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Da “Eccellente coloritore” ad “Assassino della pittura”

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Da “Eccellente coloritore” ad “Assassino della pittura”
Lorenzoni Rachele
Da “Eccellente coloritore” ad “Assassino della
pittura”:Caravaggio nella letteratura artistica
seicentesca
CAPITOLO I
AMICI E AMMIRATORI
1. Caravaggio nelle rime di Marzio Milesi
Borghese agiato, giureconsulto romano, Marzio Milesi fu un importante
intellettuale del XVII secolo.
Capostipite del ramo romano dei Milesi, fu, nella prima metà del
Cinquecento, il bergamasco Giovanni Antonio; la sua casa a Roma,
famosa per la decorazione della facciata dipinta dal conterraneo Polidoro
da Caravaggio 1, fu un punto di ritrovo per intellettuali e artisti,
soprattutto per quelli lombardi, attratti dalle occasioni della corte
1
pontificia 2; figlio primogenito di Antonio fu Marzio, un uomo di grande
vitalità intellettuale, con una grande passione per l’antiquaria, ma anche
per la poesia e la letteratura, nonché per l’arte ed in modo particolare per
la pittura.
Egli fu autore di tre epigrafi, un epitaffio, un distico e ben tredici
componimenti di varia forma, dedicati a Caravaggio, il pittore che si
stava affermando tra pesanti polemiche e del quale, invece, Milesi fu
ammiratore ed amico.
La prima persona a darci notizia degli epigrafi, dell’epitaffio e del distico
fu Roberto Longhi; il primo di questi componimenti può ritenersi scritto
intorno al 1600 3, quindi quando il pittore era ancora in vita e riguarda
solo la sua opera:
«Mich. Ãgelo de Caravaggio/
pictori in/ consumati operis perfectione/
ac Naturae aemulatione/ praecipuo» 4.
Su per giù contemporanea dovrebbe essere una seconda epigrafe:
1
A. Petrucci, Il Caravaggio acquafortista e il mondo calcografico romano , Fratelli Palombi
editori, Roma, 1956, p. 125.
2
G. Fulco, Ammirate l’altissimo pittore:Caravaggio nelle rime inedite di Marzio Milesi , in
Ricerche di storia dell’arte, n. 10, Roma, 1980, p. 67.
3
Petrucci, op. cit, p. 130.
4
Ibidem, p. 130.
2
«Mich. Angelo Merisio Firmi F./
e Caravagio/ pictori/
cuius inspicens simulacra/
vera esse corpore si ambiges/
ne mireris/ Naturae atque artis foedeus/
in illis est quod decipit/
Martius Milesius Jur.Cons/
amico benem/ F» 5.
Gli altri due componimenti furono scritti in seguito alla scomparsa del
Caravaggio e in uno di questi Milesi chiama il pittore, rinomato per
essere iroso, diabolico, rissoso ed empio, «amico d’indole eccellente»:
«Michaeli Angelo Merisio Firmi F./
de Caravagio/
in picturis iam non pictori/
sed Naturae prope aequali/
obiit in portu Herculis/
e Partenope illuc se conferens/
5
Ibidem, p. 131.
3
Roman repetens/ XV Kal. Augusti/
anno Chri MDCX/ Vix ann.
XXXVI mens. IX. D.
XX/
Martio Milesius Jur. Cons./
amico eximiae indolis P.».
«Pro imaginis simulacro/
Mich. Angel. Merisius de Caravagio/
aeques Hierosolomitanus/
naturae aemulatur eximius/
vix. Ann.
XXXVI. M. IX. D. XX/ Moritur XVIII Julii
MDCX»6.
Prima di comporre questi versi, Milesi aveva dedicato a Caravaggio un
distico elegiaco per lodare L’amore vittorioso, il quadro che il pittore
aveva eseguito per il Marchese Vincenzo Giustiniani:
«Omnia vincit amor, tu pictor et omnia vincis silicet
ille animos,corpora tuque animos» 7.
6
7
Ibidem, p. 131.
Ibidem, p. 132.
4
Per quanto riguarda i tredici componimenti, questi sono contenuti nello
zibaldone autografo del Milesi, dal titolo Monumenta Ingenii Aliquot.
Dobbiamo ricordare che Milesi non era un professionista, ma solo un
cultore delle belle lettere, e che la sua poesia aveva un carattere
sostanzialmente privato e comunque a diffusione limitata; questo gli
permette anche di far girare buona parte della sua attività poetica intorno
alla figura del Caravaggio, di cui celebra tutta l’importanza e la
superiorità rispetto agli altri pittori.
La grandezza del Caravaggio è espressa in termini generici nell’omaggio
al pittore «anchor giovane», che viene accostato per affinità di nome a
Michelangelo, e già viene visto come vincitore delle sue due «maestre»,
Natura ed Arte 8; tuttavia, nelle lodi successive, l’affermazione del
Caravaggio è per Milesi indiscutibile; si vedano le lodi entusiastiche:
«Ammirate l’altissimo pittore» 9 e l’approvazione che viene data del
naturalismo caravaggesco, in opposizione alle “maniere” affidate all’
“artificio”: «Finghia altri pur le cose, adombre, e lustri, / voi vive e vere
8
Fulco, op. cit., p. 87, Michel Angiolo da Caravaggio anchor giovane.
Michel, Angel voi siete, e siete uguale/ di chi fu al mondo tale,/ ch’a ciascun fu maggiore,/ e
co’l nome, e con l’opre lui sembrate./ Se tal in sì verdi anni vi mostrate/ che fie in età
matura?/ Da voi le gran maestre Arte, e Natura,/ vinte si resteranno,/ con vostro eterno
honor, lor grave danno.»
9
Ibidem., p. 78, «rinvia al saluto dantesco rivolto a Virgilio nel Limbo da Omero, Orazio,
Ovidio e Lucano: “onorate l’altissimo poeta” (Inf. IV)». «Ammirate l’altissimo Pittore,/
ch’a quanti pria ne furo passa avanti;/ a celebrarlo venga almo scrittore,/ degno ben di
grandi pregi, e sommi vanti./ Stupisce il mondo, e viene a fargli honore con l’ingegni sublimi
tutti quanti./ Felice secol nostro, in cui si vede/ quel che d’antica età si scrive, e crede».
5
le rendete» 10; per finire con quell’orgoglioso «Felice secol nostro, in cui
si vede / quel che d’antica età si scrive, e crede» 11.
Qui già si vede quella nota dello «stupore», che tornerà altre volte e che
accompagnò sempre l’esposizione pubblica delle opere del Caravaggio,
tra ammirazione e scandalo
12
; Milesi vuole cantare la gloria del
Caravaggio e questo si capisce in modo assai esplicito dal verso che
dice: «che vi dà la mia cetra hora, e ‘l mio canto»
13
e che assume il
valore di manifesto delle intenzioni del poeta.
Milesi ci testimonia anche un momento cruciale nella carriera del Merisi,
ovvero la sua prima committenza religiosa per la Cappella Contarelli in
San Luigi dei Francesi 14; qui il poeta mette in campo la sua tempestiva
ed esaltata guida alla lettura delle due opere, la Vocazione ed il Martirio
di San Matteo, e liquida così gli oppositori che tentavano di sminuire o
10
Ibidem, P. 88, «Cedano a voi gl’antichi, et i più illustri/ pittor del secol nostro, Angel
Michele,/ e siano immortali, e gl’anni, e i lustri/ i color vostri, e le pregiate tele./ Finghia
altri pur le cose, adombre, e lustri,/ voi vive e vere le rendete, intanto/che ben vi si conviene
il pregio, e ‘l vanto,/ che vi dà la mia cetra hora, e ‘l mio canto».
11
Cfr. «Ammirate l’altissimo Pittore…»
12
Ibidem, p. 79.
13
Cfr. «Cedano a voi gl’antichi…»
14
Ibidem, p. 88, «Ecco ch’a cominciare hormai m’invita,/ e che regge il mio dire amata
scrota,/ e gia veggio il mio Christo, ch’a chiamare/ e publicani venne, e peccatori,/ come al
primo apparir, sgombra e rischiara/ la mente di Mattheo, ch’ingorda, e cieca/ si stava al
mondo in duri lacci avvolta,/ e Giesù che risplende in guisa tale,/ ch’a rimirarlo attrae
gl’occhi, e le menti/ de riguardanti, e par beati renda/ de mortali gli spiriti. Et tal s’è in
terra,/ d’artefice per opra, e di pennello,/ a rivederlo in cielo hor che fia dunque?/ Intrepido
te Santo, anchora ammiro,/ ch’offrendo olocausto al tuo signore,/ ecco d’impuro Regge a i
detti presta,/ stringer barbara man, ch’uccider brama,/ per far d’empia e crudel morte,
trofeo/d’eterna e immortal gloria, e ben l’addita/ l’Angiol,che qui dal ciel discende umile/
con vittoriosa insegna, per condurti/ carcho d’anni e di meriti in paradiso./ A chi ti mira,
non finto, ma vero,/ e morir mostri, e respirare in uno./ Ma diamo fin, che saria lungo il
6
comunque di ridimensionare il valore di questi dipinti, in particolar
modo della Vocazione, rappresentata come una scena di vita quotidiana e
la cui dimensione è data solamente dalla luce, simbolo divino, che tiene
insieme tutta la composizione.
Nei restanti componimenti, scritti mentre il pittore era ancora in vita,
Milesi è più controllato, e questo è forse dovuto anche al fatto che le sue
lodi avevano trovato un effettivo corrispettivo presso alcuni critici ed
intenditori d’arte; i tre sonetti per la morte avvenuta a Porto Ercole
mentre il Caravaggio tornava a Roma da Napoli, convinto di ottenere la
revoca del bando per il delitto commesso qualche anno prima,
concludono coerentemente un ciclo poetico scritto con grande
attenzione15.
dire,/ se descriver volessi a parte, a parte,/ e del mio gran Michel scrivere in carte,/ fatto
stupor del secol nostro al mondo».
15
Ibidem, p. 89, «Morto sei tu Michel? Tu ch’animasti,/ con l’angelico spirito, i bei colori?/
Ahi che le gratie spente ancho e gl’Amori,/ con quali l’opre tue chiare al ciel alzasti./ Al
paro di Natura in guisa oprasti,/ che somigliaro i vostri alti lavori,/ ond’ella dubitando de
gl’honori/ a lei dovuti, fè che tu mancasti./ Troppo in alto salendo Icaro cadde/ ne l’onde
che da lui pigliaro il nome,/ e fu de l’ardir sua pena et oltraggio./ Ma tu Hercole in sen, suo
figlio, come secur non fusti che morir t’accadde?/ Ah con morte non giova anch’esser
saggio».«Al mondo morto sei, non a te stesso,/ né a la gloria che di te risuona,/ Angel
humano già, ma hor ch’hai corona in ciel, divino, al sommo bene appresso./ Le bellezze
mirar già t’è concesso/ del grande Dio, ch’il premio hora a te dona/ de le fatiche tue, d’ogni
opra buona,/ e quel che t’era ascoso, hor vedi espresso./ Fra i tavagli del mondo, e le
tempeste/ vivesti ad altri, hor a te solo vivi,/ da mortal vita, ad immortal rinato./ Il bello
sparso, che vivendo, univi,/ altrui rende stupore, a te ‘l celeste,/ che di vederlo, a noi ancho
sia dato».«Varcato il mar d’arte tempeste humane,/ ti godi in cielo i meritati honori,/ Angel
nuovo Michel, d’ogni mal fuori,/ queste cose del mondo a te son vane./ L’invidie tutte hor
stan da te lontane,/ ch’il volgo (altri mancato) de gl’errori/ s’accorge, in non conoscere i
migliori,/ che poi stupido e stolto ne rimane./ O riportata in ciel anima bella,/ ritolta al
mondo che virtù non cura,/ indegno di sì grande alto intelletto./ Se doppo morte esser amico
dura,/ accetta queste voci anchor, con quella/ mente sincera che m’uscir dal petto».
7
Per Milesi non è solo la scomparsa precoce di un grande artista, ma
anche e soprattutto quella di un grande amico; questo lo porta a riflettere
sulla morte e «dallo sgomento incredulo si volge verso una penosa e
personale visione cristiana della fine del Caravaggio, il quale rimargina
nella pace con Dio le ferite di un’esistenza tumultuosa, segnata dalla
violenza, avvelenata dalle invidie»
16
; e mentre la sua «
anima bella»
gode «in cielo i meritati honori», l’amicizia del Milesi resta viva.
La fine del primo decennio del Seicento rappresenta per Milesi una
drammatica e traumatica interruzione di una stagione pittorica irripetibile
e anche il declino del suo coinvolgimento nelle vicende dell’arte, ed in
modo particolare della pittura, fu inevitabile; infatti oltre alla morte
dell’amico Caravaggio, del 1609 è anche la morte di Annibale Carracci.
Nei componimenti scritti dal Milesi in questo momento è dunque
evidente un senso di sgomento e di tristezza per quello che lo scrittore
vive come una congiura che ha rapito i migliori e più sublimi pittori del
momento
17
, i quali avevano impresso un cambiamento profondo
nell’arte e dopo i quali la pittura non poteva più essere la stessa di prima.
Degno di nota è come per un osservatore contemporaneo, un amatore,
Caravaggio e Annibale Carracci potessero essere posti sullo stesso piano
e percepiti, assieme, come due grandi pittori, due innovatori “lombardi”
16
G. Fulco, ibidem, p. 80.
8
che avevano riportato la pittura su una via di maggior naturalezza,
lasciandosi alle spalle la generazione manierista.
2. Il filocaravaggismo di Giulio Cesare Gigli
Della vita di Giulio Cesare Gigli non sappiamo quasi niente, a parte il
fatto che era bresciano, che visse a Venezia nel corso del secondo
decennio del secolo e che fu in rapporto con alcuni artisti e letterati, tra
cui probabilmente Giovanni Battista Agucchi (data la vicinanza delle
loro posizioni), e Marzio Milesi, il quale potrebbe aver fatto da tramite
tra Gigli e l’ambiente filocaravaggesco della prima ora, di cui fu uno dei
maggiori protagonisti; questo rapporto fornirebbe anche un aggancio per
un contatto di Gigli con l’ambiente romano 18.
Il testo che interessa la fortuna di Caravaggio è La Pittura trionfante, un
poemetto in endecasillabi stampato a Venezia nel 1615, nel quale
l’autore immagina di veder sfilare al seguito della Pittura in trionfo un
17
Ibidem, p. 75.
Cfr. S. Ginzburg, in G.C. Gigli, La pittura trionfante , Venezia 1615, ed. cons. a cura di B.
Agosti e S. Ginzburg, Porretta terme (Bologna), 1996, pp. 14-19.
18
9
corteo di pittori che nomina via via, fornendo un breve commento sulle
caratteristiche dello stile di ciascuno.
I pittori sono raggruppati per scuole geografiche: ci sono i veneti, i
lombardi, i genovesi, i bolognesi, i toscani e i romani; la quarta parte è
dedicata ai pittori di varie parti d’Italia 19, tra i quali occupa un posto di
assoluto rilevo Caravaggio:
«quand’ecco s’offre di ciascuno avanti/ di fantastico
umor, certo bizzarro,/ pallido in viso, e di
capillatura/ assai grande, arricciato,/ gli occhi
vivaci, sì, ma incaverniti,/ ch’un aureo baston
portava in mano/per allentar, per stringer, per
condurre,/ come piaceva a lui,/dietro alla Donna
l’onorata gente … Quest’è il gran Michelangel
Caravaggio,/ il gran protopittore,/ meraviglia
dell’arte,/ stupor della natura,/ sebben versaglio poi
di rea fortuna» 20.
19
Ibidem, p. 9, non c’è in Gigli rivendicazione di un solo primato locale, ma partecipazione
delle varie scuole ad una dimensione che è già unitaria, nazionale.
20
Ibidem, p. 53.
10
Caravaggio, descritto da Gigli in maniera molto dettagliata e
“naturalistica”, avanza solitario e isolato dal corteo.
Questa descrizione ci aiuta a capire l’indole del Merisi, un uomo
certamente burbero e scontroso, noncurante del proprio aspetto fisico; il
volto pallido e gli occhi «incaverniti» fanno presupporre che non
conducesse una vita tranquilla fatta di agi e comodità, ma piuttosto il
contrario; ciò, del resto, è ben attestato dalla documentazione
d’archivio21.
D’altra parte segue alla descrizione fisica una manifesta ammirazione da
parte dell’autore, il quale non dedicherà a nessun altro dei pittori citati
nel testo un elogio così importante ed esplicito.
Gigli esprime tutto il suo filocaravaggismo parlando del Merisi come
«meraviglia dell’arte», «stupor della natura» e lo definisce addirittura
« gran protopittore», ovvero il primo fra tutti, anche se già sa
perfettamente che non avrà la fortuna che a suo giudizio merita di avere.
Un entusiasmo così forte per Caravaggio ad una data così precoce è
sicuramente qualcosa di particolare e quindi costituisce un documento
interessante ed importante per avere un quadro completo riguardo alla
critica caravaggesca nel XVII secolo.
21
Cfr., da ultimo, R Bassani- F. Bellini,
1994.
Caravaggio assassino , Donzelli Editore, Roma
11
La quasi totale assenza di informazioni su Gigli non aiuta a capire come
sia arrivato a formulare i suoi pensieri e i suoi giudizi, ma sicuramente la
sua coscienza critica nasce all’interno di un circolo di eruditi (veneto o
bergamasco).
Il testo di Gigli testimonia un processo che si inizia a manifestare nei
primi anni del Seicento e che poi verrà alla luce in modo compiuto nella
seconda metà del secolo: la nascita della consapevolezza della specificità
stilistica delle varie scuole, che avrà come conseguenza il sorgere di una
coscienza critica e quindi di una letteratura artistica locale.
Questo fenomeno può essere studiato, come si diceva, fin dall’inizio del
‘600, quando è ancora evidente il nesso tra l’attività degli artisti e il
contesto dei committenti, dei mercanti, dei collezionisti, dei letterati e
degli storici locali, da cui prende forma la coscienza di scuola.
Quello di Gigli è uno dei più significativi esempi di un tentativo di
formulazione di una storiografia artistica italiana fondato sulle aree
geografico-stilistiche, nella quale le uniche notazioni che vengono
fornite sugli artisti mirano a descriverne le caratteristiche di stile, anche
perché una storiografia artistica che si basa sulle scuole ha nello stile la
sua unica discriminante e quindi ha bisogno di aggettivi e di attributi per
descrivere quello di ciascun artista 22.
22
Cfr. Ginzburg, op. cit., p. 13
12
Quasi sempre Gigli conosce direttamente gli artisti di cui parla, magari
per avere intrattenuto con loro dei rapporti nei centri in cui sono attivi, e
questo gli dà la possibilità di parlare di loro in modo dettagliato e
preciso, permettendosi anche qualche annotazione sul carattere, come nel
caso di Caravaggio; infine, alcuni dei personaggi che hanno rapporti
stretti con il Gigli sono identificabili, e questi sono tutti intellettuali
molto colti, come il dedicatario de La Pittura trionfante, il famoso
collezionista e mercante fiammingo Daniel Nys, il pittore e conoscitore
Odoardo Fialetti ( che incise il frontespizio disegnato da Palma il
Giovane de La Pittura trionfante) ed il letterato e antiquario Marzio
Milesi
23
di cui ho già detto e dalla cui frequentazione probabilmente
deriva al Gigli parte del suo entusiasmo su Caravaggio; tutti uomini di
un certo livello culturale ed intellettuale, grandi intenditori d’arte che
spesso coglievano più di altri il valore di certi artisti apprezzandone le
innovazioni, anche le più rivoluzionarie.
3. Vincenzo Giustiniani: amico, ammiratore e committente
23
Ibidem, pp. 17-18.
13
Il marchese Vincenzo Giustiniani, di origini genovesi, venne educato a
Roma alla fine del ‘500; uomo dalla cultura multiforme, egli nutriva un
interesse particolare per le arti; Giustiniani conosceva ed ospitava nel
suo palazzo 24 i migliori pittori del momento e spesso si mostrò di larghe
vedute e aperto anche alle opere più “trasgressive”.
Fin da giovane egli diede a Caravaggio il suo appoggio incondizionato;
ce lo dimostra anche il fatto che aveva riscattato dai religiosi di San
Luigi dei Francesi una redazione del San Matteo con l’angelo, rifiutata
dalla congregazione perché ritenuta oltraggiosa, a causa dei piedi del
Santo posti in primo piano e rivolti verso il pubblico e a causa del fatto
che San Matteo pareva analfabeta, dal momento che si faceva aiutare
nella lettura dall’angelo; l’acquisto del quadro da parte di Giustiniani
impedì probabilmente il fallimento della carriera del Caravaggio come
pittore di quadri religiosi 25.
Nel suo breve Discorso sopra la pittura scritto non molto tempo dopo la
morte del Merisi, dal momento che questo è citato come «pittore de’
nostri dì»
26
, egli distingue dodici maniere di dipingere e conclude
24
V. Giustiniani, Discorso sopra la pittura, in Discorso sulle arti e sui mestieri , (1620-1630
circa), ed. a cura di A. Banti, Firenze, 1981, p. 5. Nel 1590 Giuseppe Giustiniani, padre di
Vincenzo, acquistò il palazzo di fronte alla chiesa di San Luigi dei Francesi.
25
Cfr. C. Strinati, Caravaggio vincitore, in Caravaggio e i Giustiniani , S. Danesi Squarzina
(a cura di), Logart press, Roma, 1995, p. 90.
26
Ibidem, p. 44.
14
indicando Caravaggio come il massimo e il migliore dei pittori del
secolo.
Si potrebbe parlare di avvicinamento progressivo al vero concetto di
pittura, in quanto Giustiniani inizia dal dominio della copia (i primi tre
modi: spolvero, copia pittorica e copia disegnata), per passare poi
all’attitudine ad osservare concretamente la realtà, prima
minuziosamente (i modi quarto e quinto, fare i ritratti e rappresentare i
fiori), poi con ampiezza (i modi sei e sette, prospettive e paesaggi) per
arrivare al primo livello di eccellenza (il modo ottavo) che è il “fare
grottesche”, perché questo richiede all’artista una competenza
universale, in quanto è necessario che il «pittore osservi molte cose»,
dalle «pitture antiche» alle «invenzioni moderne» 27.
Proseguendo si ha il modo nono (battaglie e cacce), che è la
rappresentazione del mondo dinamico della natura; poi troviamo le due
modalità fondamentali: il decimo modo è quello di dipingere “di
maniera” e quindi senza ritrarre dal modello, l’undicesimo è quello di
dipingere secondo la concezione naturalistica, e quindi con l’oggetto
davanti agli occhi.
Il dodicesimo e ultimo modo, quello che è proprio del Caravaggio, è la
sintesi dei due precedenti e quindi si ottiene unendo la fantasia alla
27
Ibidem, p. 43.
15
concretezza naturale: «Duodecimo modo, è il più perfetto di tutti; perché
è più difficile; l’unire il modo decimo con l’undicesimo già detti, cioè
dipingere di maniera, e con l’esempio avanti del naturale, che così
dipinsero gli eccellenti pittori della prima classe, noti al mondo; ed ai
nostri dì il Caravaggio, i Carracci e Guido Reni»28.
Come possiamo vedere anche il marchese avvicina Caravaggio ai
Carracci, in particolare ad Annibale, solitamente considerati, all’inizio
del XVII secolo, come due grandi protagonisti della pittura; entrambi,
infatti, venivano visti come dei rinnovatori che avevano rotto con la
tradizione del ‘500 opponendosi ai manieristi e cercando di riproporre le
antiche tradizioni del naturalismo lombardo a cui dovevano la loro
formazione.
Il marchese dunque era veramente affascinato ed entusiasta del modo di
dipingere del Merisi (del resto Carlo Cesare Malvasia lo inserisce,
insieme a Mattei e Del Monte, nella triade di personaggi autorevoli che
diedero fama alle opere del Caravaggio), ed è notevole anche il fatto che
nel Discorso l’unica opinione di artista citata, sia proprio quella famosa
di Caravaggio: mi riferisco alla frase con la quale il pittore elogia
28
Ibidem, p. 44.
16
l’impegno nel dipingere fiori o figure: «ed il Caravaggio disse, che tanta
manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure»
29
.
Questa affermazione rovescia tutte le tesi del momento; infatti, contro la
gerarchia dei generi, il Caravaggio afferma di non vedere differenza di
dignità tra il dipingere un quadro di natura morta, e il dipingere una
composizione di qualsiasi tipo implicante la rappresentazione di azioni
umane.
Quindi, come ha notato Ferdinando Bologna, alla teoria che vedeva nella
nobiltà dell’idea l’unica ragione che legittimava la perfezione dell’arte,
Caravaggio sosteneva che la “bontà” dell’opera dipende dalla
“manifattura” e quindi la qualità artistica si identifica, per lui, con la
qualità del processo di realizzazione; così, attraverso questa concezione
fattuale e operativa dell’arte, intesa come un vero e proprio lavoro,
Caravaggio sovvertiva la teoria dominante 30.
Secondo l’inventario redatto nel 1638 alla morte di Vincenzo
Giustiniani, nel suo palazzo erano presenti ben quindici opere del
pittore31, tra cui ovviamente quella commissionatagli direttamente dal
Giustiniani e quindi a lui personalmente destinata: L’amore vincitore, un
29
Ibidem, p. 42
Cfr. F. Bologna, L’altra via: le ragioni del «fare» dal Bellini al Caravaggio: la «mano
ministra» nella critica del barocco, in Storia dell’arte italiana, Einaudi, Torino, 1979, pp.
185-186.
30
17
capolavoro dipinto tra il 1602 ed il 1603, con grande precisione, del tutto
attinente alla realtà, come dimostrano la vitale espressione del fanciullo
rappresentato mentre sorride, ed il movimento giocoso ed instabile delle
gambe e delle braccia, tipico della prima adolescenza.
Quest’opera è per Giustiniani il simbolo del “dodicesimo modo”, in cui
vincitrice è la pittura in sé e nel Discorso sopra la Pittura lo dice
chiaramente: «la quale al di d’oggi è in colmo di estimazione, non solo
per quanto porta l’uso di Roma ordinario ma anco per mandare fuori in
Spagna, Francia, Fiandra, Inghilterra, e altre parti che in vero è cosa
degna di maraviglia il considerare il gran numero di pittori ordinari e di
molti persino che tengono casa aperta con famiglia, anche con fare
avanzo solo col fondamento dell’arte di dipingere con diverse maniere e
invenzioni» 32.
Questo è il senso di un grande slancio ed entusiasmo, una vera e propria
apoteosi della pittura vista soprattutto alla luce del fatto che Roma era
stata, fino a pochi anni prima, la patria del pittore mestierante, addetto a
lavorare nei cantieri, spesso confuso in mezzo agli altri, per decorare
prevalentemente chiese.
31
S. Danesi Squarzina, Caravaggio e i Giustiniani , in Michelangelo Merisi da Caravaggio ,
S. Macioce (a cura di) Logart press, Roma, 1995, p. 95. Atti del Convegno Internazionale di
Studi, Roma, 5-6 Ottobre 1995.
32
Giustiniani, op. cit., p. 43.
18
Da questo brano sembrerebbe anche che Giustiniani legittimasse il fatto
di «dipingere con diverse maniere e invenzioni», esprimendo così l’idea
di una rappresentazione che si modifica a seconda delle personalità
artistiche e che non può obbedire ad un canone fisso, appunto perché
dipende dall’esperienza molteplice degli individui, ma non dobbiamo
dimenticare che le “maniere” individuali, per Giustiniani, sono inserite
entro dei generi (i modi della pittura) che hanno le loro tradizioni e le
loro regole da rispettare.
4. Giovan Battista Marino e Virgilio Malvezzi: due letterati
appassionati d’arte
Giovan Battista Marino fu il maggiore esponente della poesia concettista
33
; della sua formazione culturale sappiamo sostanzialmente poco, a parte
le notizie che si possono dedurre dalle pagine dell’epistolario, il quale ci
offre il ritratto di un uomo spavaldo, intelligente e ironico.
33
C. Segre, Testi nella storia, Mondadori, Milano, 1994, Vol. II, p. 888.
19
Nel campo della poesia fu un vero rivoluzionario e una delle sue opere
più importanti è, senza dubbio, la Galeria
34
, una raccolta di liriche
scritte in vari metri, nata dalla grande passione del Marino per l’arte.
L’opera, pubblicata per la prima volta nel 1620, è organizzata come la
celebrazione poetica di una galleria principesca del tempo.
E’ infatti ordinata in Pitture e Sculture
35
e a chiusura di entrambe le
sezioni ci sono i Capricci, termine con cui nella letteratura artistica di età
barocca si definiranno le figure, le scene o i paesaggi fantastici o
bizzarri.
La sua preparazione fu lunga e complessa, soprattutto nella fase di
selezione delle opere d’arte alle quali sarebbero stati dedicati i
componimenti.
Quest’opera documenta l’ardente passione artistica di Marino, risalente
soprattutto agli anni giovanili trascorsi nella Roma papale animata da
pittori come il Cavalier d’Arpino, i Carracci e naturalmente Caravaggio,
del quale aveva potuto fare diretta conoscenza nel 1606 36.
Marino era rimasto colpito dalla novità dell’arte del Merisi e lo ammirò
sinceramente fino al punto di dedicargli dei componimenti poetici; infatti
34
La “galleria”, cioè la pinacoteca.
All’interno delle pitture i componimenti sono inoltre distinti in favole mitologiche, in
storie religiose e in ritratti; le sculture, invece, sono divise in statue e rilievi, modelli e
medaglie.
36
Segre, op. cit., p. 911.
35
20
all’interno dell’opera lo troviamo menzionato in modo esplicito almeno
due volte, la prima nella parte riguardante la Pittura, con la descrizione
di un suo dipinto; si tratta di un madrigale che descrive uno scudo da
torneo con la Testa di medusa, commissionato a Caravaggio dal cardinal
del Monte, che nel 1608 lo regalò a Ferdinando I, granduca di Toscana:
La testa di Medusa in una rotella
di Michelangelo da Caravaggio,
nella Galeria del Gran Duca di Toscana.
«Or quai nemici fian, che freddi marmi
non divengan repente
in mirando, Signor, nel vostro scudo
quel fier Gorgonie, e crudo,
cui fanno orribilmente
volumi viperini
squallida pompa e spaventosa ai crini?
Ma che! Poca fra l’armi
a voi fia d’uopo il formidabil mostro:
chè la vera Medusa è il valor vostro» 37.
37
G.B. Marino, La Galeria, Venezia, 1620, p. 225.
21
La seconda volta lo ritroviamo menzionato nella parte dedicata ai
Ritratti, questa volta però con un componimento poetico scritto in
occasione della morte, nel quale emerge tutta l’ammirazione, la stima e
il dispiacere del Marino, per la perdita del pittore che meglio di ogni
altro aveva saputo rappresentare le cose della natura, le quali
sembravano addirittura «create, e non dipinte»; Marino parla di una
«crudel congiura» fatta ai danni del pittore dalla Morte e dalla Natura,
l’una sdegnata per il fatto di dover veder rivivere ciò che lei distruggeva;
l’altra irritata per esser vinta in ogni immagine da lui dipinta:
In morte di Michelagnolo da Caravaggio.
«Fecer crudel congiura
Michele, à danni tuoi Morte, e Natura.
Questa restar temea
Dala tua mano in ogni imagin vinta,
ch’era da te creata, e non dipinta.
Quella di sdegno ardea,
perché con larga usura
quante la falce sua genti struggea,
22
tante il pennello tuo ne rifacea» 38.
Marino anticipa, più di ogni altro poeta di quel tempo, lo spirito del
barocco, incline alla bizzarria, all’eccezionalità, alla sorpresa; egli indica
nella meraviglia il fine del poeta eccellente.
La meraviglia diventa un rimedio alla stanchezza e alla noia generata
dalla ripetizione dei modelli del passato, inadeguati ad esprimere la
realtà presente, colta invece, in modo spettacolare, da un pittore come
Caravaggio; questo spiega l’ammirazione che Marino rivolge a questo
pittore ed il rammarico e la tristezza che emergono dal componimento
che scrive per la sua morte.
Altro letterato di grande importanza e vero appassionato d’arte
39
in
questi primi anni del XVII secolo fu Virgilio Malvezzi, barone della
Taranta e di Quadri, marchese di Castel Guelfo, appartenente ad una
delle più antiche famiglie patrizie di Bologna 40.
Dimostrando uno spirito enciclopedico, si applicò sempre a varie
discipline, in particolar modo alla pittura, materia alla quale non si
avvicinò solo come semplice intenditore e critico, ma si cimentò anche
38
Ibidem, p.235.
Gli interessi del Malvezzi per la pittura, sono attestati dalla sua partecipazione al volume Il
trionfo del pennello. Raccolta d’alcuni composizioni a gloria d’un ratto d’Elena di Guido,
Bologna, 1634, e dalle considerazioni che ha lasciato nelle sue opere, come per esempio
nell’Alcibiade dove effettua un confronto tra Tintoretto e Raffaello.
