Da “Eccellente coloritore” ad “Assassino della pittura”
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Da “Eccellente coloritore” ad “Assassino della pittura”
Lorenzoni Rachele Da “Eccellente coloritore” ad “Assassino della pittura”:Caravaggio nella letteratura artistica seicentesca CAPITOLO I AMICI E AMMIRATORI 1. Caravaggio nelle rime di Marzio Milesi Borghese agiato, giureconsulto romano, Marzio Milesi fu un importante intellettuale del XVII secolo. Capostipite del ramo romano dei Milesi, fu, nella prima metà del Cinquecento, il bergamasco Giovanni Antonio; la sua casa a Roma, famosa per la decorazione della facciata dipinta dal conterraneo Polidoro da Caravaggio 1, fu un punto di ritrovo per intellettuali e artisti, soprattutto per quelli lombardi, attratti dalle occasioni della corte 1 pontificia 2; figlio primogenito di Antonio fu Marzio, un uomo di grande vitalità intellettuale, con una grande passione per l’antiquaria, ma anche per la poesia e la letteratura, nonché per l’arte ed in modo particolare per la pittura. Egli fu autore di tre epigrafi, un epitaffio, un distico e ben tredici componimenti di varia forma, dedicati a Caravaggio, il pittore che si stava affermando tra pesanti polemiche e del quale, invece, Milesi fu ammiratore ed amico. La prima persona a darci notizia degli epigrafi, dell’epitaffio e del distico fu Roberto Longhi; il primo di questi componimenti può ritenersi scritto intorno al 1600 3, quindi quando il pittore era ancora in vita e riguarda solo la sua opera: «Mich. Ãgelo de Caravaggio/ pictori in/ consumati operis perfectione/ ac Naturae aemulatione/ praecipuo» 4. Su per giù contemporanea dovrebbe essere una seconda epigrafe: 1 A. Petrucci, Il Caravaggio acquafortista e il mondo calcografico romano , Fratelli Palombi editori, Roma, 1956, p. 125. 2 G. Fulco, Ammirate l’altissimo pittore:Caravaggio nelle rime inedite di Marzio Milesi , in Ricerche di storia dell’arte, n. 10, Roma, 1980, p. 67. 3 Petrucci, op. cit, p. 130. 4 Ibidem, p. 130. 2 «Mich. Angelo Merisio Firmi F./ e Caravagio/ pictori/ cuius inspicens simulacra/ vera esse corpore si ambiges/ ne mireris/ Naturae atque artis foedeus/ in illis est quod decipit/ Martius Milesius Jur.Cons/ amico benem/ F» 5. Gli altri due componimenti furono scritti in seguito alla scomparsa del Caravaggio e in uno di questi Milesi chiama il pittore, rinomato per essere iroso, diabolico, rissoso ed empio, «amico d’indole eccellente»: «Michaeli Angelo Merisio Firmi F./ de Caravagio/ in picturis iam non pictori/ sed Naturae prope aequali/ obiit in portu Herculis/ e Partenope illuc se conferens/ 5 Ibidem, p. 131. 3 Roman repetens/ XV Kal. Augusti/ anno Chri MDCX/ Vix ann. XXXVI mens. IX. D. XX/ Martio Milesius Jur. Cons./ amico eximiae indolis P.». «Pro imaginis simulacro/ Mich. Angel. Merisius de Caravagio/ aeques Hierosolomitanus/ naturae aemulatur eximius/ vix. Ann. XXXVI. M. IX. D. XX/ Moritur XVIII Julii MDCX»6. Prima di comporre questi versi, Milesi aveva dedicato a Caravaggio un distico elegiaco per lodare L’amore vittorioso, il quadro che il pittore aveva eseguito per il Marchese Vincenzo Giustiniani: «Omnia vincit amor, tu pictor et omnia vincis silicet ille animos,corpora tuque animos» 7. 6 7 Ibidem, p. 131. Ibidem, p. 132. 4 Per quanto riguarda i tredici componimenti, questi sono contenuti nello zibaldone autografo del Milesi, dal titolo Monumenta Ingenii Aliquot. Dobbiamo ricordare che Milesi non era un professionista, ma solo un cultore delle belle lettere, e che la sua poesia aveva un carattere sostanzialmente privato e comunque a diffusione limitata; questo gli permette anche di far girare buona parte della sua attività poetica intorno alla figura del Caravaggio, di cui celebra tutta l’importanza e la superiorità rispetto agli altri pittori. La grandezza del Caravaggio è espressa in termini generici nell’omaggio al pittore «anchor giovane», che viene accostato per affinità di nome a Michelangelo, e già viene visto come vincitore delle sue due «maestre», Natura ed Arte 8; tuttavia, nelle lodi successive, l’affermazione del Caravaggio è per Milesi indiscutibile; si vedano le lodi entusiastiche: «Ammirate l’altissimo pittore» 9 e l’approvazione che viene data del naturalismo caravaggesco, in opposizione alle “maniere” affidate all’ “artificio”: «Finghia altri pur le cose, adombre, e lustri, / voi vive e vere 8 Fulco, op. cit., p. 87, Michel Angiolo da Caravaggio anchor giovane. Michel, Angel voi siete, e siete uguale/ di chi fu al mondo tale,/ ch’a ciascun fu maggiore,/ e co’l nome, e con l’opre lui sembrate./ Se tal in sì verdi anni vi mostrate/ che fie in età matura?/ Da voi le gran maestre Arte, e Natura,/ vinte si resteranno,/ con vostro eterno honor, lor grave danno.» 9 Ibidem., p. 78, «rinvia al saluto dantesco rivolto a Virgilio nel Limbo da Omero, Orazio, Ovidio e Lucano: “onorate l’altissimo poeta” (Inf. IV)». «Ammirate l’altissimo Pittore,/ ch’a quanti pria ne furo passa avanti;/ a celebrarlo venga almo scrittore,/ degno ben di grandi pregi, e sommi vanti./ Stupisce il mondo, e viene a fargli honore con l’ingegni sublimi tutti quanti./ Felice secol nostro, in cui si vede/ quel che d’antica età si scrive, e crede». 5 le rendete» 10; per finire con quell’orgoglioso «Felice secol nostro, in cui si vede / quel che d’antica età si scrive, e crede» 11. Qui già si vede quella nota dello «stupore», che tornerà altre volte e che accompagnò sempre l’esposizione pubblica delle opere del Caravaggio, tra ammirazione e scandalo 12 ; Milesi vuole cantare la gloria del Caravaggio e questo si capisce in modo assai esplicito dal verso che dice: «che vi dà la mia cetra hora, e ‘l mio canto» 13 e che assume il valore di manifesto delle intenzioni del poeta. Milesi ci testimonia anche un momento cruciale nella carriera del Merisi, ovvero la sua prima committenza religiosa per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi 14; qui il poeta mette in campo la sua tempestiva ed esaltata guida alla lettura delle due opere, la Vocazione ed il Martirio di San Matteo, e liquida così gli oppositori che tentavano di sminuire o 10 Ibidem, P. 88, «Cedano a voi gl’antichi, et i più illustri/ pittor del secol nostro, Angel Michele,/ e siano immortali, e gl’anni, e i lustri/ i color vostri, e le pregiate tele./ Finghia altri pur le cose, adombre, e lustri,/ voi vive e vere le rendete, intanto/che ben vi si conviene il pregio, e ‘l vanto,/ che vi dà la mia cetra hora, e ‘l mio canto». 11 Cfr. «Ammirate l’altissimo Pittore…» 12 Ibidem, p. 79. 13 Cfr. «Cedano a voi gl’antichi…» 14 Ibidem, p. 88, «Ecco ch’a cominciare hormai m’invita,/ e che regge il mio dire amata scrota,/ e gia veggio il mio Christo, ch’a chiamare/ e publicani venne, e peccatori,/ come al primo apparir, sgombra e rischiara/ la mente di Mattheo, ch’ingorda, e cieca/ si stava al mondo in duri lacci avvolta,/ e Giesù che risplende in guisa tale,/ ch’a rimirarlo attrae gl’occhi, e le menti/ de riguardanti, e par beati renda/ de mortali gli spiriti. Et tal s’è in terra,/ d’artefice per opra, e di pennello,/ a rivederlo in cielo hor che fia dunque?/ Intrepido te Santo, anchora ammiro,/ ch’offrendo olocausto al tuo signore,/ ecco d’impuro Regge a i detti presta,/ stringer barbara man, ch’uccider brama,/ per far d’empia e crudel morte, trofeo/d’eterna e immortal gloria, e ben l’addita/ l’Angiol,che qui dal ciel discende umile/ con vittoriosa insegna, per condurti/ carcho d’anni e di meriti in paradiso./ A chi ti mira, non finto, ma vero,/ e morir mostri, e respirare in uno./ Ma diamo fin, che saria lungo il 6 comunque di ridimensionare il valore di questi dipinti, in particolar modo della Vocazione, rappresentata come una scena di vita quotidiana e la cui dimensione è data solamente dalla luce, simbolo divino, che tiene insieme tutta la composizione. Nei restanti componimenti, scritti mentre il pittore era ancora in vita, Milesi è più controllato, e questo è forse dovuto anche al fatto che le sue lodi avevano trovato un effettivo corrispettivo presso alcuni critici ed intenditori d’arte; i tre sonetti per la morte avvenuta a Porto Ercole mentre il Caravaggio tornava a Roma da Napoli, convinto di ottenere la revoca del bando per il delitto commesso qualche anno prima, concludono coerentemente un ciclo poetico scritto con grande attenzione15. dire,/ se descriver volessi a parte, a parte,/ e del mio gran Michel scrivere in carte,/ fatto stupor del secol nostro al mondo». 15 Ibidem, p. 89, «Morto sei tu Michel? Tu ch’animasti,/ con l’angelico spirito, i bei colori?/ Ahi che le gratie spente ancho e gl’Amori,/ con quali l’opre tue chiare al ciel alzasti./ Al paro di Natura in guisa oprasti,/ che somigliaro i vostri alti lavori,/ ond’ella dubitando de gl’honori/ a lei dovuti, fè che tu mancasti./ Troppo in alto salendo Icaro cadde/ ne l’onde che da lui pigliaro il nome,/ e fu de l’ardir sua pena et oltraggio./ Ma tu Hercole in sen, suo figlio, come secur non fusti che morir t’accadde?/ Ah con morte non giova anch’esser saggio».«Al mondo morto sei, non a te stesso,/ né a la gloria che di te risuona,/ Angel humano già, ma hor ch’hai corona in ciel, divino, al sommo bene appresso./ Le bellezze mirar già t’è concesso/ del grande Dio, ch’il premio hora a te dona/ de le fatiche tue, d’ogni opra buona,/ e quel che t’era ascoso, hor vedi espresso./ Fra i tavagli del mondo, e le tempeste/ vivesti ad altri, hor a te solo vivi,/ da mortal vita, ad immortal rinato./ Il bello sparso, che vivendo, univi,/ altrui rende stupore, a te ‘l celeste,/ che di vederlo, a noi ancho sia dato».«Varcato il mar d’arte tempeste humane,/ ti godi in cielo i meritati honori,/ Angel nuovo Michel, d’ogni mal fuori,/ queste cose del mondo a te son vane./ L’invidie tutte hor stan da te lontane,/ ch’il volgo (altri mancato) de gl’errori/ s’accorge, in non conoscere i migliori,/ che poi stupido e stolto ne rimane./ O riportata in ciel anima bella,/ ritolta al mondo che virtù non cura,/ indegno di sì grande alto intelletto./ Se doppo morte esser amico dura,/ accetta queste voci anchor, con quella/ mente sincera che m’uscir dal petto». 7 Per Milesi non è solo la scomparsa precoce di un grande artista, ma anche e soprattutto quella di un grande amico; questo lo porta a riflettere sulla morte e «dallo sgomento incredulo si volge verso una penosa e personale visione cristiana della fine del Caravaggio, il quale rimargina nella pace con Dio le ferite di un’esistenza tumultuosa, segnata dalla violenza, avvelenata dalle invidie» 16 ; e mentre la sua « anima bella» gode «in cielo i meritati honori», l’amicizia del Milesi resta viva. La fine del primo decennio del Seicento rappresenta per Milesi una drammatica e traumatica interruzione di una stagione pittorica irripetibile e anche il declino del suo coinvolgimento nelle vicende dell’arte, ed in modo particolare della pittura, fu inevitabile; infatti oltre alla morte dell’amico Caravaggio, del 1609 è anche la morte di Annibale Carracci. Nei componimenti scritti dal Milesi in questo momento è dunque evidente un senso di sgomento e di tristezza per quello che lo scrittore vive come una congiura che ha rapito i migliori e più sublimi pittori del momento 17 , i quali avevano impresso un cambiamento profondo nell’arte e dopo i quali la pittura non poteva più essere la stessa di prima. Degno di nota è come per un osservatore contemporaneo, un amatore, Caravaggio e Annibale Carracci potessero essere posti sullo stesso piano e percepiti, assieme, come due grandi pittori, due innovatori “lombardi” 16 G. Fulco, ibidem, p. 80. 8 che avevano riportato la pittura su una via di maggior naturalezza, lasciandosi alle spalle la generazione manierista. 2. Il filocaravaggismo di Giulio Cesare Gigli Della vita di Giulio Cesare Gigli non sappiamo quasi niente, a parte il fatto che era bresciano, che visse a Venezia nel corso del secondo decennio del secolo e che fu in rapporto con alcuni artisti e letterati, tra cui probabilmente Giovanni Battista Agucchi (data la vicinanza delle loro posizioni), e Marzio Milesi, il quale potrebbe aver fatto da tramite tra Gigli e l’ambiente filocaravaggesco della prima ora, di cui fu uno dei maggiori protagonisti; questo rapporto fornirebbe anche un aggancio per un contatto di Gigli con l’ambiente romano 18. Il testo che interessa la fortuna di Caravaggio è La Pittura trionfante, un poemetto in endecasillabi stampato a Venezia nel 1615, nel quale l’autore immagina di veder sfilare al seguito della Pittura in trionfo un 17 Ibidem, p. 75. Cfr. S. Ginzburg, in G.C. Gigli, La pittura trionfante , Venezia 1615, ed. cons. a cura di B. Agosti e S. Ginzburg, Porretta terme (Bologna), 1996, pp. 14-19. 18 9 corteo di pittori che nomina via via, fornendo un breve commento sulle caratteristiche dello stile di ciascuno. I pittori sono raggruppati per scuole geografiche: ci sono i veneti, i lombardi, i genovesi, i bolognesi, i toscani e i romani; la quarta parte è dedicata ai pittori di varie parti d’Italia 19, tra i quali occupa un posto di assoluto rilevo Caravaggio: «quand’ecco s’offre di ciascuno avanti/ di fantastico umor, certo bizzarro,/ pallido in viso, e di capillatura/ assai grande, arricciato,/ gli occhi vivaci, sì, ma incaverniti,/ ch’un aureo baston portava in mano/per allentar, per stringer, per condurre,/ come piaceva a lui,/dietro alla Donna l’onorata gente … Quest’è il gran Michelangel Caravaggio,/ il gran protopittore,/ meraviglia dell’arte,/ stupor della natura,/ sebben versaglio poi di rea fortuna» 20. 19 Ibidem, p. 9, non c’è in Gigli rivendicazione di un solo primato locale, ma partecipazione delle varie scuole ad una dimensione che è già unitaria, nazionale. 20 Ibidem, p. 53. 10 Caravaggio, descritto da Gigli in maniera molto dettagliata e “naturalistica”, avanza solitario e isolato dal corteo. Questa descrizione ci aiuta a capire l’indole del Merisi, un uomo certamente burbero e scontroso, noncurante del proprio aspetto fisico; il volto pallido e gli occhi «incaverniti» fanno presupporre che non conducesse una vita tranquilla fatta di agi e comodità, ma piuttosto il contrario; ciò, del resto, è ben attestato dalla documentazione d’archivio21. D’altra parte segue alla descrizione fisica una manifesta ammirazione da parte dell’autore, il quale non dedicherà a nessun altro dei pittori citati nel testo un elogio così importante ed esplicito. Gigli esprime tutto il suo filocaravaggismo parlando del Merisi come «meraviglia dell’arte», «stupor della natura» e lo definisce addirittura « gran protopittore», ovvero il primo fra tutti, anche se già sa perfettamente che non avrà la fortuna che a suo giudizio merita di avere. Un entusiasmo così forte per Caravaggio ad una data così precoce è sicuramente qualcosa di particolare e quindi costituisce un documento interessante ed importante per avere un quadro completo riguardo alla critica caravaggesca nel XVII secolo. 21 Cfr., da ultimo, R Bassani- F. Bellini, 1994. Caravaggio assassino , Donzelli Editore, Roma 11 La quasi totale assenza di informazioni su Gigli non aiuta a capire come sia arrivato a formulare i suoi pensieri e i suoi giudizi, ma sicuramente la sua coscienza critica nasce all’interno di un circolo di eruditi (veneto o bergamasco). Il testo di Gigli testimonia un processo che si inizia a manifestare nei primi anni del Seicento e che poi verrà alla luce in modo compiuto nella seconda metà del secolo: la nascita della consapevolezza della specificità stilistica delle varie scuole, che avrà come conseguenza il sorgere di una coscienza critica e quindi di una letteratura artistica locale. Questo fenomeno può essere studiato, come si diceva, fin dall’inizio del ‘600, quando è ancora evidente il nesso tra l’attività degli artisti e il contesto dei committenti, dei mercanti, dei collezionisti, dei letterati e degli storici locali, da cui prende forma la coscienza di scuola. Quello di Gigli è uno dei più significativi esempi di un tentativo di formulazione di una storiografia artistica italiana fondato sulle aree geografico-stilistiche, nella quale le uniche notazioni che vengono fornite sugli artisti mirano a descriverne le caratteristiche di stile, anche perché una storiografia artistica che si basa sulle scuole ha nello stile la sua unica discriminante e quindi ha bisogno di aggettivi e di attributi per descrivere quello di ciascun artista 22. 22 Cfr. Ginzburg, op. cit., p. 13 12 Quasi sempre Gigli conosce direttamente gli artisti di cui parla, magari per avere intrattenuto con loro dei rapporti nei centri in cui sono attivi, e questo gli dà la possibilità di parlare di loro in modo dettagliato e preciso, permettendosi anche qualche annotazione sul carattere, come nel caso di Caravaggio; infine, alcuni dei personaggi che hanno rapporti stretti con il Gigli sono identificabili, e questi sono tutti intellettuali molto colti, come il dedicatario de La Pittura trionfante, il famoso collezionista e mercante fiammingo Daniel Nys, il pittore e conoscitore Odoardo Fialetti ( che incise il frontespizio disegnato da Palma il Giovane de La Pittura trionfante) ed il letterato e antiquario Marzio Milesi 23 di cui ho già detto e dalla cui frequentazione probabilmente deriva al Gigli parte del suo entusiasmo su Caravaggio; tutti uomini di un certo livello culturale ed intellettuale, grandi intenditori d’arte che spesso coglievano più di altri il valore di certi artisti apprezzandone le innovazioni, anche le più rivoluzionarie. 3. Vincenzo Giustiniani: amico, ammiratore e committente 23 Ibidem, pp. 17-18. 13 Il marchese Vincenzo Giustiniani, di origini genovesi, venne educato a Roma alla fine del ‘500; uomo dalla cultura multiforme, egli nutriva un interesse particolare per le arti; Giustiniani conosceva ed ospitava nel suo palazzo 24 i migliori pittori del momento e spesso si mostrò di larghe vedute e aperto anche alle opere più “trasgressive”. Fin da giovane egli diede a Caravaggio il suo appoggio incondizionato; ce lo dimostra anche il fatto che aveva riscattato dai religiosi di San Luigi dei Francesi una redazione del San Matteo con l’angelo, rifiutata dalla congregazione perché ritenuta oltraggiosa, a causa dei piedi del Santo posti in primo piano e rivolti verso il pubblico e a causa del fatto che San Matteo pareva analfabeta, dal momento che si faceva aiutare nella lettura dall’angelo; l’acquisto del quadro da parte di Giustiniani impedì probabilmente il fallimento della carriera del Caravaggio come pittore di quadri religiosi 25. Nel suo breve Discorso sopra la pittura scritto non molto tempo dopo la morte del Merisi, dal momento che questo è citato come «pittore de’ nostri dì» 26 , egli distingue dodici maniere di dipingere e conclude 24 V. Giustiniani, Discorso sopra la pittura, in Discorso sulle arti e sui mestieri , (1620-1630 circa), ed. a cura di A. Banti, Firenze, 1981, p. 5. Nel 1590 Giuseppe Giustiniani, padre di Vincenzo, acquistò il palazzo di fronte alla chiesa di San Luigi dei Francesi. 25 Cfr. C. Strinati, Caravaggio vincitore, in Caravaggio e i Giustiniani , S. Danesi Squarzina (a cura di), Logart press, Roma, 1995, p. 90. 26 Ibidem, p. 44. 14 indicando Caravaggio come il massimo e il migliore dei pittori del secolo. Si potrebbe parlare di avvicinamento progressivo al vero concetto di pittura, in quanto Giustiniani inizia dal dominio della copia (i primi tre modi: spolvero, copia pittorica e copia disegnata), per passare poi all’attitudine ad osservare concretamente la realtà, prima minuziosamente (i modi quarto e quinto, fare i ritratti e rappresentare i fiori), poi con ampiezza (i modi sei e sette, prospettive e paesaggi) per arrivare al primo livello di eccellenza (il modo ottavo) che è il “fare grottesche”, perché questo richiede all’artista una competenza universale, in quanto è necessario che il «pittore osservi molte cose», dalle «pitture antiche» alle «invenzioni moderne» 27. Proseguendo si ha il modo nono (battaglie e cacce), che è la rappresentazione del mondo dinamico della natura; poi troviamo le due modalità fondamentali: il decimo modo è quello di dipingere “di maniera” e quindi senza ritrarre dal modello, l’undicesimo è quello di dipingere secondo la concezione naturalistica, e quindi con l’oggetto davanti agli occhi. Il dodicesimo e ultimo modo, quello che è proprio del Caravaggio, è la sintesi dei due precedenti e quindi si ottiene unendo la fantasia alla 27 Ibidem, p. 43. 15 concretezza naturale: «Duodecimo modo, è il più perfetto di tutti; perché è più difficile; l’unire il modo decimo con l’undicesimo già detti, cioè dipingere di maniera, e con l’esempio avanti del naturale, che così dipinsero gli eccellenti pittori della prima classe, noti al mondo; ed ai nostri dì il Caravaggio, i Carracci e Guido Reni»28. Come possiamo vedere anche il marchese avvicina Caravaggio ai Carracci, in particolare ad Annibale, solitamente considerati, all’inizio del XVII secolo, come due grandi protagonisti della pittura; entrambi, infatti, venivano visti come dei rinnovatori che avevano rotto con la tradizione del ‘500 opponendosi ai manieristi e cercando di riproporre le antiche tradizioni del naturalismo lombardo a cui dovevano la loro formazione. Il marchese dunque era veramente affascinato ed entusiasta del modo di dipingere del Merisi (del resto Carlo Cesare Malvasia lo inserisce, insieme a Mattei e Del Monte, nella triade di personaggi autorevoli che diedero fama alle opere del Caravaggio), ed è notevole anche il fatto che nel Discorso l’unica opinione di artista citata, sia proprio quella famosa di Caravaggio: mi riferisco alla frase con la quale il pittore elogia 28 Ibidem, p. 44. 16 l’impegno nel dipingere fiori o figure: «ed il Caravaggio disse, che tanta manifattura gli era a fare un quadro buono di fiori, come di figure» 29 . Questa affermazione rovescia tutte le tesi del momento; infatti, contro la gerarchia dei generi, il Caravaggio afferma di non vedere differenza di dignità tra il dipingere un quadro di natura morta, e il dipingere una composizione di qualsiasi tipo implicante la rappresentazione di azioni umane. Quindi, come ha notato Ferdinando Bologna, alla teoria che vedeva nella nobiltà dell’idea l’unica ragione che legittimava la perfezione dell’arte, Caravaggio sosteneva che la “bontà” dell’opera dipende dalla “manifattura” e quindi la qualità artistica si identifica, per lui, con la qualità del processo di realizzazione; così, attraverso questa concezione fattuale e operativa dell’arte, intesa come un vero e proprio lavoro, Caravaggio sovvertiva la teoria dominante 30. Secondo l’inventario redatto nel 1638 alla morte di Vincenzo Giustiniani, nel suo palazzo erano presenti ben quindici opere del pittore31, tra cui ovviamente quella commissionatagli direttamente dal Giustiniani e quindi a lui personalmente destinata: L’amore vincitore, un 29 Ibidem, p. 42 Cfr. F. Bologna, L’altra via: le ragioni del «fare» dal Bellini al Caravaggio: la «mano ministra» nella critica del barocco, in Storia dell’arte italiana, Einaudi, Torino, 1979, pp. 185-186. 30 17 capolavoro dipinto tra il 1602 ed il 1603, con grande precisione, del tutto attinente alla realtà, come dimostrano la vitale espressione del fanciullo rappresentato mentre sorride, ed il movimento giocoso ed instabile delle gambe e delle braccia, tipico della prima adolescenza. Quest’opera è per Giustiniani il simbolo del “dodicesimo modo”, in cui vincitrice è la pittura in sé e nel Discorso sopra la Pittura lo dice chiaramente: «la quale al di d’oggi è in colmo di estimazione, non solo per quanto porta l’uso di Roma ordinario ma anco per mandare fuori in Spagna, Francia, Fiandra, Inghilterra, e altre parti che in vero è cosa degna di maraviglia il considerare il gran numero di pittori ordinari e di molti persino che tengono casa aperta con famiglia, anche con fare avanzo solo col fondamento dell’arte di dipingere con diverse maniere e invenzioni» 32. Questo è il senso di un grande slancio ed entusiasmo, una vera e propria apoteosi della pittura vista soprattutto alla luce del fatto che Roma era stata, fino a pochi anni prima, la patria del pittore mestierante, addetto a lavorare nei cantieri, spesso confuso in mezzo agli altri, per decorare prevalentemente chiese. 31 S. Danesi Squarzina, Caravaggio e i Giustiniani , in Michelangelo Merisi da Caravaggio , S. Macioce (a cura di) Logart press, Roma, 1995, p. 95. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Roma, 5-6 Ottobre 1995. 32 Giustiniani, op. cit., p. 43. 18 Da questo brano sembrerebbe anche che Giustiniani legittimasse il fatto di «dipingere con diverse maniere e invenzioni», esprimendo così l’idea di una rappresentazione che si modifica a seconda delle personalità artistiche e che non può obbedire ad un canone fisso, appunto perché dipende dall’esperienza molteplice degli individui, ma non dobbiamo dimenticare che le “maniere” individuali, per Giustiniani, sono inserite entro dei generi (i modi della pittura) che hanno le loro tradizioni e le loro regole da rispettare. 4. Giovan Battista Marino e Virgilio Malvezzi: due letterati appassionati d’arte Giovan Battista Marino fu il maggiore esponente della poesia concettista 33 ; della sua formazione culturale sappiamo sostanzialmente poco, a parte le notizie che si possono dedurre dalle pagine dell’epistolario, il quale ci offre il ritratto di un uomo spavaldo, intelligente e ironico. 33 C. Segre, Testi nella storia, Mondadori, Milano, 1994, Vol. II, p. 888. 19 Nel campo della poesia fu un vero rivoluzionario e una delle sue opere più importanti è, senza dubbio, la Galeria 34 , una raccolta di liriche scritte in vari metri, nata dalla grande passione del Marino per l’arte. L’opera, pubblicata per la prima volta nel 1620, è organizzata come la celebrazione poetica di una galleria principesca del tempo. E’ infatti ordinata in Pitture e Sculture 35 e a chiusura di entrambe le sezioni ci sono i Capricci, termine con cui nella letteratura artistica di età barocca si definiranno le figure, le scene o i paesaggi fantastici o bizzarri. La sua preparazione fu lunga e complessa, soprattutto nella fase di selezione delle opere d’arte alle quali sarebbero stati dedicati i componimenti. Quest’opera documenta l’ardente passione artistica di Marino, risalente soprattutto agli anni giovanili trascorsi nella Roma papale animata da pittori come il Cavalier d’Arpino, i Carracci e naturalmente Caravaggio, del quale aveva potuto fare diretta conoscenza nel 1606 36. Marino era rimasto colpito dalla novità dell’arte del Merisi e lo ammirò sinceramente fino al punto di dedicargli dei componimenti poetici; infatti 34 La “galleria”, cioè la pinacoteca. All’interno delle pitture i componimenti sono inoltre distinti in favole mitologiche, in storie religiose e in ritratti; le sculture, invece, sono divise in statue e rilievi, modelli e medaglie. 36 Segre, op. cit., p. 911. 35 20 all’interno dell’opera lo troviamo menzionato in modo esplicito almeno due volte, la prima nella parte riguardante la Pittura, con la descrizione di un suo dipinto; si tratta di un madrigale che descrive uno scudo da torneo con la Testa di medusa, commissionato a Caravaggio dal cardinal del Monte, che nel 1608 lo regalò a Ferdinando I, granduca di Toscana: La testa di Medusa in una rotella di Michelangelo da Caravaggio, nella Galeria del Gran Duca di Toscana. «Or quai nemici fian, che freddi marmi non divengan repente in mirando, Signor, nel vostro scudo quel fier Gorgonie, e crudo, cui fanno orribilmente volumi viperini squallida pompa e spaventosa ai crini? Ma che! Poca fra l’armi a voi fia d’uopo il formidabil mostro: chè la vera Medusa è il valor vostro» 37. 37 G.B. Marino, La Galeria, Venezia, 1620, p. 225. 21 La seconda volta lo ritroviamo menzionato nella parte dedicata ai Ritratti, questa volta però con un componimento poetico scritto in occasione della morte, nel quale emerge tutta l’ammirazione, la stima e il dispiacere del Marino, per la perdita del pittore che meglio di ogni altro aveva saputo rappresentare le cose della natura, le quali sembravano addirittura «create, e non dipinte»; Marino parla di una «crudel congiura» fatta ai danni del pittore dalla Morte e dalla Natura, l’una sdegnata per il fatto di dover veder rivivere ciò che lei distruggeva; l’altra irritata per esser vinta in ogni immagine da lui dipinta: In morte di Michelagnolo da Caravaggio. «Fecer crudel congiura Michele, à danni tuoi Morte, e Natura. Questa restar temea Dala tua mano in ogni imagin vinta, ch’era da te creata, e non dipinta. Quella di sdegno ardea, perché con larga usura quante la falce sua genti struggea, 22 tante il pennello tuo ne rifacea» 38. Marino anticipa, più di ogni altro poeta di quel tempo, lo spirito del barocco, incline alla bizzarria, all’eccezionalità, alla sorpresa; egli indica nella meraviglia il fine del poeta eccellente. La meraviglia diventa un rimedio alla stanchezza e alla noia generata dalla ripetizione dei modelli del passato, inadeguati ad esprimere la realtà presente, colta invece, in modo spettacolare, da un pittore come Caravaggio; questo spiega l’ammirazione che Marino rivolge a questo pittore ed il rammarico e la tristezza che emergono dal componimento che scrive per la sua morte. Altro letterato di grande importanza e vero appassionato d’arte 39 in questi primi anni del XVII secolo fu Virgilio Malvezzi, barone della Taranta e di Quadri, marchese di Castel Guelfo, appartenente ad una delle più antiche famiglie patrizie di Bologna 40. Dimostrando uno spirito enciclopedico, si applicò sempre a varie discipline, in particolar modo alla pittura, materia alla quale non si avvicinò solo come semplice intenditore e critico, ma si cimentò anche 38 Ibidem, p.235. Gli interessi del Malvezzi per la pittura, sono attestati dalla sua partecipazione al volume Il trionfo del pennello. Raccolta d’alcuni composizioni a gloria d’un ratto d’Elena di Guido, Bologna, 1634, e dalle considerazioni che ha lasciato nelle sue opere, come per esempio nell’Alcibiade dove effettua un confronto tra Tintoretto e Raffaello. 39 23 nella parte attiva di pittore; questo ci è testimoniato dal Malvasia che, nella sua opera, dopo aver elogiato il Malvezzi come «primo e più nobile illustratore dell’italiana favella», aggiunge «che non meno fè ammirarci talvolta gli eleganti parti del suo dotto pennello che i spiritosi concetti della morale sua penna» 41. Sempre Malvasia lo colloca al centro della vita artistica bolognese, collezionista raffinato ed attento, amico del Reni e del Tiarini 42. Relazioni di profonda amicizia Malvezzi le aveva strette anche con il Caravaggio, del quale ci da un giudizio spassionatamente positivo; infatti dice che, quando pareva che la natura fosse giunta al suo estremo e non ci fosse più posto per altre esperienze, si affermarono due pittori come il Reni e Caravaggio, i quali furono addirittura superiori agli antichi con un modo nuovo di dipingere, l’uno «con la nobiltà dell’aria», l’altro «con la forza del dipingere»: «S’obblighi l’istoria alla verità , il pittore al naturale, e benché quella e questa siano una sola cosa, non è una sola la maniera di scriverla e dipingerla. 