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L`insepoltura nel mondo antico

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L`insepoltura nel mondo antico
L’INSEPOLTURA NEL MONDO ANTICO
Luciano Minieri
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SOMMARIO: 1. - Premessa; 2. - La corretta sepoltura; 3. - Partes secanto; 4. - Il suicidio; 5. - Il divieto di sepoltura per i
condannati a pene capitali: a) Israele; 6. – b) Grecia; 7. – c) Roma; 8.- Il divieto di sepoltura per i debitori insolventi e l’impedimento alla celebrazione dei funerali; 9. - Il permesso di traslazione.
1. - Premessa.
Il problema della sepoltura dei corpi dei defunti è sempre stato centrale nella vita delle comunità tanto antiche quanto moderne1. A partire dalle tracce delle sepolture dell’uomo di Neanderthal e
di Cro-magnon2 per giungere al cosiddetto editto napoleonico di Saint Cloud del 18043, la visione
dei corpi in decomposizione ha sempre creato imbarazzo alle collettività. È addirittura stato stilato
da William Grooke un catalogo, un elenco dei riti funerari suddivisi in tredici categorie: cannibalismo; dolmen ed altri monumenti in pietra; abbandono agli animali feroci o agli uccelli predatori;
sepoltura sotto cumuli di pietra; sepoltura in grotte; nel pavimento o nelle pareti di una casa; immersione nell’acqua del mare o di fiumi; deposizione dentro o sopra un albero; abbandono su una piattaforma; incinerazione con raccolta delle ceneri in un’urna; seppellimento in posizione contratta, in
una nicchia; mediante una sepoltura segreta con l’occultamento di ogni segno esteriore4. Sono state
proposte innumerevoli spiegazioni dei due modi principali di sepoltura, l’incinerazione e
l’inumazione, e ipotesi sulla anteriorità dell’uno rispetto all’altro5. La sepoltura è stata considerata
come uno strumento di passaggio senza il quale non si può godere del mondo ultraterreno e la vicinanza del luogo di seppellimento al luogo di vita dei successori è stata alla base della concezione
dello stretto rapporto che lega gli antenati ai discendenti6. D’altro canto il divieto di sepoltura è stato ritenuto (lo si vedrà più avanti) la sanzione per l’inadempimento contrattuale o per comportamenti contrari alle regole della comunità, come nell’ipotesi del crimen maiestatis o di altre condotte non
conformi alla visione comune: ad esempio, il caso del suicidio per impiccagione7.
L’argomento della non sepoltura – voluta o subita che sia – è talmente rilevante ancor oggi che,
come è stato riferito da un rapporto della SIR, l’agenzia di stampa della Conferenza episcopale italiana – lo rende noto un quotidiano di rilevanza nazionale –, centinaia di corpi giacciono per mesi
negli obitori di tutta Italia in attesa di essere identificati e di ricevere un pur modesto funerale ed
una degna sepoltura8.
Data la vastità dell’argomento, svilupperò soltanto due aspetti, la questione della corretta sepoltura – senza la quale il morto viene considerato come non sepolto – e i divieti di sepoltura causati da
condanne o da altri diversi motivi, e offrirò singoli spunti ulteriori.
2. - La corretta sepoltura.
Sul primo punto si deve osservare che a far considerare il soggetto correttamente sepolto non è
solo la materiale sepoltura dopo la morte avvenuta in battaglia, se in tempo di guerra – o, se in tempo di pace, la mera sepoltura praticata senza il ricorso a regole precise dopo la fine di un soggetto
avvenuta a seguito di una vita vissuta secondo le regole del buon vivere civile e prodottasi in modo
* Ripropongo qui il testo della relazione letta il 21 ottobre presso l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
nell’ambito del Convegno su “Vita/Morte. Le origini della civilizzazione antica”, con l’aggiunta del corredo delle note e
qualche piccola modifica di testo, riservandomi di riprenderne in maniera più ampia i singoli aspetti in altra occasione.
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naturale o non in seguito a condanne o a condotte comunque disonorevoli –. A tal fine, invece, è indispensabile anche l’esatta esecuzione delle prescrizioni rituali relative alla sepoltura e al sepolcro.
La vita dopo la morte e il perpetuarsi del ricordo dell’aspetto fisico del morto dovevano essere il
prodotto non solo delle modalità del decesso ma anche del trattamento praticato sul cadavere al
momento della sepoltura. Potrebbe quasi dirsi che il termine dell’esistenza di un soggetto doveva
essere considerato come spostato dal momento della morte a quello della cerimonia funebre, dalla
circostanza del decesso a quella della sepoltura condotta secondo le disposizioni rituali, sulla base
di quanto prescritto dalla religione e dalle norme del diritto9. Gli insulti fatti al cadavere prima della
sepoltura e la regolarità delle operazioni di seppellimento condizionavano l’immagine del morto
che, ovviamente, non veniva dimenticato e continuava ad essere vicino ai vivi. Esattamente è stato
notato che per la cultura greca antica – ma il discorso in generale vale per tutte le culture antiche –
“la pietas verso i morti era un obbligo sociale e religioso diffuso [...]. Il defunto privo degli onori
mortuari era destinato a vagare senza patria (non più quella dei vivi e non ancora quella dei morti).
E la profanazione dei sepolcri era avvertita come lo spregio più odioso che si potesse compiere”10.
Nel mondo greco, con riferimento ad un’epoca precedente a quella classica, in quella che potremmo definire ‘società omerica’11, la coincidenza tra una morte onorevole e una corretta sepoltura
rituale si verifica specialmente in tempo di guerra, non riguarda tutti i cittadini ma soprattutto i giovani guerrieri che sacrificano la loro vita e la loro giovinezza per la loro patria e per ottenere una
morte gloriosa, la cd. «bella morte», il γέρας θανόντων12. Ma perché ciò si realizzi non vi deve solo
essere la partecipazione del guerriero al combattimento e la produzione dell’evento morte in battaglia – durante la quale viene sottolineata l’esaltazione dell’atteggiamento del guerriero che, con la
sua
possanza
fisica
e
con
lo
splendore
delle
armi
e
dell’armatura, terrorizza i nemici – ma anche con il conferimento al cadavere di adeguati onori funebri e di
una degna sepoltura. Come nota Paola Gagliardi, vi è “un obbligo dei superstiti verso il defunto e
dell’intera comunità verso il guerriero, in cambio del suo sacrificio per il bene collettivo; allo stesso
modo è dovere dei compagni sul campo di battaglia proteggere il corpo del caduto dagli oltraggi dei
nemici e riportarlo al campo per consentire le cerimonie funebri. Per le stesse ragioni i nemici, a loro volta, cercheranno di appropriarsi del corpo dell’avversario per restituirlo dietro riscatto o per
negargli gli onori funebri e recargli l’estremo oltraggio di lasciarlo insepolto, privando lui della pace eterna e accrescendo l’angoscia dei suoi per non aver potuto compiere gli
ultimi doveri e per non essersi potuti«saziare di pianto»”13.
L’Iliade e l’Odissea ma anche i tragici greci sono pieni di figure di guerrieri quali Sarpedonte e
Patroclo, attorno ai cui cadaveri si accesero furibondi combattimenti14, Achille, la cui furia selvaggia riempie di corpi lo Scamandro15, Ettore il cui corpo venne devastato dalla violenza del nemico16,
tutti personaggi ed episodi troppo noti per richiedere una descrizione dettagliata.
Altrettanto note sono le pagine che Jean-Pierre Vernant ha dedicato al rapporto tra la bellezza
del corpo del guerriero ucciso gloriosamente in battaglia – che in perpetuo manterrà la sua giovinezza e a cui sarà precluso il decadimento fisico causato dal passare del tempo – da un lato e una
corretta sepoltura rituale, dall’altro17. Come emerge già solo dal titolo di un famoso lavoro dello
studioso francese “La belle morte et le cadavre outragé”, questo rapporto tra il modo di morire in
battaglia del guerriero (nello splendore della sua forma fisica) e il trattamento subito dal corpo prima e durante la sepoltura è costante nelle fonti e deve essere considerato, per così dire, quasi endiatico. Vernant individua più forme di αἰκία, di oltraggio, di maltrattamento del cadavere18, che rendono impossibile concedere al soggetto regolari riti funebri tali da assicurarne l’immortale ricordo e
ne impediscono la ‘bella morte’: il trascinamento nella polvere del campo di battaglia, che ne imbratta il corpo19; lo smembramento di esso (il caso di Aiace che, furioso, stacca la testa di Imbrios20,
di Ettore che decolla Patroclo21 e così via), cosa che ne inibisce la sepoltura e un regolare funerale22
e l’abbandono del cadavere alla decomposizione, che rappresenta in assoluto il contrario della bella
morte. Tutti questi insulti al cadavere ne impediscono la “conservazione” dopo la morte e una regolare sepoltura e infine anche un perpetuarsi del guerriero nel ricordo dei concittadini.
Nel mondo romano, perché il corpo del morto potesse essere considerato correttamente sepolto,
Relazione al convegno del 21/10/2014 Vita/Morte: le origini della civilizzazione antica
TESTO PROVVISORIO
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doveva essere seppellito con una precisa ritualità. Solo in questo modo si determinava un iustum sepulcrum, una sepoltura fatta secondo canoni religiosi e precise norme23, pratica che aveva un esatto
riscontro nella società romana che, come è noto, credeva nel perpetuarsi sui discendenti non solo
delle azioni compiute in vita dai defunti ma anche del loro aspetto fisico, fissato non all’istante del
decesso, bensì al momento della sepoltura rituale (v. il rito delle imagines maiorum24). In caso contrario i morti sarebbero tornati a tormentare i vivi come “morts malfaisants”, presentandosi sotto
l’aspetto di larvae ostili o di spaventosi lemures25.
La sepoltura era distinta dal semplice interramento26 del cadavere di un soggetto malvagio o di
coloro a cui era imposta, perché nemici o criminali, come pena aggiuntiva, la dispersione delle spoglie27, costringendo così l’anima del soggetto non sepolto a errare in eterno. Veniva, invece, considerato come assenza di sepoltura, “insepulta sepultura” – lo ricorda Gianfranco Purpura – il caso in
cui mancavano «requisiti oggettivi (piena disponibilità della porzione di terreno o dell’opera sepolcrale; intento di realizzare una sepoltura a titolo temporaneo o definitivo), ma soprattutto soggettivi
(integrità corporea tra la morte e la giusta sepoltura, oltre che l’assenza d’infamia, di condanne)»
necessari per una corretta sepoltura e «il rispetto di esigenze rituali [copertura simbolica, anche di
un’urna cineraria, con terra (terra condere), di morti a contatto con la terra, dunque non impiccati,
né annegati»28. Lo studioso palermitano ricorda, a questo proposito, la decisione di Quinto Mucio
relativa al caso di un soggetto disperso in mare e non sepolto in terraferma: il giurista ritenne che la
famiglia non fosse stata contaminata (familia pura) sulla base della circostanza che os supra terram
non extaret29. Ma non si può non ricordare il lamento virgiliano sulla sorte del nocchiero di Enea,
Palinuro, insepolto perché caduto in mare e che per questo non poteva varcare le soglie dell’Ade
(Nunc me fluctus habet) e che prega il suo condottiero dicendogli: Tu mihi terram inice, namque potes30.