39
23
nella parte attiva di pittore; questo ci è testimoniato dal Malvasia che,
nella sua opera, dopo aver elogiato il Malvezzi come «primo e più nobile
illustratore dell’italiana favella», aggiunge «che non meno fè ammirarci
talvolta gli eleganti parti del suo dotto pennello che i spiritosi concetti
della morale sua penna» 41.
Sempre Malvasia lo colloca al centro della vita artistica bolognese,
collezionista raffinato ed attento, amico del Reni e del Tiarini 42.
Relazioni di profonda amicizia Malvezzi le aveva strette anche con il
Caravaggio, del quale ci da un giudizio spassionatamente positivo; infatti
dice che, quando pareva che la natura fosse giunta al suo estremo e non
ci fosse più posto per altre esperienze, si affermarono due pittori come il
Reni e Caravaggio, i quali furono addirittura superiori agli antichi con un
modo nuovo di dipingere, l’uno «con la nobiltà dell’aria», l’altro «con
la forza del dipingere»: «S’obblighi l’istoria alla verità , il pittore al
naturale, e benché quella e questa siano una sola cosa, non è una sola la
maniera di scriverla e dipingerla.
40
R. Brändli, Virgilio Malvezzi politico e moralista , Tipografia dell’USC, Basilea, 1964, p.
9.
41
C. Malvasia, La Felsina pittrice; Vite Dei Pittori Bolognesi , Bologna, 1678, ed. cons. a
cura di M. Brascaglia, Bologna, 1967, p. 210.
42
Ibidem, pp. 38, 40, 61, 70, 84.
24
Grande istorico fu Salustio, Tito Livio, Tacito; gran pittore Raffaele,
Titano e ‘l Correggio, degni di maraviglia; nondimeno scrissero e
dipinsero con differenti modi e linee.
Né meno s’ha da credere ch’il campo che prima si riconobbe libero si
deve ora limitare alle precise regole di que’ segnalati valentuomini.
Guido da Bologna e Michele Angelo Caravaggi, quando la nostra
ignoranza pubblicava già stracca la natura, uscirono alla luce con un
modo nell’eseguire nuovo avantaggiandosi agli antichi, l’uno con la
forza del dipingere, l’altro con la nobiltà dell’aria; perché non può
ancora manifestarsi un istorico che superi gli altri?»
43
; il gusto del
Malvezzi è orientato senza dubbio più verso la «forza del dipingere» che
non verso la «nobiltà dell’aria» ed un giudizio così deciso e libero da
pregiudizi sullo stile caravaggesco è un riconoscimento splendido e
chiaro che lascia un po’ stupiti: Malvezzi ha infatti compreso Caravaggio
e la sua «forza».
E’ probabile che lo scrittore abbia visto nella pittura di Caravaggio
l’analogo di quella energia che lui metteva nelle sue fatiche stilistiche;
infatti la prosa del Malvezzi è ricca di tensioni improvvise paragonabili
alle luci radenti che assalgono i quadri di Caravaggio 44.
43
V Malvezzi, Successi principali della monarchia di Spagna nell’anno 1639
1640, p. 5.
44
E Raimondi, Il colore eloquente, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 13.
, Bologna,
25
Proprio la luce è una delle grandi scoperte di questo secolo, intesa come
entità fisica e metafisica, che dà alle sue opere la forza dell’attimo,
diretta alla ricerca della situazione drammatica; d’altra parte questo è il
secolo che fu attraversato più di altri da tensioni, sofferenze,
contraddizioni e miserie, che si riscontrano puntualmente nella
letteratura e ovviamente anche nell’arte; è il secolo della scoperta della
scienza moderna, ma anche dell’antropologia e dell’analisi dei
comportamenti dell’uomo.
Virgilio Malvezzi interpreta perfettamente il senso di instabilità che
pervade tutto il XVII secolo dominato dalla rappresentazione dell’uomo
che agisce sul teatro del mondo
45
; ecco che con questa mentalità si
impone una forte e convinta ammirazione per Caravaggio, un pittore
che indagava la realtà in ogni suo più piccolo particolare esprimendosi
con un linguaggio in cui luce ed ombra sono protagonisti assoluti.
Malvezzi vede in lui l’inizio di un nuovo corso pittorico, e questo è
qualcosa di veramente grande ed importante che trascende il classicismo
idealistico di Agucchi.
45
Ibidem, p. 134
26
CAPITOLO II
GIOVANNI BATTISTA AGUCCHI E GIULIO MANCINI
1. Giovanni Battista Agucchi: una posizione “protoclassicistica”
27
Monsignor Giovanni Battista Agucchi rappresenta nel primo Seicento
l’affermarsi della personalità dell’ “amatore” nel campo della critica
figurativa; giunto a Roma nel 1592 al seguito dello zio Filippo Sega,
iniziò a frequentare la cerchia degli Aldobrandini, del papa Clemente
VIII e degli uomini vicino a Filippo Neri 46.
Agucchi vive e si forma dunque in un ambiente in cui prendono forma
progetti attinenti ai campi più diversi: la politica, la storiografia, la
lingua, la storia della pittura.47
La sua personalità può quindi essere compresa solo alla luce delle idee
emerse negli anni a cavallo fra i due secoli, in un momento in cui le arti e
le scienze conoscono una stagione intensa e feconda; tutto questo spiega
anche la sua molteplice attività di politico, storico, antiquario.
Con l’elezione al soglio pontificio di Gregorio XV ottenne un ruolo di
spicco e divenne Segretario dei Brevi del papa; in questa circostanza
iniziò a frequentare alcuni artisti e particolarmente importante appare il
legame di Agucchi soprattutto con Annibale Carracci e con
46
Cfr.R. Wittkower, Arte e architettura in Italia 1600- 1750, Middlesex (Inghilterra), 1958,
ed. cons. Einaudi, Torino, 1993, p. 8.
47
Cfr. S. Ginzburg, Domenichino e Giovanni Battista Agucchi in catalogo Domenichino
1581-1641, Electa, Milano, 1996, p.126.
28
Domenichino; da questa unione sembra aver preso vita il Trattato sulla
pittura 48, scritto dal prelato con lo pseudonimo di Graziado Maccati 49.
Nonostante ci siano tante testimonianze, questi legami furono riscoperti
nella loro importanza critica solo nel 1947 con la pubblicazione del libro
di Denis Mahon,50 il quale ha datato il trattato tra il 1607 e il 1615.
Egli giustamente sottolinea anche il fatto che, nonostante Domenichino
fosse più vicino ad Agucchi durante la stesura del trattato, è Annibale
Carracci che viene maggiormente elogiato e, direi, celebrato.
Secondo Mahon, inoltre, il trattato documenta lo sviluppo seicentesco
della dottrina classicistica, che si esprime attraverso due argomenti
chiave: l’elogio dell’Idea del bello
51
e l’antinaturalismo, concetti che
emergono con chiarezza da un commento su Caravaggio, che, come il
48
Cfr. D.Mahon, Studies in seicento art and theory , London, 1947, p. 190. Il cosiddetto
trattato corrisponde in realtà a un lungo frammento scelto da Massani tra vari scritti sulla
pittura di Agucchi.
49
C. Malvasia, op. cit., p.162,
«Sotto nome di Graziado Maccati, van fuore manoscritti
frammenti, parte dei quali portammo nella vita de’ Carracci, e quali Monsignor Agucchi,
colla scorta e consiglio prima di Annibale, poi del suo Domenichino intesseva». Ibidem,
p.239, «Con iscambievole partecipazione però s’intesseva quell’erudito discorso sopra le
varie maniere della pittura».
G. P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, Roma, 1672, ed. cons. a cura
di E. Borea, Torino, 1976, p. 329, «Gli era [a Domenichino] di gran giovamento il leggere
istorici e poeti, e se ne approfittava per l’introduzione avutane da monsignor Gio. Battista
Agucchi, il quale per lo diletto grande della pittura soleva esporgli le bellezze della poesia,
con osservare i mezzi e li termini de’ poeti e de’ pittori nel rappresentare. In questo studio
l’Agucchi, comunicando con Domenico, si propose di comporre un discorso sopra le varie
maniere della pittura, dividendola in quattro parti, come l’antica».
50
D. Mahon, Studies in seicento art and theory, London, 1947.
51
G. B. Agucchi, Trattato della pittura, in Mahon, op. cit., p. 242-243.
29
pittore Demetrio, «hà lasciato indietro l’Idea della bellezza, disposto di
seguire del tutto la similitudine» 52.
Questi passi del trattato sono stati ripresi quasi puntualmente da Bellori
nel discorso sull’Idea, tenuto all’Accademia di San Luca nel 1664, e
nella ‘vita’ di Caravaggio 53.
La continuità tra Agucchi e Bellori è un’altra prova che il maturo
classicismo affonda le sue radici nei primi anni del Seicento, anche se
queste idee avranno soprattutto fortuna a partire dal quarto decennio del
secolo.
In effetti le posizioni di Agucchi sono diverse da quelle di Bellori, e a
ben vedere è proprio il giudizio su Caravaggio ad essere diverso.
Nel trattato di Agucchi a Caravaggio viene rivolta l’accusa di aver
mancato il rispetto del decoro 54; di altro tipo e soprattutto di altro tono
saranno invece le critiche elaborate e divulgate successivamente, fino ad
arrivare proprio al giudizio di Bellori, che parlò di una pittura
52
Ibidem, p.256-257, «…Demetrio, benché questi fosse scultore, andò tanto dietro alla
somiglianza, che alla bellezza non ebbe riguardo.Il Caravaggio eccellentissimo nel colorire
si dee comparare à Demetrio, perché hà lasciato indietro l’Idea della bellezza, disposto di
seguire del tutto la similitudine».
53
Cfr. S Ginzburg, op. cit, p. 124.
54
Ibidem, p. 124, «da leggersi in consonanza con le polemiche che potevano sorgere negli
stessi anni, all’apertura del secolo, sull’accoglienza in talune chiese dei quadri sacri di
Caravaggio».Questo derivava dal fatto che il Concilio di Trento aveva delimitato i confini
che all’arte venivano assegnati nella società riformata; di conseguenza venne imposta una
severa disciplina nelle rappresentazioni di storie sacre.
30
caravaggesca priva non solo di decoro, ma anche di disegno,
composizione, azione, resa degli affetti 55.
In fondo, il giudizio che Agucchi esprime nei confronti di Caravaggio,
non è del tutto negativo: lo considera infatti «eccellentissimo nel
colorire».
Semmai mostra come da sempre ci sia stata una grande difficoltà a
comprendere il lavoro di un pittore che raccoglieva i suoi modelli per
strada senza distinguere il “bello” dal “brutto” e che imitava gli “uguali”
e i “peggiori”, rappresentando ciò che vedeva con volontà di integrale
naturalismo; la difficoltà di comprendere questo modo di dipingere è
legata al fatto che invece i pittori, nella convinzione di Agucchi, debbono
raccogliere « le bellezze sparse in molti, e unirle insieme con finezza di
giudizio, e fare le cose non come sono, ma come esser dovrebbono per
esser perfettissimamente mandate ad effetto» 56.
Questa, tra l’altro, non è che la riformulazione del principio basilare
della dottrina classicistica, la quale afferma che la natura è imperfetta e
che l’artista deve riuscire a migliorarla scegliendo solo le sue parti più
belle.
Possiamo quindi capire quanto fu rivoluzionario Caravaggio, un pittore
che dipingeva lavorando direttamente sulla tela, in un momento in cui
55
G. P. Bellori, op. cit, p. 230.
31
Agucchi intesseva le lodi dei Carracci, i quali «giudicarono che per
costituire una maniera d’una sovrana perfezione, converrebbe col
disegno finissimo di Roma unire la bellezza del colorito lombardo » 57.
Proprio nell’arte dei Carracci e in modo particolare in quella di
Annibale, Agucchi trovò la realizzazione della sua formulazione teorica;
egli fu infatti uno dei primi sostenitori di quel progetto stilistico che
intendeva formulare un linguaggio pittorico composto dall’unione di
disegno e colore 58 e che secondo Agucchi spinse a Roma i Carracci.
Del resto Caravaggio e i Carracci partivano da una matrice culturale
comune, il “naturalismo” lombardo e per tutti l’intento era quello di
voler superare la fase di decadenza e di degenerazione della cultura
manieristica59, nonché quello di ritornare al “vero” naturale.
Ciò che li differenziò profondamente furono le modalità del recupero di
quest’ultimo; infatti i Carracci, a differenza di Caravaggio, unirono ad
una maggiore osservazione della realtà quotidiana uno studio
approfondito e una rimeditazione della tradizione rinascimentale,
attingendo a modelli che vanno da Raffaello a Correggio a Tiziano;
Caravaggio, invece, nel giudizio di Agucchi, aveva certamente reagito
56
G. B. Agucchi, in Mahon,op. cit, p. 242.
Ibidem, p.252.
58
Cfr. Ginzburg, op. cit,, p. 125, La scelta compiuta da alcuni artisti tra Cinque e Seicento a
favore di un linguaggio figurativo composto dai diversi accenti di varie scuole regionali,
verrà chiamato eclettismo e attirerà in seguito giudizi negativi.
57
32
all’astrattezza e all’irrealtà dei manieristi, ma era caduto nell’errore
opposto, quello di aver «lasciato indietro l’Idea della bellezza» per
«seguire del tutto la similitudine».
2. Caravaggio eccellente colorista: il punto di vista di Giulio Mancini
Giulio Mancini rappresenta, insieme ad Agucchi, quel momento di
transizione che vede la forte reazione alla “fantastica idea manierista” e
la contesa tra naturalisti e manieristi, insieme all’ascesa dei bolognesi.
Senese d’origine, si trasferì a Roma, dove poté vivere i suoi interessi
artistici e da collezionista di gusto presso la corte papale, dove raggiunse
una posizione elevata come medico personale di Urbano VIII.
Giulio Mancini non è un “protoclassicista” come Agucchi: l’antico non è
ancora il mezzo necessario per l’imitazione della natura; egli è
soprattutto un “dilettante”, un “virtuoso” che si interessa della pittura e
dei quadri, da come sono dipinti, a come si collezionano, a come si
espongono; con lui ci si avvia verso la critica degli amatori-conoscitori e
33
per questo, quello che è veramente nuovo, è il modo di impostare i
problemi 60.
Naturalmente, in questa sede, interessa indagare quale fosse
l’atteggiamento del Mancini di fronte ai pittori del suo tempo ed in
particolare il suo giudizio su Caravaggio, espresso nelle Considerazioni
sulla pittura, la sua opera letteraria conservata a Roma, Siena, Firenze,
Venezia e Londra, scritta tra il 1618 e il 1621 e mai stampata fino al
Novecento.
Si tratta di un duplice trattato la cui prima parte ha il caratteristico titolo
di: Alcune considerazioni appartenenti alla pittura come diletto di
gentiluomo nobile, mentre la seconda parte è intitolata: A l c u n e
considerazioni intorno a quello che hanno scritto alcuni autori in
materia della pittura se habbino scritto bene o male, et appresso alcuni
raggiungimenti d’alcune pitture e pittori che non hanno potuto
osservarne quelli che han scritto per avanti.
Questa seconda parte è dunque essenzialmente critica e di fondamentale
importanza per capire la nuova mentalità che sta prendendo vita in
questo momento.
60
L. Salerno in G. Mancini, Considerazioni sulla pittura , (1618-1621 circa), ed. a cura di A.
Marucchi e L. Salerno, Roma 1956, Vol. II, p. XXIII «Il Mancini anticipa quella
trasformazione del “virtuoso” in “connoisseur” che si determinò alla fine del secolo in
Inghilterra e in Fracia».
34
A quest’opera si devono pagine importantissime per ricostruire il gusto
del primo Seicento e le sue biografie meritano un posto di primo piano;
particolarmente importante è quello che scrive a proposito del
Caravaggio, la cui biografia si apre così: «Deve molto questa nostra età
a Michelangelo da Caravaggio, per il colorir che ha introdotto, seguito
assai comunemente»
61
; e continua: « Non si può negare che per una
figura sola, per le teste e colorito non sia arrivato ad un gran segno e
che la profession di questo secolo non li sia molto obbligata» 62.
Quella di Mancini è una delle voci positive nella critica caravaggesca del
Seicento 63; come si può vedere insiste molto sul colore, una delle doti
che maggiormente apprezza nel pittore lombardo, ma non solo: infatti
stima molto anche la sua grande qualità di pittore quando si trova ad
impostare una sola figura, anche se così facendo, rimarca che è carente
nella rappresentazione della storia: «questa schola…fa bene una figura
sola, ma nella composizione dell’historia…non mi par che vagliano» 64
Senza dubbio il Caravaggio era abile nell’imitare la natura e nel
renderne i colori, che stendeva direttamente sulla tela, senza studi
61
Mancini, op. cit. Vol. I, p. 223.
Ibidem, p. 108. Il brano fu notevolmente valorizzato da Roberto Longhi, il quale lo utilizzò
per comporre la sua Antologia caravaggesca rara che adesso si trova nella rivista d’arte
Paragone, n. 17, Firenze, 1951, p. 48.
63
Un’altra voce positiva della critica caravaggesca nella prima metà del Seicento è quella di
Pietro da Cortona il quale, nel Trattato della pittura e scultura uso et abuso loro, scritto
insieme al padre gesuita Ottonelli, afferma che quel modo di dipingere dal naturale «apporta
meraviglia».
62
35
preliminari, e al quale mancava anche il senso della composizione
conveniente ad ogni “historia”.
Mancini osserva infatti che è caratteristico della scuola del Caravaggio
«di lumeggiare con lume unito e che venghi da alto senza reflessi, come
sarebbe in una stanza da una finestra con le pariete colorite di nigro,
che così, avendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto scure, vengono
a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale né fatto, né
pensato da altro Secolo o’ pittori più antichi, come Raffaello Titiano,
Correggio, et altri.
Questa Schola in questo modo d’operare è molto osservante del vero,
che sempre lo tien davanti mentre che opera, fa bene una figura sola, mà
nella composition dell’Historia, et esplicar affetto, pendendo questo
dall’Immaginatione e non dall’osservanza della cosa per ritrar il vero
che tengon sempre avanti, non mi par che vagliano, essendo impossibil
di mettere in una stanza una moltitudine d’huomini che rappresentin
l’historia con quel lume d’una finestra sola, et haver un che rida o
pianga o faccia atto di camminare e stia fermo per lasciarsi copiare, e
così poi le lor figure, ancorché habbin forza, mancano di moto, d’affetti
e di gratia»65.
64
65
G. Mancini, op. cit., p. 108.
Ibidem, p. 108-109.
36
In effetti Caravaggio tende a cogliere e ad affermare, per mezzo della
luce, l’assoluta dignità di ogni elemento naturale, allargando gli orizzonti
della pittura, chiaramente in polemica con una tradizione culturale che
relega a genere minore la rappresentazione della realtà oggettuale.
A me sembra però che il Mancini ritenesse che il naturalismo di
Caravaggio era in fondo molto più lontano dalla natura di quanto non si
credesse; infatti, ci dice che il pittore non considera “internamente” la
natura delle cose imitate, ma solo la loro apparenza 66, e il suo « modo» ci
viene presentato come «non naturale ne’ fatto ne’ pensato da altro
secolo o pittori più antichi…» 67.
Mancini non giustifica la pura imitazione, ma a Caravaggio non
rimprovera neanche la mancanza di un’Idea della bellezza in senso
classico (come Agucchi e successivamente Bellori).
Gli rimprovera, semmai, la limitatezza del suo mondo, che escludeva
decorazioni e rappresentazioni storiche, con tutto ciò che l’“historia”
implicava, soprattutto invenzione, affetti e movimento, caratteri
essenziali della concezione seicentesca della pittura.
66
Cfr. Salerno in Mancini, op. cit., p. XI. Questo atteggiamento del Mancini è significativo
come indice dello svolgimento della critica secentesca verso una maggiore valutazione del
contenuto rispetto alla forma.
67
Mancini, op. cit., p. 108
37
Detto questo è chiaro, però, che la bellezza, concetto chiave dell’estetica
del Seicento, interessò anche il Mancini, sebbene non parli
esplicitamente di una Idea della bellezza superiore alla natura.
Egli fa consistere la bellezza nelle rinascimentali proporzioni e
soprattutto nel decoro: «Questo decoro di necessità ha in sé la bellezza
della figura, la quale, in proposito nostro, non è quella che tira a sé per
fruitione, ma quella che ha proportione e constitutione conveniente ad
ogni età e persona.
E così quella proporzione e constitutione conveniente ad ogni età e
persona sarà questa bellezza, ma, per intendere più esattamente questa
bellezza della pittura, deve aver prima l’espression propria di quella tal
cosa che rappresenta, et appresso che quella cosa che vien imitata habbi
in sé la proportion delle parti che li conviene, con il colore che
necessariamente seguita a quel tal essere» 68.
Il decoro veniva inteso, quindi, sia come convenienza, ovvero come
esclusione di tutto ciò che è indecente, sia come corrispondenza al fine e
al carattere proprio del soggetto rappresentato 69; in ogni caso tutto ciò
che manca di proporzione, esulava dal decoro, così come la scorretta
rappresentazione del costume delle figure, ed è forse in quest’ambito che
potrebbe ricadere un’ accusa a Caravaggio, il quale per rappresentare la
68
Ibidem, pp. 120-121.
38
Madonna prese una meretrice per modella 70: «…si deve considerare il
costume delle figure che habbin quell’esser proprio in effigie, affetto et
operatione, con la quale vogliamo esprimere una persona che facci
quella tal operatione. E di qui si puol vedere quanto che alcuni moderni
faccin male, quali, per descrivere una Vergine e Nostra Donna, vanno
retrahendo qualche meretrice sozza, come faceva Michelangelo da
Caravaggio…» 71.
Con questo Mancini vuol far capire anche il carattere del pittore, a cui
tutti i biografi fanno riferimento, mettendo in evidenza soprattutto una
forte aggressività, che risulta essere uno dei suoi tratti fondamentali.
Secondo Mancini fin dalla prima gioventù egli avrebbe compiuto
«qualche stravaganza causata da quel calor e spirito così grande» 72;
questo però gli avrebbe comportato di morire ancora giovane e di farne
diminuire la gloria acquistata dipingendo 73.
Di grandissima importanza è il fatto che Mancini individua un filone
preciso della pittura contemporanea, quello dei naturalisti e soprattutto
dobbiamo sottolineare che per primo egli ha enucleato un insieme di
69
Salerno in Mancini, op. cit, Vol. II, p. XV.
L’opera a cui si fa riferimento è la
Morte della Vergine; il dipinto venne rifiutato dai
monaci di Santa Maria della Scala, la chiesa dei carmelitani scalzi.
71
Mancini, op. cit., p. 120.
72
Ibidem, p. 223.
73
Ibidem, p. 226, « non si può negare che non fusse stravagantissimo, e con queste sue
stravaganze non si sia tolto qualche decina d’anni di vita et minutasi in parte la gloria
70
39
pittori che ammodernarono il loro linguaggio seguendo il naturalismo
caravaggesco, parlando di una vera e propria «schola del Caravaggio,
assai seguita, camminando per essa con fine, diligentia e sapere
Bartolomeo Manfredi, lo Spagnoletto, Francesco detto Cecco del
Caravaggio, lo Spadarino et in parte Carlo Venetiano» 74.
Mancini descrive anche i tratti principali che caratterizzano questa
scuola, dicendo che è una loro prerogativa «lumeggiar con lume unito
che venghi d’alto senza riflessi…che così, avendo i chiari e l’ombre
molto chiare e molto scure, vengono a dar rilievo alla pittura…Questa
schola è molto osservante del vero…le lor figure mancano di moto e
d’affetti e di gratia»75.
In realtà il Caravaggio non ebbe né una bottega né allievi diretti.
Di conseguenza, il gruppo dei pittori attratti dal suo modo di dipingere fu
molto eterogeneo, ma è importante e significativo osservare che, ad una
data abbastanza precoce come questa, un “intenditore” abbia percepito il
fatto che Caravaggio avesse avuto un’influenza assai vasta e che si fosse
creato dietro a lui un gruppo di pittori “naturalisti”, che solo in seguito
prenderanno il nome di “caravaggeschi”.
acquistata con la professione: e col viver si sarebbe aumentato con grand’utile dè studiosi di
simil professione».
74
Ibidem, p. 108.
40
CAPITOLO III
75
Ibidem, pp. 108-109.
41
CARAVAGGIO FUORI D’ITALIA
1. Il giudizio su Caravaggio nei trattati d’arte di Vicente
Carducho e Francisco Pacheco
Tra il 1633 e il 1649 in Spagna furono dati alle stampe due importanti
trattati dedicati alla pittura, opera di due pittori: i Dialogos di Vicente
Carducho e l’ Arte de la Pintura di Francisco Pacheco.
Questi due trattati sono fortemente legati alla tradizione storiografica
italiana, anche se né Carducho né Pacheco ebbero modo di fare un
viaggio in Italia.
La loro cultura figurativa si era formata sulle collezioni spagnole
contemporanee, che, anche se molto ricche, offrivano un punto di vista
parziale dell’arte italiana tra Cinquecento e Seicento; i due trattati sono,
pertanto, costituiti sulla base di reinterpretazioni e combinazioni di
diverse fonti letterarie 76.
76
Cfr. C. Gauna, Giudizi e polemiche intorno a Caravaggio e Tiziano nei trattati d’arte
spagnoli del XVII secolo : Carducho, Pacheco e la tradizione artistica italiana, in Ricerche
di storia dell’arte, n. 64, Roma, 1998, p. 58.
42
Raramente Carducho e Pacheco sono in accordo tra loro; entrambi
pittori, avevano notizia l’uno dell’altro, ma si ignoravano
reciprocamente, elaborando, talvolta, posizioni quasi antitetiche.
Questo accade perché i due hanno formazioni diverse: Carducho era un
italiano (fiorentino) emigrato in Spagna ed aveva una cultura
tardomanierista, mentre Pacheco era uno spagnolo incline ai nuovi modi
di dipingere.
Al capitolo XI del secondo libro dell’Arte de la Pintura di Pacheco, Que
declama entre varias maneras de pintura cuàl se haya de seguir
77
,
corrisponde il Dialogo VI del trattato di Carducho, il quale Trata de las
diferencias de modos de pintar, y si se puede olvidar: De las
pretensiones que entre si, tienen la pintura y la Escultura: y si podrà
conocer de Pintura el que no fuere Pintor
78
; la lettura di questi due
capitoli permette di focalizzare il giudizio che i due scrittori
formuleranno su Caravaggio.
Uno dei passi di maggiore interesse dei Dialogos di Carducho riguarda
proprio il Merisi:
77
F. Pacheco, Arte de la Pintura , Sevilla, 1649, ed. cons. a cura di F. J. Sanchez Canton,
Madrid, 1956, p. 430.
78
V. Carducho, Diàlogos de la Pintura , Madrid, 1633, ed. cons. a cura di F. Calvo Serraller,
Madrid, 1979, p. 265.
43
«En nuestros tiempos se levantò en Roma Michael
Angelo de Carabaggio, en el Pontificado del Papa
Clemente VIII con nuevo plato, con tal modo, y salsa
guisado, con tanto sabor, apetito y gusto, que pienso
se ha llevado el de todos con tanta golosina y
licencia, que temo en ellos alguna apoplexia en la
verdadera
doctrina:
porque
le
siguen
glotonicamente el mayor golpe de los Pintores, no
reparando si el calor de su natural (que es su
ingenio) es tan poderoso, ò tiene la actividad que el
del otro, para poder digerir simple tan recio, ignoto,
e incompatible modo, como es el obrar sin las
preparaciones para tal accion? Quien pintò jamas y
llegò a hazer tan bien como este monstruo de
ingenio, y natural, casi hizo sin preceptos, sin
doctrina, sin estudio, mas solo con la fuerza de su
genio, y con el natural delante, a quien simplemente
imitava con tanta admiracion? Oi dezir a un zeloso
de nuestra profesion, que la venida deste ombre al
mundo, seria presagio de ruina, y fin de la pintura, y
que asi como al fin deste mundo visibile, el
44
Anticristo con falsos y portentosos milagros, y
prodigiosas acciones se llevarà tras de si a la
perdicion tan grande numero de gentes, movidas de
ver sus obras, al parecer tan admirables (dunque
ellas en si enga_osas, falsas, y sin verdad, ni
permanencia) diziendo ser el verdadero Cristo, asi
este AnteMichelAngelo con su afectada y exterior
imitacion,admirabile modo y viveza, ha podio
persuadir a tan grande numero de todo genero de
gente, que aquella es la buena pintura, y su modo y
doctrina verdadera, que han buelto las espaldas al
verdadero modo de eternizarse, y de saber con
evidenzia y verdad desta materia» 79.
Questo brano è inserito nel Dialogo Sexto, dedicato al problema della
varietà delle maniere: i modi di dipingere possono essere diversi e
possono essere considerati come cibi differenti di uno stesso banchetto;
Caravaggio è un cibo indigesto e pericoloso.
Lo stile di Caravaggio è infatti paragonato ad un piatto appetitoso e
condito, che supera gli altri per golosità, ma alla fine risulta essere
79
Ibidem, pp. 270-271.
45
indigeribile; tramite questa metafora, Carducho esprime un giudizio
abbastanza severo nei confronti del Merisi, il quale, secondo lui, dipinge
con una “maniera” sconosciuta e difficile da capire; poco più avanti,
però, sembra contraddirsi, affermando che mai nessun altro pittore arrivò
mai a dipingere tanto bene come, invece, ha fatto questo “mostro di
ingegno” e “naturalezza”, il quale è riuscito a raggiungere tali risultati
solo con la forza del suo “genio”, imitando la natura “con tanta
ammirazione”.
Certamente Carducho aveva intuito che Caravaggio si era distaccato
dalla tradizione manierista, tanto che lo definisce anti-Michelangelo, il
che significa che lo scrittore lo vedeva come la negazione e l’antitesi
della tradizione artistica cinquecentesca.
Carducho non sembra interessato a problemi che riguardano il “decoro”,
concetto chiave per larga parte della cultura artistica italiana, ma sembra
guardare con più attenzione al rapporto tra arte e natura; inoltre non è
solo Caravaggio ad essere attaccato, ma anche la diffusione del suo
modo di dipingere, che può portare alla distruzione della pittura.
Carducho, pittore di formazione tardomanierista, attacca quindi, pur
riconoscendo a Caravaggio una grande abilità, l’arte intesa come pura
imitazione; nel suo intendimento, infatti, l’arte deve essere imitazione
“artificiosa” della natura: «la Pintura es quien artificiosamente imita a la
46
naturalezza, porque mediante su ingenioso artificio, vemos, y
entendemos todo lo que con la misma verdad nos ense_a y demuestra la
propria naturalezza, de formas, cuerpos, afectos y casos»80, ed una
rappresentazione priva dell’artificio significa inganno ed illusione;
pertanto, secondo Carducho, occorreva trovare una difesa da opporre al
naturalismo caravaggesco e a tutti i pittori naturalisti, paragonati a
medici sperimentali che, senza sapere come, fanno miracoli:
«a los que hazen las tales pinturas de simple
imitacion, los venero como a medicos impiricos, que
sin saber la causa hazen obras milagrosas: y es
certo que en el tribunal de los sentidos tendran
aplauso grande, y sus obras causaran adombro,
enga_ando tal vez el de la vista con la afectuosa
imitacion, y de todos los que militan en este tribunal,
no dublo se llevaran la voz y el Victor; si bien en el
de la razon y entendimiento no osarar paracer…
Que se hagan pinturas con tanta semejanza y viveza
que basten a enga_ar la vista, pensando ser
verdadero lo que està pintado, concedo que puere
80
Ibidem, p. 151.
47
ser,y que teles pinturas seràn dignas de penombre,
tanto, que pienso que las que vemos oi de aquellos
grandes hombres, tan estmados y celebrados entre
los eruditos y doctos, carecen desta prompta viveza,
y afectuosa propriedad exterior, para ser en todos
perfectas; y como queda dicho, si ellos vieran la
osadia y facilidad que oi vemos en las colores no
dudo que con admiracion las celebraran» 81 .
La “maniera” caravaggesca aveva avuto un forte impatto anche fuori
d’Italia, grazie alla diaspora dei pittori francesi, olandesi e fiamminghi
che, attivi a Roma, erano ritornati nei loro paesi; secondo Carducho, il
naturalismo andava combattuto e sconfitto.
Diverso era, invece, il punto di vista di Francisco Pacheco, il quale, nella
sua Arte de la Pintura, scrive alcune righe che riguardano direttamente il
Caravaggio:
«Porque muchos valientes pintores pasaron sin la
hermosura y suavidad, pero no sin el relievo, como
el Basan, Michael Angelo Caravacho y nuestro
81
Ibidem, pp. 201-202.