40 R. Brändli, Virgilio Malvezzi politico e moralista , Tipografia dell’USC, Basilea, 1964, p. 9. 41 C. Malvasia, La Felsina pittrice; Vite Dei Pittori Bolognesi , Bologna, 1678, ed. cons. a cura di M. Brascaglia, Bologna, 1967, p. 210. 42 Ibidem, pp. 38, 40, 61, 70, 84. 24 Grande istorico fu Salustio, Tito Livio, Tacito; gran pittore Raffaele, Titano e ‘l Correggio, degni di maraviglia; nondimeno scrissero e dipinsero con differenti modi e linee. Né meno s’ha da credere ch’il campo che prima si riconobbe libero si deve ora limitare alle precise regole di que’ segnalati valentuomini. Guido da Bologna e Michele Angelo Caravaggi, quando la nostra ignoranza pubblicava già stracca la natura, uscirono alla luce con un modo nell’eseguire nuovo avantaggiandosi agli antichi, l’uno con la forza del dipingere, l’altro con la nobiltà dell’aria; perché non può ancora manifestarsi un istorico che superi gli altri?» 43 ; il gusto del Malvezzi è orientato senza dubbio più verso la «forza del dipingere» che non verso la «nobiltà dell’aria» ed un giudizio così deciso e libero da pregiudizi sullo stile caravaggesco è un riconoscimento splendido e chiaro che lascia un po’ stupiti: Malvezzi ha infatti compreso Caravaggio e la sua «forza». E’ probabile che lo scrittore abbia visto nella pittura di Caravaggio l’analogo di quella energia che lui metteva nelle sue fatiche stilistiche; infatti la prosa del Malvezzi è ricca di tensioni improvvise paragonabili alle luci radenti che assalgono i quadri di Caravaggio 44. 43 V Malvezzi, Successi principali della monarchia di Spagna nell’anno 1639 1640, p. 5. 44 E Raimondi, Il colore eloquente, Il Mulino, Bologna, 1995, p. 13. , Bologna, 25 Proprio la luce è una delle grandi scoperte di questo secolo, intesa come entità fisica e metafisica, che dà alle sue opere la forza dell’attimo, diretta alla ricerca della situazione drammatica; d’altra parte questo è il secolo che fu attraversato più di altri da tensioni, sofferenze, contraddizioni e miserie, che si riscontrano puntualmente nella letteratura e ovviamente anche nell’arte; è il secolo della scoperta della scienza moderna, ma anche dell’antropologia e dell’analisi dei comportamenti dell’uomo. Virgilio Malvezzi interpreta perfettamente il senso di instabilità che pervade tutto il XVII secolo dominato dalla rappresentazione dell’uomo che agisce sul teatro del mondo 45 ; ecco che con questa mentalità si impone una forte e convinta ammirazione per Caravaggio, un pittore che indagava la realtà in ogni suo più piccolo particolare esprimendosi con un linguaggio in cui luce ed ombra sono protagonisti assoluti. Malvezzi vede in lui l’inizio di un nuovo corso pittorico, e questo è qualcosa di veramente grande ed importante che trascende il classicismo idealistico di Agucchi. 45 Ibidem, p. 134 26 CAPITOLO II GIOVANNI BATTISTA AGUCCHI E GIULIO MANCINI 1. Giovanni Battista Agucchi: una posizione “protoclassicistica” 27 Monsignor Giovanni Battista Agucchi rappresenta nel primo Seicento l’affermarsi della personalità dell’ “amatore” nel campo della critica figurativa; giunto a Roma nel 1592 al seguito dello zio Filippo Sega, iniziò a frequentare la cerchia degli Aldobrandini, del papa Clemente VIII e degli uomini vicino a Filippo Neri 46. Agucchi vive e si forma dunque in un ambiente in cui prendono forma progetti attinenti ai campi più diversi: la politica, la storiografia, la lingua, la storia della pittura.47 La sua personalità può quindi essere compresa solo alla luce delle idee emerse negli anni a cavallo fra i due secoli, in un momento in cui le arti e le scienze conoscono una stagione intensa e feconda; tutto questo spiega anche la sua molteplice attività di politico, storico, antiquario. Con l’elezione al soglio pontificio di Gregorio XV ottenne un ruolo di spicco e divenne Segretario dei Brevi del papa; in questa circostanza iniziò a frequentare alcuni artisti e particolarmente importante appare il legame di Agucchi soprattutto con Annibale Carracci e con 46 Cfr.R. Wittkower, Arte e architettura in Italia 1600- 1750, Middlesex (Inghilterra), 1958, ed. cons. Einaudi, Torino, 1993, p. 8. 47 Cfr. S. Ginzburg, Domenichino e Giovanni Battista Agucchi in catalogo Domenichino 1581-1641, Electa, Milano, 1996, p.126. 28 Domenichino; da questa unione sembra aver preso vita il Trattato sulla pittura 48, scritto dal prelato con lo pseudonimo di Graziado Maccati 49. Nonostante ci siano tante testimonianze, questi legami furono riscoperti nella loro importanza critica solo nel 1947 con la pubblicazione del libro di Denis Mahon,50 il quale ha datato il trattato tra il 1607 e il 1615. Egli giustamente sottolinea anche il fatto che, nonostante Domenichino fosse più vicino ad Agucchi durante la stesura del trattato, è Annibale Carracci che viene maggiormente elogiato e, direi, celebrato. Secondo Mahon, inoltre, il trattato documenta lo sviluppo seicentesco della dottrina classicistica, che si esprime attraverso due argomenti chiave: l’elogio dell’Idea del bello 51 e l’antinaturalismo, concetti che emergono con chiarezza da un commento su Caravaggio, che, come il 48 Cfr. D.Mahon, Studies in seicento art and theory , London, 1947, p. 190. Il cosiddetto trattato corrisponde in realtà a un lungo frammento scelto da Massani tra vari scritti sulla pittura di Agucchi. 49 C. Malvasia, op. cit., p.162, «Sotto nome di Graziado Maccati, van fuore manoscritti frammenti, parte dei quali portammo nella vita de’ Carracci, e quali Monsignor Agucchi, colla scorta e consiglio prima di Annibale, poi del suo Domenichino intesseva». Ibidem, p.239, «Con iscambievole partecipazione però s’intesseva quell’erudito discorso sopra le varie maniere della pittura». G. P. Bellori, Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, Roma, 1672, ed. cons. a cura di E. Borea, Torino, 1976, p. 329, «Gli era [a Domenichino] di gran giovamento il leggere istorici e poeti, e se ne approfittava per l’introduzione avutane da monsignor Gio. Battista Agucchi, il quale per lo diletto grande della pittura soleva esporgli le bellezze della poesia, con osservare i mezzi e li termini de’ poeti e de’ pittori nel rappresentare. In questo studio l’Agucchi, comunicando con Domenico, si propose di comporre un discorso sopra le varie maniere della pittura, dividendola in quattro parti, come l’antica». 50 D. Mahon, Studies in seicento art and theory, London, 1947. 51 G. B. Agucchi, Trattato della pittura, in Mahon, op. cit., p. 242-243. 29 pittore Demetrio, «hà lasciato indietro l’Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine» 52. Questi passi del trattato sono stati ripresi quasi puntualmente da Bellori nel discorso sull’Idea, tenuto all’Accademia di San Luca nel 1664, e nella ‘vita’ di Caravaggio 53. La continuità tra Agucchi e Bellori è un’altra prova che il maturo classicismo affonda le sue radici nei primi anni del Seicento, anche se queste idee avranno soprattutto fortuna a partire dal quarto decennio del secolo. In effetti le posizioni di Agucchi sono diverse da quelle di Bellori, e a ben vedere è proprio il giudizio su Caravaggio ad essere diverso. Nel trattato di Agucchi a Caravaggio viene rivolta l’accusa di aver mancato il rispetto del decoro 54; di altro tipo e soprattutto di altro tono saranno invece le critiche elaborate e divulgate successivamente, fino ad arrivare proprio al giudizio di Bellori, che parlò di una pittura 52 Ibidem, p.256-257, «…Demetrio, benché questi fosse scultore, andò tanto dietro alla somiglianza, che alla bellezza non ebbe riguardo.Il Caravaggio eccellentissimo nel colorire si dee comparare à Demetrio, perché hà lasciato indietro l’Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine». 53 Cfr. S Ginzburg, op. cit, p. 124. 54 Ibidem, p. 124, «da leggersi in consonanza con le polemiche che potevano sorgere negli stessi anni, all’apertura del secolo, sull’accoglienza in talune chiese dei quadri sacri di Caravaggio».Questo derivava dal fatto che il Concilio di Trento aveva delimitato i confini che all’arte venivano assegnati nella società riformata; di conseguenza venne imposta una severa disciplina nelle rappresentazioni di storie sacre. 30 caravaggesca priva non solo di decoro, ma anche di disegno, composizione, azione, resa degli affetti 55. In fondo, il giudizio che Agucchi esprime nei confronti di Caravaggio, non è del tutto negativo: lo considera infatti «eccellentissimo nel colorire». Semmai mostra come da sempre ci sia stata una grande difficoltà a comprendere il lavoro di un pittore che raccoglieva i suoi modelli per strada senza distinguere il “bello” dal “brutto” e che imitava gli “uguali” e i “peggiori”, rappresentando ciò che vedeva con volontà di integrale naturalismo; la difficoltà di comprendere questo modo di dipingere è legata al fatto che invece i pittori, nella convinzione di Agucchi, debbono raccogliere « le bellezze sparse in molti, e unirle insieme con finezza di giudizio, e fare le cose non come sono, ma come esser dovrebbono per esser perfettissimamente mandate ad effetto» 56. Questa, tra l’altro, non è che la riformulazione del principio basilare della dottrina classicistica, la quale afferma che la natura è imperfetta e che l’artista deve riuscire a migliorarla scegliendo solo le sue parti più belle. Possiamo quindi capire quanto fu rivoluzionario Caravaggio, un pittore che dipingeva lavorando direttamente sulla tela, in un momento in cui 55 G. P. Bellori, op. cit, p. 230. 31 Agucchi intesseva le lodi dei Carracci, i quali «giudicarono che per costituire una maniera d’una sovrana perfezione, converrebbe col disegno finissimo di Roma unire la bellezza del colorito lombardo » 57. Proprio nell’arte dei Carracci e in modo particolare in quella di Annibale, Agucchi trovò la realizzazione della sua formulazione teorica; egli fu infatti uno dei primi sostenitori di quel progetto stilistico che intendeva formulare un linguaggio pittorico composto dall’unione di disegno e colore 58 e che secondo Agucchi spinse a Roma i Carracci. Del resto Caravaggio e i Carracci partivano da una matrice culturale comune, il “naturalismo” lombardo e per tutti l’intento era quello di voler superare la fase di decadenza e di degenerazione della cultura manieristica59, nonché quello di ritornare al “vero” naturale. Ciò che li differenziò profondamente furono le modalità del recupero di quest’ultimo; infatti i Carracci, a differenza di Caravaggio, unirono ad una maggiore osservazione della realtà quotidiana uno studio approfondito e una rimeditazione della tradizione rinascimentale, attingendo a modelli che vanno da Raffaello a Correggio a Tiziano; Caravaggio, invece, nel giudizio di Agucchi, aveva certamente reagito 56 G. B. Agucchi, in Mahon,op. cit, p. 242. Ibidem, p.252. 58 Cfr. Ginzburg, op. cit,, p. 125, La scelta compiuta da alcuni artisti tra Cinque e Seicento a favore di un linguaggio figurativo composto dai diversi accenti di varie scuole regionali, verrà chiamato eclettismo e attirerà in seguito giudizi negativi. 57 32 all’astrattezza e all’irrealtà dei manieristi, ma era caduto nell’errore opposto, quello di aver «lasciato indietro l’Idea della bellezza» per «seguire del tutto la similitudine». 2. Caravaggio eccellente colorista: il punto di vista di Giulio Mancini Giulio Mancini rappresenta, insieme ad Agucchi, quel momento di transizione che vede la forte reazione alla “fantastica idea manierista” e la contesa tra naturalisti e manieristi, insieme all’ascesa dei bolognesi. Senese d’origine, si trasferì a Roma, dove poté vivere i suoi interessi artistici e da collezionista di gusto presso la corte papale, dove raggiunse una posizione elevata come medico personale di Urbano VIII. Giulio Mancini non è un “protoclassicista” come Agucchi: l’antico non è ancora il mezzo necessario per l’imitazione della natura; egli è soprattutto un “dilettante”, un “virtuoso” che si interessa della pittura e dei quadri, da come sono dipinti, a come si collezionano, a come si espongono; con lui ci si avvia verso la critica degli amatori-conoscitori e 33 per questo, quello che è veramente nuovo, è il modo di impostare i problemi 60. Naturalmente, in questa sede, interessa indagare quale fosse l’atteggiamento del Mancini di fronte ai pittori del suo tempo ed in particolare il suo giudizio su Caravaggio, espresso nelle Considerazioni sulla pittura, la sua opera letteraria conservata a Roma, Siena, Firenze, Venezia e Londra, scritta tra il 1618 e il 1621 e mai stampata fino al Novecento. Si tratta di un duplice trattato la cui prima parte ha il caratteristico titolo di: Alcune considerazioni appartenenti alla pittura come diletto di gentiluomo nobile, mentre la seconda parte è intitolata: A l c u n e considerazioni intorno a quello che hanno scritto alcuni autori in materia della pittura se habbino scritto bene o male, et appresso alcuni raggiungimenti d’alcune pitture e pittori che non hanno potuto osservarne quelli che han scritto per avanti. Questa seconda parte è dunque essenzialmente critica e di fondamentale importanza per capire la nuova mentalità che sta prendendo vita in questo momento. 60 L. Salerno in G. Mancini, Considerazioni sulla pittura , (1618-1621 circa), ed. a cura di A. Marucchi e L. Salerno, Roma 1956, Vol. II, p. XXIII «Il Mancini anticipa quella trasformazione del “virtuoso” in “connoisseur” che si determinò alla fine del secolo in Inghilterra e in Fracia». 34 A quest’opera si devono pagine importantissime per ricostruire il gusto del primo Seicento e le sue biografie meritano un posto di primo piano; particolarmente importante è quello che scrive a proposito del Caravaggio, la cui biografia si apre così: «Deve molto questa nostra età a Michelangelo da Caravaggio, per il colorir che ha introdotto, seguito assai comunemente» 61 ; e continua: « Non si può negare che per una figura sola, per le teste e colorito non sia arrivato ad un gran segno e che la profession di questo secolo non li sia molto obbligata» 62. Quella di Mancini è una delle voci positive nella critica caravaggesca del Seicento 63; come si può vedere insiste molto sul colore, una delle doti che maggiormente apprezza nel pittore lombardo, ma non solo: infatti stima molto anche la sua grande qualità di pittore quando si trova ad impostare una sola figura, anche se così facendo, rimarca che è carente nella rappresentazione della storia: «questa schola…fa bene una figura sola, ma nella composizione dell’historia…non mi par che vagliano» 64 Senza dubbio il Caravaggio era abile nell’imitare la natura e nel renderne i colori, che stendeva direttamente sulla tela, senza studi 61 Mancini, op. cit. Vol. I, p. 223. Ibidem, p. 108. Il brano fu notevolmente valorizzato da Roberto Longhi, il quale lo utilizzò per comporre la sua Antologia caravaggesca rara che adesso si trova nella rivista d’arte Paragone, n. 17, Firenze, 1951, p. 48. 63 Un’altra voce positiva della critica caravaggesca nella prima metà del Seicento è quella di Pietro da Cortona il quale, nel Trattato della pittura e scultura uso et abuso loro, scritto insieme al padre gesuita Ottonelli, afferma che quel modo di dipingere dal naturale «apporta meraviglia». 62 35 preliminari, e al quale mancava anche il senso della composizione conveniente ad ogni “historia”. Mancini osserva infatti che è caratteristico della scuola del Caravaggio «di lumeggiare con lume unito e che venghi da alto senza reflessi, come sarebbe in una stanza da una finestra con le pariete colorite di nigro, che così, avendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto scure, vengono a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale né fatto, né pensato da altro Secolo o’ pittori più antichi, come Raffaello Titiano, Correggio, et altri. Questa Schola in questo modo d’operare è molto osservante del vero, che sempre lo tien davanti mentre che opera, fa bene una figura sola, mà nella composition dell’Historia, et esplicar affetto, pendendo questo dall’Immaginatione e non dall’osservanza della cosa per ritrar il vero che tengon sempre avanti, non mi par che vagliano, essendo impossibil di mettere in una stanza una moltitudine d’huomini che rappresentin l’historia con quel lume d’una finestra sola, et haver un che rida o pianga o faccia atto di camminare e stia fermo per lasciarsi copiare, e così poi le lor figure, ancorché habbin forza, mancano di moto, d’affetti e di gratia»65. 64 65 G. Mancini, op. cit., p. 108. Ibidem, p. 108-109. 36 In effetti Caravaggio tende a cogliere e ad affermare, per mezzo della luce, l’assoluta dignità di ogni elemento naturale, allargando gli orizzonti della pittura, chiaramente in polemica con una tradizione culturale che relega a genere minore la rappresentazione della realtà oggettuale. A me sembra però che il Mancini ritenesse che il naturalismo di Caravaggio era in fondo molto più lontano dalla natura di quanto non si credesse; infatti, ci dice che il pittore non considera “internamente” la natura delle cose imitate, ma solo la loro apparenza 66, e il suo « modo» ci viene presentato come «non naturale ne’ fatto ne’ pensato da altro secolo o pittori più antichi…» 67. Mancini non giustifica la pura imitazione, ma a Caravaggio non rimprovera neanche la mancanza di un’Idea della bellezza in senso classico (come Agucchi e successivamente Bellori). Gli rimprovera, semmai, la limitatezza del suo mondo, che escludeva decorazioni e rappresentazioni storiche, con tutto ciò che l’“historia” implicava, soprattutto invenzione, affetti e movimento, caratteri essenziali della concezione seicentesca della pittura. 66 Cfr. Salerno in Mancini, op. cit., p. XI. Questo atteggiamento del Mancini è significativo come indice dello svolgimento della critica secentesca verso una maggiore valutazione del contenuto rispetto alla forma. 67 Mancini, op. cit., p. 108 37 Detto questo è chiaro, però, che la bellezza, concetto chiave dell’estetica del Seicento, interessò anche il Mancini, sebbene non parli esplicitamente di una Idea della bellezza superiore alla natura. Egli fa consistere la bellezza nelle rinascimentali proporzioni e soprattutto nel decoro: «Questo decoro di necessità ha in sé la bellezza della figura, la quale, in proposito nostro, non è quella che tira a sé per fruitione, ma quella che ha proportione e constitutione conveniente ad ogni età e persona. E così quella proporzione e constitutione conveniente ad ogni età e persona sarà questa bellezza, ma, per intendere più esattamente questa bellezza della pittura, deve aver prima l’espression propria di quella tal cosa che rappresenta, et appresso che quella cosa che vien imitata habbi in sé la proportion delle parti che li conviene, con il colore che necessariamente seguita a quel tal essere» 68. Il decoro veniva inteso, quindi, sia come convenienza, ovvero come esclusione di tutto ciò che è indecente, sia come corrispondenza al fine e al carattere proprio del soggetto rappresentato 69; in ogni caso tutto ciò che manca di proporzione, esulava dal decoro, così come la scorretta rappresentazione del costume delle figure, ed è forse in quest’ambito che potrebbe ricadere un’ accusa a Caravaggio, il quale per rappresentare la 68 Ibidem, pp. 120-121. 38 Madonna prese una meretrice per modella 70: «…si deve considerare il costume delle figure che habbin quell’esser proprio in effigie, affetto et operatione, con la quale vogliamo esprimere una persona che facci quella tal operatione. E di qui si puol vedere quanto che alcuni moderni faccin male, quali, per descrivere una Vergine e Nostra Donna, vanno retrahendo qualche meretrice sozza, come faceva Michelangelo da Caravaggio…» 71. Con questo Mancini vuol far capire anche il carattere del pittore, a cui tutti i biografi fanno riferimento, mettendo in evidenza soprattutto una forte aggressività, che risulta essere uno dei suoi tratti fondamentali. Secondo Mancini fin dalla prima gioventù egli avrebbe compiuto «qualche stravaganza causata da quel calor e spirito così grande» 72; questo però gli avrebbe comportato di morire ancora giovane e di farne diminuire la gloria acquistata dipingendo 73. Di grandissima importanza è il fatto che Mancini individua un filone preciso della pittura contemporanea, quello dei naturalisti e soprattutto dobbiamo sottolineare che per primo egli ha enucleato un insieme di 69 Salerno in Mancini, op. cit, Vol. II, p. XV. L’opera a cui si fa riferimento è la Morte della Vergine; il dipinto venne rifiutato dai monaci di Santa Maria della Scala, la chiesa dei carmelitani scalzi. 71 Mancini, op. cit., p. 120. 72 Ibidem, p. 223. 73 Ibidem, p. 226, « non si può negare che non fusse stravagantissimo, e con queste sue stravaganze non si sia tolto qualche decina d’anni di vita et minutasi in parte la gloria 70 39 pittori che ammodernarono il loro linguaggio seguendo il naturalismo caravaggesco, parlando di una vera e propria «schola del Caravaggio, assai seguita, camminando per essa con fine, diligentia e sapere Bartolomeo Manfredi, lo Spagnoletto, Francesco detto Cecco del Caravaggio, lo Spadarino et in parte Carlo Venetiano» 74. Mancini descrive anche i tratti principali che caratterizzano questa scuola, dicendo che è una loro prerogativa «lumeggiar con lume unito che venghi d’alto senza riflessi…che così, avendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto scure, vengono a dar rilievo alla pittura…Questa schola è molto osservante del vero…le lor figure mancano di moto e d’affetti e di gratia»75. In realtà il Caravaggio non ebbe né una bottega né allievi diretti. Di conseguenza, il gruppo dei pittori attratti dal suo modo di dipingere fu molto eterogeneo, ma è importante e significativo osservare che, ad una data abbastanza precoce come questa, un “intenditore” abbia percepito il fatto che Caravaggio avesse avuto un’influenza assai vasta e che si fosse creato dietro a lui un gruppo di pittori “naturalisti”, che solo in seguito prenderanno il nome di “caravaggeschi”. acquistata con la professione: e col viver si sarebbe aumentato con grand’utile dè studiosi di simil professione». 74 Ibidem, p. 108. 40 CAPITOLO III 75 Ibidem, pp. 108-109. 41 CARAVAGGIO FUORI D’ITALIA 1. Il giudizio su Caravaggio nei trattati d’arte di Vicente Carducho e Francisco Pacheco Tra il 1633 e il 1649 in Spagna furono dati alle stampe due importanti trattati dedicati alla pittura, opera di due pittori: i Dialogos di Vicente Carducho e l’ Arte de la Pintura di Francisco Pacheco. Questi due trattati sono fortemente legati alla tradizione storiografica italiana, anche se né Carducho né Pacheco ebbero modo di fare un viaggio in Italia. La loro cultura figurativa si era formata sulle collezioni spagnole contemporanee, che, anche se molto ricche, offrivano un punto di vista parziale dell’arte italiana tra Cinquecento e Seicento; i due trattati sono, pertanto, costituiti sulla base di reinterpretazioni e combinazioni di diverse fonti letterarie 76. 76 Cfr. C. Gauna, Giudizi e polemiche intorno a Caravaggio e Tiziano nei trattati d’arte spagnoli del XVII secolo : Carducho, Pacheco e la tradizione artistica italiana, in Ricerche di storia dell’arte, n. 64, Roma, 1998, p. 58. 42 Raramente Carducho e Pacheco sono in accordo tra loro; entrambi pittori, avevano notizia l’uno dell’altro, ma si ignoravano reciprocamente, elaborando, talvolta, posizioni quasi antitetiche. Questo accade perché i due hanno formazioni diverse: Carducho era un italiano (fiorentino) emigrato in Spagna ed aveva una cultura tardomanierista, mentre Pacheco era uno spagnolo incline ai nuovi modi di dipingere. Al capitolo XI del secondo libro dell’Arte de la Pintura di Pacheco, Que declama entre varias maneras de pintura cuàl se haya de seguir 77 , corrisponde il Dialogo VI del trattato di Carducho, il quale Trata de las diferencias de modos de pintar, y si se puede olvidar: De las pretensiones que entre si, tienen la pintura y la Escultura: y si podrà conocer de Pintura el que no fuere Pintor 78 ; la lettura di questi due capitoli permette di focalizzare il giudizio che i due scrittori formuleranno su Caravaggio. Uno dei passi di maggiore interesse dei Dialogos di Carducho riguarda proprio il Merisi: 77 F. Pacheco, Arte de la Pintura , Sevilla, 1649, ed. cons. a cura di F. J. Sanchez Canton, Madrid, 1956, p. 430. 78 V. Carducho, Diàlogos de la Pintura , Madrid, 1633, ed. cons. a cura di F. Calvo Serraller, Madrid, 1979, p. 265. 43 «En nuestros tiempos se levantò en Roma Michael Angelo de Carabaggio, en el Pontificado del Papa Clemente VIII con nuevo plato, con tal modo, y salsa guisado, con tanto sabor, apetito y gusto, que pienso se ha llevado el de todos con tanta golosina y licencia, que temo en ellos alguna apoplexia en la verdadera doctrina: porque le siguen glotonicamente el mayor golpe de los Pintores, no reparando si el calor de su natural (que es su ingenio) es tan poderoso, ò tiene la actividad que el del otro, para poder digerir simple tan recio, ignoto, e incompatible modo, como es el obrar sin las preparaciones para tal accion? Quien pintò jamas y llegò a hazer tan bien como este monstruo de ingenio, y natural, casi hizo sin preceptos, sin doctrina, sin estudio, mas solo con la fuerza de su genio, y con el natural delante, a quien simplemente imitava con tanta admiracion? Oi dezir a un zeloso de nuestra profesion, que la venida deste ombre al mundo, seria presagio de ruina, y fin de la pintura, y que asi como al fin deste mundo visibile, el 44 Anticristo con falsos y portentosos milagros, y prodigiosas acciones se llevarà tras de si a la perdicion tan grande numero de gentes, movidas de ver sus obras, al parecer tan admirables (dunque ellas en si enga_osas, falsas, y sin verdad, ni permanencia) diziendo ser el verdadero Cristo, asi este AnteMichelAngelo con su afectada y exterior imitacion,admirabile modo y viveza, ha podio persuadir a tan grande numero de todo genero de gente, que aquella es la buena pintura, y su modo y doctrina verdadera, que han buelto las espaldas al verdadero modo de eternizarse, y de saber con evidenzia y verdad desta materia» 79. Questo brano è inserito nel Dialogo Sexto, dedicato al problema della varietà delle maniere: i modi di dipingere possono essere diversi e possono essere considerati come cibi differenti di uno stesso banchetto; Caravaggio è un cibo indigesto e pericoloso. Lo stile di Caravaggio è infatti paragonato ad un piatto appetitoso e condito, che supera gli altri per golosità, ma alla fine risulta essere 79 Ibidem, pp. 270-271. 45 indigeribile; tramite questa metafora, Carducho esprime un giudizio abbastanza severo nei confronti del Merisi, il quale, secondo lui, dipinge con una “maniera” sconosciuta e difficile da capire; poco più avanti, però, sembra contraddirsi, affermando che mai nessun altro pittore arrivò mai a dipingere tanto bene come, invece, ha fatto questo “mostro di ingegno” e “naturalezza”, il quale è riuscito a raggiungere tali risultati solo con la forza del suo “genio”, imitando la natura “con tanta ammirazione”. Certamente Carducho aveva intuito che Caravaggio si era distaccato dalla tradizione manierista, tanto che lo definisce anti-Michelangelo, il che significa che lo scrittore lo vedeva come la negazione e l’antitesi della tradizione artistica cinquecentesca. Carducho non sembra interessato a problemi che riguardano il “decoro”, concetto chiave per larga parte della cultura artistica italiana, ma sembra guardare con più attenzione al rapporto tra arte e natura; inoltre non è solo Caravaggio ad essere attaccato, ma anche la diffusione del suo modo di dipingere, che può portare alla distruzione della pittura. Carducho, pittore di formazione tardomanierista, attacca quindi, pur riconoscendo a Caravaggio una grande abilità, l’arte intesa come pura imitazione; nel suo intendimento, infatti, l’arte deve essere imitazione “artificiosa” della natura: «la Pintura es quien artificiosamente imita a la 46 naturalezza, porque mediante su ingenioso artificio, vemos, y entendemos todo lo que con la misma verdad nos ense_a y demuestra la propria naturalezza, de formas, cuerpos, afectos y casos»80, ed una rappresentazione priva dell’artificio significa inganno ed illusione; pertanto, secondo Carducho, occorreva trovare una difesa da opporre al naturalismo caravaggesco e a tutti i pittori naturalisti, paragonati a medici sperimentali che, senza sapere come, fanno miracoli: «a los que hazen las tales pinturas de simple imitacion, los venero como a medicos impiricos, que sin saber la causa hazen obras milagrosas: y es certo que en el tribunal de los sentidos tendran aplauso grande, y sus obras causaran adombro, enga_ando tal vez el de la vista con la afectuosa imitacion, y de todos los que militan en este tribunal, no dublo se llevaran la voz y el Victor; si bien en el de la razon y entendimiento no osarar paracer… Que se hagan pinturas con tanta semejanza y viveza que basten a enga_ar la vista, pensando ser verdadero lo que està pintado, concedo que puere 80 Ibidem, p. 151. 47 ser,y que teles pinturas seràn dignas de penombre, tanto, que pienso que las que vemos oi de aquellos grandes hombres, tan estmados y celebrados entre los eruditos y doctos, carecen desta prompta viveza, y afectuosa propriedad exterior, para ser en todos perfectas; y como queda dicho, si ellos vieran la osadia y facilidad que oi vemos en las colores no dudo que con admiracion las celebraran» 81 . La “maniera” caravaggesca aveva avuto un forte impatto anche fuori d’Italia, grazie alla diaspora dei pittori francesi, olandesi e fiamminghi che, attivi a Roma, erano ritornati nei loro paesi; secondo Carducho, il naturalismo andava combattuto e sconfitto. Diverso era, invece, il punto di vista di Francisco Pacheco, il quale, nella sua Arte de la Pintura, scrive alcune righe che riguardano direttamente il Caravaggio: «Porque muchos valientes pintores pasaron sin la hermosura y suavidad, pero no sin el relievo, como el Basan, Michael Angelo Caravacho y nuestro 81 Ibidem, pp. 201-202. 