio di Mattia che delibera
se rimanere a vedere Shrek con il proprio figlio oppure uscire a teatro con l’amica.
Sarebbe scorretto supporre che il suo problema consista nel commisurare l’amore per il
figlio con l’amore per l’amica. Anche qui, come nel caso di Sophie, il rifiuto di Mattia di
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 116
porre la questione in termini di misurazioni precise, indica proprio la natura dell’amore
che Mattia nutre sia per il figlio, sia per l’amica. Tale rifiuto è un atteggiamento
appropriato sia quando le opzioni sono incommensurabili, sia quando sono pari o
bilanciate.
Si può dire che, come l’ambivalente e l’indeciso che abbiamo considerato nel
capitolo precedente, l’agente perplesso non ha definito le sue priorità. Che altro può
significare il giudizio di arbitrarietà sull’azione in contesti dilemmatici? Tuttavia, ciò non
implica che le relazioni di priorità possano essere stabilite solo sulla presunzione di
commensurabilità, né implica che la stipulazione di commensurabilità del valore sia
sufficiente a determinare relazioni di priorità. Deliberare per stabilire relazioni di priorità
è una pratica differente dal misurare e comparare il valore delle proprie opzioni. Un
fallimento deliberativo non equivale ad un fallimento di misurazione del valore: si può
errare proprio cercando di misurare il valore delle opzioni, e si può deliberare bene anche
senza saper dire esattamente di quanto le nostre opzioni differiscono. Ma certamente
bisogna sapere dire in che modo tali opzioni differiscono; e per questo abbiamo bisogno
non solo di una sensibilità raffinata, ma anche di un vocabolario concettuale ricco, capace
di rendere conto dei vari aspetti sotto i quali le alternative che importano e differiscono.
Per questo deliberare correttamente e riuscire a stabilire delle relazioni di priorità tra
i nostri progetti, desideri, bisogni, interessi è un’attività più complessa della costruzione
di un ordinamento di preferenze. Stabilire giustificatamente delle relazioni è un’attività
deliberativa che intraprendiamo sullo sfondo un nesso intricato tra pratiche condivise e il
nostro giudizio, il cui risultato ha spesso l’effetto di modificare tali pratiche. Quando
determiniamo che cosa è importante in una certa situazione deliberativa cerchiamo anche
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 117
di collocare storicamente il nostro giudizio di importanza, cosicché abbia senso data la
storia che abbiamo. Quando Beatrice cerca di decidere come risolvere il problema delle
lezioni di piano, la sua deliberazione assume una forma particolare in considerazione di
altre credenze, decisioni, ed atteggiamenti che le appartengono. Queste considerazioni
sono espresse in modi specifici, che manifestano il tipo di personalità di Beatrice. Per
esempio, Beatrice può risolversi a rinunciare ad un corso di yoga cosicché tutte e due le
gemelle possano prendere lezioni di piano. Questa rinuncia può costarle tanto da
spingerla ad intraprendere un’azione riparativa o correttiva (per esempio, può pretendere
che il corso di yoga sia contemplato tra le terapie rimborsate dalla sua assicurazione
medica). Come ho sostenuto nei Capitoli I e III, gli atteggiamenti e i sentimenti morali
non costituiscono solo lo sfondo o il sotto-testo del dilemma dell’agente, essi danno
forma alla deliberazione, guidano l’attenzione verso certi aspetti particolari della
situazione che meritano di essere presi in considerazione, e in certi casi rappresentano le
sole risposte pratiche giustificate che l’agente può elaborare. Soprattutto, bisogna ora
sottolineare che questi atteggiamenti complessi non si possono ridurre alla dicotomia
preferenza/indifferenza. Il linguaggio della scelta morale deve essere più ricco e più
raffinato per poter descrivere adeguatamente l’esperienza che abbiamo della
deliberazione e della scelta.