Che vi fosse un, per così dire, interesse pubblico alla “giusta sepoltura”31, mi sembra si ricavi in
modo quasi paradigmatico da un episodio ricordato in un passo di Modestino32. Si tratta di un caso
proposto al giurista relativo ad una disputa tra un erede testamentario e un erede legittimo. Il testatore aveva istituito un erede sotto la condizione: ‘se getti i miei resti in mare’, condizione che non
era
stata
eseguita.
Alla
richiesta
dell’erede legittimo, il quale riteneva che il testamentario dovesse essere privato dell’eredità, il giurista
rispondeva che quest’ultimo andava invece lodato perché il non aver gettato in mare i resti e averli
consegnati alla sepoltura era utile per la memoria della condizione umana (memoria humanae condicionis sepulturae tradidit). Il parere del giurista, che a prima vista sembra contrario alle regole del
diritto civile trovava il suo fondamento, invece, su un valore collettivo più ampio: la difesa, come
ha sostenuto di recente Andrea Trisciuoglio, del «bene comune (qui consistente nella memoria collettiva della caducità della condizione umana), bene che il sepolcro garantisce mentre la dispersione
dei resti del defunto pregiudica»33.
La necessità di una giusta sepoltura, effettuata, cioè, secondo il rito e la cui assenza corrispondeva praticamente alla sua mancanza, alla non sepoltura dei resti mortali, viene ad essere modificata
con l’avvento del cristianesimo. Agostino in un’opera specificamente destinata al tema, il de cura
pro mortuis gerenda34, dà conto di una prospettiva completamente diversa35.
Secondo lo scrittore cristiano per i seguaci della nuova fede lo scempio dei corpi e la non sepoltura non arrecavano alcun vero danno. Certo – per il vescovo - bisogna chiedersi se all’anima di un
defunto arrechi qualche sollievo il luogo della sepoltura del suo corpo e se possa esser motivo di
sofferenza che il corpo non sia stato sepolto ma ciò non potrà indurre un cristiano a non credere che,
come affermato da Cristo, i pagani potevano infierire solo sui corpi e che neanche un capello del loro capo sarebbe andato perduto36. Durante le stragi di un numero così ingente di cristiani non si poteva – riflette il dottore della chiesa – dare neppure sepoltura ai cadaveri. Ma una fede autentica,
fondata sul presupposto che neanche le bestie che li avevano divorati potevano impedire la risurrezione di quei corpi, non poteva tener da conto come presupposto indispensabile la sepoltura37. Per
un cristiano, insomma, la solennità del funerale, la nobiltà della sepoltura, la grandiosità delle esequie sono più un sollievo per quelli che restano che un vantaggio per i defunti.
Relazione al convegno del 21/10/2014 Vita/Morte: le origini della civilizzazione antica
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Con queste osservazioni non si vuol certo dire che per i seguaci della nuova fede la sepoltura
non fosse un valore perché, come è noto, centrale nella fede cristiana è il principio della resurrezione dei corpi e il ricongiungimento delle anime dei trapassati con essi, cosa che comportava la cura
per il cadavere che non doveva essere violato perché potesse senza impedimento tornare in vita per
poter essere giudicato38.
La comunità dei cristiani, inoltre, ha, come espressione tipica della carità cristiana che riguarda
tanto i vivi quanto i morti, non solo l’obbligo di aver cura dei corpi dei defunti ma anche il dovere
di provvedere allo stesso seppellimento che viene considerato come “un dovere religioso universale”, “uno degli atti più meritevoli di carità”39.
Ciò che è, invece, diverso rispetto alla pratica pagana è che la sepoltura non è più considerata
come la condizione indispensabile per il riappacificamento tra vivi e morti e il defunto non correttamente sepolto non viene più ritenuto una entità ostile che è apportatrice di sgomento e paura40.
3. - Partes Secanto.
E veniamo ora ad una breve disamina di casi in cui il corpo del morto non veniva sepolto perché il soggetto in vita si era macchiato di reati o di altre colpe e era stato punito con la pena di morte. Anche in questa occasione non si potranno approfondire tutte le tematiche ma si dovrà procedere
per ampie approssimazioni raggruppando gli argomenti e le singole fonti intorno a nuclei tematici.
L’espressione partes secanto rinvia, come è noto, all’uccisione del debitore insolvente e allo
smembramento del suo cadavere in tanti pezzi quanto sono i creditori41, situazione regolata da una
famosa norma decemvirale, tab. 3 6: Tertiis nundinis partis secanto. Si plus minusve secuerunt, se
fraude esto. I singoli pezzi venivano probabilmente sepolti nel campo di ciascun creditore [ma
quest’ultimo particolare la norma decemvirale non lo dice] per incrementarne, in un contesto magico sacrale ma anche pieno di una primitiva logica risarcitoria, la fertilità42. Pur se il cadavere fosse
stato comunque sepolto, non può certo ritenersi che ci si trovi davanti a un iustum sepulcrum, ad
una sepoltura eseguita secondo le regole previste dalla religione e dalle norme giuridiche; anzi credo si possa affermare che la mera sepoltura del brano del cadavere avvenga in spregio del debitore e
certamente nell’interesse del creditore43. Ci troviamo, perciò, di fronte ad un primo caso – primitivo
ed arcaico – di non sepoltura.
Di recente Gianfranco Purpura ha proposto una nuova spiegazione del partes secare: la morte
del debitore – afferma lo studioso siciliano – «con la lesione dell’integrità corporea, sia nel caso di
una pluralità di creditori come indicano le fonti, che di un unico creditore che da solo ne avrebbe
potuto disperdere l’intero corpo, sembra essere stata una sanzione collegata ai culti funebri, alla
memoria e al conseguente “dovere” dei discendenti nel caso di giusto sepolcro di riprodurre i comportamenti degli antenati. La spartizione del corpo era solo simbolicamente rapportata alla pluralità
dei creditori, che ovviamente nel mondo romano dall’entità delle parti non ne avrebbero ricavato alcun vantaggio nonostante l’opinione di chi asserisce che il seppellimento nel campo del creditore ne
avrebbe potuto magicamente incrementare la fertilità»44. Pur se la posizione di Purpura tende a negare, come quella proposta da Franciosi – escludendo parimenti «ogni necessità di ricorrere
all’anticipazione di istituti romani assai più tardi, come fanno le ricorrenti teorie “patrimonialistiche” (il corpo del debitore sarebbe in realtà il suo patrimonio)» – non comprendo perché si debba escludere qualsiasi rapporto di causalità magico sacrale che ben si attaglia, invece, al periodo storico
e ad altri istituti coevi come quello della uccisione delle vacche pregne (fordae)45 e della deditio del
sottoposto deceduto46. Ma al di là di queste visioni diverse sullo smembramento del corpo del debitore insolvente, ai nostri fini la questione non cambia: si tratta comunque di una mancata corretta
sepoltura.
4. - Il suicidio.
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Il suicidio non sembra direttamente collegato con il problema della mancanza della sepoltura
nel mondo antico perché il divieto di essere sepolti in terra consacrata fu imposto solo dal concilio
di Nîmes del 1284, il quale lo aggiunse ad altre sanzioni già esistenti, quali il divieto di commemorare i suicidi previsto dal secondo concilio di Braga del 563 d.C. e da quello di Auxerre del 57847.
Ma ad un’attenta lettura delle fonti sembra che già in epoca romana fosse impedita la sepoltura
a chi si fosse procurata la morte mediante impiccagione. L’episodio più antico si riferisce all’età
monarchica: Tarquinio Prisco avrebbe impedito che fossero seppelliti - crocifiggendoli da morti - i
cadaveri dei cittadini che si erano suicidati per sfuggire all’onta di subire i munera loro imposti. La
vicenda
è
molto
nota
ed
è
riferita
da
più
fonti48
con
alcune varianti49 ma non è il caso in questa occasione di soffermarsi su di esse. Ciò che qui interessa è il
collegamento tra il suicidio per impiccagione e il divieto di sepoltura50. Altri episodi di suicidi mediante impiccagione sembra si siano verificati in epoca successiva con relativa proibizione di sepoltura ma tale divieto pare sia rimasto in vigore, come è stato di recente sostenuto, non oltre il secondo – primo secolo avanti Cristo e certamente non in età imperiale51.
Non riguarda quanto qui discusso, invece, la prassi di cui parlano Tacito e Dione Cassio e che è
riferita all’età di Tiberio: in quell’epoca alcuni cittadini che venivano accusati, per sfuggire alla
condanna e alle relative conseguenze, si suicidavano, evitando in questo modo anche il sequestro
dei beni e il divieto di sepoltura. Ciò ovviamente non accadeva a coloro che venivano, invece, condannati 52. In questo caso non si tratta, ovviamente, della pena per un suicidio ma il divieto di sepoltura è solo la conseguenza di una condanna capitale.
5. - Il divieto di sepoltura per i condannati a pene capitali: a) Israele.
Dalla lettura di testimonianze relative a popoli mediterranei emergono tracce di divieti assoluti
di sepoltura o di proibizioni di sepoltura nella polis, o ancora di prassi consolidate, seppur contrastate dal diritto. Del resto, la pratica di non concedere la sepoltura ai condannati non è prerogativa soltanto di un popolo ma sembra diffusa in tutta l’antichità e sventuratamente in uso ancor oggi, come
risulta da un recente rapporto di Amnesty International53 (nel quale, per la verità, si parla di mancata
comunicazione del luogo di sepoltura, il che, però, nei fatti equivale alla assenza di sepoltura). È,
poi, cronaca degli ultimi mesi la notizia che è stata fatto divieto di procedere alla sepoltura del cadavere di un uomo accusato di aver filmato installazioni militari in Siria nella provincia di Aleppo.
Dopo l’uccisione a colpi d’arma da fuoco, il cadavere è stato issato su una croce e gli è stato fissato
un cartello al collo sul quale era riportato il divieto di rimozione del corpo per almeno tre giorni
come monito per gli altri54.
Data l’ampiezza delle problematiche relative al divieto di sepoltura in seguito a condanne capitali – e non essendo a conoscenza di specifiche norme in materia per Egizi, Ittiti o altri popoli –, si
proverà ad esporre, a mo’ di esempio, qualche osservazione su ebrei, greci e romani.
Un passo del Deuteronomio prevedeva che «Quando un uomo avrà una colpa con giudizio di
morte, sarà fatto morire e lo appenderai ad un albero. Non far pernottare il suo cadavere sull’albero
e lo seppellirai il giorno stesso, perché il cadavere appeso è un’offesa al Signore e non renderai impura la tua terra che il Signore tuo Dio dà a te in possesso»55.
La normativa deuteronomica reagiva ad una prassi, di cui dà conto la Mishnà Sahnedrin, per la
quale alla pena di morte veniva aggiunta la pena accessoria della esposizione del cadavere fatta in
modo da sottoporre il corpo all’oltraggio degli agenti atmosferici o degli animali56.
La stessa Mishnà Sahnedrin prevedeva che i giustiziati non dovessero essere sepolti nelle loro
tombe di famiglia ma in fosse comuni, una che conteneva i lapidati e gli arsi e l’altra i decapitati e
gli strangolati57.
Queste norme (insieme a quelle romane) sono da tener presente anche a proposito del più ampio
e delicato tema della deposizione di Gesù dalla croce e dell’affidamento della salma a Giuseppe
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d’Arimatea, questione che in questa sede non può neppure essere presa in considerazione58.
6. – b) Grecia.
