RACCONTO MONFERRINO Di Maurizio Asquini Quando i genitori
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RACCONTO MONFERRINO Di Maurizio Asquini Quando i genitori
RACCONTO MONFERRINO Di Maurizio Asquini Quando i genitori gli dissero che si sarebbero trasferiti a Moncalvo, nel Monferrato, Giuseppe s’immaginò che un paese con un nome così, non poteva essere che un borgo arroccato su un monte spoglio, privo di vegetazione e con casupole attraversate da viottoli. Ma appena vi giunse con la famiglia gli sembrò un nuovo mondo, posto curati. Il tra colline paese disperazione gli trascorsi ricoperte piacque nel al di tal Polesine filari punto gli di che vigneti i ben giorni sembrarono di lontani ricordi. Il Po in quel periodo non aveva dato tregua alla già sfortunata popolazione del basso Polesine. Il fiume spingeva con tutta la sua forza le acque grigie verso le campagne, distruggendo lentamente tutto ciò che trovava: case, alberi, piantagioni e famiglie. Il cielo, il fiume e la terra avevano assunto lo stesso colore grigio, come per dipingere uno spettacolo fin troppo drammatico. Si trasferirono in una cascina posta ai piedi di una collina. A Giuseppe attirò anche la nuova abitazione, diversa da quella lasciata alle acque del Po. Adesso vivevano al piano terra di un cascinale con ben quattro camere e il bagno sotto il portico. Avevano l’acqua in casa e la cucina era molto spaziosa. Tutti trovarono subito lavoro: suo papà come muratore, i fratelli come falegname e carrozziere, mentre lui iniziò a lavorare come garzone presso una casa vinicola. Il suo lavoro consisteva nel travasare ettolitri di vino in damigiane che il suo padrone, un certo Rinaldi, caricava poi su di un camion e consegnava per tutto il nord Italia. Proprio in quella cantina fece amicizia con Giovanni. 1 Di mestiere faceva il camionista e spesso si occupava di distribuire il vino del Rinaldi. Aveva venticinque anni: tarchiato, moro con i capelli a spazzola e due baffetti che restavano su come spilli. Aveva un difetto alle gambe dovuto a una poliomelite, e quando camminava si notava il suo passo da “papera” un po’ barcollante. «Lo lascio qui il camion! Avvisatemi quando posso partire.» disse a Giuseppe con poca simpatia: in quel periodo era uso diffidare degli emigranti e si vedeva di cattivo occhio ogni forestiero che giungeva in paese. Oltre a Giuseppe, quel giorno nella cantina del Rinaldi si trovava Milo, un ragazzo figlio del proprietario di un’altra cantina vinicola, che proprio quel giorno compiva diciott’anni. «Deh, Milo!» gridò Giovanni «Allora stasera come d’accordo si festeggia?» «Passa alle sette che si mangia e poi andiamo a divertirci! Vieni con noi?» domandò a Giuseppe impreparato a quell’invito. In fondo non conosceva ancora nessuno a Moncalvo, ma i due ragazzi si erano mostrati gentili. Giuseppe non si fece ripetere due volte la domanda e la sera, alle sette in punto, si fece trovare davanti alla cantina. Giovanni arrivò con una Fiat 1100 grigio scura. Non lo salutò: era un ragazzo taciturno, diffidente e spesso permaloso. Forse era dovuto al fatto della sua menomazione alle gambe e perché il confrontarsi con il prossimo lo faceva sentire inferiore a tutti. «Dai sali che andiamo da Milo!» disse senza alcuna espressione. Attraversarono due colline per una strada provinciale e raggiunsero la cantina di Milo. Milo era un ragazzo simpatico a chiunque, era basso e biondo e parlava un piemontese molto stretto accento veneto, faticava a capire. 