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Nota editoriale Alla sua morte, a soli quarant`anni, nel 1849, Edgar A

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Nota editoriale Alla sua morte, a soli quarant`anni, nel 1849, Edgar A
Nota editoriale
Alla sua morte, a soli quarant’anni, nel 1849, Edgar A.
Poe (come di solito si firmava, lasciando puntata la A di
Allan, cognome del padre adottivo John Allan) aveva già impresso il suo marchio nella letteratura che gli sarebbe seguita. Ritenuto l’inventore del racconto poliziesco, soprattutto
in chiave piscologica, si cimentò tuttavia anche in svariati
racconti satirici e umoristici, talvolta surreali, dimostrandosi
precursore e ispiratore anche in questo campo.
“Bon-Bon—A Tale” (“Bon-Bon”), pubblicato nel dicembre del 1835 sul Southern Literary Messenger (ma una prima
versione del racconto, intitolata “The Bargain Lost” era apparsa nel 1832 sulle pagine del Philadelphia Saturday Courier), costituisce una sorta di ibrido tra racconto gotico e
racconto satirico. I toni cupi e minacciosi garantiti dalla presenza del Diavolo in persona sono stemperati nella comicità
dalla passione di quest’ultimo per le anime dei filosofi, di cui
da sempre si ciba con gusto, e spesso con accento critico.
“The Spectacles” (“Gli occhiali”), comparso sul Philadelphia Dollar Newspaper nel maggio del 1844, ironizza sul
concetto di amore a prima vista, coinvolgendo il lettore nella
beffa perpetrata ai danni di un troppo vanitoso e miope giovane della buona società dell’epoca.
“X-ing a Paragrab” (“X-ando un pezzo”), pubblicato per
la prima volta su The Flag of our Union nel maggio del 1849,
rappresenta un divertito scherzo che ha come bersaglio il
mondo delle riviste letterarie e dei loro direttori, dove la satira passa attraverso il gioco di parole e scivola poco alla
volta nel non-sense puro e semplice.
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NOTA EDITORIALE
“The Thousand-and-second Tale of Scheherazade” (“Il
milleduesimo racconto di Sheherazade”), pubblicato sul Godey’s Lady’s Book nel febbraio del 1845, è una variazione
burlesca delle Mille e una notte: Sheherazade prosegue per
un’ulteriore, milleduesima, notte la narrazione delle avventure di Sinbad, che nella ripresa del suo viaggio si imbatte
nelle invenzioni e scoperte del XIX secolo: proprie queste,
pur vere, appariranno agli occhi del re irriverenti menzogne,
mutando fatalmente la sorte di Sheherazade.
“The Devil in the Belfry” (“Il diavolo nel campanile”),
uscito sulle pagine del Philadelphia Saturday Chronicle il 18
maggio 1839, è una breve storia di stampo satirico riferita
alla città di New York, alle sue origini olandesi e all’“invasione” del territorio da parte degli scalmanati Irlandesi e dei
loro violini, paragonati al Diavolo.
“The Balloon Hoax” (“La beffa del pallone”), pubblicato
sul New York Sun il 13 aprile 1844, costituisce una magnifica beffa ai danni della smania di progresso dei contemporanei dello scrittore americano. Il racconto apparve mascherato da pezzo giornalistico, riportando la notizia di un mai avvenuto attraversamento dell’Oceano Atlantico, consumato in
soli tre giorni a bordo di una macchina volante. Nel 1835,
sullo stesso giornale, una simile beffa ai danni dei lettori
aveva riportato la notizia della scoperta di vita sulla Luna.
Un secolo più tardi Orson Welles, leggendo alla radio un
adattamento della Guerra dei mondi di H. G. Wells, dimostrò
che qualunque lettore, o ascoltatore, in qualunque epoca, sarà
sempre disposto a credere a una storia capace di eccitare la
sua fantasia, che sia vera o che non lo sia.
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BON-BON
Quand un bon vin meuble mon estomac
Je suis plus savant que Balzac.
Plus sage que Pibrac;
Mon brass seul faisant l’attaque
De la nation Cossaque,
La mettroit au sac;
De Charon je passerois le lac
En dormant dans son bac;
J’irois au fier Eac,
Sans que mon cœur fit tic ni tac,
Présenter du tabac.