Bisogna accontentarsi della tesi che le relazioni di priorità sono giudizi comparativi,
e che deliberare significa disporre di un metodo per operare confronti a coppie? Anche la
metafora del soppesamento (weighing) è, a mio avviso, fuorviante. Anche quando
cerchiamo di stabilire relazioni di priorità non ci interessa quanto differiscono, ma che
cosa ci preme di più. Le relazioni di priorità sono giudizi di importanza che debbono
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 118
essere giustificati nel contesto deliberativo in cui l’agente si trova. Il primo compito della
deliberazione è, allora, l’articolazione e l’esplicitazione delle ragioni che strutturano il
contesto deliberativo. Non si delibera sempre per scegliere, né si sceglie deliberando.
Anzi, per la maggior parte si sceglie senza deliberare, sulla base di ragioni implicite che
non richiedono di essere di nuovo rinnovate perché sono stabili. Si delibera quando la
stabilità delle ragioni che di solito si danno per scontate è posta in discussione da altre
considerazioni che valgono come ragioni, oppure quando ci si confronta con un caso
difficile che non sappiamo risolvere immediatamente. Si delibera, tipicamente, quando
esperiamo un conflitto tra ragioni contrastanti. La percezione del conflitto e anche la
problematizzazione del contesto di scelta ci richiede di esplicitare e articolare le ragioni
che consideriamo rilevanti. È con questa operazione che inizia il nostro tentativo di
valutare le risorse deliberative a cui possiamo dare fondo. Siamo capaci di isolare
alternative rilevanti e attribuire valore in modi diversi, e sulla base di ragioni complicate.
Il linguaggio della commensurabilità, dei confronti a coppie, e il modello del
soppesamento risultano inevitabilmente inadeguati e insufficienti a rendere conto della
complessa fenomenologia della deliberazione.4
Nel prossimo capitolo cercherò di mettere in luce le conseguenze filosofiche di
questo errore prospettico e i vantaggi di una interpretazione adeguata del dilemma
morale.
4
Come Putnam, credo questa dicotomia preferenza/indifferenza sia il risultato del tentative maldestro di
ridurre la scelta morale al modello della teoria della decisione razionale, v. Putnam, 1989. Questo modello
è inadeguato in etica, e dovrebbe essere abbandonato. Taylor suggerisce di sostituire a questa semplice
dicotomia un linguaggio di contrasto (contrastive language), v. Taylor, 1985, pp. 13-45. In questo saggio,
mi preme insistere solo sulla necessità di un vocabolario concettuale pià ricco e variegato che possa rendere
conto ed esprimere modi diversi in cui si tracciano distinzioni e contrasti tra le varie alternative.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 119
5 I limiti della deliberazione e l’importanza del teorizzare in etica
Nel corso di questo saggio ho sostenuto che è sbagliato guardare al significato filosofico
del dilemma avendo presente solo il suo impatto sulla teoria etica. Ho cercato di
correggere questo errore prospettico che vizia la riflessione filosofica recente sul
dilemma ponendomi la questione dal punto di vista dell’agente perplesso. In questo
ultimo capitolo vorrei spiegare che adottando questa prospettiva non solo si dà finalmente
ragione del perché il dilemma morale sia un fenomeno filosoficamente rilevante, ma solo
così si comprende in che senso è illuminante riguardo alla teoria etica. Sosterrò che una
riflessione adeguata sulla perplessità morale espone la varietà dei vincoli e dei limiti che
pesano sulla nostra deliberazione e, allo stesso tempo, mette in risalto l’importanza del
teorizzare in etica.
5.1 I limiti della deliberazione individuale e le condizioni sociali dell’integrità
Trattare del dilemma morale adottando la prospettiva dell’agente significa assumersi il
compito di prendere sul serio lo stato di perplessità morale dell’agente. La spiegazione
filosofica dei casi di Emma e di Sophie che ho offerto era volta a mostrare che i dilemmi
non sono casi in cui la deliberazione è incompleta o errata, ma è anche un invito a
riflettere sui limiti costitutivi della deliberazione. La deliberazione è un processo
individuale, che si svolge nella mente dell’agente. Sostenere che vi sono dilemmi morali
che non sono generati da difetti o errori deliberativi è come dire che vi sono dei conflitti
morali che la deliberazione individuale non può risolvere in quanto individuale. E dire
che la deliberazione è insufficiente significa richiamare l’attenzione sulla natura sociale
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 120
del dilemma (o almeno di certi dilemmi), sulla varietà dei vincoli che pesano sulla
struttura della deliberazione, e quindi anche sulle condizioni sociali dell’integrità, ciò a
cui la deliberazione individuale mira. L’enfasi sulla deliberazione e sullo stato di salute
del sé non deve trarre in inganno circa la natura dell’integrità.