Per quanto riguarda, invece, il mondo greco il discorso è necessariamente più ampio e non si
può non soffermarsi sulla figura di Antigone, l’eroina che si oppose a Creonte, il quale aveva rifiutato a Polinice, fratello della fanciulla, il diritto di sepoltura (mediante un apposito decreto) perché
questi aveva combattuto contro la propria patria59. Troppo nota è la vicenda narrata da Sofocle per
essere necessario riproporla in questa occasione: molte e varie sono state le riflessioni sugli aspetti
filosofici e giuridici della storia e le interpretazioni della vicenda e della figura stessa di Antigone.
Si è voluto soprattutto vedere nella tragedia sofoclea “un conflitto ... tra due principi, ovvero due
dimensioni (famiglia e stato, ghenos e pòlis etc.) di pari importanza e grandezza, ciascuna delle quali ha le sue ragioni ed è di per sé valida e condivisibile, due posizioni simmetriche per quanto ciascuna di per sé limitata e insufficiente, due dimensioni che vengono messe in contrapposizione
l’una contro l’altra in vista di una composizione finale”60. D’altra parte spesso, come è stato notato,
si è finito per estrapolare il dramma dal suo contesto storico elevando la figura di Antigone a un mero simbolo e dimenticando gli aspetti più marcatamente giuridici e politici e soprattutto
l’identificazione delle leggi sacre evocate da Antigone in riferimento al quadro storico dell’Atene di
metà V secolo a.C.61.
Non credo, poi, interessi particolarmente in questa sede la discussione tra gli studiosi sulla portata del decreto di Creonte, e cioè se contenesse un divieto assoluto di sepoltura del corpo di Polinice o se fosse solo vietato seppellirlo in città, o ancora sottolineare la differenza di opinione tra coloro che vedono nella vicenda il conflitto tra ghenos e pòlis o tra leggi statali e una sorta di diritto comune non scritto che sovrasta le norme scritte62. Ciò che qui interessa in modo particolare sono soltanto i riferimenti alla condanna alla ataphìa, alla mancanza di sepoltura63. E, come ha esattamente
sostenuto Giovanni Cerri, le norme ricordate da Sofocle relative al trattamento del cadavere di Polinice non rappresentano un dato isolato ma descrivono una pratica molto diffusa nella Grecia del V
secolo, e destinata a colpire chi si fosse macchiato di tradimento e di sacrilegio64.
Le vicende storiche ateniesi tra il VII e il V secolo a.C. contengono, infatti, numerosi episodi
che si riferiscono a questa prassi che appare fondata sulla volontà (o la necessità) di arrecare ingiuria al cadavere del defunto, in modo da vendicarsi della colpa di cui il morto si era macchiato in vita.
Caso più antico è quello del comportamento dell’arconte Megacle, il quale, dopo il tentativo di
colpo di stato di Cilone e dei suoi uomini e il loro rifugiarsi sull’acropoli come supplici all’altare di
Atena (circa 636 a.C.), aveva promesso loro salva la vita ma poi aveva provveduto ad eliminarli.
Per l’omicidio sacrilego l’arconte e tutti gli appartenenti al suo ghenos, gli Alcmeonidi, considerati
“impuri”, furono condannati per sacrilegio. La pena fu per i vivi l’esilio mentre le spoglie dei morti
vennero dissotterrate e disperse fuori dalla città65.
Temistocle, morto attorno all’anno 459/458 fuori Atene e sepolto a Magnesia, non poteva essere
sepolto in patria perché colpevole di tradimento . Sarebbe stato, però, sepolto dai suoi familiari di nascosto in terra attica, lo stesso comportamento tenuto da Antigone che perciò ne rappresenta un preciso parallelo66.
Anche in occasione del tentativo eversivo del 411 a.C. vennero celebrati processi che irrogavano
la sanzione della ataphia: contro Frinico venne tenuto un processo post mortem e fu disposto che i
suoi resti fossero disseppelliti e allontanati dalla pòlis. La stessa sanzione accessoria fu irrogata anche a Aristarco e Alessicle, che avevano difeso Frinico67.
Antifonte e Archeptolemo furono considerati come traditori per avere partecipato
all’ambasceria che aveva offerto a Sparta la pace e condannati a morte e al divieto di sepoltura in
territorio ateniese68.
Per i generali accusati di omissione di soccorso durante la famosa battaglia alle Arginuse del
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406 a.C., il loro difensore Eurittolemo proponeva un giudizio autonomo e non di massa, facendo rilevare l’esistenza di due diversi dispositivi giuridici: l’antico decreto (psephisma) di Cannonos (che
contemplava per i colpevoli di delitti politici la condanna a morte e il lancio del cadavere nel bàrathron di Atene) e la legge che prevedeva, nei casi di tradimento contro la città e di furti sacrileghi,
la condanna e il divieto di sepoltura nel territorio dell’Attica69.
Dai passi qui riportati si può desumere un quadro giuridico abbastanza variegato, all’interno del
quale il divieto di sepoltura non costituisce una misura punitiva eccezionale, ma la pena accessoria
tipica per traditori e sacrileghi, con la possibilità di riferirsi a diversi dispositivi legislativi, da cui si
ricava, a seconda dei casi, il divieto assoluto di sepoltura oppure un divieto relativo con sepoltura
fuori del territorio della pòlis.
7. – c) Roma.
Quanto ai divieti di sepoltura previsti dal diritto romano come pena accessoria per i casi di pena
capitale, bisogna dire che nelle fonti sono individuabili molti episodi già dall’epoca repubblicana e
a partire dal caso delle truppe di stanza a Reggio, datato al 270 a.C.70, sino ai raccapriccianti racconti contenuti negli Atti dei Martiri71 e alle disposizioni di Giustiniano72. Manca, però, uno studio di
insieme sul problema e gli studiosi sono ancora divisi sulla ammissibilità di questa pena accessoria
per l’epoca classica mentre vi sarebbe una quasi unanimità per quanto riguarda la sua pratica in epoca tarda. Tra le varie fonti colpisce in particolare il ventiquattresimo titolo del quarantottesimo libro dei Digesta giustinianei (titolo che chiude il libro dopo quelli dedicati alle pene, ai beni dei condannati e ai provvedimenti di relegatio e di deportatio) che contiene solo tre passi, purtroppo molto
tormentati dalla critica73, che prevedevano la concessione della sepoltura solo in caso di petitio e di
seguente permissum. Ciò comportava che, soprattutto in caso di reati gravissimi come la maiestas,
senza richiesta dei familiari e autorizzazione imperiale la sepoltura non poteva essere effettuata.
Colpisce poi il passo di Marciano74 relativo ad un soggetto morto in esilio e lì sepolto: se i parenti
avessero voluto traslare la salma e farla seppellire nel suo luogo d’origine, avrebbero dovuto inoltrare apposita richiesta perché nel suo caso la poena post mortem manet, principio eccezionale
che non si accorda con il criterio generale secondo cui la morte pone fine alla condanna.
Un posto a parte in questo ragionamento occupa, poi, la poena cullei75, la pena del sacco in cui
veniva inserito il parricida (o il matricida, o ancora per una diversa ipotesi l’adultero76) perché in
questo caso il divieto di sepoltura non costituiva una pena accessoria rispetto alla pena principale
ma rappresentava essa stessa la pena primaria dal momento che l’otre – con il suo contenuto - veniva buttato direttamente in mare, cosa che impediva quindi ogni forma di sepoltura. Le ragioni
dell’inserimento del condannato nel sacco insieme ad animali dal forte significato simbolico (il gallo, il cane, la vipera e la scimmia) e del suo getto nei flutti del mare, se vicino o in caso contrario di
un fiume, non era causato - come ben ha notato Eva Cantarella e come era, invece, concezione tipica della cancelleria costantiniana77 – dalla volontà di privare il parricida dell’accostamento con gli
elementi (il cielo finché era vivo, la terra da morto), ma dalla necessità di proteggere l’aria, l’acqua
e la terra dal contatto di chi si fosse macchiato di un così mostruoso crimine78. In questa situazione
appare evidente che non poteva assolutamente essere consentito che il parricida fosse sepolto e
quindi il divieto di seppellimento era necessariamente un tutt’uno con la pena di morte irrogata
all’uccisore del proprio padre.
Un qualche collegamento con il divieto di sepoltura credo si possa vedere anche nel tattamento degli ermafroditi, soprattutto in età repubblicana, i quali in momenti di difficoltà politiche e religiose
sembra venissero soppressi mediante l’abbandono in mare79, non venendo così neanche loro sepolti
in un luogo preciso.
8. - Il divieto di sepoltura per i debitori insolventi e impedimento alla celebrazione dei funerali.
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CENTRO STUDI SUI FONDAMENTI DEL DIRITTO ANTICO
Questa pratica, che in qualche modo è genericamente collegabile con il partes secare, non è però esclusivamente romana ma è presente anche in altre regioni. Secondo una tradizione che risale a
Erodoto80, ma che è presente anche in Diodoro Siculo, Stobeo e Luciano81, in Egitto veniva praticata l’usanza del pegno della salma dei propri genitori. Essa venne introdotta dal faraone Asychis per
limitare l’elargizione di crediti in un momento di scarsità di ricchezze: solo chi offriva in pegno ciò
che di più prezioso possedeva, e cioè la mummia e la camera sepolcrale del padre, poteva ricevere
un prestito, la cui mancata estinzione avrebbe impedito la restituzione al debitore e la sepoltura della salma82.
Come si è accennato, anche i romani conoscevano la pratica del sequestro del cadavere del debitore insolvente e dell’impedimento del funerale, forse ancora un residuo dell’antica esecuzione
personale precedente alla legge Papiria. In età repubblicana vi è un riferimento a questa prassi in un
brano ciceroniano tratto dalla pro Quinctio83, che per alcuni, però, non costituisce un riferimento ad
un impedimento alla sepoltura ma rappresenta solo una mera esagerazione retorica: l’oratore pone
un collegamento tra la situazione debitoria del debitore insolvente e una sua ‘morte civile’84. Ma è
in epoca tarda che questo comportamento si concretizza in modo molto più consistente come si evidenzia in un passo del De Tobia di Ambrogio85. Il vescovo in qualità di iudex ordinarius, forse
in sede d’appello, poco prima dell’ottobre 373 d.C. (essendo stata scritta l’opera nei primi anni
del suo episcopato) autorizzava questo comportamento per i casi di evidente insolvenza86. La
prassi è riportata anche in un brano dell’Editto di Teodorico (che come è noto fu redatto intorno al
512 d.C.)87, ma già prima in un frammento di Ulpiano (che riferiva una costituzione di Settimio
Severo) era vietato l’uso frequentemente praticato di detinere o vexare il corpo del debitore o ancora di impedirne le esequie88. Come esattamente è stato notato, non è facile stabilire se questi
comportamenti rappresentassero il frutto di «costumanze che permangono nell’elemento popolare
ad onta dei divieti dell’autorità, o ... ci troviamo di fronte alla reazione del potere imperiale rispetto ad usanze provinciali»89. Quel che è certo è, invece, che questi comportamenti dovevano ancora persistere se prima Giustino con una costituzione del 526 d.C.90, e poi lo stesso Giustiniano91
dovettero ulteriormente reprimerli con costituzioni dai toni straordinariamente decisi, introducendo pure una cd. ‘pausa di rispetto’ per i familiari del defunto pari ad almeno nove giorni.
9. - Il permesso di traslazione.