48 espa_ol Jusepe de Ribera; y aùn tambièn podemos poner en este numero a Dominico Greco, porque dunque escribimos en algunas partes contra algunas opiniones y paradoxas suyas, no lo podemos excluir del numero de los grandes pintores, viendo (en aquella su manera), que igualan a las de los mayores hombres (como se dice en otro lugar); y no sòlo se ve la verdad de lo que vamos dicendo en estos pocos que hemos puesto por exemplo, pero en otros muchos que los siguen: que no sòlo no pintan cosas hermosas, mas antes ponen su principal cuidado en efectar la fealdad y la fiereza» 82. Questo brano punta l’attenzione su una “maniera” di colorire ben precisa, ovvero quella “di rilievo”; tra i pittori che la utilizzarono nel modo più esemplare, compare anche il nome di Caravaggio. Pacheco cerca di dare importanza ad una pittura di grande impatto visivo e quindi pone il Caravaggio tra coloro che attraverso il rilievo, e quindi attraverso il colore ed il chiaroscuro, potevano raggiungere grandi e nuovi risultati, rompendo, ovviamente, con la tradizione ed i canoni 82 Pacheco, op. cit., p. 404. 49 stilistici cinquecenteschi; inoltre l’imitazione del naturale è intesa da Pacheco come un metodo creativo, in cui il modello vivente è da preferirsi alle statue, ed è l’unica guida del pittore 83: «Pero yo me atengo al natural para todo; y si pudiese tenerlo delante sempre y en todo tempo, no sòlo para las cabezas, desnudos, manos y pies, sino tambièn para los pa_os y sedas y todos los demàs, serìa lo mejor. Asì lo hacìa Micael Angelo Caravacho…» 84. Caravaggio è dunque, secondo Pacheco, un modello di riferimento per la nuova “maniera naturalista” e meta verso cui la pittura dell’epoca doveva tendere. 2. Karel Van Mander e Joachim von Sandrart Karel Van Mander, pittore e scrittore d’arte olandese, deve la sua fama alla sua più grande opera letteraria, intitolata Het Schilderboek 85, ovvero il “libro dei pittori”, la prima esposizione universale della storia dell’arte dell’Europa settentrionale. 83 84 Cfr. Gauna, op. cit., p. 66. Pacheco, op. cit., p. 443. 50 Van Mander rappresenta, in modo esemplare, la tipologia dell’artista erudito: studioso di filosofia e letteratura, conoscitore delle lingue antiche, apprezzato come traduttore dei classici latini, egli appartiene alla schiera dei dotti poeti didascalici 86. Lo Schilderboek si presenta come un’opera complessa ed articolata in più parti: viene aperta da un lungo poema didascalico in versi, in cui l’autore tratta i fondamenti teorici della pittura, seguono i tre libri storici, di cui il primo tratta della storia dell’arte antica; il secondo, nel modello vasariano, dei pittori italiani, il terzo, infine, tratta dei pittori fiamminghi, olandesi e tedeschi, partendo da van Eyck fino al suo tempo. Completano l’opera un’esposizione della “bibbia dei pittori”, ovvero le Metamorfosi di Ovidio, ed un sommario di arte antica e di mitologia. Quest’opera risulta per noi particolarmente interessante per il giudizio che Van Mander esprime nei confronti di Caravaggio, anche se mostra di aver ricevuto notizie su di lui fino al periodo “a cavallo” fra i due secoli, e cioè fino a quando il Merisi era famoso per le sue opere “in chiaro” della giovinezza e per quelle della prima maturità, come il San Tommaso, dipinto per il marchese Giustiniani, e i quadri di San Luigi, 85 K. Van Mander, Het schilderboek , Alkmaar, 1604, ed. italiana a cura di R. de Mambro Santos, Sant’Oreste, 2000. 86 Cfr. J. Schlosser Magnino, La letteratura artistica , Wien, 1924, ed. cons. La Nuova Italia, Milano, 2000, p. 356. 51 ma non aveva ancora dipinto né le tenebrose tele di Santa Maria del Popolo, né la Deposizione di Cristo, né la Morte della Vergine: «A Roma c’è un certo Michel Angelo da Caravaggio che fa cose meravigliose: anch’egli, come Giuseppe d’Arpino, innalzatosi dalla povertà con la diligenza, con la forza ed il coraggio, mettendo mano a tutto e tutto prendendo, come fanno coloro che non vogliono restare in basso per la loro timidezza, ma si mostrano franchi e cercano con decisione soprattutto il loro vantaggio, ciò che se accade in modo onesto non è da biasimare, poiché la fortuna non usa di frequente offrirsi spontaneamente, ma qualche volta occorre anche cercarla, provocarla e pregarla. Questo Michel Angelo con le sue opere ha già raggiunto gran fama e si è fatto un nome» 87 . Fin da queste prime righe, possiamo capire che Van Mander ha di Caravaggio una buona opinione, al punto di affermare che egli «fa cose meravigiose»; inoltre lo apprezza e gli riconosce il merito di aver avuto 87 K. Van Mander, op. cit., p. 191. 52 una grande forza di volontà e di essere riuscito a venir fuori dalla povertà con «diligenza» e «coraggio» dipingendo ogni tipo di soggetto senza nessuna vergogna. Poco più avanti, Van Mander, ci offre la prima descrizione dello stile del Caravaggio: «egli è uno di quelli che non fanno molto conto delle opere di alcun maestro, anzi non loda apertamente neanche sé stesso. Egli dice che non si tratta che di bagattelle, cose infantili e menzognere, non importa che cosa si dipinga o da chi sia dipinto, quando non si è fatto e raffigurato dal vero, e che non c’è nulla di buono o di meglio, che seguire la natura. Ne deriva che egli non esegue un solo tratto senza farlo direttamente dal modello vivo, copiandolo e dipingendolo» 88. Come possiamo vedere, riprende e segue le posizioni dei maggiori biografi e studiosi del tempo; infatti, pur registrandone la portata profondamente innovatrice e riconoscendo il fatto che «questa non è una cattiva via per giungere a buon fine, perché dipingere servendosi di disegni non è così sicuro come tenere il vero davanti a sé e seguire la natura in tutta la varietà dei suoi colori» 89 , anche egli sostiene che «bisogna principalmente adottare il criterio di scegliere dal bello le cose 88 89 Ibidem, p. 192. Ibidem, p. 192. 53 più belle» 90 , adeguandosi così alla teoria del bello ideale che stava sempre più prendendo forma in quegli anni e che, evidentemente, influenzava non solo la maggior parte degli scrittori italiani, ma, a quanto pare, anche quelli stranieri, sebbene, come nel caso di Van Mander, profondamente legati all’Italia e alle sue vicende artistiche e storiografiche. Nonostante tutto, il biografo olandese continua a parlare del Caravaggio in modo positivo e crede che «per quanto riguarda il fare delle sue opere, esso è tale da incontrare moltissimo consenso ed offre ai giovani pittori un modello ammirevole da seguire» 91. Come spesso avviene nei primi anni del Seicento, però, il giudizio che viene espresso sulla sua arte non coincide con quello dato sul suo comportamento e sul suo carattere arrogante e violento, sottolineato anche dal Van Mander, il quale termina il suo racconto su Caravaggio sostenendo che: «egli non si dedica mai allo studio con assiduità: quando ha lavorato quindici giorni, si dà al bel tempo per un mese. Spada al fianco e un paggio dietro di sé, si porta da un campo di gioco all’altro; sempre pronto a rissare e ad azzuffarsi, non è troppo comodo accompagnarsi con lui. 90 91 Ibidem, p. 192. Ibidem, p. 192. 54 Tutto ciò non assomiglia molto alla nostra professione, perché Marte e Minerva non sono mai stati troppo amici» 92. Un’altra grande opera in cui incontriamo un giudizio su Caravaggio, è la Teutsche Academie di Joachim von Sandrart, pittore, incisore e scrittore d’arte tedesco, vissuto dal 1606 al 1688; durante la sua vita ebbe modo di viaggiare per tutta l’Europa e di soggiornare nei centri culturali più importanti dell’epoca, tra cui Roma, dove visse in mezzo ai movimenti artistici più vivi ed entrò in stretti rapporti con artisti come Bernini, Domenichino, Pietro da Cortona e Poussin 93. La sua monumentale opera, “L’accademia tedesca”, pubblicata in latino a Norimberga nel 1683, è divisa in tre parti: la prima contiene l’introduzione generale alle tre arti (il Sandrart si è qui servito dell’Introduzione alle arti del disegno del Vasari, del Palladio, del Serlio e del Van Mander); la seconda parte, corredata di bellissimi ritratti incisi, contiene le biografie dei maggiori artisti dall’antichità in avanti; fonte principale è, anche qui, il Vasari di cui però l’autore si serve, più che altro, attraverso l’elaborazione del Van Mander; la terza ed ultima parte contiene informazioni sulle collezioni d’arte e una sorta di repertorio iconografico; a chiusura dell’opera, come già nel Van Mander, troviamo la traduzione delle Metamorfosi di Ovidio. 92 Ibidem, p. 193. 55 Nella seconda parte di questa monumentale opera trova posto anche una biografia di Caravaggio, al quale l’autore riserva un elogio importante e che merita attenzione. La fonte principale è senza dubbio il Van Mander, accresciuta però dalle favole create nei quasi settant’anni trascorsi dalla morte del pittore, e soprattutto dai ricordi preziosi del viaggio in Italia, avvenuto durante gli anni trenta: «Caravagii Italorum primis relicta veteri metodo simplicissimam sequebatur naturam atque vitam: unde nunquam penicillum nisi ad viva exemplaria applicabat, rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec veritatem colore assecutus esset. Ut autem rotundam corporum molem et naturalem rerum elevationem eo melius exprimeret, data opera conclavibus utebatur obscuriribus est supernis uno lumine minore collustratis, ut ideae lumen est finestra allapsum eo minus alio lumine impediretur, umbre autem eo fortiores prodirent, adeoque debita 93 Cfr. J. Schlosser Magnino, op. cit., p. 479. 56 exhinc resultaret extuberantia…Unde hanc methodum deinceps omnes sequebantur Itali, structis pariter conclavibus pictoris; quae via deinde et in Germania atqe Belgio introduca est» 94. Questo è, senza dubbio, il passo più importante della biografia; Sandrart ha in parte compreso Caravaggio e la sua pittura; infatti si è reso conto che egli è stato il primo pittore italiano ad allontanarsi dalla tradizione manierista cinquecentesca e quindi a rompere definitivamente i legami con il passato, introducendo un modo di dipingere che imita la natura. Sandrart, però, non si limita a questo, ma individua anche l’altra grande novità del Caravaggio, ovvero l’utilizzo della luce come mezzo per costruire e dare rilievo alle forme; questa “maniera”, aggiunge il biografo, ha riscosso molto successo, tanto che non è stata seguita solo in Italia, ma si è diffusa anche in Germania ed in Belgio. Indubbiamente nel 1675, anno della pubblicazione dell’ Accademia tedesca, queste posizioni non sono nuove, dal momento che altri, a partire da Agucchi e Mancini, avevano compreso la “forza” delle novità apportate dal Merisi, in particolar modo per quanto riguarda la luce ed il colore; inoltre, a questa data, erano già state pubblicate le Vite del 94 J. Von Sandrart, Teutsche Accademie der Edlen Bau – Bild - und Mahlerey - Künste, 57 Bellori, nelle quali veniva espresso su Caravaggio un giudizio negativo che influenzò tutta la letteratura artistica immediatamente successiva. Questo mostra che Sandrart, soprattutto per quanto riguarda gli artisti che non sono tedeschi e che non sono contemporanei a lui (per i quali, invece, offre un contributo veramente notevole) si attiene molto alle fonti precedenti ed in modo particolare a Van Mander, il quale, parlando di Caravaggio nel suo Libro dei pittori, ne aveva riconosciuto la portata innovatrice. In effetti, nonostante Sandrart non citi mai le sue fonti, talvolta le copia in modo pedissequo. Basti leggere: «Omnia igitur contemnebat, quae ad viva exemplaria picta non essent, nugas eadem, titivilitium, et opera chartacea appellando, cum nihil bonum dici posset, nisi quod naturam quam proxime imitaretur. Quea via sane ad perfectionem aspirandi non est contemnenda; modo in coeteris theoria haud desit, cum nulla idea, nullamque prototypum diagraphicum, quantumvis optimum naturae ipsi aequiparari queat» 95; questa non è altro che la traduzione, quasi letterale, del celebre passo che si trova nel Libro dei pittori del Van Mander : «egli dice che non si tratta che di bagattelle, cose infantili e menzognere, non importa che cosa si Nürnberg, 1675, ed. latina Nürnberg, 1683, p. 181. 58 dipinga o da chi sia dipinto, quando non si è fatto e raffigurato dal vero, e che non c’è nulla di buono o di meglio, che seguire la natura…Certo questa non è una cattiva via per giungere a buon fine, perché dipingere servendosi di disegni, non è così sicuro come tenere il vero davanti a sé…Ma bisogna adottare il criterio di scegliere dal bello le cose più belle»96. In ogni caso, questo elogio che Sandrart pronuncia nei confronti di Caravaggio, è, a mio avviso, più chiaro ed esplicito di tutti quelli che si possono trovare nella “critica d’arte” italiana del Seicento. 95 Ibidem, p. 182. 59 CAPITOLO IV CARAVAGGIO: UN UOMO «SATIRICO, ALTIERO E DISCOLO» NELLA BIOGRAFIA DI GIOVANNI BAGLIONE Giovanni Baglione, primo storiografo romano, pubblicò una raccolta di biografie di artisti operanti a Roma e limitata al periodo dal 1572 al 1642, cioè dal pontificato di Gregorio XIII a quello di Urbano VIII. Pittore, interpretò a suo modo lo spirito di novità presente nelle opere del Caravaggio, del quale scrive una biografia esprimendo un giudizio piuttosto negativo. Questo va ricondotto probabilmente anche al fatto che Baglione in gioventù aveva subito l’ascendente della pittura del Caravaggio, ma nel 1603 aveva denunciato il Merisi per aver diffuso su di lui poesie diffamatorie: infatti Caravaggio e i suoi amici (Onorio Longhi, Orazio Gentileschi e Filippo Triregni) avevano scritto delle poesie che infangavano Baglione e la sua pittura; tutto questo derivò da una rivalità professionale causata dalla commissione per una Risurrezione, che Baglione aveva ottenuto per la chiesa dei Gesuiti a Roma. 96 Van Mander, op. cit., p. 192. 60 In occasione del processo, Caravaggio lo giudicò un «cattivo pittore» e aggiunse: «io non so niente che ce sia nessun pittore che lodi per buon pittore Giovanni Baglione» 97. Ciò che Baglione riferisce a proposito di quanto Federico Zuccari avrebbe detto in merito ai dipinti della Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, sembra quasi una vendetta; quei dipinti, secondo il Baglione, erano apprezzabili solo come «pitture del naturale» 98 ,e stando alla sua testimonianza lo Zuccari avrebbe detto: «Che rumore è questo? Io non ci vedo altro che il pensiero di Giorgione» 99; nella frase successiva, in cui il Baglione narra che lo Zuccari «voltò le spalle e andossene con Dio» 100 , sembra quasi un atto di liberazione da qualcosa da cui da solo non era riuscito a liberarsi. In tutte le altre vite di artisti, infatti, si sforza di conservare la massima obiettività documentaria, ma nella biografia di Caravaggio vediamo soprattutto lo sforzo di risolvere un problema che per lui rappresentava anche un fatto personale, il Baglione cerca quindi di neutralizzare il suo disprezzo per il Caravaggio, prendendo in prestito l’opinione di Federico 97 L. Spezzaferro, Una testimonianza per gli inizi del caravaggismo , in Storia dell’arte , n. 23, 1975, p. 125 e seg. 98 G. Baglione, Le vite de’ pittori, scultori et architetti. Dal Pontificato di Gregorio XIII del 1572 in fino a’ tempi di Papa Urbano Ottavo nel 1642, Roma, 1642, ed. cons. a cura di Gradara Pesci, Velletri, 1924, p. 137. 99 Ibidem, p. 137. L’interpretazione del naturalismo che qui viene proposta è da inserire nella concezione del colore ed è da ricondurre, anziché ai precedenti lombardi, alla grande tradizione veneziana. 61 Zuccari, che gli serve solo per negare ogni originalità alla pittura del rivale. L’atteggiamento spregiativo, che secondo il Baglione Caravaggio avrebbe dimostrato nei confronti di tutti gli altri pittori 101 , serve al biografo per evidenziare il carattere problematico dell’artista. A questo proposito scrive: «Michelagnolo Amerigi fu huomo satirico e altiero… Per soverchio ardimento di spirito fu un poco discolo, e tal’ora cercava occasione di ficcarsi il collo o di mettere a sbaraglio l’altrui vita»102. Quello che colpisce di Caravaggio, e che viene sottolineato da tutti i biografi, è la forte aggressività, che poi spesso lo portò a finire nei guai e ad aver problemi con la giustizia; emblematicamente i biografi del tempo, però, fecero di tutto per costruire un’ immagine negativa di questo pittore, e di lui scrissero che era assai provocatorio non solo nel comportamento, ma anche nell’aspetto e negli abiti; basti ricordare a questo proposito la descrizione del Bellori: «usando egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un abito, mai lo 100 Ibidem, p. 137. Ibidem, p. 138, «ed uscia tal’hora a dir male di tutti li pittori passati, e presenti per insigni, che si sussero;poiché a lui parea d’haver solo con le sue opere avanzati tutti gli altri della sua professione». 102 Ibidem, p. 138. 101 62 tralasciava, finchè non gli cadeva in cenci. Era negligentissimo nel pulirsi»103 . E’ chiaro che il fatto di sottolineare questo comportamento di indossare abiti prima pregiati e poi cenciosi, voleva far emergere un carattere provocatorio attraverso il quale si poteva rendere esplicita la posizione dell’«uomo satirico», colui, cioè, che non si adegua alle norme sociali; inoltre, questo dissenso spingeva il Caravaggio, sempre secondo il Baglione, ad avere un comportamento strafottente, ad essere, cioè, «altiero e discolo». Baglione non spiega le ragioni che secondo lui spingevano il Caravaggio a comportarsi così; l’intento era però, chiaramente, quello di mostrare il Merisi come un uomo isolato dal resto del mondo: un uomo totalmente incapace di comunicare e che quindi mancava di equilibrio nella vita quotidiana, nella quale è anche necessario intrattenere dei rapporti sociali104; nella sua biografia Baglione vuol così far emergere, in modo evidente, l’assoluto abbandono di quell’esistenza: «senza aiuto humano, né divino in pochi giorni morì male come appunto male aveva vivuto» 105. 103 G. P. Bellori, op. cit., p. 220. In realtà le cose furono ben diverse: basti ricordare che Caravaggio era protetto da alcuni degli uomini più ricchi e più potenti del momento. 105 Ibidem, p. 139. 104 63 La biografia di Caravaggio si chiude con delle brevi notazioni sulla sua pittura, che risultano essere meno severe rispetto al giudizio che dà della sua vita; il biografo ritiene che Caravaggio non disponesse di un criterio valido per distinguere il buono dal cattivo, dal momento che si limitava a dipingere la natura pura e semplice, così come si presenta 106. Su un giudizio del genere, però, non pesa tanto la rivalità tra i due pittori in quanto Caravaggio negava la maniera e, secondo la concezione allora dominante, per raggiungerla era necessario trasformare la natura mediante l’intelletto e attraverso le regole dell’arte; la pura imitazione della natura non era maniera, perché non seguiva le regole e mancava di giudizio artistico. In questo modo Baglione si allinea al modo classicistico di vedere le cose. Nonostante tutto, conclude Baglione «acquistò gran credito, e più si pagavano le sue teste, che l’altrui historie, t_to importa l’aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con l’orecchie. E nell’accademia il suo ritratto è posto» 107 ; qui Baglione critica i suoi contemporanei che, a suo modo di vedere, non seppero valutare con obiettività l’operato di Caravaggio, ma si lasciarono confondere le idee 106 Ibidem, p. 139, «…benché egli nel rappresentar le cose non avesse molto giudicio di scegliere il buono, e lasciare il cattivo». 107 Baglione, op. cit., p. 139. 64 da quello che veniva detto a proposito di lui, il quale, nonostante tutto, aveva raggiunto una certa popolarità e fama, al punto che il suo ritratto, fu posto nell’Accademia insieme a quello dei più grandi artisti. 65 CAPITOLO V I BIOGRAFI DELLA SECONDA META’ DEL SEICENTO 1. Luigi Scaramuccia: un parere del tutto classicistico Nella seconda metà del secolo si fa sempre più forte e preminente l’ideale classicistico, che annovera tra le sue file diversi protagonisti della letteratura artistica; uno di questi fu Luigi Scaramuccia, nato a Perugia e formatosi originariamente come pittore alla scuola del padre Giovanni Antonio. Giunto a Roma in età ancora giovanile, si dette allo studio delle statue antiche e alla copia delle opere dei maggiori maestri 108 ed è dopo questo periodo di “riapprendimento” classicistico che formulerà le sue posizioni di scrittore d’arte. Del 1674 è la pubblicazione della sua opera letteraria, Le finezze de’ pennelli italiani, una raccolta di appunti di viaggio corredati da brevi giudizi critici legati tra loro con una trama tra il biografico ed il 66 romanzesco; lo scritto era pronto nelle sue linee essenziali già nel 1666, in quanto sappiamo che a quella data l’autore sottoponeva il manoscritto al giudizio degli Accademici di S. Luca, i quali la giudicarono positivamente109. Il protagonista dell’opera è un giovane di nome Girupeno; già avviato alla pittura dal padre, il ragazzo perde di vista la retta via per seguire i piaceri della vita e ad un certo punto si trova ad un bivio: deve scegliere se continuare sulla strada del vizio o se rinsavire. A questo punto una voce lo chiama e viene condotto ad un palazzo dove, tra gli spiriti degli uomini più illustri del passato, soggiorna la personificazione della Virtù che lo affida al genio di Raffaello affinché lo riconduca sulla retta via e lo riporti alla sua vera vocazione, che è quella di fare il pittore. Così, assistito dall’illustre maestro, Girupeno inizia a studiare le opere dei grandi artisti del passato, prima a Roma, poi nelle altre città italiane. Le Finezze si inseriscono appieno entro la tendenza classicistica della storiografia artistica del maturo Seicento; in primo luogo per il culto di Raffaello 110 , un atteggiamento abbastanza generalizzato del XVII 108 L. Scaramuccia, Le finezze de’ pennelli italiani , Pavia 1674, ed. cons. a cura di G. Giubbini, Milano, 1965, p. 7. 109 Ibidem, p. 8. 110 Raffaello è l’artista che rappresenta, per il classicismo seicentesco, un modello imprescindibile. 67 secolo, ma che qui viene evidenziato in un modo particolarmente intransigente; in secondo luogo per la condanna del realismo caravaggesco, criticato per la mancanza di decoro unitamente al rimprovero di non saper fare nulla senza avere un modello davanti: «Quantunque questo pittore habbi dato in tal bizzaria, e che per essa ne sia stato gradito, piacendo ad ogn’ uno la novità dell’ invenzioni, non resta però ch’ ei non ne possa venire alquanto biasimato, essendo uscito da quel decoro, che si conviene alla persona di Cristo Signor Nostro 111. Per finirla è stato quest’Huomo un gran Soggetto, mà non Ideale, che vuol dire non saper far cosa alcuna senza il naturale avanti» 112 . Questo giudizio che Scaramuccia dà sul Caravaggio si allinea decisamente con la linea di pensiero predominante in quel momento. Dice infatti che il suo modo di dipingere fu strano e che, nonostante a qualcuno potesse anche piacere la sua innovazione, resta il fatto indiscutibile che è uscito fuori dai confini del decoro. Ho già detto altrove che la categoria del decoro è una componente essenziale del modo di giudicare la pittura nel corso del Seicento e che consisteva non solo di ogni indecenza, ma soprattutto nel precetto di rappresentare correttamente le figure, con abiti e pose appropriate al 111 Scaramuccia si sta riferendo ad un quadro perduto del Caravaggio dipinto a Napoli per la chiesa di Sant’Anna dei Lombardi; si trattava di una resurrezione di Cristo. 112 Ibidem, p. 76. 68 tempo, al luogo ed al soggetto rappresentato, in modo particolare se si trattava di raffigurazioni sacre, come nel dipinto di Caravaggio di cui parla Scaramuccia: «e quando osservarono il Cristo, non come d’ordinario far si suole, agile, e trionfante per l’aria; ma con quella sua serissima maniera di colorire, con un piede dentro, e l’altro fuori del Sepolcro posando in terra, restarono per simile stravaganza con qualche apprensione» 113. Altra accusa tipica che all’epoca veniva rivolta al Merisi e che possiamo individuare anche nelle parole dello Scaramuccia è l’affermazione che Caravaggio è stato «un gran soggetto, mà non Ideale» 114 ; il biasimo è ovviamente quello di non aver rispettato l’Idea della bellezza che, come sappiamo, consisteva nel saper tirar fuori la bellezza ideale dalla natura imperfetta, scegliendo di rappresentare le parti più belle di essa, mentre il Caravaggio non sa fare «cosa alcuna senza il naturale avanti» 115. In questo momento era necessario e di assoluta importanza imitare i modelli dell’antichità classica, dal momento che questo significava recuperare gli ideali di misura, di equilibrio e di ordine, reagendo così da un lato agli artifici della “maniera”, dall’altro al naturalismo caravaggesco, avversato quasi da tutti incondizionatamente; alla base di 113 Ibidem, p. 76. Ibidem, p. 76. 115 Ibidem, p. 76. 114 69 questo stava appunto il consolidarsi di particolari concezioni: l’idea che l’artista debba costantemente distinguere il perfetto dall’imperfetto, l’ordine dal disordine, il bello dal brutto. Tali capacità, secondo lo Scaramuccia, potevano acquisirsi soltanto esercitandosi nella copia delle opere antiche, fino al conseguimento, da parte del pittore, di quella “maniera ideale” che consentiva di imitare direttamente la natura distinguendo il bello dal brutto: «fia bene che tu facci ciò che fai, e puoi secondo il tuo talento, con la memoria delle cose già vedute, e poscia all’hora quando non potrai più sostenerti, servirti dell’appoggio della stessa Natura, e considerarlo con il gusto de’ primi soggetti» 116. Inoltre, continua Scaramuccia, la natura vuole «che s’investighi il suo più bello, onde comparir ne deggia più pomposa…né gradisce esser trattata vile, indiretta, e dissomigliante da quella che ella è in effetto, come fan talluni, i quali…la deformano, anzi che abbellirla…rare volte, o mai sono Ideali quei Pittori, i quali del tutto stanno avviticchiati al naturale» 117 , proprio come il Caravaggio che si è del naturale à tutta briglia» 118 «dato all’imitazione senza modificare nulla, ma rappresentando le cose nel modo in cui sono. 116 Ibidem, p. 30. Ibidem, p. 32. 118 Ibidem, p. 11. 117 70 Alla luce di tutto questo è chiaro che, pur condividendone l’esigenza di rinnovamento e sebbene si sia delineato parallelamente al naturalismo caravaggesco, il classicismo ne rappresenta l’antitesi e per questo, chiunque in quel momento si fosse avvicinato alle posizioni classicistiche e ne avesse condiviso i principi, non avrebbe potuto in alcun modo tollerare né tanto meno giustificare il naturalismo in pittura, ovvero quella tendenza avviata ed interpretata al più alto grado dal Caravaggio. 2. Francesco Scannelli: una grande ammirazione per il «capo de’ naturalisti» Consulente artistico e ricercatore di opere d’arte per Francesco I d’Este, Francesco Scannelli impersona in maniera esemplare il tipo dell’erudito amatore d’arte, cui sono legati la nascita e lo sviluppo della critica d’arte intesa come analisi del valore delle singole opere. 71 La sua unica opera fu Il Microcosmo della Pittura, pubblicata nel 1657; qui possiamo vedere come i giudizi critici sulle opere siano ormai nettamente superiori agli argomenti di carattere teorico o tecnico 119. L’opera è di notevole importanza perché prende in considerazione tutta la pittura italiana suddividendola in tre principali scuole pittoriche: la tosco-romana, rappresentata da Raffaello, la veneta, rappresentata da Tiziano e la lombarda, rappresentata da Correggio 120 ; secondo Scannelli la terza scuola è la migliore, perché riesce ad unire grazia e delicatezza al disegno della prima e alla naturalezza della seconda. Nel Seicento il criterio geografico e non storico delle scuole pittoriche annulla il senso di una diversità tra gli stili; in questo modo accade che i pittori e le opere vengono considerate in ordine cronologico, trascurando lo sviluppo storico dello stile e riducendo correnti pittoriche distinte a semplici variazioni di una stessa scuola. Così gli elementi stilistici non vengono posti in relazione ad un preciso momento di gusto e non servono nemmeno per interpretare un periodo storico, ma sono considerati solo come attitudini espressive, in quanto legate ad un determinato ambiente geografico. 119 Cfr. F. Scannelli, Il microcosmo della pittura , Cesena 1657, ed. cons. a cura di G. Giubbini, Milano, 1966, p. VII. 120 Queste scuole vengono paragonate alle diverse parti del corpo umano e i singoli artisti ai diversi organi: Raffaello al fegato, Tiziano al cuore e Correggio al cervello. 72 Uno dei momenti più caratteristici dell’opera è la contrapposizione tra disegno da un lato, colore e naturalezza dall’altro: qui il disegno è inteso come termine comprensivo della pittura idealizzante, mentre la naturalezza è l’esaltazione del mezzo formale e della spontaneità decorativa 121. E’ in quest’ambito che va posto il giudizio sostanzialmente positivo e di ammirazione che Scannelli esprime su Caravaggio: «E per essere il vero, e ultimo scopo del buon Pittore l’imitatione de’ corpi naturali, e non altro in fatti il laudabil dipinto, che un’espressione del già ben concepito in ordine alla piena somiglianza de’ migliori oggetti di natura, conseguentemente ne deriva, che quello, il quale mostra animare i colori con artificio più eccellente, venendo a sortire l’effetto del bramato intento, pare, che debba parimente raccogliere il frutto della maggior gloria, dove comparendo Michelangelo da Caravaggio nel teatro del Mondo, unico mostro di naturalezza, 121 Ibidem, p. XII. Nello stesso spirito si collocano la svalutazione della fase romana di Annibale Carracci, la condanna della “seconda maniera” dei contemporanei i quali, 73 portato dal proprio istinto di natura all’imitatione del vero, e così ascendendo dalla copia de’ fiori, e frutti, e da’ corpi meno perfetti e più sublimi, e dopo gl’irrationali a gli umani ritratti, e finalmente operando intiere figure, e anco talvolta componimenti d’historie con tal verità, forza e rilievo, che bene spesso la natura, se non di fatto eguagliata, e vinta, apportando però confusione al riguardante con istupendo inganno, allettava, e rapiva l’humana vista, e però fù creduto da vari anco sopra d’ogni altro eccellentissimo»122. Si tratta di un allontanamento dalle intransigenti posizioni classicistiche, che insistevano sulla “invenzione” e sulla composizione della “historia”; Scannelli afferma, invece, che: «l’invenzione non appartiene alla Professione, che per accidente» 123ed è quindi estranea al fatto pittorico e che Caravaggio compone le «historie con tal verità, forza e rilievo» che «fu creduto da vari sopra d’ogni altro eccellentissimo» 124. abbandonando il “colore” e i contrasti di luci e ombra per lo stile “chiaro” e la naturalezza per l’artificio sono responsabili della decadenza della pittura. 122 Ibidem, p. 51. 123 Ibidem, p. 146. 124 Ibidem, p. 51. 