L’agente perplesso si trova di fronte ad una scelta impossibile non perché
qualcosa è andato storto nella sua deliberazione, ma perché la situazione deliberativa non
è gestibile dal solo individuo deliberante. Il caso di Sophie a questo proposito è rilevante.
Sophie è di fronte ad una scelta “impossibile” non perché ella sia una deliberatrice
incompetente o non veda la soluzione giusta, ma perché le condizioni di possibilità di una
tale scelta non sono sotto il suo controllo. Certamente qualcosa è andato storto, ma questo
qualcosa non è dipeso dal ragionamento o dall’atteggiamento di Sophie; qualcosa è
andato storto prima che Sophie si trovasse a dover deliberare. Molti dilemmi morali sono
di questo tipo, in cui non solo non c’è una soluzione che l’agente riconosce come
appropriata, ma soprattutto non sta all’agente proporre una soluzione, sebbene stia a lei
scegliere. In questi casi tragici, l’agente non crea il dilemma attraverso una deliberazione
manchevole o scorretta; piuttosto, ne è vittima. La soluzione potrebbe arrivare solo
rimuovendo le cause del dilemma, ripensando e modificando le condizioni sociali di tali
scelte; ma evidentemente questa non sarebbe una vera e propria risoluzione del dilemma,
quanto la sua dissoluzione. Ciò che mi preme sottolineare è, però, la natura socio-politica
di alcune delle condizioni che pesano sulla struttura deliberativa e sulle capacità
deliberative dell’agente, e anche, di conseguenza, la natura socio-politica dell’integrità.
Proprio partendo da una riflessione sulla natura socio-politico dell’integrità e della
deliberazione, Amélie Rorty ha suggerito che la deliberazione è indeterminata perché
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 121
subisce i tratti fortuiti e improvvisati dell’interazione sociale (Rorty, 2000, p. 149); perciò
non si può sperare nella completezza delle procedure deliberative. È vero che la struttura
deliberativa dipende da condizioni di natura sociale e politica. Ma ciò non ci autorizza a
dire che la deliberazione è un’improvvisazione che dipende dalla nostra interazione con
gli altri.
In questione non è nemmeno, come altri hanno suggerito, la codificabilità dei
principi morali. Il modello di deliberazione che ho abbozzato nei capitoli precedenti non
richiede la codificabilità dei principi morali, che invece viene presupposta dai cosiddetti
modelli blueprint o covering law (McDowell, 1997; Herman, 1997). Assumendo la
codificabilità dei principi morali ed una struttura deliberativa deduttiva questi modelli
descrivono l’agente deliberante come qualcuno che semplicemente applica certe regole
generali codificate a casi particolari; ma ciò che va persa in questa descrizione è proprio
l’esercizio delle capacità pratiche o morali dell’agente. Ora, il fenomeno della
deliberazione in caso di conflitto chiama in causa proprio queste facoltà: deliberiamo
appunto perché non c’è una soluzione già disponibile. Ma se anche ci fosse, deliberare
non significa semplicemente appurare se una tale soluzione si adatta al caso particolare.
La deliberazione inizia con una costruzione del problema, cioè con una descrizione di ciò
che conta come problema morale.
