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Kimono e Samurai. Il gesto. L`eleganza. Lo spirito

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Kimono e Samurai. Il gesto. L`eleganza. Lo spirito
a cura di Alessandro Schiavetti
Catalogo realizzato in occasione della mostra
KIMONO E SAMURAI
Il gesto. L’eleganza. Lo spirito.
Dal 13 luglio al 15 settembre 2013
Sala esposizioni, Fondazione Geiger
Piazza Guerrazzi 32, Cecina (LI)
Mostra e catalogo a cura di Alessandro Schiavetti
Testi in catalogo di:
Paolo Cammelli
Federico Gavazzi
Giancarlo Mariani
Giuseppe Piva
Alessandra Scalvini
Alessandro Schiavetti
Graphic Design e impaginazione: Fabrizio Pezzini
Fotografie: Valentina Phaedra Ragozzino
Illustrazioni Sumi-e: Kazuko Kataoka
Servizi di traduzione: Daria Cavallini
Prestatori
Collezione Paolo Cammelli (Pistoia) Collezione Giancarlo Mariani (Firenze)
Gloria Gobbi – Antichi Kimono (Roma) Giuseppe Piva – Arte Giapponese (Milano)
Via di Monserrato 43b/44 - Roma
Via d’Alarcon 20 - Porto Azzurro - Isola d’Elba
Bandecchi & Vivaldi – Editore
ISBN
Via San Damiano 2 - Milano
INDICE
PresentazionePag. 4
Arte e cultura in Giappone - Cronologia
Pag. 6
SamuraiPag. 10
Storia dell’armatura giapponesePag. 11
Approfondimento: Miyamoto MusashiPag. 21
Approfondimento: Le donne samuraiPag. 26
Approfondimento: L’ultimo samuraiPag. 27
Glossario armaturePag. 28
Nihontō – SpadePag. 30
Approfondimento: la storia dei 47 rōnin pag. 34
Approfondimento: Seppukupag. 38
Per una migliore conoscenza delle nihontōPag. 39
KimonoPag. 42
Il Kimono: storia di un’icona culturalePag. 43
Glossario kimonoPag. 62
Ukiyo-e XilografiePag. 66
Ukiyo-e: immagini del mondo fluttuantePag. 67
PRESENTAZIONE
di Alessandro Schiavetti
KIMONO E SAMURAI
Samurai. Bushidō. Spiritualità. Poi ancora eleganza, gesto, kimono. Nei due mondi che contraddistinguono l’universo maschile e femminile giapponese nell’immaginario occidentale, è la magnificenza di un universo dedito al gesto
e all’attenzione per la cerimonialità che li unisce e diventa di loro il vero trait d’union.
Del Giappone ci ha parlato per la prima volta Marco Polo durante il suo viaggio in Estremo Oriente alla fine del XIII
secolo; nel Milione, l’isola di Zipangu è descritta dal viaggiatore come indipendente, popolata da genti “di bella
maniera” e di bell’aspetto, ma soprattutto è descritta come isola molto ricca. Nel momento in cui Polo parla del
Giappone sottolineando che “no si potrebbe contare la ricchezza di questa isola” voglio pensare romanticamente
che non si sia limitato alla sola descrizione dell’oro presente ovunque nei palazzi da lui stesso visitati, ma che sia
rimasto colpito da quello che la tradizione storico-letteraria e quella cinematografica hanno portato del Giappone
alla moderna visione occidentale, ovvero un connubio armonico di perfezione e spirito, annoverabili a questo punto sotto l’unico termine, profondamente interiore, di ricchezza.
Se osserviamo le stampe di due grandi artisti giapponesi come Hokusai (1760-1849) e Hiroshige (1797-1858) ci rendiamo conto con estrema facilità di quanto questa società ruoti attorno a sistemi di vita tutti incentrati sul “gesto”,
attraverso scene quotidiane popolate da numerose persone dedite alle mansioni più disparate; grazie a questo
possiamo capire quanto la società giapponese sia raffinata e complessa nello stesso momento. Dalle stampe, dalla
storiografia e dall’antiquariato impariamo molto su uno spaccato di vita meticoloso come un mosaico di emozioni
tutte incastrate magicamente tra loro; uno stile di vita imperniato sul particolare e sul cerimoniale che ci riconduce a colori tenui e fiochi che trasportano brio e profumi prettamente primaverili, che col vento sottile smuovono
i drappeggi delle vesti e solleticano le fronde dell’acero palmato, nel mentre l’arte degli intrecci e l’eleganza dei
tessuti diventano moda di un millennio, palesandosi nella sbalorditiva e suprema bellezza dei kimono.
Questi aspetti di vita si ritrovano anche all’interno del Bushidō; qui si abbracciano rispetto, onore, dedizione. Il samurai era dedito alla propria famiglia, al proprio paese e al proprio imperatore; credeva fermamente nel rapporto
signore-suddito e la propria dedizione la firmava col sangue nel keppan, giuramento che poi veniva bruciato e
sciolto nel saké per esser successivamente bevuto. Il samurai nel suo essere storia e leggenda era solenne, di poche
parole, pronto a tutto ed estremamente fedele al proprio credo che ruotava attorno ai punti cardine che volendo
possiamo ricondurre ad alcuni precetti del Buddhismo, dello Shintoismo e del Neo-Confucianesimo. Il samurai non
tollerava la resa, avendo una concezione quasi religiosa della battaglia; nonostante le fonti storiche abbiano cercato di abbagliare questa leggendaria figura di fiori di ciliegio e di cerimonie del tè, trasformando le loro armature in
“armature romantiche”, essi erano di fatto molto inclini alla vita militare e a rigidi allenamenti.
Nel kimono altresì, la bellezza senza tempo delle stoffe e delle tecniche nella loro stessa realizzazione ci riporta ad
una visione calma e illuminata alla luce aperta dei giardini zen, e alla perfezione della vestizione, mentre alle loro
spalle un intero popolo affonda le radici nella rigida e severa esercitazione del gesto, via unica per il conseguimento
di quello che nello zen, appunto, racchiude vita e morte sullo stesso piano, ovvero il raggiungimento di un atteggiamento positivo nei confronti di entrambe.
La Fondazione Hermann Geiger propone all’interno della mostra “Kimono e Samurai” quello che lo zen ha amplificato nel corso della storia dell’arte, nella sua ricerca di profondità degli elementi e nella ricerca della libertà, conditio sine qua non il gesto stesso non avrebbe mai assunto il significato più importante del suo essere parte integrante
dell’arte giapponese stessa e nel suo continuo divenire di eleganza e perizia delle tecniche; il tutto attraverso una
ricca collezione di capolavori che fanno capo ad armature, kabuto, menpō, lame, paraventi, tsuba e netsuke, stampe,
obi e kimono.
4
PRESENTATION
by Alessandro Schiavetti
KIMONO AND SAMURAI
Samurai. Bushidō. Spirituality. And then elegance, gestures, kimono. In the two worlds that represent the Japanese
male and female universes in the Western imagination, it is the magnificence of a universe devoted to gestures and
attention for the ceremonial that links them.
The first one to talk about Japan was Marco Polo during his travel to the Far East at the end of the 13th century.
In his Book of the Marvels of the World, he described the Isle of Zipangu as an independent island and a very rich
place whose inhabitants had fair complexions, were well made and “civilized in their manners”. When Marco Polo
talked about Japan mentioning that “the quantity and richness of this island cannot be counted”, I like to think –
romantically – that he did not confine himself to the mere description of the gold and riches he saw everywhere
in the palaces he visited, but that he was also struck by the very same image of Japan that we, in the West, have
received through the historical, literary and film tradition, that is a harmonious marriage of perfection and spirit,
which we can call inner richness.
If we observe the prints of two great Japanese artists like Hokusai (1760-1849) and Hiroshige (1797-1858), we can
easily realize how this society revolves around systems of life all focussed on the “gesture”, through everyday scenes
where a number of people are devoted to performing the most varied duties. That is how we can appreciate the
refinement and, at the same time, the complexity of this society. Japanese prints, history and antiques give us a
thorough cross-section of life in this country, like a mosaic of emotions, all magically combined together; a lifestyle
pivoting on the detail and the ceremonial, with its delicate, pale colours and the spring scents, with the slight wind
that moves the drapes of the clothes and tickles the foliage of the Japanese maple, while the art of weaving and
the elegance of fabrics mark out the fashion of a millennium through the astonishing, supreme beauty of kimonos.
These same aspects can be found in the Bushidō ideal, which is based upon respect, honour and commitment. The
samurai was devoted to his family, his country and his emperor. He firmly believed in the lord-subject relationship
and sealed his devotion with blood in the oath of allegiance called keppan, which was then burnt and dissolved
in saké to be drunk. The samurai, who epitomized history and legend at the same time, was a solemn man of few
words. Ready to do anything, he was totally faithful to his creed which revolved around a few key principles deriving
from Buddhism, Shintoism and Neo-Confucianism. The samurai could not tolerate surrender, as they had an almost
religious view of the battle. Despite the attempts by historical sources to mix up these legendary figures with
cherry blossoms and tea ceremonies, transforming their suits into “romantic armours”, they were in fact particularly
prone to military life and intensive training.
The timeless beauty of kimono fabrics and manufacturing techniques conveys the calmness and open light of Zen
gardens, the perfection of clothing, the attitude of a people that is deeply rooted in the strict practice of gesture
– the only way to adopt the positive Zen attitude whereby life and death are not separate, and one is impossible
without the other.
The exhibition “Kimonos and Samurai”, staged by the Hermann Geiger Foundation, provides an insight into these
key concepts that the Zen philosophy has amplified in the history of art, through its search for the depth of the
elements and freedom, without which the gesture would never have acquired its most important meaning, that
is to say being an integral part of Japanese art in its continuous becoming, with its elegance and craftsmanship.
All this is shown through a rich collection of armours, kabuto, menpō, bladed weapons, folding screens, tsuba and
netsuke, prints, obi and kimono.
5
ARTE E CULTURA IN GIAPPONE - CRONOLOGIA
6
PERIODO JŌMON
3000 a.C. – IV secolo a.C.
La cultura Jōmon è la più antica cultura ceramica al mondo, caratterizzata da decorazioni con motivi
a corda. Il periodo è diviso in antica, media e tarda fase Jōmon.
PERIODO YAYOI
IV secolo a.C.
III secolo d.C.
Nelle isole del Giappone viene introdotta la metallurgia; utensili in ferro e oggetti artistici in bronzo
(come le campane dōtaku).
PERIODO
DEI TUMULI
(KOFUN)
III-VI secolo d.C.
Viene introdotta dalla Cina la pratica di erigere tumuli funerari (Tomba dell’imperatore Nintoku a
Ōsaka, 313-399 d.C.). Prime raffigurazioni pittoriche nelle tombe. Sempre legati all’arte funeraria
sono gli haniwa, cilindri in argilla con immagini umane (ma anche animali o abitazioni).
Viene eretto per la prima volta il santuario interno del Tempio shintō di Ise (VI secolo), a sud est di
Kyōto, che da allora viene regolarmente ricostruito ogni vent’anni.
PERIODO ASUKA
538-710 d.C.
Nel 538 d.C., attraverso la Corea, arriva il Buddhismo. Dopo cinquant’anni di conflitti, con la vittoria
di Soga no Umako (587 d.C.) il Buddhismo è adottato come religione ufficiale.
Nel distretto di Asuka sono eretti i templi Hōkōji (588 d.C.) e Hōryūji (607 d.C., ricostruito dopo
il 670 d.C.).
Nella “sala d’oro” dell’Hōryūji, lo scultore Tori realizza la Triade del Buddha Shaka (“Buddha storico”).
Influenza degli stili cinesi Wei e, successivamente, Tang.
PERIODO NARA
710-784 d.C.
Viene fondata la nuova capitale, Nara, che diventa il centro del Buddhismo, nuova religione di stato.
Molti templi, tra i quali lo Yakushiji, vengono spostati dal distretto di Asuka a Nara. Costruzione del
Tōdaiji, per volere dell’imperatore Shōmu, e diffusione in tutto il Giappone del culto del Buddha
Shaka e del Buddha Rushana (“Buddha della luce suprema”). Colossale Statua del Buddha Rushana
(752 d.C.), nello stile Tang. Viene eretto il Tōshōdaiji (759 d.C.) in onore del monaco cinese Ganjin.
Il sutra illustrato Kako genzai ingakyō (metà VIII secolo) è la più antica pittura su rotolo conservatasi.
PRIMO PERIODO
HEIAN
794-894 d.C.
Viene fondata Heian-kyō, l’attuale Kyōto. I monaci riformatori Saichō e Kūkai introducono, sempre
dalla Cina, il Buddhismo esoterico (mikkyō). Kūkai fonda il Kongōbuji (816 d.C.) che sarà il modello
per molti altri templi mikkyō.
Avvicinamento tra Buddhismo e Shintoismo, nei luoghi e nelle forme dei templi.
TARDO PERIODO
HEIAN
(FUJIWARA)
894-1185 d.C.
Fine delle relazioni ufficiali con la Cina (894 d.C.): nasce nei Giapponesi la consapevolezza del valore e dell’originalità del proprio patrimonio culturale. Si sviluppa una letteratura nazionale: il primo
romanzo, il Taketori monogatari (fine IX – inizio X secolo), la prima raccolta di poesie in waka (strofa
tradizionale di 31 sillabe) nel 905 d.C., il Genji monogatari, scritto da Murasaki Shikibu nel 1005 d.C.
Si sviluppa la pittura Yamato-e, pittura profana con soggetti e storie rigorosamente nazionali.
Cresce il peso politico della famiglia Fujiwara, a scapito di quello dell’imperatore. Nella corte si afferma il culto del Buddha Amida (“Buddha della luce e del paradiso occidentale”), al quale è consacrato l’Hōjōji (1022 d.C.): il tempio, eretto per volontà di Michinaga Fujiwara, è simbolo del potere
dei Fujiwara. Costruzione dell’Hōōdō (“Sala della fenice”), nella residenza estiva di Michinaga: qui è
collocata la colossale statua del Buddha Amida (1053 d.C.) dello scultore Jōchō, che sarà un modello
per oltre un secolo di arte religiosa.
Diffusione in moltissime copie decorate del Sutra del loto: Kiyomori Heike dona i trentatré rotoli
del sutra Heike nōkyō (1164 d.C.) al santuario di Itsukushima.
Parallelamente, nel XII secolo nasce una pittura profana di altissima qualità, con produzione di
paraventi (byōbu) e rotoli dipinti (emaki), ispirati a romanzi e storie della tradizione letteraria
giapponese.
La decorazione delle opere in lacca urushi vede giungere a perfezione la tecnica del maki-e.
Il periodo Heian si conclude col declino dei Fujiwara e la lotta tra i clan militari Taira (Heike) e Minamoto (Genji).
PERIODO
KAMAKURA
1185-1333 d.C.
Con la vittoria di Minamoto no Yoritomo (1185 d.C.) viene instaurato il governo (bakufu) degli
shōgun: il Giappone è retto con un sistema feudale. Il centro del potere è a Kamakura, presso
l’odierna Tōkyō.
Ricostruzione dei templi buddhisti di Nara, Tōdaiji e Kōfukuji, distrutti dai Taira. Qui operano gli scultori Unkei e Kaikei, dal potente stile espressivo e realistico.
Dalla Cina, con la quale sul finire del XII secolo vengono ripresi i rapporti, arriva il Buddhismo zen:
Kamakura diventa il centro della cultura zen e qui sono eretti i templi di Kenchoji (1253 d.C.) e Engakuji (1282 d.C.). Lo zen determina la perdita d’importanza delle icone e quindi della scultura. Si
afferma invece la pittura monocroma a inchiostro (suiboku-ga).
Per soddisfare le esigenze dei committenti aristocratici prosegue la realizzazione di numerosi
emaki, come l’Heiji monogatari emaki (tardo XIII secolo).
di Federico Gavazzi
PERIODO
MUROMACHI
(ASHIKAGA)
1336-1573 d.C.
Il Giappone è governato dagli shōgun della famiglia Ashikaga. Ashikaga Yoshimitsu fa erigere
il monastero zen di Shōkokuji (1382 d.C.) e, a Kyōto, il Kinkaku (1398 d.C.) o “Padiglione d’oro”,
in uno stile che fonde elementi zen con elementi architettonici della tradizione giapponese.
Ashikaga Yoshimasa fa realizzare il Ginkaku (1489), o “padiglione d’argento”, e il Tōgudō nel
parco della villa di Higashiyama.
Agli inizi del XVI secolo sono realizzati i karesansui teien (“giardini asciutti”) di Ryōnanji e
Daisen-in nel tempio zen di Daitokuji a Kyōto. La cerimonia del tè (cha no yu) diventa un’arte
raffinata.
Sviluppo della pittura monocroma a inchiostro grazie ai monaci zen, tra i quali il maestro
Shūbun, e a Sesshū, e nascita della scuola Kanō, fondata da Kanō Masanobu.
PERIODO
AZUCHI-MOMOYAMA
1573-1615 d.C.
Tramonta il potere degli Ashikaga e nel 1573 d.C. Oda Nobunaga ottiene il controllo del governo.
Dopo la sua morte, un periodo di lotte tra i Toyotomi e i Tokugawa si conclude con la definitiva
vittoria di Tokugawa Ieyasu (1615 d.C.). I vari capi militari erigono numerosi castelli (es. Azuchi,
Himeji, Ōsaka), molti dei quali presto distrutti.
Per questo breve periodo il Giappone è aperto all’influenza occidentale e cristiana (è raggiunto
dai Portoghesi nel 1543 d.C.). Emerge una ricca classe mercantile. Si afferma in generale un ricco
stile decorativo, caratterizzato da opulenza e dal grande impiego dell’oro nell’architettura, nelle
arti figurative, nei tessuti.
Parallelamente prosegue la tradizione della pittura a inchiostro. Fiorisce la scuola Kanō con Kanō
Eitoku (autore delle decorazioni interne del castello di Azuchi) e Kanō Sanraku; si affermano gli
artisti Hasegawa Tōhaku, Kaihō Yūshō, Unkoku Tōgan, Tosa Mitsunori.
Grande sviluppo dell’industria tessile. Epoca d’oro della ceramica: Raku, Bizen, Seto, Shino, Oribe.
PERIODO EDO
(TOKUGAWA)
1615-1867 d.C.
Con la vittoria di Ieyasu si apre il periodo Edo (antico nome di Tōkyō, dove lo shōgun stabilì il
suo bakufu). Periodo di grande crescita economica e formazione di una ricca classe mercantile.