74 L’ammirazione che Scannelli prova per questo pittore, «primo capo de’ naturalisti» 125 è evidente anche quando elenca alcune delle sue opere, «le migliori del suo qualificato pennello» 126; la «prima e più eccellente d’ogni altra» 127 è la Vocazione di San Matteo nella chiesa di San Luigi dei francesi, che viene lodata come «veramente una delle più pastose, rilevate, e naturali operationi» 128 ; non meno apprezzate erano le due tele che rappresentavano San Giovanni Battista e L’amor Vincitore: «S. Giovanni Battista ignudo non potria dimostrare più vera carne quando fosse vivo, sicome l’Amoretto che si trova appresso al Principe Giustiniani, che fra i dipinti privati di Michelangelo da Caravaggio sarà forse il più degno» 129 ; per terminare con la Cena in Emmaus , che Scannelli definì «un dipinto di tremenda naturalezza» 130. A quanto pare era proprio l’imitazione della natura e l’adesione al vero le doti che Scannelli maggiormente stimava nell’arte di Caravaggio, il quale viene definito «mostro di naturalezza» 131 , colui che 125 Ibidem, p. 170. Il termine “naturalisti” è stato coniato ed usato per la prima volta da Scannelli proprio per indicare Caravaggio e i suoi seguaci. 126 Ibidem, p. 176. 127 Ibidem, p. 195. 128 Ibidem, p. 195. 129 Ibidem, p. 199. 130 Ibidem, p. 200. 131 Ibidem, p. 51 75 «nell’imitazione dell’opere più vere della natura, pare che non riuscisse inferiore a nessuno» 132. Proprio queste qualità erano avversate dalla maggior parte dei critici del tempo ed in particolar modo dai classicisti, che vedevano nel Merisi il distruttore e non il rinnovatore della pittura, colui che, come poi dirà Bellori, «non riconobbe altro maestro che il modello, e pare che senz’arte emulasse l’arte» 133. Non dobbiamo dimenticare, però, che lo Scannelli vive in un momento in cui è difficile distaccarsi completamente dalle teorie dell’estetica classicistica; per cui, anche se non attribuisce allo studio e al disegno tutta l’importanza che invece gli veniva tributata dai classicisti 134, il suo pensiero su Caravaggio, pur rimanendo sostanzialmente positivo, per certi versi non si allontana tanto dal pensiero predominante del momento quando afferma che: «provisto di particolar genio, mediante il quale dava con l’opere a vedere una straordinaria e veramente singolare imitazione del vero, e nel communicar forza e rilievo al dipinto non inferiore, e forse ad ogni altro supremo, privo però della necessaria base del buon disegno, si palesò poscia d’invenzione mancante, e come 132 Ibidem, p. 277. Bellori, op. cit. p. 212. 134 egli sostiene infatti che i pittori che si appoggiano allo studio e al disegno vanno distinti da quelli in cui prevale l’inclinazione e la forza del talento; la pittura dei primi raggiunge la bellezza ideale, ma conserva sempre qualcosa di artificioso; quella dei secondi, invece, 133 76 del tutto ignudo di bella idea, gratia e decoro, architettura, prospettiva ed altri simili convenevoli fondamentali» 135 . 3. Le opinioni di alcuni artisti su Caravaggio nell’opera di Cesare Malvasia Il conte e canonico Carlo Cesare Malvasia fu il più importante storico bolognese del Seicento; egli fu principalmente uno scrittore d’arte, oltre che letterato appartenente a varie accademie, professore di diritto, pittore dilettante. La sua opera più celebre è la Felsina pittrice, pubblicata nel 1678; nonostante alcune deformazioni e falsificazioni dovute all’intento di rivendicare l’importanza e l’antichità delle origini della scuola bolognese, la sua è un’opera notevole soprattutto per il taglio critico, oltre al fatto che è una preziosa fonte di notizie. Malvasia afferma, con un po’ di modestia, che non essendo pittore, né letterato, non tratterà «dell’Arte, ma degli Artefici» 136 e soltanto di quelli ottiene subito un effetto piacevole di naturalezza e di maggiore verità, riuscendo anche a suscitare emozioni e ad esprimere affetti. 135 Scannelli, op. cit., p. 52. 77 bolognesi, «perché non periscano le memorie che di loro ancora rimangono» 137. Afferma inoltre di aver concepito l’opera soprattutto come ricerca della verità, perseguita «nei documenti, nei libri, nei manoscritti, nelle testimonianze dei morti e dei viventi» 138 ; dice inoltre di voler scrivere «a’ dilettanti non a’ letterati: per dilettare, non per insegnare, onde basta m’intendano, non voglio mi studino» 139. Senza dubbio questa è un’opera vitale in cui trovano spazio non solo le testimonianze dei fatti, ma anche e soprattutto giudizi ed opinioni, che contengono riflessioni personali del Malvasia e qualche volta anche quelle dei suoi amici pittori; dall’opera possiamo ricavare informazioni non solo sui bolognesi, ma indirettamente anche su altri; questo è quanto accade per Caravaggio di cui troviamo un’importante giudizio nella vita di Francesco Albani: «Non potè mai tollerare [l’Albani], che si seguitasse il Caravaggio, scorgendo essere quel modo il precipitio, e la totale ruina della nobilissima, e 136 C. Malvasia, op. cit., Prefazione. Ibidem, prefazione. 138 Ibidem, prefazione. Cfr. Vite di Pittori Bolognesi , A. Arfelli (a cura di), Cooperativa tipografica Azzoguidi, Bologna, 1961, p. XXXVII. In realtà la parte documentaria è scarsa e l’opera manca di rigore storico. 139 Ibidem, prefazione. 137 78 compitissima virtù della Pittura, poiché se bene era da laudare in parte le semplice imitatione, era nondimeno per partorire tutto quello, che ne è seguito in progresso di 40 anni. Si vedono bensì imitazioni a somiglianza del vero, ma non già del verisimile, ne si consegue il rappresentare il costume, ne meno le vivezze dei moti, e perché è necessario fondare prima un concetto si và hora totalmente corrompendo, che non si rappresentano concetti, ma ne anco concetto alcuno. Hora, posto in abbandono quello che divinamente insegnò Raffaelle, si sono posti a seguitare la strada del Caravaggio, che tutta è intenta ad oggetti di ferma, non di moti vivaci, che vengano dall’intelletto, e che si eseguiscono col possesso del disegno» 140 . «Non possono essere i Pittori egualmente eccellenti in tutte le parti. 140 Ibidem, p. 163. 79 Se il Caravaggio avesse avuto questi requisiti saria stato Pittore dirò Divino, questo, non aveva cognizione nelle cose sopranaturali, mà stava troppo attaccato al naturale» 141 . Questi passi esprimono un giudizio negativo su Caravaggio, il cui modo di dipingere veniva visto come la totale rovina della pittura e non tanto perché egli imitava la natura senza ritegno, ma più che altro per il fatto che la sua “maniera” si era affermata così tanto che era stata seguita poi per almeno quarant’anni apportando all’arte dei gravi danni; innanzi tutto, secondo l’Albani, aveva portato ad una pittura che sapeva rappresentare solo l’esteriorità dei soggetti e non riusciva più a rappresentare anche i movimenti ed i sentimenti, così come aveva fatto ed insegnato Raffaello, che con lo studio, oltre che con l’intelletto, aveva raggiunto la perfezione. Anche Caravaggio, continua l’Albani, avrebbe potuto essere perfetto, ma non aveva né la competenza per rappresentare le cose soprannaturali che sono percepite dall’intelletto, né la capacità di distaccarsi dal naturale. 141 Ibidem, p. 169. 80 Più avanti, sempre all’interno della vita di Albani, troviamo un giudizio di Malvasia stesso, riferito ad un pittore di cui non viene detto il nome, ma che quasi sicuramente è Caravaggio: «Io conobbi un gran pittore più di nome che di fatti, il quale peccava molto nella disposizione, e di cento partiti che li venivano nella sua debole immaginativa, non afferrava mai, se non cosa debole, e sapea quella disposizione debole cominciava col pennello l’opera, e andava conservando il cattivo proponimento di prima, e nondimeno tutti i scolari applaudivano, così come moltissimi che non erano della professione concorrevano col stupore del maneggio, o colorito, a me veniva la nuova che l’opera era finita, e si disegnava, come perfettissima porla al destinato loco. Io addimando come può essere finita un’opera che non ha buon principio? 81 Questo pittore aveva applausi indicibili tra il volgo, ma fra gl’ intendenti poco per ragione difettosa di mala disposizione, e nulla d’espressione» 142 . Credo che sia chiaro il riferimento a Caravaggio, dal momento che qui ritroviamo, per l’ennesima volta, alcune delle accuse che vengono rivolte al pittore dalla maggior parte dei biografi del Seicento; per prima cosa, infatti, Malvasia dice che questo pittore «peccava molto nella disposizione» 143 e quindi nella composizione, inoltre lo accusa, secondo quanto ritenevano i detrattori del pittore di «cominciare col pennello l’opera» 144 e quindi di dipingere direttamente sulla tela senza effettuare nessun disegno preparatorio. Così, continua il biografo, veniva apprezzato dal popolo soprattutto per il colore, ma tra coloro che si intendevano d’arte non riceveva alcuna considerazione, sia perché, secondo loro, i quadri mancavano di una buona composizione, sia perché, non avendo espressione, non trasmettevano nessun tipo di emozione. Questo giudizio, presente nella vita di Francesco Albani, è il più ampio ed articolato; altrove troviamo nuovamente menzionato il Caravaggio, 142 Ibidem, p. 170. Ibidem, p. 170. 144 Ibidem, p. 170. 143 82 ma in modo molto più parziale, come ad esempio nella vita di Leonello Spada: «…perché diedesi ad alzare il modo di tingere, gli si insinuò tanto la maniera del Caravaggio, che non contento di prendere l’imitazione da un S. Tommaso toccante il Santissimo Costato, desiderò di praticarlo di persona quanto n’era divenuto parzial divoto…» 145 . O ancora in quella di Lorenzo Garbieri: «…dilettandosi egli troppo del tingere del Caravaggio, ritenendone per avventura sempre nella sua più riposta, e dimestica stanza una copia, da lui stesso ricavata, del S. Tommaso toccante nel Santissimo Costato la stessa fede, originale di quell’autore…» 146. Ed infine a proposito della vita di Alessandro Tiarini, al quale: «gli piacquero anco le cose del Caravaggio per una certa purità, verità e forza del colorito; meravigliandosi come tanto si sentisse da esse svegliare e rapire, quando nulla poi di decoro, di maestà e d’erudizione vi trovava»147. Altra cosa è infine il racconto dei rapporti tra Caravaggio e Guido Reni, sui quali Malvasia si sofferma a proposito della concorrenza per la commissione della Crocefissione di San Pietro alle tre Fontane e della cupola della chiesa di Loreto: 145 Ibidem, p. 75 Ibidem, p. 217. 147 Ibidem, p. 138. 146 83 «L’Arpini, dichiarato nemico del Caravaggio si era proposto di procacciargli [al Reni] que’ lavori che al Caravaggio dovevano esser destinati; come poi avvenne del S. Pietro Crocifisso alle Tre Fontane fuor di Roma, promettendo egli al Card. Borghese che sarebbesi Guido trasformato nel Caravaggio e l’avrebbe fatto di quella maniera cacciata e scura, come bravamente eseguito si vede. [Questo] tanto spiacque al Caravaggio che da uomo brigoso ch’egli era, incontrato un giorno Guido gli disse che non lo stimava punto; e che se fosse venuto a Roma con pensiero di competere seco, egli era pronto a dargli ogni soddisfazione in qual si fosse modo…»148. Poche righe più avanti, Malvasia fa riferimento al concorso per il lavoro della cupola della chiesa di Loreto e fa sapere che: «[Il Reni] usò anche questa finezza che concorrendo il Caravaggio anch’egli al lavoro della cupola della 148 Ibidem, p. 13. 84 Santa Casa di Loreto, gli disse chi saria stato a fargli compagnia od a servirlo nel modo che a lui fosse piaciuto di trattarlo… Quell’altiero diede nelle escandescenze… Stava perciò Guido con grande apprensione di costui che ben sapea quanto mai fosse bestiale e risoluto come in questo affare ben poi mostrò; poiché toccata la Cupola al Pomarancio gli diede o fece dare un brutto fregio sulla faccia»149. Si tratta di una narrazione di tipo aneddotico dalla quale emerge, più che un’opinione sullo stile e sul modo di dipingere del Merisi, il suo carattere di «uomo brigoso, bestiale e risoluto» 150 , giudizio immancabile nelle biografie caravaggesche del Seicento. 149 Ibidem, p. 13. 85 4. Caravaggio: il racconto romanzato di Giovanni Battista Passeri Giovanni Battista Passeri fu pittore 151 e scrittore d’arte; l’opera a cui è legata la sua fama è le Vite de’ pittori, scultori, ed architetti, pubblicata solamente un secolo dopo la sua morte (1772). Si tratta di biografie di artisti attivi a Roma e morti tra il 1641 e il 1673; l’opera è concepita come continuazione di quella del Baglione, che aveva infatti scritto degli artisti attivi a Roma fino al 1641. Il testo del Passeri offre uno spaccato vivacissimo dell’ambiente artistico di Roma nel Seicento e dà un vero e proprio frammento della storia dei tempi da lui vissuti; con un testo molto vivace, chiaro, pieno di aneddoti sugli artisti, egli ci porta nel bel mezzo della vita artistica romana della metà del secolo. Tratto caratteristico di quest’opera è che ci sono numerose parti d’invenzione e alcune, sfortunatamente, riguardano proprio il Caravaggio, riguardo al quale troviamo diversi riferimenti all’interno dell’opera. 150 Ibidem, p. 13. Cfr. Schlosser, op. cit.,p. 462. Il Passeri fu allievo del Domenichino a Roma e legato da stretta amicizia con l’Algardi 151 86 Il fatto è che Passeri scrive di fatti accaduti molti anni prima, che vengono da lui stesso corretti, censurati e modellati fino a trasformarli in una sorta di romanzo; infatti, a parte un brano di carattere più impegnato sul “naturalismo”, all’interno del quale possiamo individuare quei tratti comuni che hanno caratterizzato quasi tutta la critica caravaggesca del Seicento (la quale, da un lato, aveva riconosciuto la novità di Caravaggio, ma dall’altro ne aveva rifiutato la scelta di stile) 152, gli altri brani sono guarniti di una incredibile aneddotica: «Il medesimo Car.le Borghesi, avendo ristaurata la Chiesa delle Tre fontane fuori della Porta Ostiense o pure Trigemina, che sta un miglio oltra la Chiesa di San Paolo, pensò di far dipingere li Quadri degl’Altari che sono laterali a quelle tre fonti miracolose; in uno la decollazione del Santo Apostolo Paolo, il di cui capo reciso fece, con tre 152 G. B. Passeri, Vite de’ pittori, scultori ed architetti che hanno lavorato in Roma morti dal 1641 fino al 1673, (1673 circa), ed. cons., Roma 1772, p. 62. «Michel’Angelo da Caravaggio fece qualche giovamento al gusto di quella nuova Scuola promossa da fratelli Carracci, e da’ loro scolari; perché, essendo uscito fuora con tanto empito, e con quella sua maniera gagliarda, fece prender fiato al gusto buono, et al naturale, il quale allora era bandito dal mondo, che solo andava perduto dietro a un dipingere ideale, e fantastico, ma lontano dalla natura e dal vero, di cui imitatrice fedele ha da essere la pittura. Bene è vero che esso non abbellì il nuovo suo gusto con quelle vaghezze, colle quali la scuola Carraccesca lo ha portato all’estremo, cioè rendendolo pieno di piacevolezza, e di delizie, ricco nelli componimentii, adorno d’accompagnature, e discreto in tutto il 87 sbalzi, scaturir, ad ogni balzo una fonte, come anche oggi si vedono, e nell’altro la Crocefissione di San Pietro e pensò in Michel’Angelo da Caravaggio, che all’ora sorgeva con qualche applauso. Il Cav.re Gioseppino, che l’odiava per la ragion dell’opera della Cappella di San Luigi de Francesi di San Matteo Apostolo ove dipinsero in concorrenza egli, el Caravaggio, dalla quale nacquero tante fazioni contrarie, procuro, che gl’uscisse di mano, accio, che restasse privo di occasioni di farsi conoscere maggiormente; e gli sortì il suo intento, e procurò, che Guido avesse quello della Crocefissione, e l’altro fù dato ad un altro pittore di poca levatura. Hauto, che Guido hebbe il Quadro fù pregato dal Cavalier Gioseppe, che s’insegnasse di dipingerlo nello stile del Caravaggio quanto alla forza di chiaro e scuro, e che procurasse con la nobiltà della sua idea di superar quello nella maestà, e nel decoro… portamento; tutta via aperse una strada per la quale fece ritornare in vita la Verità, che si 88 …Esposto che ebbe il Quadro… [Guido] riceveva di continuo delle congratulazioni dagli amici e da altri di quell’opera, e venendogli detto da uno che il suo quadro era così bello che pareva di mano del Caravaggio, egli rispose con modestia, piacesse a Dio, ne si sdegnò di questa lode, stimando nel suo concetto Michel Angelo per huomo di valore, e non che venisse lodato solo da maligni, et atto a dipingere solo i piedi fangosi, e cuffie sdrucite, e sudice come è stato oltraggiato da alcuno» 153. La storia della concorrenza tra Guido Reni e il Caravaggio per la Crocefissione di San Pietro alle Tre Fontane è collocata dal Passeri in un momento in cui il Merisi aveva già lasciato Roma, e cioè dopo i dipinti di San Gregorio al Celio. La storia era gia stata raccontata dal Malvasia 154 , e probabilmente il Passeri recupera l’informazione proprio dalla Felsina Pittrice, ma non si cura di ristabilire il tempo verosimile che dovrebbe cadere tra il 1602 ed il 1604, sebbene anche i fatti raccontati dal Malvasia non siano del tutto era ad un certo modo da lunghi anni smarrita.» 153 154 Ibidem, p. 65. C. Malvasia, op. cit., pp. 13 e seg. 89 veritieri, dal momento che sono completamente tesi a difendere e a far emergere la grandezza dei pittori bolognesi. Per quanto riguarda l’ultimo brano su Caravaggio che troviamo all’interno dell’opera del Passeri, credo che questo sia quello che suscita maggiore curiosità: «In quel tempo era sparso il grido di Michel’Angelo da Caravaggio, e piacendo assai a lui [il Guercino] quel modo di dipingere, essendo molto geniale al suo stile, si andava contenendo in quella maniera gagliarda, e vigorosa, la quale era sua propria, ed il Caravaggio nel vedere l’opere di Giovan Francesco, si rallegrava parendogli di havere nel numero dei suoi imitatori un’uomo di qualche valore, e stima, et erano divenuti cordialissimi amici. In quel tempo medesimo si negoziava l’opera della Cuppola della Chiesa nella quale è la Santa Casa di Maria Vergine di Loreto, e doppo varietà di pareri nel darla ad un pittore di qualche fama per essere quella opera di considerazione, e riguardevole si concluse il partito di molti di quelli Deputati nelli 90 quali era riposta la risoluzione di quel lavoro, nella persona di Michel’Angelo per esser quegli di stima, e di grido universale in una nuova maniera; ma perché il concetto della sua persona, quanto al costume, era sinistro per la sua bestialità, stavano alcuni altri perplessi nella risoluzione, timidi di mandare in quel Santo Luoco un’huomo scandaloso, e di cattive qualità. Pensando di dargli un compagno moderato e ben composto come per freno delle sue furie, elessero Gio. Francesco… Andatosene il Barbieri a comunicarlo al Caravaggio…gli si rivoltò quella fiera indomita con ira grandissima…Restò il povero Gio. Francesco con mala sodisfazzione per la perdita dell’amicizia del Caravaggio, perdita accresciuta dal timore dell’indignazione di quel cervello torbido, capace di prendere contro di lui qualche strana risoluzione»155. 155 Ibidem, p. 373 e seg.. 91 Il racconto mostra la totale indifferenza del Passeri nell’alterare la verità storica, non appena gli si presenti un’occasione romanzevole irresistibile; egli, infatti, narra di una grande amicizia tra Guercino e Caravaggio, cosa assolutamente falsa e impossibile dal momento che Guercino giunse a Roma nel 1621, e cioè undici anni dopo la morte del Merisi. Inoltre Passeri mostra come a distanza di tempo dalla morte del Caravaggio sia ormai totalmente consolidata la leggenda che per secoli lo ha visto etichettato come un uomo «scandaloso e di cattive qualità»156 dal temperamento rissoso, spesso incline ad agire con la violenza; indubbiamente egli si lasciò coinvolgere spesso in risse, ferimenti ed aggressioni, ma gli scrittori del Seicento, in genere malevoli nei suoi confronti, provvidero certo ad alimentare la leggenda del “pittore maledetto”, emarginato, escluso dalla società e rifiutato dalla chiesa. 156 Ibidem, p. 374. 92 5. La posizione di Filippo Baldinucci L’abate fiorentino Filippo Baldinucci fu uno dei più grandi storici dell’arte del Seicento; uomo dalla cultura enciclopedica, scrittore, conoscitore d’arte, raffinato collezionista, fu consulente artistico del cardinal Leopoldo e di Cosimo III de’ Medici. Il suo lavoro principale fu la monumentale opera storica intitolata Notizie de’ professori del disegno, pubblicato a partire dal 1681 e la cui edizione fu conclusa a distanza dalla morte, nel 1728; l’opera, ordinata annalisticamente per secoli e decennali, può considerarsi la prima storia universale dell’arte figurativa in Europa 157 ; tra le tante biografie trova posto, nel decennale X del secolo IV, anche quella di Caravaggio (sotto il nome di “Michelagnolo Morigi”), del quale Baldinucci parla con obiettività storica, cercando di fare né un elogio, né una polemica. Nella prima parte della biografia il Baldinucci parla della formazione del Merisi: «Seppe sì bene seguitare i dettami del naturale suo genio a’ nobilissimi studi del disegno e della pittura, che fece poi quella nobile 157 Cfr. Schlosser, op. cit., p. 466. 93 riuscita, che a Roma e all’Europa tutta fu manifesta» spostamenti giovanili: 158 ; dei suoi «Partitosi da Milano, portossi a Venezia…Risolutosi poi di vedere Roma, colà si portò» 159 , facendo anche un breve riferimento al suo carattere e alla sua personalità: «Egli aveva un cervello stravagante, poco inclinato al rispetto, amico assai di risse e contese» 160. Dopo di che l’autore parla del lavoro che Caravaggio svolse a Roma: «risoluto di darsi in tutto e per tutto allo studio dell’umane forme in sul vero, perché non volle mai tirare una linea, non che studiare, sopra l’opere di Michelagnolo, di Raffaello, o degli antichi» 161 , assecondando così quello che veniva detto su lui e quindi uniformandosi al pensiero seicentesco più comune, sembra però che Baldinucci voglia solo rendere noto il pensiero di altri e non il suo, in quanto, poco più avanti, afferma che: «’a più vecchi molto dispiacque [la “maniera” del Caravaggio], e da questi era tacciato Michelagnolo di povero di disegno e d’invenzione, di gravità e di decoro, d’aver poco gusto in prospettiva» 162. Finito di raccontare la vita del Cravaggio, Baldinucci inizia ad esprimere dei giudizi personali sul pittore, sul suo temperamento sul suo modo di 158 F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua, Vol. III, Firenze, 1681-1728, ed. a cura di F. Ranalli, ristampa a cura di P. Barocchi, Firenze, 1975, p. 680. 159 Ibidem, p. 681. 160 Ibidem, p. 681. 161 Ibidem, p. 682. 162 Ibidem, p. 684. 94 comportarsi e addirittura ne propone una descrizione fisica che rispecchia decisamente la sua indole: «fu il Caravaggio, siccome d’animo scomposto, poco grato nel conversare, e pronto al risentimento, così d’aspetto rozzo, e brutto anzi che no e fu sì facile all’alzar delle mani, che sarebbe egli per ordinario stato fuggito da ogni persona…era talora praticato per lo fine solamente di non averlo per nemico» 163. Baldinucci continua a parlare giudicando ovviamente anche l’arte del Caravaggio ed afferma che il Merisi «recò grand’ utile all’arte col suo nuovo modo di dipingere, in forza di tutta imitazione del naturale, e lontano da ogni affettazione di pennello, e coll’ usar ch’ei fece con gran giudizio e verità gli scuri» 164 , affermando anche però che «usò poca intelligenza nei piani e nella prospettiva, oltre che egli abbassò l’arte nel mettersi che e’ fece per lo più a far vedere nelle sue tele atti di persone plebee, dando anche alle sacre pitture sì poco decoro coll’empierle ch’e’ fece d’ogni bassezza» 165 ; ma quello che, secondo me, è veramente significativo è il fatto che per la prima volta il modo di dipingere del Caravaggio viene giustificato; infatti Baldinucci, a conclusione della biografia, cerca di spiegare il motivo per cui, secondo lui, il Merisi dipinge così, riscattando in qualche modo la sua arte 163 Ibidem, p. 688. Ibidem, p. 689. 165 Ibidem, p. 689-690. 164 95 attraverso il suo comportamento: «perdonisi al Caravaggio questo suo modo d’usare il pennello; mentre egli volle avverare in se medesimo quel proverbio che dice, che ogni pittore dipigne se stesso, mercè che se s’osserva il modo, che egli usò nel conversare, si trova tale, quale sopra accennammo; se ci voltiamo al portamento di sua persona lo veggiamo stravagante quanto mai…» 166. Secondo Baldinucci, dunque, persona ed opera sono strettamente legate l’una all’altra: certo è che, con un giudizio del genere, Caravaggio viene distrutto e, in qualche modo, posto ai margini; infatti appare solamente come un personaggio stravagante, che con la sua pittura è fuori dai canoni167. In questa biografia possiamo comunque vedere la grande professionalità dello scrittore, che sta nel tentativo di comprendere l’arte del Caravaggio e la sua «maniera del tutto nuova» 168 che ancora, quasi alla fine del secolo, era assai difficile da accettare e da spiegare. Baldinucci dimostra invece di aver capito, forse più di altri, l’importanza dell’arte di quell’ «uomo fantastico e bestiale» 169. 166 Ibidem, p. 690. Con questo giudizio, Baldinucci, è in linea con la storiografia cinquecentesca. 168 Ibidem, p. 16. 167 96 CAPITOLO VI IL GIUDIZIO DI GIOVANNI PIETRO BELLORI 1. Giovanni Pietro Bellori e l’Idea del Bello Il più grande studioso dell’arte e archeologo del XVII secolo, Giovanni Pietro Bellori, nacque a Roma nel 1613 e la sua educazione venne affidata, fin dai primi anni, a Francesco Angeloni, uno dei grandi letterati ed antiquari del momento. Nella casa dell’Angeloni, chiamata da lui stesso e dai suoi visitatori “Museo Angelonio” per la vasta collezione di dipinti (moderni e contemporanei) e oggetti antichi che vi si trovavano, Bellori ebbe occasione di incontrare artisti, eruditi e letterati di ogni genere, cosicché la società che frequentava era quella composta da uomini di un certo livello culturale come Giovan Angelo Canini, che era stato allievo di 169 Ibidem, p. 16. 97 Domenichino, Andrea Sacchi, Nicolas Poussin, con il quale Bellori condivise oltre alla passione per l’antiquaria anche quella per la letteratura, Vincenzo Giustiniani, grande collezionista e committente, ed infine Giovanni Battista Agucchi, le cui tesi, come sappiamo, avrebbero influito sull’elaborazione della teoria dell’Idea del bello, presentata in una conferenza pronunciata da Bellori nel 1664, presso l’Accademia di San Luca e successivamente posta come introduzione alle Vite. Quel discorso accademico, che s’intitola L’Idea del pittore, dello scultore e dell’ architetto scelta dalle bellezze naturali superiore alla Natura, offre in maniera esemplare tutto il programma dell’estetica classicista. L’Idea si apre con un’introduzione di carattere neoplatonico: l’eterno spirito creatore genererebbe le immagini originarie ed i modelli di tutte le creature, le Idee: «Quel sommo ed eterno intelletto autore della natura nel fabbricare l’opere sue meravigliose altamente in se stesso riguardando, costituì le prime forme chiamate idee» 170; solo che, mentre le sfere celesti, non soggette a mutazioni, esprimono queste Idee con assoluta purezza e bellezza, gli oggetti terreni a causa delle alterazioni della materia appaiono come immagini di Idee deformate, come accade per la bellezza degli esseri umani che molto spesso si tramuta in 170 G. P. Bellori, op cit., p. 13. 98 bruttezza e deformità: «Ma li celesti corpi sopra la luna non sottoposti a cangiamento, restarono per sempre belli ed ordinati…al contrario avviene de’ corpi sublunari soggetti alle alterazioni ed alla bruttezza…e particolarmente l’umana bellezza si confonde» 171. Tocca quindi agli artisti, ai «nobili pittori e scultori» 172 , rappresentare un’immagine incontaminata della bellezza, dal momento che «si formano anch’essi nella mente un esempio di bellezza superiore, ed in esso riguardando, emendano la natura senza colpa di colore e di lineamento»173. Fin qui le teorie del Bellori sono del tutto simili a quelle di un platonico o di un neoplatonico che attribuisca all’Idea un’origine metafisica, ma poi avviene un improvviso distacco; infatti, mentre per Platone la contemplazione sensibile è solo l’occasione e non l’origine della conoscenza, per Bellori l’Idea artistica è concepita come proveniente dalla contemplazione della realtà sensibile, «così l’idea costituisce il perfetto della bellezza naturale, ed unisce il vero al verisimile delle cose sottoposte all’occhio, sempre aspirando all’ottimo ed al meraviglioso, onde non solo emula, ma superiore fassi alla natura» 174. 171 Ibidem, pp. 13-14. Ibidem, p. 14. 173 Ibidem, p. 14. 174 Ibidem, pp. 14-15. 172 99 Si può vedere dunque come in Bellori la dottrina delle idee si orienti verso quella concezione per cui l’idea non è insita a priori nell’uomo, ma viene acquistata a posteriori attraverso la contemplazione della natura 175. Solo alla luce di questa nuova interpretazione diventa possibile all’autore sostenere la lotta contro «gli artefici similitudinari e del tutto imitatori de’ corpi, senza elezione e scelta dell’idea» 176 , come «Demetrio» che «ricevé nota di essere troppo naturale», «Dionisio» che «fu biasimato per aver dipinto gli uomini simili a noi, comunemente chiamato _____!_______, cioè pittore di uomini» 177. «Pausone e Pirreico», poi, «furono condannati maggiormente per avere imitato li peggiori e li più vili, come in questi tempi Michel Angelo da Caravaggio fu troppo naturale, dipinse i simili… » 178. Bellori attacca polemicamente il Caravaggio e lo critica per non aver utilizzato l’intelletto e per essersi limitato ad effettuare una copia meccanica della natura; così, per il fatto di non avere idee e per copiare pedissequamente gli oggetti, compresi i loro difetti, i naturalisti sono da condannare 179. 175 Cfr. E. Panofsky, Idea, contributo alla storia dell’estetica , Leipzig-Berlin, 1924, ed cons. La nuova Italia, Firenze, 1952, p. 80. 176 Bellori, op. cit. p. 15. 177 Ibidem, p. 15. 178 Ibidem, p. 16. 179 Allo stesso tempo sono da condannare anche quegli artisti che, senza conoscere il vero, riducono l’arte ad una pura esercitazione e, non volendo studiare la natura, pretendono di lavorar di “maniera”. 