Alcuni casi di perplessità morale si spiegano con la novità della situazione rispetto
alla quale l’agente si trova impreparato; il lavoro deliberativo dell’agente inizia con
l’individuazione e ricognizione di particolari rilevanti. Ma proprio perché la situazione è
nuova, questo primo e cruciale stadio della deliberazione non può affidarsi a regole
preconfezionate, né a giudizi di routine. La deliberazione è anche una pratica sociale,
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 122
nonostante sia un processo che si svolge nella nostra mente, è anche una conversazione
che si porta avanti con i nostri interlocutori, oppure nonostante essi. Scegliere i propri
interlocutori è parte del processo deliberativo; per esempio, dire che Sophie rifiuta di farsi
manipolare dall’ufficiale nazista e di considerare quella che gli viene imposta come una
scelta significa dire che Sophie nega di considerare l’ufficiale nazista come un
interlocutore. La selezione dei particolari rilevanti che ci servono a costruire il nostro
problema morale è il frutto di un’azione collettiva, e quindi il risultato di un’interazione
sociale. Quando la deliberazione è portata avanti con gli altri, il contributo degli
interlocutori apre alternative nuove, ci espone a prospettive che non avevamo
considerato, e magari ci offre una via d’uscita. Altre volte l’interazione sociale ci mostra
nella nostra estrema vulnerabilità, mettendo in luce come la nostra deliberazione
particolare dipenda da una quantità di elementi che non sono sotto il nostro controllo.
Indicare la natura sociale e politica della deliberazione, e quindi anche dell’integrità,
significa non solo prendere atto delle sorgenti della nostra vulnerabilità ma anche indicare
che abbiamo più risorse deliberative a cui attingere per comprendere e superare le nostre
difficoltà: la pratica sociale della deliberazione, la discussione normativa o la
conversazione con gli altri, lo scambio di ragioni.
5.2 I limiti cognitivi della deliberazione individuale
Si potrebbe obbiettare che privilegiando la percezione che l’agente ha del dilemma non si
è fatto alcun progresso nella comprensione di questo fenomeno. Che l’agente sia
moralmente perplesso, che abbia l’impressione di trovarsi di fronte ad un dilemma
morale non mostra che vi siano dilemmi morali genuini (Geach, 1977; Hare, 1981;
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 123
Donagan, 1996). Secondo questa interpretazione, i dilemmi morali che l’agente esperisce
non sono autentici dilemmi, cioè ammettono in realtà una risoluzione che l’agente non
riesce a intravedere o elaborare. L’obiezione è che se si affronta la questione del dilemma
in una prospettiva soggettiva, cioè, dal punto di vista della percezione dell’agente, non
solo si evita la questione centrale di determinare se vi siano dilemmi morali autentici, ma
si consegue l’effetto di rendere spuri tutti i dilemmi.
L’obiezione riposa su una concezione della deliberazione molto diversa da quella
che ho delineato. Ho sostenuto, infatti, che il giudizio di arbitrarietà dell’azione con cui
l’agente risponde ad una situazione dilemmatica è il risultato della deliberazione, non la
prova del suo fallimento. Siccome la deliberazione è una costruzione dell’agente, che ci
siano dilemmi di cui l’agente non è consapevole o viceversa che l’agente percepisca
dilemmi inautentici non è possibile. Questa prospettiva richiede che si dia credito
all’esperienza dell’agente, ma non ci impone di abbandonare la distinzione tra dilemmi
spuri ed autentici. Piuttosto, ci invita a riconsiderare il fondamento di questa distinzione.
Una concezione adeguata della deliberazione dovrebbe discriminare tra casi in cui
l’agente compie degli errori di deliberazione (e per questo non giunge ad un giudizio
determinato su ciò che ha ragione di fare) e casi in cui l’agente arriva ad un giudizio di
arbitrarietà attraverso un processo deliberativo ineccepibile, e quindi si confronta con un
dilemma autentico. Una tale distinzione è giustificata sulla base di criteri normativi e
vincoli procedurali che guidano e strutturano la deliberazione.
Certamente vi sono casi in cui il dilemma ha origine in un errore dell’agente, e
quindi non perché vi sia oggettivamente una contraddizione tra obblighi. Non tutti i
dilemmi morali sono del tipo esperito da Emma o da Sophie. Alcuni dilemmi sono
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 124
generati da limiti cognitivi dell’agente. In certi casi questi limiti cognitivi sono anche
limiti morali. L’uomo che non trova altra soluzione che mentire per cavarsi d’impiccio, e
di menzogna in menzogna, si trova "intrappolato" in un dilemma morale gravissimo, non
ha scuse, e non può contare neanche su spiegazioni che lo risparmino dal biasimo.