Canzoncina francese1
Nessuno di coloro che frequentavano il piccolo caffè
Le Febre di Rouen avrebbe osato mettere in dubbio, credo,
che Pierre Bon-Bon fosse un ristoratore con doti non comuni. E che fosse, allo stesso modo, dottissimo della filosofia di quel periodo, era, immagino, ancora più innegabile. I suoi patè di fegato erano perfetti, certamente, ma
quale penna potrà rendere giustizia ai suoi saggi Sulla Natura, ai suoi pensieri Sull’anima, alle sue osservazioni
Sullo spirito? Se le sue omelette, i suoi fricandò erano impareggiabili, quale letterato del tempo non avrebbe dato
per una Idea di Bon-Bon il doppio di quanto sarebbe stato
1 QUANDO UN BUON VINO MI RIEMPIE LO STOMACO/ MI SENTO PIÙ ERUDITO DI BALZAC./
PIÙ SAGGIO DI PIBRAC;/ ATTACCANDO COL SOLO MIO BRACCIO/ TUTTA LA NAZIONE COSACCA,/
LA METTEREI A SACCO;/ DI CARONTE PASSEREI IL LAGO/ ADDORMENTATO NELLA SUA NAVICELLA;/ MI PRESENTEREI AL FEROCE ESCO,/ SENZA CHE IL CUORE MI FACESSE NÉ TIC NÉ TAC,/ A OFFRIRGLI DEL TABACCO.
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EDGAR ALLAN POE
disposto a dare per le Idee riunite di tutti gli altri saggi
messi insieme?
Bon-Bon aveva saccheggiato biblioteche come nessun
altro, aveva letto più di ogni uomo al mondo, aveva capito al di là di ogni possibilità umana di comprensione; e ancorché, mentre lui fioriva, non mancasse a Rouen qualche
autore il quale sosteneva “che i suoi detti non possedevano né la purezza dell’Accademia né la profondità del Liceo”, ancorché le sue dottrine non fossero comprese dai
più, non ne consegue per questo che esse fossero di difficile intendimento. Anzi, forse proprio per la loro semplicità molti erano indotti a giudicarle astruse.
A Bon-Bon (ma che ciò non si sappia in giro), Kant è
in gran parte debitore della sua metafisica. Il primo non
era in realtà un platonico, né strettamente parlando un aristotelico, e neppure, come Leibnitz, sciupava ore preziose
che impiegava invece utilmente magari nell’invenzione di
una fricassea o, facili gradu, nell’analisi di una sensazione, in vani tentativi per riconciliare gli inconciliabili, l’acqua e l’olio cioè della discussione etica. Affatto. Bon-Bon
era ionico. Bon-Bon era italico. Ragionava a priori e anche a posteriori. Le sue idee erano innate, o il contrario.
Credeva in Giorgio di Trebisonda. Credeva in Bossarion.
Bon-Bon era, accanitamente, un bon-bonista.
Ho parlato del filosofo nella sua capacità di ristoratore.
Non vorrei che qualche mio amico s’immagini che adempiendo i propri doveri ereditari in questo senso il nostro
eroe pretendesse un’adeguata valutazione della loro dignità
e importanza; tutt’altro! È impossibile dire di quale ramo
della sua professione andasse maggiormente orgoglioso. A
parer suo i poteri dell’intelletto erano intimamente connessi con le capacità dello stomaco. Tutto sommato credo
la pensasse come i cinesi, che situano la sede dell’anima
nell’addome. A ogni modo riteneva avessero ragione i greci,
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BON-BON
che usavano un vocabolo unico per indicare la mente e il
diaframma.
Non voglio con questo accusarlo di ghiottoneria o di
altre colpe che potrebbero arrecare pregiudizio alle sue
doti di metafisico. Se Pierre Bon-Bon aveva le sue pecche
(e quale grande uomo non ne ha almeno un migliaio?), si
trattava di quisquilie senza importanza, di peccatucci che
in altri sono stati spesso considerati quasi come virtù. A
proposito di uno di tali lati deboli, non ne avrei neppure
fatto cenno in questo racconto se non fosse per la straordinaria importanza, per l’estremo alto rilievo 2 con cui
esso spiccava nel piano generale del suo carattere; non sapeva mai rinunciare all’occasione di fare un buon affare.