Gli scambi commerciali con Spagnoli e Portoghesi sono proibiti, mentre è consentito ai soli
Cinesi e Olandesi di operare nel porto di Nagasaki.
Ieyasu fa costruire il Castello di Nijō (1603 d.C.) a Kyōto e il Mausoleo Tōshōgu di Nikkō a Edo:
eccesso di decorazione e opulenza. A Kyōto la famiglia imperiale fa costruire le ville di Katsura
(dal 1620 d.C.) e di Shugaku-in (1655 d.C.): semplicità e armonia.
In pittura abbiamo gli ultimi grandi maestri della scuola Kanō: Kanō Tan-yū e Sansetsu. Honami Kōetsu e Sōtatsu sono i padri della scuola Rimpa, caratterizzata dal recupero della tradizione e dall’eleganza; Ogata Korin e Ogata Kenzan ne furono i continuatori. La scuola Nanga
si afferma invece tra i letterati, prima a Kyōto poi a Edo, e si basa sullo studio della cultura cinese:
Gion Nankai, Yanagisawa Kien, Ike Taiga, Yosa Buson. La scuola Maruyama-Shijo (fondata da
Maruyama Ōkyo) si apre invece ai principi del realismo e della prospettiva occidentali. Originale e unica l’esperienza dei “tre eccentrici”, Nagasawa Rosetsu, Soga Shōhaku e Itō Jakuchū,
identificati da uno stile espressivo e grottesco. La pittura di genere si evolve nell’ukiyo-e che
si esprime al massimo nella forma popolare delle xilografie: i maestri sono Torii Kiyonobu, Torii
Kiyomasu, Okumura Masanobu, Suzuki Harunobu, Torii Kiyonaga, Tōshūsai Sharaku, Kitagawa
Utamaro, Katsushika Hokusai e Utagawa Hiroshige.
PERIODO
MEIJI - TAISHŌ
1868-1926 d.C.
Nel 1867 Tokugawa Yoshinobu è costretto a rimettere il potere politico nelle mani dell’imperatore. Il Giappone si apre al mondo e si assiste alla sua rapidissima modernizzazione secondo il
modello occidentale: istituzione del sistema parlamentare (1885 d.C.) e promulgazione della
Costituzione (1889 d.C.).
La politica estera è segnata dalle guerre vittoriose contro Cina (1894-95 d.C.) e Russia (1904-05
d.C.) e dall’annessione della Corea (1910 d.C.). Il Giappone diventa la potenza egemone in Estremo Oriente. Prima Guerra Mondiale.
Arte, architettura e arti applicate subiscono l’influenza occidentale. In architettura assistiamo
all’introduzione di nuove tecniche e nuovi materiali (ferro, vetro, cemento armato).
Nelle arti figurative, attorno ai primi maestri europei e alle nuove accademie d’arte, nascono
tendenze occidentalizzanti (pittura Yōga); come reazione alcuni gruppi artistici mantengono
stili e tecniche tradizionali (pittura Nihonga). La scultura tradizionale e quella occidentalizzata
convivono, con una costante deriva degli artisti verso le tecniche europee.
PERIODO SHŌWA
1926-1989 d.C.
In architettura si preferiscono sempre più le tecniche occidentali e, dopo la distruzione causata
dalla Seconda Guerra Mondiale, la ricostruzione vede l’impiego delle più avveniristiche soluzioni formali e funzionali (anche in chiave antisismica).
Le arti figurative vedono ancora la compresenza di una corrente filoccidentale e di una tradizionalista, ma la prima finisce per prevalere, dando all’arte giapponese un volto sempre più
internazionale.
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ART AND CULTURE IN JAPAN - CHRONOLOGY
JŌMON PERIOD
3000 BC
4th century BC
The Jōmon culture produced the oldest pottery in the world. Clay items were decorated with rope
patterns. The period is divided into Earliest, Middle and Late Jōmon.
YAYOI PERIOD
4th century BC
3rd century AD
Techniques in metallurgy were introduced in the Japanese islands based on the use of iron for tool
manufacturing and bronze for art objects, such as dōtaku bells.
PERIOD OF BURIAL
MOUNDS
(KOFUN)
3rd-6th century AD
The practice of building large tombs was introduced from China (Tomb of Emperor Nintoku, Ōsaka, 313-399
AD). Early pictures in the tombs. Funeral art also produced the haniwa, terracotta clay figures which were
made in numerous forms, including humans, but also animals and houses.
The inner shrine of the Shintō Grand Shrine of Ise (6th century) was built for the first time, south-east of
Kyōto. Since then, the shrine has been rebuilt every 20 years.
ASUKA PERIOD
538-710 AD
In 538 AD, Buddhism arrived in Japan through Korea. After fifty years of conflicts, Buddhism was adopted
as the official religion with the victory of Soga no Umako (587 AD).
The Hōkōji (588 AD) and Hōryūji (607 AD, rebuilt after 670 AD) temples were erected in the Asuka district.
In the “golden hall” of the Hōryūji temple, the sculptor Tori cast the Shaka Triad (“Historical Buddha”).
Influence of the Chinese styles Wei and, later, Tang.
NARA PERIOD
710-784 AD
The new capital Nara was established, which became the centre of Buddhism, the new state religion. Many
temples, including Yakushiji, were moved from the Asuka district to Nara. The Tōdaiji was built according to
the will of Emperor Shōmu. The cult of Shaka Buddha and Rushana Buddha (“Buddha coming from the
sunlight”) spread across Japan. The huge Statue of Rushana Buddha (752 AD) was completed in Tang style.
The Tōshōdaiji (759 AD) was built to honour the Chinese monk Ganjin.
The illustrated sutra Kako genzai ingakyō (mid-8th century) is the most ancient scroll yet found.
EARLY HEIAN
PERIOD
794-894 AD
The capital of Japan was moved to Heian-kyō, present-day Kyōto. Reformer monks Saichō and Kūkai
introduced Esoteric Buddhism (mikkyō) from China. Kūkai founded the Kongōbuji (816 AD) which would
then become the model for many other mikkyō temples.
Buddhism and Shintoism moved closer, in the places and shapes of temples.
LATE HEIAN PERIOD
(FUJIWARA)
894-1185 AD
The official relations with China were put to an end (894 AD). The Japanese became aware of the value
and originality of their cultural heritage, including an incipient national literature: the first novel, Taketori
monogatari (late 9th – early 10th century), the first collection of waka poetry (a traditional stanza consisting
of 31 syllables) in 905 AD, the Genji monogatari, written by Murasaki Shikibu in 1005 AD.
The Yamato-e painting style developed during this period. It was a profane kind of style, with subjects and
stories of national inspiration.
The political weight of the Fujiwara family increased, to the detriment of the Emperor. The cult of Amida
Buddha developed (“Buddha of light and of the western paradise”) to whom the Hōjōji (1022 AD) is
dedicated, i.e. the temple built according to the will of Michinaga Fujiwara, symbol of the Fujiwaras’
power. Building of the Hōōdō (“Phoenix Hall”), in the Michinaga summer residence. Here is the huge statue
of Amida Buddha (1053 AD) by sculptor Jōchō, which will be a model for over a century of religious art.
Many decorated copies of the Lotus sutra were circulated: Kiyomori Heike presented the sanctuary of
Itsukushima with the thirty-three scrolls of the Heike nōkyō sutra (1164 AD).
At the same time, during the 12th century, high-quality profane painting developed with the manufacture
of folding screens (byōbu) and painted scrolls (emaki), inspired by novels and stories belonging to the
Japanese literary tradition.
Urushi lacquer picture decorations brought the maki-e technique to perfection.
The Heian period ended with the decline of the Fujiwara family and the struggle between the Taira (Heike)
and Minamoto (Genji) military clans.
KAMAKURA
PERIOD
1185-1333 AD
Following the victory of Minamoto no Yoritomo (1185 AD), the shōgun government (bakufu) was
established: Japan was ruled with a feudal system. The centre of power was Kamakura, present-day Tōkyō.
The Buddhist temples of Nara, Tōdaiji and Kōfukuji, which had been destructed by Taira, were rebuilt.
Sculptors Unkei and Kaikei, with their powerful expressive and realistic styles, worked here.
Toward the end of the 12th century, relations with China were resumed and Zen Buddhism was introduced
to Japan: Kamakura became the centre of Zen culture with the erection of the temples of Kenchoji (1253
AD) and Engakuji (1282 AD). With Zen, icons and sculpture lost importance to the benefit of monochrome
ink painting (suiboku-ga).
In order to meet the requirements of aristocratic clients, emaki continued to be made such as the Heiji
monogatari emaki (late 13th century).
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by Federico Gavazzi
MUROMACHI
PERIOD
(ASHIKAGA)
1336-1573 AD
Japan was governed by the shōguns of the Ashikaga family. Ashikaga Yoshimitsu erected the Zen
monastery of Shōkokuji (1382 AD) and, in Kyōto, the Kinkaku (1398 AD) or “Golden Pavilion”, in a style
that mixed Zen features with architectural elements of the Japanese tradition. Ashikaga Yoshimasa
erected the Ginkaku (1489 AD), or “Silver Pavilion”, and the Tōgudō in the park of the Higashiyama
residence.
At the beginning of the 16th century, the karesansui teien (“dry landscape”) of Ryōnanji and Daisenin were created in the Zen temple of Daitokuji in Kyōto. The tea ceremony (cha no yu) became a refined
form of art.
Monochrome ink painting developed further thanks to Zen monks, including master Shūbun, and to
Sesshū; the Kanō school, founded by Kanō Masanobu, began its growth.
AZUCHI
MOMOYAMA
PERIOD
1573-1615 AD
The Ashikaga lost their power and, in 1573 AD, Oda Nobunaga gained control of the government.
After his death, a period of conflicts between the Toyotomi and Tokugawa ended with the final victory
of Tokugawa Ieyasu (1615 AD). The military leaders erected numerous castles (e.g. Azuchi, Himeji,
Ōsaka), many of which were soon destroyed.
During this brief period, Japan was open to Western and Christian influence (the Portuguese arrived in
Japan in 1543 AD). An affluent merchant class developed. A rich, decorative style caught on, which was
characterized by opulence and a wide use of gold in architecture, figurative arts and fabrics.
The tradition of ink painting continued its development. The Kanō school flourished, with Kanō Eitoku
(the author of the decorations inside the Azuchi castle) and Kanō Sanraku; artists Hasegawa Tōhaku,
Kaihō Yūshō, Unkoku Tōgan, Tosa Mitsunori became popular.
The textile industry developed significantly. This was the golden age of baked clay: Raku, Bizen, Seto,
Shino, Oribe.
PERIODO EDO
(TOKUGAWA)
1615-1867 AD
The Edo period began with the victory of Ieyasu. Edo was the ancient name of Tōkyō, where the
shōgun established his bakufu. The period was characterized by significant economic growth and the
development of a rich merchant class. Trade with the Spanish and the Portuguese was not allowed,
and only the Chinese and the Dutch could operate in the harbour of Nagasaki.
Ieyasu had the Nijō Castle (1603 AD) in Kyōto and the Nikkō Tōshōgu shrine in Edo built with an excess
of decoration and opulence. The imperial family erected the Katsura (from 1620 AD) and Shugaku-in
(1655 AD) residences with simplicity and harmony.
In painting, this was the period of the last great masters of the Kanō school: Kanō Tan-yū and
Sansetsu. Hon-ami Kōetsu and Sōtatsu were the fathers of the Rimpa painting school, which was
characterized by the comeback of tradition and elegance; Ogata Korin and Ogata Kenzan were
its followers. The Nanga school established itself among men of letters, initially in Kyōto and then
in Edo, and was based upon the study of Chinese culture: Gion Nankai, Yanagisawa Kien, Ike Taiga,
Yosa Buson. The Maruyama-Shijo school (founded by Maruyama Ōkyo) opened out to the principles
of Western realism and perspective. It is worth mentioning the original, unique experience of the
“Three Eccentrics”, Nagasawa Rosetsu, Soga Shōhaku and Itō Jakuchū, who were characterized by an
expressive, grotesque style. Genre painting evolved into ukiyo-e, which found its utmost expression
in the popular form of wood-block printing: its masters were Torii Kiyonobu, Torii Kiyomasu, Okumura
Masanobu, Suzuki Harunobu, Torii Kiyonaga, Tōshūsai Sharaku, Kitagawa Utamaro, Katsushika
Hokusai and Utagawa Hiroshige.
MEIJI - TAISHŌ
PERIOD
1868-1926 AD
In 1867 Tokugawa Yoshinobu was forced to return governing power to the Emperor. Japan began a
programme of modernization based on the Western model: a parliamentary system was created
(1885 AD) and the Constitution was promulgated (1889 AD).
As far as foreign politics is concerned, Japan beat both China (1894-95 AD) and Russia (1904-05 AD)
in war and annexed Korea (1910 AD). Japan became the hegemonic power in the Far East. World War
I broke out.
Art, architecture and applied arts were influenced by Western canons. New techniques and materials
were introduced in architecture (iron, glass, concrete). In figurative arts, the Yōga style of painting
developed around the first European masters and the new art academies together with westernizing
tendencies. As a reaction to this, a few artistic groups kept sticking to traditional styles and techniques
(Nihonga painting). Traditional and westernized sculpture coexisted, with artists steadily drifting
towards European techniques.
SHŌWA PERIOD
1926-1989 AD
In architecture, Western techniques are ever more widespread. After the destruction of World War II,
the country was reconstructed according to ultramodern trends and standards, both formally and
functionally, including earthquake-proof building design.
Figurative arts are still characterized by the coexistence of pro-Western and traditionalist currents, but
the former have come to prevail, which has given Japanese art an ever more international focus.
9
STORIA DELL’ARMATURA GIAPPONESE
di Giuseppe Piva
Sebbene ufficialmente un impero, il Giappone è stato
controllato per circa sette secoli da una casta militare
che ha lasciato all’imperatore una sovranità solo apparente e un ruolo più religioso che politico. I bushi (o
samurai, come oggi li chiamiamo usualmente) sono
stati di fatto gli amministratori dell’impero con una organizzazione militare di stampo feudale governata dallo shōgun. Per questo motivo armi ed armature sono
sempre state considerate importanti simboli di potere
e di condizione sociale.
L’armatura giapponese nasce tra il X e l’XI secolo come
evoluzione dei modelli antichi composti solo da grandi
piastre metalliche; tra il XII e il XV secolo essa completa
la sua trasformazione diventando quella che oggi tutti
conosciamo. All’inizio di questo periodo i samurai combattevano a cavallo utilizzando l’arco come arma principale e l’armatura di questo periodo era concepita per
affrontare scontri tra cavallerie poco numerose; riservata ai guerrieri di alto lignaggio, viene chiamata ō-yoroi,
letteralmente “grande armatura”. L’elmo (kabuto) è costruito con piastre rivettate per formare una calotta semisferica e prevede una protezione per il collo (shikoro)
la cui piastra superiore prosegue in avanti ripiegandosi
a protezione del volto (fukigaeshi). La corazza è realizzata con piccole piastre di ferro allacciate tra loro, così da
essere al contempo resistente e flessibile, seppur non
certo leggera. Un elemento aggiuntivo (waidate) viene
applicato sotto il braccio sinistro per coprire l’apertura
attraverso la quale la corazza viene indossata. Sui lati ci
sono poi due grandi spallacci di forma quadrata (sode),
mentre il grembo è protetto da quattro larghi elementi
(kusazuri); il tutto realizzato con la stessa tecnica costruttiva a piccole piastre legate (hon-kozane).
La ō-yoroi, ottimo equipaggiamento per i cavalieri, era
tuttavia troppo pesante e scomoda per un combattimento corpo a corpo. Essa dunque rimase in uso solo
finché i giapponesi non dovettero per la prima volta far
fronte ad un attacco esterno. Nel 1274 - e successivamente nel 1281 - i Mongoli tentarono infatti l’invasione
del Giappone, vestiti con comode armature in resistentissimo cuoio bollito; i loro eserciti erano organizzati
per falangi e la cavalleria aveva un ruolo secondario.
Così i Giapponesi si trovarono a fronteggiare un tipo
di combattimento al quale non erano abituati. Fu solo
grazie all’arrivo di violentissime tempeste (i kamikaze,
“venti divini”) che i Mongoli dovettero ritirarsi: la strategia militare giapponese si era dimostrata inefficace
e fu necessario rivedere completamente ogni aspetto
della tattica e dell’equipaggiamento delle forze armate. Tenendo quindi la ō-yoroi come modello, vennero
introdotte delle variazioni e progettate armature per la
fanteria (dōmaru e haramaki) con un kusazuri diviso in
più parti e senza waidate. Queste nuove armature, più
confortevoli da indossare, diventarono di uso comune
anche tra l’aristocrazia militare e, a metà del periodo
Muromachi (1333-1568), la ō-yoroi cadde in disuso.
Queste nuove armature da fanteria ricalcavano ancora
il modello tradizionale e non se ne discostavano se non
per qualche adattamento, per essere utilizzate da soldati a piedi armati di picche e spade al posto dell’arco;
la vera spinta innovativa doveva ancora arrivare.
È il 1543 quando la prima nave portoghese arriva in
Giappone, al largo dell’isola di Tanegashima, portando
la grande innovazione che già in Europa aveva rivoluzionato gli eserciti e i loro equipaggiamenti: l’archibugio, un’arma destinata a stravolgere ogni regola del
combattimento tradizionale ed estremamente potente, poiché chiunque poteva in poco tempo imparare ad
utilizzarla in maniera efficiente.
Il Giappone è in questo momento al culmine di uno
stato di tensione tra i vari clan guerrieri e questa nuova arma giunge proprio nel periodo più idoneo perché
venga immediatamente recepita. Verso la fine del XV
secolo il potere dello shōgun come autorità centrale si
era difatti notevolmente affievolito e il Giappone era
in preda a una sostanziale anarchia durante la quale i
singoli clan cercavano di espandere il proprio controllo
sul territorio a scapito di quelli vicini. La guerra di Ōnin
(1467-1477) aveva segnato l’inizio del sengoku jidai,
“l’epoca degli stati combattenti” e, in questo contesto
di guerra civile, gli archibugi diventarono l’arma risolutiva. Nel 1575 Oda Nobunaga utilizzò le nuove armi da
fuoco nella battaglia di Nagashino, riuscendo a massacrare velocemente l’esercito di Takeda Katsuyori, il cui
padre Shingen era stato ironicamente considerato un
innovatore per aver introdotto le cariche a cavallo.