Anche per il trasferimento di una salma da un luogo di seppellimento ad un altro sembra sia stato necessario ottenere una specifica autorizzazione. L’usanza dello spostamento di un cadavere – circostanza che riguarda anche la deposizione di Gesù dalla croce e le sepolture di San Pietro e San Paolo – non rappresenta una prassi di poco conto perché, come nota Barbara Fabbrini, traslazioni avvenivano di frequente specie nel caso di seppellimenti provvisori dei corpi di condannati a morte92. La ragione della necessità di autorizzazione93 sarebbe per la studiosa – sulle orme del Longo94 – da trovare
non nel divieto di seppellimento dei corpi dei condannati ma nella necessità ‘pubblica’ di sottoporre
la traslazione a precise prescrizioni rituali (doveva essere compiuta piaculo facto, di notte e dopo il
sacrificio di una ovis atra), ma non era forse anche un caso di richiesta di traslazione della salma la
domanda di trasferimento in patria di un deportato cui si è prima accennato?
1
Il tema è da sempre oggetto di studi e convegni. Si v. ad es., N. Criniti, Parole di pietra: morte e ‘memoria’
nell’Italia antica, in Ager Veleias 2. 07 (2011) 1 ss., con ampia bibliogr. Tra i convegni, il recente Convegno Internazionale di Studi su “Luoghi di culto, necropoli e prassi funeraria fra tarda antichità e medioevo”, tenutosi a Cimitile e a
Santa Maria Capua Vetere il 19 e 20 giugno 2014.
2
M. Ragon, L’espace de la mort: essai sur l’architecture la dècoration et l’urbanisme funèraries, Paris 1981, tr.
Lo spazio della morte. Saggio sull’architettura, la decorazione e l’urbanistica funeraria, Napoli 1986, 9 ss.; V. Leonini, L. Santi, Sepolture e rituali funerari dell’eneolitico e al passaggio all’età del bronzo, in F. Martini (cur.), La cultura
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del morire nelle società preistoriche e protostoriche italiane. Studio interdisciplinare dei dati e loro trattamento informatico: dal paleolitico all’età del rame, Firenze 2006, 129-160.
3
Sull’editto di Saint Claud v. N. Criniti, ‘Mors Moderna’: bibliografia orientativa sulla morte e il morire nel
mondo occidentale, in Ager Veleias 6. 1 (2011) 11 ss., con indicazione di bibliografia e sitografia specifiche.
4
William Grooke, Death and Disposal of the Dead, Encyclopaedia of Hastings, s. d., passim.
5
Sui due riti di sepoltura, le ragioni del loro impiego e l’anteriorità dell’uno rispetto all’altro v., per tutti, G. Franciosi, Sepolcri e riti di sepoltura delle antiche “gentes”, in Id. (cur.), Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana,
I, Napoli 1984, 35-80, ora in L. Monaco, A. Franciosi (curr.), Opuscoli. Scritti di Gennaro Franciosi, 2, Napoli 2012,
407-450; Id., Clan gentilizio e strutture monogamiche. Contributo alla storia della famiglia romana, VI ed., Napoli
1999, 301 ss., a cui adde per la bibliografia successiva; N. Criniti, ‘Mors antiqua’: bibliografia orientativa sulla morte e
il morire a Roma, in Ager Veleias 5. 10 (2010) 1 ss.
6
Si v. in questo senso quanto sostenuto, ad es., da Francesco Paolo Casavola nella Introduzione al convegno. Cfr.
anche C. De Filippis Cappai, Imago mortis. L’uomo romano e la morte, Napoli 1997, 33 ss., part. 95 ss.
7
Su questi singoli casi di divieto di sepoltura imposti dall’ordinamento v. infra.
8
Si v. l’articolo di Filippo di Giacomo, I morti senza sepoltura che ci precipitano nel nostro medioevo, pubblicato
ne Il Venerdì di Repubblica n. 1382 del 12 settembre 2014, 37.
9
Il rituale del iustum sepulcrum sembra sia stato controllato dalla prassi pontificale: In questo senso, per tutti, F.
Sini, ‘Sua cuique citatai religio’. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 60 ss.; G. Purpura, La ‘sorte’ del debitore oltre la morte: ‘nihil inter mortem distat et sortem’ (Ambrogio, ‘De Tobia’ X, 36-37), in IAH 1 (2009)
42 ss. In senso contrario F. De Visscher, Le droit des tombeaux romains, Milano, 1963, 142 ss.
10
G. Ugolini, Il tema delle leggi non scritte nella drammaturgia sofoclea, in A. Beltrametti (cur.), La storia sulla
scena. Quello che gli storici antichi non hanno raccontato, Roma 2011, .
11
Con l’espressione ‘società omerica’ si è soliti alludere a quegli aspetti storici, ideologici e materiali che si possono ricavare dai due poemi omerici. Sul tema e per i dubbi sulla storicità del concetto A. M. Snodgrass, An Historical
Homeric Society?, in JHS 94 (1974) 114-125. Per una citazione più pertinente al tema qui esaminato P. Gagliardi, II tema del cadavere nei lamenti funebri omerici, in Gaia 13 (2010) 107-136.
12
Sul concetto di γέρας θανόντων v., tra gli altri, R. Garland, Géras thanónton: an Investigation into the Claims of
the Homeric Dead, in BICS, 19 (1982) 69-80; L. Cerchiai, Géras Thanónton: note sul concetto di “belle mort”, in
AION ArchStAnt. 6 (1984) 39-69; G. Cerri, Lo statuto del guerriero morto nel diritto della guerra omerica e la novità
del libro XXIV dell’Iliade, in Id. (cur.), Scrivere e recitare. Modalità di trasmissione del testo nell’antichità e nel Medioevo. Atti di una ricerca interdisciplinare svolta presso l’Istituto Universitario Orientale, Roma 1986, 1-53; J. P. Vernant, La belle mort et le cadavre outragé, in G. Gnoli, J. P. Vernant (curr.), La mort, les morts dans les sociétés anciennes, Cambridge-Paris 1982, 45-76; Id., La morte negli occhi, tr. it., Bologna, 1987. Più in generale, con riferimento anche all’età odierna, G. De Luna, Il corpo del nemico ucciso, Torino 2006, 3 ss.
13
Gagliardi, II tema del cadavere nei lamenti funebri omerici cit. 108.
14
Hom. Il. libb. 16 e 17. Cfr. C. Segal, The Theme of the Mutilation of the Corpse in the Iliad, Lugduni Batavorum, 1971; A. Schnapp-Gourbeillon, Les funérailles de Patrocle, in G. Gnoli, J. P. Vernant (curr.), La mort, les morts
dans les sociétés anciennes cit. 77 ss.
15
Hom. Il. lib. 21. Mi limito a indicare, rinviando agli aa. qui citati per la bibliogr., J. P. Vernant, La belle mort et
le cadavre outragé cit. 45 ss.; O. Vox, Prima del trionfo: i ditirambi 17 e 18 di Bacchilide, in AC 53 (1984) 200-209.
16
Hom. Il. libb. 24 e 25. Si v. Segal, The Theme of the Mutilation of the Corpse in the Iliad cit.; Cerri, Lo statuto
del guerriero morto cit. 18 ss.
17
Vernant, La belle mort et le cadavre outragé cit. 45 ss., con ult. bibliogr.; Id., La morte negli occhi.
18
A proposito del concetto di αἰκία, Jean Pierre Verna L. Gernet, Recherches sur le développement de la pensée juridique et moral en Grèce, Paris 1917, 211 a cui adde A. Biscardi, Diritto greco antico, II ed., Milano 1982, 135, nel
senso di lesioni personali, 160, come delitti pubblici.
19
È il caso di Achille che trascina con il carro il corpo di Ettore (Hom. Il. 14. 639 e 18. 24), ricoprendolo di polvere e rendendolo irriconoscibile.
20
Hom. Il. 13. 202.
21
Hom. Il. 18. 176-178. Per gli altri episodi, come quello di Agamennone che strazia il corpo di Ippòloco, v. Vernant, La belle mort et le cadavre outragé cit. 45 ss., con ult. bibliogr. 68.
22
Si vedano qui le analogie con il partes secanto, su cui infra.
23
Franciosi, Sepolcri e riti di sepoltura delle antiche “gentes” cit. 67 (= Opuscoli 437), a cui adde C. Ampolo, Il
lusso funerario e la città arcaica, in AION Arch St Ant 6 (1984) 71ss. e A. Palma,v. Sepoltura (dir. Rom.), in ED 42
(1990) 12 ss.
24
Sul culto delle immagini del defunto F. Lucrezi, Ius imaginum, nova nobilitas, in Labeo 32 (1986) 131 ss.; E.
Montanari, Imagines maiorum, in SMSR 70 (2004) 5 ss.; C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquarii.
Sponsalia, matrimonio, dote, Roma 2005, 501, che ne parla a proposito dei riti nuziali.
25
J.-A. Hild, Lemures, in DAGR, 3/2, Paris 1904 = Graz 1963, 1100 s.; E. Jobbe-Duval, Les morts malfaisants.
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Larves, Lemures, d’après le droit et les croyances populaires des Romains, Paris 1924, nuova ed. 2000, passim.
26
Purpura (La ‘sorte’ del debitore oltre la morte cit. 42) riporta l’espressione “cineres vel corpora levi caespite
obruta”. A proposito di essa cfr. Tac. ann. 1. 29 (promptum ad asperiora ingenium Druso erat: vocatos Vibulenum et
Percennium interfici iubet. tradunt plerique intra tabernaculum ducis obrutos, alii corpora extra vallum abiecta ostentui) sulla morte dei congiurati Percennio e Vibuleno da parte di Druso minore e Suet. Cal. 59 (Vixit annis uiginti nouem,
imperauit triennio et decem mensibus diebusque octo. Cadauer eius clam in hortos Lamianos asportatum et tumultuario
rogo semiambustum leui caespite obrutum est, postea per sorores ab exilio reuersas erutum et crematum sepultumque)
con riguardo alla morte e alla sepoltura di Caligola.
27
Sul divieto di sepoltura per i condannati a morte v. oltre.
Purpura, La ‘sorte’ del debitore oltre la morte cit. 42. Cfr. anche G. De Las Heras, La consideración del cadáver
en
derecho
romano,
Albacete,
1987,
passim;
M.
Guerrero,
La
protección
jurídica
del
honor
«post
mortem»
en
Derecho
Romano
y
en
Derecho
Civil,
Granada,
2002, passim. Sulle morti per impiccagione v. infra.
29
Cic. de leg. 2. 22. 57: Itaque in eo qui in nave necatus, deinde in mare proiectus esset, decrevit P. Mucius familiam puram, quod os supra terram non extaret. Sul tema della terra con cui il cadavere deve stare a contatto v. anche
Lact. div. inst. 5. 11. 6-7 e CIL 6. 4. 29609.
30
Verg. Aen. 6. 362-365.
