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Un nuovo nome alla Confessione per viverla meglio!
Anno Santo Straordinario – Giubileo della Misericordia Un nuovo nome alla Confessione per viverla meglio! L’hanno sempre chiamata «Confessione» ed era una grossa stortura. Da cinquant’anni non si chiama più così. La Chiesa vuole che si chiami «sacramento della Penitenza» o meglio ancora «sacramento della Riconciliazione» o «sacramento del perdono». Il termine «confessione» non era affatto indovinato perché esprimeva una caratteristica marginale del sacramento; infatti, il confessare i peccati non è l’elemento principale. L’elemento decisivo è un altro: è pentirsi, è riconciliarsi con Dio e coi fratelli. Confessare i propri peccati è sempre stato una cosa pesante per tutti. Soprattutto il confessarli con sincerità assoluta. Confessare i propri peccati è l’elemento più gravoso al nostro orgoglio, e tuttavia non è ancora la cosa più impegnativa per la nostra vita. Se bastasse confessare un delitto per cancellarlo, sarebbe anche semplice! Una colpa non basta confessarla. Non basta neppure confessarla con sincerità e crudezza, è troppo poco! Dalla colpa bisogna uscire: è questo il problema. La Chiesa ha ritenuto necessario continuare a mantenere l’obbligo di confessare le colpe gravi con sincerità, ma chi si fermasse lì non vivrebbe ancora con frutto il cuore del sacramento. L’anima del sacramento è pentirsi, è rinnovarsi, è iniziare una vita nuova. «Confessarsi è la cosa più antipatica», mi diceva una persona. Anch’io lo credo, soprattutto se è fatta con coscienziosità, cioè svelando a fondo ogni colpa grave, ed è umiliante; però la cosa più problematica è il pentimento sincero; non è svuotare il sacco a un prete, ma far partire in noi una vita nuova. Se fosse stato sufficiente dire le proprie colpe non sarebbe stato necessario che Cristo istituisse un sacramento, bastava dicesse di trovare una persona esperta con cui “vuotare il sacco”, non c’era bisogno di un uomo consacrato dallo Spirito per rappresentare in quel gesto tutta la Chiesa. Tuttavia va anche osservato che se esiste il pentimento schietto e profondo, confessare le proprie colpe a un uomo diventa facile. Quando si è realmente pentiti, confessare umilmente le proprie colpe non fa problema. Le storture del sacramento del perdono Le anomalie nella pratica della confessione oggi non sono poche e incidono certamente sulla crisi di questo sacramento. 1) È un «perdono troppo a buon mercato». Urta certamente la mentalità moderna questo perdono facile che sa tanto di formalismo (sentirsi apposto). Quando si pensa allo svuotamento del sacramento nelle confessioni delle parrocchie, quando si pensa alla routine delle confessioni fatte per devozione, o nei Santuari per sentire la coscienza pulita, viene subito spontaneo il pensiero che siamo fuori da un comportamento di serietà, viene da pensare che giochiamo al perdono, che lo stile di confessarsi è un po’ una presa in giro della misericordia di Dio! Siamo noi che stiamo affondando il sacramento con la nostra superficialità. 2) La «povertà del rito» è un fatto innegabile. È il sacramento più verbale di tutti e quindi il più facile a esser vittima dell’appiattimento a conversazione. È il sacramento più spoglio nella forma, può essere celebrato in qualunque luogo, in qualunque tempo: ciò favorisce indubbiamente una celebrazione rilassata, poco preparata e sentita. È il sacramento più in balia degli abusi nella sua celebrazione, sia da parte del prete, sia da parte dei fedeli, atteggiamenti che lo snaturano pesantemente. 3) La «sproporzione storica» tra l’antica prassi penitenziale, usata un tempo nella Chiesa, e l’attuale celebrazione è enorme, si direbbe che non ha confronti. Forse si voleva accentuare la gratuità del perdono, ma c’è da chiedersi onestamente se non siamo andati troppo lontano nell’accentuare la gratuità del perdono da farne un gioco. Quando pensiamo che nel III secolo per i tre peccati capitali non c’era perdono che una volta sola nella vita (i tre peccati capitali erano: l’idolatria - l’omicidio - la lussuria) e ora che per un omicidio, per esempio un aborto, un adulterio, insegniamo che basta inginocchiarsi a un confessionale, bisbigliare a un prete il delitto, ricevere un segno di croce e tutto è sistemato, c’è da dire che siamo andati troppo lontano dalla tradizione della Chiesa. Sì, si è sempre insegnato che per la validità dell’assoluzione occorreva il pentimento sincero, ma quali mezzi di controllo ci sono per questo pentimento? L’attuale prassi penitenziale li ha cancellati tutti i segni esteriori di pentimento, è come se a un delinquente invece di metterlo in prigione gli si mostrasse solo più la prigione in cartolina! 