È comprensibile come a questo nuovo tipo di combattimento debba obbligatoriamente conseguire una
completa revisione dell’armatura. Nasce innanzitutto
l’esigenza di produrre equipaggiamenti pratici, semplici da realizzare e riparare, le cui piastre fossero resistenti alle pallottole ma non troppo pesanti. Nasce quindi
quella che viene chiamata “armatura moderna” (tosei
gusoku), i cui cambiamenti ne coinvolgono ogni singolo elemento. L’elmo diventa più resistente e pesante per
sopportare i colpi degli archibugi, mentre i fukigaeshi e
i sode, perdendo la loro funzione difensiva, spariscono
o diventano piccoli e puramente decorativi. La corazza
(dō) è ora realizzata con piastre di grandi dimensioni
legate in modo semplice o addirittura rivettate ed incernierate, mentre vengono alleggerite le protezioni al
volto (mengu), alle braccia (kote) e alle gambe (haidate).
I vantaggi di questa nuova armatura sono molti: è più
resistente e più economica da costruire, più agevole in
battaglia perché manca di protezioni di grandi dimensioni e più pratica, poiché in caso di pioggia i lacci non
si appesantiscono dell’acqua assorbita. Alcune armature copiano poi i modelli europei (nanban) o addirittura
ne incorporano alcuni elementi e nasce una vera e propria moda per questo “esotismo” militare.
11
La tosei gusoku, concepita per far fronte a una situazione di guerra civile in cui le armi da fuoco giocavano il ruolo principale, divenne l’unico tipo di equipaggiamento utilizzato e rimase in voga anche dopo che
Tokugawa Ieyasu ottenne il controllo sull’intero arcipelago giapponese (1600-1615). Gli eserciti dovevano difatti controllare la situazione di tensione successiva alla
“pace” che metà dei clan avevano dovuto subire passivamente in seguito alla sconfitta di Sekigahara; in un
secondo tempo l’armatura ricoprì invece il ruolo di divisa da parata, da utilizzare per gli incontri e le occasioni
ufficiali, la più importante delle quali fu senza dubbio il
sankin kōtai, la residenza obbligata a Edo per i feudatari
(daimyō): un intelligente espediente dello shogunato
Tokugawa per impoverire e controllare gli altri clan. Periodicamente, difatti, tutti i daimyō avevano l’obbligo di
recarsi a Edo, la nuova capitale, con costosi e sfarzosi
cortei (daimyō gyoretsu) per rifornire lo shogunato di
soldati e per lasciarvi i propri familiari in ostaggio. La
necessità sociale di condurre una vita dispendiosa durante la permanenza a Edo, con una ricca residenza da
mantenere, portò quindi allo svuotamento delle casse
dei vari daimyō, a beneficio di una produzione di opere
d’arte e suppellettili di notevole qualità, nonché di armature elegantissime, sontuose e stravaganti. L’armatura diventa ora un importante simbolo di status sociale
in grado di comunicare la ricchezza e l’importanza del
proprio clan; per questo motivo durante il periodo Edo
(1615-1867) l’abilità dei fabbri si orienta maggiormente verso le caratteristiche estetiche piuttosto che verso
quelle funzionali. Le decorazioni sono ora sempre più
spinte e magnificenti, con fini applicazioni in oro, abili
lavorazioni del ferro, lacche, sete colorate e quant’altro.
Alcuni armaioli si specializzano nelle tecniche di lavorazione a sbalzo (uchidashi) producendo dō, menpō e
kabuto di eccezionale qualità. È in questo periodo di ricerca estetica che tornano in auge le grandiose ō-yoroi
e le dō-maru, con ampi sode e complesse legature multicolori: le nuove tecniche vengono applicate ai modelli
dell’antichità e vengono prodotte armature di una ricchezza mai raggiunta.
Nel XIX secolo il Giappone attraversa una crisi economica e politica che sfocerà nell’abolizione dello shogunato; in questi ultimi decenni la tendenza ad imitare le
armature antiche non accenna a diminuire, ma la produzione è molto più limitata e gli armaioli di vero talento sono sempre più rari. Nel 1870 la struttura feudale
viene infine abolita: la classe dei guerrieri non esiste
più e, assieme ad essa, svanisce la necessità di produrre
elmi ed armature.
TECNICHE ED ELEMENTI
Lungo tutta la sua evoluzione l’armatura giapponese
ha mantenuto inalterate le proprie caratteristiche estetiche fondamentali: tipicamente realizzata con piccole
piastre in ferro o in pelle (kozane) legate per mezzo di
12
fettucce in seta (odoshi) o di rivetti, presenta sempre
determinati elementi che restano quasi inalterati per
secoli. La superficie viene di solito ricoperta con uno
strato di lacca al fine di proteggere l’armatura dalla ruggine e al contempo di decorarla: i colori più utilizzati
sono il nero (kuro-urushi) e il rosso (shu-urushi) e talvolta vengono aggiunti ornamenti ottenuti con polvere
d’oro (maki-e). Un particolare tipo di lacca, chiamato
sabi-nuri, viene invece impiegato per ottenere un risultato che, pur somigliando alla superficie naturale del
ferro, mantiene la propria funzione protettiva. In questo caso, infatti, si mescola alla lacca un poco di limatura di ferro, così che questa risulti ruvida e rugginosa.
Gli elementi fondamentali dell’armatura giapponese
sono sei (hei no rokugu):
La parte più importante dell’armatura è senza dubbio
l’elmo; sebbene esistano elementi ricorrenti e regole
costruttive comuni, le diverse scuole di armaioli produssero nel corso dei secoli innumerevoli varianti di
forme e modelli di kabuto. I più conosciuti sono senza dubbio quelli a struttura lamellare, realizzati con un
certo numero di piastre verticali rivettate. Due tipologie di elmi a struttura lamellare sono immediatamente riconoscibili: i koboshi kabuto, in cui ogni piastra è
fissata a quella adiacente per mezzo di lunghi rivetti
sporgenti cosicché l’elmo ne risulta interamente ricoperto, e i suji bachi kabuto, con i rivetti ribattuti e quindi
invisibili. L’elmo porta spesso sul davanti una decorazione ben visibile (maedate) che raffigura abitualmente
simboli familiari o simboli religiosi e mitologici.
Un secondo elemento importante dell’armatura è la
maschera. Il menpō assolve difatti diverse funzioni:
protegge il volto, permette un saldo fissaggio dell’elmo
con appositi ganci, sostiene la protezione per la gola
(yodarekake) e crea un’espressione spaventosa sul volto
del guerriero.
Il busto è protetto dal dō, una corazza senza maniche,
da cui pendono delle protezioni a più piastre sovrapposte per proteggere il grembo (kusazuri). Le spalle sono invece generalmente protette da sode più o
meno grandi.
Le protezioni per braccia (kote), cosce (haidate) e stinchi (suneate) sono spesso costruite nello stesso stile e
vengono raggruppate con il nome di sangu.
Elementi ausiliari dell’armatura e quindi non sempre
inclusi sono invece:
Nodowa: protezione per lo sterno realizzata come un
grande yodarekake.
Guruwa: collare rigido per proteggere la gola.
Manchira: cotta di maglia da indossare sotto l’armatura.
Wakibiki: protezioni addizionali per le ascelle.
Kogake: protezioni in ferro per i piedi.
HISTORY OF THE JAPANESE SUIT OF ARMOUR
by Giuseppe Piva
Although officially an empire, Japan was controlled for
about seven centuries by a military caste that left the
emperor with little sovereignty and a religious rather
than a political role. The bushi (or samurai, as they are
generally called today) were actually the administrators
of an empire which had a feudal military organization
governed by the shōgun. For this reason, weapons
and suits of armour have always been considered
important symbols of power and social status.
The Japanese armour developed between the 10th
and 11th centuries as an evolution of ancient models
which consisted only of large iron plates; between the
12th and 15th centuries, the suit of armour completed
its transformation and took the form that we know
today. At the beginning of this period, the samurai
fought on horseback and used bows as their main
weapons. The suit of armour, conceived to withstand
fights between small cavalries, was reserved for highranking knights and was called ō-yoroi, literally “great
suit of armour”. The helmet (kabuto) features a central
dome constructed of a number of metal plates riveted
together and a neck guard (shikoro) with a recurving
upper plate protecting the face (fukigaeshi). The cuirass
was constructed from small iron plates connected
together, which made it strong and flexible, although
definitely not light in weight. An additional element
(waidate) was applied under the left arm to cover the
opening from which the cuirass was worn. On the
sides are two large rectangular shoulder guards (sode),
whereas the lap is protected by four wide elements
(kusazuri). Again, the assembly technique is based on
small scales (hon-kozane) all connected together.
The ō-yoroi was an excellent suit of armour for knights,
but it was too heavy and inconvenient for hand-tohand fighting. Therefore, it fell out of use when the
Japanese had to face an external attack. In 1274 –
and later in 1281 – the Mongols attempted to invade
Japan, dressed in comfortable armours made of
durable boiled leather; their armies were organized
in phalanxes and cavalry played a secondary role. So
the Japanese found themselves involved in a kind of
fighting they were not used to. It was only thanks to
massive typhoons (the kamikaze, “divine winds”) that
the Mongols were forced to fall back: the Japanese
military strategy had proved ineffective, which made
it necessary to rethink each and every aspect of
the armed forces’ tactics and equipment. The basic
model of the ō-yoroi was retained, but variations
were introduced and infantry armours were designed
(dōmaru e haramaki) with a kusazuri divided in several
parts and without waidate. These new armours, which
were more comfortable to wear, became common
among the military aristocracy and, in the midMuromachi period (1333-1568), the ō-yoroi fell out
of use. These new infantry armours still followed the
traditional model and differed from it only because of
a few minor adjustments, so that they could be used
by foot soldiers armed with pikes and swords instead
of bows. But the real innovation was still to come.
It was the year 1543 when the first Portuguese ship
arrived in Japan, off the island of Tanegashima,
introducing the great innovation which had already
revolutionized the European armies and their
equipment, i.e. the harquebus, a very powerful
weapon that would soon change the rules of
traditional fighting, since anyone could learn how to
use it effectively in a very short time.
In those days, Japan was at the height of a state of
tension between the warrior clans, and this new
weapon arrived at exactly the right time. As a matter
of fact, toward the end of the 15th century, the
power of the shōgun as the central authority had
greatly diminished and Japan was in a state of nearanarchy during which each clan attempted to expand
its control over the territory to the detriment of its
neighbours. The Ōnin war (1467-1477) had marked
the beginning of the sengoku jidai, “the Warring States
Period” and, during this civil war, harquebuses became
the decisive weapon. In 1575 Oda Nobunaga used the
new firearms in the Battle of Nagashino and quickly
defeated the forces under Takeda Katsuyori, whose
father Shingen – ironically – had been considered an
innovator for introducing cavalry charges.
It is easy to understand that this new type of fighting
required a complete revision of the suit of armour. First
of all, it became necessary to produce practical outfits,
that should be easily manufactured and repaired,
whose scales had to withstand bullets without being
too heavy. That was the beginning of the so-called
“modern armour” (tosei gusoku), whose changes
involved every single element of the outfit. The helmet
became stronger and heavier in order to withstand
the shots of the harquebuses, while the fukigaeshi
and the sode, which had lost their utilitarian purpose,
disappeared or became purely vestigial. The cuirass
(dō) is now made of larger plates, connected in a simple
way or riveted, whereas the facial armour (mengu),
the vambrace (kote) and the thigh armour (haidate)
have been made lighter. This new armature has many
advantages: it is stronger and more economical to
manufacture; it is more comfortable to wear in battle
because it does not have cumbersome guards and it
is also more practical, because the thongs do not get
soaked with water in case of rain. Certain armours copy
13
European patterns (nanban) or even include elements
after the Western fashion.
The tosei gusoku, conceived to face a civil war context
where firearms played a key role, became the only
type of equipment used and remained popular even
after Tokugawa Ieyasu established hegemony over
most of Japan (1600-1615). Sure enough, the armies
had to control the tense situation that followed the
“peace” that half of the clans had been forced to accept
passively after the defeat of Sekigahara. Afterwards,
the suit of armour was used as a parade uniform to be
worn for official meetings and occasions, such as the
sankin kōtai, by which the great feudal lords (daimyō)
had to reside at Edo: a clever policy of the Tokugawa
shogunate aimed at impoverishing and weakening the
other clans. Periodically, all the daimyō were required
to go to Edo, the new capital, followed by expensive,
lavish processions (daimyō gyoretsu) in order to
provide the shogunate with soldiers. They also had to
leave their wives and families in Edo as hostages. The
social necessity to lead a costly life during their stay in
Edo, with a rich residence to keep, drained the coffers
of the daimyō but led to the production of highquality works of art and furnishings, including plush,
gorgeous and eccentric armours. The suit of armour
has now become an important social status symbol
indicating the wealth and importance of one’s clan.
For this reason, during the Edo period (1615-1867)
the smiths were more concerned with the look of the
armour rather than its function. Decorations were
ever more extreme and magnificent, with fine gold
trimmings, artful ironwork, lacquers, colourful silks
and so on. A few armourers specialized in embossing
(uchidashi) and produced very high-quality dō, menpō
and kabuto. In this period of aesthetic research, the
great ō-yoroi and dō-maru, with wide sode and complex
multi-coloured thongs, came back into fashion: the
new techniques were applied to ancient models and
lavish armours were produced like never before.
During the 19th century Japan went through a
political and economic crisis that would eventually
lead to the abolition of the shogunate. The trend to
imitate ancient armours continued, but production
was limited and talented armourers were fewer and
fewer. In 1870 the feudal system was abolished. The
warrior class did not exist anymore, which made it
unnecessary to produce helmets and armours.
TECHNIQUES AND ELEMENTS
Throughout its evolution, the Japanese armour
remained basically unchanged from the aesthetic
point of view. It was typically made with small iron or
14
leather scales (kozane) laced together with silk cords
(odoshi) or rivets and featured a number of elements
that have not changed for centuries. The surface was
generally lacquered in order to protect the armour
from rusting and decorate it at the same time: the
colours most frequently used were black (kuro-urushi)
and red (shu-urushi), along with occasional decorations
made with powdered gold (maki-e). A specific kind of
protective lacquer, called sabi-nuri, was used to obtain
a result similar to the natural surface of iron. Iron filings
were added to the lacquer so that the coat of paint was
rough and rusty.
The six major components of the Japanese armour are
known collectively as hei no rokugu:
The most important part of the armour is definitely the
helmet. Although there are recurring elements and
common manufacturing rules, down the centuries
the different armour schools produced numberless
versions of kabuto in terms of shapes and models. The
best known are the lamellar ones, which consisted of
vertical riveted scales. Two types of lamellar helmets
are easily recognizable: koboshi kabuto, which features
myriads of small, stud-like rivets on the helmet bowl,
and suji bachi kabuto, where rivets are clinched and
therefore invisible. The helmet is often adorned with a
clearly visible decoration (maedate), generally a family
emblem or a sculptural object representing mythical
entities or religious symbols.
The second important element is the facial armour.
The menpō serves a number of functions: covering
the face, securing the helmet with special hooks,
supporting the throat guard (yodarekake) and creating
an awesome facial expression in the warrior.
The bust is protected by the dō, a sleeveless cuirass,
while the lap is guarded by superimposed panels
(kusazuri). The shoulders were generally protected by
guards of different sizes called sode.
Armoured sleeves (kote), thigh armour (haidate) and
shin armour (suneate) are often constructed in the
same style and known collectively as sangu.
Additional elements of the armour, not necessarily
included in every outfit, are the following:
Nodowa: a breastbone guard manufactured like a
large yodarekake.
Guruwa: a type of throat guard shaped as a rigid collar.
Manchira: a chain mail to be worn under the armour.
Wakibiki: additional armpit guards.
Kogake: armoured sock that covered the top of the foot.
15
Okegawa-dō tosei gusoku.
Armatura per samurai.
Metà del periodo Edo
(1615-1867).
Giuseppe Piva - Arte Giapponese.
Questa importante armatura porta il kamon di tipo
suisha (mulino ad acqua)
del clan Doi nella variante
utilizzata durante il periodo Edo dal ramo che governava come daimyō il
dominio di Kariya.
Le forme e gli straordinari
particolari mostrano l’elevato status del samurai di
appartenenza. Il kabuto
a cinque piastre è infatti
di una rara forma allungata mentre la maschera
è anch’essa inusuale, con
laccatura in argento e l’interno in velluto.
Il dō (corazza) è elegantemente decorato con rivetti
a forma di fiori di ciliegio. I
kote nascondono sull’avambraccio sinistro un comparto per medicinali, mentre i
suneate (schinieri) sono laccati in oro.
16
Byōtoji-dō tosei gusoku.
Armatura per samurai.
Metà del periodo Edo
(1615-1867).
Giuseppe Piva - Arte Giapponese.
Il pesante elmo di tipo sujibachi è costruito con sessantadue resistenti piastre
sagomate a forma di “S”
così da opporre maggiore
resistenza all’impatto di
lame e proiettili di archibugio.
I rivetti sono ribattuti e
risultano invisibili. La maschera a mezzo volto è
decorata con una finitura
yasurime a linee parallele.
Molto pesanti sono anche
i kote che proteggono le
braccia, realizzati in maglia molto fitta. Il dō a piastre orizzontali rivettate
a vista (byōtoji) è elegantemente ricoperto con
borchie in shakudo, una
lega di rame oro dal colore violaceo e lucido che
contrasta con il ferro della
corazza.
17
Dangae-dō tosei gusoku.
Armatura per samurai.
Prima metà del Periodo
Edo (1615-1867).
Giuseppe Piva - Arte Giapponese.
L’elmo di tipo zunari è ornato con due wakidate
originali a forma di corna,
con la particolarità delle due punte protese in
avanti e non di lato come
in genere avviene per
questo tipo di tatemono. Il
dō presenta due tipi diversi di legature ed è ornato
con kanamono dorati di
ottima fattura che includono un kamon con il carattere “sopra”.
A protezione delle spalle,
al posto dei più tradizionali sode, questa armatura
è provvista di larghi ko-ire
circolari, finiti in crine di
orso. La stessa finitura è
prevista per l’ultima piastra del kusazuri.
18
Nuinobe-dō tosei gusoku.
Armatura per samurai con
il kamon del clan Maeda.
Inizio del periodo Edo
(1615-1867).
Giuseppe Piva - Arte Giapponese.