48
espa_ol Jusepe de Ribera; y aùn tambièn podemos
poner en este numero a Dominico Greco, porque
dunque escribimos en algunas partes contra algunas
opiniones y paradoxas suyas, no lo podemos excluir
del numero de los grandes pintores, viendo (en
aquella su manera), que igualan a las de los
mayores hombres (como se dice en otro lugar); y no
sòlo se ve la verdad de lo que vamos dicendo en
estos pocos que hemos puesto por exemplo, pero en
otros muchos que los siguen: que no sòlo no pintan
cosas hermosas, mas antes ponen su principal
cuidado en efectar la fealdad y la fiereza» 82.
Questo brano punta l’attenzione su una “maniera” di colorire ben
precisa, ovvero quella “di rilievo”; tra i pittori che la utilizzarono nel
modo più esemplare, compare anche il nome di Caravaggio.
Pacheco cerca di dare importanza ad una pittura di grande impatto visivo
e quindi pone il Caravaggio tra coloro che attraverso il rilievo, e quindi
attraverso il colore ed il chiaroscuro, potevano raggiungere grandi e
nuovi risultati, rompendo, ovviamente, con la tradizione ed i canoni
82
Pacheco, op. cit., p. 404.
49
stilistici cinquecenteschi; inoltre l’imitazione del naturale è intesa da
Pacheco come un metodo creativo, in cui il modello vivente è da
preferirsi alle statue, ed è l’unica guida del pittore 83: «Pero yo me atengo
al natural para todo; y si pudiese tenerlo delante sempre y en todo
tempo, no sòlo para las cabezas, desnudos, manos y pies, sino tambièn
para los pa_os y sedas y todos los demàs, serìa lo mejor. Asì lo hacìa
Micael Angelo Caravacho…» 84.
Caravaggio è dunque, secondo Pacheco, un modello di riferimento per la
nuova “maniera naturalista” e meta verso cui la pittura dell’epoca
doveva tendere.
2. Karel Van Mander e Joachim von Sandrart
Karel Van Mander, pittore e scrittore d’arte olandese, deve la sua fama
alla sua più grande opera letteraria, intitolata Het Schilderboek 85, ovvero
il “libro dei pittori”, la prima esposizione universale della storia dell’arte
dell’Europa settentrionale.
83
84
Cfr. Gauna, op. cit., p. 66.
Pacheco, op. cit., p. 443.
50
Van Mander rappresenta, in modo esemplare, la tipologia dell’artista
erudito: studioso di filosofia e letteratura, conoscitore delle lingue
antiche, apprezzato come traduttore dei classici latini, egli appartiene alla
schiera dei dotti poeti didascalici 86.
Lo Schilderboek si presenta come un’opera complessa ed articolata in
più parti: viene aperta da un lungo poema didascalico in versi, in cui
l’autore tratta i fondamenti teorici della pittura, seguono i tre libri storici,
di cui il primo tratta della storia dell’arte antica; il secondo, nel modello
vasariano, dei pittori italiani, il terzo, infine, tratta dei pittori fiamminghi,
olandesi e tedeschi, partendo da van Eyck fino al suo tempo.
Completano l’opera un’esposizione della “bibbia dei pittori”, ovvero le
Metamorfosi di Ovidio, ed un sommario di arte antica e di mitologia.
Quest’opera risulta per noi particolarmente interessante per il giudizio
che Van Mander esprime nei confronti di Caravaggio, anche se mostra di
aver ricevuto notizie su di lui fino al periodo “a cavallo” fra i due secoli,
e cioè fino a quando il Merisi era famoso per le sue opere “in chiaro”
della giovinezza e per quelle della prima maturità, come il San
Tommaso, dipinto per il marchese Giustiniani, e i quadri di San Luigi,
85
K. Van Mander, Het schilderboek , Alkmaar, 1604, ed. italiana a cura di R. de Mambro
Santos, Sant’Oreste, 2000.
86
Cfr. J. Schlosser Magnino, La letteratura artistica , Wien, 1924, ed. cons. La Nuova Italia,
Milano, 2000, p. 356.
51
ma non aveva ancora dipinto né le tenebrose tele di Santa Maria del
Popolo, né la Deposizione di Cristo, né la Morte della Vergine:
«A Roma c’è un certo Michel Angelo da Caravaggio
che fa cose meravigliose: anch’egli, come Giuseppe
d’Arpino, innalzatosi dalla povertà con la diligenza,
con la forza ed il coraggio, mettendo mano a tutto e
tutto prendendo, come fanno coloro che non
vogliono restare in basso per la loro timidezza, ma
si mostrano franchi e cercano con decisione
soprattutto il loro vantaggio, ciò che se accade in
modo onesto non è da biasimare, poiché la fortuna
non usa di frequente offrirsi spontaneamente, ma
qualche volta occorre anche cercarla, provocarla e
pregarla.
Questo Michel Angelo con le sue opere ha già
raggiunto gran fama e si è fatto un nome»
87
.
Fin da queste prime righe, possiamo capire che Van Mander ha di
Caravaggio una buona opinione, al punto di affermare che egli «fa cose
meravigiose»; inoltre lo apprezza e gli riconosce il merito di aver avuto
87
K. Van Mander, op. cit., p. 191.
52
una grande forza di volontà e di essere riuscito a venir fuori dalla povertà
con «diligenza» e «coraggio» dipingendo ogni tipo di soggetto senza
nessuna vergogna.
Poco più avanti, Van Mander, ci offre la prima descrizione dello stile del
Caravaggio: «egli è uno di quelli che non fanno molto conto delle opere
di alcun maestro, anzi non loda apertamente neanche sé stesso.
Egli dice che non si tratta che di bagattelle, cose infantili e menzognere,
non importa che cosa si dipinga o da chi sia dipinto, quando non si è
fatto e raffigurato dal vero, e che non c’è nulla di buono o di meglio, che
seguire la natura.
Ne deriva che egli non esegue un solo tratto senza farlo direttamente dal
modello vivo, copiandolo e dipingendolo» 88.
Come possiamo vedere, riprende e segue le posizioni dei maggiori
biografi e studiosi del tempo; infatti, pur registrandone la portata
profondamente innovatrice e riconoscendo il fatto che «questa non è una
cattiva via per giungere a buon fine, perché dipingere servendosi di
disegni non è così sicuro come tenere il vero davanti a sé e seguire la
natura in tutta la varietà dei suoi colori»
89
, anche egli sostiene che
«bisogna principalmente adottare il criterio di scegliere dal bello le cose
88
89
Ibidem, p. 192.
Ibidem, p. 192.
53
più belle»
90
, adeguandosi così alla teoria del bello ideale che stava
sempre più prendendo forma in quegli anni e che, evidentemente,
influenzava non solo la maggior parte degli scrittori italiani, ma, a
quanto pare, anche quelli stranieri, sebbene, come nel caso di Van
Mander, profondamente legati all’Italia e alle sue vicende artistiche e
storiografiche.
Nonostante tutto, il biografo olandese continua a parlare del Caravaggio
in modo positivo e crede che «per quanto riguarda il fare delle sue
opere, esso è tale da incontrare moltissimo consenso ed offre ai giovani
pittori un modello ammirevole da seguire» 91.
Come spesso avviene nei primi anni del Seicento, però, il giudizio che
viene espresso sulla sua arte non coincide con quello dato sul suo
comportamento e sul suo carattere arrogante e violento, sottolineato
anche dal Van Mander, il quale termina il suo racconto su Caravaggio
sostenendo che: «egli non si dedica mai allo studio con assiduità:
quando ha lavorato quindici giorni, si dà al bel tempo per un mese.
Spada al fianco e un paggio dietro di sé, si porta da un campo di gioco
all’altro; sempre pronto a rissare e ad azzuffarsi, non è troppo comodo
accompagnarsi con lui.
90
91
Ibidem, p. 192.
Ibidem, p. 192.
54
Tutto ciò non assomiglia molto alla nostra professione, perché Marte e
Minerva non sono mai stati troppo amici» 92.
Un’altra grande opera in cui incontriamo un giudizio su Caravaggio, è la
Teutsche Academie di Joachim von Sandrart, pittore, incisore e scrittore
d’arte tedesco, vissuto dal 1606 al 1688; durante la sua vita ebbe modo
di viaggiare per tutta l’Europa e di soggiornare nei centri culturali più
importanti dell’epoca, tra cui Roma, dove visse in mezzo ai movimenti
artistici più vivi ed entrò in stretti rapporti con artisti come Bernini,
Domenichino, Pietro da Cortona e Poussin 93.
La sua monumentale opera, “L’accademia tedesca”, pubblicata in latino
a Norimberga nel 1683, è divisa in tre parti: la prima contiene
l’introduzione generale alle tre arti (il Sandrart si è qui servito
dell’Introduzione alle arti del disegno del Vasari, del Palladio, del Serlio
e del Van Mander); la seconda parte, corredata di bellissimi ritratti incisi,
contiene le biografie dei maggiori artisti dall’antichità in avanti; fonte
principale è, anche qui, il Vasari di cui però l’autore si serve, più che
altro, attraverso l’elaborazione del Van Mander; la terza ed ultima parte
contiene informazioni sulle collezioni d’arte e una sorta di repertorio
iconografico; a chiusura dell’opera, come già nel Van Mander, troviamo
la traduzione delle Metamorfosi di Ovidio.
92
Ibidem, p. 193.
55
Nella seconda parte di questa monumentale opera trova posto anche una
biografia di Caravaggio, al quale l’autore riserva un elogio importante e
che merita attenzione.
La fonte principale è senza dubbio il Van Mander, accresciuta però dalle
favole create nei quasi settant’anni trascorsi dalla morte del pittore, e
soprattutto dai ricordi preziosi del viaggio in Italia, avvenuto durante gli
anni trenta:
«Caravagii Italorum primis relicta veteri metodo
simplicissimam sequebatur naturam atque vitam:
unde nunquam penicillum nisi ad viva exemplaria
applicabat, rem pingendam in conclavi suo tam diu
oculis exponens, donec veritatem colore assecutus
esset.
Ut autem rotundam corporum molem et naturalem
rerum elevationem eo melius exprimeret, data opera
conclavibus utebatur obscuriribus est supernis uno
lumine minore collustratis, ut ideae lumen est
finestra allapsum eo minus alio lumine impediretur,
umbre autem eo fortiores prodirent, adeoque debita
93
Cfr. J. Schlosser Magnino, op. cit., p. 479.
56
exhinc resultaret extuberantia…Unde hanc
methodum deinceps omnes sequebantur Itali,
structis pariter conclavibus pictoris; quae via deinde
et in Germania atqe Belgio introduca est» 94.
Questo è, senza dubbio, il passo più importante della biografia; Sandrart
ha in parte compreso Caravaggio e la sua pittura; infatti si è reso conto
che egli è stato il primo pittore italiano ad allontanarsi dalla tradizione
manierista cinquecentesca e quindi a rompere definitivamente i legami
con il passato, introducendo un modo di dipingere che imita la natura.
Sandrart, però, non si limita a questo, ma individua anche l’altra grande
novità del Caravaggio, ovvero l’utilizzo della luce come mezzo per
costruire e dare rilievo alle forme; questa “maniera”, aggiunge il
biografo, ha riscosso molto successo, tanto che non è stata seguita solo in
Italia, ma si è diffusa anche in Germania ed in Belgio.
Indubbiamente nel 1675, anno della pubblicazione dell’ Accademia
tedesca, queste posizioni non sono nuove, dal momento che altri, a
partire da Agucchi e Mancini, avevano compreso la “forza” delle novità
apportate dal Merisi, in particolar modo per quanto riguarda la luce ed il
colore; inoltre, a questa data, erano già state pubblicate le Vite del
94
J. Von Sandrart,
Teutsche Accademie der Edlen Bau – Bild - und Mahlerey - Künste,
57
Bellori, nelle quali veniva espresso su Caravaggio un giudizio negativo
che influenzò tutta la letteratura artistica immediatamente successiva.
Questo mostra che Sandrart, soprattutto per quanto riguarda gli artisti
che non sono tedeschi e che non sono contemporanei a lui (per i quali,
invece, offre un contributo veramente notevole) si attiene molto alle fonti
precedenti ed in modo particolare a Van Mander, il quale, parlando di
Caravaggio nel suo Libro dei pittori, ne aveva riconosciuto la portata
innovatrice.
In effetti, nonostante Sandrart non citi mai le sue fonti, talvolta le copia
in modo pedissequo.
Basti leggere: «Omnia igitur contemnebat, quae ad viva exemplaria
picta non essent, nugas eadem, titivilitium, et opera chartacea
appellando, cum nihil bonum dici posset, nisi quod naturam quam
proxime imitaretur.
Quea via sane ad perfectionem aspirandi non est contemnenda; modo in
coeteris theoria haud desit, cum nulla idea, nullamque prototypum
diagraphicum, quantumvis optimum naturae ipsi aequiparari queat» 95;
questa non è altro che la traduzione, quasi letterale, del celebre passo che
si trova nel Libro dei pittori del Van Mander : «egli dice che non si tratta
che di bagattelle, cose infantili e menzognere, non importa che cosa si
Nürnberg, 1675, ed. latina Nürnberg, 1683, p. 181.
58
dipinga o da chi sia dipinto, quando non si è fatto e raffigurato dal vero,
e che non c’è nulla di buono o di meglio, che seguire la natura…Certo
questa non è una cattiva via per giungere a buon fine, perché dipingere
servendosi di disegni, non è così sicuro come tenere il vero davanti a
sé…Ma bisogna adottare il criterio di scegliere dal bello le cose più
belle»96.
In ogni caso, questo elogio che Sandrart pronuncia nei confronti di
Caravaggio, è, a mio avviso, più chiaro ed esplicito di tutti quelli che si
possono trovare nella “critica d’arte” italiana del Seicento.
95
Ibidem, p. 182.
59
CAPITOLO IV
CARAVAGGIO: UN UOMO «SATIRICO, ALTIERO E DISCOLO»
NELLA BIOGRAFIA DI GIOVANNI BAGLIONE
Giovanni Baglione, primo storiografo romano, pubblicò una raccolta di
biografie di artisti operanti a Roma e limitata al periodo dal 1572 al
1642, cioè dal pontificato di Gregorio XIII a quello di Urbano VIII.
Pittore, interpretò a suo modo lo spirito di novità presente nelle opere del
Caravaggio, del quale scrive una biografia esprimendo un giudizio
piuttosto negativo.
Questo va ricondotto probabilmente anche al fatto che Baglione in
gioventù aveva subito l’ascendente della pittura del Caravaggio, ma nel
1603 aveva denunciato il Merisi per aver diffuso su di lui poesie
diffamatorie: infatti Caravaggio e i suoi amici (Onorio Longhi, Orazio
Gentileschi e Filippo Triregni) avevano scritto delle poesie che
infangavano Baglione e la sua pittura; tutto questo derivò da una rivalità
professionale causata dalla commissione per una Risurrezione, che
Baglione aveva ottenuto per la chiesa dei Gesuiti a Roma.
96
Van Mander, op. cit., p. 192.
60
In occasione del processo, Caravaggio lo giudicò un «cattivo pittore» e
aggiunse: «io non so niente che ce sia nessun pittore che lodi per buon
pittore Giovanni Baglione» 97.
Ciò che Baglione riferisce a proposito di quanto Federico Zuccari
avrebbe detto in merito ai dipinti della Cappella Contarelli in San Luigi
dei Francesi, sembra quasi una vendetta; quei dipinti, secondo il
Baglione, erano apprezzabili solo come «pitture del naturale»
98
,e
stando alla sua testimonianza lo Zuccari avrebbe detto: «Che rumore è
questo? Io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione» 99; nella frase
successiva, in cui il Baglione narra che lo Zuccari «voltò le spalle e
andossene con Dio»
100
, sembra quasi un atto di liberazione da qualcosa
da cui da solo non era riuscito a liberarsi.
In tutte le altre vite di artisti, infatti, si sforza di conservare la massima
obiettività documentaria, ma nella biografia di Caravaggio vediamo
soprattutto lo sforzo di risolvere un problema che per lui rappresentava
anche un fatto personale, il Baglione cerca quindi di neutralizzare il suo
disprezzo per il Caravaggio, prendendo in prestito l’opinione di Federico
97
L. Spezzaferro, Una testimonianza per gli inizi del caravaggismo , in Storia dell’arte , n.
23, 1975, p. 125 e seg.
98
G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del
1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma, 1642, ed. cons. a cura di
Gradara Pesci, Velletri, 1924, p. 137.
99
Ibidem, p. 137. L’interpretazione del naturalismo che qui viene proposta è da inserire nella
concezione del colore ed è da ricondurre, anziché ai precedenti lombardi, alla grande
tradizione veneziana.
61
Zuccari, che gli serve solo per negare ogni originalità alla pittura del
rivale.
L’atteggiamento spregiativo, che secondo il Baglione Caravaggio
avrebbe dimostrato nei confronti di tutti gli altri pittori
101
, serve al
biografo per evidenziare il carattere problematico dell’artista.
A questo proposito scrive: «Michelagnolo Amerigi fu huomo satirico e
altiero… Per soverchio ardimento di spirito fu un poco discolo, e tal’ora
cercava occasione di ficcarsi il collo o di mettere a sbaraglio l’altrui
vita»102.
Quello che colpisce di Caravaggio, e che viene sottolineato da tutti i
biografi, è la forte aggressività, che poi spesso lo portò a finire nei guai
e ad aver problemi con la giustizia; emblematicamente i biografi del
tempo, però, fecero di tutto per costruire un’ immagine negativa di
questo pittore, e di lui scrissero che era assai provocatorio non solo nel
comportamento, ma anche nell’aspetto e negli abiti; basti ricordare a
questo proposito la descrizione del Bellori: «usando egli drappi e velluti
nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un abito, mai lo
100
Ibidem, p. 137.
Ibidem, p. 138, «ed uscia tal’hora a dir male di tutti li pittori passati, e presenti per
insigni, che si sussero;poiché a lui parea d’haver solo con le sue opere avanzati tutti gli altri
della sua professione».
102
Ibidem, p. 138.
101
62
tralasciava, finchè non gli cadeva in cenci. Era negligentissimo nel
pulirsi»103 .
E’ chiaro che il fatto di sottolineare questo comportamento di indossare
abiti prima pregiati e poi cenciosi, voleva far emergere un carattere
provocatorio attraverso il quale si poteva rendere esplicita la posizione
dell’«uomo satirico», colui, cioè, che non si adegua alle norme sociali;
inoltre, questo dissenso spingeva il Caravaggio, sempre secondo il
Baglione, ad avere un comportamento strafottente, ad essere, cioè,
«altiero e discolo».
Baglione non spiega le ragioni che secondo lui
spingevano il
Caravaggio a comportarsi così; l’intento era però, chiaramente, quello di
mostrare il Merisi come un uomo isolato dal resto del mondo: un uomo
totalmente incapace di comunicare e che quindi mancava di equilibrio
nella vita quotidiana, nella quale è anche necessario intrattenere dei
rapporti sociali104; nella sua biografia Baglione vuol così far emergere, in
modo evidente, l’assoluto abbandono di quell’esistenza: «senza aiuto
humano, né divino in pochi giorni morì male come appunto male aveva
vivuto» 105.
103
G. P. Bellori, op. cit., p. 220.
In realtà le cose furono ben diverse: basti ricordare che Caravaggio era protetto da alcuni
degli uomini più ricchi e più potenti del momento.
105
Ibidem, p. 139.
104
63
La biografia di Caravaggio si chiude con delle brevi notazioni sulla sua
pittura, che risultano essere meno severe rispetto al giudizio che dà della
sua vita; il biografo ritiene che Caravaggio non disponesse di un criterio
valido per distinguere il buono dal cattivo, dal momento che si limitava a
dipingere la natura pura e semplice, così come si presenta 106.
Su un giudizio del genere, però, non pesa tanto la rivalità tra i due pittori
in quanto Caravaggio negava la maniera e, secondo la concezione allora
dominante, per raggiungerla era necessario
trasformare la natura
mediante l’intelletto e attraverso le regole dell’arte; la pura imitazione
della natura non era maniera, perché non seguiva le regole e mancava di
giudizio artistico.
In questo modo Baglione si allinea al modo classicistico di vedere le
cose.
Nonostante tutto, conclude Baglione «acquistò gran credito, e più si
pagavano le sue teste, che l’altrui historie, t_to importa l’aura popolare,
che non giudica con gli occhi, ma guarda con l’orecchie. E
nell’accademia il suo ritratto è posto»
107
; qui Baglione critica i suoi
contemporanei che, a suo modo di vedere, non seppero valutare con
obiettività l’operato di Caravaggio, ma si lasciarono confondere le idee
106
Ibidem, p. 139, «…benché egli nel rappresentar le cose non avesse molto giudicio di
scegliere il buono, e lasciare il cattivo».
107
Baglione, op. cit., p. 139.
64
da quello che veniva detto a proposito di lui, il quale, nonostante tutto,
aveva raggiunto una certa popolarità e fama, al punto che il suo ritratto,
fu posto nell’Accademia insieme a quello dei più grandi artisti.
65
CAPITOLO V
I BIOGRAFI DELLA SECONDA META’ DEL SEICENTO
1. Luigi Scaramuccia: un parere del tutto classicistico
Nella seconda metà del secolo si fa sempre più forte e preminente
l’ideale classicistico, che annovera tra le sue file diversi protagonisti
della letteratura artistica; uno di questi fu Luigi Scaramuccia, nato a
Perugia e formatosi originariamente come pittore alla scuola del padre
Giovanni Antonio.
Giunto a Roma in età ancora giovanile, si dette allo studio delle statue
antiche e alla copia delle opere dei maggiori maestri 108 ed è dopo questo
periodo di “riapprendimento” classicistico che formulerà le sue posizioni
di scrittore d’arte.
Del 1674 è la pubblicazione della sua opera letteraria, Le finezze de’
pennelli italiani, una raccolta di appunti di viaggio corredati da brevi
giudizi critici legati tra loro con una trama tra il biografico ed il
66
romanzesco; lo scritto era pronto nelle sue linee essenziali già nel 1666,
in quanto sappiamo che a quella data l’autore sottoponeva il manoscritto
al giudizio degli Accademici di S. Luca, i quali la giudicarono
positivamente109.
Il protagonista dell’opera è un giovane di nome Girupeno; già avviato
alla pittura dal padre, il ragazzo perde di vista la retta via per seguire i
piaceri della vita e ad un certo punto si trova ad un bivio: deve scegliere
se continuare sulla strada del vizio o se rinsavire.
A questo punto una voce lo chiama e viene condotto ad un palazzo dove,
tra gli spiriti degli uomini più illustri del passato, soggiorna la
personificazione della Virtù che lo affida al genio di Raffaello affinché
lo riconduca sulla retta via e lo riporti alla sua vera vocazione, che è
quella di fare il pittore.
Così, assistito dall’illustre maestro, Girupeno inizia a studiare le opere
dei grandi artisti del passato, prima a Roma, poi nelle altre città italiane.
Le Finezze si inseriscono appieno entro la tendenza classicistica della
storiografia artistica del maturo Seicento; in primo luogo per il culto di
Raffaello
110
, un atteggiamento abbastanza generalizzato del XVII
108
L. Scaramuccia, Le finezze de’ pennelli italiani , Pavia 1674, ed. cons. a cura di G.
Giubbini, Milano, 1965, p. 7.
109
Ibidem, p. 8.
110
Raffaello è l’artista che rappresenta, per il classicismo seicentesco, un modello
imprescindibile.
67
secolo, ma che qui viene evidenziato in un modo particolarmente
intransigente; in secondo luogo per la condanna del realismo
caravaggesco, criticato per la mancanza di decoro unitamente al
rimprovero di non saper fare nulla senza avere un modello davanti:
«Quantunque questo pittore habbi dato in tal bizzaria, e che per essa ne
sia stato gradito, piacendo ad ogn’ uno la novità dell’ invenzioni, non
resta però ch’ ei non ne possa venire alquanto biasimato, essendo uscito
da quel decoro, che si conviene alla persona di Cristo Signor Nostro 111.
Per finirla è stato quest’Huomo un gran Soggetto, mà non Ideale, che
vuol dire non saper far cosa alcuna senza il naturale avanti»
112
.
Questo giudizio che Scaramuccia dà sul Caravaggio si allinea
decisamente con la linea di pensiero predominante in quel momento.
Dice infatti che il suo modo di dipingere fu strano e che, nonostante a
qualcuno potesse anche piacere la sua innovazione, resta il fatto
indiscutibile che è uscito fuori dai confini del decoro.
Ho già detto altrove che la categoria del decoro è una componente
essenziale del modo di giudicare la pittura nel corso del Seicento e che
consisteva non solo di ogni indecenza, ma soprattutto nel precetto di
rappresentare correttamente le figure, con abiti e pose appropriate al
111
Scaramuccia si sta riferendo ad un quadro perduto del Caravaggio dipinto a Napoli per la
chiesa di Sant’Anna dei Lombardi; si trattava di una resurrezione di Cristo.
112
Ibidem, p. 76.
68
tempo, al luogo ed al soggetto rappresentato, in modo particolare se si
trattava di raffigurazioni sacre, come nel dipinto di Caravaggio di cui
parla Scaramuccia: «e quando osservarono il Cristo, non come
d’ordinario far si suole, agile, e trionfante per l’aria; ma con quella sua
serissima maniera di colorire, con un piede dentro, e l’altro fuori del
Sepolcro posando in terra, restarono per simile stravaganza con qualche
apprensione» 113.
Altra accusa tipica che all’epoca veniva rivolta al Merisi e che possiamo
individuare anche nelle parole dello Scaramuccia è l’affermazione che
Caravaggio è stato «un gran soggetto, mà non Ideale»
114
; il biasimo è
ovviamente quello di non aver rispettato l’Idea della bellezza che, come
sappiamo, consisteva nel saper tirar fuori la bellezza ideale dalla natura
imperfetta, scegliendo di rappresentare le parti più belle di essa, mentre il
Caravaggio non sa fare «cosa alcuna senza il naturale avanti» 115.
In questo momento era necessario e di assoluta importanza imitare i
modelli dell’antichità classica, dal momento che questo significava
recuperare gli ideali di misura, di equilibrio e di ordine, reagendo così da
un lato agli artifici della “maniera”, dall’altro al naturalismo
caravaggesco, avversato quasi da tutti incondizionatamente; alla base di
113
Ibidem, p. 76.
Ibidem, p. 76.
115
Ibidem, p. 76.
114
69
questo stava appunto il consolidarsi di particolari concezioni: l’idea che
l’artista debba costantemente distinguere il perfetto dall’imperfetto,
l’ordine dal disordine, il bello dal brutto.
Tali capacità, secondo lo Scaramuccia, potevano acquisirsi soltanto
esercitandosi nella copia delle opere antiche, fino al conseguimento, da
parte del pittore, di quella “maniera ideale” che consentiva di imitare
direttamente la natura distinguendo il bello dal brutto: «fia bene che tu
facci ciò che fai, e puoi secondo il tuo talento, con la memoria delle cose
già vedute, e poscia all’hora quando non potrai più sostenerti, servirti
dell’appoggio della stessa Natura, e considerarlo con il gusto de’ primi
soggetti» 116.
Inoltre, continua Scaramuccia, la natura vuole «che s’investighi il suo
più bello, onde comparir ne deggia più pomposa…né gradisce esser
trattata vile, indiretta, e dissomigliante da quella che ella è in effetto,
come fan talluni, i quali…la deformano, anzi che abbellirla…rare volte,
o mai sono Ideali quei Pittori, i quali del tutto stanno avviticchiati al
naturale»
117
, proprio come il Caravaggio che si è
del naturale à tutta briglia»
118
«dato all’imitazione
senza modificare nulla, ma
rappresentando le cose nel modo in cui sono.
116
Ibidem, p. 30.
Ibidem, p. 32.
118
Ibidem, p. 11.
117
70
Alla luce di tutto questo è chiaro che, pur condividendone l’esigenza di
rinnovamento e sebbene si sia delineato parallelamente al naturalismo
caravaggesco, il classicismo ne rappresenta l’antitesi e per questo,
chiunque in quel momento si fosse avvicinato alle posizioni
classicistiche e ne avesse condiviso i principi, non avrebbe potuto in
alcun modo tollerare né tanto meno giustificare il naturalismo in pittura,
ovvero quella tendenza avviata ed interpretata al più alto grado dal
Caravaggio.
2. Francesco Scannelli: una grande ammirazione per il «capo de’
naturalisti»
Consulente artistico e ricercatore di opere d’arte per Francesco I d’Este,
Francesco Scannelli impersona in maniera esemplare il tipo dell’erudito
amatore d’arte, cui sono legati la nascita e lo sviluppo della critica d’arte
intesa come analisi del valore delle singole opere.
71
La sua unica opera fu Il Microcosmo della Pittura, pubblicata nel 1657;
qui possiamo vedere come i giudizi critici sulle opere siano ormai
nettamente superiori agli argomenti di carattere teorico o tecnico 119.
L’opera è di notevole importanza perché prende in considerazione tutta
la pittura italiana suddividendola in tre principali scuole pittoriche: la
tosco-romana, rappresentata da Raffaello, la veneta, rappresentata da
Tiziano e la lombarda, rappresentata da Correggio
120
; secondo Scannelli
la terza scuola è la migliore, perché riesce ad unire grazia e delicatezza al
disegno della prima e alla naturalezza della seconda.
Nel Seicento il criterio geografico e non storico delle scuole pittoriche
annulla il senso di una diversità tra gli stili; in questo modo accade che i
pittori e le opere vengono considerate in ordine cronologico, trascurando
lo sviluppo storico dello stile e riducendo correnti pittoriche distinte a
semplici variazioni di una stessa scuola.
Così gli elementi stilistici non vengono posti in relazione ad un preciso
momento di gusto e non servono nemmeno per interpretare un periodo
storico, ma sono considerati solo come attitudini espressive, in quanto
legate ad un determinato ambiente geografico.
119
Cfr. F. Scannelli, Il microcosmo della pittura , Cesena 1657, ed. cons. a cura di G.
Giubbini, Milano, 1966, p. VII.
120
Queste scuole vengono paragonate alle diverse parti del corpo umano e i singoli artisti ai
diversi organi: Raffaello al fegato, Tiziano al cuore e Correggio al cervello.
72
Uno dei momenti più caratteristici dell’opera è la contrapposizione tra
disegno da un lato, colore e naturalezza dall’altro: qui il disegno è inteso
come termine comprensivo della pittura idealizzante, mentre la
naturalezza è l’esaltazione del mezzo formale e della spontaneità
decorativa 121.
E’ in quest’ambito che va posto il giudizio sostanzialmente positivo e di
ammirazione che Scannelli esprime su Caravaggio:
«E per essere il vero, e ultimo scopo del buon
Pittore l’imitatione de’ corpi naturali, e non altro in
fatti il laudabil dipinto, che un’espressione del già
ben concepito in ordine alla piena somiglianza de’
migliori oggetti di natura, conseguentemente ne
deriva, che quello, il quale mostra animare i colori
con artificio più eccellente, venendo a sortire
l’effetto del bramato intento, pare, che debba
parimente raccogliere il frutto della maggior gloria,
dove comparendo Michelangelo da Caravaggio nel
teatro del Mondo, unico mostro di naturalezza,
121
Ibidem, p. XII. Nello stesso spirito si collocano la svalutazione della fase romana di
Annibale Carracci, la condanna della “seconda maniera” dei contemporanei i quali,
73
portato dal proprio istinto di natura all’imitatione
del vero, e così ascendendo dalla copia de’ fiori, e
frutti, e da’ corpi meno perfetti e più sublimi, e dopo
gl’irrationali a gli umani ritratti, e finalmente
operando
intiere
figure,
e
anco
talvolta
componimenti d’historie con tal verità, forza e
rilievo, che bene spesso la natura, se non di fatto
eguagliata, e vinta, apportando però confusione al
riguardante con istupendo inganno, allettava, e
rapiva l’humana vista, e però fù creduto da vari
anco sopra d’ogni altro eccellentissimo»122.
Si tratta di un allontanamento dalle intransigenti posizioni classicistiche,
che insistevano sulla “invenzione” e sulla composizione della “historia”;
Scannelli afferma, invece, che: «l’invenzione non appartiene alla
Professione, che per accidente» 123ed è quindi estranea al fatto pittorico e
che Caravaggio compone le «historie con tal verità, forza e rilievo» che
«fu creduto da vari sopra d’ogni altro eccellentissimo» 124.
abbandonando il “colore” e i contrasti di luci e ombra per lo stile “chiaro” e la naturalezza
per l’artificio sono responsabili della decadenza della pittura.
122
Ibidem, p. 51.
123
Ibidem, p. 146.
124
Ibidem, p. 51.
74
L’ammirazione che Scannelli prova per questo pittore, «primo capo de’
naturalisti»
125
è evidente anche quando elenca alcune delle sue opere,
«le migliori del suo qualificato pennello» 126; la «prima e più eccellente
d’ogni altra» 127 è la Vocazione di San Matteo nella chiesa di San Luigi
dei francesi, che viene lodata come «veramente una delle più pastose,
rilevate, e naturali operationi»
128
; non meno apprezzate erano le due
tele che rappresentavano San Giovanni Battista e L’amor Vincitore: «S.