Bisogna dire che il suo è un dilemma inautentico o spurio perché avrebbe potuto evitarlo
se solo fosse stato un uomo migliore?
La domanda da porsi proprio è questa: perché dovremmo considerare spuri quei
dilemmi che possono essere risolti in linea di principio, o che non sorgerebbero se
fossimo agenti ideali? Dal punto di vista dell’agente perplesso, i dilemmi morali sono
auntentici nella misura in cui l’agente non può deliberare ulteriormente. Il suo è un
conflitto stabile. L’origine di questi dilemmi può certo essere un difetto cognitivo, logico,
o morale dell’agente. Ma richiamare l’attenzione sulla natura cognitiva di tali limiti non
significa necessariamente negare l’autenticità del dilemma che genera. Dire che certi
dilemmi morali non sorgerebbero per agenti ideali non equivale a sostenere che siano
inautentici per agenti non-ideali.
Ci sono limitazioni cognitive che non possono essere superate o corrette perché
non dipendono da noi. Per esempio, supponiamo che un’improvvisa alluvione minacci di
spazzare via due villaggi in prossimità di una diga. L’ingegnere idraulico della diga può
dirottare l’acqua e salvare uno dei due villaggi, ma non può salvarli tutti e due, e non c’è
tempo di allertare ed evacuare la popolazione. L’alluvione era imprevedibile non per la
limitatezza delle conoscenze dell’ingegnere o per sua negligenza, ma per l’intrinseca
imprevedibilità delle condizioni atmosferiche. In questo senso sarebbe curioso trattare il
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 125
dilemma dell’ingegnere come se fosse generato da un difetto cognitivo, anche se è
certamente un difetto di informazione.
Ci sono poi delle limitazioni cognitive che sono incorreggibili non perché
dipendano da fatti del mondo su cui non si possono fare anticipazioni attendibili, ma
perché sono limiti costitutivi del nostro tipo di razionalità, cioé, limiti costitutivi di agenti
razionali che agiscono nel tempo. E in tali casi, considerare difettosa la condizione
dell’agente significa trascurarne la sua peculiare natura di essere umano. Non si tratta di
semplici casi-limite o situazioni fantastiche. Al contrario, la razionalità imperfetta o
limitata è la condizione in cui operariamo normalmente. Proprio perché la razionalità
imperfetta è la condizione normale in cui si agisce, non dovrebbe essere considerata
meramente difettosa, ma piuttosto costitutiva del nostro operare in qualità di agenti. Nella
misura in cui certi dilemmi dipendono dai limiti costitutivi del nostro essere umani,
perché non dovremmo considerarli autentici? Soprattutto, può una teoria etica vantare la
determinatezza normativa quando questa è irraggiungibile proprio da coloro a cui la
teoria è destinata? Sarebbe come dire che le questioni morali che più ci angustiano e che
saremmo tentati di chiamare dilemmi, non sarebbero nemmeno problemi per degli agenti
ideali. Mi sembra più ragionevole considerare dilemmatiche le scelte che gli agenti non si
possono risolvere, anche se agenti ideali in condizioni ideali saprebbero risolverli. I
dilemmi sono dilemmi indipendentemente dal fatto che gli agenti possano usare solo
parzialmente quelle strategie che sarebbero invece completamente disponibili ad agenti
ideali.
Proponendo questa concezione del dilemma morale intendo anche rifiutare la
distinzione tra dilemmi spuri e genuini nella misura in cui essa si fonda sul riferimento
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 126
alle capacità (limitate o illimitate) dell’agente. Proprio in quanto i dilemmi morali
dipendono dai limiti costitutivi del nostro essere umani, essi non possono essere evitati.
Ma questa affermazione non rende il dilemma morale spurio o avventizio. Anzi, la
concezione che propongo ha il pregio di mettere in evidenza perché il dilemma morale sia
tanto importante dal punto di vista dell’agente: non perché siano in gioco i suoi propri
limiti, ma perché la sua integrità lo è. Il problema che la possibilità del dilemma ci pone
non è un problema epistemico, ma un problema morale.