2 che Giuseppe, con il suo Entrarono nella cantina dove trovarono una tavola preparata in maniera spartana, con dei giornali al posto della tovaglia e un tagliere con due salumi. Milo afferrò un piccone e si arrampicò dietro una botte, dove iniziò a frantumare una parete che cedette ai primi colpi. Una volta levati i calcinacci, prelevò dall’antro due bottiglie di vino. «Queste le aveva messe mio padre il giorno che sono nato. E oggi che ne faccio diciotto è giunta la loro ora!» Iniziarono a mangiare e a bere in silenzio. «Di un po’, da dove vieni tu?» domandò Giovanni a Giuseppe. «Dal Veneto. L’alluvione ci ha fatti scappare. Ci siamo salvati per miracolo perdendo casa e bestie! Posto maledetto da Dio è quello!» «Vedrai che qui starai bene. Se hai voglia di lavorare ne troverai finché vuoi» gli disse con un tono che gli fece capire tutta la sua solidarietà. Terminato il pasto e ormai mezzi brilli, uscirono dalla cantina e salirono in auto. Giovanni guidò in silenzio nel buio in quelle strade a lui molto note. Era novembre e c’era la nebbia. Attraversarono campi e vigneti finché s’immersero in una strada statale. A Giuseppe non interessava sapere dove fossero diretti: gli piacevano i nuovi amici e la particolare allegria. «Fermati che è lì!» disse ad un tratto Milo. Al bordo della statale c’era parcheggiata una vecchia Alfa con a fianco una donna con una pelliccia che, per via dell’usura, aveva trascorso tempi migliori. Aveva un accento romano, con capelli tenuti legati con un elastico. Appena li vide gettò via la sigaretta. «Beh! Che si festeggia stasera?» domandò a Giovanni con un tono di voce volgare. «Il giovane ha fatto diciott’anni.» 3 Giuseppe si turbò per quell’esperienza spesso raccontata dai ragazzi e a lui mai capitata. Avrebbe sicuramente preferito avere la sua prima esperienza sessuale con una ragazza verso cui provasse dei sentimenti. «Allora avanti il festeggiato. Sono mille, ma essendo in tre vi faccio un piccolo regalino.» Milo scese dall’auto e raggiunse la donna che si era già distesa sul sedile posteriore dell’Alfa. Gli altri due restarono in auto a fumare attendendo il proprio turno. Giuseppe sapeva che sarebbe toccato prima a Giovanni e quasi aveva ritegno a far l’amore con una donna dove, pochi attimi prima, due altre persone avevano già “espletato” i loro piaceri. Dopo mezz’ora tornò Milo in uno stato allegro: Giovanni scese dall’auto e si accomodò nell’Alfa. La donna aveva appena gettato un pezzo di carta igienica di cui si era servita per pulirsi. Si sentivano i gemiti di Giovanni e i suoi piedi calzati dalle scarpe ortopediche che si agitavano fuori dall’abitacolo. Poi toccò a Giuseppe. «E’ la prima volta bello? Dai rilassati che ci penso io!» Fu una notte indimenticabile per Giuseppe, che dopo un tour presso tutte le osterie che incontrarono tra un paese e l’altro, arrivò in uno stato pietoso davanti alla sua cascina. Era talmente ubriaco che rigettò litri di vino e alcolici proprio sul piazzale dell’aia. I tre divennero inseparabili, specialmente Giuseppe e Giovanni che s’incontravano tutte le sere per recarsi a giocare a bigliardo o al cinema. Un sabato pomeriggio, mentre attraversavano il paese, passarono davanti alla villa di un certo dottor Chierici, un medico che lavorava ad Alessandria. Si fermarono incantanti come colpiti da una visione angelica: a Giovanni cadde persino la sigaretta dalle labbra. 4 Nel cortile Nessuno di i due loro notarono l’aveva mai una né ragazza vista che né stendeva conosciuta. i panni. Era una ragazza alta e mora, con capelli talmente neri che riflettevano il blu e tenuti sciolti sulle spalle. La ragazza canticchiava una canzonetta, ignara dei due spettatori. Ma ad un tratto si accorse e quasi si vergognò. Restò sbalordita, curiosa e incantata agli sguardi dei due ragazzi. Subito dopo si ritirò in casa. «Chi è quella ragazza?» domandò Giuseppe. «No l’ho mai vista. Sarà la nuova domestica.» Così i due sovente passavano davanti alla villa del dottore nella speranza di rivedere quell’angelo moro che a entrambi aveva lasciato un segno nel cuore. Seppero che si trattava, infatti, della nuova domestica del dottor Chierici, venuta da Treviso a lavorare con vitto e alloggio, come si usava a quei tempi. Ogni momento libero i due ragazzi puntualmente