31
Diverso problema è invece verificare se a base di questo interesse pubblico alla sepoltura dei corpi dei defunti vi
fosse pure una motivazione di carattere igienico sanitario. Infatti a fronte di numerosi riferimenti nelle fonti
all’abbandono di cadaveri nelle strade (Mart. 10. 5 11-12; Suet. Nero 48, Vesp. 5.4; Dio Cass. 65.1; Petron. 134.1, Auson. ep. 241-242, nonché la Lex libitinariorum di Pozzuoli su cui ampiamente S. Castagnetti, Le «Leges Libitinariae»
flegree. Edizione e commento, Napoli 2012, 1 ss., part. 172 ss.) si riscontrano accenni a tentativi di risolvere la questione degli insepolti che, come sostiene J. Bodel (Graveyards and Graves. A Study of the Lex Lucerina, in AJAH 11, 1994,
), doveva essere di notevole entità. Si conosce, infatti, l’esistenza di luoghi fuori le mura destinati a sepolture comuni, i
puticoli di cui parla Varrone (l. Lat. 5. 25), della fossa presso gli orti di Mecenate, nonché la creazione da parte di Nerva
di un sussidio di sepoltura. Su questi aspetti S. Panciera, Nettezza Urbana a Roma. Organizzazioni e responsabili, in
Sordes urbis. La eliminaciòn de residuos en la ciudad romana. Actas de la reunión de Roma 1996, Roma 2000, 95 ss.,
part. 100 ss., ora in Id., Epigrafi, epigrafia, epigrafisti.Scritti vari editi e inediti (1956 - 2005), 2, Roma 2006, 479 ss.,
part. 483 ss. Ricordo, per lo spirito interdisciplinare di questo contributo, che anche la valle della Gheena, fuori dalle
mura di Gerusalemme, era un ricettacolo di cadaveri non onorevoli. Su questa localita v., per tutti, G. Rinaldi, Cristianesimi dell’antichità: sviluppi storici e contesti geografici, Roma 2008, 188, 192, 301 ss.
32
D. 28.7.27 pr. (Mod. 8 resp): Quidam in suo testamento heredem scripsit sub tali condicione “si reliquias eius in
mare abiciat”: quaerebatur, cum heres institutus condicioni non paruisset, an expellendus est ab hereditate. odestinus
respondit:laudandus est magis quam accusandus heres, qui reliquias testatoris non in mare secundum ipsius oluntatem
abiecit, sed memoria humanae condicionis sepulturae tradidit. Sed hoc prius inspiciendum est, ne homo, qui talem condicionem posuit, neque compos mentis esset. Igitur si perspicuis rationibus haec suspicio amoveri potest, nullo modo
legitimus heres de hereditate controversiam facit scripto heredi.
33
A. Trisciuoglio, Dispersione delle ceneri del cadavere: considerazioni romanistiche in margine a Mod. 8 resp.
D. 8. 7. 27 pr., in TSDP 5 (2012). Diversamente B. Biondi, Il diritto romano cristiano. 2. La giustizia - le persone, Milano 1952, 257 ss., il quale non ritiene il brano classico e pensa ad un pesante intervento postclassico.
34
Sull’opera di Agostino v. ora P. J. Rose, A commentary on Augustine’s De cura pro mortuis gerenda: rhetoric in
practice, Leiden, Boston 2013, passim. Si tratta di una risposta sollecitata dall’amico Paolino di Nola sull’utilità della
pratica – sempre più diffusa – di farsi seppellire vicino ai martiri.
35
Aug., de cur. pro mort. ger. 2. 3-4: Quid conferat honos sepulturae. Sepultura corporum Christianis si fuerit negata, nihil adimit. 2. 3. Sed utrum aliquid prosit animae mortui locus corporis sui, operosius inquirendum est. Ac primum utrum intersit aliquid ad inferendam vel augendam miseriam post hanc vitam spiritibus hominum, si eorum corpora sepulta non fuerint, non secundum opinionem utcumque vulgatam, sed potius secundum religionis nostrae sacras
Litteras est videndum. Neque enim credendum est, sicut apud Maronem legitur, insepultos navigando atque transeundo
inferno amne prohiberi: quia scilicet “Nec ripas datur horrendas, et rauca fluent Transportare prius, quam sedibus ossa quierunt”. Quis cor christianum inclinet his poeticis fabulosisque figmentis, cum Dominus Iesus, ut inter inimicorum
manus, qui eorum corpora in potestate haberent, securi occumberent Christiani, nec capillum capitis eorum asserat periturum, exhortans ne timeant eos qui cum corpus occiderint, amplius non habent quid faciant? Unde in primo libro de
Civitate Dei satis, quantum existimo, sum locutus, ut eorum dentem retunderem, qui barbaricam vastitatem, praecipue
quam nuper Roma perpessa est, christianis temporibus imputando, etiam id obiiciunt, quod suis illic non subvenerit
Christus. Quibus cum responsum fuerit animas fidelium pro fidei suae meritis ab illo fuisse susceptas, insultant de cadaveribus insepultis. Totum itaque istum de sepultura locum verbis talibus explicavi. Officium pietatis est non abicere
corpora. 2. 4. “At enim in tanta”, inquam, “strage cadaverum nec sepeliri potuerunt? Neque istud pia fides nimium e28
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formidat, tenens praedictum, nec absumentes bestias resurrecturis corporibus obfuturas, quorum capillus capitis non
peribi”. Nullo modo diceret Veritas: “Nolite timere eos qui corpus occidunt, animam autem non possunt occidere”; si
quidquam obesset vitae futurae quidquid inimici de corporibus occisorum facere voluissent. Nisi forte quispiam sic absurdus est, ut contendat eos qui corpus occidunt, non debere timeri ante mortem, ne corpus occidant; et timeri debere
post mortem, ne corpus occisum sepeliri non sinant. Falsum est ergo quod ait Christus: Qui corpus occidunt, et postea
non habent quid faciant; si habent tanta quae de cadaveribus faciant? Absit ut falsum sit quod Veritas dixit. Dictum est
enim aliquid eos facere cum occidunt, quia in corpore sensus est occidendo; postea vero nihil habere quod faciant, quia
nullus sensus est in corpore occiso. Multa itaque corpora Christianorum terra non texit: sed nullum eorum quisquam a
coelo et terra separavit, quam totam implet praesentia sui, qui novit unde resuscitet quod creavit. Dicitur quidem in
Psalmo: “Posuerunt mortalia servorum tuorum escam volatilibus coeli, carnes sanctorum tuorum bestiis terrae: effuderunt sanguinem eorum tamquam aquam in circuitu Ierusalem, et non erat qui sepeliret”; sed magis ad exaggerandam
crudelitatem eorum qui ista fecerunt, non ad eorum infelicitatem qui ista perpessi sunt. Quamvis enim haec in conspectu hominum dura et dira videantur, sed “pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum eius”. Proinde ista omnia, id
est, curatio funeris, conditio sepulturae, pompa exsequiarum, magis sunt vivorum solatia, quam subsidia mortuorum. Si
aliquid prodest impio sepultura pretiosa, oberit pio vilis aut nulla. Praeclaras exsequias in conspectu hominum purpurato illi diviti turba exhibuit famulorum: sed multo clariores in conspectu Domini ulceroso illi pauperi ministerium
praebuit Angelorum; qui eum non extulerunt in marmoreum tumulum, sed in Abrahae gremium sustulerunt. Rident haec
illi, contra quos defendendam suscepimus Civitatem Dei: verumtamen sepulturae curam etiam eorum philosophi contempserunt; et saepe universi exercitus, dum pro terrena patria morerentur, ubi postea iacerent, vel quibus bestiis esca
fierent, non curarunt; licuitque poetis de hac re plausibiliter dicere: “Coelo tegitur, qui non habet urnam”, quanto minus debent de corporibus insepultis insultare Christianis, quibus et ipsius carnis membrorumque omnium reformatio,
non solum ex terra, verum etiam ex aliorum elementorum secretissimo sinu, quo dilapsa cadavera recesserunt, in temporis puncto reddenda et redintegranda promittitur?”.
36
Cf. Mt 10. 28-30 i Cristiani sono esortati a non aver paura di quelli che possono, sì, uccidere il corpo, ma, dopo,
non possono fare più nulla: Lc 12, 4.
37
In questo senso Matteo (Mt 10. 28) che afferma: Et nolite timere eos, qui occidunt corpus, animam autem non
possunt occidere; sed potius eum timete, qui potest et animam et corpus perdere in gehenna.
38
È questo l’insegnamento di San Paolo (Philipp. 3. 21, Cor. 1. 15. 42-44) che i cristiani ben conoscono, come si
ricava anche da numerose iscrizioni (v., ad es., CIL 5. 5145). In questo senso Biondi, Il diritto romano cristiano cit. 2.
249 ss.
39
Così Biondi, Il diritto romano cristiano cit. 2. 253 ss., che riporta svariate fonti a questo proposito e ne dimostra
le “ripercussioni” nella legislazione successiva. Credo, però, che non vadano sottovalutate le parole di Agostino per il
quale, se è vero che all’epoca delle persecuzioni i corpi di molti cristiani la terra non li ha accolti in sé, nessuno poté
mai buttar fuori uno di loro dal cielo.
40
In questo senso, ma in un contesto differente, Biondi, Il diritto romano cristiano cit. 2. 250. Lo studioso esattamente pone a confronto le immagini terrificanti di larvae e lemures ricordate dagli autori pagani con le iscrizioni cristiane che presentano i defunti come anime serene e in pace con il mondo dei vivi, sottolineandone la totale difformità.
41
E ciò avviene indipendentemente dal rapporto tra l’entità dei crediti e la grandezza dei brani del cadavere.
42
In questo senso G. Franciosi, «Partes secanto» tra magia e diritto, in Labeo 24 (1978) 263 ss., ora in L. Monaco,
A. Franciosi (curr.), Opuscoli. Scritti di Gennaro Franciosi, 1, Napoli 2012, 311 ss., a cui si rinvia per la precedente letteratura.
43
Naturalmente qui non si tratta di αἰκία, di oltraggio, di maltrattamento del cadavere compiuto dal guerriero greco
durante l‘impeto della battaglia perché in questo caso lo smembramento del corpo del debitore avviene nell’interesse
del creditore ed è regolato da una norma statale. Forse alla αἰκία greca può meglio essere paragonato il furore bacchico
durante il quale viene posto in essere lo strazio del corpo del dio. Sul tema Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche cit. 73 ss.
44
Purpura, La ‘sorte’ del debitore oltre la morte cit. 46 ss.
45
Sul rito, che si concludeva, durante i Palilia, con la dispersione nei campi delle ceneri dei feti delle vacche uccise al fine di favorirne la fertilità, v. Franciosi, «Partes secanto» cit. 270 s. (= Opuscoli cit. 1, 318 s.).
46
Gai. frag. August. 4. 82-83, su cui Franciosi, «Partes secanto» cit. 272 s. (= Opuscoli cit. 1, 321 s.).
47
Sulla disposizione che impedisce il seppellimento dei suicidi in terra consacrata e sul concilio di Nîmes, v. E.
Mangone, Negazione del Sé e ricerca di senso. Il suicidio tra dato empirico e rappresentazione, Milano 2009, 116 s.
Altre sanzioni canoniche disposte nei confronti dei suicidi sono, per esempio, quella del Concilio II di Orléans del 533
che proibiva di ricevere offerte per suffragi in favore dei suicidi (can. 15) e quella del concilio di Toledo del 693 che
consisteva nella scomunica di chi avesse anche soltanto tentato il suicidio. La sanzione era ancora inserita nel Codice di
diritto canonico in vigore fino al 26 novembre 1983 (can. 1240, § 1, 3), ma nell’attuale codice il divieto è stato, invece,
eliminato con una svolta netta: i suicidi non sono più compresi nell’elenco dei soggetti per i quali è previsto il divieto di
sepoltura (can. 1184, § 1). Solo se è dimostrata senza ombra di dubbio la condizione di “pubblici peccatori”, i suicidi
possono rientrare in quella categoria e perciò debbono essere privati della sepoltura ecclesiastica (can. 1184, § 1, 3, più
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il § 2). In base, poi, a una Circolare esistente sin dal 1973, si può rimuovere l’ostacolo costituito dallo scandalo mediante un’adatta catechesi, in cui venga illustrato “il significato delle esequie cristiane, che moltissimi vedono come un ricorso alla misericordia di Dio e come una testimonianza della fede della comunità nella risurrezione dei morti e nella vita del mondo che verrà”. Sulla normativa canonistica R. Marra, La repressione legale del suicidio. Analisi e sviluppo
della ricostruzione durkhemiana, in Materiali per una storia della cultura guiuridica 16 (1986) 160 ss.