Non che fosse avaro, questo no. Non era affatto necessario, perché il filosofo si sentisse soddisfatto, che l’affare dovesse per forza tornare a suo vantaggio. Ogni volta
che concludeva un affare, di qualsiasi genere, a qualsiasi
condizione, in qualsivoglia circostanza, per molti giorni
un sorriso di trionfo gli illuminava i tratti, mentre una
strizzatina d’intesa degli occhi forniva la prova della sua
sagacia.
Un ingegno tanto diverso dagli altri avrebbe suscitato
attenzione e curiosità in qualsiasi epoca; ma all’epoca di
cui parlo, se questa sua caratteristica non avesse attirato
l’attenzione allora sì che vi sarebbe ragione di meravigliarsi. Presto non tardò a diffondersi la voce che in tutte
quelle circostanze il sorriso di Pierre Bon-Bon differiva
enormemente dalla risata aperta, schietta con la quale era
solito accogliere i propri motti di spirito o salutare un conoscente. Subito si diffondevano dicerie inquietanti; si
narravano storie di affari pericolosi conclusi avventatamente e lungamente rimpianti; si adducevano esempi di
2 IN ITALIANO NEL TESTO.
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EDGAR ALLAN POE
doti inspiegabili, di desideri vaghi, di inclinazioni innaturali
suggeriti dall’autore di ogni male per astuti scopi tutti suoi.
Il filosofo possedeva anche altre debolezze, ma non
vale la pena di sottoporle a un serio esame. Per esempio,
pochi sono gli uomini di profondità non comune che non
sentano inclinazione per la bottiglia. Sarebbe davvero interessante appurare se poi tale inclinazione sia una causa
motrice o piuttosto una valida prova di tale profondità.
Bon-Bon, che io sappia, non riteneva l’argomento degno
di uno studio minuzioso, e in quanto a questo nemmeno io.
E tuttavia non si deve supporre che il ristoratore, indulgendo a una tendenza così squisitamente classica, perdesse di vista quella discriminazione intuitiva che soleva
distinguere tanto i suoi saggi quanto le sue omelette. Nei
suoi isolamenti spirituali, al vino di Borgogna era dedicata un’ora particolare, e v’erano momenti ben determinati
per il Côtes du Rhône. Per lui il Sauterne stava al Medoc
nella stessa misura con cui Catullo stava a Omero. Sorseggiando del St. Peray soleva trastullarsi con i sillogismi,
ma davanti a una bottiglia di Clos de Cougéot si metteva
a dipanare una discussione e in un torrente di Chambertin
era capace di sovvertire tutta una teoria.
Sarebbe stata una gran bella cosa se lo stesso rapido
senso della scelta del momento opportuno lo avesse assistito anche nella passione per il contrattare alla quale ho
appena accennato, ma tale non era assolutamente il caso.
Anzi, per essere esatti, questa caratteristica intellettuale
del Bon-Bon filosofo incominciava in realtà ad assumere
un aspetto stranamente intenso e mistico, apparendo profondamente imbevuta della diavoleria che distingueva i
suoi prediletti studi germanici.
Entrare, all’epoca di cui parlo, nel caffè Le Febre, era
come entrare nel sancta sanctorum di un uomo di genio.
Bon-Bon, del resto, era un uomo di genio. Non esisteva
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BON-BON
sottocuoco, a Rouen, che non fosse pronto a giurare che
Bon-Bon era un uomo di genio. Lo sapeva perfino il suo
gatto, il quale in presenza di tanto uomo si guardava bene
dall’agitare la coda. Ne era al corrente pure il suo cane,
addestrato per la caccia in palude, che all’avvicinarsi del
padrone tradiva il proprio senso d’inferiorità assumendo
un’aria contrita, abbassando le orecchie e lasciando la mascella inferiore pendula come si addice a un cane. È anche
vero che buona parte di questo rispetto abituale poteva essere attribuita all’esteriorità del metafisico. Bisogna pur
riconoscere che un aspetto distinto s’impone anche su un
animale, e devo ammettere che quello del ristoratore pareva fatto apposta per impressionare un quadrupede.
Spira un’aura di particolare maestà dai piccoli grandi
(se mi si consente un’espressione così equivoca) che a
volte la semplice mole fisica è incapace a creare. Se tuttavia Bon-Bon era alto solo novanta centimetri, e possedeva una testa incredibilmente piccola, era però impossibile guardare la rotondità della sua pancia senza trarne un
senso di grandiosità che rasentava il sublime. Nelle sue
proporzioni, uomini e cani dovevano vedere la somma delle doti del suo proprietario, nella sua immensità un degno
abitacolo della sua anima immortale.