passavano davanti alla casa del dottore. Finché, una mattina, la incontrarono mentre usciva per far la spesa. Indossava un cappotto rosa e un foulard a fiori le avvolgeva il collo. Iniziarono a correre: Giovanni con il suo passo anomalo che lo fece sentire goffo. «Ciao. Come ti chiami?» gli domandò Giuseppe. La ragazza si voltò timidamente. «Celeste.» e sorrise riconoscendo i due ragazzi che spesso vedeva dalla finestra della villa curiosare invano nel cortile. Giovanni gli diede la mano quasi spaventato. «Mi chiamo Giovanni.» «E io Giuseppe.» «Scusate ma sono di fretta.» e li lasciò fermi davanti alla piazza del mercato. 5 Trascorsero molti giorni senza che nessuno dei due incontrò nuovamente Celeste. L’indomani a Moncalvo si svolgeva la festa del vino, e tutte le cantine del paese esponevano la loro enorme botte in piazza offrendo vino a tutti. Ci sarebbe stata la banda, l’orchestra e molte persone dei paesi limitrofi, peccato che la pioggia battente avrebbe rovinato la festa. Il Rinaldi aveva incaricato Giovanni di recarsi alla cantina con il camion per caricare la botte e trasportarla nella piazza. La botte conteneva il vino dell’annata precedente, pronta per essere assaggiata da tutti gli abitanti del luogo e concorrere tra le altre cantine vinicole. Giovanni uscì dall’officina e passò, oramai per abitudine, davanti alla villa del dottore, e proprio sotto la pioggia battente vide Celeste fuori dalla villa intenta a trascinare il bidone della spazzatura. Lasciò subito il mezzo e scese verso di lei in preda ad un’emozione che mai aveva provato. «Ciao Celeste.» disse timidamente al buio sotto la pioggia. «Mio Dio! Mi hai spaventato! Cosa fai?» «Ripariamoci sotto il portico che qui ci prendiamo un malanno!» gli propose Giovanni. I due si soffermarono sotto il portico della villa temendo entrambi di essere visti dal dottore a cui sicuramente avrebbe fatto poco piacere la visita del corteggiatore. «Volevo chiedere se... Domani verresti alla festa in piazza? Ci tengo molto a uscire con te.» «Va bene. Ci vediamo domani sera in piazza. Ma adesso vai che se mi vede il padrone mi caccia via.» rispose frettolosamente. A Giovanni sembrò di aver toccato il cielo con un dito, che i suoi piedi potessero correre come un vero atleta e che quella pioggia battente fosse diventata il sole. 6 Salì sul camion completamente fradicio diretto alla cantina del Rinaldi. Aveva freddo e girò attorno il paese per raggiungere casa e cambiarsi i vestiti. Subito dopo passò Giuseppe con la moto: una Vespa con parabrezza che lo proteggeva dalla pioggia come uno scudo. Era diretto al bar ad attendere Giovanni, che sarebbe arrivato con un po’ di ritardo per un lavoretto che doveva svolgere. Pure lui vide Celeste trafficare col bidone. Si fermò di scatto. «Ciao Celeste. Come stai? Non riesco a incontrarti una sola volta.» Celeste sorrise a Giuseppe che gli era piaciuto fin dal primo incontro, mentre stendeva i panni. «Ciao. Ma sei veneto anche tu?» «Sono della provincia di Rovigo, e tu?» «Io sono di Treviso! Dove stavi andando, Giuseppe?» «Allora te lo ricordi il mio nome! Ti andrebbe di fare un giro?» Era sabato e, in effetti, per Celeste era il giorno di libertà. «Dai aspettami! Prendo il cappotto e arrivo subito.» Poco dopo anche il tempo si era messo a loro favore, illuminando il cielo con stelle e una splendida luna. «Dove lavori?» gli domandò mentre restava aggrappata al suo giubbotto un po’ per timore e un po’ per ripararsi del freddo. «Lavoro presso una cantina. Non l’hai mai vista una cantina? Ti va di visitarla? Il mio capo mi ha lasciato le chiavi.» Lei acconsentì senza dire nulla. Intanto Giovanni uscì da casa carico d’entusiasmo per la gradita risposta di Celeste e per il cielo che luccicava di stelle. “Domani sarà una splendida giornata.” Già s’immaginava Celeste che le mentre camminava raccontava del per suo Moncalvo paese nel a braccetto veneto. di Avrebbe sicuramente accettato l’invito al cinema o una gita nei dintorni durante il fine settimana. 