Giovanni Battista ignudo non potria dimostrare più vera carne quando
fosse vivo, sicome l’Amoretto che si trova appresso al Principe
Giustiniani, che fra i dipinti privati di Michelangelo da Caravaggio sarà
forse il più degno»
129
; per terminare con la
Cena in Emmaus , che
Scannelli definì «un dipinto di tremenda naturalezza» 130.
A quanto pare era proprio l’imitazione della natura e l’adesione al vero
le doti che Scannelli maggiormente stimava nell’arte di Caravaggio, il
quale viene definito «mostro di naturalezza»
131
, colui che
125
Ibidem, p. 170. Il termine “naturalisti” è stato coniato ed usato per la prima volta da
Scannelli proprio per indicare Caravaggio e i suoi seguaci.
126
Ibidem, p. 176.
127
Ibidem, p. 195.
128
Ibidem, p. 195.
129
Ibidem, p. 199.
130
Ibidem, p. 200.
131
Ibidem, p. 51
75
«nell’imitazione dell’opere più vere della natura, pare che non riuscisse
inferiore a nessuno» 132.
Proprio queste qualità erano avversate dalla maggior parte dei critici del
tempo ed in particolar modo dai classicisti, che vedevano nel Merisi il
distruttore e non il rinnovatore della pittura, colui che, come poi dirà
Bellori, «non riconobbe altro maestro che il modello, e pare che
senz’arte emulasse l’arte» 133.
Non dobbiamo dimenticare, però, che lo Scannelli vive in un momento
in cui è difficile distaccarsi completamente dalle teorie dell’estetica
classicistica; per cui, anche se non attribuisce allo studio e al disegno
tutta l’importanza che invece gli veniva tributata dai classicisti 134, il suo
pensiero su Caravaggio, pur rimanendo sostanzialmente positivo, per
certi versi non si allontana tanto dal pensiero predominante del momento
quando afferma che: «provisto di particolar genio, mediante il quale
dava con l’opere a vedere una straordinaria e veramente singolare
imitazione del vero, e nel communicar forza e rilievo al dipinto non
inferiore, e forse ad ogni altro supremo, privo però della necessaria
base del buon disegno, si palesò poscia d’invenzione mancante, e come
132
Ibidem, p. 277.
Bellori, op. cit. p. 212.
134
egli sostiene infatti che i pittori che si appoggiano allo studio e al disegno vanno distinti
da quelli in cui prevale l’inclinazione e la forza del talento; la pittura dei primi raggiunge la
bellezza ideale, ma conserva sempre qualcosa di artificioso; quella dei secondi, invece,
133
76
del tutto ignudo di bella idea, gratia e decoro, architettura, prospettiva
ed altri simili convenevoli fondamentali»
135
.
3. Le opinioni di alcuni artisti su Caravaggio nell’opera di Cesare
Malvasia
Il conte e canonico Carlo Cesare Malvasia fu il più importante storico
bolognese del Seicento; egli fu principalmente uno scrittore d’arte, oltre
che letterato appartenente a varie accademie, professore di diritto, pittore
dilettante.
La sua opera più celebre è la Felsina pittrice, pubblicata nel 1678;
nonostante alcune deformazioni e falsificazioni dovute all’intento di
rivendicare l’importanza e l’antichità delle origini della scuola
bolognese, la sua è un’opera notevole soprattutto per il taglio critico,
oltre al fatto che è una preziosa fonte di notizie.
Malvasia afferma, con un po’ di modestia, che non essendo pittore, né
letterato, non tratterà «dell’Arte, ma degli Artefici» 136 e soltanto di quelli
ottiene subito un effetto piacevole di naturalezza e di maggiore verità, riuscendo anche a
suscitare emozioni e ad esprimere affetti.
135
Scannelli, op. cit., p. 52.
77
bolognesi, «perché non periscano le memorie che di loro ancora
rimangono» 137.
Afferma inoltre di aver concepito l’opera soprattutto come ricerca della
verità, perseguita «nei documenti, nei libri, nei manoscritti, nelle
testimonianze dei morti e dei viventi»
138
; dice inoltre di voler scrivere
«a’ dilettanti non a’ letterati: per dilettare, non per insegnare, onde
basta m’intendano, non voglio mi studino» 139.
Senza dubbio questa è un’opera vitale in cui trovano spazio non solo le
testimonianze dei fatti, ma anche e soprattutto giudizi ed opinioni, che
contengono riflessioni personali del Malvasia e qualche volta anche
quelle dei suoi amici pittori; dall’opera possiamo ricavare informazioni
non solo sui bolognesi, ma indirettamente anche su altri; questo è quanto
accade per Caravaggio di cui troviamo un’importante giudizio nella vita
di Francesco Albani:
«Non potè mai tollerare [l’Albani], che si seguitasse
il Caravaggio, scorgendo essere quel modo il
precipitio, e la totale ruina della nobilissima, e
136
C. Malvasia, op. cit., Prefazione.
Ibidem, prefazione.
138
Ibidem, prefazione. Cfr. Vite di Pittori Bolognesi , A. Arfelli (a cura di), Cooperativa
tipografica Azzoguidi, Bologna, 1961, p. XXXVII. In realtà la parte documentaria è scarsa e
l’opera manca di rigore storico.
139
Ibidem, prefazione.
137
78
compitissima virtù della Pittura, poiché se bene era
da laudare in parte le semplice imitatione, era
nondimeno per partorire tutto quello, che ne è
seguito in progresso di 40 anni.
Si vedono bensì imitazioni a somiglianza del vero,
ma non già del verisimile, ne si consegue il
rappresentare il costume, ne meno le vivezze dei
moti, e perché è necessario fondare prima un
concetto si và hora totalmente corrompendo, che
non si rappresentano concetti, ma ne anco concetto
alcuno.
Hora, posto in abbandono quello che divinamente
insegnò Raffaelle, si sono posti a seguitare la strada
del Caravaggio, che tutta è intenta ad oggetti di
ferma, non di moti vivaci, che vengano
dall’intelletto, e che si eseguiscono col possesso del
disegno»
140
.
«Non possono essere i Pittori egualmente eccellenti
in tutte le parti.
140
Ibidem, p. 163.
79
Se il Caravaggio avesse avuto questi requisiti saria
stato Pittore dirò Divino, questo, non aveva
cognizione nelle cose sopranaturali, mà stava
troppo attaccato al naturale»
141
.
Questi passi esprimono un giudizio negativo su Caravaggio, il cui modo
di dipingere veniva visto come la totale rovina della pittura e non tanto
perché egli imitava la natura senza ritegno, ma più che altro per il fatto
che la sua “maniera” si era affermata così tanto che era stata seguita poi
per almeno quarant’anni apportando all’arte dei gravi danni; innanzi
tutto, secondo l’Albani, aveva portato ad una pittura che sapeva
rappresentare solo l’esteriorità dei soggetti e non riusciva più a
rappresentare anche i movimenti ed i sentimenti, così come aveva fatto
ed insegnato Raffaello, che con lo studio, oltre che con l’intelletto, aveva
raggiunto la perfezione.
Anche Caravaggio, continua l’Albani, avrebbe potuto essere perfetto, ma
non aveva né la competenza per rappresentare le cose soprannaturali che
sono percepite dall’intelletto, né la capacità di distaccarsi dal naturale.
141
Ibidem, p. 169.
80
Più avanti, sempre all’interno della vita di Albani, troviamo un giudizio
di Malvasia stesso, riferito ad un pittore di cui non viene detto il nome,
ma che quasi sicuramente è Caravaggio:
«Io conobbi un gran pittore più di nome che di fatti,
il quale peccava molto nella disposizione, e di cento
partiti che li venivano nella sua debole
immaginativa, non afferrava mai, se non cosa
debole, e sapea quella disposizione debole
cominciava col pennello l’opera, e andava
conservando il cattivo proponimento di prima, e
nondimeno tutti i scolari applaudivano, così come
moltissimi che non erano della professione
concorrevano col stupore del maneggio, o colorito,
a me veniva la nuova che l’opera era finita, e si
disegnava, come perfettissima porla al destinato
loco.
Io addimando come può essere finita un’opera che
non ha buon principio?
81
Questo pittore aveva applausi indicibili tra il volgo,
ma fra gl’ intendenti poco per ragione difettosa di
mala disposizione, e nulla d’espressione»
142
.
Credo che sia chiaro il riferimento a Caravaggio, dal momento che qui
ritroviamo, per l’ennesima volta, alcune delle accuse che vengono rivolte
al pittore dalla maggior parte dei biografi del Seicento; per prima cosa,
infatti, Malvasia dice che questo pittore «peccava molto nella
disposizione» 143 e quindi nella composizione, inoltre lo accusa, secondo
quanto ritenevano i detrattori del pittore di «cominciare col pennello
l’opera» 144 e quindi di dipingere direttamente sulla tela senza effettuare
nessun disegno preparatorio.
Così, continua il biografo, veniva apprezzato dal popolo soprattutto per il
colore, ma tra coloro che si intendevano d’arte non riceveva alcuna
considerazione, sia perché, secondo loro, i quadri mancavano di una
buona composizione, sia perché, non avendo espressione, non
trasmettevano nessun tipo di emozione.
Questo giudizio, presente nella vita di Francesco Albani, è il più ampio
ed articolato; altrove troviamo nuovamente menzionato il Caravaggio,
142
Ibidem, p. 170.
Ibidem, p. 170.
144
Ibidem, p. 170.
143
82
ma in modo molto più parziale, come ad esempio nella vita di Leonello
Spada: «…perché diedesi ad alzare il modo di tingere, gli si insinuò
tanto la maniera del Caravaggio, che non contento di prendere
l’imitazione da un S. Tommaso toccante il Santissimo Costato, desiderò
di praticarlo di persona quanto n’era divenuto parzial divoto…»
145
.
O ancora in quella di Lorenzo Garbieri: «…dilettandosi egli troppo del
tingere del Caravaggio, ritenendone per avventura sempre nella sua più
riposta, e dimestica stanza una copia, da lui stesso ricavata, del S.
Tommaso toccante nel Santissimo Costato la stessa fede, originale di
quell’autore…» 146.
Ed infine a proposito della vita di Alessandro Tiarini, al quale: «gli
piacquero anco le cose del Caravaggio per una certa purità, verità e
forza del colorito; meravigliandosi come tanto si sentisse da esse
svegliare e rapire, quando nulla poi di decoro, di maestà e d’erudizione
vi trovava»147.
Altra cosa è infine il racconto dei rapporti tra Caravaggio e Guido Reni,
sui quali Malvasia si sofferma a proposito della concorrenza per la
commissione della Crocefissione di San Pietro alle tre Fontane e della
cupola della chiesa di Loreto:
145
Ibidem, p. 75
Ibidem, p. 217.
147
Ibidem, p. 138.
146
83
«L’Arpini, dichiarato nemico del Caravaggio si era
proposto di procacciargli [al Reni] que’ lavori che
al Caravaggio dovevano esser destinati; come poi
avvenne del S. Pietro Crocifisso alle Tre Fontane
fuor di Roma, promettendo egli al Card. Borghese
che sarebbesi Guido trasformato nel Caravaggio e
l’avrebbe fatto di quella maniera cacciata e scura,
come bravamente eseguito si vede.
[Questo] tanto spiacque al Caravaggio che da uomo
brigoso ch’egli era, incontrato un giorno Guido gli
disse che non lo stimava punto; e che se fosse venuto
a Roma con pensiero di competere seco, egli era
pronto a dargli ogni soddisfazione in qual si fosse
modo…»148.
Poche righe più avanti, Malvasia fa riferimento al concorso per il lavoro
della cupola della chiesa di Loreto e fa sapere che:
«[Il Reni] usò anche questa finezza che concorrendo
il Caravaggio anch’egli al lavoro della cupola della
148
Ibidem, p. 13.
84
Santa Casa di Loreto, gli disse chi saria stato a
fargli compagnia od a servirlo nel modo che a lui
fosse piaciuto di trattarlo… Quell’altiero diede nelle
escandescenze… Stava perciò Guido con grande
apprensione di costui che ben sapea quanto mai
fosse bestiale e risoluto come in questo affare ben
poi mostrò; poiché toccata la Cupola al Pomarancio
gli diede o fece dare un brutto fregio sulla
faccia»149.
Si tratta di una narrazione di tipo aneddotico dalla quale emerge, più che
un’opinione sullo stile e sul modo di dipingere del Merisi, il suo carattere
di «uomo brigoso, bestiale e risoluto»
150
, giudizio immancabile nelle
biografie caravaggesche del Seicento.
149
Ibidem, p. 13.
85
4. Caravaggio: il racconto romanzato di Giovanni Battista
Passeri
Giovanni Battista Passeri fu pittore
151
e scrittore d’arte; l’opera a cui è
legata la sua fama è le Vite de’ pittori, scultori, ed architetti, pubblicata
solamente un secolo dopo la sua morte (1772).
Si tratta di biografie di artisti attivi a Roma e morti tra il 1641 e il 1673;
l’opera è concepita come continuazione di quella del Baglione, che
aveva infatti scritto degli artisti attivi a Roma fino al 1641.
Il testo del Passeri offre uno spaccato vivacissimo dell’ambiente artistico
di Roma nel Seicento e dà un vero e proprio frammento della storia dei
tempi da lui vissuti; con un testo molto vivace, chiaro, pieno di aneddoti
sugli artisti, egli ci porta nel bel mezzo della vita artistica romana della
metà del secolo.
Tratto caratteristico di quest’opera è che ci sono numerose parti
d’invenzione e alcune, sfortunatamente, riguardano proprio il
Caravaggio, riguardo al quale troviamo diversi riferimenti all’interno
dell’opera.
150
Ibidem, p. 13.
Cfr. Schlosser, op. cit.,p. 462. Il Passeri fu allievo del Domenichino a Roma e legato da
stretta amicizia con l’Algardi
151
86
Il fatto è che Passeri scrive di fatti accaduti molti anni prima, che
vengono da lui stesso corretti, censurati e modellati fino a trasformarli in
una sorta di romanzo; infatti, a parte un brano di carattere più impegnato
sul “naturalismo”, all’interno del quale possiamo individuare quei tratti
comuni che hanno caratterizzato quasi tutta la critica caravaggesca del
Seicento (la quale, da un lato, aveva riconosciuto la novità di
Caravaggio, ma dall’altro ne aveva rifiutato la scelta di stile) 152, gli altri
brani sono guarniti di una incredibile aneddotica:
«Il medesimo Car.le Borghesi, avendo ristaurata la
Chiesa delle Tre fontane fuori della Porta Ostiense
o pure Trigemina, che sta un miglio oltra la Chiesa
di San Paolo, pensò di far dipingere li Quadri
degl’Altari che sono laterali a quelle tre fonti
miracolose; in uno la decollazione del Santo
Apostolo Paolo, il di cui capo reciso fece, con tre
152
G. B. Passeri, Vite de’ pittori, scultori ed architetti che hanno lavorato in Roma morti dal
1641 fino al 1673, (1673 circa), ed. cons., Roma 1772, p. 62. «Michel’Angelo da Caravaggio
fece qualche giovamento al gusto di quella nuova Scuola promossa da fratelli Carracci, e
da’ loro scolari; perché, essendo uscito fuora con tanto empito, e con quella sua maniera
gagliarda, fece prender fiato al gusto buono, et al naturale, il quale allora era bandito dal
mondo, che solo andava perduto dietro a un dipingere ideale, e fantastico, ma lontano dalla
natura e dal vero, di cui imitatrice fedele ha da essere la pittura.
Bene è vero che esso non abbellì il nuovo suo gusto con quelle vaghezze, colle quali la
scuola Carraccesca lo ha portato all’estremo, cioè rendendolo pieno di piacevolezza, e di
delizie, ricco nelli componimentii, adorno d’accompagnature, e discreto in tutto il
87
sbalzi, scaturir, ad ogni balzo una fonte, come anche
oggi si vedono, e nell’altro la Crocefissione di San
Pietro e pensò in Michel’Angelo da Caravaggio, che
all’ora sorgeva con qualche applauso.
Il Cav.re Gioseppino, che l’odiava per la ragion
dell’opera della Cappella di San Luigi de Francesi
di San Matteo Apostolo ove dipinsero in
concorrenza egli, el Caravaggio, dalla quale
nacquero tante fazioni contrarie, procuro, che
gl’uscisse di mano, accio, che restasse privo di
occasioni di farsi conoscere maggiormente; e gli
sortì il suo intento, e procurò, che Guido avesse
quello della Crocefissione, e l’altro fù dato ad un
altro pittore di poca levatura.
Hauto, che Guido hebbe il Quadro fù pregato dal
Cavalier Gioseppe, che s’insegnasse di dipingerlo
nello stile del Caravaggio quanto alla forza di
chiaro e scuro, e che procurasse con la nobiltà della
sua idea di superar quello nella maestà, e nel
decoro…
portamento; tutta via aperse una strada per la quale fece ritornare in vita la Verità, che si
88
…Esposto che ebbe il Quadro… [Guido] riceveva di
continuo delle congratulazioni dagli amici e da altri
di quell’opera, e venendogli detto da uno che il suo
quadro era così bello che pareva di mano del
Caravaggio, egli rispose con modestia, piacesse a
Dio, ne si sdegnò di questa lode, stimando nel suo
concetto Michel Angelo per huomo di valore, e non
che venisse lodato solo da maligni, et atto a
dipingere solo i piedi fangosi, e cuffie sdrucite, e
sudice come è stato oltraggiato da alcuno» 153.
La storia della concorrenza tra Guido Reni e il Caravaggio per la
Crocefissione di San Pietro alle Tre Fontane è collocata dal Passeri in un
momento in cui il Merisi aveva già lasciato Roma, e cioè dopo i dipinti
di San Gregorio al Celio.
La storia era gia stata raccontata dal Malvasia
154
, e probabilmente il
Passeri recupera l’informazione proprio dalla Felsina Pittrice, ma non si
cura di ristabilire il tempo verosimile che dovrebbe cadere tra il 1602 ed
il 1604, sebbene anche i fatti raccontati dal Malvasia non siano del tutto
era ad un certo modo da lunghi anni smarrita.»
153
154
Ibidem, p. 65.
C. Malvasia, op. cit., pp. 13 e seg.
89
veritieri, dal momento che sono completamente tesi a difendere e a far
emergere la grandezza dei pittori bolognesi.
Per quanto riguarda l’ultimo brano su Caravaggio che troviamo
all’interno dell’opera del Passeri, credo che questo sia quello che suscita
maggiore curiosità:
«In quel tempo era sparso il grido di Michel’Angelo
da Caravaggio, e piacendo assai a lui [il Guercino]
quel modo di dipingere, essendo molto geniale al
suo stile, si andava contenendo in quella maniera
gagliarda, e vigorosa, la quale era sua propria, ed il
Caravaggio nel vedere l’opere di Giovan Francesco,
si rallegrava parendogli di havere nel numero dei
suoi imitatori un’uomo di qualche valore, e stima, et
erano divenuti cordialissimi amici.
In quel tempo medesimo si negoziava l’opera della
Cuppola della Chiesa nella quale è la Santa Casa di
Maria Vergine di Loreto, e doppo varietà di pareri
nel darla ad un pittore di qualche fama per essere
quella opera di considerazione, e riguardevole si
concluse il partito di molti di quelli Deputati nelli
90
quali era riposta la risoluzione di quel lavoro, nella
persona di Michel’Angelo per esser quegli di stima,
e di grido universale in una nuova maniera; ma
perché il concetto della sua persona, quanto al
costume, era sinistro per la sua bestialità, stavano
alcuni altri perplessi nella risoluzione, timidi di
mandare in quel Santo Luoco un’huomo scandaloso,
e di cattive qualità.
Pensando di dargli un compagno moderato e ben
composto come per freno delle sue furie, elessero
Gio. Francesco…
Andatosene il Barbieri a comunicarlo al
Caravaggio…gli si rivoltò quella fiera indomita con
ira grandissima…Restò il povero Gio. Francesco
con mala sodisfazzione per la perdita dell’amicizia
del Caravaggio, perdita accresciuta dal timore
dell’indignazione di quel cervello torbido, capace di
prendere
contro
di
lui
qualche
strana
risoluzione»155.
155
Ibidem, p. 373 e seg..
91
Il racconto mostra la totale indifferenza del Passeri nell’alterare la verità
storica, non appena gli si presenti un’occasione romanzevole irresistibile;
egli, infatti, narra di una grande amicizia tra Guercino e Caravaggio,
cosa assolutamente falsa e impossibile dal momento che Guercino giunse
a Roma nel 1621, e cioè undici anni dopo la morte del Merisi.
Inoltre Passeri mostra come a distanza di tempo dalla morte del
Caravaggio sia ormai totalmente consolidata la leggenda che per secoli
lo ha visto etichettato come un uomo «scandaloso e di cattive qualità»156
dal temperamento rissoso, spesso incline ad agire con la violenza;
indubbiamente egli si lasciò coinvolgere spesso in risse, ferimenti ed
aggressioni, ma gli scrittori del Seicento, in genere malevoli nei suoi
confronti, provvidero certo ad alimentare la leggenda del “pittore
maledetto”, emarginato, escluso dalla società e rifiutato dalla chiesa.
156
Ibidem, p. 374.
92
5. La posizione di Filippo Baldinucci
L’abate fiorentino Filippo Baldinucci fu uno dei più grandi storici
dell’arte del Seicento; uomo dalla cultura enciclopedica, scrittore,
conoscitore d’arte, raffinato collezionista, fu consulente artistico del
cardinal Leopoldo e di Cosimo III de’ Medici.
Il suo lavoro principale fu la monumentale opera storica intitolata Notizie
de’ professori del disegno, pubblicato a partire dal 1681 e la cui edizione
fu conclusa a distanza dalla morte, nel 1728; l’opera, ordinata
annalisticamente per secoli e decennali, può considerarsi la prima storia
universale dell’arte figurativa in Europa
157
; tra le tante biografie trova
posto, nel decennale X del secolo IV, anche quella di Caravaggio (sotto
il nome di “Michelagnolo Morigi”), del quale Baldinucci parla con
obiettività storica, cercando di fare né un elogio, né una polemica.
Nella prima parte della biografia il Baldinucci parla della formazione
del Merisi: «Seppe sì bene seguitare i dettami del naturale suo genio a’
nobilissimi studi del disegno e della pittura, che fece poi quella nobile
157
Cfr. Schlosser, op. cit., p. 466.
93
riuscita, che a Roma e all’Europa tutta fu manifesta»
spostamenti
giovanili:
158
; dei suoi
«Partitosi da Milano, portossi a
Venezia…Risolutosi poi di vedere Roma, colà si portò»
159
, facendo
anche un breve riferimento al suo carattere e alla sua personalità: «Egli
aveva un cervello stravagante, poco inclinato al rispetto, amico assai di
risse e contese» 160.
Dopo di che l’autore parla del lavoro che Caravaggio svolse a Roma:
«risoluto di darsi in tutto e per tutto allo studio dell’umane forme in sul
vero, perché non volle mai tirare una linea, non che studiare, sopra
l’opere di Michelagnolo, di Raffaello, o degli antichi»
161
, assecondando
così quello che veniva detto su lui e quindi uniformandosi al pensiero
seicentesco più comune, sembra però che Baldinucci voglia solo rendere
noto il pensiero di altri e non il suo, in quanto, poco più avanti, afferma
che: «’a più vecchi molto dispiacque [la “maniera” del Caravaggio], e
da questi era tacciato Michelagnolo di povero di disegno e d’invenzione,
di gravità e di decoro, d’aver poco gusto in prospettiva» 162.
Finito di raccontare la vita del Cravaggio, Baldinucci inizia ad esprimere
dei giudizi personali sul pittore, sul suo temperamento sul suo modo di
158
F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua,
Vol. III, Firenze,
1681-1728, ed. a cura di F. Ranalli, ristampa a cura di P. Barocchi, Firenze, 1975, p. 680.
159
Ibidem, p. 681.
160
Ibidem, p. 681.
161
Ibidem, p. 682.
162
Ibidem, p. 684.
94
comportarsi e addirittura ne propone una descrizione fisica che
rispecchia decisamente la sua indole: «fu il Caravaggio, siccome
d’animo scomposto, poco grato nel conversare, e pronto al risentimento,
così d’aspetto rozzo, e brutto anzi che no e fu sì facile all’alzar delle
mani, che sarebbe egli per ordinario stato fuggito da ogni persona…era
talora praticato per lo fine solamente di non averlo per nemico» 163.
Baldinucci continua a parlare giudicando ovviamente anche l’arte del
Caravaggio ed afferma che il Merisi «recò grand’ utile all’arte col suo
nuovo modo di dipingere, in forza di tutta imitazione del naturale, e
lontano da ogni affettazione di pennello, e coll’ usar ch’ei fece con gran
giudizio e verità gli scuri»
164
, affermando anche però che
«usò poca
intelligenza nei piani e nella prospettiva, oltre che egli abbassò l’arte
nel mettersi che e’ fece per lo più a far vedere nelle sue tele atti di
persone plebee, dando anche alle sacre pitture sì poco decoro
coll’empierle ch’e’ fece d’ogni bassezza»
165
; ma quello che, secondo
me, è veramente significativo è il fatto che per la prima volta il modo di
dipingere del Caravaggio viene giustificato; infatti Baldinucci, a
conclusione della biografia, cerca di spiegare il motivo per cui, secondo
lui, il Merisi dipinge così, riscattando in qualche modo la sua arte
163
Ibidem, p. 688.
Ibidem, p. 689.
165
Ibidem, p. 689-690.
164
95
attraverso il suo comportamento: «perdonisi al Caravaggio questo suo
modo d’usare il pennello; mentre egli volle avverare in se medesimo
quel proverbio che dice, che ogni pittore dipigne se stesso, mercè che se
s’osserva il modo, che egli usò nel conversare, si trova tale, quale sopra
accennammo; se ci voltiamo al portamento di sua persona lo veggiamo
stravagante quanto mai…» 166.
Secondo Baldinucci, dunque, persona ed opera sono strettamente legate
l’una all’altra: certo è che, con un giudizio del genere, Caravaggio viene
distrutto e, in qualche modo, posto ai margini; infatti appare solamente
come un personaggio stravagante, che con la sua pittura è fuori dai
canoni167.
In questa biografia possiamo comunque vedere la grande professionalità
dello scrittore, che sta nel tentativo di comprendere l’arte del Caravaggio
e la sua «maniera del tutto nuova»
168
che ancora, quasi alla fine del
secolo, era assai difficile da accettare e da spiegare.
Baldinucci dimostra invece di aver capito, forse più di altri, l’importanza
dell’arte di quell’ «uomo fantastico e bestiale» 169.
166
Ibidem, p. 690.
Con questo giudizio, Baldinucci, è in linea con la storiografia cinquecentesca.
168
Ibidem, p. 16.
167
96
CAPITOLO VI
IL GIUDIZIO DI GIOVANNI PIETRO BELLORI
1. Giovanni Pietro Bellori e l’Idea del Bello
Il più grande studioso dell’arte e archeologo del XVII secolo, Giovanni
Pietro Bellori, nacque a Roma nel 1613 e la sua educazione venne
affidata, fin dai primi anni, a Francesco Angeloni, uno dei grandi letterati
ed antiquari del momento.
Nella casa dell’Angeloni, chiamata da lui stesso e dai suoi visitatori
“Museo Angelonio” per la vasta collezione di dipinti (moderni e
contemporanei) e oggetti antichi che vi si trovavano, Bellori ebbe
occasione di incontrare artisti, eruditi e letterati di ogni genere, cosicché
la società che frequentava era quella composta da uomini di un certo
livello culturale come Giovan Angelo Canini, che era stato allievo di
169
Ibidem, p. 16.
97
Domenichino, Andrea Sacchi, Nicolas Poussin, con il quale Bellori
condivise oltre alla passione per l’antiquaria anche quella per la
letteratura, Vincenzo Giustiniani, grande collezionista e committente, ed
infine Giovanni Battista Agucchi, le cui tesi, come sappiamo, avrebbero
influito sull’elaborazione della teoria dell’Idea del bello, presentata in
una conferenza pronunciata da Bellori nel 1664, presso l’Accademia di
San Luca e successivamente posta come introduzione alle Vite.
Quel discorso accademico, che s’intitola L’Idea del pittore, dello
scultore e dell’ architetto scelta dalle bellezze naturali superiore alla
Natura, offre in maniera esemplare tutto il programma dell’estetica
classicista.
L’Idea si apre con un’introduzione di carattere neoplatonico: l’eterno
spirito creatore genererebbe le immagini originarie ed i modelli di tutte
le creature, le Idee: «Quel sommo ed eterno intelletto autore della natura
nel fabbricare l’opere sue meravigliose altamente in se stesso
riguardando, costituì le prime forme chiamate idee» 170; solo che, mentre
le sfere celesti, non soggette a mutazioni, esprimono queste Idee con
assoluta purezza e bellezza, gli oggetti terreni a causa delle alterazioni
della materia appaiono come immagini di Idee deformate, come accade
per la bellezza degli esseri umani che molto spesso si tramuta in
170
G. P. Bellori, op cit., p. 13.
98
bruttezza e deformità: «Ma li celesti corpi sopra la luna non sottoposti a
cangiamento, restarono per sempre belli ed ordinati…al contrario
avviene de’ corpi sublunari soggetti alle alterazioni ed alla bruttezza…e
particolarmente l’umana bellezza si confonde» 171.
Tocca quindi agli artisti, ai «nobili pittori e scultori»
172
, rappresentare
un’immagine incontaminata della bellezza, dal momento che «si
formano anch’essi nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in
esso riguardando, emendano la natura senza colpa di colore e di
lineamento»173.
Fin qui le teorie del Bellori sono del tutto simili a quelle di un platonico
o di un neoplatonico che attribuisca all’Idea un’origine metafisica, ma
poi avviene un improvviso distacco; infatti, mentre per Platone la
contemplazione sensibile è solo l’occasione e non l’origine della
conoscenza, per Bellori l’Idea artistica è concepita come proveniente
dalla contemplazione della realtà sensibile, «così l’idea costituisce il
perfetto della bellezza naturale, ed unisce il vero al verisimile delle cose
sottoposte all’occhio, sempre aspirando all’ottimo ed al meraviglioso,
onde non solo emula, ma superiore fassi alla natura» 174.
171
Ibidem, pp. 13-14.
Ibidem, p. 14.
173
Ibidem, p. 14.
174
Ibidem, pp. 14-15.
172
99
Si può vedere dunque come in Bellori la dottrina delle idee si orienti
verso quella concezione per cui l’idea non è insita a priori nell’uomo, ma
viene acquistata a posteriori attraverso la contemplazione della natura 175.
Solo alla luce di questa nuova interpretazione diventa possibile all’autore
sostenere la lotta contro «gli artefici similitudinari e del tutto imitatori
de’ corpi, senza elezione e scelta dell’idea»
176
, come «Demetrio» che
«ricevé nota di essere troppo naturale», «Dionisio» che «fu biasimato
per aver dipinto gli uomini simili a noi, comunemente chiamato
_____!_______, cioè pittore di uomini» 177.
«Pausone e Pirreico», poi, «furono condannati maggiormente per avere
imitato li peggiori e li più vili, come in questi tempi Michel Angelo da
Caravaggio fu troppo naturale, dipinse i simili… » 178.
Bellori attacca polemicamente il Caravaggio e lo critica per non aver
utilizzato l’intelletto e per essersi limitato ad effettuare una copia
meccanica della natura; così, per il fatto di non avere idee e per copiare
pedissequamente gli oggetti, compresi i loro difetti, i naturalisti sono da
condannare 179.
175
Cfr. E. Panofsky, Idea, contributo alla storia dell’estetica , Leipzig-Berlin, 1924, ed cons.
La nuova Italia, Firenze, 1952, p. 80.
176
Bellori, op. cit. p. 15.
177
Ibidem, p. 15.
178
Ibidem, p. 16.
179
Allo stesso tempo sono da condannare anche quegli artisti che, senza conoscere il vero,
riducono l’arte ad una pura esercitazione e, non volendo studiare la natura, pretendono di
lavorar di “maniera”.
100
D’altra parte Caravaggio è stato visto, per tutto il Seicento, come un
pittore povero di spirito inventivo, assoggettato esclusivamente alla
natura e condannato per aver riprodotto, senza nessuna selezione, ogni
soggetto nel suo aspetto esteriore.