L’armatura porta il kamon
di tipo ume (fiore di pruno) della famiglia Maeda,
daimyō del dominio di
Kaga dal 1583 e per tutto
il periodo Edo con rendita
seconda solo a quella del
clan Tokugawa. L’eccezionale elmo di tipo ko-boshi è di altissimo livello: i
1.550 rivetti che uniscono
le 62 pesanti piastre sono
disposti con impressionante regolarità e la loro
dimensione diminuisce a
mano a mano che si sale
verso la sommità. La firma
all’interno del kabuto è
quella di Saotome Ietada,
fondatore della scuola Saotome e considerato il miglior armaiolo del periodo
Edo. Gli interni del dō e
dello shikoro (protezione
per il collo) sono laccati
in oro, secondo l’usanza
della regione di Kaga per
indicare lo status elevato
del samurai.
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Byakudan-nuri tachi-dō
tosei gusoku. Armatura
per samurai laccata in
byakudan.
Metà del periodo Edo
(1615-1867).
Giuseppe Piva - Arte Giapponese.
Elegante armatura finemente lavorata e laccata
in oro, ricoperta da un
sottile strato di lacca rossa
che fa trasparire il lucente
metallo sottostante. L’elmo di tipo suji-bachi è di
forma rialzata (kōseizan),
costituito da 62 piastre
coperte nelle direzioni
cardinali da quattro placche in ottone decorate e
ottone dorato, che scendono da un ricco tehenno-kanamono (ornamento del foro centrale) negli
stessi materiali. Forma e
peso dell’elmo (con splendido maedate raffigurante la testa di uno shikami,
demone della tradizione
giapponese) suggeriscono una datazione anteriore del coppo rispetto
all’armatura. L’utilizzo di
un elmo più antico era
pratica comune durante il
periodo Edo per le armature importanti.
20
Approfondimento
MIYAMOTO MUSASHI
Miyamoto Musashi (1584 - 1645), vero nome Shinmen Musashi no Kami Fujiwara no Genshi, è considerato il più grande samurai della storia del Giappone, famoso per le sue abilità di spadaccino e per
essere stato un artista nella pittura, nella forgiatura di tsuba e nella letteratura. A 13 anni affrontò,
sconfiggendolo, il samurai Arima Kihei; sempre giovanissimo partecipò alla famosa battaglia di Sekigahara. Iniziò a peregrinare per il Giappone in cerca di avventure. Musashi studiava la psicologia e
le debolezze dell’avversario per usarli a suo favore. Il presentarsi con grande ritardo ai duelli e la sua
scarsa igiene personale servivano a far innervosire il nemico. A Kyōto Musashi fu sfidato da Seijuro
(il capoclan dei Yoshioka) e anche qui, presentandosi in ritardo, vinse l’incontro. La stessa tattica fu
adottata anche nel duello contro il fratello di Seijuro. La famiglia Yoshioka preparò quindi un’imboscata per Musashi che invece, presentandosi con anticipo all’appuntamento, riuscì ad uccidere il
nuovo giovane capo del clan. I vari duelli in cui si cimentò resero Miyamoto sempre più famoso: si
narra che a 29 anni avesse già combattuto, sempre vittorioso, 60 incontri. Lo scontro più illustre lo
ebbe nel 1612 sulla spiaggia di Muko-jima. Musashi si presentò in ritardo. Il suo avversario, Sasaki
Kojiro Ganryu, appena lo vide gettò il fodero della spada a terra e si lanciò contro di lui. Quel gesto di
rabbia fece capire a Miyamoto che avrebbe vinto anche quella volta, cosa che infatti avvenne. Negli
anni seguenti partecipò a guerre e assedi. Raggiunti i 50 anni si ritirò dai combattimenti e si dedicò
all’arte e alla letteratura. Nel 1640 scrisse l’Hyoho Sanjugo Kajo (“I trentacinque precetti della strategia”)
in cui riassumeva la sua esperienza di guerriero. Tre anni dopo scrisse la sua opera più famosa, il Gorin-no-sho (“Il libro dei cinque anelli” o “Il libro dei cinque elementi”). Musashi descrive sia le tecniche
di combattimento sia i concetti filosofici inerenti all’arte della spada. Una settimana prima di morire
(il 19 maggio 1645), scrisse il breve Dokkōdō (“La Via che bisogna percorrere da soli”). Alla fine della
cerimonia funebre di Musashi, si narra che si udì un tuono nel cielo sereno: era l’anima di Miyamoto
che abbandonava il proprio corpo.
Miyamoto Musashi (1584 - 1645), whose real name was Shinmen Musashi no Kami Fujiwara no
Genshi, is considered the greatest samurai in the history of Japan. Renowned for his swordsmanship,
he was also an artist in painting, in the forging of tsuba and in literature. At the age of 13, he duelled
with samurai Arima Kihei and defeated him. When he was still very young, he fought in the Battle
of Sekigahara. Then he started travelling across Japan in search of adventures. Musashi studied his
opponent’s psychology and weaknesses to use them in his favour. He used to arrive at the duel late
and neglected his hygiene, which irritated the enemy. In Kyōto, Musashi was challenged to a duel
by Seijuro, master of the Yoshioka clan. Musashi arrived late and won the duel. He adopted the same
tactics in the swordfight against Seijuro’s brother. The Yoshioka clan then laid an ambush on Musashi,
but this time he arrived much earlier than agreed and managed to kill the young new head of the
clan. His duelling made him ever more famous: the story goes that at 29 years of age he had fought
and won 60 duels. His most famous one took place in 1612 on the beach of Muko-jima. Musashi
arrived late. On seeing him, his opponent, Sasaki Kojiro Ganryu, threw the scabbard of the sword
on the ground and flung himself against him. This angry gesture made it clear to Miyamoto that
he would win again. In the following years he took part in wars and sieges. When he turned 50, he
retired from action and devoted himself to arts and literature. In 1640 he wrote the Hyoho Sanjugo
Kajo (“Thirty-five Instructions on Strategy”) where he summed up his experience as a warrior. Three
years later, he wrote his most famous book, the Gorin-no-sho (“The Book of Five Rings” or “The Book
of Five Elements”). Musashi describes the fighting techniques and philosophical concepts related to
swordsmanship. A week before he died, he wrote the short work Dokkōdō (“The Way to Go Forth
Alone”). It is said that at the end of Musashi’s funeral a crack of thunder pounded in the clear sky
above: it was Miyamoto’s soul that left his body.
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Koboshi kabuto. Elmo da samurai.
Scuola Haruta, XVII secolo. Inizio
del periodo Edo (1615-1867). Okina
menpō Yoshiatsu. Maschera per armatura da samurai. Metà del Periodo Edo (1615-1867). Giuseppe Piva
– Arte giapponese.
Elmo a 62 piastre rivettate. Ogni
piastra porta al centro una fila di
trenta rivetti. In totale si contano
1.890 rivetti, di dimensione decrescente approssimandosi verso la
cima dell’elmo. La forma del coppo
è di tipo tenkokuzan, ovvero avvallato al centro e con la parte superiore
leggermente più alta, ma la sagoma
è particolarmente tondeggiante,
con un’apparenza quasi “gonfia”
nella parte posteriore, rimandando
così ai modelli akoda nari (a forma
di zucca) degli elmi medievali. Uno
tsunomoto è fissato nella parte superiore della visiera (mabizashi) per
reggere un maedate (ornamento
frontale) di tipo kuwagata (corna
di cervo stilizzate). Sebbene l’elmo
non sia firmato, la forma e alcune
caratteristiche costruttive suggeriscono un’attribuzione alla scuola
Haruta, una delle più vecchie del
Giappone.
Maschera in ferro molto spesso e
pesante, finemente lavorata e finita
con lunghi baffi. La firma può essere letta come “Yoshiazu, abitante di
Morioka, fece questo in acciaio per
[la famiglia] Shimizu”. La maschera
può rientrare sicuramente nella tipologia ressei, date le caratteristiche
che ne configurano un’espressione
“feroce”, ma la presenza dei lunghi
baffi indica generalmente un chiaro
riferimento alla figura di Okina e alla
sua veneranda età.
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So-fukuri kabuto. Elmo da samurai
a 62 piastre. Inizio del periodo Edo
(1615-1867). Bijo menpō. Maschera
per armatura da samurai. Metà del
Periodo Edo (1615-1867). Giuseppe
Piva – Arte giapponese.
In questo elmo a 62 piastre i suji
molto prominenti sono coperti in
rame dorato.
Tehen no kanamono di eccezionale
fattura a sei livelli. Anche il maedate è originale del periodo Edo.
Maschera di tipo me no shita men
(“a mezzo volto”) in ferro naturale.
L’espressione aggraziata e la mancanza di rughe denota la tipologia bijo, “bella donna”. Yodare-kake
(protezione per la gola) a tre piastre
lisce laccate in nero (kuro-urushi) e
legate in sugake odoshi.
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Kakuzukin-nari kawari kabuto. Elmo
“straordinario” da samurai. Inizio del
periodo Edo (1615-1867). Provenienza: Kyōto, Museo Arashiyama.
Ressei menpō. Maschera per armatura da samurai. Scuola Myōchin.
Metà del Periodo Edo (1615-1867).
Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Il kakuzukin, un tipo di copricapo in
voga all’inizio del periodo Edo, era
costruito con un tessuto di forma
rettangolare, cucito lungo i bordi.
Questo elmo simula tale berretto
con una sovrastruttura in harikake,
cartapesta mista a lacca, sebbene,
a differenza di altri esemplari, riproduca anche delle plissettature
nel centro. In genere i kakuzukinnari kabuto sono completamente
lisci, ma questo ha una complessità
di lavorazione superiore e anche
all’interno è incisa una decorazione a linee parallele. La forma kakuzukin fu utilizzata dal secondo
shōgun Tokugawa, Hidetada (al potere dal 1605 al 1623), e da Hosokawa Tadaoki (1563-1646), signore
del dominio di Kukamoto.
Ferro con decori in argento. La forma della bocca e del mento, assieme all’uso d’intarsi d’argento per
disegnare i baffi, sono caratteristiche utilizzate da Myôchin Munesuke ed è quindi possibile attribuire il
presente lavoro ad un fabbro della
sua scuola.
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Kawari kabuto. Elmo “straordinario”
da samurai con forma di fantasia.
Metà del periodo Edo (1615-1867).
Ressei menpō. Maschera per armatura da samurai. Metà del Periodo
Edo (1615-1867). Giuseppe Piva –
Arte giapponese.
La forma non è conosciuta e rappresenta un unicum nel suo genere. Sembrerebbe non raffigurare
un elemento reale, come spesso
avviene per i kawari kabuto, se non
forse un grande maedate di forma
kuwagata, tipico delle armature
medievali. Gli elmi “straordinari”
con una calotta in ferro e rivestimenti in harikake iniziarono ad
essere prodotti durante il periodo
Momoyama (1573-1615) quando l’imporsi di kabuto dalle forme
spettacolari dovette confrontarsi
con esigenze pratiche: ottenuto
mischiando lacca urushi e cartapesta, questo materiale è molto leggero ed estremamente resistente
agli urti e quindi fu ampiamente
utilizzato per gli elmi dei più importanti generali.
Maschera per armatura in lacca
rossa (shu-urushi) con espressione
violenta (ressei). Interno in lacca
nera. Yodarekake (protezione per la
gola) a quattro piastre lisce laccate
in oro e legate in kebiki odoshi (allacciatura fitta).
25
Approfondimento
Le donne samurai
Le donne samurai (onna bugeisha, o donna guerriera) rivestivano una certa importanza in quanto
si occupavano prevalentemente dei propri figli e del proprio uomo, della loro educazione oltre che
dell’andamento vero e proprio della casa; se una donna nasceva in una famiglia samurai, anch’essa
era samurai appartenendo allo stesso gruppo sociale; una onna bugeisha doveva saper infondere
umiltà, obbedienza e rigore, imparava da piccola disciplina e autocontrollo, anche se la sua condizione sociale era chiaramente subordinata ai maschi. Doveva in ogni caso saper difendere la casa
durante l’assenza del marito e spesso era preparata in arti marziali e addestrata all’uso del naginata
(una lunga lama montata su un’asta) che divenne arma simbolica delle donne samurai. Tra le loro
tecniche c’era anche quella di nascondere dei piccoli pugnali tra la capigliatura come fossero dei fermagli e anche l’uso di un particolare ventaglio chiamato tessen. Molte mogli vedove rispondevano
alla chiamata per partecipare a battaglie a fianco degli uomini.
Anche se non è storicamente provato come personaggio realmente esistito, la figura di Tomoe
Gozen, moglie di Minamoto Yoshinaka del clan Minamoto ha avuto un grosso impatto sulla classe
guerriera, specialmente su molte scuole di naginata (oggi stesso il naginata-jitsu è un’arte marziale
praticata prevalentemente in Giappone da donne), e lo si riscontra dalla sua presenza su molte opere
pittoriche (ukiyo-e). Nel romanzo dell’Heike Monogatari (trattato sull’ascesa della famiglia Taira) si legge una delle leggende che parla della guerra Genpei (1180-1185) combattuta tra i Taira e i Minamoto,
dove proprio Tomoe Gozen, durante la battaglia di Awazu del 1184, guidò le truppe contro i nemici
disarcionando lei stessa il guerriero più forte, per poi decapitarlo.
Samurai women (onna bugeisha, or female warrior) were very important people as they were trained
to protect their husbands, children and households; if a woman was born in a samurai family, she
was also a samurai as she belonged to the same social group; an onna bugeisha was to be able to
convey humility, obedience and rigour; as a young girl, she was taught discipline and self-control,
even though her social condition was clearly subordinate to males. In any case, she had to be able to
defend her household when her husband was away and often she was trained in martial arts and in
the use of the naginata (a wooden shaft with a long blade on the end), which became the symbolic
weapon of samurai women. They used to hide small daggers in the hair, like hair slides, and also
resorted to a particular fan called a tessen (war fan). Many widowed wives responded to the call of
duty to take part in battles alongside with men.
Although her existence has not been historically ascertained, Tomoe Gozen, wife of Minamoto
Yoshinaka of the Minamoto clan, had an enormous impact on the warrior class, and especially
on many naginata schools (even today naginata-jitsu is a martial art practiced in Japan mainly
by women), as can be seen from many pictorial works (ukiyo-e). The novel Heike Monogatari (an
epic account of the ascent to power of the Taira family) contains a legend about the Genpei war
(1180-1185) fought between the Taira and the Minamoto, where Tomoe Gozen, during the Battle
of Awazu, led the troops against the enemies, personally unhorsed the strongest warrior and then
cut off his head.
26
Approfondimento
L’ULTIMO SAMURAI
Alla fine del XIX secolo, il governo Meiji abolì l’intero sistema feudale e formò un esercito moderno,
facendo così scomparire di fatto la tradizionale élite guerriera; il termine samurai non venne quasi
più usato; gli abiti e gli ornamenti del guerriero cambiarono drasticamente. Non c’era più bisogno
che gli uomini uscissero armati in strada e il diritto dei samurai di poter girare con le due spade
fu, appunto, abolito. Tuttavia un piccolo nucleo di fanatici, ormai senza impiego, considerò tutto
questo un tradimento nei confronti della storia stessa; il più deluso tra questi fu Saigō Takamori
che continuò a insegnare la via della spada in privato e, per tre anni, preparò di nascosto un’insurrezione. Pronto ad uscire allo scoperto, accusò uno degli agenti del governo che controllava le
sue scuole di spada di volerlo uccidere e eliminare. Con questo pretesto nel 1877 guidò l’ultimo
attacco dei samurai, la famosa ribellione di Satsuma, dove comandò ventimila uomini contro le
forze del governo. I suoi uomini vennero quasi tutti sterminati e Saigō morì. Non è chiaro come sia
morto, probabilmente o suicidandosi in un rifugio o dissanguato per colpa di un proiettile.
La sua testa comunque venne tagliata da un luogotenente per mantenere alta la sua reputazione
e, dopo la sua morte, “L’ultimo samurai” venne perdonato.
At the end of the 19th century, the Meiji government abolished the entire feudal system and formed
a modern army. This decision led to the disappearance of the traditional warring élite. The term
samurai almost fell out of use. The outfit and trimmings of the warrior changed radically. There was
no more need for men to carry weapons and the samurai were no longer allowed to go out armed
with two swords. However, a small number of fanatics – who had become unemployed – felt that
this was a betrayal of history itself. Among the most deeply disillusioned was Saigō Takamori who
continued to teach swordsmanship in private and spent three years preparing for an insurrection.
When he was ready to come out into the open, he claimed that one of the government agents
who controlled his sword schools wanted to kill him and get rid of him. Using this as an excuse,
he responded in 1877 with the last attack of the samurai, the famous Satsuma Rebellion, in which
he led some twenty thousand men against government forces. Almost all of his men were killed
and Saigō died, too. It is not clear whether he committed suicide in a mountain hideaway or died
from a bullet wound. However, a lieutenant cut off his head in order to imply a warrior’s death and
uphold his good name. After his death, the “last samurai” was forgiven.
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GLOSSARIO ARMATURE
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Bitsu
cassa per riporre l’armatura.
Daimyō
feudatari con grandi possedimenti (dal periodo Edo con una rendita annuale di
almeno 10.000 koku).
Dō
corazza per il tronco.
Fukigaeshi
alette frontali sul kabuto ottenute rivoltando la prima piastra dello shikoro.
Spesso portano il kamon della famiglia del samurai.
Haidate
protezione per le cosce.
Kabuto
elmo dell’armatura giapponese.
Kamon
simbolo araldico.
Katchu shi
armaiolo; costruttore di armature o di parti di armatura.
Kawari bachi/kabuto
coppo/elmo di forma non convenzionale (lett. “straordinaria”).
Kote
protezioni per le braccia.
Kusazuri
serie di protezioni pendenti dal dō per coprire il grembo.
Maedate
ornamento frontale del kabuto.
Men no shita men
(o Menpō)
maschera da armatura a mezzo volto, spesso con il naso staccabile.
Shikoro
protezione per il collo attaccata al coppo dell’elmo.
Sode
protezioni per le spalle.
Suneate
schinieri.
Wakidate
ornamenti laterali del kabuto.
Yodarekake
protezione per la gola attaccata al menpō.
Yoroi
armatura; termine utilizzato in genere per le armature medievali.
ARMOUR GLOSSARY
Bitsu
a box for storing the armour.
Daimyō
feudal lords who owned large estates (from the Edo periodo, they headed
domains with a yearly income of at least 10,000 koku).
Dō
a cuirass for the trunk.
Fukigaeshi
front winglets on the kabuto obtained by upturning the first plate of the shikoro.
Often, they are decorated with the kamon of the samurai’s family.
Haidate
a thigh armour.
Kabuto
the helmet of the Japanese armour.
Kamon
a coat of arms.
Katchu shi
armourer; armour maker.
Kawari bachi/kabuto
a helmet bowl of unconventional shape (lit. “extraordinary”).