Il dilemma impone di giudicare in che modo la teoria può aiutarci a risolvere
problemi morali e a prenderci cura della nostra integrità. Trascurare il valore
dell’integrità dell’agente significa accettare di giudicare una teoria etica solo dal punto di
vista di agenti ideali. Ora, si potrebbe ritenere che una volta acquisita questa lezione sia
sufficiente integrare la teoria etica con principi morali fruibili da agenti non-ideali (Hare,
1981), o indicare in quali modi una procedura deliberativa perfetta per agenti ideali possa
corrompersi una volta adottata da esseri imperfetti (Korsgaard, 1996; Schapiro, 2003). A
mio avviso non è questa la lezione da trarre a proposito della teoria etica. Comunque
emendata, integrata, una teoria etica guiderà sempre gli agenti “a distanza”, come lo può
fare un ideale regolativo. Non vi sono integrazioni normative o complicazioni strutturali
da apportare alla teoria che possano risparmiarci l’esperienza dolorosa della perplessità
morale. In realtà, neanche la nostra virtù dell’integrità è sufficiente a risparmiarci poiché
vi sono altre sorgenti di dilemma morale e di arbitrarietà non-morali, che non dipendono
da noi. In questi casi, dobbiamo prendere atto che vi sono conflitti morali irrisolvibili, e
denunciare l’arbitrarietà a cui siamo costretti.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 127
5.3 Avere in mente un ideale
Che cosa può fare, allora, il teorico dell’etica a proposito del dilemma morale? Vi sono
due compiti filosofici da assolvere: comprendere il fenomeno e cercare di porvi rimedio.
Si può dire che il primo compito interessa la teoria etica in quanto impresa teorica e il
secondo in quanto impresa pratica.
È opinione diffusa che la teoria etica possa dirsi praticamente rilevante solo
quando guida l’azione in modo univocamente determinato. Sotto questo aspetto, però, i
dilemmi morali mostrano che la teoria etica fallisce il suo scopo. Su questo tema i filosofi
morali si dividono. Alcuni coltivano l’ambizione di raggiungere standards piuttosto alti di
determinatezza normativa. A questo scopo concepiscono la deliberazione come un
calcolo e assumono che solo attraverso questa rappresentazione la teoria etica può
soddisfare i suoi compiti pratici. Altri tengono in poco conto quelle teorie il cui solo
intento è di determinare l’azione oppure dubitano che possano mantenere la promessa di
risolvere tutti i conflitti morali (Williams, 1963; Pincoff, 1971; Blackburn, 1996). Nel
capitolo IV, ho mostrato che qualsiasi algoritmo decisionale venga costruito, e nonostante
la severa semplificazione della scelta morale che imponiamo quando rappresentiamo la
deliberazione sottoforma di calcolo, tali sforzi sono destinati all’insuccesso. Nessun
algoritmo aiuterà agenti come Sophie o Beatrice a deliberare meglio e risolvere il proprio
dilemma morale.
E tuttavia, la lezione da trarre non è che dobbiamo farci più modesti e accogliere
criteri più deboli di determinatezza in etica, ma che dobbiamo concepire altrimenti la
rilevanza pratica della teoria etica. Nei dilemmi morali la deliberazione fornisce un
giudizio secondo il quale non c’è nulla di giustificato da fare: l’azione non sarà espressiva
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 128
di noi stessi e della nostra visione del problema. I conflitti morali sono sempre una
minaccia all’unità, e la deliberazione dovrebbe essere vista come un tentativo di
rispondere a tale minaccia. I dilemmi morali sono particolarmente preoccupanti perché in
questi casi l’azione è arbitraria, quindi non è pienamente intenzionale e perciò non può
riportare l’agente all’unità. Questo fatto non indebolisce il significato pratico della teoria
etica.
Per essere praticamente rilevante, la teoria etica non deve essere univocamente
determinata. Ciò non perché i costi della determinatezza normativa siano troppo alti
(Williams, 1981; Blackburn, 1996). Piuttosto, è perché è un errore identificare la
rilevanza pratica della teoria etica con la sua capacità di guidare e determinare l’azione.