Secondo Bellori il processo creativo va sfrondato da ogni residuo
metafisico: l’artista deve osservare la natura modificandola ed
integrandola su un esempio di bellezza, che non gli giunge né dal
mondo iperuranio delle idee, né da Dio, ma che egli stesso crea nella
propria mente osservando la natura e ovviamente superandola; per
dimostrare quest’idea, Bellori non si richiama alle posizioni dei
platonici, ma a quelle degli artisti e dei teorici del Rinascimento, come
l’Alberti, Leonardo da Vinci e Raffaello: «Ora se con li precetti delli
antichi sapienti rincontrar vogliamo ancora gli ottimi istituti de’ nostri
moderni, insegna Leon Battista Alberti, che si ami in tutte le cose non
solo la somiglianza, ma principalmente la bellezza, e che si debba andar
scegliendo da corpi bellissimi le più lodate parti.
Così Leonardo da Vinci istruisce il pittore a formarsi questa idea ed a
considerare ciò che esso vede e parlar seco, eleggendo le parti più
eccellenti di qualunque cosa.
Raffaele da Urbino il gran maestro di coloro che sanno, così scrive al
Castiglione della sua Galatea: “Per distinguere una bella mi
101
bisognerebbe vedere più belle, ma per essere carestia di donne belle, io
mi servo di una certa idea che mi viene in mente”»
180
; e, andando
avanti, cita una serie di esempi in cui la figura umana dipinta o scolpita
risulta più perfetta del naturale: «Ovidio descrivendo Cillaro bellissimo
centauro lo celebra come prossimo alle statue più lodate»
181
;
«Filostrato innalza la bellezza di Euforbo simile alle statue di Apolline,
e vuole che Achille di tanto superi la beltà di Neottolemo suo figliuolo,
quanto li belli sono dalle statue superati»182; «Il Marino celebrando la
Maddalena dipinta da Tiziano, applaude con le massime lodi alla
pittura, e porta l’idea dell’artefice sopra le cose naturali» 183.
Nell’ultima parte del suo discorso Bellori pone l’attenzione anche su un
altro aspetto della pittura, e cioè sulla rappresentazione dei sentimenti, e
sostiene che: «essendo la pittura rappresentazione d’ umana azione deve
insieme il pittore ritenere nella mente gli esempi degli affetti…li quali
moti deono molto più restare impressi nell’animo dell’artefice con la
continua contemplazione della natura, essendo impossibile ch’egli li
ritragga con la mano dal naturale, se prima non li avrà formati nella
fantasia» 184.
180
Ibidem, p. 16-17.
Ibidem, p. 18.
182
Ibidem, p. 18.
183
Ibidem, p. 19.
184
Ibidem, p. 20.
181
102
E’ evidente come un’opera d’arte, per ritenersi soddisfaciente, debba
riuscire a trasmettere anche gli stati d’animo e le emozioni;
quest’operazione può riuscire all’artista solo se sarà un buono
osservatore delle emozioni umane, che generalmente non sono visibili
nel «modello che si pone davanti, non ritenendo esso alcun effetto; che
anzi languisce con lo spirito e con le membra nell’atto in cui si svolge, e
si ferma ad arbitrio altrui»
185
; per questo, secondo Bellori, per
rappresentare anche i sentimenti «è necessario formarsene un’immagine
su la natura, osservando le commozioni umane, ed accompagnando li
moti del corpo con li moti dell’animo» 186.
Così, anche i sentimenti, prima di essere rappresentati devono essere
concepiti sotto forma di Idea, la quale altro non è che una visione della
natura purificata dallo spirito; questa purificazione, secondo Bellori, è
sempre stata praticata fin dall’antichità e cioè fin da quando «gli antichi
cultori della sapienza, formata l’Idea nelle menti loro, riguardavano
sempre alle parti più belle delle cose naturali» 187.
In effetti, il testo belloriano elabora e sistematizza l’opinione di una
vasta cerchia di teorici e di artisti che già nel passato avevano cercato di
esprimere, attraverso sporadiche affermazioni, la dottrina delle Idee, che
185
Ibidem, p. 20.
Ibidem, p. 20.
187
Ibidem, p. 21.
186
103
adesso viene elevata a sistema: «Originata dalla natura supera l’origine
e fassi l’originale dell’arte» 188.
L’arte ha necessariamente bisogno della natura come base da cui partire
per raffigurarla, ma nella rappresentazione la deve superare; per cui sono
da condannare coloro che imitano la natura «copiando anche i difetti de’
corpi»
189
, in quanto «si assuefanno alla bruttezza ed agli errori,
giurando nel modello come loro precettore; il quale tolto dagli occhi
loro, si parte insieme da essi tutta l’arte» 190.
L’Idea costituisce dunque una rappresentazione teorica e stoica del
processo creativo dell’artista, e rifacendosi alla dottrina platonica delle
idee, Bellori pone l’accento non sull’aspetto metafisico e trascendente
della creazione artistica, ma sul suo fondamentale rapporto con la
natura191.
188
Ibidem, p. 14.
Ibidem, p. 22.
190
Ibidem, p. 22.
191
Cfr. T. Montanari, Introduzione a G. B. Bellori, Le vite… , ed. inglese, in corso di stampa.
p. 18.
189
104
2. Il primo progetto della biografia di Caravaggio e la stesura
definitiva
«Dal tempo, che io cominciai a prender diletto (…)
dall’hora conobbi il sig.r Albano, e riverii con (…)
non hebbi mai sorte di dedicargli me stesso di p(…)
nell’animo mio hanno colorito le sue uirtù. Oh (…)
glielo certamente, che V. S. vi riconoscerebbe le sue
p(…) mi dà l’animo nemmeno di abbozzarlo con la
penna.
No (…) questo con ogni verità; perche non ho altra
ricreat.ne in q(…) mirabili Pitture; e mi pasco della
Galleria de’ Verospi di Bassano, e de’ quadri Gius:
tiniani, e della Divina Cappella di S. Giacomo de’
Spagnoli.
Hor sig.r mio non isdegni in queste righe un affetto
divotiss.mo, che viene a darle tributo di se stesso,
quale non haverebbe ardito di comparirle avanti, se
il P. Regio non m’havesse affidato del suo
patrocinio con l’occasione delle Vite de’ Pittori, che
io intraprendo tutto timido per haver innanzi il
105
Vasari, che hà scritto così bene, et per essere io
cieco nel trattar de’ colori; il qual peso io haverei
rifiutato, se il med.mo P. Regio non mi avesse
animato, con l’affermarmi che la vita del
Caravaggio sia piaciuta in qualche parte a V. S., il
che mi fa prendere il vantaggio di supplicarla a
farmi l’honore di notarmi alcune cose de’ Caracci;
accioche / (…)umete delle opere fatte costà et in
Parma (…), che Annibale alcune cose copiò, come
io ne (… )Longara, et una gran Madonna, et un
Cristo (…).
Mi sarebbero sommamente cari li costumi, le
fortune, (…)nnibale e tutto quello che è necess.rio
ad effigiare l’imagine (…)o. Desidero ancora, che
ella mi facci gratia di qualche (…)ombardia che sia
stato eccellente.
Ma ad altro tempo mi riserbo di chiederle un'altra
gratia, la quale spero di conseguire dopo, che sarò
in possesso delli presenti favori. Intanto la riverisco,
restando io per sempre
DV.S.m.o Ill.re et Ecc.ma
106
Di Roma li 23 Giugno 1645.
Humiliss.mo et divotiss.mo ser.re
Gio : Pietro Bellori» 192.
Questo è il testo di una lettera inviata da Bellori a Francesco Albani nel
1645 e riscoperta soltanto recentemente da Evelina Borea in occasione
della mostra L’Idea dal Bello. Viaggio per Roma con Giovan Pietro
Bellori, tenutasi a Roma nel 2000.
Dalla lettera emerge che il Bellori non aveva un rapporto confidenziale
con l’Albani, dovuto sicuramente al fatto che lo storico romano aveva
una grande ammirazione per questo artista al quale portava un
grandissimo rispetto, ma la notizia più importante che possiamo ricavare
da questo testo è che nel 1645 Bellori aveva già scritto la biografia di
Caravaggio e, a quanto pare, in forma compiuta, dal momento che
l’aveva inviata in lettura all’Albani.
Senza dubbio questa è una scoperta molto importante, dal momento che
fa riconsiderare tutte le conoscenze sul rapporto Bellori-Caravaggio che
fino ad oggi si sono basate sulla biografia pubblicata nel 1672,
normalmente intesa come una negazione di quanto Bellori aveva scritto
192
E Borea, Bellori 1645. Una lettera a Francesco Albani e la Biografia di Caravaggio
Prospettiva, n. 100, 2000, p. 57.
, in
107
proprio riguardo al Caravaggio nel 1642 in una Canzone alla pittura
pubblicata poi come premessa alle Vite del Baglione 193.
Colpisce molto apprendere che la vita di Caravaggio sia stata scritta
prima di quella di Annibale Carracci, di cui chiede notizie all’Albani;
questo fa pensare che nel 1645 Bellori fosse appena agli inizi delle sue
considerazioni della biografia di Annibale Carracci e che ancora gli
mancassero i dati essenziali per ricostruirne la vita in modo completo 194;
inoltre meraviglia anche il fatto che Bellori non avesse ancora concepito
la struttura dell’opera come il monumento al classicismo qual è poi
apparso circa trent’anni dopo, con all’inizio la vita di Annibale Carracci,
il rinnovatore dell’arte dopo la decadenza manierista, fino al massimo di
ciò che si poteva raggiungere in pittura, incarnato da Poussin.
Ciò potrebbe far supporre che in questo momento Bellori si sentisse più
vicino alle posizioni di Vincenzo Giustiniani che non a quelle di
Giovanni Battista Agucchi, frequentati entrambi a casa dell’Angeloni: il
primo, infatti, poneva il Caravaggio al livello massimo dell’arte, mentre
il secondo aveva visto Annibale Carracci come il rinnovatore della
pittura, considerando il Caravaggio, pur «eccellentissimo nel colorire»,
193
G. P. Bellori, Alla Pittura, in G. Baglione, Le vite, op. cit. «Scorgi da Caravaggio il gran
Michele / darne l’opre à i colori, e vita, e albergo, / e con verace finto / lasciare il ver de le
sue larve a tergo: / non è, non e dipinto / quel, che ne’ lini sui / mostra à le luci altrui, / che
non volgari effigiò le tele; / ma la natura a lui / vive tempre concesse, / suoi spiriti diede, e
se medesima impresse».
194
Cfr. Borea, op. cit., p. 62.
108
tra coloro che dipingono «gli eguali», seguendo «la similitudine» e
«lasciando indietro l’Idea della Bellezza» 195 .
A questo punto è necessario fare anche una considerazione riguardo al
fatto che Bellori dice nella lettera di aver appreso che all’Albani la
biografia di Caravaggio era «piaciuta in qualche parte»; da Malvasia
sappiamo che l’Albani «non poté mai tollerare che si seguitasse il
Caravaggio scorgendo essere quel modo il precipizio e la totale ruina
della nobilissima e compitissima virtù della pittura»
196
; quello che
viene da chiedersi è se Bellori conoscesse o meno le opinioni
dell’Albani: se ne era al corrente e sceglieva ugualmente l’Albani per
avere un giudizio sul proprio testo relativo a Caravaggio, è probabile che
tale testo non fosse del tutto incompatibile con le idee dell’Albani e che
quindi non fosse neanche troppo lontano dalla biografia definitiva
pubblicata nel 1672.
Ma è anche possibile, e a mio avviso anche più credibile visto
l’entusiasmo con cui Bellori elogiava e ammirava Caravaggio solo tre
anni prima nella sua Canzone alla pittura, che il critico non fosse
informato delle opinioni dell’Albani, e pensasse che anche lui potesse
aver avuto un momento di ammirazione per l’arte di Caravaggio.
195
196
Agucchi in Mahon, op. cit., p. 257.
Malvasia, op. cit. p. 169.
109
Comunque, nonostante tutte le possibili ipotesi, non possiamo sapere
quale fosse il vero contenuto della prima biografia di Caravaggio e in
che cosa si differenziasse da quella definitiva, che sicuramente non
intende esprimere un giudizio positivo e che si apre così: «Dicesi che
Demetrio antico statuario fu tanto studioso della rassomiglianza che
dilettossi più dell’imitazione che della bellezza delle cose; lo stesso
abbiamo veduto in Michelangelo Merigi, il quale non riconobbe altro
maestro che il modello, e senza elezzione delle migliori forme naturali,
quello che a dire è stupendo, pare che senz’arte emulasse l’arte» 197.
Il paragone di Caravaggio con Demetrio non era cosa nuova, in quanto lo
aveva già proposto Agucchi nel suo Trattato 198 e non era nuova neanche
l’identificazione del «maestro» del Caravaggio nel «modello», ossia nel
soggetto naturale scelto come oggetto della rappresentazione, perché già
il Mancini aveva scritto: «Questa schola, [di Caravaggio] è molto
osservante del vero che sempre lo tiene davanti mentre ch’ opera…» 199,
ma qui Bellori, con questa affermazione, intende anticipare il suo
giudizio negativo per quel modo di dipingere che egli non condivideva e
che anzi attaccava.
197
Bellori, op. cit., pp. 211-212.
Agucchi in Mahon, op. cit., p. 257.
199
Mancini, op. cit., p. 108.
198
110
Andando avanti il biografo parla della formazione di Caravaggio e dei
suoi spostamenti giovanili, ed anche lui si fa sostenitore, come già aveva
fatto il Baldinucci, di un soggiorno a Venezia del pittore, durante il quale
avrebbe avuto modo di studiare le opere dei maestri veneziani, ma
soprattutto «si compiacque tanto del colorito di Giorgione che se lo
propose per iscorta nell’imitazione»
200
; poi, giunto a Roma,
«fu
applicato dal Cavalier Giuseppe d’Arpino a dipinger fiori e frutti…e non
riguardando punto, anzi spregiando gli eccellentissimi marmi de gli
antichi e le pitture tanto celebri di Raffaele, si propose la natura per
oggetto del suo pennello» 201.
Anche questa affermazione ha chiaramente una connotazione negativa.
Sappiamo infatti quanta importanza venisse data allo studio ed in
particolare a quello delle sculture antiche, che invece viene
assolutamente rifiutato dal Caravaggio, il quale, «tolta ogni autorità
all’antico e a Raffaelle»202, «essendogli mostrate le statue più famose di
Fidia e di Glicone, acciocché vi accomodasse lo studio, non diede altra
risposta se non che distese la mano verso una moltitudine di uomini,
accennando che la natura l’aveva a sufficienza proveduto di maestri»203.
200
Bellori, op. cit., p. 212. In realtà un soggiorno veneziano del Caravaggio non è mai stato
provato, ma nel Seicento il “colorito” di Caravaggio veniva ricondotto alla tradizione veneta.
201
Ibidem, p. 214.
202
Ibidem, p. 230.
203
Ibidem, p. 214.
111
Inoltre, continua Bellori (intento a costruire un giudizio estremamente
negativo su Caravaggio), dal momento che «egli aspirava all’unica lode
del colore a questo solo volgeva intento l’occhio e l’industria…onde nel
trovare a disporre le figure, quando incontratasi a vederne per la città
alcuna che gli fosse piaciuta, egli si fermava a quella invenzione di
natura, senza altrimenti esercitare l’ingegno» 204.
Ecco che emerge il giudizio che più comunemente veniva espresso sul
Merisi nel Seicento; egli fu apprezzato solo come colorista, tanto che
«pareva vera l’incarnazione, la pelle e ‘l sangue e la superficie
naturale»205, ma, allo stesso tempo, veniva accusato di non saper
disporre le figure e di dipingere ogni cosa che vedesse così com’era,
senza applicare alla composizione nessun tipo di studio; ma quello che
secondo Bellori appare più assurdo ed incredibile è che «li pittori che
allora erano in Roma presi dalla novità, e particolarmente li giovani
concorrevano a lui e celebravano lui solo come unico imitatore della
natura, e come miracoli mirando l’opere sue lo seguitavano a gran
gara, spogliando modelli ed alzando lumi; e senza più attendere a studio
ed insegnamenti, ciascuno trovava facilmente in piazza e per via il
maestro e gli esempi nel copiare il naturale» 206.
204
Ibidem, p. 215.
Ibidem, p. 215.
206
Ibidem, pp. 217-218.
205
112
Bellori, dunque, riconosce a Caravaggio un gran seguito, soprattutto tra i
giovani, ma attribuisce il fenomeno al fatto che questi trovassero più
facile dipingere «senza studio e senza fatica» 207, mentre «i vecchi pittori
assuefatti alla pratica rimanevano sbigottiti per questo novello studio di
natura; né cessavano di sgridare il Caravaggio e la sua maniera,
divulgando che egli non sapeva uscir fuori dalle cantine, e che, povero
d’invenzione e di disegno, senza decoro e senz’arte, coloriva tutte le sue
figure ad un lume e sopra un piano senza degradarle» 208.
Ecco uno dei passi più importanti di questa biografia: qui il critico
esprime tutto il suo disappunto riguardo alla “maniera” del Caravaggio e
lo accusa di essere privo di decoro e di invenzione, nonché di essere
incapace di comporre le rappresentazioni in modo prospettico;
nonostante tutto, però, «queste accuse non rallentavano il volo alla sua
fama» 209.
Dopo alcune pagine nelle quali elenca e a volte commenta una serie di
opere dipinte dal Caravaggio, nell’ultima parte Bellori esprime
pienamente e liberamente il suo giudizio sul pittore, che «giovò senza
dubbio alla pittura, venuto in tempo che, non essendo molto in uso il
207
Ibidem, p. 230.
Ibidem, p. 218.
209
Ibidem, p. 218.
208
113
naturale, si fingevano le figure di pratica e di maniera, e soddisfacevasi
più al senso della vaghezza che della verità.
Lande costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte
e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione, ricordando ‘a pittori
l’imitazione» 210.
Bellori riconosce al Caravaggio il merito di essersi distaccato dalla
pittura manierista e di aver creato quindi una rottura con il passato
dipingendo in un modo che era dovuto alla sua formazione di matrice
lombarda e quindi naturalista; inoltre, credendo che egli avesse
soggiornato per qualche tempo a Venezia, Bellori vedeva unita nel
Merisi la formazione lombarda al colorito veneziano; più avanti dice
però che «se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise
sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura.
E veramente li pittori, sviati dalla naturale imitazione, avevano bisogno
di uno che li rimettesse nel buon sentiero; ma come facilmente, per
fuggire uno estremo, s’incorre nell’altro, così nell’allontanarsi dalla
maniera, per seguitare troppo il naturale, si scostarono affatto dall’arte,
restando negli errori e nelle tenebre; finché Annibale Carracci venne ad
illuminare le menti ed a restituire la bellezza all’imitazione» 211.
210
211
Ibidem, p. 229.
Ibidem, p. 231.
114
Quindi, sebbene Caravaggio avesse avuto qualche merito, fu anche
molto dannoso alla pittura e peggio ancora furono i suoi seguaci, che si
discostarono del tutto dall’arte smarrendosi negli errori.
Ben altro ruolo fu quello di Annibale Carracci, visto da Bellori come il
vero salvatore della pittura, alla cui arte non mancò «parte alcuna»
212
,
ed «eccellente egualmente in ogni cosa, perché invero non si sa bene
discernere in quella parte egli fosse migliore»
213
, mentre al Caravaggio
«mancavano molte e le migliori parti, perché non erano in lui né
invenzione né decoro né disegno né scienza alcuna della pittura mentre
tolti dagli occhi suoi il modello restavano vacui la mano e l’ingegno»214.
Qui viene rivolta al Merisi una censura ben precisa che non lascia
scampo né fa intravedere uno spiraglio che possa far leggere questo
giudizio in modo un po’ più positivo, ma anzi Bellori cerca di sminuirlo
ancora di più quando afferma che egli ed i suoi seguaci imitavano «le
cose vili, ricercando le sozzure, e le deformità…se essi hanno à
dipingere un’armatura, eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo
fanno intiero, ma sboccato, e rotto.
212
Ibidem, p. 72.
Ibidem, p. 88-89.
214
Ibidem, p. 230.
213
115
Sono gli abiti loro calze, brache, e berrettoni, e così nell’imitare li corpi
si fermano con tutto lo studio sopra le rughe, e i difetti della pelle e
dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi» 215.
Bellori conclude questa biografia dicendo che «tali modi del Caravaggio
acconsentivano alla sua fisionomia ed aspetto»
216
e pur di squalificarlo
e di creare un’immagine negativa diventa persino moralista, affermando
che «usava egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si
era messo un abito, mai lo tralasciava finché non gli cadeva in cenci.
Era negligentissimo nel pulirsi; mangiò molti anni sopra la tela di un
ritratto, servendosene per tovaglio mattina e sera» 217.
Questo può far capire quanta volontà di sminuire Caravaggio ci sia in
Bellori, che con questa biografia ha segnato per molto tempo la fortuna
del pittore; a lui si deve, infatti, la canonizzazione degli schemi di lettura
caravaggesca che da allora sono stati seguiti fino a larga parte
dell’ottocento.
Il Bellori riconosce d’altra parte la funzione storica del Caravaggio come
una necessaria reazione al manierismo e gli attribuisce il merito di aver
ricondotto gli artisti, sviati dietro la “fantastica idea” dei manieristi,
all’osservazione del naturale, ma pur riuscendo a intuire, capire ed
215
Ibidem, p. 230.
Ibidem, p. 232.
217
Ibidem, p. 232.
216
116
interpretare correttamente la novità della sua arte, egli scorge la vera
salute nella scuola bolognese ed in particolare in Annibale Carracci, che
viene presentato come colui con il quale prende avvio la quarta e più
perfetta età della pittura, secondo la concezione evolutiva che eredita
dalle Vite del Vasari 218.
Concludendo, possiamo dire che Bellori vedesse in Caravaggio un artista
che aveva percorso la giusta strada verso il rinnovamento, ma si era poi
smarrito «per seguitar troppo il naturale…restando negli errori e nelle
tenebre»
219
, e d’altra parte la notizia che la Vita di Caravaggio era
conclusa già nel 1645 dimostra il grande interesse che Bellori nutriva da
sempre per questo pittore, che però poi giudicò negativamente, forse
anche influenzato dal pensiero del suo grande amico Poussin, il quale
avversava così tanto il Caravaggio da credere che fosse venuto al mondo
per distruggere la pittura.
Da sottolineare è anche il fatto che a Bellori dobbiamo una sorta di
definizione critica del gruppo dei naturalisti
220
; infatti, a conclusione
della biografia di Caravaggio, scrive che: «molti furono quelli che
imitarono la sua maniera nel colorire del naturale, chiamati perciò
218
Cfr. Montanari, op. cit., p. 33.
Bellori, op. cit., p. 231.
220
Già Mancini aveva individuato la presenza di alcuni pittori che appartenevano alla
“schola”di Caravaggio, ma è solo con Bellori che avviene la definitiva canonizzazione di
questo gruppo.
219
117
Naturalisti; e tra essi annoteremo alcuni, che hanno maggior nome:
Bartolomeo Manfredi, Carlo Saracino, Guseppe Ribera detto lo
Spagnoletto, Valentino di Briè e Gherardo Honthorst» 221.
L’atteggiamento nei loro confronti dipende, ovviamente, dalle sue idee
sul Caravaggio, anche se riesce a scorgervi qualità migliori che non nel
maestro stesso; perfino il Manfredi, che «non fu semplice imitatore, ma
si trasformò nel Caravaggio, [ha] qualche diligenza e freschezza
maggiore»222.
3. Bellori “lettore” di Caravaggio
Bellori e la sua opera principale, le Vite, rappresentano senza dubbio uno
degli esiti più significativi della storiografia artistica del Seicento;
all’interno della sua opera egli inserì gli artisti migliori, i “maestri di
prima classe” e tra questi, come sappiamo, trovò posto anche
Caravaggio; ai nostri occhi, l’inclusione del Merisi nelle Vite è uno dei
più grandi riconoscimenti che Bellori potesse dare a questo grande
artista, del quale dimostra una straordinaria comprensione, anche se in
221
222
Bellori, op. cit., pp. 233 e seg.
Ibidem, p. 234.
118
realtà egli ne compose la biografia per soddisfare un “exemplum”
negativo da contrapporre ad Annibale Carracci.
Leggendo le pagine che riguardano Caravaggio, vediamo, però, che
Bellori non solo gli riconosce la funzione storica di aver reagito al
manierismo, ma comprende anche perfettamente quali fossero state le
novità che egli aveva apportato alla pittura e la loro grande
importanza;come già altri prima di lui, anche Bellori dà molto valore al
Caravaggio come colorista, ma, rispetto agli altri biografi, egli sottolinea
qualcosa in più; infatti si sofferma sul fatto che, nonostante egli
preferisse «l’opere sue prime dolci, schiette e senza quelle ombre ch’egli
usò poi»
223
, solo il Merisi tolse
«ogni belletto e vanità al colore,
rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione, ricordando
a’ pittori l’imitazione» 224.
Con questa dichiarazione sembra che Bellori, in un primo momento,
veda nel Caravaggio colui che poteva rimettere i pittori sulla retta via,
dal momento che «ebbe tanto applauso» anche tra gli «ingegni più
elevati e nutriti nelle migliori scuole»225; ma poi si corregge, sostenendo
che «per seguir troppo il naturale, si è scostato dall’arte, restando negli
223
Ibidem, p. 213.
Ibidem, p. 229.
225
Ibidem, p. 230.
224
119
errori e nelle tenebre»
226
anche se
«sono pregiati li suoi colori
dovunque è in conto la pittura» 227, mostrando così di continuare ad
apprezzarlo quale buon coloritore, ma niente di più.
Poche pagine prima Bellori aveva ricondotto a Caravaggio, con parole di
elogio, anche un impulso decisivo allo sviluppo della natura morta;
infatti racconta che, una volta giunto a Roma, iniziò a «dipinger fiori e
frutti sì bene contraffatti che da lui vennero a frequentarsi a quella
maggior vaghezza che tanto oggi diletta»
228
; ciò che invece, secondo
Bellori, manca del tutto al Merisi è la capacità di comporre della buona
pittura di storia.
Leggiamo, a questo proposito, la descrizione che egli fa della Maddalena
Doria Pamphili: «dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con
le mani in seno in atto di asciugarsi i capelli, la ritrasse in una camera,
ed aggiungendovi in terra un vasello d’unguenti, con monili e gemme, la
finse per Maddalena.
Posa alquanto da un lato la faccia e s’imprime la guancia, il collo e ‘l
petto in una tinta pura, facile e vera, accompagnata dalla semplicità di
tutta la figura, con le braccia in camicia e la veste gialla ritirata alle
ginocchia dalla sottana bianca di damasco fiorato… Quella figura
226
Ibidem, p. 231.
Ibidem, p. 232.
228
Ibidem, p. 213.
227
120
abbiamo descritta particolarmente per indicare li suoi modi naturali e
l’imitazione in poche tinte sino alla verità del colore» 229.
L’accusa è chiara: Caravaggio non sa dipingere soggetti storici, non sa
rappresentare gli affetti e la sua pittura manca di composizione.
Bellori informa i lettori che il Merisi dipinse una fanciulla qualunque
nella sua camera da letto, mentre si asciuga i capelli, pretendendo di
“fingerla” per Maddalena, atteggiandola in un modo che non conviene ad
una santa, senza porla in un contesto che lasci intuire, in alcun modo, la
storia della Maddalena.
Togliendo però la negatività a questo giudizio, rimane una descrizione
(seppur breve rispetto a quelle che troviamo nelle biografie degli altri
artisti) di grande intensità e pregnanza: Bellori mostra di aver compreso
la forza del Caravaggio, che non stava solo nel modo di “colorire”, ma
anche nel riuscire a rappresentare tutta la “ferialità” e la quotidianità dei
soggetti, dipinti in modo nuovo e straordinario.
Più avanti usa parole di elogio per «l’angelo bellissimo che suona il
violino»
230
rappresentato nel quadro del
Riposo durante la
fuga in
Egitto».
229
230
Ibidem, p. 215.
Ibidem, p. 215.
121
«Degno dell’istessa lode è una testa ben ritratta dal vivo» 231 che si può
ammirare nella camera del cardinale Antonio Barberini, in un quadro che
rappresenta «tre mezze figure che giuocano a carte» 232.
Bellori ci informa del fatto che queste sono le prime opere del
Caravaggio, dipinte a suo parere secondo la «maniera di Giorgione» 233,
cioè «con oscuri temperati» 234.
Con questa tecnica dipinse ancora: «una musica di giovini ritratti dal
naturale in mezze figure, una donna in camicia che suona il liuto con le
note avanti, e Santa Caterina ginocchione appoggiata alla rota… » 235.
Questo passo è degno di nota e, senza dubbio, merita molta attenzione:
Bellori dimostra di essere in grado di periodizzare la pittura del
Caravaggio e di dire, davanti ad un suo dipinto, a quale fase appartiene.
Andando avanti, Bellori afferma che «Caravaggio facevasi ogni giorno
più noto per lo colorito ch’egli andava introducendo, non come prima
dolce e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi
assai del nero per dar rilievo alli corpi»
236
; per questo suo modo di
dipingere ricevette, come sappiamo, molte accuse, soprattutto dai vecchi
pittori di cultura manierista che non potevano accettare un tipo di pittura
231
Ibidem, p. 216.
Ibidem, p. 216. Si tratta, chiaramente, dei Bari.
233
Ibidem, p. 216.
234
Ibidem, p. 216.
235
Ibidem, pp. 216-217.
236
Ibidem, p. 217.
232
122
tanto diverso dal loro: Bellori, però, con grande obiettività, ritiene che
Caravaggio avesse dipinto anche alcune opere veramente buone e che
«tra le migliori che uscissero dal pennello di Michele si tiene
meritatamente in stima la Deposizione di Cristo, la Crocifissione di San
Pietro e la Conversione di San Paolo»
237
; parole analoghe vengono
usate per la Resurrezione di Lazzaro, «un quadro grande… da tenere
sommamente in stima per la forza dell’imitazione» 238.
Osservando questi quadri, ci accorgiamo che sono gli unici nei quali
compare un minimo di narrazione storica e la composizione risponde
maggiormente alle attese di un critico letterato come Bellori; infatti, in
queste opere sono rappresentati più personaggi, i quali, non solo creano
un contesto storico, ma esprimono affetti e sentimenti.
D’alta parte, dobbiamo ricordare che per Bellori esisteva un'unica via
della pittura, rappresentata da una ipotetica linea che da Annibale
Carracci, salvatore dell’arte, nella cui opera non mancò «parte alcuna
della pittura»239, arriva a Poussin, che eccelse soprattutto
«nell’invenzione dell’istoria e nella bellezza delle forme» 240; è chiaro
che in quest’ottica non può trovare posto Caravaggio, un artista che
237
Ibidem, p. 221.
Ibidem, p. 227.
239
Ibidem, p. 72.
240
Ibidem, p. 423.
238
123
risulta essere troppo pericoloso, dal momento che ha tentato di portare la
pittura sulla strada sbagliata rischiando di distruggerla.
CONCLUSIONI
Questo lavoro, che ha per oggetto la fortuna di Caravaggio come si
riflette nella letteratura artistica seicentesca, ha cercato di mostrare come
il giudizio sul pittore si sia evoluto e sia radicalmente cambiato nel corso
del XVII secolo.
Seguendo un percorso cronologico, a date molto precoci, cioè all’inizio
del Seicento, incontriamo soprattutto il pensiero degli amici i quali,
esprimendo un giudizio di evidente ammirazione, cercano di mostrare
un’immagine positiva «dell’amico d’indole eccellente»
241
, definendolo
addirittura «gran protopittore e meraviglia dell’arte» 242, in quanto riuscì
a «dipinger di maniera e con l’esempio avanti del naturale, che è il
modo più perfetto e più difficile» 243 .
Tali letterati videro in lui l’aprirsi di un nuovo corso pittorico e questo è
il segno di una mentalità non ancora raccolta, senza dubbio, dal
classicismo idealistico che iniziava a serpeggiare negli ambienti più
241
G. Fulco, op. cit., p. 131.
G. C. Gigli, op. cit., p.53.
243
V. Giustiniani, op. cit., p. 44.
242
124
colti, grazie soprattutto alle posizioni di Giovan Battista Agucchi, il
quale sosteneva che Caravaggio, come il pittore antico Demetrio, «hà
lasciato indietro l’Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la
similitudine» 244.
Comunque, nonostante questo, neanche Agucchi esprime nei confronti
del Merisi un giudizio del tutto negativo; semmai mostra la grande
difficoltà che c’era a comprendere l’opera di un pittore che raccoglieva i
suoi modelli per strada e senza distinguere il “bello” dal “brutto”.
Agucchi lo considera, anzi, anche «eccellentissimo nel colorire»
245
e
con questo giudizio si avvicina molto al pensiero di Giulio Mancini,
voce altamente positiva nella critica caravaggesca del Seicento ed
importante anche per il fatto che egli individua per primo una «schola
del Caravaggio» 246.
In realtà Caravaggio non ebbe mai allievi diretti nel senso tradizionale, e
dunque è ancor più importante che qualcuno percepisse la vasta
influenza esercitata dal pittore, e riconoscesse gli aspetti comuni
nell’opera di un gruppo di artisti che ammodernarono il loro linguaggio
seguendo il naturalismo caravaggesco.