Kote
an armoured sleeve.
Kusazuri
pendant sections hanging from the dō to cover the lap.
Maedate
a decorative fitting mounted on the front of the kabuto.
Men no shita men
(o Menpō)
a mask covering the face below the eyes; often the nose could be detached.
Shikoro
the neck guard for the helmet.
Sode
shoulder guards.
Suneate
a shin guard.
Wakidate
decorative features fitted to the sides of the kabuto.
Yodarekake
a throat defence attached to the menpō.
Yoroi
armour; term generally used for medieval armours.
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Tantō (pugnale), scuola di
forgiatura Bizen. 1630-1650.
A firma Osafune Sukesada.
Collezione Paolo Cammelli.
Tantō di cm 22, struttura
morohazukuri, scuola di tradizione Bizen, forse la più
famosa ed apprezzata nel
Giappone medioevale ed
anche oggi – firma Bizen
Kuni Ju Osafune Sukesada.
Ammirevole pugnale d’inizio epoca Shinto, che dopo
ben 400 anni conserva ancora integre tutte le sue originarie caratteristiche, nella
hada e nello hamon.
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Tantō (pugnale), scuola di forgiatura Tegai. Inizi 1700.
A firma Yoshu Ju Fujiwara Kanenaga.
Collezione Paolo Cammelli.
Tantō (pugnale) forgiato nel 2008 a firma Yoshindo Yoshihara.
Collezione Paolo Cammelli.
Tantō di cm 31,5 di classica forma e lunghezza, scuola
di tradizione Yamato Tegai a firma Yoshu Ju Fujiwara
Kanenaga. Prodotto ad inizio 1700 fra l’era Genroku e
la Hōei, il pugnale è classificato come Tokubetsu Kicho
(extraordinary work). Il nome della scuola deriva dal
Tegaimon (cancello) del tempio Tōdai-ji di Nara in cui
i forgiatori vivevano e lavoravano, producendo lame
che poi i monaci commercializzavano.
Tantō di cm 24 a firma Yoshindo Yoshihara - Mukansa e
Tokyo to Mukei Bunkazai - maestro forgiatore al di sopra
di ogni giudizio e Tesoro Vivente della città e prefettura
di Tokyo. Lama di recente produzione, ma simile nella tipologia ad un esemplare del grande artista Bizen
Osafune Kagemitsu (attivo dal 1303 al 1335). Le piccole dimensioni servivano per facilitarne l’occultamento
sotto le vesti. Politura a cura del Maestro Leon Kapp.
Wakizashi (spada corta)
forgiata nel 2008 a firma
Yoshindo Yoshihara.
Collezione Paolo Cammelli.
Wakizashi di cm 48 a firma
Yoshindo Yoshihara. Spada corta e molto robusta,
simile a quella conservata
a Firenze nel Museo Nazionale del Bargello. La
politura della lama è opera di un valente mukansa
giapponese.
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Approfondimento
LA STORIA DEI 47 RŌNIN
Nei primi anni del 1700 il daimyō Asano Takumi no kami Naganori, signore di Akō, mentre era
all’interno del palazzo shogunale a Edo e veniva istruito sulle regole da seguire per accogliere l’Imperatore, fu gravemente offeso dal maestro di protocollo Kira Kozukenosuke Yoshinaka. Per reazione Asano sfoderò un pugnale per colpire Kira, colpa considerata gravissima perché compiuta nel
palazzo dello shōgun. Asano fu costretto a suicidarsi tagliandosi il ventre (seppuku) e i samurai che
lo accompagnavano si ritrovarono nella condizione di rōnin, samurai girovaghi senza un signore.
Dopo poco tempo 47 di loro si ritrovarono e decisero di vendicare Asano. La vendetta fu compiuta
il 15° anno dell’era Genroku, 12° mese, 14° giorno (30 gennaio 1703): i rōnin assaltarono il palazzo
di Kira e, dopo un feroce scontro con le guardie, gli tagliarono la testa e andarono a deporla sulla
tomba del loro signore. Nonostante avessero seguito le regole del bushidō, dopo circa due mesi il
governo li condannò e tutti compirono il suicidio rituale. Ancora oggi le loro tombe sono visibili
presso il tempio Sengakuji a Tōkyō. La storia da subito suscitò grande scalpore e da essa venne
ricavato il dramma Chūshingura, che diventò subito un classico, parte integrante della tradizione
giapponese: la storia fu proposta nel teatro delle marionette (bunraku) e successivamente nel kabuki e ancora oggi viene regolarmente messa in scena nel periodo di fine anno.
At the start of the 18th century, the daimyō Asano Takumi no kami Naganori, lord of Akō, was inside
the shōgun palace in Edo to be instructed on the rules to be followed to welcome the emperor
when he was seriously offended by a court official named Kira Kozukenosuke Yoshinaka. As a
reaction, Asano drew his dagger to stab Kira. This action was considered a grave offence, because it
was committed within the boundaries of the shōgun’s residence. Asano was compelled to commit
seppuku (self-disembowelment), so his retainers were left leaderless and became rōnin. After some
time, forty-seven of them banded together in order to avenge their master. In Genroku 15, on the
14th day of the 12th month (30 January 1703) the revenge was taken: the rōnin attacked Kira’s
residence and, after a fierce struggle with his retainers, they cut off his head and carried it to their
lord’s grave. Although the rōnin had followed the precepts of bushidō, after about two months
they were sentenced to death and ordered to commit seppuku. Their graves can still be seen at
the Sengakuji Temple in Tōkyō. The story immediately caused a sensation and inspired the drama
Chūshingura, which soon became a classic and an integral part of Japanese tradition. It was staged
in the puppet theatre (bunraku) and later in the kabuki. Even today the drama is put on regularly
at the end of the year.
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Tsuba Choshu Kawaji. Metà del periodo Edo (16151867). Ferro con intarsi in oro; mm 71x67x4.
Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Iscrizione in corsivo sul lato ura e firma “Choshu Hagi
ju, Kawaji Tomonao”. Tomonao, fabbro della scuo-
la Kawaji, era fratello di Tomomichi. Più tardi aprì la
propria scuola Kawaji Beppa. Come in questo caso, le
sue opere sono generalmente realizzate in nikubori
ji-sukashi e ita tsuba consukidashibori. Talvolta usava
combinare tecniche della scuola Bushu Ito con quelle
Shoami.
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Tsuba Choshu. Metà del periodo Edo (1615-1867) Ferro intagliato; maru-gata;
mm 60x47x4. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Motivo con hyotan namazu. Il motivo del pesce gatto (namazu) che esce da una
zucca si correla al concetto zen di elusività. Come scrisse D.T. Suzuki nel 1959:
“L’elusività della verità o della realtà, quando uno cerca di descriverla per mezzo
di concetti logici o di definizioni, è come cercare di catturare un pesce gatto con
una zucca”.
Tsuba Choshu. Metà del periodo Edo (1615-1867). Ferro con lumeggiature in
oro; maru-gata; mm 71x68x5. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Motivo con ninfee. L’opera è firmata “Choshu Hagi ju Nakai Zensuke Tomotsune”.
La Choshu fu la più grande scuola di produzione di tsuba fin dai primi anni del
XVII secolo. Il ramo Nakai nacque circa cent’anni dopo con il primo Tomotsune
e continuò per tutto il periodo Edo. Il ferro è ben forgiato e la patina è scura.
Tsuba Kyo-sukashi. Metà del periodo Edo (1615-1867). Ferro; maru-gata;
mm 78x78x5. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Motivo con kamon e fiori. L’inusuale disegno a traforo include due kamon inseriti in un paesaggio naturale con una pianta, alcuni fiori e onde. Le dimensioni e la
tipologia del disegno suggeriscono l’attribuzione ad un artista di Kyōto.
Tsuba Kaga Yoshiro. Fine del periodo Muromachi (1336-1573). Ferro con intarsi
hira-zogan in ottone; mm 82x82x4. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Motivo con ruote e volpe. Tsuba Yoshiro della regione di Kaga in stato di conservazione originale. Il ferro mostra un tekotsu di ottima fattura e gli intarsi sono
intatti. Nel XVI secolo l’ottone era ancora un metallo importato dalla Cina e considerato molto prezioso. La forma di tipo mokko con intarsi a forma di cuore è
quella utilizzata tipicamente per le montature di tipo handachi. La tecnica hirazogan, con l’intarsio levigato allo stesso livello della superficie della tsuba, è tipica
della zona di Kaga. Trattamento a punti martellati in alcune zone della superficie.
Tsuba Bushu. Seconda metà del periodo Edo (1615-1867). Ferro; maru-gata;
mm 78x78x6. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
La tsuba raffigura una veduta di stile cinese, con pagode che si stagliano su rocce e alberi con rami articolati, probabilmente presa da qualche dipinto di scuola
Kano. Il ferro è ben forgiato e la patina è scura. Firmata “Bushu ju Masatsune”.
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Choshu tsuba. Provincia di Nagato, metà del periodo Edo
(1575-1615). Ferro traforato e intagliato; mm 71x65x4,5.
Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Tsuba Aizu Shoami. Seconda metà del periodo Edo (16151867). Ferro con lumeggiature in oro; mokko-gata; mm
85,9x79,2x3,4. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Firmata: “Choshu Hagi Ju Yoshikatsu”. Tsuba ovale in ferro con decoro traforato (sukashi) e intagliato (takabori) a
motivo di crisantemi e fasci di erba, simboli dell’autunno.
Il bordo è decorato con una complessa damaschinatura
in oro (zogan). Incoraggiati dal governo locale, i fabbri di
Hagi produssero tsuba destinate all’esportazione verso le
altre province, talvolta copiando gli stili delle altre scuole
e talvolta, come in questo caso, mostrando le loro caratteristiche tradizionali. I soggetti più comuni sono quelli naturalistici (fiori, frutta, animali o paesaggi di tipo cinese).
Motivo con attributi di Kato Kiyomasa, uno dei più famosi samurai del Giappone: sono raffigurati, in bassorilievo
con dorature, un elmo di tipo eboshi decorato sul fianco
con un grosso kamon circolare di tipo janome (occhio di
serpente) e un grande katamayari, un tipo di arma in asta;
sul retro un frustino da cavallo (muchi).
La superficie della tsuba è lavorata sul fronte in ishimeji
per simulare la pietra, mentre il retro è finito in tsuchimeji,
una sorta di martellamento.
Soten daishō. Periodo Edo (1615-1867). Ferro; tate maru-gata; dai: mm 78x74; sho: mm 75x71.
Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Scene dalla guerra di Genpei con figure di guerrieri in bassorilievo e dettagli in oro. Bordo a torciglione in shakudo.
La scuola Soten fu fondata da Soheishi Nyudo a Hikone (Goshu) nel XVII secolo. Il soggetto che maggiormente si diffuse, quando questo stile divenne di moda, fu quello degli episodi tratti dalla guerra tra Taira e Minamoto (Gen-Pei).
Le opere più antiche sono caratterizzate da una maggiore definizione dei particolari e possono essere realizzate in
shakudo, laddove quelle più tarde sono rifinite più grossolanamente e sono sempre in ferro.
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Approfondimento
SEPPUKU
Il seppuku (conosciuto in Occidente anche con il termine harakiri) indica il suicidio rituale praticato
dal samurai. Il gesto veniva eseguito, secondo un rito estremamente codificato, per espiare una
colpa o per non subire una morte disonorevole per mano del nemico. Nel periodo Edo divenne anche una forma di condanna a morte, rispettosa del condannato. Il taglio del ventre doveva essere
eseguito da sinistra verso destra e poi verso l’alto, esattamente sull’addome, ritenuto sede dell’anima e quindi di emozioni e volontà: con il taglio l’anima poteva liberarsi e tornare pura. Era questo il
modo più onorevole che il samurai aveva per togliersi la vita, dimostrando inoltre il suo coraggio.
Il samurai doveva essere seduto su uno sgabello o, più spesso, in ginocchio con le punte dei piedi
distese in modo che il corpo esanime potesse cadere solo in avanti, raggiungendo la morte più
onorevole. Per preservare ancora di più l’onore del samurai e fare in modo che il dolore non gli
sfigurasse il volto, un fidato compagno, chiamato kaishakunin, decapitava il samurai appena egli
si era inferto la ferita all’addome: il kaishakunin doveva essere un abile spadaccino in grado di tagliare quasi completamente il collo, con un colpo netto ma senza provocare il distacco della testa.
L’arma usata per autoinfliggersi il taglio al ventre poteva essere il tantō (coltello), anche se più
spesso, come avveniva sul campo di battaglia, la scelta ricadeva sul wakizashi, conosciuto anche
col nome di “guardiano dell’onore”. Anche le donne praticavano il suicidio conosciuto col nome di
jigai; il taglio era alla gola, dopo essersi legate i piedi insieme, per non assumere posizioni scomposte dopo l’agonia.
Seppuku (also known in the Western world as harakiri) is the ritual suicide committed by the
samurai. Seppuku was performed, according to a strictly codified ritual, as an expiation of guilt or
to die with honour rather than at the hands of enemies. During the Edo period it was also a form
of capital punishment which was respectful of the condemned person. The disembowelment had
to be performed from left to right in a slicing motion and then upwards, into the abdomen, which
was thought to contain the soul and be the source of emotions and will. Therefore, when the
samurai stabbed himself in the stomach, the soul would be released and regain purity. This was
the most honourable way for a samurai to commit suicide and show his courage.
The samurai had to sit on a stool or on his heels so that his lifeless body could only fall forward, for
a more honourable death. In order to preserve the honour of the samurai and prevent pain from
disfiguring him, a trusted attendant, called kaishakunin, decapitated the samurai as soon as the
warrior cut his belly. The kaishakunin needed to be a very skilled swordsman: he had to cut the
neck almost completely, with a sharp stroke, without severing the head.
The weapon used for the self-disembowelment could be the tantō (knife), although more
frequently – as was the case on the battlefield – the choice fell on the wakizashi, also called the
“guardian of honour”. Women had their own ritual suicide, jigai. The woman cut her throat, after
tying her legs together, in order to ensure a decent posture in death.
38
Per una migliore conoscenza
delle nihontō
(lame giapponesi)
di Paolo Cammelli
Caratteristiche fondamentali
Elemento essenziale di una nihontō (viene spesso usato
anche il termine tōken) è che sia forgiata per stratificazione a caldo di acciaio al carbonio, usando esclusivamente il metodo tradizionale tramandato dai maestri
artigiani giapponesi per oltre mille anni. La lavorazione produce dalle 20.000 alle 30.000 stratificazioni di
spessore molecolare, rendendo la spada giapponese
estremamente resistente alla flessione ed alla rottura.
Un maestro forgiatore impiega mediamente 10 giorni
per produrre una lama. L’odierno valore commerciale di
un’autentica lama giapponese è dato dall’importanza
dell’artista e dallo stato di conservazione del manufatto.
Fra le cinque principali scuole di forgiatura medioevali, ricordiamo la Yamato (la più antica) e la Bizen (la più
famosa). Entrambe risultano ben rappresentate nelle
lame presenti in mostra, sia nei due splendidi manufatti
di epoca Edo, che in quelli di recente produzione (definiti shinsakutō) ad opera del mukansa e Tesoro Vivente
maestro Yoshindo Yoshihara.
Mitologia
Si narra che il Dio Susa no ō, figlio del creatore delle isole
giapponesi, uccise un drago dalle otto teste e dentro la
coda vi trovò una lunga spada, poi passata in eredità agli
imperatori giapponesi, che consegnò a sua sorella, la
dea solare Amaterasu. Ancora oggi, durante l’incoronazione, all’imperatore è consegnata una spada, simbolo
dell’unione fra cielo e terra.
Principali tipologie
Dai-shō – così si definisce l’insieme delle due spade del
samurai, una lunga (dai) l’altra corta (shō).
Katana o Uchigatana – questa tipologia sostituì la tachi
ed è ancora oggi in uso. La spada inserita nel fodero
viene portata dal samurai dentro la propria cintura (obi)
con la lama rivolta verso l’alto per facilitare la rapidità di
estrazione. Lunghezza generalmente variabile fra i 60,6
ed i 65 cm. in funzione dell’altezza del guerriero.
Tachi – spada sensibilmente ricurva, in uso nei tempi più
antichi fino a metà del XV secolo, da portare in un fodero appeso alla cintura, con il tagliente rivolto verso il
basso. Lunghezza variabile, generalmente oltre i 65 cm.
Tantō – pugnale, sempre di dimensioni inferiori ad uno
shaku (30,3 cm).
Wakizashi – spada corta per uso da taglio o da combattimento in luoghi angusti. Il samurai la portava infilata
nell’obi assieme alla katana.
Nomenclatura della spada giapponese
Ha – è il tagliente temperato ed affilato della lama, la
parte più dura della spada. Molti i fattori che concorrono alle sue superlative caratteristiche di taglio e resistenza: il sistema di forgiatura per stratificazione, i tipi
di acciaio usato ed il loro contenuto in carbonio, le capacità del maestro forgiatore nell’eseguire la tempera
(yakiire). Da “sfatare” una distorta immagine cinematografica della katana giapponese: infatti non è la lama
che taglia una piuma che vola, ma eventualmente la
grande capacità del samurai nell’usare la spada.
Hada – è così definita come visivamente appare la trama superficiale di una lama. In genere si ha somiglianza con le venature del legno. Ogni forgiatore esprime
la sua arte in tale visione naturalistica dell’aspetto
esteriore delle superfici del metallo.
Hamon – è il disegno che appare sul tagliente della
lama a seguito della tempera detta yakiire. Il processo
di indurimento per shock termico provoca una cristallizzazione dell’acciaio e la conseguente formazione di
“figure” di diverso colore che vanno ad evidenziarsi vicino al filo della lama. È il forgiatore che a priori studia
e crea la realizzazione di un suo personale e artistico
hamon. Seguendo un’ispirazione in parte scintoista,
generalmente appaiono figure simili a onde, nuvole,
elementi della natura.
Kissaki – punta della spada.
Koshirae – termine genericamente usato per indicare
la montatura, il fodero della spada. Le tipologie, la laccatura e le decorazioni artistiche variano in funzione
della destinazione d’uso.
Mukansa – titolo conferito ai forgiatori di rara bravura e
significa: “maestro al di sopra di ogni giudizio”.
Nakago – è il codolo, la parte terminale della lama. Il
nakago non è temperato e generalmente riporta incisa
a bulino la firma (mei) del maestro forgiatore e talvolta
la data.
Saya o Shirasaya (con Sayagaki) – semplice fodero, non
decorato né laccato, in legno stagionato di magnolia,
usato per conservare e proteggere la lama dall’umidità.