100 D’altra parte Caravaggio è stato visto, per tutto il Seicento, come un pittore povero di spirito inventivo, assoggettato esclusivamente alla natura e condannato per aver riprodotto, senza nessuna selezione, ogni soggetto nel suo aspetto esteriore. Secondo Bellori il processo creativo va sfrondato da ogni residuo metafisico: l’artista deve osservare la natura modificandola ed integrandola su un esempio di bellezza, che non gli giunge né dal mondo iperuranio delle idee, né da Dio, ma che egli stesso crea nella propria mente osservando la natura e ovviamente superandola; per dimostrare quest’idea, Bellori non si richiama alle posizioni dei platonici, ma a quelle degli artisti e dei teorici del Rinascimento, come l’Alberti, Leonardo da Vinci e Raffaello: «Ora se con li precetti delli antichi sapienti rincontrar vogliamo ancora gli ottimi istituti de’ nostri moderni, insegna Leon Battista Alberti, che si ami in tutte le cose non solo la somiglianza, ma principalmente la bellezza, e che si debba andar scegliendo da corpi bellissimi le più lodate parti. Così Leonardo da Vinci istruisce il pittore a formarsi questa idea ed a considerare ciò che esso vede e parlar seco, eleggendo le parti più eccellenti di qualunque cosa. Raffaele da Urbino il gran maestro di coloro che sanno, così scrive al Castiglione della sua Galatea: “Per distinguere una bella mi 101 bisognerebbe vedere più belle, ma per essere carestia di donne belle, io mi servo di una certa idea che mi viene in mente”» 180 ; e, andando avanti, cita una serie di esempi in cui la figura umana dipinta o scolpita risulta più perfetta del naturale: «Ovidio descrivendo Cillaro bellissimo centauro lo celebra come prossimo alle statue più lodate» 181 ; «Filostrato innalza la bellezza di Euforbo simile alle statue di Apolline, e vuole che Achille di tanto superi la beltà di Neottolemo suo figliuolo, quanto li belli sono dalle statue superati»182; «Il Marino celebrando la Maddalena dipinta da Tiziano, applaude con le massime lodi alla pittura, e porta l’idea dell’artefice sopra le cose naturali» 183. Nell’ultima parte del suo discorso Bellori pone l’attenzione anche su un altro aspetto della pittura, e cioè sulla rappresentazione dei sentimenti, e sostiene che: «essendo la pittura rappresentazione d’ umana azione deve insieme il pittore ritenere nella mente gli esempi degli affetti…li quali moti deono molto più restare impressi nell’animo dell’artefice con la continua contemplazione della natura, essendo impossibile ch’egli li ritragga con la mano dal naturale, se prima non li avrà formati nella fantasia» 184. 180 Ibidem, p. 16-17. Ibidem, p. 18. 182 Ibidem, p. 18. 183 Ibidem, p. 19. 184 Ibidem, p. 20. 181 102 E’ evidente come un’opera d’arte, per ritenersi soddisfaciente, debba riuscire a trasmettere anche gli stati d’animo e le emozioni; quest’operazione può riuscire all’artista solo se sarà un buono osservatore delle emozioni umane, che generalmente non sono visibili nel «modello che si pone davanti, non ritenendo esso alcun effetto; che anzi languisce con lo spirito e con le membra nell’atto in cui si svolge, e si ferma ad arbitrio altrui» 185 ; per questo, secondo Bellori, per rappresentare anche i sentimenti «è necessario formarsene un’immagine su la natura, osservando le commozioni umane, ed accompagnando li moti del corpo con li moti dell’animo» 186. Così, anche i sentimenti, prima di essere rappresentati devono essere concepiti sotto forma di Idea, la quale altro non è che una visione della natura purificata dallo spirito; questa purificazione, secondo Bellori, è sempre stata praticata fin dall’antichità e cioè fin da quando «gli antichi cultori della sapienza, formata l’Idea nelle menti loro, riguardavano sempre alle parti più belle delle cose naturali» 187. In effetti, il testo belloriano elabora e sistematizza l’opinione di una vasta cerchia di teorici e di artisti che già nel passato avevano cercato di esprimere, attraverso sporadiche affermazioni, la dottrina delle Idee, che 185 Ibidem, p. 20. Ibidem, p. 20. 187 Ibidem, p. 21. 186 103 adesso viene elevata a sistema: «Originata dalla natura supera l’origine e fassi l’originale dell’arte» 188. L’arte ha necessariamente bisogno della natura come base da cui partire per raffigurarla, ma nella rappresentazione la deve superare; per cui sono da condannare coloro che imitano la natura «copiando anche i difetti de’ corpi» 189 , in quanto «si assuefanno alla bruttezza ed agli errori, giurando nel modello come loro precettore; il quale tolto dagli occhi loro, si parte insieme da essi tutta l’arte» 190. L’Idea costituisce dunque una rappresentazione teorica e stoica del processo creativo dell’artista, e rifacendosi alla dottrina platonica delle idee, Bellori pone l’accento non sull’aspetto metafisico e trascendente della creazione artistica, ma sul suo fondamentale rapporto con la natura191. 188 Ibidem, p. 14. Ibidem, p. 22. 190 Ibidem, p. 22. 191 Cfr. T. Montanari, Introduzione a G. B. Bellori, Le vite… , ed. inglese, in corso di stampa. p. 18. 189 104 2. Il primo progetto della biografia di Caravaggio e la stesura definitiva «Dal tempo, che io cominciai a prender diletto (…) dall’hora conobbi il sig.r Albano, e riverii con (…) non hebbi mai sorte di dedicargli me stesso di p(…) nell’animo mio hanno colorito le sue uirtù. Oh (…) glielo certamente, che V. S. vi riconoscerebbe le sue p(…) mi dà l’animo nemmeno di abbozzarlo con la penna. No (…) questo con ogni verità; perche non ho altra ricreat.ne in q(…) mirabili Pitture; e mi pasco della Galleria de’ Verospi di Bassano, e de’ quadri Gius: tiniani, e della Divina Cappella di S. Giacomo de’ Spagnoli. Hor sig.r mio non isdegni in queste righe un affetto divotiss.mo, che viene a darle tributo di se stesso, quale non haverebbe ardito di comparirle avanti, se il P. Regio non m’havesse affidato del suo patrocinio con l’occasione delle Vite de’ Pittori, che io intraprendo tutto timido per haver innanzi il 105 Vasari, che hà scritto così bene, et per essere io cieco nel trattar de’ colori; il qual peso io haverei rifiutato, se il med.mo P. Regio non mi avesse animato, con l’affermarmi che la vita del Caravaggio sia piaciuta in qualche parte a V. S., il che mi fa prendere il vantaggio di supplicarla a farmi l’honore di notarmi alcune cose de’ Caracci; accioche / (…)umete delle opere fatte costà et in Parma (…), che Annibale alcune cose copiò, come io ne (… )Longara, et una gran Madonna, et un Cristo (…). Mi sarebbero sommamente cari li costumi, le fortune, (…)nnibale e tutto quello che è necess.rio ad effigiare l’imagine (…)o. Desidero ancora, che ella mi facci gratia di qualche (…)ombardia che sia stato eccellente. Ma ad altro tempo mi riserbo di chiederle un'altra gratia, la quale spero di conseguire dopo, che sarò in possesso delli presenti favori. Intanto la riverisco, restando io per sempre DV.S.m.o Ill.re et Ecc.ma 106 Di Roma li 23 Giugno 1645. Humiliss.mo et divotiss.mo ser.re Gio : Pietro Bellori» 192. Questo è il testo di una lettera inviata da Bellori a Francesco Albani nel 1645 e riscoperta soltanto recentemente da Evelina Borea in occasione della mostra L’Idea dal Bello. Viaggio per Roma con Giovan Pietro Bellori, tenutasi a Roma nel 2000. Dalla lettera emerge che il Bellori non aveva un rapporto confidenziale con l’Albani, dovuto sicuramente al fatto che lo storico romano aveva una grande ammirazione per questo artista al quale portava un grandissimo rispetto, ma la notizia più importante che possiamo ricavare da questo testo è che nel 1645 Bellori aveva già scritto la biografia di Caravaggio e, a quanto pare, in forma compiuta, dal momento che l’aveva inviata in lettura all’Albani. Senza dubbio questa è una scoperta molto importante, dal momento che fa riconsiderare tutte le conoscenze sul rapporto Bellori-Caravaggio che fino ad oggi si sono basate sulla biografia pubblicata nel 1672, normalmente intesa come una negazione di quanto Bellori aveva scritto 192 E Borea, Bellori 1645. Una lettera a Francesco Albani e la Biografia di Caravaggio Prospettiva, n. 100, 2000, p. 57. , in 107 proprio riguardo al Caravaggio nel 1642 in una Canzone alla pittura pubblicata poi come premessa alle Vite del Baglione 193. Colpisce molto apprendere che la vita di Caravaggio sia stata scritta prima di quella di Annibale Carracci, di cui chiede notizie all’Albani; questo fa pensare che nel 1645 Bellori fosse appena agli inizi delle sue considerazioni della biografia di Annibale Carracci e che ancora gli mancassero i dati essenziali per ricostruirne la vita in modo completo 194; inoltre meraviglia anche il fatto che Bellori non avesse ancora concepito la struttura dell’opera come il monumento al classicismo qual è poi apparso circa trent’anni dopo, con all’inizio la vita di Annibale Carracci, il rinnovatore dell’arte dopo la decadenza manierista, fino al massimo di ciò che si poteva raggiungere in pittura, incarnato da Poussin. Ciò potrebbe far supporre che in questo momento Bellori si sentisse più vicino alle posizioni di Vincenzo Giustiniani che non a quelle di Giovanni Battista Agucchi, frequentati entrambi a casa dell’Angeloni: il primo, infatti, poneva il Caravaggio al livello massimo dell’arte, mentre il secondo aveva visto Annibale Carracci come il rinnovatore della pittura, considerando il Caravaggio, pur «eccellentissimo nel colorire», 193 G. P. Bellori, Alla Pittura, in G. Baglione, Le vite, op. cit. «Scorgi da Caravaggio il gran Michele / darne l’opre à i colori, e vita, e albergo, / e con verace finto / lasciare il ver de le sue larve a tergo: / non è, non e dipinto / quel, che ne’ lini sui / mostra à le luci altrui, / che non volgari effigiò le tele; / ma la natura a lui / vive tempre concesse, / suoi spiriti diede, e se medesima impresse». 194 Cfr. Borea, op. cit., p. 62. 108 tra coloro che dipingono «gli eguali», seguendo «la similitudine» e «lasciando indietro l’Idea della Bellezza» 195 . A questo punto è necessario fare anche una considerazione riguardo al fatto che Bellori dice nella lettera di aver appreso che all’Albani la biografia di Caravaggio era «piaciuta in qualche parte»; da Malvasia sappiamo che l’Albani «non poté mai tollerare che si seguitasse il Caravaggio scorgendo essere quel modo il precipizio e la totale ruina della nobilissima e compitissima virtù della pittura» 196 ; quello che viene da chiedersi è se Bellori conoscesse o meno le opinioni dell’Albani: se ne era al corrente e sceglieva ugualmente l’Albani per avere un giudizio sul proprio testo relativo a Caravaggio, è probabile che tale testo non fosse del tutto incompatibile con le idee dell’Albani e che quindi non fosse neanche troppo lontano dalla biografia definitiva pubblicata nel 1672. Ma è anche possibile, e a mio avviso anche più credibile visto l’entusiasmo con cui Bellori elogiava e ammirava Caravaggio solo tre anni prima nella sua Canzone alla pittura, che il critico non fosse informato delle opinioni dell’Albani, e pensasse che anche lui potesse aver avuto un momento di ammirazione per l’arte di Caravaggio. 195 196 Agucchi in Mahon, op. cit., p. 257. Malvasia, op. cit. p. 169. 109 Comunque, nonostante tutte le possibili ipotesi, non possiamo sapere quale fosse il vero contenuto della prima biografia di Caravaggio e in che cosa si differenziasse da quella definitiva, che sicuramente non intende esprimere un giudizio positivo e che si apre così: «Dicesi che Demetrio antico statuario fu tanto studioso della rassomiglianza che dilettossi più dell’imitazione che della bellezza delle cose; lo stesso abbiamo veduto in Michelangelo Merigi, il quale non riconobbe altro maestro che il modello, e senza elezzione delle migliori forme naturali, quello che a dire è stupendo, pare che senz’arte emulasse l’arte» 197. Il paragone di Caravaggio con Demetrio non era cosa nuova, in quanto lo aveva già proposto Agucchi nel suo Trattato 198 e non era nuova neanche l’identificazione del «maestro» del Caravaggio nel «modello», ossia nel soggetto naturale scelto come oggetto della rappresentazione, perché già il Mancini aveva scritto: «Questa schola, [di Caravaggio] è molto osservante del vero che sempre lo tiene davanti mentre ch’ opera…» 199, ma qui Bellori, con questa affermazione, intende anticipare il suo giudizio negativo per quel modo di dipingere che egli non condivideva e che anzi attaccava. 197 Bellori, op. cit., pp. 211-212. Agucchi in Mahon, op. cit., p. 257. 199 Mancini, op. cit., p. 108. 198 110 Andando avanti il biografo parla della formazione di Caravaggio e dei suoi spostamenti giovanili, ed anche lui si fa sostenitore, come già aveva fatto il Baldinucci, di un soggiorno a Venezia del pittore, durante il quale avrebbe avuto modo di studiare le opere dei maestri veneziani, ma soprattutto «si compiacque tanto del colorito di Giorgione che se lo propose per iscorta nell’imitazione» 200 ; poi, giunto a Roma, «fu applicato dal Cavalier Giuseppe d’Arpino a dipinger fiori e frutti…e non riguardando punto, anzi spregiando gli eccellentissimi marmi de gli antichi e le pitture tanto celebri di Raffaele, si propose la natura per oggetto del suo pennello» 201. Anche questa affermazione ha chiaramente una connotazione negativa. Sappiamo infatti quanta importanza venisse data allo studio ed in particolare a quello delle sculture antiche, che invece viene assolutamente rifiutato dal Caravaggio, il quale, «tolta ogni autorità all’antico e a Raffaelle»202, «essendogli mostrate le statue più famose di Fidia e di Glicone, acciocché vi accomodasse lo studio, non diede altra risposta se non che distese la mano verso una moltitudine di uomini, accennando che la natura l’aveva a sufficienza proveduto di maestri»203. 200 Bellori, op. cit., p. 212. In realtà un soggiorno veneziano del Caravaggio non è mai stato provato, ma nel Seicento il “colorito” di Caravaggio veniva ricondotto alla tradizione veneta. 201 Ibidem, p. 214. 202 Ibidem, p. 230. 203 Ibidem, p. 214. 111 Inoltre, continua Bellori (intento a costruire un giudizio estremamente negativo su Caravaggio), dal momento che «egli aspirava all’unica lode del colore a questo solo volgeva intento l’occhio e l’industria…onde nel trovare a disporre le figure, quando incontratasi a vederne per la città alcuna che gli fosse piaciuta, egli si fermava a quella invenzione di natura, senza altrimenti esercitare l’ingegno» 204. Ecco che emerge il giudizio che più comunemente veniva espresso sul Merisi nel Seicento; egli fu apprezzato solo come colorista, tanto che «pareva vera l’incarnazione, la pelle e ‘l sangue e la superficie naturale»205, ma, allo stesso tempo, veniva accusato di non saper disporre le figure e di dipingere ogni cosa che vedesse così com’era, senza applicare alla composizione nessun tipo di studio; ma quello che secondo Bellori appare più assurdo ed incredibile è che «li pittori che allora erano in Roma presi dalla novità, e particolarmente li giovani concorrevano a lui e celebravano lui solo come unico imitatore della natura, e come miracoli mirando l’opere sue lo seguitavano a gran gara, spogliando modelli ed alzando lumi; e senza più attendere a studio ed insegnamenti, ciascuno trovava facilmente in piazza e per via il maestro e gli esempi nel copiare il naturale» 206. 204 Ibidem, p. 215. Ibidem, p. 215. 206 Ibidem, pp. 217-218. 205 112 Bellori, dunque, riconosce a Caravaggio un gran seguito, soprattutto tra i giovani, ma attribuisce il fenomeno al fatto che questi trovassero più facile dipingere «senza studio e senza fatica» 207, mentre «i vecchi pittori assuefatti alla pratica rimanevano sbigottiti per questo novello studio di natura; né cessavano di sgridare il Caravaggio e la sua maniera, divulgando che egli non sapeva uscir fuori dalle cantine, e che, povero d’invenzione e di disegno, senza decoro e senz’arte, coloriva tutte le sue figure ad un lume e sopra un piano senza degradarle» 208. Ecco uno dei passi più importanti di questa biografia: qui il critico esprime tutto il suo disappunto riguardo alla “maniera” del Caravaggio e lo accusa di essere privo di decoro e di invenzione, nonché di essere incapace di comporre le rappresentazioni in modo prospettico; nonostante tutto, però, «queste accuse non rallentavano il volo alla sua fama» 209. Dopo alcune pagine nelle quali elenca e a volte commenta una serie di opere dipinte dal Caravaggio, nell’ultima parte Bellori esprime pienamente e liberamente il suo giudizio sul pittore, che «giovò senza dubbio alla pittura, venuto in tempo che, non essendo molto in uso il 207 Ibidem, p. 230. Ibidem, p. 218. 209 Ibidem, p. 218. 208 113 naturale, si fingevano le figure di pratica e di maniera, e soddisfacevasi più al senso della vaghezza che della verità. Lande costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione, ricordando ‘a pittori l’imitazione» 210. Bellori riconosce al Caravaggio il merito di essersi distaccato dalla pittura manierista e di aver creato quindi una rottura con il passato dipingendo in un modo che era dovuto alla sua formazione di matrice lombarda e quindi naturalista; inoltre, credendo che egli avesse soggiornato per qualche tempo a Venezia, Bellori vedeva unita nel Merisi la formazione lombarda al colorito veneziano; più avanti dice però che «se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura. E veramente li pittori, sviati dalla naturale imitazione, avevano bisogno di uno che li rimettesse nel buon sentiero; ma come facilmente, per fuggire uno estremo, s’incorre nell’altro, così nell’allontanarsi dalla maniera, per seguitare troppo il naturale, si scostarono affatto dall’arte, restando negli errori e nelle tenebre; finché Annibale Carracci venne ad illuminare le menti ed a restituire la bellezza all’imitazione» 211. 210 211 Ibidem, p. 229. Ibidem, p. 231. 114 Quindi, sebbene Caravaggio avesse avuto qualche merito, fu anche molto dannoso alla pittura e peggio ancora furono i suoi seguaci, che si discostarono del tutto dall’arte smarrendosi negli errori. Ben altro ruolo fu quello di Annibale Carracci, visto da Bellori come il vero salvatore della pittura, alla cui arte non mancò «parte alcuna» 212 , ed «eccellente egualmente in ogni cosa, perché invero non si sa bene discernere in quella parte egli fosse migliore» 213 , mentre al Caravaggio «mancavano molte e le migliori parti, perché non erano in lui né invenzione né decoro né disegno né scienza alcuna della pittura mentre tolti dagli occhi suoi il modello restavano vacui la mano e l’ingegno»214. Qui viene rivolta al Merisi una censura ben precisa che non lascia scampo né fa intravedere uno spiraglio che possa far leggere questo giudizio in modo un po’ più positivo, ma anzi Bellori cerca di sminuirlo ancora di più quando afferma che egli ed i suoi seguaci imitavano «le cose vili, ricercando le sozzure, e le deformità…se essi hanno à dipingere un’armatura, eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo fanno intiero, ma sboccato, e rotto. 212 Ibidem, p. 72. Ibidem, p. 88-89. 214 Ibidem, p. 230. 213 115 Sono gli abiti loro calze, brache, e berrettoni, e così nell’imitare li corpi si fermano con tutto lo studio sopra le rughe, e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi» 215. Bellori conclude questa biografia dicendo che «tali modi del Caravaggio acconsentivano alla sua fisionomia ed aspetto» 216 e pur di squalificarlo e di creare un’immagine negativa diventa persino moralista, affermando che «usava egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un abito, mai lo tralasciava finché non gli cadeva in cenci. Era negligentissimo nel pulirsi; mangiò molti anni sopra la tela di un ritratto, servendosene per tovaglio mattina e sera» 217. Questo può far capire quanta volontà di sminuire Caravaggio ci sia in Bellori, che con questa biografia ha segnato per molto tempo la fortuna del pittore; a lui si deve, infatti, la canonizzazione degli schemi di lettura caravaggesca che da allora sono stati seguiti fino a larga parte dell’ottocento. Il Bellori riconosce d’altra parte la funzione storica del Caravaggio come una necessaria reazione al manierismo e gli attribuisce il merito di aver ricondotto gli artisti, sviati dietro la “fantastica idea” dei manieristi, all’osservazione del naturale, ma pur riuscendo a intuire, capire ed 215 Ibidem, p. 230. Ibidem, p. 232. 217 Ibidem, p. 232. 216 116 interpretare correttamente la novità della sua arte, egli scorge la vera salute nella scuola bolognese ed in particolare in Annibale Carracci, che viene presentato come colui con il quale prende avvio la quarta e più perfetta età della pittura, secondo la concezione evolutiva che eredita dalle Vite del Vasari 218. Concludendo, possiamo dire che Bellori vedesse in Caravaggio un artista che aveva percorso la giusta strada verso il rinnovamento, ma si era poi smarrito «per seguitar troppo il naturale…restando negli errori e nelle tenebre» 219 , e d’altra parte la notizia che la Vita di Caravaggio era conclusa già nel 1645 dimostra il grande interesse che Bellori nutriva da sempre per questo pittore, che però poi giudicò negativamente, forse anche influenzato dal pensiero del suo grande amico Poussin, il quale avversava così tanto il Caravaggio da credere che fosse venuto al mondo per distruggere la pittura. Da sottolineare è anche il fatto che a Bellori dobbiamo una sorta di definizione critica del gruppo dei naturalisti 220 ; infatti, a conclusione della biografia di Caravaggio, scrive che: «molti furono quelli che imitarono la sua maniera nel colorire del naturale, chiamati perciò 218 Cfr. Montanari, op. cit., p. 33. Bellori, op. cit., p. 231. 220 Già Mancini aveva individuato la presenza di alcuni pittori che appartenevano alla “schola”di Caravaggio, ma è solo con Bellori che avviene la definitiva canonizzazione di questo gruppo. 219 117 Naturalisti; e tra essi annoteremo alcuni, che hanno maggior nome: Bartolomeo Manfredi, Carlo Saracino, Guseppe Ribera detto lo Spagnoletto, Valentino di Briè e Gherardo Honthorst» 221. L’atteggiamento nei loro confronti dipende, ovviamente, dalle sue idee sul Caravaggio, anche se riesce a scorgervi qualità migliori che non nel maestro stesso; perfino il Manfredi, che «non fu semplice imitatore, ma si trasformò nel Caravaggio, [ha] qualche diligenza e freschezza maggiore»222. 3. Bellori “lettore” di Caravaggio Bellori e la sua opera principale, le Vite, rappresentano senza dubbio uno degli esiti più significativi della storiografia artistica del Seicento; all’interno della sua opera egli inserì gli artisti migliori, i “maestri di prima classe” e tra questi, come sappiamo, trovò posto anche Caravaggio; ai nostri occhi, l’inclusione del Merisi nelle Vite è uno dei più grandi riconoscimenti che Bellori potesse dare a questo grande artista, del quale dimostra una straordinaria comprensione, anche se in 221 222 Bellori, op. cit., pp. 233 e seg. Ibidem, p. 234. 118 realtà egli ne compose la biografia per soddisfare un “exemplum” negativo da contrapporre ad Annibale Carracci. Leggendo le pagine che riguardano Caravaggio, vediamo, però, che Bellori non solo gli riconosce la funzione storica di aver reagito al manierismo, ma comprende anche perfettamente quali fossero state le novità che egli aveva apportato alla pittura e la loro grande importanza;come già altri prima di lui, anche Bellori dà molto valore al Caravaggio come colorista, ma, rispetto agli altri biografi, egli sottolinea qualcosa in più; infatti si sofferma sul fatto che, nonostante egli preferisse «l’opere sue prime dolci, schiette e senza quelle ombre ch’egli usò poi» 223 , solo il Merisi tolse «ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione, ricordando a’ pittori l’imitazione» 224. Con questa dichiarazione sembra che Bellori, in un primo momento, veda nel Caravaggio colui che poteva rimettere i pittori sulla retta via, dal momento che «ebbe tanto applauso» anche tra gli «ingegni più elevati e nutriti nelle migliori scuole»225; ma poi si corregge, sostenendo che «per seguir troppo il naturale, si è scostato dall’arte, restando negli 223 Ibidem, p. 213. Ibidem, p. 229. 225 Ibidem, p. 230. 224 119 errori e nelle tenebre» 226 anche se «sono pregiati li suoi colori dovunque è in conto la pittura» 227, mostrando così di continuare ad apprezzarlo quale buon coloritore, ma niente di più. Poche pagine prima Bellori aveva ricondotto a Caravaggio, con parole di elogio, anche un impulso decisivo allo sviluppo della natura morta; infatti racconta che, una volta giunto a Roma, iniziò a «dipinger fiori e frutti sì bene contraffatti che da lui vennero a frequentarsi a quella maggior vaghezza che tanto oggi diletta» 228 ; ciò che invece, secondo Bellori, manca del tutto al Merisi è la capacità di comporre della buona pittura di storia. Leggiamo, a questo proposito, la descrizione che egli fa della Maddalena Doria Pamphili: «dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi i capelli, la ritrasse in una camera, ed aggiungendovi in terra un vasello d’unguenti, con monili e gemme, la finse per Maddalena. Posa alquanto da un lato la faccia e s’imprime la guancia, il collo e ‘l petto in una tinta pura, facile e vera, accompagnata dalla semplicità di tutta la figura, con le braccia in camicia e la veste gialla ritirata alle ginocchia dalla sottana bianca di damasco fiorato… Quella figura 226 Ibidem, p. 231. Ibidem, p. 232. 228 Ibidem, p. 213. 227 120 abbiamo descritta particolarmente per indicare li suoi modi naturali e l’imitazione in poche tinte sino alla verità del colore» 229. L’accusa è chiara: Caravaggio non sa dipingere soggetti storici, non sa rappresentare gli affetti e la sua pittura manca di composizione. Bellori informa i lettori che il Merisi dipinse una fanciulla qualunque nella sua camera da letto, mentre si asciuga i capelli, pretendendo di “fingerla” per Maddalena, atteggiandola in un modo che non conviene ad una santa, senza porla in un contesto che lasci intuire, in alcun modo, la storia della Maddalena. Togliendo però la negatività a questo giudizio, rimane una descrizione (seppur breve rispetto a quelle che troviamo nelle biografie degli altri artisti) di grande intensità e pregnanza: Bellori mostra di aver compreso la forza del Caravaggio, che non stava solo nel modo di “colorire”, ma anche nel riuscire a rappresentare tutta la “ferialità” e la quotidianità dei soggetti, dipinti in modo nuovo e straordinario. Più avanti usa parole di elogio per «l’angelo bellissimo che suona il violino» 230 rappresentato nel quadro del Riposo durante la fuga in Egitto». 229 230 Ibidem, p. 215. Ibidem, p. 215. 121 «Degno dell’istessa lode è una testa ben ritratta dal vivo» 231 che si può ammirare nella camera del cardinale Antonio Barberini, in un quadro che rappresenta «tre mezze figure che giuocano a carte» 232. Bellori ci informa del fatto che queste sono le prime opere del Caravaggio, dipinte a suo parere secondo la «maniera di Giorgione» 233, cioè «con oscuri temperati» 234. Con questa tecnica dipinse ancora: «una musica di giovini ritratti dal naturale in mezze figure, una donna in camicia che suona il liuto con le note avanti, e Santa Caterina ginocchione appoggiata alla rota… » 235. Questo passo è degno di nota e, senza dubbio, merita molta attenzione: Bellori dimostra di essere in grado di periodizzare la pittura del Caravaggio e di dire, davanti ad un suo dipinto, a quale fase appartiene. Andando avanti, Bellori afferma che «Caravaggio facevasi ogni giorno più noto per lo colorito ch’egli andava introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi assai del nero per dar rilievo alli corpi» 236 ; per questo suo modo di dipingere ricevette, come sappiamo, molte accuse, soprattutto dai vecchi pittori di cultura manierista che non potevano accettare un tipo di pittura 231 Ibidem, p. 216. Ibidem, p. 216. Si tratta, chiaramente, dei Bari. 233 Ibidem, p. 216. 234 Ibidem, p. 216. 235 Ibidem, pp. 216-217. 236 Ibidem, p. 217. 232 122 tanto diverso dal loro: Bellori, però, con grande obiettività, ritiene che Caravaggio avesse dipinto anche alcune opere veramente buone e che «tra le migliori che uscissero dal pennello di Michele si tiene meritatamente in stima la Deposizione di Cristo, la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo» 237 ; parole analoghe vengono usate per la Resurrezione di Lazzaro, «un quadro grande… da tenere sommamente in stima per la forza dell’imitazione» 238. Osservando questi quadri, ci accorgiamo che sono gli unici nei quali compare un minimo di narrazione storica e la composizione risponde maggiormente alle attese di un critico letterato come Bellori; infatti, in queste opere sono rappresentati più personaggi, i quali, non solo creano un contesto storico, ma esprimono affetti e sentimenti. D’alta parte, dobbiamo ricordare che per Bellori esisteva un'unica via della pittura, rappresentata da una ipotetica linea che da Annibale Carracci, salvatore dell’arte, nella cui opera non mancò «parte alcuna della pittura»239, arriva a Poussin, che eccelse soprattutto «nell’invenzione dell’istoria e nella bellezza delle forme» 240; è chiaro che in quest’ottica non può trovare posto Caravaggio, un artista che 237 Ibidem, p. 221. Ibidem, p. 227. 239 Ibidem, p. 72. 240 Ibidem, p. 423. 238 123 risulta essere troppo pericoloso, dal momento che ha tentato di portare la pittura sulla strada sbagliata rischiando di distruggerla. CONCLUSIONI Questo lavoro, che ha per oggetto la fortuna di Caravaggio come si riflette nella letteratura artistica seicentesca, ha cercato di mostrare come il giudizio sul pittore si sia evoluto e sia radicalmente cambiato nel corso del XVII secolo. Seguendo un percorso cronologico, a date molto precoci, cioè all’inizio del Seicento, incontriamo soprattutto il pensiero degli amici i quali, esprimendo un giudizio di evidente ammirazione, cercano di mostrare un’immagine positiva «dell’amico d’indole eccellente» 241 , definendolo addirittura «gran protopittore e meraviglia dell’arte» 242, in quanto riuscì a «dipinger di maniera e con l’esempio avanti del naturale, che è il modo più perfetto e più difficile» 243 . Tali letterati videro in lui l’aprirsi di un nuovo corso pittorico e questo è il segno di una mentalità non ancora raccolta, senza dubbio, dal classicismo idealistico che iniziava a serpeggiare negli ambienti più 241 G. Fulco, op. cit., p. 131. G. C. Gigli, op. cit., p.53. 243 V. Giustiniani, op. cit., p. 44. 242 124 colti, grazie soprattutto alle posizioni di Giovan Battista Agucchi, il quale sosteneva che Caravaggio, come il pittore antico Demetrio, «hà lasciato indietro l’Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine» 244. Comunque, nonostante questo, neanche Agucchi esprime nei confronti del Merisi un giudizio del tutto negativo; semmai mostra la grande difficoltà che c’era a comprendere l’opera di un pittore che raccoglieva i suoi modelli per strada e senza distinguere il “bello” dal “brutto”. Agucchi lo considera, anzi, anche «eccellentissimo nel colorire» 245 e con questo giudizio si avvicina molto al pensiero di Giulio Mancini, voce altamente positiva nella critica caravaggesca del Seicento ed importante anche per il fatto che egli individua per primo una «schola del Caravaggio» 246. In realtà Caravaggio non ebbe mai allievi diretti nel senso tradizionale, e dunque è ancor più importante che qualcuno percepisse la vasta influenza esercitata dal pittore, e riconoscesse gli aspetti comuni nell’opera di un gruppo di artisti che ammodernarono il loro linguaggio seguendo il naturalismo caravaggesco. 