7 Avviò il camion e si diresse al bar per avvisare Giuseppe dell’imprevisto e di venire con lui alla cantina per caricare la botte. Si fermò al Bar Sport, ma di Giuseppe nessuna traccia. «Non si è ancora visto!» gli rispose il barista. Allora riprese la corsa verso la sua cascina. Ma anche lì suo fratello gli disse che era uscito con la moto un paio d’ore prima. “Che faccio?” si domandò “Dove si sarà cacciato? Sicuramente è rimasto a piedi con quel catorcio di moto!” pensò sorridendo nella speranza d’incontrarlo al bordo della strada mentre tentava inutilmente di riparare il guasto. Lasciò il camion dietro alla cantina del Rinaldi e gli bussò alla porta per ritirare la chiavi. Il Rinaldi quella sera aveva ospiti e pregò Giovanni di sbrigarsela da solo. «Non si preoccupi Rinaldi: carico la botte e domani mattina la scarico in piazza. Le lascio le chiavi nella grata vicino al pozzo.» Appena Giovanni si diresse verso la cantina, notò che all’interno la luce era accesa. Immaginò subito Giuseppe che lo attendeva. Aprì la porta lentamente per coglierlo di sorpresa e comunicargli la bella notizia che lo avrebbe fatto sentire orgoglioso di aver conquistato la ragazza sognata da entrambi. Entrò silenziosamente nella cantina e il respiro gli si bloccò. Sentì gemere dietro ad una botte. Pensò di cogliere Giuseppe con una prostituta o con qualche “ragazzaccia” del posto. Ma dalla penombra di una colonna notò Giuseppe e Celeste che si baciavano con ardore. «Amore, dal primo giorno che ti ho visto mi sei piaciuto subito. Speravo sempre d’incontrarti da solo e di poterti parlare senza quell’antipatico del tuo amico. 8 Sapessi con che invadenza ha preteso di uscire con me! Fortuna che sono riuscito a mandarlo via.» A Giovanni gli si fermò il cuore. Abbassò gli occhi e osservò le sue scarpe ortopediche. Dalla rabbia prese una leva per aprire le botti, si avvicinò in silenzio ai due e iniziò a colpirli in preda ad un impulso isterico. Odiava Celeste, Giuseppe, il paese e la sua malattia. Si ruppero anche delle bottiglie di Barbera, e il vino si mescolò al sangue dei due ragazzi. Ad un tratto Giovanni si fermò rendendosi conto della follia che aveva appena compiuto. Si sedette per terra iniziando a piangere con le mani nel sangue mescolato al vino che rilasciava un odore acre. Si osservò le mani e se le mise sulla faccia, sporcandosi di quella macabra miscela rossa. Poco dopo prese una scala e la poggiò alla botte che doveva trasportare in piazza. Raccolse Giuseppe per le ascelle e lo issò sulle spalle. A fatica si arrampicò sulla scala e lo gettò dentro. Si ricordò del giorno che lo salutò proprio lì in quella cantina, e lui, diffidente, manco gli rispose. Si ricordò di quando lo accompagnò dalla prostituta e delle serate trascorse assieme. Poi fu la volta di Celeste che prese in braccio come una sposa: il suo volto adesso era deformato per i colpi che aveva ricevuto. Pensò alle volte che aveva sognato di prenderla in braccio allo stesso modo e di abbracciarla ricambiando il proprio amore. Poi la posò delicatamente al bordo della botte e la lasciò calare nel vino, dove si appoggiò al suo amato che stava sprofondando verso il fondo. Richiuse il coperchio e lavò con il getto della pompa ogni traccia del delitto. Subito dopo tornò col camion e caricò con l’argano la botte dove l’indomani venne esposta in piazza assieme a tutte quelle delle cantine del Monferrato. 9 La gente assaggiava ogni qualità di vino e proprio quella del Rinaldi risultò la migliore. «Io il vino lo curo con amore!» si vantava il Rinaldi dinnanzi a tutti gli intenditori, mentre a Casale Monferrato il suo camion, con alla guida Giovanni, aveva appena sfondato il parapetto del fiume Po per terminare la sua corsa in fondo alle acque torbide. 10