244
G. B. Agucchi, op. cit., p. 257.
Ibidem, p. 257.
246
G. Mancini, op. cit., p. 108.
245
125
In questi anni, cioè all’inizio del Seicento, si intensificarono anche i
rapporti artistici fra l’Italia e l’Europa ed aumentò in maniera sostanziale
l’esportazione di pittura italiana, tramite le vie del collezionismo, privato
e principesco; in questo contesto, soprattutto in Spagna ed in Germania,
furono elaborati trattati d’arte che, molto spesso, si basavano su
categorie estetiche e storiche mutuate dalla tradizione storiografica
italiana.
Proprio in questo momento vede la luce lo Schilderboek (1604) di Karel
Van Mander, successivamente ripreso nella Teutsche Accademie (1675)
di Joachim von Sandrart, mentre, per quanto riguarda la Spagna, tra il
1633 ed il 1649 furono dati alle stampe i Diàlogos di Vicente Carducho e
l’Arte de la Pintura di Francisco Pacheco.
A questo punto, in Italia, alla metà del secolo, inizia a prendere forma
quello che poi sarà il giudizio definitivo su Caravaggio, il quale, secondo
il parere dei biografi dell’epoca, aveva un gran talento, ma poteva quasi
dirsi venuto al mondo per distruggere la pittura e sovvertire il buon
gusto.
Dal loro punto di vista, l’arte del Merisi non è comprensibile:
rappresentare le cose con un programma integralmente naturalistico
senza abbellirle affatto, senza scegliere le parti più belle della natura da
126
rappresentare, senza preoccuparsi del “decoro” e della corretta
“composizione” e della “historia”, è una cosa irragionevole.
D’altra parte, secondo questi scrittori, tutto ciò rispecchia il suo
carattere; infatti egli è un cattivo soggetto in società, è «satirico, altiero e
discolo»247, spadaccino e attaccabrighe e pertanto irrispettoso del buon
gusto e della tradizione.
Nonostante tutto, però, come ci fa sapere Giovanni Baglione, il biografo
che maggiormente avversò il pittore, Caravaggio «acquistò gran
credito…t_to importa l’aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma
guarda con le orecchie. E nell’accademia il suo ritratto è posto» 248.
Questa inclinazione malevola, appena mitigata poco dopo la metà del
secolo da Francesco Scannelli, il quale mostra una grande ammirazione
per il «primo capo de’ naturalisti»
249
, assume, andando avanti, una
connotazione sempre più decisa, aiutata anche da racconti romanzati
come quello scritto da Giovanni Battista Passeri, che vuole etichettare il
Caravaggio come un uomo «scandaloso e di cattive qualità»
250
,
alimentando così la leggenda del “pittore maledetto”, emarginato ed
escluso dalla società.
247
G. Baglione, op. cit., p. 138.
Ibidem, p. 139.
249
F Scannelli, op. cit., p. 170.
250
G. B. Passeri, op. cit., p. 347.
248
127
A corollario di tutto è il giudizio di Giovanni Pietro Bellori, il critico che
ha costruito un monumento all’Idea del bello e che con la sua biografia
caravaggesca ha segnato per molto tempo la fortuna del pittore.
Egli è stato, senza dubbio, l’unico ad aver capito ed interpretato
correttamente la novità e la forza dell’arte del Caravaggio: gli riconosce
infatti una funzione storica, considerando la sua pittura come una
necessaria reazione al manierismo, e gli attribuisce il merito di aver
ricondotto gli artisti all’osservazione del naturale; nonostante questo,
però, a Bellori si deve la canonizzazione degli schemi negativi di lettura
caravaggesca, che vedono nel Merisi, non più un “eccellente coloritore”,
ma un “assassino della pittura”.
128
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1974.
133
Cinotti Mia (a cura di), Novità sul Caravaggio, Arti grafiche s.p.a.,
Milano, 1975.
L. Spezzaferro, Una testimonianza per gli inizi del Caravaggismo, in
Storia dell’arte, n. 23, 1975, pp. 53-60.
F. Bologna, I metodi di studio dell’arte italiana e il problema
metodologico oggi, in Storia dell’arte italiana, Vol. I, Einaudi, Torino,
1979, pp. 165-282.
G. Fulco, Ammirate l’altissimo pittore: Caravaggio nelle rime inedite di
Marzio Milesi, in Ricerche di storia dell’arte, n. 10, Roma, 1980, pp. 6589.
E. Raimondi, Letteratura Barocca, Leo S. Olschki, Firenze, 1982.
R. Longhi, Caravaggio, G. Previtali (a cura di), Editori riuniti, Roma,
1988.
R. Bassani – F. Bellini, Caravaggio assassino, Donzelli editore, Roma,
1994.
134
S. Danesi Squarzina, Caravaggio e i Giustiniani, in Michelangelo Merisi
da Caravaggio, S. Macioce (a cura di), Logart press, Roma, 1995. Atti
del Convegno Internazionale di studi, Roma, 5 – 6 Ottobre 1995, pp. 4649.
E. Raimondi, Il colore eloquente, Il Mulino, Bologna, 1995.
C. Strinati, Caravaggio vincitore, in Caravaggio e i Giustiniani, S.
Danesi Squarzina (a cura di), Logart press, Roma, 1995.
S. Ginzburg, Domenichino e Giovanni Battista Agucchi, in catalogo
mostra Domenichino 1581 – 1641, Electa, Milano, 1996, pp. 121-137.
C. Gauna, Giudizi e polemiche intorno a Caravaggio e Tiziano nei
trattati d’arte spagnoli del XVII secolo: Carducho, Pacheco e la
tradizione artistica italiana, in Ricerche di storia dell’arte, n. 64, Roma,
1998, pp. 57-76.
M. Maccherini, Caravaggio nel carteggio familiare di Giulio Mancini,
in, Prospettiva, n. 94, 1999, pp. 71-81.
135
E. Borea, Bellori 1645. Una lettera a Francesco Albani e la Biografia di
Caravaggio, in Prospettiva, n. 100, 2000, pp. 57-69.
E. Borea (a cura di), L’Idea del bello, viaggio per Roma nel Seicento con
Giovan Pietro Bellori, Edizioni De Luca, Roma, 2000.
T. Montanari, Introduzione a G. B. Bellori, Le vite…, ed. inglese, in
corso di stampa.
136
INDICE
CAPITOLO I
AMICI E AMMIRATORI
1. Caravaggio nelle rime di Marzio Milesi....................................................... p.1
2. Il filocaravaggismo di Giulio Cesare Gigli................................................... p.9
3. Vincenzo Giustiniani: amico, ammiratore e committente............................. p.13
4. Giovan Battista Marino e Virgilio Malvezzi: due letterati
appassionati
d’arte........................................................................................................... p.19
CAPITOLO II
GIOVANNI BATTISTA AGUCCHI E GIULIO MANCINI
1. Giovanni Battista Agucchi: una posizione “protoclassicistica” .................... p.27
2. Caravaggio eccellente colorista: il punto di vista di Giulio Mancini............. p.32
CAPITOLO III
CARAVAGGIO FUORI D’ITALIA
1. Il giudizio su Caravaggio nei trattati d’arte di Vicente Carducho e Francisco
Pacheco....................................................................................................... p.41
2. Karel Van Mander e Joachim von Sandrart.................................................. p.49
137
CAPITOLO IV
CARAVAGGIO: UN UOMO «SATIRICO, ALTIERO E
DISCOLO»
NELLA BIOGRAFIA DI GIOVANNI BAGLIONE.............. p.59
CAPITOLO V
I BIOGRAFI DELLA SECONDA META’ DEL SEICENTO
1. Luigi Scaramuccia: un parere del tutto classicistico ..................................... p.65
2. Francesco Scannelli: una grande ammirazione per il «capo de’ naturalisti». p.70
3. Le opinioni di alcuni artisti su Caravaggio nell’opera di Cesare Malvasia.... p.76
4. Caravaggio: il racconto romanzato di Giovanni Battista Passeri................... p.85
5. La posizione di Filippo Baldinucci .............................................................. p.92
CAPITOLO VI
IL GIUDIZIO DI GIOVANNI PIETRO BELLORI
1. Giovanni Pietro Bellori e l’Idea del Bello .................................................... p.96
2. Il primo progetto della biografia di Caravaggio e la stesura definitiva.......... p.104
3. Bellori “lettore” di Caravaggio .................................................................... p.117
138
CONCLUSIONI ....................................................................................... p.124
BIBLIOGRAFIA ........................................................................................ p.129
APPENDICE………………………………………………
p.140-178
139
APPENDICE
1. Marzio Milesi: Componimenti in onore di Caravaggio ................................ p.142
2. Giulio Cesare Gigli, La pittura trionfante .................................................... p.147
3. Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la pittura.......................................... p.148
4. Giovan Battista Marino, La Galeria ............................................................ p.149
5. Virgilio Malvezzi, Successi principiali della monarchia di Spagna
nell’anno 1639 ........................................................................................... p.150
6. Giovan Battista Agucchi, Trattato della pittura. .......................................... p.151
7. Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura............................................... p.152
8. Vicente Carducho, Dialogos de la pintura .................................................. p.154
9. Francisco Pacheco, Arte de la pintura..............................................p.155
10. Karel Van Mander, Het Schilderboeck....................................................... p.156
11. Joachim von Sandrart, Teutsche Accademie…..............................................p.157
12. Giovanni Baglione, Le Vite de’ Pittori Scultori et Architetti ...................... p.158
13. Luigi Scaramuccia, Le finezze de’ pennelli italiani ................................... p.161
14. Francesco Scannelli, Il Microcosmo della Pittura...................................... p.162
15. Cesare Malvasia, Felsina Pittrice: Vite Dei Pittori Bolognesi.................... p.163
16. Giovanni Battista Passeri, Vite de’ Pittori Scultori ed Architetti................. p.165
17. Filippo Baldinucci, Notizie dei Professori del Disegno…………………….p.167
140
18. Giovanni Battista Bellori, Le Vite de’ pittori scultori e architetti moderni...p.169
141
Marzio Milesi: Componimenti in onore di Caravaggio, ed. a cura di G. Fulco in
‘Ricerche di storia dell’arte’, 10, 1980, pp. 87-89.
Epigrafe I:
Michelangelo de Caravaggio/ pictori in/ consumati operis perfectione/
ac Naturae aemulatione/ precipuo.
Epigrafe II:
Michelangelo Merisio Firmi/ e Caravagio/ pictori/ cuius inspiciens simulacra/ vera
esse corpora si ambiges/ ne mireris/ Naturae atque artis foedus/ in illis est quod
decipit/ Martius Milesius iuris Consultis/ amico benemerito.
Epigrafe III:
Pro imaginis simulacro/ Michelangelo Merisius de Caravagio/ aequos
Hierosolomitanus/ naturae aemulator eximius/ vixit annos XXXVI M. IX D. XX/
moritur XVIII iulii MDCX.
Epitaffio:
Michaeli Angelo Merisio Firmi/ de Caravagio/ in picturis iam non pictori/ sed
Naturae prope aequali/ obiit in Portu Herculis/ e Partenope illuc se conferens/ Roman
repetens/ XV Kalendas Augusti/ anno Christi MDCX/ vixit annos XXXVI menses
D.XX/ Martius Milesius iuris Consultis/ amico eximiae indolis.
Distico :
Omnia vincit amor, tu pictor et omnia vincis scilicet ille animos, corpora tuque
animos.
Per una pittura di Michel Angiolo da Caravaggio :
Del fanciullo Giesù, d’Anna e Maria
l’imagin sacre, spettator, rimira
d’angelico pittore, et meco ammira
l’arte, e ‘l pensier ond’è al ciel ne invia.
Per lo peccar d’Adamo era travia
il miser huom del suo fattore in ira,
quando, fatt’huomo Dio, rinasce, e spira,
che di poggiare al ciel gl’aprì la via.
Onde quel, che cagion fiero serpente
fu del peccar, calcato viene oppresso
da la madre et dal figlio, et la gran Veglia
dela madre de Dio madre, ch’appresso
loro tu vedi umile, riverente,
o quanto al bene oprare ne risveglia.
Michel Angiolo da Caravaggio anchor giovane:
142
Michel, Angel voi siete, e siete uguale
Di chi fu al mondo tale,
ch’a ciascun fu magiore,
e co’l nome, e con l’opre lui sembrate.
Se tal in sì verdi anni vi mostrate che fie in età matura?
Da voi le gran maestre Arte, e Natura,
vinte si restanno,
con vostro eterno honor, lor grave danno.
Il medesimo:
Cedano a voi gl’antichi, et i più illustri
Pittor del secol nostro, Angel Michele,
e siano immortali, e gl’anni, e i lustri
i color vostri, e le pregiate tele.
Finghia altri pur le cose, adombre, e lustri,
voi vive e vere le rendete, intanto
che ben vi si conviene il pregio, e ‘l vanto,
che vi dà con la cetra altri e co’l canto.
Del medesimo:
Ammirate l’altissimo Pittore,
ch’a quanti pria ne furo passa avanti;
a celebrarlo venga almo scrittore,
degno ben di gran pregi, e sommi vanti.
Stupisce il mondo, e viene a fargli honore
con l’ingegni sublimi tutti quanti.
Felice secol nostro, in cui si vede
quel che d’antica età si scrive, e crede.
Per l’istesso:
Quel che suol dare a mille forme vita
si vede a vivi corpi ancho dar morte.
Stupì Natura, che se morte e vita
rend’ella, e questi anch’ei dia vita e morte.
Giovanetto Pittore allievo del Caravagio:
O di sì gran Maestro,
discepolo pregiato,
ch’adeguar tenti, né già tenti in vano
con l’opre di tua mano,
quant’al mondo di bel Natura ha dato.
Segui con tal principio in ogni parte,
ch’a la meta arrivar pocho è ne l’arte.
Giovanetto pittore eccellente:
A la meta arrivar pocho è ne l’arte,
143
ma chi, varcato il segno,
sen va tant’oltre, ove giungon sì rari,
di sommi honori e pregi ben fia degno.
Voi ch’al colmo n’andate in ogni parte, e gite al par de più famosi e chiari,
onde in più fresca età, l’età vincete,
ch’altri v’ami et ammiri degno siete.
Selva per le historie di S. Mattheo dipinte da Michel Angiol da Caravaggio:
Cedano a voi gl’antichi, et i più illustri
Pittor del secol nostro, Angiol Michele
E siano immortali, e gl’anni, e i lustri,
i color vostri, e le pregiate tele.
Finghia pur le cose altri, adombri, e lustri,
voi vive e vere l’arrecate, in tanto
che ben vi si conviene il pregio, e ‘l vanto,
che vi dà la mia cetra hora, e ‘l mio canto.
Aiuta Musa a ridir l’eccellenze,
ch’infonde la tua suora al caro figlio,
e fa ch’uguale a i metri l’eminenze
possa mostrar, di quanto a dir m’appiglio;
Apostol santo, se pur negligenze,
di te parlando, avien ch’incorra, emenda
gl’errori tu, sì ch’altri non offenda,
e fa ch’al mio cantar ciascuno attenda.
Ecco ch’a cominciare hormai m’invita,
e che regge il mio dire amata scorta,
e già veggio il mio Cristo, ch’a chiamare
e publicani venne, e peccatori,
come al primo apparir, sgombra, e rischiara
la mente di Mattheo, ch’ingorda, e cieca
si stava al mondo in duri lacci avvolta,
e Giesù che risplende in guisa tale,
ch’a rimirarlo attrae gl’occhi, e le menti
de risguardanti, e par beati renda
de mortali gli spirti. Et tal s’è in terra,
d’artefice per opra, e di pennello,
a rivederlo in ciel hor che fia dunque?
Intrepido te Santo, anchor ammiro,
ch’offrendo olocausto al tuo signore,
ecco d’impuro Regge a i detti presta,
stringe barbara man, ch’uccider brama,
per far d’empia e crudel morte, trofeo
d’eterna e immortal gloria, e ben l’addita
l’Angiol, che qui dal ciel discende umile
con vittoriosa insegna, per condurti
carcho d’anni e di meriti in paradiso.
A chi ti mira, non finto, ma vero,
e morir mostri, e respirare in uno.
Ma diamo fin, che saria lungo il dire,
144
se descriver volessi a parte,
e del mio gran Michel scrivere in carte,
fatto stupor nel secol nostro al mondo.
Voi note mie, già che canzon non sete,
né cosa ch’ammirar altri vi deggia,
non perciò dubitate palesarvi;
e s’odio o pur se invidia di qualch’uno
dirrà ch’altri v’è uguale a le sue lodi,
dite ch’unico il tempo esser farallo.
Per lo ritratto del Cardinal Serafino fatto da Michel Angiol da Caravaggio:
Angiol esser doveva,
ch’a voi gran Serafino,
nove forme arrecasse, et nova vita,
dal ciel ambo discesi, onde ben fosse
degno lui ritrar voi, voi di lui degno.
Lode del Caravaggio:
Quest’Angiolo celeste,
che dona vita e tele, alma a colori,
e con Natura a gara,
produce meraviglie tante, et preste,
e di lei vie maggiori,
ch’ella imperfette al nascimento falle,
questi nate et perfette:
o stupor grande ch’il pensier trapassa!
Per la morte di Michel Angiol da Caravaggio, in Port’Ercole:
Morto sei tu, Michel? Tu ch’animasti,
con l’angelico spirto, i bei colori?
Ahi che le gratie spente ancho e gl’Amori,
con quai l’opre tue chiare al ciel alzasti.
Al paro di Natura in guisa oprasti,
che somigliaro i vostri alti lavori,
ond’ella dubitando de gl’honori a lei dovuti, fè che tu mancasti.
Troppo in alto salendo Icaro cadde
Ne l’onde che da lui pigliaro il nome,
e fu de l’ardir sua pena ed oltraggio.
Ma tu d’Hercole in sen, suo figlio, come
Secur non fusti che morir t’accadde?
Ah con morte non giova anch’esser saggio.
Per l’istesso:
Al mondo morto sei, non a te stesso,
né a la gloria che di te risuona,
Angel Humano già, ma hor ch’hai corona
In ciel, divino, al sommo bene appresso.
Le bellezze mirar già t’è concesso
145
Del grande Dio, ch’il premio hora a te dona
De le fatiche tue, d’ogni opra buona,
e quel che t’era ascoso, hor vedi espresso.
Fra i travagli del mondo, e le tempeste
vivesti ad altri, hor a te solo vivi,
da mortal vita,
ad immortal rinato.
Il bello sparso, che vivendo, univi,
altrui rende stupore, a te ‘l celeste,
che di vederlo, a noi ancho sia dato.
Per lo medesimo:
Varacato il mar d’atre tempeste humane,
ti godi in cielo i meritati honori,
Angel nuovo Michel, d’ogni mal fuori,
queste cose del mondo a te son vane.
L’invidie tutte hor stan da te lontane,
ch’il volgo (altri mancato) de gl’errori
s’accorge, in non conoscere i migliori,
che poi stupido e stolto ne rimane.
O riportata in ciel anima bella,
ritolta al mondo che virtù non cura,
indegno di sì grande alto intelletto.
Se doppo morte esser amico dura,
accetta queste voci anchor, con quella
mente sincera che m’uscir dal petto.
146
Giulio Cesare Gigli, La pittura trionfante, Venezia 1615, ed. a cura di B. Agosti e
S. Ginzburg, Porretta Terme (Bologna) 1996, p. 53.
Della pittura trionfante parte quarta ed ultima:
«Non so se tu discerni appo di quelli
que duo nati sul Po famosi tanto,
quasi moderni Dossi,
mondino ti dich’io de’ Scarscellini,
ed Ippolito il figlio?
ch’emuleggiando l’antich’opre vanno,
sì che la diva eccelsa
sempre tra i buoni gli ha tenuti a core.
Ma di tutti costoro
sarà ben ch’io t’esponga e patria e nome,
di mano in man che mi si fanno agl’occhi».
Così dicendo traevamo eguali dietro alla turba le parole e i passi,
quand’ecco s’offre di ciascuno avanti
di fantastico umor, certo bizzarro,
pallido in viso, e di capillatura
assai grande, arricciato,
gli occhi vivaci, sì, ma incaverniti,
ch’uno aureo baston portava in mano
per allentar, per stringer, per condurre,
come piaceva a lui,
dietro alla Donna l’onorata gente.
Ond’io verso l’amico
fei sì, ch’ei chiaro apprese
com’io bramava di saper di quegli
ogni condizione e circostanza.
A che tosto rispose:
«O felice ch’arriva a segno tale!
Quest’è il gran Michelangel Caravaggio,
il gran protopittore,
meraviglia dell’arte,
stupor della natura,
sebben versaglio poi di rea fortuna».
147
Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la pittura, in Discorsi sulle arti e sui
mestieri, a cura di A. Banti, Firenze 1981, pp. 43-44.
Decimo, è il modo di dipingere, come si dice, di maniera, cioè che il pittore con
lunga pratica di disegno e di colorire, di sua fantasia senza alcun esemplare, forma in
pittura quel che ha nella fantasia, così teste, o figure intiere, come in istorie compite,
o qualsivoglia altra cosa di disegno e colorito vago, nel quale modo ha dipinto a’
tempi nostri il Barocci, il Romanelli, il Passignano, e Giuseppe d’Arpino,
particolarmente nelle pitture a fresco in Campidoglio, nel che ha prevalso assai; ed in
questo modo molti altri hanno a olio fatto opere assai vaghe e degne di lode.
Undecimo modo, è di dipingere con avere gli oggetti naturali d’avanti.
S’avverta però che non basta farne il semplice ritratto; ma è necessario che sia fatto il
lavoro con buon disegno, e con buoni e proporzionati contorni, e vago colorito e
proprio, che dipende dalla pratica di sapere maneggiare i colori, e quasi d’istinto di
natura, e grazia a pochi conceduto; e soprattutto con saper dare il lume conveniente
al colore di ciascheduna parte, e che i sudici non sieno crudi, ma di farli con dolcezza
ed unione; distinte però le parti oscure, e le illuminate, in modo che l’occhio resti
soddisfatto dell’unione del chiaro e scuro senza alterazione del proprio colore, e
senza pregiudicare allo spirito che si deve alla pittura, come ai tempi nostri, lasciando
gli antichi, hanno dipinto il Rubens, Gris Spagnolo, Gherardo, Enrico, Teodoro, ed
altri simili, la maggior parte Fiamminghi esercitati in Roma, che hanno saputo ben
colorire.
Duodecimo modo, è il più perfetto di tutti; perché è il più difficile; l’unire il modo
decimo con l’undecimo già detti, cioè dipingere di maniera, e con l’esempi avanti del
naturale, che così dipinsero gli eccellenti pittori della prima classe, noti al mondo; ed
altri ai nostri dì il Caravaggio, i Carracci e Guido Reni, ed altri tra i quali taluno ha
premuto più nel naturale che nella maniera, e taluno più nella maniera che nel
naturale, senza però discostarsi dall’uno, né dall’altro modo di dipingere, premendo
nel buon disegno, e vero colorito, e col dare i lumi propri e veri.
148
Giovan Battista Marino, La Galeria, Venezia 1620, pp. 225, 235.
La testa di Medusa in una rotella di Michelangelo da Caravaggio,
nella galleria del Gran Duca di Toscana:
Or quai nemici fian, che freddi marmi
non divengan repente
in mirando, Signor, nel vostro scudo
quel fier Gorgonie, e crudo,
cui fanno orribilmente
volumi viperini
squallida pompa e spaventosa ai crini?
Ma che! Poca fra l’armi
a voi fia d’uopo il formidabil mostro:
chè la vera Medusa è il valor vostro.
In morte di Michelagnolo da Caravaggio:
Fecer crudel congiura
Michele, à danni tuoi Morte, e Natura.
Questa restar temea
dala tua mano in ogni imagin vinta,
ch’era da te creata, e non dipinta.
Quella di sdegno ardea,
perché con larga usura
quante la falce sua genti struggea,
tante il pennello tuo ne rifacea.
149
Virgilio Malvezzi, Successi principali della monarchia di Spagna nell’anno 1639,
Bologna 1640, p. 5.
S’obblighi l’istoria alla verità , il pittore al naturale, e benché quella e questa
siano una sola cosa, non è una sola la maniera di scriverla e dipingerla.
Grande istorico fu Salustio, Tito Livio, Tacito; gran pittore Raffaele, Titiano e ‘l
Correggio, degni di maraviglia; nondimeno scrissero e dipinsero con differenti
modi e linee.
Né meno s’ha da credere ch’il campo che prima si riconobbe libero si deve ora
limitare alle precise regole di que’ segnalati valentuomini.
Guido da Bologna e Michele Angelo Caravaggi, quando la nostra ignoranza
pubblicava già stracca la natura, uscirono alla luce con un modo nell’eseguire
nuovo avantaggiandosi agli antichi, l’uno con la forza del dipingere, l’altro con
la nobiltà dell’aria; perché non può ancora manifestarsi un istorico che superi
gli altri?
150
Giovan Battista Agucchi, Trattato della Pittura, in D. Mahon, Studies in Seicento
Art and Theory, London 1947, pp. 256-257.
Demetrio, benché questi fosse scultore, andò tanto dietro alla somiglianza, che
alla bellezza non ebbe riguardo.
Ma ai nostri tempi Raffaele e la Scuola Romana di quel secolo, come di sopra si è
detto, seguendo le maniere delle statue antiche, hanno sopra gli altri imitato i
migliori; e il Bassano è stato un Pierico nel rassomigliare i peggiori; e una gran parte
dei moderni, ha raffigurato gli eguali; e fra questi il Caravaggio eccellentissimo nel
colorire si dee comparare a Demetrio, perché ha lasciato indietro l’Idea della
bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine.
151
Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, ed. a cura di A. Marucchi e L.
Salerno, Roma, 1956-57, I, pp. 108-109; 120; 223-226.
Le quattro scuole dei pittori viventi:
Solute dunque le difficoltà et essendo già venuti al secolo de’ viventi, per poterli
meglio considerare si devon propor alcune cose che sono le seguenti, cioè: che
questi viventi si reducon a quattro ordini, classe o ver vogliam dire scuole, una
delle quali è quella del Caravagio, assai seguita, camminando per essa con fine,
diligentia e sapere Bartolomeo Manfredi, lo Spagnoletto, Francesco detto Cecco
del Caravagio, lo Spadarino et in parte Carlo Veneziano.
Proprio di questa schola è di lumeggiare con lume unito e che venghi da alto senza
reflessi, come sarebbe in una stanza da una finestra con le pariete colorite di nigro,
che così, avendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto scure, vengono a dar rilievo
alla pittura, ma però con modo non naturale né fatto, né pensato da altro Secolo o’
pittori più antichi, come Raffaello Titiano, Correggio, et altri.
Questa Scola in questo modo d’operare è molto osservante del vero, che sempre lo
tien davanti mentre che opera, fa bene una figura sola, mà nella composition
dell’Historia, et esplicar affetto, pendendo questo dall’Immaginatione e non
dall’osservanza della cosa per ritrar il vero che tengon sempre avanti, non mi par che
vagliano, essendo impossibil di mettere in una stanza una moltitudine d’huomini che
rappresentin l’historia con quel lume d’una finestra sola, et haver un che rida o
pianga o faccia atto di camminare e stia fermo per lasciarsi copiare, e così poi le lor
figure, ancorché habbin forza, mancano di moto, d’affetti e di gratia.
Requisiti per la bontà delle pitture:
Et avanti che si vada più oltre, si deve considerar il costume delle figure che
habbin quell’esser proprio in effigie, affetto et operatione, con la quale vogliamo
esprimere una persona che facci quella tal operatione.
E di qui si puol vedere quanto che alcuni di moderni faccin male, quali, per
descrivere una Vergine e Nostra Donna, vanno retrahendo qualche meretrice sozza
degli ortacci, come faceva Michelangelo da Caravaggio e fece nel Transito di Nostra
Donna, in quel quadro della Madonna della Scala.
Di Michelangelo Merisi da Caravaggio:
Deve molto questa nostra età a Michelangelo da Caravaggio, per il colorir che
ha introdotto, seguito assai comunemente.
Questo nacque in Caravaggio d’assai onorati cittadini, poiché il padre fu mastro di
casa et architetto del Marchese di Caravaggio; studiò da fanciullezza per 4 o 6 anni in
Milano con diligenza, ancorché di quando in quando facesse qualche stravaganza
causata da quel calor e spirito così grande.
Doppo se ne passò a Roma d’età incirca 20 anni dove, essendo poco provisto di
denari, stette con Pandolfo Pucci da Recanati, beneficato di S. Pietro, dove le
conveniva andar per la parte et altri serviti non convenienti all’esser suo, e quel che è
peggio, se la passava la sera con un insalata quale li serviva per antipasto, pasto e
postpasto e, come dice il caporale, per companatico e per stecco.
Donde dopo alcuni mesi partitosi con poca soddisfatione, chiamò poi questo
benifatio suo padrone monsignor Insalata.
152
In questo tempo fece per esso alcune copie di devozione che sono in Recanati, e per
vendere, un putto che piange per esser stato morso da un racano che tiene in mano, e
dopo pur un putto che mondava una pera con il cortello, et il ritratto d’un hoste dove
si ricoverava.
Fra tanto fu assalito da una malattia che, trovandolo senza denari, fu necessitato
andarsene allo Spedal della Consolatione, dove nella convalescenza fece molti quadri
per il priore che se li portò in Siviglia sua patria.
Doppo mi vien detto che stesse in casa del cavalier Giuseppe e di monsignor Fantin
Petrignani che li dava comodità d’una stanza.
Nel qual tempo fece molti quadri et in particolare una zingara che dà la buona
ventura ad un giovinetto, la Madonna che va in Egitto, la Maddalena convertita, un
S. Giovanni Evangelista.
E doppo il Cristo Deposto nella Chiesa Nuova, li quadri di San Luigi, la Morte della
Madonna nella Scala, che l’ha adesso il Serenissimo di Mantova, fatta levar di detta
chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratto una cortigiana, la
Madonna di Loreto in S. Agostino, quella dell’altar de’ Palafrenieri in S. Pietro,
molti quadri che possiede l’illustrissimo Borghese, al Popolo la Cappella del Cerasi,
molti quadri privati in casa Mattei, Giustiniani e Sannesio.
In ultimo, per alcuni eventi – che corse pericolo di vita che, per salvarsi, aiutato da
Onorio Longo, ammazzo l’inimico – fu necessario fuggirsi di Roma, e di primo salto
fu in Zagarola, ivi trattenuto sacratamente da quel principe, dove fece una Maddalena
e Cristo che va in Emaus che lo comprò in Roma il Costa.
Che con questi denari se ne passò in Napoli dove operò alcune cose.
E di lì se ne passò a Malta dove condusse alcune opere con gusto del Gran Maestro,
che in segno di honore, gli dette l’habito di sua religione.
Donde partitosi con speranza di rimettersi, viene a Portercole dove, soprapreso da
febbre maligna, in colmo di sua gloria, che era d’età di 35 in 40 anni, morse di stento
e senza cura et in un luogo ivi vicino fu seppellito.
Non si puol negare che per una figura sola, per le teste e colorito non sia arrivato ad
un gran segno e che la profession di questo secolo non li sia molto obbligata.
Ma questo suo gran sapere d’arte l’haveva accompagnato con una stravaganza di
costumi [...]
Onde non si può negare che non fusse stravagantissimo, e con queste sue stravaganze
non si sia tolto una decina d’anni di vita et minutasi in parte la gloria acquistata con
la professione: e col viver si sarebbe aumentato con grand’utile de’ studiosi di simil
professione.
153
Vicente Carducho, Dialogos de la pintura, Madrid 1633, ed a cura di Francisco
Calvo Seraller, Madrid 1979, pp. 201-202, 270-271.
En nuestros tiempos se levantò en Roma Michael Angelo de Carabaggio, en el
Pontificado del Papa Clemente VIII con nuevo plato, con tal modo, y salsa
guisado, con tanto sabor, apetito y gusto, que pienso se ha llevado el de todos
con tanta golosina y licencia, que temo en ellos alguna apoplexia en la verdadera
doctrina: porque le siguen glotonicamente el mayor golpe de los Pintores, no
reparando si el calor de su natural (que es su ingenio) es tan poderoso, ò tiene la
actividad que el del otro, para poder digerir simple tan recio, ignoto, e
incompatible modo, como es el obrar sin las preparaciones para tal accion?
Quien pintò jamas y llegò a hazer tan bien como este monstruo de ingenio, y
natural, casi hizo sin preceptos, sin doctrina, sin estudio, mas solo con la fuerza
de su genio, y con el natural delante, a quien simplemente imitava con tanta
admiracion?