244 G. B. Agucchi, op. cit., p. 257. Ibidem, p. 257. 246 G. Mancini, op. cit., p. 108. 245 125 In questi anni, cioè all’inizio del Seicento, si intensificarono anche i rapporti artistici fra l’Italia e l’Europa ed aumentò in maniera sostanziale l’esportazione di pittura italiana, tramite le vie del collezionismo, privato e principesco; in questo contesto, soprattutto in Spagna ed in Germania, furono elaborati trattati d’arte che, molto spesso, si basavano su categorie estetiche e storiche mutuate dalla tradizione storiografica italiana. Proprio in questo momento vede la luce lo Schilderboek (1604) di Karel Van Mander, successivamente ripreso nella Teutsche Accademie (1675) di Joachim von Sandrart, mentre, per quanto riguarda la Spagna, tra il 1633 ed il 1649 furono dati alle stampe i Diàlogos di Vicente Carducho e l’Arte de la Pintura di Francisco Pacheco. A questo punto, in Italia, alla metà del secolo, inizia a prendere forma quello che poi sarà il giudizio definitivo su Caravaggio, il quale, secondo il parere dei biografi dell’epoca, aveva un gran talento, ma poteva quasi dirsi venuto al mondo per distruggere la pittura e sovvertire il buon gusto. Dal loro punto di vista, l’arte del Merisi non è comprensibile: rappresentare le cose con un programma integralmente naturalistico senza abbellirle affatto, senza scegliere le parti più belle della natura da 126 rappresentare, senza preoccuparsi del “decoro” e della corretta “composizione” e della “historia”, è una cosa irragionevole. D’altra parte, secondo questi scrittori, tutto ciò rispecchia il suo carattere; infatti egli è un cattivo soggetto in società, è «satirico, altiero e discolo»247, spadaccino e attaccabrighe e pertanto irrispettoso del buon gusto e della tradizione. Nonostante tutto, però, come ci fa sapere Giovanni Baglione, il biografo che maggiormente avversò il pittore, Caravaggio «acquistò gran credito…t_to importa l’aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con le orecchie. E nell’accademia il suo ritratto è posto» 248. Questa inclinazione malevola, appena mitigata poco dopo la metà del secolo da Francesco Scannelli, il quale mostra una grande ammirazione per il «primo capo de’ naturalisti» 249 , assume, andando avanti, una connotazione sempre più decisa, aiutata anche da racconti romanzati come quello scritto da Giovanni Battista Passeri, che vuole etichettare il Caravaggio come un uomo «scandaloso e di cattive qualità» 250 , alimentando così la leggenda del “pittore maledetto”, emarginato ed escluso dalla società. 247 G. Baglione, op. cit., p. 138. Ibidem, p. 139. 249 F Scannelli, op. cit., p. 170. 250 G. B. Passeri, op. cit., p. 347. 248 127 A corollario di tutto è il giudizio di Giovanni Pietro Bellori, il critico che ha costruito un monumento all’Idea del bello e che con la sua biografia caravaggesca ha segnato per molto tempo la fortuna del pittore. Egli è stato, senza dubbio, l’unico ad aver capito ed interpretato correttamente la novità e la forza dell’arte del Caravaggio: gli riconosce infatti una funzione storica, considerando la sua pittura come una necessaria reazione al manierismo, e gli attribuisce il merito di aver ricondotto gli artisti all’osservazione del naturale; nonostante questo, però, a Bellori si deve la canonizzazione degli schemi negativi di lettura caravaggesca, che vedono nel Merisi, non più un “eccellente coloritore”, ma un “assassino della pittura”. 128 BIBLIOGRAFIA K. Van Mander, Het Schilderboek, Alkmaar, 1604, ed. italiana a cura di R. de Mambro Santos, Sant’Oreste, 2000. G. B. Agucchi, Trattato della pittura, (1607-1615 circa), in Mahon, Studies in Seicento art and theory, London, 1947, pp. 233-275. G. C. Gigli, La pittura trionfante, Venezia 1615, ed. a cura di B. Agosti e S. Ginzburg, Porretta Terme (Bologna), 1996. G. Mancini, Considerazioni sulla pittura, (1618-1621 circa), ed. a cura di A. 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Una lettera a Francesco Albani e la Biografia di Caravaggio, in Prospettiva, n. 100, 2000, pp. 57-69. E. Borea (a cura di), L’Idea del bello, viaggio per Roma nel Seicento con Giovan Pietro Bellori, Edizioni De Luca, Roma, 2000. T. Montanari, Introduzione a G. B. Bellori, Le vite…, ed. inglese, in corso di stampa. 136 INDICE CAPITOLO I AMICI E AMMIRATORI 1. Caravaggio nelle rime di Marzio Milesi....................................................... p.1 2. Il filocaravaggismo di Giulio Cesare Gigli................................................... p.9 3. Vincenzo Giustiniani: amico, ammiratore e committente............................. p.13 4. Giovan Battista Marino e Virgilio Malvezzi: due letterati appassionati d’arte........................................................................................................... p.19 CAPITOLO II GIOVANNI BATTISTA AGUCCHI E GIULIO MANCINI 1. Giovanni Battista Agucchi: una posizione “protoclassicistica” .................... p.27 2. Caravaggio eccellente colorista: il punto di vista di Giulio Mancini............. p.32 CAPITOLO III CARAVAGGIO FUORI D’ITALIA 1. Il giudizio su Caravaggio nei trattati d’arte di Vicente Carducho e Francisco Pacheco....................................................................................................... p.41 2. Karel Van Mander e Joachim von Sandrart.................................................. p.49 137 CAPITOLO IV CARAVAGGIO: UN UOMO «SATIRICO, ALTIERO E DISCOLO» NELLA BIOGRAFIA DI GIOVANNI BAGLIONE.............. p.59 CAPITOLO V I BIOGRAFI DELLA SECONDA META’ DEL SEICENTO 1. Luigi Scaramuccia: un parere del tutto classicistico ..................................... p.65 2. Francesco Scannelli: una grande ammirazione per il «capo de’ naturalisti». p.70 3. Le opinioni di alcuni artisti su Caravaggio nell’opera di Cesare Malvasia.... p.76 4. Caravaggio: il racconto romanzato di Giovanni Battista Passeri................... p.85 5. La posizione di Filippo Baldinucci .............................................................. p.92 CAPITOLO VI IL GIUDIZIO DI GIOVANNI PIETRO BELLORI 1. Giovanni Pietro Bellori e l’Idea del Bello .................................................... p.96 2. Il primo progetto della biografia di Caravaggio e la stesura definitiva.......... p.104 3. Bellori “lettore” di Caravaggio .................................................................... p.117 138 CONCLUSIONI ....................................................................................... p.124 BIBLIOGRAFIA ........................................................................................ p.129 APPENDICE……………………………………………… p.140-178 139 APPENDICE 1. Marzio Milesi: Componimenti in onore di Caravaggio ................................ p.142 2. Giulio Cesare Gigli, La pittura trionfante .................................................... p.147 3. Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la pittura.......................................... p.148 4. Giovan Battista Marino, La Galeria ............................................................ p.149 5. Virgilio Malvezzi, Successi principiali della monarchia di Spagna nell’anno 1639 ........................................................................................... p.150 6. Giovan Battista Agucchi, Trattato della pittura. .......................................... p.151 7. Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura............................................... p.152 8. Vicente Carducho, Dialogos de la pintura .................................................. p.154 9. Francisco Pacheco, Arte de la pintura..............................................p.155 10. Karel Van Mander, Het Schilderboeck....................................................... p.156 11. Joachim von Sandrart, Teutsche Accademie…..............................................p.157 12. Giovanni Baglione, Le Vite de’ Pittori Scultori et Architetti ...................... p.158 13. Luigi Scaramuccia, Le finezze de’ pennelli italiani ................................... p.161 14. Francesco Scannelli, Il Microcosmo della Pittura...................................... p.162 15. Cesare Malvasia, Felsina Pittrice: Vite Dei Pittori Bolognesi.................... p.163 16. Giovanni Battista Passeri, Vite de’ Pittori Scultori ed Architetti................. p.165 17. Filippo Baldinucci, Notizie dei Professori del Disegno…………………….p.167 140 18. Giovanni Battista Bellori, Le Vite de’ pittori scultori e architetti moderni...p.169 141 Marzio Milesi: Componimenti in onore di Caravaggio, ed. a cura di G. Fulco in ‘Ricerche di storia dell’arte’, 10, 1980, pp. 87-89. Epigrafe I: Michelangelo de Caravaggio/ pictori in/ consumati operis perfectione/ ac Naturae aemulatione/ precipuo. Epigrafe II: Michelangelo Merisio Firmi/ e Caravagio/ pictori/ cuius inspiciens simulacra/ vera esse corpora si ambiges/ ne mireris/ Naturae atque artis foedus/ in illis est quod decipit/ Martius Milesius iuris Consultis/ amico benemerito. Epigrafe III: Pro imaginis simulacro/ Michelangelo Merisius de Caravagio/ aequos Hierosolomitanus/ naturae aemulator eximius/ vixit annos XXXVI M. IX D. XX/ moritur XVIII iulii MDCX. Epitaffio: Michaeli Angelo Merisio Firmi/ de Caravagio/ in picturis iam non pictori/ sed Naturae prope aequali/ obiit in Portu Herculis/ e Partenope illuc se conferens/ Roman repetens/ XV Kalendas Augusti/ anno Christi MDCX/ vixit annos XXXVI menses D.XX/ Martius Milesius iuris Consultis/ amico eximiae indolis. Distico : Omnia vincit amor, tu pictor et omnia vincis scilicet ille animos, corpora tuque animos. Per una pittura di Michel Angiolo da Caravaggio : Del fanciullo Giesù, d’Anna e Maria l’imagin sacre, spettator, rimira d’angelico pittore, et meco ammira l’arte, e ‘l pensier ond’è al ciel ne invia. Per lo peccar d’Adamo era travia il miser huom del suo fattore in ira, quando, fatt’huomo Dio, rinasce, e spira, che di poggiare al ciel gl’aprì la via. Onde quel, che cagion fiero serpente fu del peccar, calcato viene oppresso da la madre et dal figlio, et la gran Veglia dela madre de Dio madre, ch’appresso loro tu vedi umile, riverente, o quanto al bene oprare ne risveglia. Michel Angiolo da Caravaggio anchor giovane: 142 Michel, Angel voi siete, e siete uguale Di chi fu al mondo tale, ch’a ciascun fu magiore, e co’l nome, e con l’opre lui sembrate. Se tal in sì verdi anni vi mostrate che fie in età matura? Da voi le gran maestre Arte, e Natura, vinte si restanno, con vostro eterno honor, lor grave danno. Il medesimo: Cedano a voi gl’antichi, et i più illustri Pittor del secol nostro, Angel Michele, e siano immortali, e gl’anni, e i lustri i color vostri, e le pregiate tele. Finghia altri pur le cose, adombre, e lustri, voi vive e vere le rendete, intanto che ben vi si conviene il pregio, e ‘l vanto, che vi dà con la cetra altri e co’l canto. Del medesimo: Ammirate l’altissimo Pittore, ch’a quanti pria ne furo passa avanti; a celebrarlo venga almo scrittore, degno ben di gran pregi, e sommi vanti. Stupisce il mondo, e viene a fargli honore con l’ingegni sublimi tutti quanti. Felice secol nostro, in cui si vede quel che d’antica età si scrive, e crede. Per l’istesso: Quel che suol dare a mille forme vita si vede a vivi corpi ancho dar morte. Stupì Natura, che se morte e vita rend’ella, e questi anch’ei dia vita e morte. Giovanetto Pittore allievo del Caravagio: O di sì gran Maestro, discepolo pregiato, ch’adeguar tenti, né già tenti in vano con l’opre di tua mano, quant’al mondo di bel Natura ha dato. Segui con tal principio in ogni parte, ch’a la meta arrivar pocho è ne l’arte. Giovanetto pittore eccellente: A la meta arrivar pocho è ne l’arte, 143 ma chi, varcato il segno, sen va tant’oltre, ove giungon sì rari, di sommi honori e pregi ben fia degno. Voi ch’al colmo n’andate in ogni parte, e gite al par de più famosi e chiari, onde in più fresca età, l’età vincete, ch’altri v’ami et ammiri degno siete. Selva per le historie di S. Mattheo dipinte da Michel Angiol da Caravaggio: Cedano a voi gl’antichi, et i più illustri Pittor del secol nostro, Angiol Michele E siano immortali, e gl’anni, e i lustri, i color vostri, e le pregiate tele. Finghia pur le cose altri, adombri, e lustri, voi vive e vere l’arrecate, in tanto che ben vi si conviene il pregio, e ‘l vanto, che vi dà la mia cetra hora, e ‘l mio canto. Aiuta Musa a ridir l’eccellenze, ch’infonde la tua suora al caro figlio, e fa ch’uguale a i metri l’eminenze possa mostrar, di quanto a dir m’appiglio; Apostol santo, se pur negligenze, di te parlando, avien ch’incorra, emenda gl’errori tu, sì ch’altri non offenda, e fa ch’al mio cantar ciascuno attenda. Ecco ch’a cominciare hormai m’invita, e che regge il mio dire amata scorta, e già veggio il mio Cristo, ch’a chiamare e publicani venne, e peccatori, come al primo apparir, sgombra, e rischiara la mente di Mattheo, ch’ingorda, e cieca si stava al mondo in duri lacci avvolta, e Giesù che risplende in guisa tale, ch’a rimirarlo attrae gl’occhi, e le menti de risguardanti, e par beati renda de mortali gli spirti. Et tal s’è in terra, d’artefice per opra, e di pennello, a rivederlo in ciel hor che fia dunque? Intrepido te Santo, anchor ammiro, ch’offrendo olocausto al tuo signore, ecco d’impuro Regge a i detti presta, stringe barbara man, ch’uccider brama, per far d’empia e crudel morte, trofeo d’eterna e immortal gloria, e ben l’addita l’Angiol, che qui dal ciel discende umile con vittoriosa insegna, per condurti carcho d’anni e di meriti in paradiso. A chi ti mira, non finto, ma vero, e morir mostri, e respirare in uno. Ma diamo fin, che saria lungo il dire, 144 se descriver volessi a parte, e del mio gran Michel scrivere in carte, fatto stupor nel secol nostro al mondo. Voi note mie, già che canzon non sete, né cosa ch’ammirar altri vi deggia, non perciò dubitate palesarvi; e s’odio o pur se invidia di qualch’uno dirrà ch’altri v’è uguale a le sue lodi, dite ch’unico il tempo esser farallo. Per lo ritratto del Cardinal Serafino fatto da Michel Angiol da Caravaggio: Angiol esser doveva, ch’a voi gran Serafino, nove forme arrecasse, et nova vita, dal ciel ambo discesi, onde ben fosse degno lui ritrar voi, voi di lui degno. Lode del Caravaggio: Quest’Angiolo celeste, che dona vita e tele, alma a colori, e con Natura a gara, produce meraviglie tante, et preste, e di lei vie maggiori, ch’ella imperfette al nascimento falle, questi nate et perfette: o stupor grande ch’il pensier trapassa! Per la morte di Michel Angiol da Caravaggio, in Port’Ercole: Morto sei tu, Michel? Tu ch’animasti, con l’angelico spirto, i bei colori? Ahi che le gratie spente ancho e gl’Amori, con quai l’opre tue chiare al ciel alzasti. Al paro di Natura in guisa oprasti, che somigliaro i vostri alti lavori, ond’ella dubitando de gl’honori a lei dovuti, fè che tu mancasti. Troppo in alto salendo Icaro cadde Ne l’onde che da lui pigliaro il nome, e fu de l’ardir sua pena ed oltraggio. Ma tu d’Hercole in sen, suo figlio, come Secur non fusti che morir t’accadde? Ah con morte non giova anch’esser saggio. Per l’istesso: Al mondo morto sei, non a te stesso, né a la gloria che di te risuona, Angel Humano già, ma hor ch’hai corona In ciel, divino, al sommo bene appresso. Le bellezze mirar già t’è concesso 145 Del grande Dio, ch’il premio hora a te dona De le fatiche tue, d’ogni opra buona, e quel che t’era ascoso, hor vedi espresso. Fra i travagli del mondo, e le tempeste vivesti ad altri, hor a te solo vivi, da mortal vita, ad immortal rinato. Il bello sparso, che vivendo, univi, altrui rende stupore, a te ‘l celeste, che di vederlo, a noi ancho sia dato. Per lo medesimo: Varacato il mar d’atre tempeste humane, ti godi in cielo i meritati honori, Angel nuovo Michel, d’ogni mal fuori, queste cose del mondo a te son vane. L’invidie tutte hor stan da te lontane, ch’il volgo (altri mancato) de gl’errori s’accorge, in non conoscere i migliori, che poi stupido e stolto ne rimane. O riportata in ciel anima bella, ritolta al mondo che virtù non cura, indegno di sì grande alto intelletto. Se doppo morte esser amico dura, accetta queste voci anchor, con quella mente sincera che m’uscir dal petto. 146 Giulio Cesare Gigli, La pittura trionfante, Venezia 1615, ed. a cura di B. Agosti e S. Ginzburg, Porretta Terme (Bologna) 1996, p. 53. Della pittura trionfante parte quarta ed ultima: «Non so se tu discerni appo di quelli que duo nati sul Po famosi tanto, quasi moderni Dossi, mondino ti dich’io de’ Scarscellini, ed Ippolito il figlio? ch’emuleggiando l’antich’opre vanno, sì che la diva eccelsa sempre tra i buoni gli ha tenuti a core. Ma di tutti costoro sarà ben ch’io t’esponga e patria e nome, di mano in man che mi si fanno agl’occhi». Così dicendo traevamo eguali dietro alla turba le parole e i passi, quand’ecco s’offre di ciascuno avanti di fantastico umor, certo bizzarro, pallido in viso, e di capillatura assai grande, arricciato, gli occhi vivaci, sì, ma incaverniti, ch’uno aureo baston portava in mano per allentar, per stringer, per condurre, come piaceva a lui, dietro alla Donna l’onorata gente. Ond’io verso l’amico fei sì, ch’ei chiaro apprese com’io bramava di saper di quegli ogni condizione e circostanza. A che tosto rispose: «O felice ch’arriva a segno tale! Quest’è il gran Michelangel Caravaggio, il gran protopittore, meraviglia dell’arte, stupor della natura, sebben versaglio poi di rea fortuna». 147 Vincenzo Giustiniani, Discorso sopra la pittura, in Discorsi sulle arti e sui mestieri, a cura di A. Banti, Firenze 1981, pp. 43-44. Decimo, è il modo di dipingere, come si dice, di maniera, cioè che il pittore con lunga pratica di disegno e di colorire, di sua fantasia senza alcun esemplare, forma in pittura quel che ha nella fantasia, così teste, o figure intiere, come in istorie compite, o qualsivoglia altra cosa di disegno e colorito vago, nel quale modo ha dipinto a’ tempi nostri il Barocci, il Romanelli, il Passignano, e Giuseppe d’Arpino, particolarmente nelle pitture a fresco in Campidoglio, nel che ha prevalso assai; ed in questo modo molti altri hanno a olio fatto opere assai vaghe e degne di lode. Undecimo modo, è di dipingere con avere gli oggetti naturali d’avanti. S’avverta però che non basta farne il semplice ritratto; ma è necessario che sia fatto il lavoro con buon disegno, e con buoni e proporzionati contorni, e vago colorito e proprio, che dipende dalla pratica di sapere maneggiare i colori, e quasi d’istinto di natura, e grazia a pochi conceduto; e soprattutto con saper dare il lume conveniente al colore di ciascheduna parte, e che i sudici non sieno crudi, ma di farli con dolcezza ed unione; distinte però le parti oscure, e le illuminate, in modo che l’occhio resti soddisfatto dell’unione del chiaro e scuro senza alterazione del proprio colore, e senza pregiudicare allo spirito che si deve alla pittura, come ai tempi nostri, lasciando gli antichi, hanno dipinto il Rubens, Gris Spagnolo, Gherardo, Enrico, Teodoro, ed altri simili, la maggior parte Fiamminghi esercitati in Roma, che hanno saputo ben colorire. Duodecimo modo, è il più perfetto di tutti; perché è il più difficile; l’unire il modo decimo con l’undecimo già detti, cioè dipingere di maniera, e con l’esempi avanti del naturale, che così dipinsero gli eccellenti pittori della prima classe, noti al mondo; ed altri ai nostri dì il Caravaggio, i Carracci e Guido Reni, ed altri tra i quali taluno ha premuto più nel naturale che nella maniera, e taluno più nella maniera che nel naturale, senza però discostarsi dall’uno, né dall’altro modo di dipingere, premendo nel buon disegno, e vero colorito, e col dare i lumi propri e veri. 148 Giovan Battista Marino, La Galeria, Venezia 1620, pp. 225, 235. La testa di Medusa in una rotella di Michelangelo da Caravaggio, nella galleria del Gran Duca di Toscana: Or quai nemici fian, che freddi marmi non divengan repente in mirando, Signor, nel vostro scudo quel fier Gorgonie, e crudo, cui fanno orribilmente volumi viperini squallida pompa e spaventosa ai crini? Ma che! Poca fra l’armi a voi fia d’uopo il formidabil mostro: chè la vera Medusa è il valor vostro. In morte di Michelagnolo da Caravaggio: Fecer crudel congiura Michele, à danni tuoi Morte, e Natura. Questa restar temea dala tua mano in ogni imagin vinta, ch’era da te creata, e non dipinta. Quella di sdegno ardea, perché con larga usura quante la falce sua genti struggea, tante il pennello tuo ne rifacea. 149 Virgilio Malvezzi, Successi principali della monarchia di Spagna nell’anno 1639, Bologna 1640, p. 5. S’obblighi l’istoria alla verità , il pittore al naturale, e benché quella e questa siano una sola cosa, non è una sola la maniera di scriverla e dipingerla. Grande istorico fu Salustio, Tito Livio, Tacito; gran pittore Raffaele, Titiano e ‘l Correggio, degni di maraviglia; nondimeno scrissero e dipinsero con differenti modi e linee. Né meno s’ha da credere ch’il campo che prima si riconobbe libero si deve ora limitare alle precise regole di que’ segnalati valentuomini. Guido da Bologna e Michele Angelo Caravaggi, quando la nostra ignoranza pubblicava già stracca la natura, uscirono alla luce con un modo nell’eseguire nuovo avantaggiandosi agli antichi, l’uno con la forza del dipingere, l’altro con la nobiltà dell’aria; perché non può ancora manifestarsi un istorico che superi gli altri? 150 Giovan Battista Agucchi, Trattato della Pittura, in D. Mahon, Studies in Seicento Art and Theory, London 1947, pp. 256-257. Demetrio, benché questi fosse scultore, andò tanto dietro alla somiglianza, che alla bellezza non ebbe riguardo. Ma ai nostri tempi Raffaele e la Scuola Romana di quel secolo, come di sopra si è detto, seguendo le maniere delle statue antiche, hanno sopra gli altri imitato i migliori; e il Bassano è stato un Pierico nel rassomigliare i peggiori; e una gran parte dei moderni, ha raffigurato gli eguali; e fra questi il Caravaggio eccellentissimo nel colorire si dee comparare a Demetrio, perché ha lasciato indietro l’Idea della bellezza, disposto di seguire del tutto la similitudine. 151 Giulio Mancini, Considerazioni sulla pittura, ed. a cura di A. Marucchi e L. Salerno, Roma, 1956-57, I, pp. 108-109; 120; 223-226. Le quattro scuole dei pittori viventi: Solute dunque le difficoltà et essendo già venuti al secolo de’ viventi, per poterli meglio considerare si devon propor alcune cose che sono le seguenti, cioè: che questi viventi si reducon a quattro ordini, classe o ver vogliam dire scuole, una delle quali è quella del Caravagio, assai seguita, camminando per essa con fine, diligentia e sapere Bartolomeo Manfredi, lo Spagnoletto, Francesco detto Cecco del Caravagio, lo Spadarino et in parte Carlo Veneziano. Proprio di questa schola è di lumeggiare con lume unito e che venghi da alto senza reflessi, come sarebbe in una stanza da una finestra con le pariete colorite di nigro, che così, avendo i chiari e l’ombre molto chiare e molto scure, vengono a dar rilievo alla pittura, ma però con modo non naturale né fatto, né pensato da altro Secolo o’ pittori più antichi, come Raffaello Titiano, Correggio, et altri. Questa Scola in questo modo d’operare è molto osservante del vero, che sempre lo tien davanti mentre che opera, fa bene una figura sola, mà nella composition dell’Historia, et esplicar affetto, pendendo questo dall’Immaginatione e non dall’osservanza della cosa per ritrar il vero che tengon sempre avanti, non mi par che vagliano, essendo impossibil di mettere in una stanza una moltitudine d’huomini che rappresentin l’historia con quel lume d’una finestra sola, et haver un che rida o pianga o faccia atto di camminare e stia fermo per lasciarsi copiare, e così poi le lor figure, ancorché habbin forza, mancano di moto, d’affetti e di gratia. Requisiti per la bontà delle pitture: Et avanti che si vada più oltre, si deve considerar il costume delle figure che habbin quell’esser proprio in effigie, affetto et operatione, con la quale vogliamo esprimere una persona che facci quella tal operatione. E di qui si puol vedere quanto che alcuni di moderni faccin male, quali, per descrivere una Vergine e Nostra Donna, vanno retrahendo qualche meretrice sozza degli ortacci, come faceva Michelangelo da Caravaggio e fece nel Transito di Nostra Donna, in quel quadro della Madonna della Scala. Di Michelangelo Merisi da Caravaggio: Deve molto questa nostra età a Michelangelo da Caravaggio, per il colorir che ha introdotto, seguito assai comunemente. Questo nacque in Caravaggio d’assai onorati cittadini, poiché il padre fu mastro di casa et architetto del Marchese di Caravaggio; studiò da fanciullezza per 4 o 6 anni in Milano con diligenza, ancorché di quando in quando facesse qualche stravaganza causata da quel calor e spirito così grande. Doppo se ne passò a Roma d’età incirca 20 anni dove, essendo poco provisto di denari, stette con Pandolfo Pucci da Recanati, beneficato di S. Pietro, dove le conveniva andar per la parte et altri serviti non convenienti all’esser suo, e quel che è peggio, se la passava la sera con un insalata quale li serviva per antipasto, pasto e postpasto e, come dice il caporale, per companatico e per stecco. Donde dopo alcuni mesi partitosi con poca soddisfatione, chiamò poi questo benifatio suo padrone monsignor Insalata. 152 In questo tempo fece per esso alcune copie di devozione che sono in Recanati, e per vendere, un putto che piange per esser stato morso da un racano che tiene in mano, e dopo pur un putto che mondava una pera con il cortello, et il ritratto d’un hoste dove si ricoverava. Fra tanto fu assalito da una malattia che, trovandolo senza denari, fu necessitato andarsene allo Spedal della Consolatione, dove nella convalescenza fece molti quadri per il priore che se li portò in Siviglia sua patria. Doppo mi vien detto che stesse in casa del cavalier Giuseppe e di monsignor Fantin Petrignani che li dava comodità d’una stanza. Nel qual tempo fece molti quadri et in particolare una zingara che dà la buona ventura ad un giovinetto, la Madonna che va in Egitto, la Maddalena convertita, un S. Giovanni Evangelista. E doppo il Cristo Deposto nella Chiesa Nuova, li quadri di San Luigi, la Morte della Madonna nella Scala, che l’ha adesso il Serenissimo di Mantova, fatta levar di detta chiesa da quei padri perché in persona della Madonna havea ritratto una cortigiana, la Madonna di Loreto in S. Agostino, quella dell’altar de’ Palafrenieri in S. Pietro, molti quadri che possiede l’illustrissimo Borghese, al Popolo la Cappella del Cerasi, molti quadri privati in casa Mattei, Giustiniani e Sannesio. In ultimo, per alcuni eventi – che corse pericolo di vita che, per salvarsi, aiutato da Onorio Longo, ammazzo l’inimico – fu necessario fuggirsi di Roma, e di primo salto fu in Zagarola, ivi trattenuto sacratamente da quel principe, dove fece una Maddalena e Cristo che va in Emaus che lo comprò in Roma il Costa. Che con questi denari se ne passò in Napoli dove operò alcune cose. E di lì se ne passò a Malta dove condusse alcune opere con gusto del Gran Maestro, che in segno di honore, gli dette l’habito di sua religione. Donde partitosi con speranza di rimettersi, viene a Portercole dove, soprapreso da febbre maligna, in colmo di sua gloria, che era d’età di 35 in 40 anni, morse di stento e senza cura et in un luogo ivi vicino fu seppellito. Non si puol negare che per una figura sola, per le teste e colorito non sia arrivato ad un gran segno e che la profession di questo secolo non li sia molto obbligata. Ma questo suo gran sapere d’arte l’haveva accompagnato con una stravaganza di costumi [...] Onde non si può negare che non fusse stravagantissimo, e con queste sue stravaganze non si sia tolto una decina d’anni di vita et minutasi in parte la gloria acquistata con la professione: e col viver si sarebbe aumentato con grand’utile de’ studiosi di simil professione. 153 Vicente Carducho, Dialogos de la pintura, Madrid 1633, ed a cura di Francisco Calvo Seraller, Madrid 1979, pp. 201-202, 270-271. En nuestros tiempos se levantò en Roma Michael Angelo de Carabaggio, en el Pontificado del Papa Clemente VIII con nuevo plato, con tal modo, y salsa guisado, con tanto sabor, apetito y gusto, que pienso se ha llevado el de todos con tanta golosina y licencia, que temo en ellos alguna apoplexia en la verdadera doctrina: porque le siguen glotonicamente el mayor golpe de los Pintores, no reparando si el calor de su natural (que es su ingenio) es tan poderoso, ò tiene la actividad que el del otro, para poder digerir simple tan recio, ignoto, e incompatible modo, como es el obrar sin las preparaciones para tal accion? Quien pintò jamas y llegò a hazer tan bien como este monstruo de ingenio, y natural, casi hizo sin preceptos, sin doctrina, sin estudio, mas solo con la fuerza de su genio, y con el natural delante, a quien simplemente imitava con tanta admiracion? Oi dezir a un zeloso de nuestra profesion, que la venida deste ombre al mundo, seria presagio de ruina, y fin de la pintura, y que asi como al fin deste mundo visibile, el Anticristo con falsos y portentosos milagros, y prodigiosas acciones se llevarà tras de si a la perdicion tan grande numero de gentes, movidas de ver sus obras, al parecer tan admirables (dunque ellas en si enga_osas, falsas, y sin verdad, ni permanencia) diziendo ser el verdadero Cristo, asi este AnteMichelAngelo con su afectada y exterior imitacion,admirabile modo y viveza, ha podio persuadir a tan grande numero de todo genero de gente, que aquella es la buena pintura, y su modo y doctrina verdadera, que han buelto las espaldas al verdadero modo de eternizarse, y de saber con evidenzia y verdad desta materia. A los que hazen las tales pinturas de simple imitacion, los venero como a medicos impiricos, que sin saber la causa hazen obras milagrosas: y es certo que en el tribunal de los sentidos tendran aplauso grande, y sus obras causaran adombro, enga_ando tal vez el de la vista con la afectuosa imitacion, y de todos los que militan en este tribunal, no dublo se llevaran la voz y el Victor; si bien en el de la razon y entendimiento no osarar paracer […] Que se hagan pinturas con tanta semejanza y viveza que basten a enga_ar la vista, pensando ser verdadero lo que està pintado, concedo que puere ser,y que teles pinturas seràn dignas de penombre, tanto, que pienso que las que vemos oi de aquellos grandes hombres, tan estmados y celebrados entre los eruditos y doctos, carecen desta prompta viveza, y afectuosa propriedad exterior, para ser en todos perfectas; y como queda dicho, si ellos vieran la osadia y facilidad que oi vemos en las colores no dudo que con admiracion las celebraran. 