39
Per sayagaki si intende l’eventuale iscrizione esterna a
bella calligrafia di una perizia sulla lama.
Tatara – fornace in cui viene artigianalmente prodotto l’acciaio poi destinato alla fabbricazione delle lame
giapponesi. Il processo di fusione dura tre giorni consecutivi, immettendo nel tatara sabbia ferrosa e carbone di legna.
Tsuba – è la guardia in metallo della lama, inserita sulla
stessa quando montata sul koshirae. Oltre a proteggere
la mano ha spesso assunto funzioni decorative.
Tsuka – è l’impugnatura del koshirae. Ricoperta di semplice same (pelle del pesce razza) oppure ulteriormente avvolta di lacci in seta e cotone, il tutto per rendere
più sicura la presa della mano, che potrebbe venire
meno a causa di sangue o sudore.
Yakiire – è il processo di tempera, per raffreddamento
repentino in acqua della lama incandescente. Si avvia
così un processo fisico-chimico che trasforma ed indurisce le molecole dell’acciaio, rendendo il manufatto
molto resistente ed atto al taglio.
For a better understanding
of nihontō
(japanese bladed weapons)
by Paolo Cammelli
Basic features
An essential element of a nihontō (the term tōken
is also frequently used) is for it to be hot-forged in
alternating layers of carbon steel using only the
traditional method handed down by Japanese sword
makers for over a thousand years. The lamination
process results in a complex structure of 20,000 to
30,000 layers of molecular thickness, which makes
the Japanese blade highly resistant to bending and
breaking. A forging master normally needs 10 days to
manufacture a blade. The present commercial value
of a genuine Japanese bladed weapon is given by the
importance of the artist and the state of conservation
of the artefact. Among the five medieval forging
schools, it is worth mentioning Yamato (the most
ancient one) and Bizen (the most famous one). The two
are well represented in the bladed weapons on show
in the exhibition, both in the two magnificent Edo
artefacts and in the recent manufacture items (called
shinsakutō) created by mukansa and Living Treasure
master sword maker Yoshindo Yoshihara.
Mythology
The story goes that the God Susa no ō, son of the
creator of the Japanese islands, killed an eight-headed
dragon whose tail contained a long sword. This sword
from the dragon’s tail was presented by Susa no Ō to
his sister Amaterasu, goddess of the sun, who then
bequeathed the weapon to the emperors of Japan.
Even today, during the enthronement ceremony,
the emperor receives a sword symbolizing the union
between heaven and earth.
Main types
Dai-shō – This is the Japanese term for a matched pair of
samurai swords, the long (dai) and the short one (shō).
Katana or Uchigatana – This type of sword is the
40
descendant of the tachi and is still used today. The
sword contained in its scabbard is worn by the
samurai thrust through a belt-like sash (obi) with the
sharpened edge facing up for easy, quick extraction.
The length ranges from 60,6 to 65 cm, depending on
the warrior’s height.
Tachi – A markedly curved sword, used in ancient
times and until the mid-15th century, it was worn
hung from the belt with the cutting edge down. The
length is variable, generally over 65 cm.
Tantō – A dagger, always smaller than a shaku (30,3 cm).
Wakizashi – A short blade for cutting or close quarters
fighting. The samurai used to carry it inside the obi
together with the katana.
Nomenclature of the Japanese sword
Ha – It is the hardened, tempered cutting edge of the
blade, the hardest part of the sword. Many factors
contribute to its excellent features in terms of cutting
and strength: the multi-layered forging system, the
types of steel used and their carbon contents, the
skills of the forging master in tempering the material
(yakiire). It is important to debunk the typical film
image of the Japanese katana: indeed, it is not
the blade that cuts a flying feather, but rather the
extraordinary skill of the samurai in using the sword.
Hada – It is the grain pattern of a blade, generally
similar to wood grain. Every forging master expresses
his art through this naturalistic vision of the outer
appearance of metal surfaces.
Hamon – It is the temper pattern along the blade edge
resulting from the quenching process called yakiire.
The hardening process by thermal shock results in the
crystallization of steel with the subsequent formation
of patterns of different colour near the edge of the
blade. It is the forging master who studies and creates
his own personal, artistic hamon. Following a partially
Shinto inspiration, the patterns that appear are similar
to waves, clouds and natural elements.
Kissaki – The point of the sword.
Koshirae – A term generally used to indicate the
scabbard, handle and fittings. The types, lacquering and
artistic decorations vary according to the intended use.
Mukansa – Title conferred to exceptionally skilled
forgers, meaning “master whose work is above
judgment”.
Nakago – It is the tang, i.e. the butt of the blade. The
nakago is not tempered and normally carries the
engraved signature (mei) of the forging master and
sometimes the date.
Saya or Shirasaya (with Sayagaki) – It is the simple
scabbard, neither decorated nor lacquered, made of
seasoned magnolia wood, used to keep and preserve
the blade from humidity. The sayagaki is an appraisal
written in calligraphy on the blade.
Tatara – It is the smelter used for making sword steel.
The melting process goes on for three consecutive
days during which ferrous sand and charcoal are
placed into the tatara.
Tsuba – It is the metal sword guard mounted on the
koshirae. Besides protecting the hand, it also fulfils a
decorative function.
Tsuka – It is the handle of the koshirae. It is covered
with simple same (skin from belly of giant ray) or
wrapped in silk and cotton thongs in order to improve
grip and prevent slipping due to blood or sweat.
Yakiire – It is the hardening process whereby the
white-hot blade is quickly cooled in water. By so doing,
a physical-chemical process is started that transforms
and hardens the steel molecules. The blade acquires
strength and becomes suitable for cutting.
41
42
Il kimono, storia di un’icona
culturale
di Alessandra Scalvini
Dietro il termine kimono (letteralmente “cosa da indossare”, da ki “indossare” e mono “cosa”) si nasconde la storia, il patrimonio di conoscenze e la cultura del vestire
di un popolo, tanto da non poter essere considerato
solo un semplice indumento, ma uno dei maggiori simboli culturali del Giappone.
Il kimono è una veste a forma di “T” realizzata da un unico rotolo di stoffa lungo circa 12 m e largo 40 cm, dal
quale si ricavano diverse strisce, che saranno poi cucite
assieme: due più lunghe che coprono verticalmente il
corpo, passando sopra le spalle; due liste per le maniche; una piccola lista per il colletto e due strisce di metà
larghezza che vanno a formare i risvolti frontali. Il kimono si indossa portando il lembo sinistro sopra quello
destro (viceversa solo per vestire i defunti), aggiungendo una cintura (obi) che viene avvolta più volte intorno
alla vita prima di essere annodata a fiocco sulla schiena. A differenza del kimono maschile, quello femminile
non ha taglie, il tessuto in eccesso deve essere sapientemente rimboccato al di sotto dell’obi, in modo che la
veste raggiunga l’altezza delle caviglie, considerata la
giusta lunghezza. Il kimono rispecchiava perfettamente
quelle che erano anche le esigenze socio-culturali secondo cui, quando si entra in casa, è opportuno togliersi le scarpe e sedersi, a gambe incrociate gli uomini e in
ginocchio le donne, sul tatami, luogo deputato anche
al riposo e alla consumazione dei pasti. Il kimono, facile da pulire poiché si lavavano le varie strisce di stoffa
scucendole e poi imbastendole nuovamente insieme,
si prestava bene a tali movimenti ed era facile da sistemare una volta tornati in piedi.
Il kimono non valorizza particolarmente le forme femminili, la biancheria da indossare deve schiacciare il
corpo e conferirgli una forma il più cilindrica possibile,
anche grazie ad alcune imbottiture utilizzate per permettere alla stoffa di restare dritta e tesa. La sensualità
della donna deve imporsi nell’eleganza e nell’armonia
dei suoi gesti, nel fascino del celato, ecco perché nei
kimono molta attenzione è riservata anche alla parte
interna, che solo le persone a lei più vicine potranno
vedere e apprezzare, così come l’animo stesso della
donna.
Per la scelta del kimono da indossare scendono in
campo diversi fattori: l’occasione d’uso e il grado di
formalità dell’evento, la stagione, l’età e lo stato civile
della donna.
A seconda dell’importanza dell’avvenimento al quale si
deve partecipare, verrà scelto un certo tipo di kimono
con determinate caratteristiche; la lunghezza delle maniche, ad esempio, indica chiaramente se una donna è
sposata o meno: le giovani ragazze nubili avranno delle lunghissime maniche, con cui richiamare l’attenzione degli uomini, le donne maritate porteranno invece
maniche più corte. I colori e i disegni delle vesti vanno
scelti in base al periodo dell’anno, i motivi e le colorazioni devono infatti evocare mesi e stagioni.
I kimono maschili sono più semplici, quello più formale
è completamente nero ed è reso più solenne dall’aggiunta dell’hakama (una specie di gonna-pantalone
molto lunga) e dell’haori e dalla presenza di 5 kamon.
La Cina, nel VII secolo, influenzò non solo la vita politica del Giappone, ma anche il suo abbigliamento. Furono adottati due tipi di vesti caratteristiche della Corte
cinese: il kimono si è evoluto da una di esse, chiamata
tarikubi (“collo sovrapposto sul davanti”) che, nel periodo Heian (794–1185), si trasformò in un abito specifico
dell’isola nipponica, il jūnihitoe (“dodici vesti sfoderate”).
Le donne di Corte usavano indossare fino a 12 vesti, una
sopra l’altra, infilate poi nell’hakama. Sotto a tutto ciò
portavano una sorta di sottoveste detta kosode (“manica
piccola”). Durante il periodo Kamakura (1185–1333), la
creazione dello shogunato portò a una semplificazione
dell’abbigliamento che condusse all’utilizzo come capo
esterno del semplice kosode, considerato l’indumento
principale, sia maschile che femminile, anche nel corso
del periodo Edo (1615–1868). La sempre maggiore richiesta di kosode in seta portò alla creazione di veri e
propri cataloghi con i modelli delle decorazioni. Lo studio di queste pubblicazioni mostra l’esistenza di diversi
stili nell’ambito dei kosode: ad esempio nell’era Keichō
(1596–1615) usavano composizioni geometriche con
colori forti, mentre nell’era Kanbun (1661–1673) le decorazioni erano più semplici ma più grandi. Nel 1682
e nel 1683 furono emanate delle leggi suntuarie per
frenare lo sfarzo con cui la classe mercantile si vestiva,
leggi che comunque furono subito raggirate. A fine XVII
secolo la decorazione del kosode si concentrò solo sulla
metà inferiore, mentre nella II metà del Settecento molto spesso si trovavano dei motivi di piccoli dimensioni
solo sul bordo inferiore della veste.
Le riforme Tenpō, tra il 1841 e il 1843, imposero una
drastica riduzione di beni di lusso per i mercanti, che
elusero tali imposizioni indossando dei preziosi sottokimono sotto a dei sobri kimono.
La bellezza e la ricercatezza di questi particolari potevano essere scoperte solo da persone che avevano una
certa intimità con il soggetto che li indossava, questa
tendenza divenne una vera e propria moda nominata
iki (“eleganza sobria”).
43
Nel 1854 il Giappone fu costretto ad aprirsi all’Occidente; durante il periodo Meiji (1868–1912) il governo
si adoperò per la modernizzazione e l’occidentalizzazione del paese. Artigiani e artisti giapponesi furono
mandati in Europa per apprendere le tecniche più moderne riguardanti le attrezzature e i materiali tessili e
per studiare le tinture chimiche, visto che il Giappone
era ancora vincolato alle tinture vegetali.
Questo avvicinamento all’Occidente portò dei cambiamenti anche nell’abbigliamento: prima gli uomini,
poi le geisha, infine le donne in generale, iniziarono ad
indossare abiti occidentali, seppure con qualche adattamento.
In questo periodo il termine kosode fu sostituito dal termine più generico kimono, che sostanzialmente indicava lo stesso oggetto con delle differenze riguardanti
solo le maniche: il kimono aveva un’apertura del giromanica più grande e le maniche staccate dalla veste,
mentre nel kosode erano unite al corpo dell’indumento.
Le donne continuarono a portare il kimono, ma va
sottolineato che le correnti artistiche occidentali influenzarono i motivi tradizionali nipponici. L’inizio del
Novecento vide la nascita di un nuovo tipo di donna,
giovane e indipendente, lavoratrice, con una certa disponibilità economica: i kimono più apprezzati furono
quelli informali, dai colori sgargianti e motivi vivaci, acquistabili a prezzi contenuti. Negli anni Dieci si diffuse
lo stile detto taishō roman che presenta disegni fantasiosi e dinamici che si rifacevano alla natura.
44
I motivi decorativi dei kimono, durante i periodi Taishō
(1912–1926) e inzio Shōwa (1926–1989), risentirono dell’influenza prima dell’art nouveau e poi dell’art
déco; questo tipo di vesti furono considerate come un
sinonimo di modernità e di stile ricercato, pur rivelando
ancora un’anima giapponese.
La modernizzazione nipponica nel campo dell’abbigliamento si vide anche attraverso i disegni simbolo
della modernità (grattacieli, automobili, aerei, treni
e scene di guerra) sui sottokimono e sulle fodere degli haori maschili e anche, alcune volte, sui kimono da
bambini.
Il Giappone si ritrovò in ginocchio dopo la pesante
sconfitta della Guerra del Pacifico. Dopo il 1945, il kimono fu visto per molto tempo come emblema dell’ultranazionalismo del paese; i giapponesi volevano invece
lasciarsi alle spalle questo difficile passato e, dal punto
di vista dell’abbigliamento, la questione fu facilitata
non solo dall’occidentalizzazione del vestiario, ma anche dall’importazione dall’America di cotone e dall’introduzione della macchina da cucire e dei cartamodelli.
Oggi molte giapponesi continuano ad amare lo stile
occidentale, tuttavia il kimono resta ancora molto usato sia grazie alla promozione di kimono più semplici,
pratici e economici; sia per la moda, sviluppatasi tra le
giovani, di ricercare kimono vintage; sia per le feste in
cui, come da tradizione, alla donna è richiesto di indossare il kimono.
The Kimono, history of a
cultural icon
by Alessandra Scalvini
The term kimono (which literally means “thing to wear”,
from ki “wear” and mono “thing”) unfolds the story, the
heritage and the clothing culture of a people, so much
so that it cannot be considered as a mere garment, but
one of the most important cultural symbols of Japan.
The kimono is a T-shaped robe made from a single bolt
of fabric, about 12 m (13 yd) long and 40 cm (15 in)
wide. The finished kimono consists of several strips
of fabric sewn together: two longer panels covering
the body lengthwise, passing over the shoulders;
two panels forming the sleeves; a smaller strip for the
collar and two half-width strips for the narrow front
panels. The kimono is worn with the left side over the
right (the other way round when dressing the dead for
burial), adding a sash (obi) which is wrapped around
the waist and then tied at the back in a bow. Unlike
the male garment, the female kimono is one size. The
exceeding fabric must be skilfully rolled up behind the
obi, so that the robe reaches down to the ankles, which
is considered the appropriate length. The kimono
perfectly met the sociocultural requirements whereby,
when going indoors, people were supposed to take off
their shoes and sit cross-legged (the men) or on their
knees (the women) on the tatami, which was also the
place for rest and meals. The kimono was easily washed
as separate panels, which were then sewn again, and it
was very convenient for those kinds of movements. It
was also easy to tidy the kimono up when the person
was standing again.
The kimono does not make the most of the female
form; the underwear is supposed to flatten the body
and give it a cylindrical shape with the additional
aid of waddings used to keep the fabric straight and
stretched. Femininity depends on elegance, on the
harmony of gestures, on the appeal of what cannot
be seen. This is the reason why the inner parts of the
kimono are also very accurate: only the people that are
closest to her can see and appreciate them, like the
soul itself of the woman.
The choice of which type of kimono to wear depends
on a number of factors: the intended use, the formal or
informal nature of the event, the season, the age and
the marital status of the woman.
Depending on the importance of the event to be
attended, a different kimono will be chosen. The
length of the sleeves, for instance, is a clear indication
of whether a woman is married or not: young,
unmarried girls will wear extremely long sleeves, in
order to attract men, whereas married women will
wear shorter sleeves. The colours and patterns of these
traditional garments are normally chosen according
to the period of the year, since motifs and tones are
supposed to recall months and seasons.
Male kimono are simpler.
The most formal one is full black and made more
solemn by adding the hakama (a sort of very long
divided skirt), the haori and 5 kamon.
During the course of the 7th century, China influenced
not only the political life of Japan but also its clothing
tradition. Two typical robes of the Chinese court were
adopted: the kimono is an evolution of one of these,
called a tarikubi (“overlapping neckline”) which, during
the Heian period (794–1185), evolved into a specific
garment of the Japanese island, i.e. the jūnihitoe
(“twelve-layer robe”). The court ladies in Japan used
to wear up to 12 robes, one on top of the other,
which were then covered with the hakama. Beneath
all this, they wore a sort of undergarment called a
kosode (“small sleeve”). During the Kamakura period
(1185–1333), the establishment of the shogunate led
to a simplification in clothing: the kasode became
the outer garment and the main outfit for both men
and women, also during the Edo period (1615–1868).
The ever increasing demand for silk kosode led to
the creation of proper catalogues with decoration
patterns. The study of these publications shows the
existence of different styles of kosode: for instance,
during the Keichō period (1596–1615) people
preferred geometric compositions in strong colours,
whereas during the Kanbun period (1661–1673)
decorations were simpler but larger. In 1682 and 1683
sumptuary laws were enacted to put a stop to the
conspicuous outfits of the merchant class, but such
restrictions were pretty much ignored. At the end of
the 17th century, the kosode was decorated only in its
lower part, while in the second half of the 18th century
small patterns could be found only on the lower hem
of the garment. The Tenpō reforms, between 1841 and
1843, imposed a drastic reduction on luxury items for
merchants, who circumvented the rule by wearing
precious under-kimono beneath simple kimono.
The beauty and refinement of these details could only
be noticed by people who were on intimate terms
with the person wearing them. This trend became a
real fashion called iki (“sober stylishness”).
In 1854 Japan was forced to open out to the West.
During the Meiji period (1868–1912), the government
started a programme of modernization and
westernization of the country.
Japanese craftsmen and artists were sent to Europe
in order to learn new techniques in the field of textile
45
equipment and materials and to study chemical dyes,
since Japan was still using vegetable dyes.
The opening of Japan to the West also introduced
changes in clothing. The men first, then the geisha
and later women in general started to wear Western
clothes, although with a number of slight adaptations.