Potrei a questo punto attardarmi a descrivere il modo
di vestire del filosofo e altre sue caratteristiche esteriori.
Potrei accennare al fatto che il nostro eroe era solito portare i capelli tagliati cortissimi, pettinati lisci sulla fronte e
coronati da una berretta di flanella bianca di forma conica
ornata di nappine; che il suo panciotto color pisello non
seguiva la moda come quelli portati normalmente dai ristoratori del tempo; che le maniche erano un poco più
ampie di quanto imponesse il costume; che i polsini non
erano foderati, come si usava in quel barbaro periodo, di
una stoffa della stessa qualità e colore del vestito, bensì in
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modo assai più fantasioso, di velluto genovese bicolore;
inoltre calzava babbucce porporine, curiosamente filigranate, che avrebbero potuto essere state fabbricate in Giappone, se non fosse stato per le estremità, squisitamente appuntite, e lo splendore dei legacci e del ricamo. Indossava
brache di quel particolare raso giallo detto amabile e un
mantello azzurro-cielo, che per la forma ricordava una vestaglia, tutto riccamente decorato di disegni cremisi, gli
svolazzava romanticamente sulle spalle come una nebbia
mattutina; infine il suo insieme aveva fatto esclamare a
Benvenuta, l’improvvisatrice fiorentina, “che era difficile
dire se Pierre Bon-Bon fosse in verità un uccello del paradiso o piuttosto un vero paradiso di perfezione”. Potrei, ripeto, se volessi, attardarmi su questi particolari, ma me ne
astengo; queste quisquilie del tutto personali le lascio agli
scrittori di romanzi storici: sono troppo al di sotto della dignità morale del dato di fatto.
Ho detto che “entrare nel caffè Le Febre era come entrare nel santuario di un uomo di genio”, ma in realtà era
soltanto l’uomo di genio che poteva stimare al suo giusto
valore i meriti di quel sancta sanctorum.
Davanti all’ingresso dondolava a mo’ d’insegna un
grande in-folio. Su un lato del volume era dipinta una bottiglia; sull’altro lato un paté. Sul retro era scritto a grandi
caratteri Opere di Bon-Bon. In tal modo era delicatamente adombrata la duplice occupazione del proprietario.
Appena varcata la soglia appariva subito tutto l’interno
dell’edificio, ché in realtà il caffè era composto di un’unica stanza bassa, di costruzione antica. In un angolo si trovava il letto del filosofo. Una gran quantità di tende, nonché un baldacchino alla greca, conferivano all’ambiente
un aspetto classico e confortevole a un tempo. Nell’angolo diametralmente opposto si notavano, strettamente accomunati, gli elementi caratteristici della cucina e della bi-
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blioteca. Sulla credenza troneggiava serafico un piatto di
polemiche; nel forno una torta dell’ultimissima etica; in un
cantuccio si affacciava una cuccuma piena di miscellanee
in dodicesimi. Volumi di morale germanica facevano comunella con la graticola; di fianco a Eusebio riposava un
forchettone, mentre Platone sonnecchiava beato nella padella e manoscritti contemporanei erano infilati sullo spiedo.
Per il resto il caffè di Bon-Bon poco differiva dai normali ristoranti dell’epoca. Dirimpetto all’uscio si spalancava la bocca di un grosso camino e a destra di questo una
credenza aperta metteva in mostra un formidabile schieramento di bottiglie etichettate.
Fu qui, verso la mezzanotte di una rigida giornata d’inverno, che Pierre Bon-Bon, dopo aver ascoltato per molto
tempo i commenti dei vicini sulla sua singolare propensione e averli buttati tutti quanti fuori di casa, chiuse la
porta a doppia mandata imprecando e si mise a sedere in
uno stato d’animo tutt’altro che sereno in una comoda poltrona di cuoio, davanti a un fuoco di fascine crepitanti.
Era una di quelle notti spaventose che capitano solo un
paio di volte in un secolo. Nevicava fitto fitto e la casa vacillava sotto la spinta del vento che, infilandosi attraverso
le crepe del muro e soffiando dentro il camino, scuoteva
paurosamente le tende che circondavano il letto del filosofo, mettendo un gran scompiglio tra pentole e carte. L’enorme insegna che dondolava all’esterno, così esposta alla
furia della tempesta, scricchiolava sinistramente, emettendo un gemito lamentoso dai puntelli di quercia massiccia
che la sorreggevano.