154 Francisco Pacheco, Arte de la pintura, Sevilla 1649, ed. a cura di F. J. Sanchez Canton, Madrid 1956, p. 404. Porque muchos valientes pintores pasaron sin la hermosura y suavidad, pero no sin el relievo, como el Basan, Michael Angelo Caravacho y nuestro espa_ol Jusepe de Ribera; y aùn tambièn podemos poner en este numero a Dominico Greco, porque dunque escribimos en algunas partes contra algunas opiniones y paradoxas suyas, no lo podemos excluir del numero de los grandes pintores, viendo (en aquella su manera), que igualan a las de los mayores hombres (como se dice en otro lugar); y no sòlo se ve la verdad de lo que vamos dicendo en estos pocos que hemos puesto por exemplo, pero en otros muchos que los siguen: que no sòlo no pintan cosas hermosas, mas antes ponen su principal cuidado en efectar la fealdad y la fierezza. 155 Karel van Mander, Het Schilderboeck, Alkmaar 1604, ed. italiana a cura di Ricardo de Mambro Santos, Sant’Oreste 2000, p. 191. A Roma c’è un certo Michel Angelo da Caravaggio che fa cose meravigliose: anch’egli, come Giuseppe d’Arpino, innalzatosi dalla povertà con la diligenza, con la forza ed il coraggio, mettendo mano a tutto e tutto prendendo, come fanno coloro che non vogliono restare in basso per la loro timidezza, ma si mostrano franchi e cercano con decisione soprattutto il loro vantaggio, ciò che se accade in modo onesto non è da biasimare, poiché la fortuna non usa di frequente offrirsi spontaneamente, ma qualche volta occorre anche cercarla, provocarla e pregarla. Questo Michel Angelo con le sue opere ha già raggiunto gran fama e si è fatto un nome. Egli è uno di quelli che non fanno molto conto delle opere di alcun maestro, anzi non loda apertamente neanche sé stesso. Egli dice che non si tratta che di bagattelle, cose infantili e menzognere, non importa che cosa si dipinga o da chi sia dipinto, quando non si è fatto e raffigurato dal vero, e che non c’è nulla di buono o di meglio, che seguire la natura. Ne deriva che egli non esegue un solo tratto senza farlo direttamente dal modello vivo, copiandolo e dipingendolo. Certo questa non è una cattiva via per giungere a buon fine, perché dipingere servendosi di disegni non è così sicuro come tenere il vero davanti a sé e seguire la natura in tutta la varietà dei suoi colori; ma bisogna principalmente adottare il criterio di scegliere dal bello le cose più belle. Per giunta accanto al buon grano c’è l’erbaccia, ch’egli non si dedica allo studio con assiduità: quando ha lavorato quindici giorni, si dà al bel tempo per un mese. Spada al fianco e un paggio dietro di sé, si porta da un campo di gioca all’altro; sempre pronto a rissare e ad azzuffarsi; tanto che non è troppo comodo accompagnarsi con lui. Tutto ciò non rassomiglia molto alla nostra professione; poiché Marte e Minerva non sono mai stati troppo amici; ma, per quanto riguarda il fare delle sue opere, esso è tale da incontrare moltissimo e offre ai giovani pittori un modello ammirevole da seguire. 156 Joachim von Sandrart, Teutsche Academie, Nürnberg 1675, ed. latina Nürnberg 1683, pp. 181-182. Caravagii Italorum primis relicta veteri metodo simplicissimam sequebatur naturam atque vitam: unde nunquam penicillum nisi ad viva exemplaria applicabat, rem pingendam in conclavi suo tam diu oculis exponens, donec veritatem colore assecutus esset. Ut autem rotundam corporum molem et naturalem rerum elevationem eo melius exprimeret, data opera conclavibus utebatur obscuriribus est supernis uno lumine minore collustratis, ut ideae lumen est finestra allapsum eo minus alio lumine impediretur, umbre autem eo fortiores prodirent, adeoque debita exhinc resultaret extuberantia. Omnia igitur contemnebat, quea ad viva exemplaria picta non essent, nugas eadem, titivilitium, et opera cartacea appellando, cum nihil bonum dici posset, nisi quod naturam quam proxime imitaretur. Quae via sane ad perfectionem aspirandi non est contemnenda; modo in coeteris theoria haud desit, cum nulla idea, nullumque prototypum diagraphicum, qyantumvis optimum naturae ipsi aequiparari queat. Unde hanc methodum deinceps omnes sequebantur Itali, structis pariter conclavibus pictoris; quae via deinde et in Germania atque Belgio introduca est. Quamvis autem ob artem suam esimian gloria merito plurima dignus esset, conversatione tamen quasi intolerabilis erat, quod non tantum omnium aliorum opera facile carperet sed et ad litigia pronus esset, et gladio manuque promtus ad duella prorueret. 157 Giovanni Baglione, Le Vite de’ Pittori Scultori et Architetti, Roma 1642, ed. a cura di C. Gradara Pesci, Velletri 1924, pp. 136-139. Vita di Michelagnolo da Caravaggio, Pittore: Nacque in Caravaggio di Lombardia Michelagnolo, e fu figliuolo d’un maestro, che murava edifici, assai bene, di casa Amerigi. Diedesi ad imparare la dipintura, e non avendo in Caravaggio, chi a suo modo gl’insegnasse, andò egli a Milano, e alcun tempo dimorovvi. Dapoi se ne venne a Roma con animo di apprender con diligenza questo virtuoso esercitio. E da principio si accomodò con un pittore Siciliano, che di opere grossolane tenea bottega. Poi andò a stare in casa del Cavalier Gioseppe Cerasi d’Arpino per alcuni mesi. Indi provò a stare da se stesso, e fece alcuni quadretti da lui nello specchio ritratti. Et il primo fu un Bacco con alcuni grappoli d’uve diverse, con gran diligenza fatte; ma di maniera un poco secca. Fece anche un fanciullo, che da una lucerta, la quale usciva da fiori, e da frutti, era morso; e parea quella testa veramente stridere, e il tutto con diligenza era lavorato. Pur non trovava a farne esito, e darli via, e a mal termine si ridusse senza denari, e pessimamente vestito si, che alcuni galant’huomini della professione, per carità, l’andavano sollevando, infin che Maestro Valentino a S. Luigi de’ Francesi rivenditore di quadri gliene fece dar via alcuni; e con questa occasione fu conosciuto dal Cardinal Del Monte, il quale per dilettarsi assai della pittura, se lo prese in casa, e avendo parte, e provisione pigliò animo, e credito, e dipinse per il Cardinale una musica di alcuni giovani ritratti dal naturale, assai bene, e anche un giovane che sonava il lauto, che vivo e vero il tutto parea con una caraffa di fiori piena d’acqua, che dentro il reflesso d’una finestra eccellentemente si scorgea con altri ripercorrimenti di quella camera dentro l’acqua, e sopra quei fiori eravi una viva rugiada con ogni esquisita diligenza finta, E questo (disse) che fu il più bel pezzo che facesse mai. Effigiò una Zinghera, che dava la ventura ad un giovane col bel colorito. Fece un Amore divino, che sommetteva il profano. E parimente una testa di medusa con capelli di vipere, assai spaventosa sopra una rotella rapportata, che dal Cardinale fu mandata in dono a Ferdinando gran Duca di Toscana. Per opera del suo cardinale hebbe in S. Luigi de’ Francesi la cappella de’ Contarelli, ove sopra l’altare fece il S. Mattheo con un Angelo. A man dritta, quando l’Apostolo è chiamato dal Redentore, e a man manca, quando su l’altare è ferito dal carnefice con altre figure. La volta però della cappella è assai ben dipinta dal Cavalier Gioseppe Cerasi d’Arpino. Quest’opera, per havere alcune pitture dal naturale, e per essere in compagnia d’altre fatte dal Cavalier Gioseppe, che con la sua virtù havea presso i professori qualche invidia acquistata, fece gioco alla fama del Caravaggio, e era da’ maligni sommamente lodata. Pur venendovi a vederla Federico Zucchero, mentre io era presente, disse: che rumore è questo? E guardando il tutto diligentemente, soggiunse: io non ci vedo altro, che il pensiero di Giorgione nella tavola del Santo, quando Cristo il chiamò 158 all’Apostolato; e sogghignando, e meravigliandosi di tanto rumore, voltò le spalle, e andossene con Dio. Per il Marchese Vincenzo Giustiniani fece un Cupido a sedere dal naturale ritratto, ben colorito sì, che egli dell’opere del Caravaggio fuor de’ termini invaghissi; ed il quadro d’un certo S. Matteo, che prima avea fatto per quell’altare di S. Luigi , e non era a veruno piaciuto, egli per essere opera di Michelagnolo, se ‘l prese; e in questa opinione entrò il Marchese per li gran schiamazzi, che del Caravaggio havea dipinto un S. Giovanni Battista, e quando Nostro Signore andò in Emmaus, e all’hora che S. Thomasso toccò co’l dito il costato del Salvatore, e intaccò quel Signore di molte centinaia di scudi. Nella prima cappella della chiesa di Sant’Agostino alla man manca fece una Madonna di Loreto ritratta dal naturale con due pellegrini, uno co’ piedi fangosi, e l’altra con una cuffia sdrucita e sudicia, e per queste leggerezze in riguardo delle parti, che una gran pittura haver dee, da popolani ne fu fatto estremo schiamazzo. Nella Madonna del Popolo a man diritta dell’alter maggiore dentro la cappella dei Signori Cerasi sui lati del muro sono di sua mano la Crocifissione di S. Pietro, e di rincontro la conversione di S. Paolo. Questi quadri prima furono lavorati da lui in un’altra maniera, ma perché non piacquero al padrone, se li prese il Cardinal Sannesio; e se lo stesso Caravaggio vi fece questi, che ora si vedono, a olio dipinti, poiché egli non operava in altra maniera; e (per dir così) la Fortuna con la Fama il portava. Nella chiesa nuova alla man dritta v’è del suo nella seconda cappella il Cristo morto, che lo vogliono seppellire con alcune figure, a olio lavorato; e questa dicono, che sia la migliore opera di lui. Fece anch’egli in S. Pietro Vaticano una Sant’Anna con la Madonna, che ha il Putto fra le sue gambe, e che con il piede schiaccia la testa ad un serpe; opera da lui condotta per li palafrenieri di palazzo, ma fu levata d’ordine de’ Signori Cardinali della fabbrica, e poi da’ Palafrenieri donata al Cardinale Scipione Borghese. Per la Madonna della Scala in Trastevere dipinse il transito di Nostra Donna, ma perché havea fatto con poco decoro la Madonna gonfia, e con gambe scoperte, fu levata via, e la comprò il Duca di Mantova e la mise in Mantova nella sua mobilissima Galleria. Colorì una Giuditta che taglia la testa ad Oloferne per li Signori Costi, e diversi quadri per altri, che per non stare in luoghi pubblici, io trapasso, e qualche cosa de’ suoi costumi dispiego. Michelagnolo Amerigi fu huomo satirico e altiero, ed uscia tal’hora a dir male di tutti li pittori passati e presenti per insigni, che si sussero; poiché a lui parea d’haver solo con le sue opere avanzati tutti gli altri della sua professione. Anzi presso alcuni si stima haver esso rovinato la pittura; poiché molti giovani ad esempio di lui si danno ad imitare una testa dal naturale, e non studiando ne’ fondamenti del disegno e della profondità dell’arte, solamente del colorito appagansi, onde non sanno mettere due figure insieme, né tessere historia veruna, per non comprendere la bontà di sì nobile arte. Fu Michelagnolo, per soverchio ardimento di spiriti, un poco discolo, e tal’hora cercava occasione di ficcarsi il collo o di mettere a sbaraglio l’altrui vita. Praticavano spesso in sua compagnia huomini anch’essi per natura brigosi: e ultimamente affrontatosi con Ranuccio Tomassoni giovane di molto garbo, per certa differenza di gioco di palla corda, sfidaronsi, e venuti all’armi, caduto a terra 159 Ranuccio, Michelagnolo lo tirò d’una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede a morte. Fuggirono tutti da Roma e Michelagnolo andossene a Pellestrina, ove dipinse una S. Maria Maddalena, e d’indi giunse a Napoli, e quindi operò molte cose. Poscia andossene a Malta, e introdotto a far riverenza al gran Maestro, fecegli il ritratto; onde quel principe in segno di merito, dell’habito di S. Giovanni il regalò e creollo Cavaliere di gratia. E quindi avendo non so che disparere con un Cavaliere di Giustizia, Michelagnolo gli fece non so che affronto e però ne fu posto in prigione, ma di notte tempo, scalò le carceri e se ne fuggì, e arrivato all’Isola di Sicilia operò alcune cose in Palermo; ma per esser perseguitato dal suo nemico, convennegli tornare nella città di Napoli; e quivi ultimamente, essendo da colui giunto, fu nel viso così fattamente ferito, che per li colpi quasi più non si riconosceva e disperatosi della vendetta, con tutto che egli vi si provasse, misesi in una feluca con alcune poche robe, per venirsene a Roma, tornando sotto la parola del Cardinal Gonzaga che col Pontefice Paolo V la sua remissione trattava. Arrivato ch’egli fu nella spiaggia, fu in cambio fatto prigione, e posto dentro la carceri, ove per due ragioni ritenuto e poi rilasciato, più la feluca non ritrovava si, che postosi in furia, come disperato andava per quella spiaggia sotto la sferza del Sol Leone a veder se poteva in mare ravvisare il vascello, che le sue robbe portava. Ultimamente arrivato in un luogo della spiaggia misesi in letto con febbre maligna, e senza aiuto humano tra pochi giorni morì malamente come appunto male havea vivuto. Se Michelagnolo Amerigi non fusse morto sì presto, haveria fatto gran profitto nell’arte per la buona maniera che presa havea nel colorire del naturale, benché egli nel rappresentar le cose non avesse molto giudicio di scegliere il buono e lasciare il cattivo. Nondimeno acquistò gran credito, e più si pagano le sue tele che l’altrui historie, tanto importa l’aura popolare, che non giudica con gli occhi, ma guarda con le orecchie. E nell’Accademia il suo ritratto è posto. 160 Luigi Scaramuccia, Le finezze de’ pennelli italiani, Pavia 1674, ed a cura di G. Giubbini, Milano 1965, pp. 11, 75-76. Venendo poi à più moderni, fecegli il Maestro Genio osservare l’Opere del Caravaggio, fiero nel colorito, e dato all’imitazione del naturale a tutta briglia. Michel’Angelo da Caravaggio con occasione del suo passaggio a Malta, trattenendosi alcun tempo in Napoli, lasciò del suo pennello una Tavola d’Altare situata nella chiesa di S. Anna de Lombardi, ov’è la resurrezione di Cristo, come altresì un’altra nel Tempio della Misericordia sopra l’Altar Maggiore, nella cui per appunto si espresse le Sette Opere di Misericordia con modo pittoresco ed’in tutto bizzarro; e doppo ciò haver veduto si tragittarono di bel nuovo nella suddetta chiesa di Sant’Anna a rimirar più curiosamente l’altra, e quando osservarono il Cristo, non come d’oprdinario far si suole, agile e trionfante per l’aria; ma con quella sua fierissima maniera di colorire, con un piede dentro e l’altro fuori dal sepolcro posando in terra, restarono per simile stravaganza con qualche apprensione, tanto che richiese Girupeno al Genio suo Maestro se potea immaginarsi per ciò che havesse fatto il Caravaggio. A che rispose il Genio. Quantunque questo pittore habbi dato in tal bizzarria, e che per essa ne sia stato gradito, piacendo ad ognuno la novità dell’invenzioni, non resta però ch’ei non ne possa venire alquanto biasimato, essendo uscito assai da quel decoro, che si conviene alla Persona di Cristo Signor Nostro. Per finirla è stato quest’huomo un gran soggetto, ma non ideale, che vuol dire non saper fare cosa alcuna senza il naturale avanti. 161 Francesco Scannelli, Il Microcosmo della Pittura, Cesena 1657, ed. a cura di G. Giubbini, Milano, 1966, pp. 51-52, 197-199. E per essere il vero, e ultimo scopo del buon Pittore l’imitatione de’ corpi naturali, e non altro in fatti il laudabil dipinto, che un’espressione del già ben concepito in ordine alla piena somiglianza de’ migliori oggetti di natura, conseguentemente ne deriva, che quello, il quale mostra animare i colori con artificio più eccellente, venendo a sortire l’effetto del bramato intento, pare, che debba parimente raccogliere il frutto della maggior gloria, dove comparendo Michelangelo da Caravaggio nel teatro del Mondo, unico mostro di naturalezza, portato dal proprio istinto di natura all’imitatione del vero, e così ascendendo dalla copia de’ fiori, e frutti, e da’ corpi meno perfetti e più sublimi, e dopo gl’irrationali a gli umani ritratti, e finalmente operando intiere figure, e anco talvolta componimenti d’historie con tal verità, forza e rilievo, che bene spesso la natura, se non di fatto eguagliata, e vinta, apportando però confusione al riguardante con istupendo inganno, allettava, e rapiva l’humana vista, e però fù creduto da vari anco sopra d’ogni altro eccellentissimo. Caravaggio, provvisto di particolar genio, mediante il quale dava con l’opere a vedere una straordinaria e veramente singolare imitazione del vero, e nel comunicar forza e rilievo al dipinto non inferiore, e forse ad ogni altro supremo, privo però della necessaria base del buon disegno, si palesò poscia d’invenzione mancante, e come del tutto ignudo di bella idea, gratia e decoro, architettura, prospettiva ed altri simili convenevoli fondamentali. E se Federico Barocci palesò con gli effetti dell’opere eccedere la virtù di Michelangelo da Caravaggio ed altri simili rari imitatori della più apparente naturalezza nel disegno, decoro, e bella gratia, dimostrarono però gli altri nei loro dipinti, rilievo e maggior verità, e dello stesso Michelangelo, primo capo de’ naturalisti, stanno in pubblica vista della città di Roma la maggior parte ed anco le migliori del suo qualificato pennello, e la prima e facilmente più eccellente d’ogni altra si vede nella chiesa di di S. Luigi della Nazione Francese l’ultima cappella nell’entrare a mano sinistra con la tavola che dimostra S. Matteo con un angelo dalla parte di sopra, e alla parte destra l’historia pure del santo quando fu chiamato da Cristo all’apostolato, veramente una delle più pastose, rilevate e naturali operazioni, che venga a dimostrare l’artificio della pittura per imitatione di mera verità, essendosi in tal luogo quasi del tutto mancante il lume, in modo che opera tale per disgrazia dei virtuosi e dello stesso autore non si può vedere che imperfettamente. S. Giovanni Battista ignudo non potria dimostrare più vera carne quando fosse vivo, si come l’Amoretto che si trova appresso al Principe Giustiniani, che fra i dipinti privati di Michelangelo da Caravaggio sarà forse il più degno. 162 Cesare Malvasia, Felsina Pittrice: Vite Dei Pittori Bolognesi, Bologna 1678, ed. a cura di M. Brascaglia, Bologna 1967, pp. 13, 75, 138, 169-170, 217. Vita di Guido Reni: L’Arpini, dichiarato nemico del Caravaggio si era proposto di procacciargli [al Reni] que’ lavori che al Caravaggio dovevano esser destinati; come poi avvenne del S. Pietro Crocifisso alle Tre Fontane fuor di Roma, promettendo egli al Card. Borghese che sarebbesi Guido trasformato nel Caravaggio e l’avrebbe fatto di quella maniera cacciata e scura, come bravamente eseguito si vede. [Questo] tanto spiacque al Caravaggio che da uomo brigoso ch’egli era, incontrato un giorno Guido gli disse che non lo stimava punto; e che se fosse venuto a Roma con pensiero di competere seco, egli era pronto a dargli ogni soddisfazione in qual si fosse modo. [Il Reni] usò anche questa finezza che concorrendo il Caravaggio anch’egli al lavoro della cupola della Santa Casa di Loreto, gli disse chi saria stato a fargli compagnia od a servirlo nel modo che a lui fosse piaciuto di trattarlo […] Quell’altiero diede nelle escandescenze […] Stava perciò Guido con grande apprensione di costui che ben sapea quanto mai fosse bestiale e risoluto come in questo affare ben poi mostrò; poiché toccata la Cupola al Pomarancio gli diede o fece dare un brutto fregio sulla faccia. Vita di Lionello Spada: Perché diedesi ad alzare il modo di tingere, gli si insinuò tanto la maniera del Caravaggio, che non contento di prendere l’imitazione da un S. Tommaso toccante il Santissimo Costato, desiderò di praticarlo di persona quanto n’era divenuto parzial divoto. Vita di Alessandro Tiarini: Gli piacquero anco le cose del Caravaggio per una certa purità, verità e forza del colorito; meravigliandosi come tanto si sentisse da esse svegliare e rapire, quando nulla poi di decoro, di maestà e d’erudizione vi trovava. Vita di Francesco Albani: Non potè mai tollerare [l’Albani], che si seguitasse il Caravaggio, scorgendo essere quel modo il precipitio, e la totale ruina della nobilissima, e compitissima virtù della Pittura, poiché se bene era da laudare in parte le semplice imitatione, era nondimeno per partorire tutto quello, che ne è seguito in progresso di 40 anni. Si vedono bensì imitazioni a somiglianza del vero, ma non già del verisimile, ne si consegue il rappresentare il costume, ne meno le vivezze dei moti, e perché è necessario fondare prima un concetto si và hora totalmente corrompendo, che non si rappresentano concetti, ma ne anco concetto alcuno. Hora, posto in abbandono quello che divinamente insegnò Raffaelle, si sono posti a seguitare la strada del Caravaggio, che tutta è intenta ad oggetti di ferma, non di moti vivaci, che vengano dall’intelletto, e che si eseguiscono col possesso del disegno. Non possono essere i Pittori egualmente eccellenti in tutte le parti. 163 Se il Caravaggio avesse avuto questi requisiti saria stato Pittore dirò Divino, questo, non aveva cognizione nelle cose sopranaturali, mà stava troppo attaccato al naturale. Io conobbi un gran pittore più di nome che di fatti, il quale peccava molto nella disposizione, e di cento partiti che li venivano nella sua debole immaginativa, non afferrava mai, se non cosa debole, e sapea quella disposizione debole cominciava col pennello l’opera, e andava conservando il cattivo proponimento di prima, e nondimeno tutti i scolari applaudivano, così come moltissimi che non erano della professione concorrevano col stupore del maneggio, o colorito, a me veniva la nuova che l’opera era finita, e si disegnava, come perfettissima porla al destinato loco. Io addimando come può essere finita un’opera che non ha buon principio? Questo pittore aveva applausi indicibili tra il volgo, ma fra gl’ intendenti poco per ragione difettosa di mala disposizione, e nulla d’espressione. Vita di Lorenzo Garbieri: Dilettandosi egli troppo del tingere del Caravaggio, ritenendone per avventura sempre nella sua più riposta, e dimestica stanza una copia, da lui stesso ricavata, del S. Tommaso toccante nel Santissimo Costato la stessa fede, originale di quell’autore. 164 Giovanni Battista Passeri, Vite de’ Pittori Scultori ed Architetti, Roma 1772, pp. 62, 65, 373. Vita di Guido Reni: Michel’Angelo da Caravaggio fece qualche giovamento al gusto di quella nuova Scuola promossa da fratelli Carracci, e da’ loro scolari; perché, essendo uscito fuora con tanto empito, e con quella sua maniera gagliarda, fece prender fiato al gusto buono, et al naturale, il quale allora era bandito dal mondo, che solo andava perduto dietro a un dipingere ideale, e fantastico, ma lontano dalla natura e dal vero, di cui imitatrice fedele ha da essere la pittura. Bene è vero che esso non abbellì il nuovo suo gusto con quelle vaghezze, colle quali la scuola Carraccesca lo ha portato all’estremo, cioè rendendolo pieno di piacevolezza, e di delizie, ricco nelli componimentii, adorno d’accompagnature, e discreto in tutto il portamento; tutta via aperse una strada per la quale fece ritornare in vita la Verità, che si era ad un certo modo da lunghi anni smarrita. Il medesimo Car.le Borghesi, avendo ristaurata la Chiesa delle Tre fontane fuori della Porta Ostiense o pure Trigemina, che sta un miglio oltra la Chiesa di San Paolo, pensò di far dipingere li Quadri degl’Altari che sono laterali a quelle tre fonti miracolose; in uno la decollazione del Santo Apostolo Paolo, il di cui capo reciso fece, con tre sbalzi, scaturir, ad ogni balzo una fonte, come anche oggi si vedono, e nell’altro la Crocefissione di San Pietro e pensò in Michel’Angelo da Caravaggio, che all’ora sorgeva con qualche applauso. Il Cav.re Gioseppino, che l’odiava per la ragion dell’opera della Cappella di San Luigi de Francesi di San Matteo Apostolo ove dipinsero in concorrenza egli, el Caravaggio, dalla quale nacquero tante fazioni contrarie, procuro, che gl’uscisse di mano, accio, che restasse privo di occasioni di farsi conoscere maggiormente; e gli sortì il suo intento, e procurò, che Guido avesse quello della Crocefissione, e l’altro fù dato ad un altro pittore di poca levatura. Hauto, che Guido hebbe il Quadro fù pregato dal Cavalier Gioseppe, che s’insegnasse di dipingerlo nello stile del Caravaggio quanto alla forza di chiaro e scuro, e che procurasse con la nobiltà della sua idea di superar quello nella maestà, e nel decoro. Esposto che ebbe il quadro [Guido] riceveva di continuo delle congratulazioni dagli amici e da altri di quell’opera, e venendogli detto da uno che il suo quadro era così bello che pareva di mano del Caravaggio, egli rispose con modestia, piacesse a Dio, ne si sdegnò di questa lode, stimando nel suo concetto Michel Angelo per huomo di valore, e non che venisse lodato solo da maligni, et atto a dipingere solo i piedi fangosi, e cuffie sdrucite, e sudice come è stato oltraggiato da alcuno. Vita di Giovan Francesco Barbieri: In quel tempo era sparso il grido di Michel’Angelo da Caravaggio, e piacendo assai a lui [il Guercino] quel modo di dipingere, essendo molto geniale al suo stile, si andava contenendo in quella maniera gagliarda, e vigorosa, la quale era sua propria, ed il Caravaggio nel vedere l’opere di Giovan Francesco, si rallegrava parendogli di havere nel numero dei suoi imitatori un’uomo di qualche valore, e stima, et erano divenuti cordialissimi amici. In quel tempo 165 medesimo si negoziava l’opera della Cuppola della Chiesa nella quale è la Santa Casa di Maria Vergine di Loreto, e doppo varietà di pareri nel darla ad un pittore di qualche fama per essere quella opera di considerazione, e riguardevole si concluse il partito di molti di quelli Deputati nelli quali era riposta la risoluzione di quel lavoro, nella persona di Michel’Angelo per esser quegli di stima, e di grido universale in una nuova maniera; ma perché il concetto della sua persona, quanto al costume, era sinistro per la sua bestialità, stavano alcuni altri perplessi nella risoluzione, timidi di mandare in quel Santo Luoco un’huomo scandaloso, e di cattive qualità. Pensando di dargli un compagno moderato e ben composto come per freno delle sue furie, elessero Giovan Francesco…Andatosene il Barbieri a comunicarlo al Caravaggio…gli si rivoltò quella fiera indomita con ira grandissima…Restò il povero Giovan Francesco con mala soddisfazione per la perdita dell’amicizia del Caravaggio, perdita accresciuta dal timore dell’indignazione di quel cervello torbido, capace di prendere contro di lui qualche strana risoluzione. 