In this period, the term kosode was replaced by the
more generic word kimono, which indicated the same
item, only with a few differences in the sleeves: the
kimono had a larger armhole and the sleeves were
detached from the garment, whereas in the kosode
they were sewn onto the robe.
Women continued to wear the kimono, but Western
artistic currents started to influence traditional
Japanese motifs. At the beginning of the 20th
century, a new type of woman began to appear: a
young, independent working person, with quite some
money at her disposal: informal kimono were much
appreciated, in bright colours and patterns, and they
could be bought at reasonable prices. In the 1910s the
so-called taishō roman style became popular, with its
dynamic, fanciful patterns inspired by nature.
The decorative patterns of kimono, during the Taishō
46
(1912–1926) and early Shōwa (1926–1989) periods,
were influenced first by art nouveau and later by
art déco; these models epitomized modernity and
refinement, but still had a Japanese soul.
Japanese modernization in clothing was also evident
through the new patterns inspired by the symbols of
modernity (skyscrapers, cars, aeroplanes, trains and
military designs) on under-kimono, on the linings of
male haori and, sometimes, also on children’s kimono.
Following the crushing defeat in the Pacific War, Japan
was brought to its feet. After 1945, the kimono was
considered as the emblem of ultra-nationalism. But
the Japanese wanted to leave the past behind and, as
far as clothing was concerned, things were made quite
easy not only by the westernization of fashion but
also by the imports of cotton from America and the
introduction of sewing machines and paper patterns.
Many Japanese women still love Western fashion, but
the kimono continues to be very widely used owing
to the large supply of simpler, cheaper and more
practical kimono, to the interest of young women in
vintage kimono and to the tradition of wearing this
traditional garment on special occasions.
Uchikake (kimono per sposa), periodo Showa, misure
cm 133x200. Antichi Kimono di Gloria Gobbi.
É indossato aperto, senza obi, sopra ad un’altra veste
chiamata kakeshita. Decorato con motivi beneauguranti in ricami policromi e fili d’oro.
47
Kimono estivo da donna, periodo tardo Meiji (1900-1920),
misure cm 117x159. Antichi Kimono di Gloria Gobbi.
Tecnica yuzen (il disegno è creato tracciando delle
linee in pasta di riso. Asciutta la pasta si applicano i
48
colori sul tessuto, la pasta poi viene lavata via e al suo
posto restano delle sottilissime linee bianche) con
applicazioni di fili d’oro e d’argento. Seta sha (seta a
trama larga, leggera e trasparente, molto adatta ai kimono estivi).
Nagajuban (sottokimono da donna), periodo Showa,
misure cm 128x141. Antichi Kimono di Gloria Gobbi.
Tecnica shibori (la seta viene costellata di piccolissimi
nodi, poi viene tinta. Una volta che i fili della legatura
saranno stati tolti, e la pressione che essi avranno esercitato sulla stoffa avrà causato dei piccolissimi rialzamenti del tessuto, apparirà il motivo decorativo).
49
Kimono da bambino, periodo inizio Showa (anni ’30),
misure cm 82x94. Antichi Kimono di Gloria Gobbi.
Il kimono è realizzato in seta dipinta a mano con applicazioni e decorazioni in fili d’oro.
50
Furisode (kimono formale da donna nubile), periodo
Showa (circa anni ’50), misure cm 126x157. Antichi
Kimono di Gloria Gobbi.
Tecnica yuzen (il disegno è creato tracciando delle
linee in pasta di riso. Asciutta la pasta si applicano i
colori sul tessuto, la pasta poi viene lavata via e al suo
posto restano delle sottilissime linee bianche) con
applicazioni di fili d’oro. Il furisode è realizzato in seta
rinzu (seta ottenuta tramite una tessitura molto complessa, è tra le più costose).
51
Kurotomesode (kimono formale da donna sposata) con
5 kamon, periodo Showa, misure cm 128x162. Antichi
Kimono di Gloria Gobbi.
Tecnica yuzen (il disegno è creato tracciando delle
linee in pasta di riso. Asciutta la pasta si applicano i
52
colori sul tessuto, la pasta poi viene lavata via e al suo
posto restano delle sottilissime linee bianche) con applicazioni di fili d’oro.
Il kimono è realizzato in seta chirimen (ha una superficie leggermente ruvida, ottenuta attorcigliando i fili
durante la tessitura).
Particolare del Kurotomesode (kimono formale da
donna sposata) con 5 kamon, periodo Showa, misure
cm 128x162. Antichi Kimono di Gloria Gobbi.
53
Nagajuban (sottokimono da donna), periodo inizio Showa (circa 1930), misure cm 124x135. Antichi Kimono di
Gloria Gobbi.
Tecnica yuzen su seta (il disegno è creato tracciando
delle linee in pasta di riso. Asciutta la pasta si applicano i colori sul tessuto, la pasta poi viene lavata via e al
suo posto restano delle sottilissime linee bianche).
54
Nagajuban (sottokimono da donna), periodo Meiji (fine ‘800), misure cm 127x131. Antichi Kimono di
Gloria Gobbi.
Il sottokimono da donna è realizzato in seta chirimen
(ha una superficie leggermente ruvida, ottenuta attorcigliando i fili durante la tessitura).
Nagajuban (sottokimono da uomo), periodo Showa
(anni ’50), misure cm 132x137. Antichi Kimono di Gloria
Gobbi.
Il sottokimono è un modello realizzato in seta e dipinto
a mano.
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Kimono da donna, periodo inzio Showa (circa 1930),
misure cm 125x148. Antichi Kimono di Gloria Gobbi.
Seta meisen (la seta prodotta con questa tecnica si
ottiene dalla tessitura di fili pre-colorati che, a causa
dell’impossibilità di essere allineati regolarmente, creano motivi morbidi e brillanti).
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Haori da uomo, periodo Showa (anni ’40), misure
cm 132x85. Antichi Kimono di Gloria Gobbi.
L’Haori è realizzato in seta e dipinto a mano nella fodera interna.
Kimono da bambina, periodo Showa, misure cm 90x97.
Antichi Kimono di Gloria Gobbi.
Seta dipinta a mano con applicazioni di fili d’oro.
57
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Maru obi, periodo Taishō, misure cm 32x410. Antichi
Kimono di Gloria Gobbi.
Fukuro obi, periodo Showa (anni ’50), misure circa
cm 31x406. Antichi Kimono di Gloria Gobbi.
Estremamente formale, usato dalle geisha e dalle spose, è molto complicato da indossare. In broccato di
seta con raffigurazioni di gru.
In broccato di seta sul davanti e tessuto a tinta unita
più economico sul retro.
Tigre con cucciolo. Netsuke in avorio, occhi intarsiati in
corno nero. Tomotada, scuola di Kyōto. XVIII secolo. Altezza: cm 3,8. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Firmato “Tomotada” entro riserva rettangolare. Potente netsuke raffigurante una tigre che protegge il
proprio cucciolo. Seduta sulle quattro zampe in una
complessa posizione con quelle anteriori incrociate, la
tigre ruota la testa alla propria destra e sovrasta completamente il piccolo, ritratto con espressione rilassata
mentre si gratta il muso. Il pelo è inciso con tratti delicati e la patina è molto forte, con un contrasto netto
tra il fronte, più bianco, e il retro del netsuke, di colore
molto più scuro. Il lungo himotoshi, come d’uso per Tomotada, parte da sotto la coda e termina a metà del
tronco dell’animale.
Sarumawashi. Netsuke in avorio. Attribuito a Insai;
scuola di Ōsaka. XVIII secolo. Altezza: cm 8,3. Giuseppe
Piva – Arte giapponese.
L’ammaestratore di scimmie ritratto in piedi e sorridente, con un abito dalle ampie maniche, un largo copricapo, il fagotto legato attorno alle spalle, una canna
di bambù nella mano sinistra, il cesto per il cibo dell’animale appeso alla cinta e una piccola scimmia sulla
spalla che gioca con il suo cappello. Le origini degli
spettacoli con scimmie sono da cercarsi nella credenza
popolare che i macachi avessero dei poteri curativi e
queste performance facevano parte di rituali religiosi.
Il primo spettacolo di tipo prevalentemente profano di
cui si abbia notizia fu organizzato nel 1245 e da allora
questo tipo d’intrattenimento conobbe una crescente fortuna. Anche oggi è possibile incontrare artisti da
strada con le loro scimmie ammaestrate. Il netsuke è di
qualità elevata ed è possibile azzardare un’ attribuzione ad Insai, un netsukeshi di Osaka. Sebbene Insai non
ci abbia lasciato opere firmate, egli è descritto come
abile intagliatore di avorio esperto nelle figure di sarumawashi.
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Serpente arrotolato. Netsuke in legno di bosso, occhi intarsiati in corno nero.
Tanri. Inizio del XIX secolo. Lunghezza: cm 6. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Firmato “Tanri” entro riserva ovale.
Lumaca. Netsuke in legno di ciliegio. Tadatoshi, scuola di Nagoya. Inizio del XIX secolo.
Lunghezza: cm 4. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Firmato “Tadatoshi” con caratteri in rilievo entro riserva rettangolare. La lumaca è patinata in un marrone rossastro che la fa risaltare sul guscio più chiaro sul quale è appoggiata; il guscio è decorato con lo stesso colore solamente sul perimetro esterno con
una fascia orizzontale. Gli himotoshi naturali sono formati dal corpo e dal lato inferiore
della conchiglia. Tadatoshi è uno dei primi allievi di Tametaka, fondatore della scuola di
Nagoya. Negli anni della maturità creò un proprio stile personale e produsse, come in
questo caso, opere finissime e molto dettagliate.
Topolino con grande castagna. Netsuke in legno, occhi intarsiati in unimatsu. Scuola di
Kyōto. XVIII secolo. Lunghezza: cm 3,8. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Il netsuke è intagliato in legno di bosso ed è databile alla fine del XVIII secolo. Il topo
è ritratto mentre trattiene tra le zampe una grossa castagna. La forma compatta e la
resa della superficie donano all’opera una certa potenza e un ottimo senso tattile.
Pera con vespa. Netsuke in legno, occhi intarsiati in corno nero. Sangetsu. XIX secolo.
Altezza: cm 5. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Firmato “Sangetsu” entro riserva irregolare. Esemplare di netsuke raffigurante una vespa che si ciba della polpa di una pera marcita. Sangetsu è il più famoso tra il gruppo
dei cinque cosiddetti “wasp carvers” e questo esemplare spicca sugli altri conosciuti
per le grandi dimensioni e soprattutto per la resa degli himotoshi: se difatti in genere
Sangetsu si limita ad utilizzare gli usuali due fori tondi, in questo caso ha proseguito
con il tema della “pera marcia” intagliando in maniera naturalistica il frutto sul retro fino
a creare il passaggio per la corda del sagemono. La tecnica ukibori consiste nel lasciare
il decoro in rilievo rimuovendo il materiale attorno ad esso.
Cervo accucciato. Netsuke in legno, occhi intarsiati in corno nero. Ransen, scuola di
Osaka. XIX secolo. Lunghezza: cm 4,5. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Firmato “Ransen” entro riserva ovale. Il cervo è raffigurato disteso, con la testa alzata e voltata verso la propria sinistra e le zampe ripiegate sotto il corpo per formare
degli himotoshi naturali.
Shishi. Netsuke in avorio, occhi intarsiati in corno. Scuola di Kyōto. Fine del XVIII - Inizio del XIX secolo. Lunghezza: cm 4,4. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
Shishi, il mitico leone cinese che si pensava avesse poteri di protezione, è raffigurato accucciato mentre si gratta un orecchio con una zampa posteriore, formando
così una composizione compatta e solida. L’animale è intagliato con linee pulite e
decise; le proporzioni perfette possono suggerire una attribuzione a Okatomo, anche in relazione ad un netsuke dello stesso raro soggetto conservato al Los Angeles
County Museum of Art.
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Daikon e topolini. Netsuke in avorio. Scuola di Kyōto. Inizio del XIX secolo. Lunghezza: cm 6,4. Giuseppe Piva – Arte
giapponese.
Raro netsuke in avorio raffigurante due topolini su un frutto di daikon. Sebbene la raffigurazione di topolini intenti
a sgranocchiare un daikon sia tipica, benché rara, nell’iconografia giapponese, il soggetto in realtà è qui di tipo
shunga, ovvero erotico, alludendo con il daikon ad un corpo femminile.
Cavallo al pascolo. Netsuke in avorio, occhi intarsiati
in corno nero.
Scuola di Kyōto. XVIII secolo. Altezza: cm 6. Giuseppe
Piva – Arte giapponese.
Bel modello di cavallo tipico della scuola di Kyōto, raffigurato con la zampa anteriore sinistra leggermente
sollevata; i dettagli finemente incisi. Il cavallo al pascolo è uno dei soggetti preferiti dei netsukeshi del
XVIII secolo. È stato suggerito che la forma arrotondata del corpo, spesso lasciata quasi stilizzata, si riferisca alla testa dell’immortale Fukurokuju e sia quindi
di buon auspicio per una lunga vita. Questo netsuke è
intagliato su un grande pezzo di avorio, le cui qualità
tattili si rivelano riempiendo appieno il palmo di chi
lo impugna.
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GLOSSARIO KIMONO
Kimono da donna: si dividono in varie tipologie, tra le
quali:
Women’s kimono. There are various styles of kimono,
including:
Kurotomesode: per le donne sposate, la veste più
formale di tutte. Completamente nero con decorazioni solo nella parte inferiore. Solitamente presenta
5 kamon dipinti su schiena, maniche, e petto. Creato
nell’epoca Meiji.
Furisode: è la veste formale per le donne nubili. Interamente decorato. Con maniche molto lunghe (dai
75 ai 114 cm). Si è sviluppato durante il periodo Edo.
Uchikake: per le spose. È indossato aperto, senza
obi, sopra ad un’altra veste. Solitamente in broccato
pesante, presenta motivi di buon auspicio e il bordo
tocca fino a terra.
Kurotomesode: this is the most formal kimono for
married women. All black, it is patterned only below
the waistline. Usually it has 5 kamon painted on the
sleeves, chest and back. It was created during the
Meiji period.
Furisode: it is the formal robe for unmarried women.
Entirely decorated, with very long sleeves (from 75 to
114 cm), it developed during the Edo period.
Uchikake: for brides. It is worn outside another robe,
without obi. It is normally heavily brocaded and
decorated with congratulatory patterns. It is padded
along the hem and trails along the floor.
Nagajuban: paragonabile ad una sottoveste, sia da
uomo che da donna, si indossa sotto il kimono. L’unica
parte visibile è il colletto, spesso removibile, per facilitare il lavaggio e la sostituzione. Poiché i kimono maschili
sono particolarmente sobri, il nagajuban permette anche
agli uomini di indossare fantasie più vivaci.
Haori: è un soprabito, lungo al massimo fino alla coscia,
che serve a rendere più formale il kimono maschile. Solitamente è nero e nell’interno sono dipinte scene di vita
quotidiana o paesaggi giapponesi. Per chiudere l’haori
si usa un cordone con due nappe. Inizialmente utilizzato
solo dagli uomini, furono le geisha nel periodo Meiji ad
estenderne l’uso anche alle donne.
Obi: è una cintura che va stretta intorno al kimono. Quello
delle donne è particolarmente lungo e largo e riccamente decorato, mentre quello per gli uomini è più stretto e
più semplice. Fu durante il periodo Edo che si iniziò ad
annodarlo sulla schiena, anziché sul davanti. Esistono vari
tipi di obi, tra cui:
Nagajuban: similar to a petticoat, used both by men and
women, it is worn beneath the kimono. The only visible
part is the collar edge. Collars are often removable, to
allow them to be washed and changed. Since men’s
kimono are often subdued in colour and pattern, the
nagajuban allows men to wear more lively designs.
Haori: it is a sort of overcoat, sitting at thigh length, which
adds formality to the male kimono. Generally it is black.
Linings, however, are colourful and feature everyday
life scenes or Japanese landscapes. It is fastened with a
tasselled, woven string. Initially it was worn only by men.
During the Meiji period, the geisha extended its use to
women.
Obi: it is the sash worn with the kimono. The obi used
by women is particularly long and wide, as well as richly
decorated. The men’s obi is narrower and simpler. During
the Edo period the custom developed to tie the obi in the
back, instead of in the front. There are various types of
obi, including:
Maru obi: estremamente formale, usato dalle geisha
e dalle spose; alto circa 33 cm e lungo 420 cm, è molto complicato da indossare.
Fukuro obi: meno formale del maru obi, è largo indicativamente 30 cm e lungo 420 cm; di solito presenta due diversi tessuti, un broccato sul davanti e una
stoffa più economica sul retro, spesso a tinta unita.
Maru obi: it is the most formal obi, used by geishas
and brides; about 33 cm wide and 420 cm long, it is
very difficult to wear.
Fukuro obi: less formal than the maru obi, it is
approximately 30 cm wide and 420 cm long;
normally it is made sewing two pieces of cloth
together, brocade on the front and a cheaper, plain
fabric on the back.
Kamon: stemma di famiglia. Solitamente consiste in un
disegno geometrico o nella stilizzazione di una pianta, un
animale o un oggetto all’interno di un cerchio. Vengono
rappresentati sul kimono per dargli solennità.
Netsuke: sculture di dimensioni ridotte, di solito in avorio o in legno, avevano due fori (himotoshi) attraverso cui
passava una cordicella, a cui erano attaccati gli inrō (delle
scatolette a scomparti, con cui si sopperiva all’assenza di
tasche nei kimono), fissata a sua volta all’obi. Affinché gli
inrō non scivolassero via, dalla parte opposta del cordoncino era collocato il netsuke.
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Kimono Glossary
Kamon: a family crest. Normally it consists of a geometric
shape or the stylization of a plant, an animal or an object
within a circle. It adds formality to the kimono.
Netsuke: they are miniature sculptures, made of ivory
or wood, with two holes (himotoshi). A cord was laced
through these holes to hold the inrō (a stack of nested
boxes which made up for the lack of pockets in the
kimono). The inrō was hanging from the obi. In order to
prevent the inrō from sliding down, the ends of the cord
were secured to the netsuke.
Aironi in un canneto.
Coppia di paraventi a sei ante. Scuola Rimpa. Metà del
periodo Edo (1615-1867). Inchiostro, pigmenti e gofun
su fondo d’oro; cm 346x125. Giuseppe Piva - Arte giapponese.
L’airone bianco è considerato in Giappone, e in Oriente
in genere, un animale nobile e quasi sacro, dotato di
una grazia innata e simbolo di longevità.