Oi dezir a un zeloso de nuestra profesion, que la venida deste ombre al mundo,
seria presagio de ruina, y fin de la pintura, y que asi como al fin deste mundo
visibile, el Anticristo con falsos y portentosos milagros, y prodigiosas acciones se
llevarà tras de si a la perdicion tan grande numero de gentes, movidas de ver
sus obras, al parecer tan admirables (dunque ellas en si enga_osas, falsas, y sin
verdad, ni permanencia) diziendo ser el verdadero Cristo, asi este
AnteMichelAngelo con su afectada y exterior imitacion,admirabile modo y
viveza, ha podio persuadir a tan grande numero de todo genero de gente, que
aquella es la buena pintura, y su modo y doctrina verdadera, que han buelto las
espaldas al verdadero modo de eternizarse, y de saber con evidenzia y verdad
desta materia.
A los que hazen las tales pinturas de simple imitacion, los venero como a
medicos impiricos, que sin saber la causa hazen obras milagrosas: y es certo que
en el tribunal de los sentidos tendran aplauso grande, y sus obras causaran
adombro, enga_ando tal vez el de la vista con la afectuosa imitacion, y de todos
los que militan en este tribunal, no dublo se llevaran la voz y el Victor; si bien en
el de la razon y entendimiento no osarar paracer […]
Que se hagan pinturas con tanta semejanza y viveza que basten a enga_ar la
vista, pensando ser verdadero lo que està pintado, concedo que puere ser,y que
teles pinturas seràn dignas de penombre, tanto, que pienso que las que vemos oi
de aquellos grandes hombres, tan estmados y celebrados entre los eruditos y
doctos, carecen desta prompta viveza, y afectuosa propriedad exterior, para ser
en todos perfectas; y como queda dicho, si ellos vieran la osadia y facilidad que
oi vemos en las colores no dudo que con admiracion las celebraran.
154
Francisco Pacheco, Arte de la pintura, Sevilla 1649, ed. a cura di F. J. Sanchez
Canton, Madrid 1956, p. 404.
Porque muchos valientes pintores pasaron sin la hermosura y suavidad, pero no
sin el relievo, como el Basan, Michael Angelo Caravacho y nuestro espa_ol
Jusepe de Ribera; y aùn tambièn podemos poner en este numero a Dominico
Greco, porque dunque escribimos en algunas partes contra algunas opiniones y
paradoxas suyas, no lo podemos excluir del numero de los grandes pintores,
viendo (en aquella su manera), que igualan a las de los mayores hombres (como
se dice en otro lugar); y no sòlo se ve la verdad de lo que vamos dicendo en estos
pocos que hemos puesto por exemplo, pero en otros muchos que los siguen: que
no sòlo no pintan cosas hermosas, mas antes ponen su principal cuidado en
efectar la fealdad y la fierezza.
155
Karel van Mander, Het Schilderboeck, Alkmaar 1604, ed. italiana a cura di Ricardo
de Mambro Santos, Sant’Oreste 2000, p. 191.
A Roma c’è un certo Michel Angelo da Caravaggio che fa cose meravigliose:
anch’egli, come Giuseppe d’Arpino, innalzatosi dalla povertà con la diligenza,
con la forza ed il coraggio, mettendo mano a tutto e tutto prendendo, come
fanno coloro che non vogliono restare in basso per la loro timidezza, ma si
mostrano franchi e cercano con decisione soprattutto il loro vantaggio, ciò che
se accade in modo onesto non è da biasimare, poiché la fortuna non usa di
frequente offrirsi spontaneamente, ma qualche volta occorre anche cercarla,
provocarla e pregarla.
Questo Michel Angelo con le sue opere ha già raggiunto gran fama e si è fatto
un nome.
Egli è uno di quelli che non fanno molto conto delle opere di alcun maestro, anzi
non loda apertamente neanche sé stesso.
Egli dice che non si tratta che di bagattelle, cose infantili e menzognere, non
importa che cosa si dipinga o da chi sia dipinto, quando non si è fatto e
raffigurato dal vero, e che non c’è nulla di buono o di meglio, che seguire la
natura.
Ne deriva che egli non esegue un solo tratto senza farlo direttamente dal
modello vivo, copiandolo e dipingendolo.
Certo questa non è una cattiva via per giungere a buon fine, perché dipingere
servendosi di disegni non è così sicuro come tenere il vero davanti a sé e seguire
la natura in tutta la varietà dei suoi colori; ma bisogna principalmente adottare
il criterio di scegliere dal bello le cose più belle.
Per giunta accanto al buon grano c’è l’erbaccia, ch’egli non si dedica allo studio
con assiduità: quando ha lavorato quindici giorni, si dà al bel tempo per un
mese.
Spada al fianco e un paggio dietro di sé, si porta da un campo di gioca all’altro;
sempre pronto a rissare e ad azzuffarsi; tanto che non è troppo comodo
accompagnarsi con lui.
Tutto ciò non rassomiglia molto alla nostra professione; poiché Marte e
Minerva non sono mai stati troppo amici; ma, per quanto riguarda il fare delle
sue opere, esso è tale da incontrare moltissimo e offre ai giovani pittori un
modello ammirevole da seguire.
156
Joachim von Sandrart, Teutsche Academie, Nürnberg 1675, ed. latina Nürnberg
1683, pp. 181-182.
Caravagii Italorum primis relicta veteri metodo simplicissimam sequebatur
naturam atque vitam: unde nunquam penicillum nisi ad viva exemplaria
applicabat, rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec
veritatem colore assecutus esset.
Ut autem rotundam corporum molem et naturalem rerum elevationem eo melius
exprimeret, data opera conclavibus utebatur obscuriribus est supernis uno lumine
minore collustratis, ut ideae lumen est finestra allapsum eo minus alio lumine
impediretur, umbre autem eo fortiores prodirent, adeoque debita exhinc resultaret
extuberantia.
Omnia igitur contemnebat, quea ad viva exemplaria picta non essent, nugas eadem,
titivilitium, et opera cartacea appellando, cum nihil bonum dici posset, nisi quod
naturam quam proxime imitaretur.
Quae via sane ad perfectionem aspirandi non est contemnenda; modo in coeteris
theoria haud desit, cum nulla idea, nullumque prototypum diagraphicum, qyantumvis
optimum naturae ipsi aequiparari queat.
Unde hanc methodum deinceps omnes sequebantur Itali, structis pariter conclavibus
pictoris; quae via deinde et in Germania atque Belgio introduca est.
Quamvis autem ob artem suam esimian gloria merito plurima dignus esset,
conversatione tamen quasi intolerabilis erat, quod non tantum omnium aliorum opera
facile carperet sed et ad litigia pronus esset, et gladio manuque promtus ad duella
prorueret.
157
Giovanni Baglione, Le Vite de’ Pittori Scultori et Architetti, Roma 1642, ed. a
cura di C. Gradara Pesci, Velletri 1924, pp. 136-139.
Vita di Michelagnolo da Caravaggio, Pittore:
Nacque in Caravaggio di Lombardia Michelagnolo, e fu figliuolo d’un maestro,
che murava edifici, assai bene, di casa Amerigi.
Diedesi ad imparare la dipintura, e non avendo in Caravaggio, chi a suo modo
gl’insegnasse, andò egli a Milano, e alcun tempo dimorovvi.
Dapoi se ne venne a Roma con animo di apprender con diligenza questo virtuoso
esercitio.
E da principio si accomodò con un pittore Siciliano, che di opere grossolane tenea
bottega.
Poi andò a stare in casa del Cavalier Gioseppe Cerasi d’Arpino per alcuni mesi.
Indi provò a stare da se stesso, e fece alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti.
Et il primo fu un Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse, con gran diligenza fatte;
ma di maniera un poco secca.
Fece anche un fanciullo, che da una lucerta, la quale usciva da fiori, e da frutti, era
morso; e parea quella testa veramente stridere, e il tutto con diligenza era lavorato.
Pur non trovava a farne esito, e darli via, e a mal termine si ridusse senza denari, e
pessimamente vestito si, che alcuni galant’huomini della professione, per carità,
l’andavano sollevando, infin che Maestro Valentino a S. Luigi de’ Francesi
rivenditore di quadri gliene fece dar via alcuni; e con questa occasione fu conosciuto
dal Cardinal Del Monte, il quale per dilettarsi assai della pittura, se lo prese in casa, e
avendo parte, e provisione pigliò animo, e credito, e dipinse per il Cardinale una
musica di alcuni giovani ritratti dal naturale, assai bene, e anche un giovane che
sonava il lauto, che vivo e vero il tutto parea con una caraffa di fiori piena d’acqua,
che dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente si scorgea con altri
ripercorrimenti di quella camera dentro l’acqua, e sopra quei fiori eravi una viva
rugiada con ogni esquisita diligenza finta,
E questo (disse) che fu il più bel pezzo che facesse mai.
Effigiò una Zinghera, che dava la ventura ad un giovane col bel colorito.
Fece un Amore divino, che sommetteva il profano.
E parimente una testa di medusa con capelli di vipere, assai spaventosa sopra una
rotella rapportata, che dal Cardinale fu mandata in dono a Ferdinando gran Duca di
Toscana.
Per opera del suo cardinale hebbe in S. Luigi de’ Francesi la cappella de’ Contarelli,
ove sopra l’altare fece il S. Mattheo con un Angelo.
A man dritta, quando l’Apostolo è chiamato dal Redentore, e a man manca, quando
su l’altare è ferito dal carnefice con altre figure.
La volta però della cappella è assai ben dipinta dal Cavalier Gioseppe Cerasi
d’Arpino.
Quest’opera, per havere alcune pitture dal naturale, e per essere in compagnia d’altre
fatte dal Cavalier Gioseppe, che con la sua virtù havea presso i professori qualche
invidia acquistata, fece gioco alla fama del Caravaggio, e era da’ maligni
sommamente lodata.
Pur venendovi a vederla Federico Zucchero, mentre io era presente, disse: che
rumore è questo? E guardando il tutto diligentemente, soggiunse: io non ci vedo
altro, che il pensiero di Giorgione nella tavola del Santo, quando Cristo il chiamò
158
all’Apostolato; e sogghignando, e meravigliandosi di tanto rumore, voltò le spalle, e
andossene con Dio.
Per il Marchese Vincenzo Giustiniani fece un Cupido a sedere dal naturale ritratto,
ben colorito sì, che egli dell’opere del Caravaggio fuor de’ termini invaghissi; ed il
quadro d’un certo S. Matteo, che prima avea fatto per quell’altare di S. Luigi , e non
era a veruno piaciuto, egli per essere opera di Michelagnolo, se ‘l prese; e in questa
opinione entrò il Marchese per li gran schiamazzi, che del Caravaggio havea dipinto
un S. Giovanni Battista, e quando Nostro Signore andò in Emmaus, e all’hora che S.
Thomasso toccò co’l dito il costato del Salvatore, e intaccò quel Signore di molte
centinaia di scudi.
Nella prima cappella della chiesa di Sant’Agostino alla man manca fece una
Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi, e
l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia, e per queste leggerezze in riguardo delle
parti, che una gran pittura haver dee, da popolani ne fu fatto estremo schiamazzo.
Nella Madonna del Popolo a man diritta dell’alter maggiore dentro la cappella dei
Signori Cerasi sui lati del muro sono di sua mano la Crocifissione di S. Pietro, e di
rincontro la conversione di S. Paolo.
Questi quadri prima furono lavorati da lui in un’altra maniera, ma perché non
piacquero al padrone, se li prese il Cardinal Sannesio; e se lo stesso Caravaggio vi
fece questi, che ora si vedono, a olio dipinti, poiché egli non operava in altra
maniera; e (per dir così) la Fortuna con la Fama il portava.
Nella chiesa nuova alla man dritta v’è del suo nella seconda cappella il Cristo morto,
che lo vogliono seppellire con alcune figure, a olio lavorato; e questa dicono, che sia
la migliore opera di lui.
Fece anch’egli in S. Pietro Vaticano una Sant’Anna con la Madonna, che ha il Putto
fra le sue gambe, e che con il piede schiaccia la testa ad un serpe; opera da lui
condotta per li palafrenieri di palazzo, ma fu levata d’ordine de’ Signori Cardinali
della fabbrica, e poi da’ Palafrenieri donata al Cardinale Scipione Borghese.
Per la Madonna della Scala in Trastevere dipinse il transito di Nostra Donna, ma
perché havea fatto con poco decoro la Madonna gonfia, e con gambe scoperte, fu
levata via, e la comprò il Duca di Mantova e la mise in Mantova nella sua
mobilissima Galleria.
Colorì una Giuditta che taglia la testa ad Oloferne per li Signori Costi, e diversi
quadri per altri, che per non stare in luoghi pubblici, io trapasso, e qualche cosa de’
suoi costumi dispiego.
Michelagnolo Amerigi fu huomo satirico e altiero, ed uscia tal’hora a dir male di tutti
li pittori passati e presenti per insigni, che si sussero; poiché a lui parea d’haver solo
con le sue opere avanzati tutti gli altri della sua professione.
Anzi presso alcuni si stima haver esso rovinato la pittura; poiché molti giovani ad
esempio di lui si danno ad imitare una testa dal naturale, e non studiando ne’
fondamenti del disegno e della profondità dell’arte, solamente del colorito appagansi,
onde non sanno mettere due figure insieme, né tessere historia veruna, per non
comprendere la bontà di sì nobile arte.
Fu Michelagnolo, per soverchio ardimento di spiriti, un poco discolo, e tal’hora
cercava occasione di ficcarsi il collo o di mettere a sbaraglio l’altrui vita.
Praticavano spesso in sua compagnia huomini anch’essi per natura brigosi: e
ultimamente affrontatosi con Ranuccio Tomassoni giovane di molto garbo, per certa
differenza di gioco di palla corda, sfidaronsi, e venuti all’armi, caduto a terra
159
Ranuccio, Michelagnolo lo tirò d’una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede
a morte.
Fuggirono tutti da Roma e Michelagnolo andossene a Pellestrina, ove dipinse una S.
Maria Maddalena, e d’indi giunse a Napoli, e quindi operò molte cose.
Poscia andossene a Malta, e introdotto a far riverenza al gran Maestro, fecegli il
ritratto; onde quel principe in segno di merito, dell’habito di S. Giovanni il regalò e
creollo Cavaliere di gratia.
E quindi avendo non so che disparere con un Cavaliere di Giustizia, Michelagnolo
gli fece non so che affronto e però ne fu posto in prigione, ma di notte tempo, scalò
le carceri e se ne fuggì, e arrivato all’Isola di Sicilia operò alcune cose in Palermo;
ma per esser perseguitato dal suo nemico, convennegli tornare nella città di Napoli; e
quivi ultimamente, essendo da colui giunto, fu nel viso così fattamente ferito, che per
li colpi quasi più non si riconosceva e disperatosi della vendetta, con tutto che egli vi
si provasse, misesi in una feluca con alcune poche robe, per venirsene a Roma,
tornando sotto la parola del Cardinal Gonzaga che col Pontefice Paolo V la sua
remissione trattava.
Arrivato ch’egli fu nella spiaggia, fu in cambio fatto prigione, e posto dentro la
carceri, ove per due ragioni ritenuto e poi rilasciato, più la feluca non ritrovava si,
che postosi in furia, come disperato andava per quella spiaggia sotto la sferza del Sol
Leone a veder se poteva in mare ravvisare il vascello, che le sue robbe portava.
Ultimamente arrivato in un luogo della spiaggia misesi in letto con febbre maligna, e
senza aiuto humano tra pochi giorni morì malamente come appunto male havea
vivuto.
Se Michelagnolo Amerigi non fusse morto sì presto, haveria fatto gran profitto
nell’arte per la buona maniera che presa havea nel colorire del naturale, benché egli
nel rappresentar le cose non avesse molto giudicio di scegliere il buono e lasciare il
cattivo.
Nondimeno acquistò gran credito, e più si pagano le sue tele che l’altrui historie,
tanto importa l’aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con le
orecchie. E nell’Accademia il suo ritratto è posto.
160
Luigi Scaramuccia, Le finezze de’ pennelli italiani, Pavia 1674, ed a cura di G.
Giubbini, Milano 1965, pp. 11, 75-76.
Venendo poi à più moderni, fecegli il Maestro Genio osservare l’Opere del
Caravaggio, fiero nel colorito, e dato all’imitazione del naturale a tutta briglia.
Michel’Angelo da Caravaggio con occasione del suo passaggio a Malta,
trattenendosi alcun tempo in Napoli, lasciò del suo pennello una Tavola d’Altare
situata nella chiesa di S. Anna de Lombardi, ov’è la resurrezione di Cristo, come
altresì un’altra nel Tempio della Misericordia sopra l’Altar Maggiore, nella cui per
appunto si espresse le Sette Opere di Misericordia con modo pittoresco ed’in tutto
bizzarro; e doppo ciò haver veduto si tragittarono di bel nuovo nella suddetta chiesa
di Sant’Anna a rimirar più curiosamente l’altra, e quando osservarono il Cristo, non
come d’oprdinario far si suole, agile e trionfante per l’aria; ma con quella sua
fierissima maniera di colorire, con un piede dentro e l’altro fuori dal sepolcro
posando in terra, restarono per simile stravaganza con qualche apprensione, tanto che
richiese Girupeno al Genio suo Maestro se potea immaginarsi per ciò che havesse
fatto il Caravaggio. A che rispose il Genio. Quantunque questo pittore habbi dato in
tal bizzarria, e che per essa ne sia stato gradito, piacendo ad ognuno la novità
dell’invenzioni, non resta però ch’ei non ne possa venire alquanto biasimato, essendo
uscito assai da quel decoro, che si conviene alla Persona di Cristo Signor Nostro.
Per finirla è stato quest’huomo un gran soggetto, ma non ideale, che vuol dire non
saper fare cosa alcuna senza il naturale avanti.
161
Francesco Scannelli, Il Microcosmo della Pittura, Cesena 1657, ed. a cura di G.
Giubbini, Milano, 1966, pp. 51-52, 197-199.
E per essere il vero, e ultimo scopo del buon Pittore l’imitatione de’ corpi
naturali, e non altro in fatti il laudabil dipinto, che un’espressione del già ben
concepito in ordine alla piena somiglianza de’ migliori oggetti di natura,
conseguentemente ne deriva, che quello, il quale mostra animare i colori con
artificio più eccellente, venendo a sortire l’effetto del bramato intento, pare, che
debba parimente raccogliere il frutto della maggior gloria, dove comparendo
Michelangelo da Caravaggio nel teatro del Mondo, unico mostro di naturalezza,
portato dal proprio istinto di natura all’imitatione del vero, e così ascendendo
dalla copia de’ fiori, e frutti, e da’ corpi meno perfetti e più sublimi, e dopo
gl’irrationali a gli umani ritratti, e finalmente operando intiere figure, e anco
talvolta componimenti d’historie con tal verità, forza e rilievo, che bene spesso
la natura, se non di fatto eguagliata, e vinta, apportando però confusione al
riguardante con istupendo inganno, allettava, e rapiva l’humana vista, e però fù
creduto da vari anco sopra d’ogni altro eccellentissimo.
Caravaggio, provvisto di particolar genio, mediante il quale dava con l’opere a
vedere una straordinaria e veramente singolare imitazione del vero, e nel
comunicar forza e rilievo al dipinto non inferiore, e forse ad ogni altro supremo,
privo però della necessaria base del buon disegno, si palesò poscia d’invenzione
mancante, e come del tutto ignudo di bella idea, gratia e decoro, architettura,
prospettiva ed altri simili convenevoli fondamentali.
E se Federico Barocci palesò con gli effetti dell’opere eccedere la virtù di
Michelangelo da Caravaggio ed altri simili rari imitatori della più apparente
naturalezza nel disegno, decoro, e bella gratia, dimostrarono però gli altri nei
loro dipinti, rilievo e maggior verità, e dello stesso Michelangelo, primo capo de’
naturalisti, stanno in pubblica vista della città di Roma la maggior parte ed
anco le migliori del suo qualificato pennello, e la prima e facilmente più
eccellente d’ogni altra si vede nella chiesa di di S. Luigi della Nazione Francese
l’ultima cappella nell’entrare a mano sinistra con la tavola che dimostra S.
Matteo con un angelo dalla parte di sopra, e alla parte destra l’historia pure del
santo quando fu chiamato da Cristo all’apostolato, veramente una delle più
pastose, rilevate e naturali operazioni, che venga a dimostrare l’artificio della
pittura per imitatione di mera verità, essendosi in tal luogo quasi del tutto
mancante il lume, in modo che opera tale per disgrazia dei virtuosi e dello stesso
autore non si può vedere che imperfettamente.
S. Giovanni Battista ignudo non potria dimostrare più vera carne quando fosse
vivo, si come l’Amoretto che si trova appresso al Principe Giustiniani, che fra i
dipinti privati di Michelangelo da Caravaggio sarà forse il più degno.
162
Cesare Malvasia, Felsina Pittrice: Vite Dei Pittori Bolognesi, Bologna 1678, ed. a
cura di M. Brascaglia, Bologna 1967, pp. 13, 75, 138, 169-170, 217.
Vita di Guido Reni:
L’Arpini, dichiarato nemico del Caravaggio si era proposto di procacciargli [al Reni]
que’ lavori che al Caravaggio dovevano esser destinati; come poi avvenne del S.
Pietro Crocifisso alle Tre Fontane fuor di Roma, promettendo egli al Card. Borghese
che sarebbesi Guido trasformato nel Caravaggio e l’avrebbe fatto di quella maniera
cacciata e scura, come bravamente eseguito si vede.
[Questo] tanto spiacque al Caravaggio che da uomo brigoso ch’egli era, incontrato un
giorno Guido gli disse che non lo stimava punto; e che se fosse venuto a Roma con
pensiero di competere seco, egli era pronto a dargli ogni soddisfazione in qual si
fosse modo.
[Il Reni] usò anche questa finezza che concorrendo il Caravaggio anch’egli al lavoro
della cupola della Santa Casa di Loreto, gli disse chi saria stato a fargli compagnia od
a servirlo nel modo che a lui fosse piaciuto di trattarlo […] Quell’altiero diede nelle
escandescenze […]
Stava perciò Guido con grande apprensione di costui che ben sapea quanto mai fosse
bestiale e risoluto come in questo affare ben poi mostrò; poiché toccata la Cupola al
Pomarancio gli diede o fece dare un brutto fregio sulla faccia.
Vita di Lionello Spada:
Perché diedesi ad alzare il modo di tingere, gli si insinuò tanto la maniera del
Caravaggio, che non contento di prendere l’imitazione da un S. Tommaso
toccante il Santissimo Costato, desiderò di praticarlo di persona quanto n’era
divenuto parzial divoto.
Vita di Alessandro Tiarini:
Gli piacquero anco le cose del Caravaggio per una certa purità, verità e forza del
colorito; meravigliandosi come tanto si sentisse da esse svegliare e rapire, quando
nulla poi di decoro, di maestà e d’erudizione vi trovava.
Vita di Francesco Albani:
Non potè mai tollerare [l’Albani], che si seguitasse il Caravaggio, scorgendo
essere quel modo il precipitio, e la totale ruina della nobilissima, e compitissima
virtù della Pittura, poiché se bene era da laudare in parte le semplice imitatione,
era nondimeno per partorire tutto quello, che ne è seguito in progresso di 40
anni.
Si vedono bensì imitazioni a somiglianza del vero, ma non già del verisimile, ne
si consegue il rappresentare il costume, ne meno le vivezze dei moti, e perché è
necessario fondare prima un concetto si và hora totalmente corrompendo, che
non si rappresentano concetti, ma ne anco concetto alcuno.
Hora, posto in abbandono quello che divinamente insegnò Raffaelle, si sono
posti a seguitare la strada del Caravaggio, che tutta è intenta ad oggetti di
ferma, non di moti vivaci, che vengano dall’intelletto, e che si eseguiscono col
possesso del disegno.
Non possono essere i Pittori egualmente eccellenti in tutte le parti.
163
Se il Caravaggio avesse avuto questi requisiti saria stato Pittore dirò Divino,
questo, non aveva cognizione nelle cose sopranaturali, mà stava troppo
attaccato al naturale.
Io conobbi un gran pittore più di nome che di fatti, il quale peccava molto nella
disposizione, e di cento partiti che li venivano nella sua debole immaginativa,
non afferrava mai, se non cosa debole, e sapea quella disposizione debole
cominciava col pennello l’opera, e andava conservando il cattivo proponimento
di prima, e nondimeno tutti i scolari applaudivano, così come moltissimi che non
erano della professione concorrevano col stupore del maneggio, o colorito, a me
veniva la nuova che l’opera era finita, e si disegnava, come perfettissima porla al
destinato loco.
Io addimando come può essere finita un’opera che non ha buon principio?
Questo pittore aveva applausi indicibili tra il volgo, ma fra gl’ intendenti poco per
ragione difettosa di mala disposizione, e nulla d’espressione.
Vita di Lorenzo Garbieri:
Dilettandosi egli troppo del tingere del Caravaggio, ritenendone per avventura
sempre nella sua più riposta, e dimestica stanza una copia, da lui stesso ricavata,
del S. Tommaso toccante nel Santissimo Costato la stessa fede, originale di
quell’autore.
164
Giovanni Battista Passeri, Vite de’ Pittori Scultori ed Architetti, Roma 1772, pp.
62, 65, 373.
Vita di Guido Reni:
Michel’Angelo da Caravaggio fece qualche giovamento al gusto di quella nuova
Scuola promossa da fratelli Carracci, e da’ loro scolari; perché, essendo uscito fuora
con tanto empito, e con quella sua maniera gagliarda, fece prender fiato al gusto
buono, et al naturale, il quale allora era bandito dal mondo, che solo andava perduto
dietro a un dipingere ideale, e fantastico, ma lontano dalla natura e dal vero, di cui
imitatrice fedele ha da essere la pittura.
Bene è vero che esso non abbellì il nuovo suo gusto con quelle vaghezze, colle quali
la scuola Carraccesca lo ha portato all’estremo, cioè rendendolo pieno di
piacevolezza, e di delizie, ricco nelli componimentii, adorno d’accompagnature, e
discreto in tutto il portamento; tutta via aperse una strada per la quale fece ritornare
in vita la Verità, che si era ad un certo modo da lunghi anni smarrita.
Il medesimo Car.le Borghesi, avendo ristaurata la Chiesa delle Tre fontane fuori
della Porta Ostiense o pure Trigemina, che sta un miglio oltra la Chiesa di San
Paolo, pensò di far dipingere li Quadri degl’Altari che sono laterali a quelle tre
fonti miracolose; in uno la decollazione del Santo Apostolo Paolo, il di cui capo
reciso fece, con tre sbalzi, scaturir, ad ogni balzo una fonte, come anche oggi si
vedono, e nell’altro la Crocefissione di San Pietro e pensò in Michel’Angelo da
Caravaggio, che all’ora sorgeva con qualche applauso.
Il Cav.re Gioseppino, che l’odiava per la ragion dell’opera della Cappella di San
Luigi de Francesi di San Matteo Apostolo ove dipinsero in concorrenza egli, el
Caravaggio, dalla quale nacquero tante fazioni contrarie, procuro, che
gl’uscisse di mano, accio, che restasse privo di occasioni di farsi conoscere
maggiormente; e gli sortì il suo intento, e procurò, che Guido avesse quello della
Crocefissione, e l’altro fù dato ad un altro pittore di poca levatura. Hauto, che
Guido hebbe il Quadro fù pregato dal Cavalier Gioseppe, che s’insegnasse di
dipingerlo nello stile del Caravaggio quanto alla forza di chiaro e scuro, e che
procurasse con la nobiltà della sua idea di superar quello nella maestà, e nel
decoro.
Esposto che ebbe il quadro [Guido] riceveva di continuo delle congratulazioni
dagli amici e da altri di quell’opera, e venendogli detto da uno che il suo quadro
era così bello che pareva di mano del Caravaggio, egli rispose con modestia,
piacesse a Dio, ne si sdegnò di questa lode, stimando nel suo concetto Michel
Angelo per huomo di valore, e non che venisse lodato solo da maligni, et atto a
dipingere solo i piedi fangosi, e cuffie sdrucite, e sudice come è stato oltraggiato
da alcuno.
Vita di Giovan Francesco Barbieri:
In quel tempo era sparso il grido di Michel’Angelo da Caravaggio, e piacendo
assai a lui [il Guercino] quel modo di dipingere, essendo molto geniale al suo
stile, si andava contenendo in quella maniera gagliarda, e vigorosa, la quale era
sua propria, ed il Caravaggio nel vedere l’opere di Giovan Francesco, si
rallegrava parendogli di havere nel numero dei suoi imitatori un’uomo di
qualche valore, e stima, et erano divenuti cordialissimi amici. In quel tempo
165
medesimo si negoziava l’opera della Cuppola della Chiesa nella quale è la Santa
Casa di Maria Vergine di Loreto, e doppo varietà di pareri nel darla ad un
pittore di qualche fama per essere quella opera di considerazione, e
riguardevole si concluse il partito di molti di quelli Deputati nelli quali era
riposta la risoluzione di quel lavoro, nella persona di Michel’Angelo per esser
quegli di stima, e di grido universale in una nuova maniera; ma perché il
concetto della sua persona, quanto al costume, era sinistro per la sua bestialità,
stavano alcuni altri perplessi nella risoluzione, timidi di mandare in quel Santo
Luoco un’huomo scandaloso, e di cattive qualità. Pensando di dargli un
compagno moderato e ben composto come per freno delle sue furie, elessero
Giovan Francesco…Andatosene il Barbieri a comunicarlo al Caravaggio…gli si
rivoltò quella fiera indomita con ira grandissima…Restò il povero Giovan
Francesco con mala soddisfazione per la perdita dell’amicizia del Caravaggio,
perdita accresciuta dal timore dell’indignazione di quel cervello torbido, capace
di prendere contro di lui qualche strana risoluzione.
166
Filippo Baldinucci, Notizie dei Professori del Disegno, Firenze 1681-1728, ed. a cura
di F. Ranalli, ristampa a cura di P. Barocchi, Firenze 1975, III, pp. 16; 680-690.
Notizie di Guido Reni:
Michelangnolo da Caravaggio fu un uomo fantastico e bestiale, che fattasi una
maniera del tutto nuova, con chiari aperti e profondissimi scuri tolti dal
naturale, accomodato al lume alto e gagliardo, tanto s’introdusse nel concetto
dei grandi che in breve si acquistò nome di singolarissimo pittori, e crebbe tanto
la fama di lui, che non andò molto, che si aveva per povera quella galleria e quel
museo, che non avesse alcun quadro di Caravaggio.
Notizie di Michelagnolo Morigi di Caravaggio:
Caravaggio rinomato castello di Lombardia, al quale debbono le nostre arti il
gradimento d’aver dato loro il tanto celebre Polidoro, un altro singolarissimo
artefice in questi tempi produsse, e fu questi Michelagnolo Morigi, il quale,
tuttoché nato in grembo alla povertà, altro esercizio non riconoscesse per suo
negli anni più freschi, che quello del portare il vassoio della calcina in servizio
delle fabbriche, seppe si bene seguitare i dettami del naturale suo genio a’
nobilissimi studi del disegno e della pittura, che fece poi quella nobile riuscita,
che a Roma e nell’Europa tutta fu manifesta.
Questi adunque nel lavorare, che e’ faceva in quell’età in aiuto del padre, che
attendeva all’arte del murare nella città di Milano, s’abbattè a far certe colle
per alcuni pittori, che quivi dipingevano a fresco e a tempera; e con tale
occasione innamoratosi di loro mestiero, e per tale cagione partitosi dal padre,
con essi loro si accompagnò, e in cinque anni fece tal profitto, che già dipingeva
ritratti dal naturali, che gli venivano molto lodati.
Ma con ciò fusse cosa chè egli avesse un cervello stravagante, poco inclinato al
rispetto, e fusse di risse e contese amico assai, non andò molto, che avendo avuta
una briga con non so chi, gli fu d’uopo il partirsi da Milano.