4) La «privatizzazione eccessiva» del sacramento è un’altra anomalia forte della pratica penitenziale attuale. La privatizzazione ha causato forse un altro male molto grave: ha aiutato a dimenticare che il peccato aveva una dimensione anche ecclesiale, era un delitto contro la Comunità ecclesiale, era un decadimento della Chiesa, perciò interessava tutta la Chiesa, perciò tutta la Chiesa era interessata a guarirlo. Quando il penitente, nell’antica liturgia penitenziale, veniva a inginocchiarsi davanti al Vescovo, per chiedere perdono alla Chiesa del suo peccato, certo i fedeli capivano meglio il peccato come fatto ecclesiale, come colpo inferto alla Chiesa, e si capiva anche di più la mediazione della Chiesa per il perdono dei peccati, come mediazione essenziale. 5) Un’altra anomalia della confessione è la confusione che si era creata tra il sacramento e la direzione spirituale. Se il confessore non fa la sua «esortazione» il penitente ne resta insoddisfatto. Oppure certi penitenti anziché puntare dritto al problema, preferiscono parlare, raccontare a lungo, e fare domande al confessore, in sedute interminabili che spesso fanno scalpitare e spazientisco chi fa coda. Il confessionale non è un stanzino per la psicoterapia. Confondere la confessione con una gratuita occasione per sfogare sensi di colpa o sentimenti di vario genere è una profanazione del sacramento. Gesù non ha inventato questo sacramento per curare i turbamenti lievi o gravi della psiche, ma per tendere la mano al peccatore di buona volontà che vuole uscire dalle sue debolezze. Se è il sacramento della conversione sincera, per convertirsi non occorrerebbero tante parole, né da parte del penitente né da parte del confessore. Le accuse pesanti rivolte alla morale cristiana tradizionale È indispensabile che la riflessione morale compia un’autocritica ben decisa rispetto alle idee del passato che sono all’origine dei problemi presenti. Solo quando il malato ammette di non star bene si può pensare a una guarigione. Uno studioso, José Ramos anni fa faceva queste pesanti accuse alla teologia morale tradizionale: - La morale era troppo «morale del peccato», fatta tutta in luce negativa. Infatti i manuali di teologia morale erano scritti solo per i confessori, erano come un ricettario medico tutto negativo fatto per valutare la colpa, perdendo di vista le esigenze positive della morale cristiana. - Era una morale dell’«atto umano» considerato in se stesso, troppo staccato dal contesto della persona e dei suoi condizionamenti. - Era una «morale della legge», che partiva da una visione fissata sulla norma e su ciò che materialmente dice, per cui facilmente cadeva nel formalismo, nel legalismo, nel giuridismo. Lo stesso teologo, proponeva le seguenti caratteristiche per una sana riflessione teologica morale: - La morale cristiana deve presentarsi in luce positiva, come «morale dell’amore», che tiene conto delle debolezze dell’uomo ma mira con tutte le forze a liberarlo, mira alla maturazione della sua persona in riferimento a Dio e al prossimo, suscita in lui un impegno esigente di progresso, lo scuote dall’immobilismo e dalla legge del minimo sforzo per sentirmi a posto, lo spinge al servizio dei fratelli. - La morale cristiana è la «morale della persona»: valuta la persona nel suo insieme, nel suo stile di vita, e misura e stimola la sua responsabilità personale e sociale. - La morale cristiana è una «morale creatrice», che vede nell’uomo un collaboratore di Cristo per un ordine rinnovato, che vede l’uomo proteso “nel futuro”, dimensione essenziale del mistero di Cristo.