48
Serv. ad Aen. 12. 603: et nodum informis leti alii dicunt, quod Amata inedia se interemerit. sane sciendum
quiacautum fuerat in pontificalibus libris, ut qui laqueo vitam finisset, insepultus abiceretur: undebene ait ‘informis leti’, quasi mortis infamissimae. ergo cum nihil sit hac morte deformius, poetametiam pro reginae dignitate dixisse accipiamus. Cassius autem Hemina ait, Tarquinium Superbum, cum cloacas populum facere coegisset, et ob hanc iniuriam
multi se suspendione carent, iussisse corpora eorum cruci affigi. tunc primum turpe habitum est mortem sibi consciscere “et Varro ait, suspendiosis, quibus iusta fieri ius non sit, suspensis oscillis, veluti perimitationem mortis parentari”.
docet ergo Vergilius secundum Varronem et Cassium, quia selaqueo induerat, leto perisse informi; Plin. n. h. 36. 24.
107-108: Cum id opus Tarquinius Priscus plebis manibus faceret, essetque labor incertum maior an longior, passim
conscita nece Quiritibus taedium fugientibus, novum, inexcogitatum ante posteaque remedium invenit ille rex, ut
omnium ita defunctorum corpora figeret cruci spectanda civibus simul et feris volucribusque laceranda. 108 Quam ob
rem pudor Romani nominis roprius, qui saepe res perditas servavit in proeliis, tunc quoque subvenit, sed illo tempore vi
post vitam erubescens, cum puderet vivos, tamquam puditurum esset extinctos. amplitudinem cavis eam fecisse proditur, ut vehem faeni large onustam transmitteret. Su queste fonti, sulla vicenda e più in generale per un’analisi delle problematiche relative al suicidio, v. Marra, La repressione legale del suicidio cit. 140 ss.; P. Desideri, Il trattamento del
corpo dei suicidi, in F. Hinard (cur.), La mort au quotidien dans le monde romain, Paris 1995, 190 ss.; A. D. Manfredini, Il suicidio. Studi di diritto romano, Torino 2008, 179 ss., ove ampia disamina della precedente bibliografia.
49
In Servio l’episodio è attribuito a Tarquinio il Superbo mentre Plinio lo ascrive a Tarquinio Prisco. Il riferimento
al suicidio e al conseguente divieto di sepoltura non viene, però, presentato dall’a. della Naturalis Historia come una
pena ma è posto in risalto quale “esempio positivo dell’antico pudore (onore) dei Romani i quali, in questo sentimento
di vergogna per ciò che sarebbe stato di loro se si fossero abbandonati al suicidio, hanno trovato la forza di non uccidersi” (così Manfredini, Il suicidio cit. 191 s.).
50
In questo senso, da ult., Manfredini, Il suicidio cit. 187 ss., il quale ritiene che, malgrado siano state proposte
varie spiegazioni per comprendere appieno le ragioni della proibizione della sepoltura per gli impiccati, non sia possibile propendere per una soluzione e sembra pensare più ad un tabù religioso. Lo studioso ferrarese, poi, esclude
l’esistenza di un antico divieto generalizzato per tutti i suicidi (p. 193 ss.) ed esamina le poche fonti utilizzate per sostenere il contrario tra le quali in part. Fest. (Paul.) sv. carnificis (L. 65): carnificis loco habebantur his, qui se vulnerassen, ut moreretur. Sulle ragioni della proibizione della sepoltura per gli impiccati e sulle differenze tra questi e gli altri
suicidi v. pure E. Cantarella, I supplizi capitali. Origine e funzione della pena in Grecia e Roma, II ed. Milano 2005, r.
2011, 197 ss.
51
P. Desideri, Il trattamento del corpo dei suicidi cit. 195 ss.; Manfredini, Il suicidio cit. 187 ss.
52
Tac. ann. 6. 29. 1: nam promptas eius modi mortes metus carnificis faciebat, et quia damnati publicatis bonis
sepultura prohibebantur, eorum qui de se statuebant humabantur corpora, manebant testamenta, pretium festinandi
(nonché ann.6.19.1. 2); Dio Cass. 58. 15. 1-16.1: τω ν ο
ν αι τιαθέντων συχνοι µεν και κατηγορήθησαν παρόντες
και α πελογήσαντο, και παρρησία γε ει σιν ο µεγάλη ε χρήσαντο· οι δε δη πλείους αυ τοι 2.ε αυτους πριν
α λω ναι διέφθειραν. ε ποίουν δε του το µάλιστα µεν του µήτε την !βριν µήτε την αι κίαν φέρειν (πάντες γαρ
ο ! τινα τοιαύτην αι τίαν λαβόντες, ου χ !πως ι ππη ς α λλα και βουλευταί, ου δ’ !πως ν! δρες α λλα και
γυναι κες, ε ς το δεσµωτήριον συνεω 3. θου ντο, και καταψηφισθέντες οι µεν ε κει ε κολάζοντο, οι δε και
α πο του Καπιτωλίου υ πο τω ν δηµάρχων και τω ν υ πάτων κατεκρηµνίζοντο, και !ς τε την α γοραν τα
σώµατα α πάντων αυ τω ν ε ρρίπτετο και µετα του το ε ς τον ποταµον ε νεβάλλετο), !δη δε και 4. !πως οι
παι δες τω ν ου σιω ν αυ τους κληρονοµω σιν· ο λίγαι γαρ πάνυ τω ν ε θελοντηδον προ τη ς δίκης
τελευτώντων ε δηµεύοντο, προκαλουµένου δια τούτου τους α νθρώπους του Τιβερίου αυ τοέντας γίγνεσθαι, ν! α
µη αυ τός σφας α ποκτείνειν δοκ
, !σπερ ου πολλ
δεινότερον ν αυ τοχειρία τινα α ποθανει ν
α ναγκάσαι του τ
δηµίω 58.16. 1. αυ τον παραδου ναι. αι δ’ ο
ν πλει σται τω ν ου χ ο !τως
α ποθανόντων ου σίαι ε δηµοσιου ντο, βραχέος τινος και µηδενος τοι ς κατηγορήσασιν αυ τω ν διδοµένου.
και γαρ τα χρήµατα δι’ α κριβείας !δη πολυ µα λλον ε ποιει το. Sulla prassi del ricorso al suicidio per evitare la
confisca dei beni e il divieto di sepoltura v. anche Val. Max. 9.12.7: Consimili impetu mortis C. Licinius Macer uir praetorius, Calui pater, repetundarum reus, dum sententiae diriberentur, [in] maenianum conscendit. Si quidem, cum M.
Ciceronem, qui id iudicium cogebat, praetextam ponentem uidisset, misit ad eum qui diceret se non damnatum, sed
reum perisse, nec sua bona hastae posse subici, ac protinus sudario, quod forte in manu habebat, ore et faucibus suis
coartatis incluso spiritu poenam morte praecucurrit. qua cognita re Cicero de eo nihil pronuntiauit. igitur inlustris ingenii orator et ab inopia rei familiaris et a crimine domesticae damnationis inusitato paterni fati genere uindicatus est.
Su queste fonti e sul passo ulpianeo del de officio proconsulis (D. 48.19. 8.1) che riferisce di un rescritto in materia emanato dai divi fratres v. - oltre a Manfredini, Il suicidio cit. 41 s.; Id., Ulpiano i divini fratelli e la ‘libera mortis facultas’ (D. 28.19.8.1), in Studi in onore di Remo Martini, 2, Milano 2009, 577 ss. - F. Costantino, Processi e suicidi
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI SUOR ORSOLA BENINCASA
CENTRO STUDI SUI FONDAMENTI DEL DIRITTO ANTICO
nell’età di Tiberio, in M. Sordi (cur.), Processi e politica nel mondo antico, Milano 1996, 237 ss.; F. d’Ippolito, Etica
e politica in età giulio-claudia, in A. De Vivo, E. Lo Cascio (curr.), Seneca uomo politico e l’età di Claudio e di Nerone. Atti del Convegno Internazionale (Capri 25 - 27 marzo1999), Bari 2003, 9 ss., part. 16 ss. (= Id., Del fare diritto nel
mondo romano, Torino 2000, 92 ss., part. 99 ss.); F. Mercogliano, Guerre civili e ‘domestica mala’ in margine al «caso
Pisone», in Studi per Giovanni Nicosia, 5, Milano 2007, 327 ss.
53
Si tratta del rapporto pubblicato a marzo 2014 su “Condanne a morte ed esecuzioni nel 2013”.
54
La vicenda è stata riportata dai siti di informazione in data 19 ottobre 2014: l’Osservatorio siriano per i diritti
umani (Ondus) ha riferito del ritrovamento del cadavere di un uomo, identificato come Abdallah Al Bushi, giustiziato a
colpi d’arma da fuoco perché accusato di spionaggio, e poi esposto in croce nella città di Al Bab, una località del Nord
della Siria. Un’altra crocifissione sembra sia avvenuta nello stesso periodo e il condannato, secondo il racconto dei testimoni, è stato lasciato appeso vivo per otto ore.
55
Deut. 21. 22-23: Quando peccaverit homo, quod morte plectendum est, et occisum appendersi in patibulo, 23.
non permanebit cadaver eius in ligno; sed in eadem die sepelietur, quia maledictus a Deo est, qui pendet in ligno; et
nequaquam contaminabis terram tuam, quam Dominus Deus tuus dederit tibi in possessionem. Sul passo e più in generale sulla proibizione di lasciare il morto insepolto di notte, v. Regole ebraiche di lutto, Roma 1980, 25 ss., 33 ss.; F.
Millar, Riflessioni sul processo di Gesù, in A. Levin (cur.), Gli ebrei nell’impero romano. Saggi vari, Firenze 2001, 86
ss., part. 94; B. Fabbrini, La deposizione di Gesù nel sepolcro e il problema del divieto di sepoltura per i condannati, in
SDHI 61 (1995) 97 ss., part. 105 ss.
56
Sahn. 6. 5a ma il principio è riportata anche da Filone Alessandrino (de spec. leg. 3. 28. 151) e da Flavio Giuseppe (Ant. Jud. 4. 6. 6. 202).
57
Sahn. 6.7 b e c.
58
Fabbrini, La deposizione di Gesù nel sepolcro e il problema del divieto di sepoltura per i condannati cit. 97 ss.
con ampia bibliogr., ma v. anche Millar, Riflessioni sul processo di Gesù cit. 77 ss. e T. Mayer-Maly, Deposizione e sepoltura, in SDHI 61 (1995) 89 ss., contributo che presta particolare attenzione all’interpretazione e alle differenze dei
testi dei quattro evangelisti.