Quando affrontiamo un conflitto morale e cerchiamo una risoluzione non siamo
semplicemente interessati ad agire per uscire da uno stallo deliberativo. Siamo interessati
a comprendere la natura del nostro problema e rispondervi in modo appropriato e
responsabile, cioè sulla base di buone ragioni. Ciò che ci preme non è che alla fine si
faccia qualcosa, che si decida in un modo o nell’altro, ma che si scelga l’azione
appropriata, quella espressiva delle persone che siamo, data la nostra comprensione del
caso. Quando l’azione è inevitabilmente arbitraria, bisogna guardare ad altri modi in cui
ci è possibile esprimere e quindi ricostituire la nostra integrità. Le azioni non sono le sole
attività pratiche attraverso le quali esprimiamo ed esercitiamo la nostra identità di agenti:
disponiamo di altre risorse. Gli atteggiamenti, i sentimenti, le emozioni sono altri modi in
cui abbiamo un impatto sugli altri. Dunque un compito pratico importante della teoria
etica, altrettanto importante per la nostra integrità della procedura deliberativa, è quello di
offrire dei criteri normativi per comprendere e guidare le reazioni e gli atteggiamenti
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 129
degli agenti dopo la loro scelta morale. La teoria etica mostra di essere praticamente
rilevante nei dilemmi morali quando ci aiuta a confrontarci con l’arbitrarietà di certe
scelte, identificando le sorgenti di tali arbitrarietà e guidando le nostre attività future di
deliberazione, riparazione ed auto-riparazione. Ne segue che la determinatezza normativa
non è un desideratum della teoria etica. Il significato pratico più importante della teoria
etica consiste nell’offrirci una riflessione filosofica sistematica sulle difficoltà e i limiti
che incontriamo nel perseguire un certo ideale morale (Rorty, 1988, p. 329; Bagnoli,
2000, capp. 8-9).
Con questo credo di aver mostrato che la spiegazione filosofica del dilemma che
ho proposto in questo saggio non ci costringe a rifiutare la teoria come impresa pratica,
ma ci impone di guardare diversamente al suo significato pratico e ridescriverne i
compiti. Ma questa risposta non avrebbe soddisfatto Bernard Williams, secondo il quale
il dilemma morale mette in crisi la teoria etica non solo come impresa pratica, ma come
impresa teorica. Per Williams la “teoria” etica non può fornirci alcuno strumento di
comprensione del conflitto morale e ci istruisce malamente su come risolverlo. A suo
parere, i teorici dell’etica trattano il conflitto morale alla stregua di una contraddizione
logica, una patologia da curare, secondo un modello di razionalità epistemico. Eppure, le
ragioni per cui un agente tenta di risolvere il conflitto morale hanno poco a che fare con
la coerenza logica. È, piuttosto, la necessità di costituire un sé integro e autentico, un
bisogno che è psicologico e sociale, anziché logico. Denunciando questo fraintendimento
della natura del conflitto morale Williams afferma che “lo sforzo di comporre i nostri
conflitti e di formulare leggi atte ad eliminare l’incertezza morale mediante la costruzione
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 130
di una teoria etica filosofica è uno sforzo destinato all’insuccesso” (Williams, 1981, 108109).
Una delle critiche più frequenti mosse alla teoria etica è che il teorizzare è
inevitabilmente riduttivo perché impiega delle idealizzazioni che ci allontanano dalla
comprensione dell’esperienza ordinaria, e delle generalizzazioni che semplificano e
schematizzano la concretezza e la salienza delle situazioni particolari. In breve, la teoria
impoverisce la comprensione che abbiamo di noi stessi e del modo in cui esperiamo la
moralità. Ciò significa, per Williams, che bisogna dare priorità metodologica ad una
riflessione intelligente sulle proprie esperienze morali che ha bisogno di essere
interpretata e confortata da un’indagine sui fatti rilevanti, ma non c’è bisogno di una
teoria etica normativa. È fuorviante pensare che solo la teoria etica offra le risorse per una
critica intelligente delle proprie pratiche e tradizioni, c’è qualcosa di mezzo tra la teoria e
il mero pregiudizio, e cioè, una riflessione critica ma non sistematica (Williams, 1985,
116, 112).