Portossi a Venezia, dove ogni altra maniera tralasciando, a quella solamente di
Giorgione si attenne; poi si portò nella città di Roma e dal Cavalier d’Arpino,
che già aveva scorto Michelagnolo per buonissimo naturalista, fu egli subito
applicato a dipigner fiori e frutti; ma mal sopportava Michelagnolo il vedere
morir suo genio fra l’angustie di sì fatto lavoro, lasciò l’Arpino, risoluto di darsi
in tutto e per tutto allo studio dell’umane forme in sul vero, perché non volle
mai tirare una linea, non che studiare, sopra l’opere di Michelagnolo, di
Raffaello, o degli antichi […]
E perché chiara cosa è, che talora il più nuovo piace più che il più bello, in un
subito da’ pittori, e particolarmente dai giovani, fu alzato un grido grande per
Roma, contribuendo a ciò molto il ritrovare ch’e’ facevano in esso modo una
certa libertà d’operare, e dar gusto col solo applicar tutti loro stessi
all’imitazione del naturale, e particolarmente nell’inventare; per cui seguendo
quella maniera, sciolti dalle tante e varie leggi dell’arte, imitavano tal maestro,
osservando gli atti degli uomini, e il loro naturale vestimento e portatura, cosa
pure ch’a’ più vecchi, ed a quegli che ben pratichi erano ne’ buoni precetti,
molto dispiacque, e da questi era tacciato Michelagnolo di povero di disegno e
d’invenzione, di gravità e di decoro, d’aver poco gusto in prospettiva; ma ciò
167
seguì sempre senza frutto, perché la fama del Caravaggio sempre accrescevasi
in Roma […]
Fu il Caravaggio, siccome d’animo scomposto, poco grato nel conversare, e
pronto al risentimento, così d’aspetto rozzo, e brutto anzi che no, e fu si facile
all’alzar delle mani, che sarebbe egli per ordinario stato fuggito da ogni
persona, se non quanto da quelle di buon fratto piacevoli e civili, era talora
praticato per lo fine solamente di non averlo per nemico […]
Fu anche costui tanto pieno di concetto di suo sapere, che non vedeva fra i
professori, chi accostar si potesse a fare con lui paragone, e quantunque
verissima cosa fusse, che egli avesse recato grad’utile all’arte col suo nuovo
modo di dipingere, in forza di di tutta imitazione del naturale, e lontano da ogni
affettazione di pennello, e coll’usar ch’ei fece con gran giudizio e verità degli
scuri, tanto che il Guercino da Cento, e lo stesso Guido Reni avvezzi ai solissimi
precetti della carraccesca scuola, vollero accostarsi alquanto al suo fare, come
mostrarono alcune loro opere, come particolarmente si scorge nella bella tavola
di Guido della crocifissione di S. Pietro alle Tre Fontane, non fu però che egli
non apportasse all’arte medesima alcun danno, mercè l’essere stato egli, a
cagione, come si disse, di poca intelligenza dei piani, e della prospettiva, quasi
inventor dell’uso tanto dopo di lui praticato da’ pittori di fare mezze figure, le
quali, non son l’ultimo termine del valore d’un uomo grande, ma sì bene il
rappresentare nobili e copiose istorie, con cui empiersi l’animo e l’occhio del
savio spettatore di bell’idee e di vaghissime apparenze, e fece per lo più a far
vedere nelle sue tele atti di persone plebee, imitandone ogni gesto più vile, e quel
che è più, dando anche alle sacre pitture sì poco decoro coll’empierle ch’e’ fece
d’ogni bassezza […]
Perdonisi al Caravaggio questo suo modo d’usare il pennello; mentre egli volle
avversare in se medesimo quel proverbio che dice che ogni pittore dipigne se
stesso, mercè che s’osserva il modo, che egli usò nel conversare, si trova tale,
quale sopra accennammo; se ci voltiamo al portamento di sua persona lo
veggiamo stravagante quanto altro mai.
168
Giovanni Pietro Bellori, Le Vite de’ pittori scultori e architetti moderni, Roma, 1672,
ed. a cura di E. Borea, Torino 1976, pp. 211-233.
Vita di Michelangelo Merigi da Caravaggio pittore
Dicesi che Demetrio antico statuario fu tanto studioso della rassomiglianza che
dilettossi più dell’imitazione che della bellezza delle cose; lo stesso abbiamo
veduto in Michelangelo Merigi, il quale non riconobbe altro maestro che il
modello, e senza elezione delle migliori forme naturali, quello che a dire è
stupendo, pare che senz’arte emulasse l’arte.
Dupplicò egli con la sua nascita la fama di Caravaggio, nobile castello di
Lombardia, patria insieme di Polidoro celebre pittore; l’uno e l’altro di loro si
esercitò da giovane ne4ll’arte di murare e portò lo schifo della calce nelle
fabbriche; poiché impiegandosi Michele in Milano col padre, che era muratore,
s’incontrò a far colle ad alcuni pittori che dipingevano a fresco, e tirato dalla
voglia di usare i colori accompagnassi con loro, applicandosi tutto alla pittura.
Si avanzò per quattro o cinque anni facendo ritratti, e dopo, essendo egli
d’ingegno torbido e contenzioso, per alcune discordie fuggitosene da Milano
giunse a Venezia, ove si compiacque tanto del colorito di Giorgione che se lo
propose per iscorta nell’imitazione.
Per questo veggonsi l’opere sue prime dolci, schiette e senza quell’ombre ch’egli
uso poi; e come di tutti li pittori veneziani eccellenti nel colorito fu Giorgione il
più puro e ‘l più semplice nel rappresentare con poche tinte le forme naturali,
nel modo stesso portossi Michele, quando prima si fissò intento a riguardare la
natura. Condottosi a Roma vi dimorò senza recapito e senza provvedimento,
riuscendogli troppo dispendioso il modello, senza il quale non sapeva dipingere,
né guadagnando tanto che potesse avanzarsi le spese.
Sichè Michele dalla necessità costretto andò a servire il Cavalier Giuseppe
d’Arpino, da cui fu applicato a dipinger fiori e frutti sì bene contraffatti che da
lui vennero a frequentarsi a quella maggior vaghezza che tanto oggi diletta.
Dipinse una caraffa di fiori con le trasparenze dell’acqua e del vetro e coi riflessi
della finestra d’una camera, sparsi li fiori di freschissime rugiade, ed altri
quadri eccellentemente fece di simile imitazione.
Ma esercitandosi egli di mala voglia in queste cose, e sentendo gran rammarico
di vedersi tolto alle figure, incontrò l’occasione di Prospero, pittore di
grottesche, ed uscì di casa di Giuseppe per contrastargli la gloria del pennello.
Datosi perciò egli a colorire secondo il suo proprio genio, non riguardando
punto, anzi spregiando gli eccellentissimi marmi de gli antichi e le pitture tanto
celebri di Rafaelle, si propose la sola natura per oggetto del suo pennello.
Laonde, essendogli mostrate le statue più famose di Fidia e Glicone, acciochè vi
accomodasse lo studio, non diede altra risposta se non che distese la mano verso
una moltitudine di uomini, accennando che la natura l’aveva a sufficienza
proveduto di maestri.
E per dare autorità alle sue parole, chiamò una zingana che passava a caso per
istrada, e condottala all’albergo la ritrasse in atto di predire l’avventure, come
sogliono queste donne di razza egiziana: facevi un giovine, il quale posa la mano
col guanto su la spada e porge l’altra scoperta a costei, che la tiene e la
169
riguarda; ed in queste due mezze figure tradusse Michele sì puramente il vero
che venne a confermare i suoi detti.
Quasi un simil fatto si legge di Eupompo antico pittore; se bene ora non è tempo
di considerare insino a quanto sia lodevole tale insegnamento.
E perché egli aspirava all’unica lode del colore, sichè paresse vera
l’incarnazione, la pelle e il sangue e la superficie naturale, a questo solo volgeva
intento l’occhio e l’industria, lasciando da parte gli altri pensieri dell’arte.
Onde nel trovare e disporre le figure, quando incontratasi a vederne per la città
alcuna che gli fosse piaciuta, egli si fermava a quella invenzione di natura, senza
altrimenti esercitare l’ingegno.
Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di
asciugarsi i capelli, la ritrasse in una camera, ed aggiungendovi in terra un
vasello d’unguenti, con monili e gemme, la finse per Maddalena.
Posa alquanto da un lato la faccia e s’imprime la guancia, il collo e ‘l petto in
una tinta pura, facile e vera, accompagnata dalla semplicità di tutta la figura,
con le braccia in camicia e la veste gialla ritirata alle ginocchia dalla sottana
bianca di damasco fiorato.
Quella figura abbiamo descritta particolarmente per indicare li suoi modi
naturali e l’imitazione in poche tinte sino alla verità del colore.
Dipinse in un maggior quadro la Madonna che riposa dalla fuga in Egitto: evvi
un angelo in piedi che suona il violino, San Giuseppe sedente gli tiene avanti il
libro delle note, e l’angelo è bellissimo, poiché volgendo la testa dolcemente in
profilo va discoprendo le spalle alate e ‘l resto dell’ignudo interrotto da un
pannolino. Dall’altro lato siede la Madonna, e piegando il capo sembra dormire
col bambino in seno.
Veggonsi questi quadri nel palazzo del principe Pamphilio, ed un altro degno
dell’istessa lode nelle camere del Cardinale Antonio Baraberini, disposto in tre
mezze figure ad un giuoco di carte.
Finsevi un giovinetto con le carte in mano, ed una testa ben ritratta dal vivo in
abito oscuro, e di rincontro a lui si volge in profilo un giovane fraudolente,
appoggiato con una mano su la tavola da gioco, e con l’altra dietro si cava una
carta falsa dalla cinta, mentre il terzo vicino al giovinetto guarda li punti delle
carte, e con tre dita della mano li palesa al compagno, il quale nel piegarsi sul
tavolino espone la spalla al lume in giubbone giallo listato di fasce nere, né finto
è il colore nell’imitazione.
Sono questi li primi tratti del pennello di Michele in quella schietta maniera di
Giorgione, con oscuri temperati; e Prospero acclamando il nuovo stile di
Michele accresceva la stima delle sue opere con util proprio fra le prime persone
della corte.
Il gioco fu comprato dal cardinal del Monte, che per dilettarsi molto della
pittura ridusse in buono stato Michele e lo sollevò, dandogli luogo onorato in
casa fra’ suoi gentiluomini.
Dipinse per questo signore una musica di giovini ritratti dal naturale in mezze
figure, una donna in camicia che suona il liuto con le note avanti, e Santa
Caterina ginocchione appoggiata alla rota; li due ultimi sono ancora nelle
medesime camere, ma riescono d’un colorito più tinto, cominciando già Michele
ad ingagliardire gli scuri.
170
Dipinse San Giovanni nel deserto, che è un giovinetto ignudo a sedere, il quale
sporgendo la testa avanti abbraccia un agnello; e questo si vede nel palazzo del
signor cardinal Pio.
Ma il Caravaggio, che così egli già veniva da tutti col nome della patria
chiamato, facevasi ogni giorno più noto per lo colorito ch’egli andava
introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma tutto risentito di
oscuri gagliardi, servendosi assai del nero per dar rilievo alli corpi.
E s’inoltrò egli tanto in questo suo modo di operare, che non faceva mai uscire
all’aperto del sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle
entro l’aria bruna d’una camera rinchiusa, pigliando un lume alto che scendeva
a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombra
a fine di recar forza con veemenza di chiaro e di oscuro.
Tanto che li pittori allora erano in Roma presi dalla novità, e particolarmente li
giovini concorrevano a lui e celebravano lui solo come unico imitatore della
natura, e come miracoli mirando l’opere sue lo seguitavano a gara, spogliando
modelli ed alzando lumi; e senza più attendere a studio ed insegnamenti,
ciascuno trovava facilmente in piazza e per via il maestro e gli esempi nel
copiare il naturale.
La qual facilità tirando gli altri, solo i vecchi pittori assuefatti alla pratica
rimanevano sbigottiti per questo novello studio di natura; né cessavano di
sgridare il Caravaggio e la sua maniera, divulgando ch’egli non sapeva uscir
fuori dalle cantine, e che, povero d’invenzione e di disegno, senza decoro e
senz’arte, coloriva tutte le sue figure ad un lume e sopra un piano senza
degradarle: le quali accuse però non rallentavano il volo alla sua fama.
Aveva il Caravaggio fatto il ritratto del Cavalier Marino, con premio di gloria
tra gli uomini di lettere, venendo nell’Accademie cantato il nome del poeta e del
pittore; s’ come dal Marino stesso fu celebrata particolarmente la testa di
Medusa di sua mano, che il cardinale del Monte donò al granduca di Toscana.
Tantochè il Marino, per una grandissima benevolenza e compiacimento
dell’operare di Caravaggio, l’introdusse seco in casa di monsignor Melchiorre
Crescenzi chierico di camera: colorì Michele il ritratto di questo dottissimo
prelato e l’altro del signor Virgilio Crescenzi, il quale, restato erede del
cardinale Contarelli, lo elesse a concorrenza di Giuseppino alle pitture della
cappella in San Luigi de’ Francesi.
Così il Marino, che era amico di questi pittori, consigliò che a Giuseppe,
praticissimo del fresco, si distribuissero le figure di sopra del muro ed a Michele
li quadri ad olio.
Qui avvenne cosa che pose in grandissimo disturbo e quasi fece disperare il
Caravaggio in riguardo alla sua riputazione; poiché avendo egli terminato il
quadro di mezzo di San Matteo e postolo su l’altare, fu tolto via da i preti con
dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di Santo, stando a sedere con
le gambe in cavalcate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo.
Si disperava il Caravaggio per tale affronto nella prima opera da esso
pubblicata in chiesa, quando il marchese Vincenzo Giustiniani si mosse a
favorirlo e liberollo da questa pena; poiché, interpostosi con quei sacerdoti, si
prese per sé il quadro e gliene fece fare un altro diverso, che è quello che si vede
ora sull’altare; e per onorare maggiormente il primo, portatolo a casa,
171
l’accompagnò poi con gli altri tre Vangelisti di mano di Guido, di Domenichino
e dell’Albano, tre li più celebri pittori che in quel tempo avessero fama.
Usò il Caravaggio ogni sforzo per riuscire in questo secondo quadro: e
nell’accomodare al naturale la figura del Santo che scrive il Vangelo, egli la
dispose con un ginocchio piegato sopra lo sgabello e con le mani al tavolino,
intingendo la penna nel calamaio sopra il libro.
In questo atto volge la faccia dal lato sinistro verso l’angelo, il quale sospeso su
l’ali verso il Santo, ignude le braccia e ‘l petto, con lo svolazzo d’un velo bianco
che lo cinge nell’oscurità del campo.
Dal lato destro l’altare vi è Cristo che chiama San Matteo all’apostolato,
ritrattevi alcune teste al naturale, tra le quali il Santo lasciando di contare le
monete, con una mano al petto, si volge al Signore; ed appresso un vecchio si
pone gli occhiali al naso, riguardando un giovane che tira a sé quelle monete
assiso nell’angolo della tavola.
Dall’altro lato vi è il martirio del Santo istesso in abito sacerdotale disteso sopra
una banca; e ‘l manigoldo incontro brandisce la spada per ferirlo, figura
ignuda, ed altre si ritirano con orrore.
Il componimento e li moti però non sono sufficienti all’istoria, ancorché egli la
rifacesse due volte; e l’oscurità della cappella e del colore tolgono questi due
quadri alla vista.
Seguitò a dipingere nella Chiesa di Santo Agostino l’altro quadro della cappella
de’ signori Cavalletti, la Madonna in piedi col fanciullo tra le braccia in atto di
benedire: s’inginocchiano avanti due pellegrini con le mani giunte, e ‘l primo di
loro è un povero scalzo li piedi e le gambe, con la mozzetta di cuoio e ‘l bordone
appoggiato alla spalla, ed è accompagnato da una vecchia con la cuffia in capo.
Ben tra le migliori opere che uscissero dal pennello di Michele si tiene
meritatamente in istima la Deposizione di Cristo nella Chiesa Nuova de’ Padri
dell’Oratorio; situate le figure sopra una pietra nell’apertura del sepolcro.
Vedesi in mezzo il sacro corpo, lo regge Nicodemo da piedi, abbracciandolo
sotto le ginocchia, e nell’abbassarsi le cosce escono in fuori le gambe.
Di là San Giovanni sottopone un braccio alla spalla del Redentore, e resta
supina la faccia e ‘l petto pallido a morte, pendendo il braccio col lenzuolo; e
tutto l’ignudo è ritratto con forza della più esatta imitazione.
Dietro Nicodemo si veggono alquanto le Marie dolenti, l’una con le braccia
sollevate, l’altra col velo a gli occhi, e la terza riguarda il Signore.
Nella Chiesa della Madonna del Popolo, entro la cappella dell’Assunta dipinta
da Annibale Carracci, sono di mano del Caravaggio li due quadri laterali, la
Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo, la quale istoria è
affatto senza azione.
Seguitava egli nel favore del marchese Vincenzo Giustiniani, che l’impiegò in
alcuni quadri, l’Incoronazione di spine e San Tomaso che pone il dito nella
piaga del costato del Signore, il quale gli accosta la mano e si svela il petto da un
lenzuolo, discostandolo dalla poppa.
Appresso le quali mezze figure colorì un Amore vincitore, che con la destra
solleva lo strale, ed a’ suoi piedi giacciono in terra armi, libri ed altri stromenti
per trofeo.
172
Concorsero al diletto del suo pennello altri signori romani, e tra questi il
marchese Asdrubale Mattei gli fece dipingere la Presa di Cristo all’orto,
parimente in mezze figure.
Tiene Giuda la mano alla spalla del Maestro, dopo il bacio; intanto un soldato
tutto armato stende il braccio e la mano di ferro al petto del Signore, il quale si
arresta paziente ed umile con le mani incrocicchiate avanti, fuggendo dietro San
Giovanni con le braccia aperte.
Imitò l’armatura rugginosa di quel soldato, coperto il capo e ‘l volto dall’elmo,
uscendo alquanto fuori il profilo; e dietro s’inalza una lanterna, seguitando due
altre teste d’armati.
Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispana, ed al
marchese Patrizi la Cena in Emaus, nella quale vi è Cristo in mezzo che
benedice il pane, ed uno de gli apostoli a sedere nel riconoscerlo apre le braccia,
e l’altro ferma la mani su la mensa e lo riguarda con meraviglia: evvi dietro
l’oste con la cuffia in capo ed una vecchia che porta le vivande.
Un’alta di queste invenzioni dipinse per lo cardinale Scipione Borghese,
alquanto differente; la prima più tinta, e l’una e l’altra alla lode dell’imitazione
del colore naturale; se bene mancano nella parte del decoro, degenerando spesso
Michele nelle forme umili e vulgari.
Per lo medesimo cardinale dipinse San Giroloamo, che scrivendo attentamente
distende la mano e la penna al calamaio, e l’altra mezza figura di Davide, il
quale tiene per li capelli la testa di Golia, che è il suo proprio ritratto,
impugnando la spada: lo figurò da un giovine discoperto con una spalla fuori
della camicia, colorito con fondi ed ombre fierissime, delle quali soleva valersi
per dar forza alle sue figure e componimenti.
Si compiacque il cardinale di queste e di altre opere che gli fece il Caravaggio, e
l’introdusse avanti il pontefice Paolo V, il quale da lui fu ritratto a sedere, e da
quel signore ne fu ben rimunerato.
Al cardinale Maffeo Barberini, che fu poi Urbano VIII sommo pontefice, oltre il
ritratto, fece il Sacrificio di Abramo, il quale tiene il ferro presso la gola del
figliuolo che grida e cade.
Non però il Caravaggio con le occupazioni della pittura rimetteva punto le sue
inquiete inclinazioni; e dopo ch’ei aveva dipinto alcune ore del giorno,
compariva per la città con la spada al fianco e faceva professione d’armi,
mostrando di attendere ad ogn’altra cosa fuori che alla pittura.
Venuto però a rissa nel giuoco di palla a corda con un giovane suo amico,
battutisi con le racchette e prese l’armi, uccise il giovane, restando anch’egli
ferito. Fuggitosene a Roma, senza denari e perseguitato ricoverò in Zagarolo
nella benevolenza del duca don Marzio Colonna, dove colorì il quadro di Cristo
in Emaus fra li due apostoli ed un’altra mezza figura di Maddalena.
Prese dopo il cammino per Napoli, nella qual città trovò subito impiego,
essendovi già conosciuta la maniera e ‘l suo nome.
Per la chiesa di San Domenico maggiore gli fu data a fare nella cappella de’
signori di Franco la Flagellazione di Cristo alla colonna, ed in Santa Anna de’
Lombardi la Risurrezione.
Si tiene in Napoli fra’ suoi quadri migliori la Negazione di San Pietro nella
Sagrestia di San Martino, figuratovi l’ancella che addita Pietro, il quale volgesi
173
con le mani aperte, in atto di negar Cristo; ed è colorito a lume notturno, con
altre figure che si scaldano al fuoco.
Nella medesima città per la Chiesa della Misericordia dipinse le Sette Opere in
un quadro lungo circa dieci palmi; vedesi la testa di un vecchio che sporge fuori
dalla ferrata della prigione suggendo il latte d’una donna che a lui si piega con
la mammella ignuda.
Fra l’altre figure vi appariscono li piedi e le gambe di un morto portato alla
sepoltura; e dal lume della torcia di uno che sostenta il cadavero si spargono i
raggi sopra il sacerdote con la cotta bianca, e s’illumina il colore, dando spirito
al componimento.
Era il Caravaggio desideroso di ricevere la croce di Malta solita darsi per grazia
ad uomini riguardevoli per merito e per virtù; fece però risoluzione di
trasferirsi in quell’isola, dove giunto fu introdotto avanti il Gran Maestro
Vignacourt, signore francese.
Lo ritrasse in piedi armato ed a sedere disarmato nell’abito di Gran Maestro,
conservandosi il primo ritratto nell’armeria di Malta.
Laonde questo signore gli donò in premio la croce; e per la chiesa di San
Giovanni gli fece dipingere la Decollazione del Santo caduto a terra, mentre il
carnefice, quasi non l’abbia colpito alla prima con la spada, prende il coltello
dal fianco, afferrandolo ne’ capelli per distaccargli la testa dal busto.
Riguarda intenta Erodiade, ed una vecchia seco inorridisce allo spettacolo,
mentre il guardiano della prigione in abito turco addita l’atroce scempio.
In quest’opera il Caravaggio usò ogni potere del suo pennello, avendovi lavorato
con tanta fierezza che lasciò in mezze tinte l’imprimitura della tela:sì che, oltre
l’onore della croce, il Gran Maestro gli pose al ollo una ricca collana d’oro e gli
fece dono di due schiavi, con altre dimostrazioni della stima e compiacimento
dell’operar suo.
Per la Chiesa medesima di San Giovanni, entro la cappella della nazione
Italiana dipinse due mezze figure sopra due porte, la Maddalena e San
Girolamo che scrive; e fece un altro San Girolamo con un teschio nella
meditazione della morte, il quale tuttavia resta nel palazzo.
Il Caravaggio riputatasi felicissimo con l’onore della croce e nelle lodi della
pittura, vivendo in Malta con decoro della sua persona ed abbondante di ogni
bene. Ma in un subito il suo torbido ingegno lo fece cadere da qual prospero
stato e dalla benevolenza del Gran Maestro, poiché venuto egli importunamene
a contesa con un cavaliere mobilissimo, fu ristretto in carcere e ridotto a mal
termine di strapazzo e di timore.
Onde per liberarsi si espose a gravissimo pericolo, ed scavalcata la notte la
prigione fuggì sconosciuto in Sicilia, così presto che non poté essere raggiunto.
Pervenuto in Siracusa fece il quadro per la chiesa di Santa Lucia che sta fuori
alla Marina: dipinse la Santa morta col vescovo che la benedice; e vi sono due
che scavano la terra con la pala per seppellirla.
Passando egli dopo a Messina, colorì a’ Cappuccini il quadro della Natività,
figurandovi la Vergine col Bambino fuori la capanna rotta e disfatta d’assi e di
travi; e vi è San Giuseppe appoggiato al bastone con alcuni pastori in
adorazione.
Per li medesimi Padri dipinse San Girolamo che sta scrivendo sopra il libro, e
nella chiesa de’ Ministri de gli infermi, nella cappella de’ signori Lazzari, la
174
Risurrezione di Lazzaro, il quale sostentato fuori del sepolcro, apre le braccia
alla voce di Cristo che lo chiama e stende verso di lui la mano.
Piange Marta e si maraviglia Maddalena, e vi è uno che si pone la mano al naso
per ripararsi dal fetore del cadavero.
Il quadro è grande, e le figure hanno il campo d’una grotta, col maggiore lume
sopra l’ignudo di Lazzaro e di quelli che lo reggono, ed è sommamente in istima
per la forza dell’imitazione.
Ma la disgrazia di Michele non l’abbandonava, e ‘l timore lo scacciava di luogo
in luogo; tantoché, scorrendo egli la Sicilia, di Messina si trasferì a Palermo,
dove per l’Oratorio della Compagnia di San Lorenzo fece un’altra Natività; la
Vergine che contempla il nato Bambino, con San Francesco e San Lorenzo, vi è
San Giuseppe a sedere ed un angelo in aria, diffondendosi nella notte i lumi fra
l’ombre.
Dopo quest’opera, non si assicurando di fermarsi più lungamente in Sicilia, uscì
fuori dall’isola e navigò di nuovo a Napoli, dov’egli pensava trattenersi fin tanto
che avesse ricevuto la nuova della grazia della sua remissione per poter tornare
a Roma; e cercando insieme di placare il Gran Maestro, gli mandò in dono una
mezza figura di Erodiade con la testa di San Giovanni nel bacino.
Non gli giovarono queste sue diligenze; perché, fermatosi egli un giorno sulla
porta dell’osteria del Cipiglio, preso in mezzo da alcuni con l’armi, fu da essi
mal trattato e ferito nel viso.
Ond’egli, quanto prima gli fu possibile montato sopra una feluca, pieno
d’acerbissimo dolore s’inviò a Roma, avendo già con l’intercessione del cardinal
Gonzaga ottenuto dal papa la sua liberazione.
Pervenuto alla spiaggia, la guardia spagnola, che attendeva un altro cavaliere,
l’arrestò in cambio e lo ritenne prigione.
E se bene fu egli tosto rilasciato in libertà, non però rivide più la sua feluca che
con le robbe lo conduceva.
Onde agitato miseramente da affanno e da cordoglio, scorrendo il lido al più
caldo del sole estivo, giunto a Porto Ercole si abbandonò, e sorpreso da febbre
maligna morì in pochi giorni, circa gli anni quaranta della sua vita, nel 1609,
anno funesto per la pittura, avendoci tolto insieme Annibale Carracci e Federico
Zuccheri.
Così il Caravaggio si ridusse a chiuder la vita e l’ossa in una spiaggia deserta, ed
allora che in Roma attendevasi il suo ritorno, giunse la novella inaspettata della
sua morte, che dispiacque universalmente; e ‘l cavalier Marino suo amicissimo
se ne dolse ed adornò il mortorio con li seguenti versi:
Fecer crudel congiura
Michele a’ danni tuoi Morte e Natura;
questa restar temea
da la tua mano in ogni imagin vinta,
ch’era da te creata, e non dipinta;
quella di sdegno ardea,
perché con larga usura,
quante la falce sua genti struggea,
tante il pennello tuo ne rifacea.
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Giovò senza dubbio il Caravaggio alla pittura, venuto in tempo che, non essendo
molto in uso il naturale, si fingevano le figure di pratica e di maniera, e
soddisfacevasi più al senso della vaghezza che della verità.
Laonde costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e
restituì ad esse il sangue e l’incarnazione, ricordando a’ pittori l’imitazione.
Non si trova però che egli usasse cinabri né azzurri nelle sue figure; e se pure tal
volta li avesse adoperati, li ammorzava, dicendo ch’erano il veleno delle tinte;
non dirò dell’aria turchina e chiara, ch’egli non colorì mai nell’istorie, anzi usò
sempre il campo e ‘l fondo nero; e ‘l nero nelle carni, restringendo in poche
parti la forza del lume.
Professatasi egli inoltre tanto ubbidiente al modello che non si faceva propria né
meno una pennellata, la quale diceva non essere sua ma della natura; e
sdegnando ogn’altro precetto, riputava sommo artificio il non essere obbligato
all’arte.
Con la quale novità ebbe tanto applauso che a seguitarlo sforzò alcuni ingegni
più elevati e nutriti nelle migliori scuole, come fece Guido Reni, che allora si
piegò alquanto alla maniera di esso, e si mostrò naturalista, riconoscendosi nella
Crocifissione di San Pietro alle Tre Fontane, e così dopo Giovan Francesco da
Cento.
Per le quali lodi il Caravaggio non apprezzava altri che se stesso, chiamandosi
egli fido, unico imitatore della natura; contuttociò molte e le migliori parti gli
mancavano, perché non erano in lui né invenzione né decoro né disegno né
scienza della pittura mentre tolto da gli occhi suoi il modello restavano vacui la
mano e l’ingegno.
Molti nondimeno, invaghiti della sua maniera, l’abbracciavano volentieri,
poiché senz’altro studio e fatica si facilitavano la via al copiare il naturale,
seguitando li corpi vulgari senza bellezza.
Così sottoposta dal Caravaggio la maestà dell’arte, ciascuno si prese licenza, e
ne seguì il dispregio delle cose belle, tolta ogni autorità all’antico e a Rafaelle,
dove per la comodità de’ modelli e di condurre una testa dal naturale, lasciando
costoro l’uso dell’istorie che sono proprie de’ pittori, si diedero alle mezze
figure, che avanti erano poco in uso.
Allora cominciò l’imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le
deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente: se essi hanno a dipingere
un’armatura, eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo fanno intiero, ma
sboccato e rotto. Sono gli abiti loro calze, brache e berrettoni, e così nell’imitare
li corpi si fermano con tutto lo studio sopra le rughe e i difetti della pelle e
dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi.
Per li quali modi il Caravaggio incontrò dispiaceri, essendogli tolti li quadri da
gli altari, come in san Luigi abbiamo raccontato.
La medesima sorte ebbe il Transito della Madonna nella chiesa della Scala,
rimosso per avervi troppo imitato una donna morta gonfia.
L’altro quadro di Sant’Anna fu tolto ancora da uno de’ minori altari della
Basilica Vaticana, ritratti in esso vilmente la Vergine con Gesù fanciullo ignudo,
come si vede nella Villa Borghese.
In Santo Agostino si offeriscono le sozzure de’ piedi del pellegrino; ed in Napoli
fra le Sette Opere della Misericordia vi è uno che alzando il fiasco beve con la
bocca aperta, lasciandovi cadere sconciamente il vino.
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Nella Cena in Emaus, oltre le forme rustiche delli due apostoli e del Signore
figurato giovine senza barba, vi assiste l’oste con la cuffia in capo, e nella mensa
vi è un piatto d’uve, fichi, melagrane fuori di stagione.
Si come dunque alcune erbe producono medicamenti salutiferi e veleni
perniciosissimi, così il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto
dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura.
E veramente li pittori, sviati dalla naturale imitazione, avevano bisogno di uno
che li rimettesse nel buon sentiero; ma come facilmente, per fuggire uno
estremo, s’incorre nell’altro, così nell’allontanarsi dalla maniera, per seguitar
troppo il naturale, si scostarono affatto dall’arte, restando negli errori e nelle
tenebre; finché Annibale Carracci venne ad illuminare le menti ed a restituire la
bellezza all’imitazione.
Tali modi del Caravaggio acconsentivano alla sua fisionomia ed aspetto: era egli
di color fosco, ed aveva foschi gli occhi, nere le ciglia ed i capelli; e tale riuscì
ancora naturalmente nel suo dipingere.
La prima maniera dolce e pura di colorire fu la migliore, essendosi avanzato in
essa al supremo merito e mostratosi con gran lode ottimo colorito lombardo.
Ma egli trascorse poi nell’altra oscura, tiratovi dal proprio temperamento, come
ne’ costumi ancora torbido e contenzioso; gli convenne però lasciar prima
Milano e la patria; dopo fu costretto fuggir di Roma e di Malta, ascondersi per
la Sicilia, pericolare in Napoli, e morire disgraziatamente in una spiaggia.
Non lasceremo di annotare li modi stessi nel portamento e vestir suo, usando
egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un abito,
mai lo tralasciava finchè non gli cadeva in cenci.
Era negligentissimo nel pulirsi; mangiò molti anni sopra la tela di un ritratto,
servendosene per tovaglio mattino e sera.
Sono pregiati li suoi colori dovunque è in conto la pittura; fu portata in Parigi la
figura di San Sebastiano con due ministri che gli legano le mani di dietro: opera
delle sue migliori.
Il conte di Benavente, che fu viceré di Napoli, portò ancora in Ispana la
Crocifissione di Santo Andrea, e ‘l conte di Villa Mediana ebbe la mezza figura
di Davide e ‘l ritratto di un giovane con un fiore di melarancio in mano.
Si conserva in Anversa, nella chiesa de’ Domenicani, il quadro del Rosario, ed è
opera che apporta gran fama al suo pennello.
Tiensi ancora in Roma essere di sua mano Giove, Nettuno e Plutone nel
Giardino Ludovisi a Porta Pinciana, nel casino che fu del cardinal del Monte, il
quale essendo studioso di medicamenti chimici, vi adornò il camerino della sua
distilleria, appropriando questi dei a gli elementi col globo del mondo nel mezzo
di loro.
Dicesi che il Caravaggio, sentendosi biasimare di non intendere né piani né
prospettiva, tanto si aiutò collocando li corpi in veduta dal sotto in su che volle
contrastare gli scorti più difficili.
E’ ben vero che questi dei non ritengono le loro proprie forme e sono coloriti ad
olio nella volta, non avendo Michele mai toccato pennello a fresco, come li suoi
seguaci insieme ricorrono sempre alla comodità del colore ad olio per ritrarre il
modello.
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Molti furono quelli che imitarono la sua maniera nel colorire dal naturale,
chiamati perciò naturalisti; e tra essi annoteremo alcuni che hanno maggior
nome.
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