59
Sulla figura di Antigone, protagonista della tragedia di Sofocle – definita come «il testo fondativo della nostra
civiltà giuridica» da Gustavo Zagrebelski, Intorno alla legge. Il diritto come dimensione del vivere comune, Torino
2009, 5; nello stesso senso G. Steiner, Le antigoni, II ed., tr. Milano 2003, 11 ss., che la ritiene fondamentale nel pensiero giuridico del diaciannovesimo secolo – ma anche personaggio principale di tanti altri volumi (v. di recente il bel libro
di Valeria Parrella, Antigone, Torino 2012, che ne propone una particolare rilettura) la bibliografia è immensa e non è
pensabile richiamarla qui nemmeno a grosse linee. Verranno riportati solo alcuni contributi che sono funzionali a quanto proposto nel testo e rinviando alla bibliografia da loro citata: H.-J. Mette, Die «Antigone» des Sophokles, in Hermes
84 (1956) 129-134; G. Cerri, Legislazione orale e tragedia greca. Studi sull’«Antigone» di Sofocle e sulle «Supplici» di
Euripide, Napoli 1979; Id., Ideologia funeraria nell’«Antigone» di Sofocle, in G. Gnoli, J.-P. Vernant (curr.), La mort,
les morts dans les sociétés anciennes cit. 121-131; F. Cancelli, La legge divina di Antigone e il diritto naturale, Roma
2000, 11 ss., 101 ss. (su cui v. la critica recensione di A. Mantello, in Iura, 51, 2000, 139 ss., ora in Id., Variae 2, Lecce
2014, 1559 ss.); Cantarella, I supplizi capitali cit. 64 ss.; G. Carillo, «Bia(i)politon». Sulla disobbedienza di Antigone, in
Filosofia politica 22 (2009) 5 ss.; Id., Semnotes. La ‘legge’ tra venerabilità e caducità (in margine a un libro di Emanuele Stolfi), in SDHI 80 (2014) 339 ss.; A. Schiavone, Ius. L’invenzione del diritto in Occidente, Torino 2005, 252 ss.;
Ugolini, Il tema delle leggi non scritte nella drammaturgia sofoclea cit.; E. Stolfi, Nómoi e dualità tragiche. Un seminario su Antigone, in SDHI 80 (2014) 467 ss.
60
Ugolini, Il tema delle leggi non scritte nella drammaturgia sofoclea cit.
61
Ibidem. Ma cfr. anche Stolfi, Nómoi e dualità tragiche cit. 485 ss.
62
V. i precisi riferimenti bibliografici riportati negli aa. citati a nt. 59.
63
Sull’ataphìa, la condanna al divieto della sepoltura v. Cerri, Legislazione orale cit. 39 ss.
64
Cerri, Ideologia funeraria nell’«Antigone» di Sofocle cit. 121; Ugolini, Il tema delle leggi non scritte nella
drammaturgia sofoclea cit.
65
Sul processo agli Alcmeonidi e sulla pena loro irrogata v. Herod. 5. 71; Tucid. 1.126.3-11; Plut. Sol.12. 1-3. Cfr.,
per la bibliogr. sull’episodio, Cerri, Ideologia funeraria nell’«Antigone» di Sofocle cit. 123 s.
66
Tucid. 1. 138. 6. Cfr. G. Cerri, Ideologia funeraria nell’«Antigone» di Sofocle cit. 124 s.
67
Lycurg. Leocr. 113-115 su cui Ugolini, Il tema delle leggi non scritte nella drammaturgia sofoclea cit.
68
Sulla condanna a morte emanata nel 411 d.C. Ps. Plut. Antif. 20-24 (= Krateros, Synagôgê psêphismatón, in
FGrHist 342 F 5b).
69
Senof. Ell. 1. 7. 20-22. Sulla vicenda della battaglia delle Arginuse, sul processo a cui furono sottoposti i comandanti e sulle pene loro irrogate v. ampiamente Cerri, Ideologia funeraria nell’«Antigone» di Sofocle cit. 125 ss.;
Ugolini, Il tema delle leggi non scritte nella drammaturgia sofoclea cit.
70
Del famoso episodio della insubordinazione della guarnigione romana di stanza a Reggio parlano numerose fonti: Val. Max. 2.7.15; Liv. per. 5; Appian. B. Samn. 9.5; Oros. 4.3.3-6; Front. strat. 4.1.38; Polyb. 1.7; Dion. 20.16.1. Discute ampiamente la vicenda Fabbrini, La deposizione di Gesù nel sepolcro e il problema del divieto di sepoltura per i
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condannati cit. 134 ss., con rinvio alla letteratura precedente (ivi sono riportati anche altri casi in cui fu irrogata la sanzione accessoria del divieto di sepoltura).
71
Sugli Atti dei Martiri e sui dati che possono ricavarsi da un loro attento esame v. V. Capocci, Sulla concessione e
sul divieto di sepoltura nel mondo romano ai condannati a pena capitale, in SDHI 22 (1956) 266 ss., part. 269 ss. Per
una valutazione di queste fonti v. L. Minieri, I commentarienses e la gestione del carcere in età tardo antica, in Teoria
e storia del diritto privato 4 (2011) e in Atti del XIX Convegno Internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana. Perugia. Organizzare sorvegliare punire. Il controllo dei corpi e delle menti nel diritto
della tarda antichità, Roma 2013, 651 ss., part. 667 ss.
72
Cfr. in part. Capocci, Sulla concessione e sul divieto di sepoltura nel mondo romano ai condannati a pena capitale cit. 266 ss., che esamina in particolare i passi contenuti nel Digesto giustinianeo (D. 48. 24) dandone per così dire
una lettura stratigrafica e sottolineandone il valore delle modifiche apportate dai commissari giustinianei; Manfredini, Il
suicidio cit. 41 s.
73
D. 48. 24. 1 – 3. Per un esame di queste fonti Capocci, Sulla concessione e sul divieto di sepoltura nel mondo
romano ai condannati a pena capitale cit. 266 ss., part. 293 ss. In particolare un passo dell’ottavo libro del de offiicio
proconsulis di Ulpiano (D. 48. 24 1) che è stato fatto letteralmente a pezzi dalla critica interpolazionistica potrebbe forse essere oggi letto in modo più conservativo.
74
D. 48. 24 .2 (Marcian. 2 publ.): Si quis in insulam deportatus vel relegatus fuerit, poena etiam post mortem manet, nec licet eum inde transferre aliubi et sepelire inconsulto principe: ut epissime Severus et Antoninus rescripserunt
et multis petentibus hoc ipsum indulserunt.
75
Sulla poena cullei v. D. Nardi, L’otre dei parricidi e le bestie incluse, Milano 1980, passim; Cantarella, I supplizi capitali cit. 266 ss.; F. Lucrezi, Senatusconsultum Macedonianum, Napoli 1992, 175 ss.; B. Santalucia, Cic. Pro
Rosc. Am. 3. 9 e la scelta di giudici nelle cause di parricidio, in Iura 50 (1999) 143 ss., ora in Id., Altri studi di diritto
penale romano, Padova 2009, 267 ss.; S. Longo, Senatusconsultum Macedonianum. Interpretazione e applicazione da
Vespasiano a Giustiniano Torino 2012, 65
76
Per la poena cullei inflitta all’adultero nel cui sacco, a giudizio di alcuni, sarebbe stato inserito un mugile v. Cantarella, I supplizi capitali cit. 274 s., ivi fonti e bibliografia.
77
Cantarella, I supplizi capitali cit. 285 s. che riporta una costituzione di Costantino, inserita prima nel Codice teodosiano e poi in quello giustinianeo: CTh. 9.15.1 = CI. 9.17.1 (Imp. Constant. a. ad Verinum vicarium Africae): Si quis
in parentis aut filii aut omnino affectionis eius, quae nuncupazione parricidii continetur, fata properaverit, sive clam sive palam id fuerit enisus, neque gladio, neque ignibus, neque ulla alia solenni poena subiugetur, sed insutus culeo et
inter eius ferales angustias comprehensus serpentum contuberniis misceatur et, ut regionis qualitas tulerit, vel in vicinum mare vel in amnem proiiciatur, ut omni elementorum usu vivus carere incipiat, ut ei coelum superstiti, terra mortuo auferatur. Dat. XVI. kal. dec. Licinio V. et Crispo C. conss. acc. prid. id. mart. Karthagine, Constantino a. v. et Licinio C. conss. La studiosa esamina pure un passo delle Istituzioni di Giustiniano che riporta pressapoco il medesimo
contenuto: I. 4.18.6: Alia deinde lex asperrimum crimen nova poena persequitur, quae Pompeia de parricidiis vocatur.
qua cavetur, ut, si quis parentis aut filii, aut omino adfectionis eius quae nuncupatione parricidii continetur, fata properaverit, sive clam sive palam id ausus fuerit, nec non is cuius dolo malo id factum est, vel conscius criminis existit,
licet extraneus sit, poena parricidii puniatur, et neque gladio neque ignibus neque ulli alii solemni poenae subiugetur,
sed insutus culeo cum cane et gallo gallinaceo et vipera et simia et inter eius ferales angustias comprehensus, secundum quod regionis qualitas tulerit, vel in vicinum mare vel in amnem proiciatur, ut omni elementorum usu vivus carere
incipiat et ei caelum superstiti, terra mortuo auferatur. si quis autem alias cognatione vel adfinitate coniunctas personas necaverit, poenam legis Corneliae de sicariis sustinebit. Nello stesso senso F. Lucrezi, Senatusconsultum Macedonianum cit. 186 s.
78
Ancora Cantarella, I supplizi capitali cit. , che riporta svariate fonti sull’argomento.
79
Sull’abbandono in mare dell’ermafrodito Liv. 27.37.5 – 15, 31.12.5 -10, 39.22.5. Su queste fonti e più in generale sulla concezione giuridica di questo soggetto. v. G. Crifò, “Prodigium” e diritto: il caso dell’ermafrodito, in Index 27
(1999) 116 ss.; L. Monaco, Percezione sociale e riflessi giuridici della deformità, in A. Maffi L. Gagliardi (curr.), I diritti degli altri in Grecia e Roma, Sankt Augustin 2011, 398 ss., part. 413 ss.
80
Herod. 2. 136. 2: ἐπὶ τούτου βασιλεύοντος ἔλεγον, ἀµιξίης ἐούσης πολλῆς χρηµάτων, γενέσθαι νόµον Αἰγυπτίοισι,
ἀποδεικνύντα ἐνέχυρον τοῦ πατρὸς τὸν νέκυν οὕτω λαµβάνειν τὸ χρέος: προστεθῆναι δὲ ἔτι τούτῳ τῷ νόµῳ τόνδε, τὸν
διδόντα τὸ χρέος καὶ ἁπάσης κρατέειν τῆς τοῦ λαµβάνοντος θήκης, τῷ δὲ ὑποτιθέντι τοῦτο τὸ ἐνέχυρον τήνδε ἐπεῖναι
ζηµίην µὴ βουλοµένῳ ἀποδοῦναι τὸ χρέος, µήτε αὐτῷ ἐκείνῳ τελευτήσαντι εἶναι ταφῆς κυρῆσαι µήτ᾽ ἐν ἐκείνῳ τῷ
πατρωίῳ τάφῳ µήτ᾽ ἐν ἄλλῳ µηδενί, µήτε ἄλλον µηδένα τῶν ἑωυτοῦ ἀπογενόµενον θάψαι.