166 Filippo Baldinucci, Notizie dei Professori del Disegno, Firenze 1681-1728, ed. a cura di F. Ranalli, ristampa a cura di P. Barocchi, Firenze 1975, III, pp. 16; 680-690. Notizie di Guido Reni: Michelangnolo da Caravaggio fu un uomo fantastico e bestiale, che fattasi una maniera del tutto nuova, con chiari aperti e profondissimi scuri tolti dal naturale, accomodato al lume alto e gagliardo, tanto s’introdusse nel concetto dei grandi che in breve si acquistò nome di singolarissimo pittori, e crebbe tanto la fama di lui, che non andò molto, che si aveva per povera quella galleria e quel museo, che non avesse alcun quadro di Caravaggio. Notizie di Michelagnolo Morigi di Caravaggio: Caravaggio rinomato castello di Lombardia, al quale debbono le nostre arti il gradimento d’aver dato loro il tanto celebre Polidoro, un altro singolarissimo artefice in questi tempi produsse, e fu questi Michelagnolo Morigi, il quale, tuttoché nato in grembo alla povertà, altro esercizio non riconoscesse per suo negli anni più freschi, che quello del portare il vassoio della calcina in servizio delle fabbriche, seppe si bene seguitare i dettami del naturale suo genio a’ nobilissimi studi del disegno e della pittura, che fece poi quella nobile riuscita, che a Roma e nell’Europa tutta fu manifesta. Questi adunque nel lavorare, che e’ faceva in quell’età in aiuto del padre, che attendeva all’arte del murare nella città di Milano, s’abbattè a far certe colle per alcuni pittori, che quivi dipingevano a fresco e a tempera; e con tale occasione innamoratosi di loro mestiero, e per tale cagione partitosi dal padre, con essi loro si accompagnò, e in cinque anni fece tal profitto, che già dipingeva ritratti dal naturali, che gli venivano molto lodati. Ma con ciò fusse cosa chè egli avesse un cervello stravagante, poco inclinato al rispetto, e fusse di risse e contese amico assai, non andò molto, che avendo avuta una briga con non so chi, gli fu d’uopo il partirsi da Milano. Portossi a Venezia, dove ogni altra maniera tralasciando, a quella solamente di Giorgione si attenne; poi si portò nella città di Roma e dal Cavalier d’Arpino, che già aveva scorto Michelagnolo per buonissimo naturalista, fu egli subito applicato a dipigner fiori e frutti; ma mal sopportava Michelagnolo il vedere morir suo genio fra l’angustie di sì fatto lavoro, lasciò l’Arpino, risoluto di darsi in tutto e per tutto allo studio dell’umane forme in sul vero, perché non volle mai tirare una linea, non che studiare, sopra l’opere di Michelagnolo, di Raffaello, o degli antichi […] E perché chiara cosa è, che talora il più nuovo piace più che il più bello, in un subito da’ pittori, e particolarmente dai giovani, fu alzato un grido grande per Roma, contribuendo a ciò molto il ritrovare ch’e’ facevano in esso modo una certa libertà d’operare, e dar gusto col solo applicar tutti loro stessi all’imitazione del naturale, e particolarmente nell’inventare; per cui seguendo quella maniera, sciolti dalle tante e varie leggi dell’arte, imitavano tal maestro, osservando gli atti degli uomini, e il loro naturale vestimento e portatura, cosa pure ch’a’ più vecchi, ed a quegli che ben pratichi erano ne’ buoni precetti, molto dispiacque, e da questi era tacciato Michelagnolo di povero di disegno e d’invenzione, di gravità e di decoro, d’aver poco gusto in prospettiva; ma ciò 167 seguì sempre senza frutto, perché la fama del Caravaggio sempre accrescevasi in Roma […] Fu il Caravaggio, siccome d’animo scomposto, poco grato nel conversare, e pronto al risentimento, così d’aspetto rozzo, e brutto anzi che no, e fu si facile all’alzar delle mani, che sarebbe egli per ordinario stato fuggito da ogni persona, se non quanto da quelle di buon fratto piacevoli e civili, era talora praticato per lo fine solamente di non averlo per nemico […] Fu anche costui tanto pieno di concetto di suo sapere, che non vedeva fra i professori, chi accostar si potesse a fare con lui paragone, e quantunque verissima cosa fusse, che egli avesse recato grad’utile all’arte col suo nuovo modo di dipingere, in forza di di tutta imitazione del naturale, e lontano da ogni affettazione di pennello, e coll’usar ch’ei fece con gran giudizio e verità degli scuri, tanto che il Guercino da Cento, e lo stesso Guido Reni avvezzi ai solissimi precetti della carraccesca scuola, vollero accostarsi alquanto al suo fare, come mostrarono alcune loro opere, come particolarmente si scorge nella bella tavola di Guido della crocifissione di S. Pietro alle Tre Fontane, non fu però che egli non apportasse all’arte medesima alcun danno, mercè l’essere stato egli, a cagione, come si disse, di poca intelligenza dei piani, e della prospettiva, quasi inventor dell’uso tanto dopo di lui praticato da’ pittori di fare mezze figure, le quali, non son l’ultimo termine del valore d’un uomo grande, ma sì bene il rappresentare nobili e copiose istorie, con cui empiersi l’animo e l’occhio del savio spettatore di bell’idee e di vaghissime apparenze, e fece per lo più a far vedere nelle sue tele atti di persone plebee, imitandone ogni gesto più vile, e quel che è più, dando anche alle sacre pitture sì poco decoro coll’empierle ch’e’ fece d’ogni bassezza […] Perdonisi al Caravaggio questo suo modo d’usare il pennello; mentre egli volle avversare in se medesimo quel proverbio che dice che ogni pittore dipigne se stesso, mercè che s’osserva il modo, che egli usò nel conversare, si trova tale, quale sopra accennammo; se ci voltiamo al portamento di sua persona lo veggiamo stravagante quanto altro mai. 168 Giovanni Pietro Bellori, Le Vite de’ pittori scultori e architetti moderni, Roma, 1672, ed. a cura di E. Borea, Torino 1976, pp. 211-233. Vita di Michelangelo Merigi da Caravaggio pittore Dicesi che Demetrio antico statuario fu tanto studioso della rassomiglianza che dilettossi più dell’imitazione che della bellezza delle cose; lo stesso abbiamo veduto in Michelangelo Merigi, il quale non riconobbe altro maestro che il modello, e senza elezione delle migliori forme naturali, quello che a dire è stupendo, pare che senz’arte emulasse l’arte. Dupplicò egli con la sua nascita la fama di Caravaggio, nobile castello di Lombardia, patria insieme di Polidoro celebre pittore; l’uno e l’altro di loro si esercitò da giovane ne4ll’arte di murare e portò lo schifo della calce nelle fabbriche; poiché impiegandosi Michele in Milano col padre, che era muratore, s’incontrò a far colle ad alcuni pittori che dipingevano a fresco, e tirato dalla voglia di usare i colori accompagnassi con loro, applicandosi tutto alla pittura. Si avanzò per quattro o cinque anni facendo ritratti, e dopo, essendo egli d’ingegno torbido e contenzioso, per alcune discordie fuggitosene da Milano giunse a Venezia, ove si compiacque tanto del colorito di Giorgione che se lo propose per iscorta nell’imitazione. Per questo veggonsi l’opere sue prime dolci, schiette e senza quell’ombre ch’egli uso poi; e come di tutti li pittori veneziani eccellenti nel colorito fu Giorgione il più puro e ‘l più semplice nel rappresentare con poche tinte le forme naturali, nel modo stesso portossi Michele, quando prima si fissò intento a riguardare la natura. Condottosi a Roma vi dimorò senza recapito e senza provvedimento, riuscendogli troppo dispendioso il modello, senza il quale non sapeva dipingere, né guadagnando tanto che potesse avanzarsi le spese. Sichè Michele dalla necessità costretto andò a servire il Cavalier Giuseppe d’Arpino, da cui fu applicato a dipinger fiori e frutti sì bene contraffatti che da lui vennero a frequentarsi a quella maggior vaghezza che tanto oggi diletta. Dipinse una caraffa di fiori con le trasparenze dell’acqua e del vetro e coi riflessi della finestra d’una camera, sparsi li fiori di freschissime rugiade, ed altri quadri eccellentemente fece di simile imitazione. Ma esercitandosi egli di mala voglia in queste cose, e sentendo gran rammarico di vedersi tolto alle figure, incontrò l’occasione di Prospero, pittore di grottesche, ed uscì di casa di Giuseppe per contrastargli la gloria del pennello. Datosi perciò egli a colorire secondo il suo proprio genio, non riguardando punto, anzi spregiando gli eccellentissimi marmi de gli antichi e le pitture tanto celebri di Rafaelle, si propose la sola natura per oggetto del suo pennello. Laonde, essendogli mostrate le statue più famose di Fidia e Glicone, acciochè vi accomodasse lo studio, non diede altra risposta se non che distese la mano verso una moltitudine di uomini, accennando che la natura l’aveva a sufficienza proveduto di maestri. E per dare autorità alle sue parole, chiamò una zingana che passava a caso per istrada, e condottala all’albergo la ritrasse in atto di predire l’avventure, come sogliono queste donne di razza egiziana: facevi un giovine, il quale posa la mano col guanto su la spada e porge l’altra scoperta a costei, che la tiene e la 169 riguarda; ed in queste due mezze figure tradusse Michele sì puramente il vero che venne a confermare i suoi detti. Quasi un simil fatto si legge di Eupompo antico pittore; se bene ora non è tempo di considerare insino a quanto sia lodevole tale insegnamento. E perché egli aspirava all’unica lode del colore, sichè paresse vera l’incarnazione, la pelle e il sangue e la superficie naturale, a questo solo volgeva intento l’occhio e l’industria, lasciando da parte gli altri pensieri dell’arte. Onde nel trovare e disporre le figure, quando incontratasi a vederne per la città alcuna che gli fosse piaciuta, egli si fermava a quella invenzione di natura, senza altrimenti esercitare l’ingegno. Dipinse una fanciulla a sedere sopra una seggiola con le mani in seno in atto di asciugarsi i capelli, la ritrasse in una camera, ed aggiungendovi in terra un vasello d’unguenti, con monili e gemme, la finse per Maddalena. Posa alquanto da un lato la faccia e s’imprime la guancia, il collo e ‘l petto in una tinta pura, facile e vera, accompagnata dalla semplicità di tutta la figura, con le braccia in camicia e la veste gialla ritirata alle ginocchia dalla sottana bianca di damasco fiorato. Quella figura abbiamo descritta particolarmente per indicare li suoi modi naturali e l’imitazione in poche tinte sino alla verità del colore. Dipinse in un maggior quadro la Madonna che riposa dalla fuga in Egitto: evvi un angelo in piedi che suona il violino, San Giuseppe sedente gli tiene avanti il libro delle note, e l’angelo è bellissimo, poiché volgendo la testa dolcemente in profilo va discoprendo le spalle alate e ‘l resto dell’ignudo interrotto da un pannolino. Dall’altro lato siede la Madonna, e piegando il capo sembra dormire col bambino in seno. Veggonsi questi quadri nel palazzo del principe Pamphilio, ed un altro degno dell’istessa lode nelle camere del Cardinale Antonio Baraberini, disposto in tre mezze figure ad un giuoco di carte. Finsevi un giovinetto con le carte in mano, ed una testa ben ritratta dal vivo in abito oscuro, e di rincontro a lui si volge in profilo un giovane fraudolente, appoggiato con una mano su la tavola da gioco, e con l’altra dietro si cava una carta falsa dalla cinta, mentre il terzo vicino al giovinetto guarda li punti delle carte, e con tre dita della mano li palesa al compagno, il quale nel piegarsi sul tavolino espone la spalla al lume in giubbone giallo listato di fasce nere, né finto è il colore nell’imitazione. Sono questi li primi tratti del pennello di Michele in quella schietta maniera di Giorgione, con oscuri temperati; e Prospero acclamando il nuovo stile di Michele accresceva la stima delle sue opere con util proprio fra le prime persone della corte. Il gioco fu comprato dal cardinal del Monte, che per dilettarsi molto della pittura ridusse in buono stato Michele e lo sollevò, dandogli luogo onorato in casa fra’ suoi gentiluomini. Dipinse per questo signore una musica di giovini ritratti dal naturale in mezze figure, una donna in camicia che suona il liuto con le note avanti, e Santa Caterina ginocchione appoggiata alla rota; li due ultimi sono ancora nelle medesime camere, ma riescono d’un colorito più tinto, cominciando già Michele ad ingagliardire gli scuri. 170 Dipinse San Giovanni nel deserto, che è un giovinetto ignudo a sedere, il quale sporgendo la testa avanti abbraccia un agnello; e questo si vede nel palazzo del signor cardinal Pio. Ma il Caravaggio, che così egli già veniva da tutti col nome della patria chiamato, facevasi ogni giorno più noto per lo colorito ch’egli andava introducendo, non come prima dolce e con poche tinte, ma tutto risentito di oscuri gagliardi, servendosi assai del nero per dar rilievo alli corpi. E s’inoltrò egli tanto in questo suo modo di operare, che non faceva mai uscire all’aperto del sole alcuna delle sue figure, ma trovò una maniera di campirle entro l’aria bruna d’una camera rinchiusa, pigliando un lume alto che scendeva a piombo sopra la parte principale del corpo, e lasciando il rimanente in ombra a fine di recar forza con veemenza di chiaro e di oscuro. Tanto che li pittori allora erano in Roma presi dalla novità, e particolarmente li giovini concorrevano a lui e celebravano lui solo come unico imitatore della natura, e come miracoli mirando l’opere sue lo seguitavano a gara, spogliando modelli ed alzando lumi; e senza più attendere a studio ed insegnamenti, ciascuno trovava facilmente in piazza e per via il maestro e gli esempi nel copiare il naturale. La qual facilità tirando gli altri, solo i vecchi pittori assuefatti alla pratica rimanevano sbigottiti per questo novello studio di natura; né cessavano di sgridare il Caravaggio e la sua maniera, divulgando ch’egli non sapeva uscir fuori dalle cantine, e che, povero d’invenzione e di disegno, senza decoro e senz’arte, coloriva tutte le sue figure ad un lume e sopra un piano senza degradarle: le quali accuse però non rallentavano il volo alla sua fama. Aveva il Caravaggio fatto il ritratto del Cavalier Marino, con premio di gloria tra gli uomini di lettere, venendo nell’Accademie cantato il nome del poeta e del pittore; s’ come dal Marino stesso fu celebrata particolarmente la testa di Medusa di sua mano, che il cardinale del Monte donò al granduca di Toscana. Tantochè il Marino, per una grandissima benevolenza e compiacimento dell’operare di Caravaggio, l’introdusse seco in casa di monsignor Melchiorre Crescenzi chierico di camera: colorì Michele il ritratto di questo dottissimo prelato e l’altro del signor Virgilio Crescenzi, il quale, restato erede del cardinale Contarelli, lo elesse a concorrenza di Giuseppino alle pitture della cappella in San Luigi de’ Francesi. Così il Marino, che era amico di questi pittori, consigliò che a Giuseppe, praticissimo del fresco, si distribuissero le figure di sopra del muro ed a Michele li quadri ad olio. Qui avvenne cosa che pose in grandissimo disturbo e quasi fece disperare il Caravaggio in riguardo alla sua riputazione; poiché avendo egli terminato il quadro di mezzo di San Matteo e postolo su l’altare, fu tolto via da i preti con dire che quella figura non aveva decoro né aspetto di Santo, stando a sedere con le gambe in cavalcate e co’ piedi rozzamente esposti al popolo. Si disperava il Caravaggio per tale affronto nella prima opera da esso pubblicata in chiesa, quando il marchese Vincenzo Giustiniani si mosse a favorirlo e liberollo da questa pena; poiché, interpostosi con quei sacerdoti, si prese per sé il quadro e gliene fece fare un altro diverso, che è quello che si vede ora sull’altare; e per onorare maggiormente il primo, portatolo a casa, 171 l’accompagnò poi con gli altri tre Vangelisti di mano di Guido, di Domenichino e dell’Albano, tre li più celebri pittori che in quel tempo avessero fama. Usò il Caravaggio ogni sforzo per riuscire in questo secondo quadro: e nell’accomodare al naturale la figura del Santo che scrive il Vangelo, egli la dispose con un ginocchio piegato sopra lo sgabello e con le mani al tavolino, intingendo la penna nel calamaio sopra il libro. In questo atto volge la faccia dal lato sinistro verso l’angelo, il quale sospeso su l’ali verso il Santo, ignude le braccia e ‘l petto, con lo svolazzo d’un velo bianco che lo cinge nell’oscurità del campo. Dal lato destro l’altare vi è Cristo che chiama San Matteo all’apostolato, ritrattevi alcune teste al naturale, tra le quali il Santo lasciando di contare le monete, con una mano al petto, si volge al Signore; ed appresso un vecchio si pone gli occhiali al naso, riguardando un giovane che tira a sé quelle monete assiso nell’angolo della tavola. Dall’altro lato vi è il martirio del Santo istesso in abito sacerdotale disteso sopra una banca; e ‘l manigoldo incontro brandisce la spada per ferirlo, figura ignuda, ed altre si ritirano con orrore. Il componimento e li moti però non sono sufficienti all’istoria, ancorché egli la rifacesse due volte; e l’oscurità della cappella e del colore tolgono questi due quadri alla vista. Seguitò a dipingere nella Chiesa di Santo Agostino l’altro quadro della cappella de’ signori Cavalletti, la Madonna in piedi col fanciullo tra le braccia in atto di benedire: s’inginocchiano avanti due pellegrini con le mani giunte, e ‘l primo di loro è un povero scalzo li piedi e le gambe, con la mozzetta di cuoio e ‘l bordone appoggiato alla spalla, ed è accompagnato da una vecchia con la cuffia in capo. Ben tra le migliori opere che uscissero dal pennello di Michele si tiene meritatamente in istima la Deposizione di Cristo nella Chiesa Nuova de’ Padri dell’Oratorio; situate le figure sopra una pietra nell’apertura del sepolcro. Vedesi in mezzo il sacro corpo, lo regge Nicodemo da piedi, abbracciandolo sotto le ginocchia, e nell’abbassarsi le cosce escono in fuori le gambe. Di là San Giovanni sottopone un braccio alla spalla del Redentore, e resta supina la faccia e ‘l petto pallido a morte, pendendo il braccio col lenzuolo; e tutto l’ignudo è ritratto con forza della più esatta imitazione. Dietro Nicodemo si veggono alquanto le Marie dolenti, l’una con le braccia sollevate, l’altra col velo a gli occhi, e la terza riguarda il Signore. Nella Chiesa della Madonna del Popolo, entro la cappella dell’Assunta dipinta da Annibale Carracci, sono di mano del Caravaggio li due quadri laterali, la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo, la quale istoria è affatto senza azione. Seguitava egli nel favore del marchese Vincenzo Giustiniani, che l’impiegò in alcuni quadri, l’Incoronazione di spine e San Tomaso che pone il dito nella piaga del costato del Signore, il quale gli accosta la mano e si svela il petto da un lenzuolo, discostandolo dalla poppa. Appresso le quali mezze figure colorì un Amore vincitore, che con la destra solleva lo strale, ed a’ suoi piedi giacciono in terra armi, libri ed altri stromenti per trofeo. 172 Concorsero al diletto del suo pennello altri signori romani, e tra questi il marchese Asdrubale Mattei gli fece dipingere la Presa di Cristo all’orto, parimente in mezze figure. Tiene Giuda la mano alla spalla del Maestro, dopo il bacio; intanto un soldato tutto armato stende il braccio e la mano di ferro al petto del Signore, il quale si arresta paziente ed umile con le mani incrocicchiate avanti, fuggendo dietro San Giovanni con le braccia aperte. Imitò l’armatura rugginosa di quel soldato, coperto il capo e ‘l volto dall’elmo, uscendo alquanto fuori il profilo; e dietro s’inalza una lanterna, seguitando due altre teste d’armati. Alli signori Massimi colorì un Ecce Homo che fu portato in Ispana, ed al marchese Patrizi la Cena in Emaus, nella quale vi è Cristo in mezzo che benedice il pane, ed uno de gli apostoli a sedere nel riconoscerlo apre le braccia, e l’altro ferma la mani su la mensa e lo riguarda con meraviglia: evvi dietro l’oste con la cuffia in capo ed una vecchia che porta le vivande. Un’alta di queste invenzioni dipinse per lo cardinale Scipione Borghese, alquanto differente; la prima più tinta, e l’una e l’altra alla lode dell’imitazione del colore naturale; se bene mancano nella parte del decoro, degenerando spesso Michele nelle forme umili e vulgari. Per lo medesimo cardinale dipinse San Giroloamo, che scrivendo attentamente distende la mano e la penna al calamaio, e l’altra mezza figura di Davide, il quale tiene per li capelli la testa di Golia, che è il suo proprio ritratto, impugnando la spada: lo figurò da un giovine discoperto con una spalla fuori della camicia, colorito con fondi ed ombre fierissime, delle quali soleva valersi per dar forza alle sue figure e componimenti. Si compiacque il cardinale di queste e di altre opere che gli fece il Caravaggio, e l’introdusse avanti il pontefice Paolo V, il quale da lui fu ritratto a sedere, e da quel signore ne fu ben rimunerato. Al cardinale Maffeo Barberini, che fu poi Urbano VIII sommo pontefice, oltre il ritratto, fece il Sacrificio di Abramo, il quale tiene il ferro presso la gola del figliuolo che grida e cade. Non però il Caravaggio con le occupazioni della pittura rimetteva punto le sue inquiete inclinazioni; e dopo ch’ei aveva dipinto alcune ore del giorno, compariva per la città con la spada al fianco e faceva professione d’armi, mostrando di attendere ad ogn’altra cosa fuori che alla pittura. Venuto però a rissa nel giuoco di palla a corda con un giovane suo amico, battutisi con le racchette e prese l’armi, uccise il giovane, restando anch’egli ferito. Fuggitosene a Roma, senza denari e perseguitato ricoverò in Zagarolo nella benevolenza del duca don Marzio Colonna, dove colorì il quadro di Cristo in Emaus fra li due apostoli ed un’altra mezza figura di Maddalena. Prese dopo il cammino per Napoli, nella qual città trovò subito impiego, essendovi già conosciuta la maniera e ‘l suo nome. Per la chiesa di San Domenico maggiore gli fu data a fare nella cappella de’ signori di Franco la Flagellazione di Cristo alla colonna, ed in Santa Anna de’ Lombardi la Risurrezione. Si tiene in Napoli fra’ suoi quadri migliori la Negazione di San Pietro nella Sagrestia di San Martino, figuratovi l’ancella che addita Pietro, il quale volgesi 173 con le mani aperte, in atto di negar Cristo; ed è colorito a lume notturno, con altre figure che si scaldano al fuoco. Nella medesima città per la Chiesa della Misericordia dipinse le Sette Opere in un quadro lungo circa dieci palmi; vedesi la testa di un vecchio che sporge fuori dalla ferrata della prigione suggendo il latte d’una donna che a lui si piega con la mammella ignuda. Fra l’altre figure vi appariscono li piedi e le gambe di un morto portato alla sepoltura; e dal lume della torcia di uno che sostenta il cadavero si spargono i raggi sopra il sacerdote con la cotta bianca, e s’illumina il colore, dando spirito al componimento. Era il Caravaggio desideroso di ricevere la croce di Malta solita darsi per grazia ad uomini riguardevoli per merito e per virtù; fece però risoluzione di trasferirsi in quell’isola, dove giunto fu introdotto avanti il Gran Maestro Vignacourt, signore francese. Lo ritrasse in piedi armato ed a sedere disarmato nell’abito di Gran Maestro, conservandosi il primo ritratto nell’armeria di Malta. Laonde questo signore gli donò in premio la croce; e per la chiesa di San Giovanni gli fece dipingere la Decollazione del Santo caduto a terra, mentre il carnefice, quasi non l’abbia colpito alla prima con la spada, prende il coltello dal fianco, afferrandolo ne’ capelli per distaccargli la testa dal busto. Riguarda intenta Erodiade, ed una vecchia seco inorridisce allo spettacolo, mentre il guardiano della prigione in abito turco addita l’atroce scempio. In quest’opera il Caravaggio usò ogni potere del suo pennello, avendovi lavorato con tanta fierezza che lasciò in mezze tinte l’imprimitura della tela:sì che, oltre l’onore della croce, il Gran Maestro gli pose al ollo una ricca collana d’oro e gli fece dono di due schiavi, con altre dimostrazioni della stima e compiacimento dell’operar suo. Per la Chiesa medesima di San Giovanni, entro la cappella della nazione Italiana dipinse due mezze figure sopra due porte, la Maddalena e San Girolamo che scrive; e fece un altro San Girolamo con un teschio nella meditazione della morte, il quale tuttavia resta nel palazzo. Il Caravaggio riputatasi felicissimo con l’onore della croce e nelle lodi della pittura, vivendo in Malta con decoro della sua persona ed abbondante di ogni bene. Ma in un subito il suo torbido ingegno lo fece cadere da qual prospero stato e dalla benevolenza del Gran Maestro, poiché venuto egli importunamene a contesa con un cavaliere mobilissimo, fu ristretto in carcere e ridotto a mal termine di strapazzo e di timore. Onde per liberarsi si espose a gravissimo pericolo, ed scavalcata la notte la prigione fuggì sconosciuto in Sicilia, così presto che non poté essere raggiunto. Pervenuto in Siracusa fece il quadro per la chiesa di Santa Lucia che sta fuori alla Marina: dipinse la Santa morta col vescovo che la benedice; e vi sono due che scavano la terra con la pala per seppellirla. Passando egli dopo a Messina, colorì a’ Cappuccini il quadro della Natività, figurandovi la Vergine col Bambino fuori la capanna rotta e disfatta d’assi e di travi; e vi è San Giuseppe appoggiato al bastone con alcuni pastori in adorazione. Per li medesimi Padri dipinse San Girolamo che sta scrivendo sopra il libro, e nella chiesa de’ Ministri de gli infermi, nella cappella de’ signori Lazzari, la 174 Risurrezione di Lazzaro, il quale sostentato fuori del sepolcro, apre le braccia alla voce di Cristo che lo chiama e stende verso di lui la mano. Piange Marta e si maraviglia Maddalena, e vi è uno che si pone la mano al naso per ripararsi dal fetore del cadavero. Il quadro è grande, e le figure hanno il campo d’una grotta, col maggiore lume sopra l’ignudo di Lazzaro e di quelli che lo reggono, ed è sommamente in istima per la forza dell’imitazione. Ma la disgrazia di Michele non l’abbandonava, e ‘l timore lo scacciava di luogo in luogo; tantoché, scorrendo egli la Sicilia, di Messina si trasferì a Palermo, dove per l’Oratorio della Compagnia di San Lorenzo fece un’altra Natività; la Vergine che contempla il nato Bambino, con San Francesco e San Lorenzo, vi è San Giuseppe a sedere ed un angelo in aria, diffondendosi nella notte i lumi fra l’ombre. Dopo quest’opera, non si assicurando di fermarsi più lungamente in Sicilia, uscì fuori dall’isola e navigò di nuovo a Napoli, dov’egli pensava trattenersi fin tanto che avesse ricevuto la nuova della grazia della sua remissione per poter tornare a Roma; e cercando insieme di placare il Gran Maestro, gli mandò in dono una mezza figura di Erodiade con la testa di San Giovanni nel bacino. Non gli giovarono queste sue diligenze; perché, fermatosi egli un giorno sulla porta dell’osteria del Cipiglio, preso in mezzo da alcuni con l’armi, fu da essi mal trattato e ferito nel viso. Ond’egli, quanto prima gli fu possibile montato sopra una feluca, pieno d’acerbissimo dolore s’inviò a Roma, avendo già con l’intercessione del cardinal Gonzaga ottenuto dal papa la sua liberazione. Pervenuto alla spiaggia, la guardia spagnola, che attendeva un altro cavaliere, l’arrestò in cambio e lo ritenne prigione. E se bene fu egli tosto rilasciato in libertà, non però rivide più la sua feluca che con le robbe lo conduceva. Onde agitato miseramente da affanno e da cordoglio, scorrendo il lido al più caldo del sole estivo, giunto a Porto Ercole si abbandonò, e sorpreso da febbre maligna morì in pochi giorni, circa gli anni quaranta della sua vita, nel 1609, anno funesto per la pittura, avendoci tolto insieme Annibale Carracci e Federico Zuccheri. Così il Caravaggio si ridusse a chiuder la vita e l’ossa in una spiaggia deserta, ed allora che in Roma attendevasi il suo ritorno, giunse la novella inaspettata della sua morte, che dispiacque universalmente; e ‘l cavalier Marino suo amicissimo se ne dolse ed adornò il mortorio con li seguenti versi: Fecer crudel congiura Michele a’ danni tuoi Morte e Natura; questa restar temea da la tua mano in ogni imagin vinta, ch’era da te creata, e non dipinta; quella di sdegno ardea, perché con larga usura, quante la falce sua genti struggea, tante il pennello tuo ne rifacea. 175 Giovò senza dubbio il Caravaggio alla pittura, venuto in tempo che, non essendo molto in uso il naturale, si fingevano le figure di pratica e di maniera, e soddisfacevasi più al senso della vaghezza che della verità. Laonde costui, togliendo ogni belletto e vanità al colore, rinvigorì le tinte e restituì ad esse il sangue e l’incarnazione, ricordando a’ pittori l’imitazione. Non si trova però che egli usasse cinabri né azzurri nelle sue figure; e se pure tal volta li avesse adoperati, li ammorzava, dicendo ch’erano il veleno delle tinte; non dirò dell’aria turchina e chiara, ch’egli non colorì mai nell’istorie, anzi usò sempre il campo e ‘l fondo nero; e ‘l nero nelle carni, restringendo in poche parti la forza del lume. Professatasi egli inoltre tanto ubbidiente al modello che non si faceva propria né meno una pennellata, la quale diceva non essere sua ma della natura; e sdegnando ogn’altro precetto, riputava sommo artificio il non essere obbligato all’arte. Con la quale novità ebbe tanto applauso che a seguitarlo sforzò alcuni ingegni più elevati e nutriti nelle migliori scuole, come fece Guido Reni, che allora si piegò alquanto alla maniera di esso, e si mostrò naturalista, riconoscendosi nella Crocifissione di San Pietro alle Tre Fontane, e così dopo Giovan Francesco da Cento. Per le quali lodi il Caravaggio non apprezzava altri che se stesso, chiamandosi egli fido, unico imitatore della natura; contuttociò molte e le migliori parti gli mancavano, perché non erano in lui né invenzione né decoro né disegno né scienza della pittura mentre tolto da gli occhi suoi il modello restavano vacui la mano e l’ingegno. Molti nondimeno, invaghiti della sua maniera, l’abbracciavano volentieri, poiché senz’altro studio e fatica si facilitavano la via al copiare il naturale, seguitando li corpi vulgari senza bellezza. Così sottoposta dal Caravaggio la maestà dell’arte, ciascuno si prese licenza, e ne seguì il dispregio delle cose belle, tolta ogni autorità all’antico e a Rafaelle, dove per la comodità de’ modelli e di condurre una testa dal naturale, lasciando costoro l’uso dell’istorie che sono proprie de’ pittori, si diedero alle mezze figure, che avanti erano poco in uso. Allora cominciò l’imitazione delle cose vili, ricercandosi le sozzure e le deformità, come sogliono fare alcuni ansiosamente: se essi hanno a dipingere un’armatura, eleggono la più rugginosa, se un vaso, non lo fanno intiero, ma sboccato e rotto. Sono gli abiti loro calze, brache e berrettoni, e così nell’imitare li corpi si fermano con tutto lo studio sopra le rughe e i difetti della pelle e dintorni, formano le dita nodose, le membra alterate da morbi. Per li quali modi il Caravaggio incontrò dispiaceri, essendogli tolti li quadri da gli altari, come in san Luigi abbiamo raccontato. La medesima sorte ebbe il Transito della Madonna nella chiesa della Scala, rimosso per avervi troppo imitato una donna morta gonfia. L’altro quadro di Sant’Anna fu tolto ancora da uno de’ minori altari della Basilica Vaticana, ritratti in esso vilmente la Vergine con Gesù fanciullo ignudo, come si vede nella Villa Borghese. In Santo Agostino si offeriscono le sozzure de’ piedi del pellegrino; ed in Napoli fra le Sette Opere della Misericordia vi è uno che alzando il fiasco beve con la bocca aperta, lasciandovi cadere sconciamente il vino. 176 Nella Cena in Emaus, oltre le forme rustiche delli due apostoli e del Signore figurato giovine senza barba, vi assiste l’oste con la cuffia in capo, e nella mensa vi è un piatto d’uve, fichi, melagrane fuori di stagione. Si come dunque alcune erbe producono medicamenti salutiferi e veleni perniciosissimi, così il Caravaggio, se bene giovò in parte, fu nondimeno molto dannoso e mise sottosopra ogni ornamento e buon costume della pittura. E veramente li pittori, sviati dalla naturale imitazione, avevano bisogno di uno che li rimettesse nel buon sentiero; ma come facilmente, per fuggire uno estremo, s’incorre nell’altro, così nell’allontanarsi dalla maniera, per seguitar troppo il naturale, si scostarono affatto dall’arte, restando negli errori e nelle tenebre; finché Annibale Carracci venne ad illuminare le menti ed a restituire la bellezza all’imitazione. Tali modi del Caravaggio acconsentivano alla sua fisionomia ed aspetto: era egli di color fosco, ed aveva foschi gli occhi, nere le ciglia ed i capelli; e tale riuscì ancora naturalmente nel suo dipingere. La prima maniera dolce e pura di colorire fu la migliore, essendosi avanzato in essa al supremo merito e mostratosi con gran lode ottimo colorito lombardo. Ma egli trascorse poi nell’altra oscura, tiratovi dal proprio temperamento, come ne’ costumi ancora torbido e contenzioso; gli convenne però lasciar prima Milano e la patria; dopo fu costretto fuggir di Roma e di Malta, ascondersi per la Sicilia, pericolare in Napoli, e morire disgraziatamente in una spiaggia. Non lasceremo di annotare li modi stessi nel portamento e vestir suo, usando egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un abito, mai lo tralasciava finchè non gli cadeva in cenci. Era negligentissimo nel pulirsi; mangiò molti anni sopra la tela di un ritratto, servendosene per tovaglio mattino e sera. Sono pregiati li suoi colori dovunque è in conto la pittura; fu portata in Parigi la figura di San Sebastiano con due ministri che gli legano le mani di dietro: opera delle sue migliori. Il conte di Benavente, che fu viceré di Napoli, portò ancora in Ispana la Crocifissione di Santo Andrea, e ‘l conte di Villa Mediana ebbe la mezza figura di Davide e ‘l ritratto di un giovane con un fiore di melarancio in mano. Si conserva in Anversa, nella chiesa de’ Domenicani, il quadro del Rosario, ed è opera che apporta gran fama al suo pennello. Tiensi ancora in Roma essere di sua mano Giove, Nettuno e Plutone nel Giardino Ludovisi a Porta Pinciana, nel casino che fu del cardinal del Monte, il quale essendo studioso di medicamenti chimici, vi adornò il camerino della sua distilleria, appropriando questi dei a gli elementi col globo del mondo nel mezzo di loro. Dicesi che il Caravaggio, sentendosi biasimare di non intendere né piani né prospettiva, tanto si aiutò collocando li corpi in veduta dal sotto in su che volle contrastare gli scorti più difficili. E’ ben vero che questi dei non ritengono le loro proprie forme e sono coloriti ad olio nella volta, non avendo Michele mai toccato pennello a fresco, come li suoi seguaci insieme ricorrono sempre alla comodità del colore ad olio per ritrarre il modello. 177 Molti furono quelli che imitarono la sua maniera nel colorire dal naturale, chiamati perciò naturalisti; e tra essi annoteremo alcuni che hanno maggior nome. 178