Ho già detto come il metafisico si fosse messo a sedere nella solita poltrona accanto al fuoco in uno stato d’animo tutt’altro che placido. Durante la giornata erano accaduti numerosi episodi sconcertanti che avevano turbato
la serenità delle sue meditazioni. Nel tentativo di cucinare
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uova alla principessa aveva disgraziatamente preparato
una omelette alla regina; la scoperta di un principio d’etica era stata frustrata da uno stracotto che si era rovesciato, e da ultimo, fatto questo tuttavia non meno importante,
era stato privato del piacere di concludere uno di quegli
stupendi affari che tanto si beava ogni volta di portare a
felice compimento.
Alla stizza procuratagli da queste contrarietà si mescolava l’ansia nervosa che la furia di una notte diabolica
è sempre destinata a produrre. Dopo aver fischiato, perché
gli venisse più vicino, al grosso cane nero cui già abbiamo
accennato, ed essersi rigirato inquieto sulla poltrona, non
seppe trattenersi dal lanciare un’occhiata cautamente sospettosa verso i remoti recessi della stanza le cui ombre
inesorabili non potevano essere che parzialmente raggiunte dai bagliori rossastri del camino. Compiuto questo esame
il cui preciso scopo era forse incomprensibile perfino a lui
stesso, tirò a sé un tavolinetto coperto di libri e di carte e
non tardò a immergersi nella revisione di un voluminoso
manoscritto destinato a essere pubblicato l’indomani.
Era così occupato da qualche minuto quando nella
stanza si udì improvvisamente sussurrare una voce lamentosa:
– Io non ho fretta, monsieur Bon-Bon.
– Diavolo! – esclamò il nostro eroe balzando in piedi e
capovolgendo così il tavolo che aveva accanto, mentre si
guardava attorno stupefatto.
– Verissimo, – rispose calma la voce.
– Verissimo? Verissimo che cosa? Come siete entrato
qui? – vociferò il metafisico, mentre l’occhio gli cadeva su
una forma che se ne stava lunga distesa sul letto.
– Stavo dicendo, – proseguì l’intruso senza degnar
d’attenzione tutti quegli interrogativi, – stavo dicendo che
il tempo non mi sospinge affatto, che l’affare per il quale
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mi sono preso la libertà di venire da lei non è per nulla urgente. In breve, posso benissimo aspettare finché non avrà
finito la sua esposizione.
– La mia esposizione? Andiamo! Che cosa ne sapete,
voi? Come avete fatto a indovinare che io stavo scrivendo
un’esposizione?
– Zitto! – replicò la figura con voce sommessa ma stridula e, levatasi prontamente dal letto, mosse un passo, uno
solo, verso il nostro eroe, mentre una lampada di ferro che
pendeva dal soffitto arretrò oscillando convulsamente al
suo avvicinarsi.
Nonostante lo stupore il filosofo non seppe trattenersi
dall’osservare con attenzione l’abbigliamento e l’aspetto
dello sconosciuto. Magrissimo, ma di statura molto superiore alla media, la sua figura allampanata era resa ancora
più scarna da un vestito di panno nero che aderiva strettamente alla persona e appariva evidentemente tagliato secondo la foggia di un secolo addietro. Quegli abiti dovevano essere stati in origine destinati a un individuo di statura molto più piccola dell’attuale proprietario perché caviglie e polsi restavano scoperti di parecchi centimetri. Le
scarpe però erano ornate di due splendide fibbie che smentivano l’estrema povertà del resto dell’abbigliamento. Aveva il capo scoperto e interamente calvo, eccezion fatta per
la nuca dalla quale pendeva una coda di rispettabile lunghezza. Un paio di occhiali verdi con lenti laterali gli riparavano gli occhi dalla luce, impedendo al tempo stesso
al nostro eroe di determinarne il colore e la forma. Il misterioso personaggio non recava alcuna traccia di camicia,
ma una cravatta bianca, incredibilmente sudicia, gli serrava la gola ed era legata con impeccabile precisione tanto
che le estremità penzolavano l’una accanto all’altra conferendogli (benché secondo me ciò fosse senza intenzione)
un’apparenza ecclesiastica.
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