Al contrario di Williams, ritengo non solo che la teoria etica sia un’impresa
legittima, ma che ci offra strumenti teorici peculiari che nessun altro tipo di teoria
(biologica, psicologica o sociologica) può darci, ovvero, dei criteri normativi con cui
comprendere i dilemmi e conflitti come fenomeni morali. Naturalmente, non basterà
esporre l’agente perplesso alla teoria etica perché si convinca a rivedere le sue credenze
morali e ridescrivere la sua situazione, così come non basterà esporre il razzista ad un
argomento per convincerlo dell’indecenza morale della sua posizione. Ma ciò non
dimostra il fallimento della teoria etica. Infatti, una teoria etica si indirizza a quelle
persone che hanno almeno un interesse minimo alla moralità, e non cerca di convincere il
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 131
razzista che non sia sensibile alle critiche e al giudizio degli altri, e abbastanza riflessivo
e motivato da poter sostenere una discussione normativa sulle ragioni che lo spingono ad
adottare il razzismo.
Allo stesso modo, perché l’agente perplesso sia capace di
beneficiare della teoria etica, deve essere un agente riflessivo, disposto a riconsiderare le
sue posizioni e reazioni, sensibile alle critiche e al giudizio, capace di ascolto e di riorientamento.
Chi si oppone alla teoria etica perché impiega idealizzazioni e generalizzazioni
suppone che l’idealizzazione inevitabilmente allontana la teoria dalle pratiche e dalle
esperienze ordinarie, rendendola così inutile o falsa rispetto ai fatti. Sembra che il teorico
dell’etica debba per forza porsi fuori dalle pratiche ordinarie, contemplarle e valutarle
dall’esterno (Walzer, 1987, pp. 3-32, Baier 1985). Anziché insistere sulla continuità tra la
teoria e la pratica della morale bisogna, a mio avviso, riconoscere che il teorizzare è
un’attività morale. Il compito essenziale del teorizzare (in etica come in politica) è quello
di rivitalizzare la nostra immaginazione, espandere la gamma delle alternative che siamo
capaci di percepire come salienti. Teorizzare è un esercizio morale volto a forzare i limiti
che le abitudini, il nostro egoismo, e le tradizioni ci hanno imposto. In questa prospettiva,
il teorizzare in etica non consiste nel criticare le pratiche ordinarie secondo gli standard di
un modello di idealizzazione, ma è piuttosto l’adottare un ideale morale.
L’adozione dell’ideale morale ha un effetto dirompente sul nostro assetto
cognitivo e motivazionale. Avere in mente un ideale, adottarlo, ci trasforma: non solo ci
motiva diversamente, ma dà forma e consistenza alla nostra realtà, e determina quali
attività e desideri hanno autorità e devono essere perseguiti. C’è continuità tra la teoria e
la pratica della morale, ma non nel senso di un reciproco aggiustamento. Piuttosto, è lo
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 132
scarto tra quello che siamo e quello che dovremmo essere che conta. Si delibera avendo
un ideale in mente. Insistere che offrire un ideale decente è lo scopo precipuo della teoria
etica significa riconoscere la potenziale forza rivoluzionaria del teorizzare in etica, la
capacità di trasformazione che la teoria può avere sulla nostra mente, sulla nostra
percezione della realtà, e sulle nostre interazioni con gli altri. Privarci della teoria etica ha
l’effetto di impoverire le nostre risorse per percepire, comprendere, guidare e operare il
cambiamento. È la teoria etica che espone la limitatezza della deliberazione e le
condizioni sociali della nostra integrità, ma in questo modo essa ci dà anche le risorse per
porvi rimedio, facendoci comprendere le radici della nostra fragilità e vulnerabilità e
guidandoci attraverso un ideale.
Carla Bagnoli, Dilemmi morali 133
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