81
Diod. 1. 93. 1 – 2: σεµνότατον δ διείληπται παρ Α γυπτίοις τ το ς γονε ς το ς προγόνους φαν ναι
περιττότερον τετιµηκότας ε ς τ ν α ώνιον ο κησιν µεταστάντας. Νόµιµον δ
στ παρ α το ς κα τ
διδόναι τ σώµατα τ ν τετελευτηκότων γονέων ε ς ποθήκην δανείου: το ς δ µ λυσαµένοις νειδός τε τ
µέγιστον κολουθε κα µετ τ ν τελευτ ν στέρησις ταφ ς. [2] θαυµάσαι δ
ν τις προσηκόντως το ς τα τα
διατάξαντας, τι τ ν πιείκειαν κα τ ν σπουδαιότητα τ ν θ ν ο κ κ τ ς τ ν ζώντων µιλίας µόνον, λλ
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κα τ ς τ ν τετελευτηκότων ταφ ς κα θεραπείας φ
σον ν νδεχόµενον το ς νθρώποις νοικειο ν
φιλοτιµήθησαν.; Stob. serm. 38; Lucian. de luctu 21: καὶ µέχρι µὲν θρήνων ὁ αὐτὸς ἅπασι νόµος τῆς ἀβελτερίας:’ τὸ δὲ
ἀπὸ τούτου διελόµενοι κατὰ ἔθνη τὰς ταφὰς ὁ µὲν Ἕλλην ἔκαυσεν, ὁ δὲ Πέρσης ἔθαψεν, ὁ δὲ Ἰνδὸς ὑάλῳ περιχρίει, ὁ δὲ
Σκύθης κατεσθίει, ταριχεύει δὲ ὁ Αἰγύπτιος: οὗτος µέν γε – λέγω δὲ ἰδών – ξηράνας τὸν νεκρὸν σύνδειπνον καὶ συµπότην
ἐποιήσατο. πολλάκις δὲ καὶ δεοµένῳ χρηµάτων ἀνδρὶ Αἰγυπτίῳ ἔλυσε [p. 128] τὴν ἀπορίαν ἐνέχυρον ἢ ὁ ἀδελφὸς ἢ ὁ
πατὴρ ἐν καιρῷ γενόµενος.
82
Su questa pratica R. R. Trevisan, I vivi e i morti in un’unica società: riti funebri in Diodoro Siculo, in Antesteria
1 (2012) 107 ss., il quale sottolinea che chi non riscatta i corpi dei genitori e degli avi “riceve un marchio d’infamia e, in
casi di eccezionale insolvenza, rischia persino – e nuovamente – di vedersi privato della possibilità di essere sepolto: il
cadavere diviene quindi involontario garante dell’ordine sociale e implicitamente stimolo per saldare il debito il prima
possibile”.
83
Cic. pro Quinct. 15. 49: Cuius vero bona venierunt, cuius non modo illae amplissimae fortunae sed etiam victus
vestitusque necessarius sub praeconem cum dedecore subiectus est, is non modo ex numero vivorum exturbatur, sed, si
fieri potest, infra etiam mortuos amandatur. Etenim mors honesta saepe vitam quoque turpem exornat, vita ita turpis ne
morti quidem honestae locum relinquit. Ergo hercule, cuius bona ex edicto possidentur, huius omnis fama etexistimatio
cum bonis simul possidetur; de quo libelli inceleberrimis locis proponuntur, huic ne perire quidem tacite obscureque
conceditur; cui magistri fiunt et domini constituuntur, qui qua lege et qua condicione pereat pronuntient, de quo homine praeconis vox praedicat et pretium conficit, huic acerbissimum vivo videntique funus indicitur, si funus id habendum
est quo non amici conveniunt ad exsequias cohonestandas, sed bonorum emptores ut carnifices ad reliquias vitae lacerandas et distrahendas.
84
Per l’espressione ‘morte civile’ e, più in generale, per l’esame di questa fonte Purpura, La ‘sorte’ del debitore oltre la morte cit. 48 ss., con rinvio alla bibliogr. precedente.
85
Ambros. De Tobia 10. 36-37: Quotiens vidi a foeneratoribus teneri defunctos pro pignore et negari tumulum
dum foenus reposcitur? Quibus ego acquievi libenter, ut suum constringerent debitorem, ut electo eo, fideiussor evaderet; haec sunt enim feneratoris leges. Dixi itaque: Tenete reum vestrum; et ne vobis possit elabi, domum ducite, claudite
in cubiculo vestro, carnificibus duriores; quoniam quem vos tenetis, carcer non suscipit, exactor absolvit; peccatorum
reos post mortem carcer emittit, vos clauditis; legum severitate defunctus absolvitur, vobis tenetur. Certe hic sortem
suam iam memoratur implesse; non invideo tamen, pignus vestrum reservate. Nihil interest inter funus et foenus, nihil
inter mortem distat et sortem: personat, personat funebrem ululatum foenoris usura. Nunc vere capite minutus est quem
convenitis; vehementioribus tamen nexibus alligate, ne vincula vestra non sentiat: durus et rigidus est debitor, et qui
non iam noverit erubescere. Unum est quod non timere possitis, quia poscere non novit alimenta. Iussi igitur levari
corpus, et ad foeneratoris domum exsequiarum ordinem duci: sed etiam inde clausorum mugitus ad alta personabant.
Ibi quoque funus esse crederes, ibi mortuos plangi putares: nec fallebat sententia, nisi quod plures constabat illic esse
morituros. Victus religionis consuetudine foenerator (nam alibi suscipi pignora etiam ista dicuntur) rogat ut ad tumuli
locum reliquiae deferantur; tunc tantum vidi humanos foeneratores gravari me; tamen ego eorum humanitatem memorabam prospicere, ne postea se quererentur fraudatos esse, donec feretro colla subiecti, ipsi defunctum ad sepulcra deducerent, graviori moerore deflentes pecuniae suae funus. Sulla vicenda v. G. Vismara, Ancora sulla episcopalis audientia. Ambrogio arbitro o giudice?, in SDHI. 53 (1987) 56. ma anche R. Palenque, Saint Ambroise et 1'Empire romain (Paris 1933).
86
Sul passo L. Aru, Sul sequestro del cadavere del debitore in diritto romano, in Studi in memoria di Aldo Albertoni 1, Padova 1938, 293 ss.; Purpura, La ‘sorte’ del debitore oltre la morte cit. 49 ss., a cui adde Franciosi, «Partes secanto» cit. 275. (= Opuscoli cit. 1, 323).
87
Ed. Theod. 75: Si quis autem sepeliri mortuum, quasi debitorem suum adserens, prohibuerit, honestiores bonorum suorum partem tertiam perdant, et in quinquennale exilium dirigantur: humiliores caesi fustibus, perpetui exilii
damna sustineant. Su questa fonte, il cui significato è ambiguo, v. gli aa. riportati da Purpura, La ‘sorte’ del debitore oltre la morte cit. 50 e nt. 103, tra cui in part. L. Aru, Sul sequestro del cadavere del debitore in diritto romano cit. 298 ss.
Biondi, Il diritto romano cristiano cit. 3, 224 s.; R. Bonini, Comportamenti illegali del creditore e perdita dell’azione o
del diritto (nelle Novelle giustinianee), in SDHI 40 (1974) 120 ss. M. Guerrero, Una muestra de la «crudelitas creditoris»: la privación de sepoltura del deudor, in Anuario de la Facultad de Derecho de A Coruña 6 (2002) 433 ss.
88
D. 47.12.3.4 (Ulp. 25 ad ed. praet.): Non perpetuae sepulturae tradita corpora posse transferri edicto divi Severi
continetur, quo mandatur, ne corpora detinerentur aut vexarentur aut prohiberentur per territoria oppidorum transferri
(ma v. anche D. 11.7.38 di contenuto molto simile). Sul passo v., per tutti, Franciosi, «Partes secanto» cit. 274 s. (=
Opuscoli cit. 1, 322 s.).
89
Franciosi, «Partes secanto» cit. 275. (= Opuscoli cit. 1, 323).
90
CI. 9.19.6 (Imp. Iustin. A. Theodoto p. u.): Cum sit iniustum et nostris alienum temporibus iniuriam fieri reliquiis defunctorum ab his, qui debitorem sibi esse mortuum dicendo debitumque exigendo sepulturam eius impediunt, ne
in posterum eadem iniuria procederet cogendis his ad quos funus mortui pertinent sua iura perdere, ea quidem, quae
mortuo posito ante sepulturam eius facta fuerint vel exigendo quod debitum esse dicitur vel confessiones aliquas aut fi-
Relazione al convegno del 21/10/2014 Vita/Morte: le origini della civilizzazione antica
TESTO PROVVISORIO
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI SUOR ORSOLA BENINCASA
CENTRO STUDI SUI FONDAMENTI DEL DIRITTO ANTICO
deiussorem aut pignora capiendo, penitus amputari praecipimus: redditis vero pignoribus vel pecuniis quae solutae
sunt vel absolutis fideiussoribus et generaliter omnibus sine ulla innovatione in pristinum statum reducendis principale
negotium ex integro disceptari: eum vero, qui in huiusmodi deprehensus fuerit flagitio, quinquaginta libras auri dependere vel, si minus idoneus sit ad persolvendum, suo corpore sub competenti iudice poenas luere. Dat. K. dec. Constantinopoli Olybrio vc. cons. Sulla costituzione L. ARU, Sul sequestro del cadavere del debitore in diritto romano cit. 294
s. Biondi, Il diritto romano cristiano cit. 3, 225; Bonini, Comportamenti illegali del creditore e perdita dell’azione o del
diritto cit. 126, Franciosi, «Partes secanto» cit. 275. (= Opuscoli cit. 1, 323); Purpura, La ‘sorte’ del debitore oltre la
morte cit. 52; Guerrero, Una muestra de la «crudelitas creditoris»: la privación de sepoltura del deudor 430 ss.
91
Nov. 60.1.1, a. 537, 115.5.1, a. 542, su cui in part. Bonini, Comportamenti illegali del creditore e perdita
dell’azione o del diritto cit. 111 ss.; Guerrero, Una muestra de la «crudelitas creditoris»: la privación de sepoltura del
deudor 430 s.
92
Fabbrini, La deposizione di Gesù nel sepolcro e il problema del divieto di sepoltura per i condannati cit. 152 ss.,
a cui adde O. Estiez, La translatio cadaveris, le transport des corps dans l’antiquité romaine, in F. Hinard (cur.), La
mort au quotidien dans le monde romain cit. 101 ss.; L. Cracco-Ruggini, Les morts qui voyagent: le rapatriement,
l’exil, la glorification, ibidem 117 ss.
93
Tra le fonti che riportano notizia di questa autorizzazione v. part. CI. 3. 44. 1, 3; 44.10, 14 e 15.
94
G. Longo, Il processo a Gesù, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, Milano 1969, 529 ss., part. 246 ss.
Abstract
Sono oggetto di indagine in questo contributo la questione della mancanza di sepoltura dei defunti e la sua realizzazione senza una corretta procedura, cosa che non consente di considerare il morto come regolarmente sepolto e non
in pace con il modo dei vivi. Vengono, poi, esaminati i casi di mancanza della sepoltura come conseguenza di sanzioni
per l’inadempimento contrattuale o per comportamenti contrari alle regole della comunità, come nell’ipotesi del crimen
maiestatis. L’indagine, come è caratteristica di questo tipo di studi, non riguarda solo il mondo romano ma si estende
anche ad altri popoli del bacino del Mediterraneo tra i quali soprattutto greci ed ebrei.
The subject of this research is the failed burial of dead or burial accomplishment without a correct proceedings:
that doesn’t allow to consider the dead as regularly buried and in peace with the world of living.
Then there are examined the cases about failed burial as consequences of sanctions for contractual breach or for
behaviours against the community rules, such as in the hypothesis of crimen maiestatis.
The research concerns not only the Roman world, but also other Mediterranean people specially Greek and Hebrew.
Relazione al convegno del 21/10/2014 Vita/Morte: le origini della civilizzazione antica
TESTO PROVVISORIO
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