In questa coppia di paraventi il soggetto è trattato con
estrema esemplificazione delle forme e con l’utilizzo
di colori brillanti, secondo i canoni estetici della scuola
Rinpa.
Il fondo oro è quindi lasciato completamente piatto,
così come il blu profondo e smagliante dell’acqua è
scandito solamente da alcune bianche increspature
sulla superficie.
Un maggiore naturalismo è stato invece utilizzato per
la resa delle canne che ospitano gli animali e le foglie
assumono diverse tonalità del verde e del marrone.
Le canne e gli aironi si muovono in ogni direzione e il
fascino di questi paraventi sta proprio nel contrasto tra
la piatta tranquillità dello sfondo e il vivo movimento
di piante e animali che riempiono la scena.
Il termine “Rinpa” deriva dal carattere pa (scuola) e dalla seconda sillaba del nome “Kōrin”: Ogata Kōrin (16581716) non fu il creatore di questo stile, che deve la sua
origine invece a Hon-ami Kōetsu e Tawaraya Sotatsu,
ma ne fu il maggiore diffusore. I modelli estetici di
Ogata Kōrin influenzarono intere generazioni di artisti
fino all’epoca moderna.
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Paesaggio con piante di banane e peonie. Paravento a
sei ante. Yano Sessō (1714-1777). Metà del periodo Edo
(1615-1867). Inchiostro, pigmenti e gofun su fondo d’oro;
cm 380x181. Giuseppe Piva – Arte giapponese.
L’opera è firmata Hōkyō Sessō Hitsub e riporta i sigilli
dell’artista. Avendo lavorato per i samurai della famiglia Hosokawa, le opere di pittori della scuola Yano
sono conservate all’Eisei-Bunko.
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Ukiyo-e: immagini del mondo fluttuante
di Giancarlo Mariani
Con la battaglia di Sekigahara (1600), Tokugawa Ieyasu riuscì a
unificare il Giappone nelle mani della sua famiglia. La città promossa a sede dello shōgun Tokugawa fu un villaggio di pescatori, Edo, presso il quale fu costruito un grande castello. Questo fu l’inizio di un lungo periodo senza guerre civili e conflitti
religiosi, durante il quale la popolazione di Edo si moltiplicò,
fino a formare, nel XVIII secolo, la prima metropoli con oltre un
milione di abitanti. I cittadini di Edo, i chōnin, erano un gruppo
eterogeneo di mercanti e artigiani (ma anche viveur, cortigiane, attori e via dicendo) dotato di energia, intraprendenza e
voglia di vivere, caratteristiche che spesso mettevano a repentaglio l’ordine shogunale. Scarsamente riconosciuta nel sistema a caste del bakufu, nel quale il più ricco dei mercanti era pur
sempre considerato meno del più misero dei samurai, questa
classe, paragonata spesso alla borghesia occidentale dei secoli
XVIII e XIX, si dedicò alla ricerca del bello e del lussuoso, oltre
che al tentativo di un’elevazione sociale almeno simbolica, ispirandosi in questo alla corte imperiale, alla nobiltà e a una Cina
antica, direttamente sconosciuta ai più.
I cittadini di Edo si appropriarono del termine buddhista ukiyo,
che allora era usato per definire il mondo degli uomini dove
tutto è fugace, con la connotazione negativa di “illusorio” e “deludente”: uki è il sughero che fluttua nell’acqua senza pace e yo
è la società umana. Fecero di questo termine una bandiera in
cui il bicchiere non veniva visto mezzo vuoto ma mezzo pieno,
nel quale il fiore di ciliegio, per i samurai emblema di bellezza
e caducità insieme, veniva golosamente assaporato con tutti i
sensi. Si coltivava il bello e il raffinato in tutte le sue possibilità,
non solo negli oggetti ma anche nella letteratura, nel teatro,
nello sport e nella sensualità.
Si dovevano trovare i mezzi per portare ai cittadini questa filosofia di vita non elitaria. La stampa, attraverso l’incisione di
matrici in legno, fu uno dei mezzi più importanti per diffondere lo spirito ukiyo (la “e” che vi viene aggiunta significa “pittura”,
“immagine”). L’uso della xilografia per riprodurre immagini era
di derivazione cinese e, fino a quel momento, era stata usata
quasi esclusivamente nei templi buddhisti per immagini e testi
sacri. Dalla seconda meta del ‘600, si fece ricorso alla xilografia
per produrre romanzi popolari illustrati e di seguito stampe
singole. Il tutto era impresso solo con inchiostro nero (sumizuri-e): in alcuni casi si procedeva con una colorazione a mano.
Progressivamente aumentarono la qualità e la grandezza della
carta e, attorno al 1740, apparvero con continuità incisioni arricchite con matrici colorate. Finalmente, nel 1765, comparirono stampe in piena policromia (nishiki-e), le stampe broccato,
con un’ampia gamma di colori ed effetti. La xilografia giapponese non era una produzione individuale, ma il risultato della
collaborazione di molte persone. Come punto di partenza c’era l’editore, colui che individuava un’esigenza di mercato e realizzava il prodotto tenendo assieme le varie professionalità e
investendoci denaro. L’editore prendeva contatto con il pittore
a cui dava indicazioni su cosa disegnare. Avuti i disegni, realizzati su carta molto sottile, andava nella bottega dell’incisore
e qui veniva preparata la prima matrice, incollando il disegno
su tavole di ciliegio e scontornando i segni. Successivamente
venivano stampati alcuni fogli di prova su cui erano indicati i
colori e che servivano per preparare le matrici per le parti in colore. La stampa giapponese viene realizzata ponendo il foglio
sopra alla matrice inchiostrata a pennello, con incisi i riferimenti per posizionare il foglio; a questo punto si strofina il foglio
con il baren, un tampone a più strati. Il numero delle matrici è
variabile e si può arrivare a superare la decina. È difficile valutare l’importanza del pittore nel risultato finale: a lui si devono
la qualità del segno e la composizione estetica dell’immagine
ma, in questa complessa sinergia, è l’editore che cura la produzione e la regia dell’operazione, fino alla distribuzione capillare
del prodotto.
Tornando alla cultura chōnin, per citare alcuni esempi di fonti
d’ispirazione alta, si può accennare al Genji monogatari di Murasaki Shikibu, che costituiva una fonte d’ispirazione costante. I
titoli dei capitoli del romanzo, codificati in simboli, erano decorazioni per kimono e oggetti di ogni tipo. Le storie del principe
vennero attualizzate e parafrasate e il protagonista, grande
amatore e gentiluomo, si ritrovò al centro di molte storie erotiche. L’elemento fondante della cultura ufficiale era la rigida
censura dei Tokugawa, che non ammetteva riferimenti agli avvenimenti presenti e tantomeno allusioni agli shōgun. Le opere letterarie a cui si faceva riferimento erano antichi testi cinesi
e giapponesi, che garantivano scarsa relazione con il presente,
o monumentali raccolte di poesie come il Manyōshū, o testi di
autori contemporanei legati al mondo dei chōnin: l’elevazione culturale di questi cittadini si fondava su testi di alto livello,
sia letterario che estetico. Il regime shogunale si preoccupava
della rottura di un ordine sociale e non poteva tollerare che le
figlie dei mercanti fossero vestite in maniera più lussuosa di
quelle dei samurai. Le pulsioni si dovevano esprimere in luoghi decorosi e controllati. Le cortigiane di alto grado, le oiran,
erano il sogno dei cittadini comuni: belle, riccamente vestite,
con profonda cultura, sostituivano le principesse imperiali e i
loro nomi erano famosi come le attrici e le “veline” dei nostri
giorni. Lo spirito dei cittadini di Edo era imbelle ma, a teatro e
in letteratura, si appassionavano alle storie di grandi guerrieri;
personaggi come Yoshitsune, Kiyomori e Benkei erano conosciutissimi. Anche la casta dei samurai, rimasta senza guerre,
non restò immune dallo spirito chōnin e si dedicò ad abbellire
i suoi “strumenti”. Le antiche lame furono montate con nuovi e
raffinati accessori e spesso le decorazioni delle stampe ukiyo-e
e quelle di questi manufatti sono le stesse.
Non dobbiamo farci idee sbagliate sul periodo Edo: la vita era
dura, le carestie erano ricorrenti, le cortigiane-principesse erano bambine comprate dai contadini affamati e ci si rivolgeva
ai piaceri con la consapevolezza che non potevano durare. Lo
spirito giapponese di allora era legato ai ritmi del ciclo naturale. Non erano arrivate le laboriose elucubrazioni del pensiero
occidentale, la rivoluzione scientifica e industriale era di là da
venire. Guardare a questa epoca con la nostra preparazione e
sovrastruttura è fuorviante, e allora entriamo in sintonia, per
un attimo fugace, con gli appartenenti a questo mondo, fluttuando assieme a loro.
67
Ukiyo-e: images of the floating world
by Giancarlo Mariani
After the Battle of Sekigahara (1600), Tokugawa Ieyasu unified
Japan under the rule of his family. The town chosen to be the
seat of power was a fishing village, Edo, where a huge castle
was built. This was the beginning of a long period without civil
wars or conflicts during which Edo grew to a metropolis with an
estimated population of over one million by the 18th century.
The citizens of Edo, called chōnin, were a mixed group of
merchants and craftsmen (but also pleasure-seekers, courtesans,
actors and so on) endowed with energy, resourcefulness and a
strong will to live, which often jeopardized the shogunal order.
Scarcely recognized in the bafuku caste system, where the
richest of merchants was nevertheless considered of a lower
rank compared to the lowest-ranking samurai, this class – often
likened to 18th- and 19th-century Western bourgeoisie –
devoted itself to the pursuit of beauty and luxury and attempted
to elevate itself socially, at least symbolically, drawing inspiration
from the imperial court, from nobility and from an ancient
China that almost none of them knew directly. The citizens of
Edo took possession of the Buddhist term ukiyo, which at that
time was used to define the evanescent, impermanent world
of men where everything floats, with the negative connotation
of “deceptive” and “illusory”: uki is the cork that floats endlessly
in water and yo is human society. This term epitomized their
philosophy: you should always look at the bright side of a
difficult situation, and the cherry blossom, which the samurai
considered as the symbol of beauty and fragility at the same
time, was to be relished in all senses. Beauty and refinement
were cultivated in all aspects, not only in objects, but also in
literature, theatre, sport and sensuality.
It was necessary to find a way to spread this non-elite philosophy
among the citizens. Print, through woodblock engraving, was
one of the most important means to circulate the ukiyo spirit
(the “e” added to this word means “painting”, “image”). The use
of woodblock printing to reproduce images came from China
and, up to that moment, it had been used almost exclusively
in Buddhist temples to recreate sacred images and texts.
Starting from the second half of the 17th century, woodblock
printing was used to produce illustrated popular novels and
then individual prints. The impression was carried out with
black ink only (sumizuri-e) and, in certain cases, the images
were coloured by hand. As time passed, the quality and size
of paper increased and, around 1740, woodcuts enriched
with colours started to appear. Finally, in 1765, multi-coloured
brocade pictures (nishiki-e) became popular, with a wide range
of effects. Japanese woodblock printing was not an individual
production, but the result of the collaboration between several
people. The starting point was the publisher, i.e. the person who
identified a market requirement and produced the artefact,
organizing the different professionals and investing money.
The publisher got in touch with the painter and told him what
to draw. Once the drawings were ready, which were made on
very thin paper, the engraver prepared the first block, glueing
the drawing on a plank of cherry wood. Wood was then cut
away, based on the drawing outlines. Then a few test sheets of
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paper were printed and used to indicate the colours necessary
to prepare the blocks for the coloured parts. The Japanese
print was produced by pressing the sheet of paper onto the
inked woodblock, positioning the paper according to a few
reference points. At this stage, a multi-layer hand tool called a
baren was used to burnish the back of the sheet. The number
of woodblocks is variable and there can be over ten of them. It
is difficult to assess the importance of the painter in the final
result: the quality of the stroke and the aesthetic composition
of the image depend on him, but in this complex process
it is the publisher who supervises the production cycle and
distributes the product.
As far as chōnin culture was concerned, it is worth mentioning
the Genji monogatari of Murasaki Shikibu as a constant example
of high inspiration. The novel’s chapter titles, coded in symbols,
were used as decorations for kimonos and objects of any kind.
The stories of the prince were revised in contemporary terms
and paraphrased so that the protagonist, a passionate lover
and a gentleman, found himself involved in a number of erotic
tales. The fundamental element of the official culture was
the strict censorship imposed by the Tokugawa government,
which did not tolerate references to present-day events, least
of all to the shōgun. The literary works that could be taken as
sources of inspiration were ancient Chinese and Japanese
texts that guaranteed little relation to the present time, or
monumental collections of poems like the Manyōshū, or texts
of contemporary authors connected to the world of the chōnin:
the“cultural elevation”of these citizens was based on high-level
texts, both from the literary and the aesthetic viewpoints. The
shogunal regime feared the disruption of the social order and
could not accept that merchants’ daughters should be dressed
more sumptuously than those of the samurai. Instincts were to
be satisfied in respectable, controlled places. The oiran, highranking courtesans, were the dream of the average citizen:
good-looking, elegantly dressed and highly educated, they
replaced imperial princesses and became celebrities, like the
actresses and WAGs of our time. Edo citizens were unwarlike,
but when it came to theatre and literature, they loved the
stories of the great warriors of the past, such as the renowned
Yoshitsune, Kiyomori and Benkei. Also the samurai, who had
been left without wars to fight, became influenced by the
chōnin spirit and devoted themselves to the embellishment
of their “tools”. The ancient blades were mounted with new,
refined accessories and, often, the decorations of ukiyo-e prints
are the same as those on these artefacts.
We should not develop wrong ideas about the Edo period: life
was hard, famines were recurrent, the courtesans-princesses
were the young daughters of impoverished peasant families
and people sought pleasure in the awareness that it could not
last. In those days, the Japanese spirit followed the rhythms of
the natural cycle: the country had not yet been touched by the
wearisome lucubrations of Western thought, and the scientific
and industrial revolutions were a long way off. Looking upon
this era in the light of our background and trappings could be
misleading, so let’s try to be tuned in to the people belonging
to this world and float with them for a brief moment.
Cinque personaggi in una barca coperta durante una gita di
piacere.personaggi
Serie: Immagini
stagioni.
Sugimura
1684,
Cinque
in unanelle
barca
coperta
durante Jihei,
una gita
di
stampa colorata
a mano,nelle
frammento
15,2 x 16,6.
Colleziopiacere.
Serie: Immagini
stagioni.cmSugimura
Jihei,
1684,
ne Giancarlo
Mariani.
stampa
colorata
a mano, frammento cm 15,2x16,6. Collezione
Giancarlo Mariani.
La sfera del sole che si riflette nell’acqua, suggerisce di una
gitasfera
di piacere,
in una
calda giornata.
Dueuna
uomini
La
del soleeffettuata
che si riflette
nell’acqua,
suggerisce
gita
suonano
a loro.
Appoggiato
a uno dei
atdi piacere,davanti
effettuata
in una
calda giornata.
Duepilastri
uominiunsuotore del
teatroa kabuki
specializzato
in ruoli
femminili
nano
davanti
loro. Appoggiato
a uno
dei pilastri
un (onnaattore
gata)
sta intonando
una canzone.
Il fanciullo
sulla
sinistra è
del
teatro
kabuki specializzato
in ruoli
femminili
(onnagata)
distratto e forse annoiato e guarda fuori dalla barca. Questa
immagine
puòuna
essere
presaIlafanciullo
emblema
dello
spirito
ukiyo,
sta
intonando
canzone.
sulla
sinistra
è distratben
descritto
da Asai
Ryōi (1612-91)
nell’introduzione
all’Uto e forse
annoiato
e guarda
fuori dalla
barca. Questa immakiyo
del mondo
fluttuante):
“… vivere
gine monogatari
può essere (Racconti
presa a emblema
dello
spirito ukiyo,
ben
solo
nell’attimo
cantare,
bere sakè, provare
piadescritto
da Asaipresente…
Ryōi (1612-91)
nell’introduzione
all’Ukiyo
cere
solo ad ondeggiare,
come una
gallegmonogatari
(Racconti delessere
mondosolo
fluttuante):
“…zucca
vivere
solo
giante
sulla presente…
corrente di un
fiume”.bere sakè, provare piacere
nell’attimo
cantare,
solo ad ondeggiare, essere solo come una zucca galleggiante sulla corrente di un fiume”.
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La scelta del kimono da indossare. Serie: Motivi di broccati alla
moda. Utagawa Toyokuni III (Kunisada I), 1849-50 ca., xilografia policroma, trittico di oban (cm 25,5x35,3 l’uno). Collezione
Giancarlo Mariani.
La dama al centro sta asciugandosi davanti alla toilette; dietro di lei una candela accesa e un futon ammucchiato sugge-
riscono una levata di primo mattino. A destra una donna più
anziana (le sopracciglia rasate e i denti tinti di nero indicano
una donna sposata e con un gusto passato) mostra due kimono appena tolti dagli incarti. Altri incarti sono a terra dietro di lei.
L’atmosfera e le ricche suppellettili indicano l’interno di un
palazzo di una famiglia ricca e importante.
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La rasatura della grande fronte di Fukurokuju da parte di una
ragazza. Suzuki Harunobu, 1769-70 ca., xilografia policroma,
chuban tate-e (cm 21x27,5). Collezione Giancarlo Mariani.
Fukurokuju, simbolo di longevità e saggezza, è uno degli
shichifukujin, le sette divinità popolari portatrici di doni e
buona fortuna. Le linee del disegno con cui viene dipinta la
divinità sono tracciate nello stile tipico della classica scuola
Kanō, mentre il resto del disegno è in stile ukiyo-e. Pitture
con questo soggetto sono caratteristiche delle ōtsu-e (“pitture della citta di Otsu”), dove però il rasatore è un altro degli
shichifukujin, Daikoku.
Asukayama, località periferica di Edo dove erano stati piantati
centinaia di ciliegi per il piacere della popolazione. Serie: Mitate
Meisho Sakura Tsukushi (Vedute di luoghi famosi per la fioritura
dei ciliegi). Keisai Eisen, 1830 ca., xilografia policroma, oban
tate-e (cm 26x37,7). Collezione Giancarlo Mariani.
Le prescrizioni della censura contro il lusso produssero edizioni in cui veniva impiegato un numero limitato di colori: gli
aizuri-e, stampe monocrome con solo i toni del blu, oppure
altre con blu, verde e rosso mattone. In questo caso, rappresentando visioni notturne, si limita la tavolozza rientrando
nei parametri della censura. Il tipo di donna di Eisen non è
più quello dei pittori precedenti: piccola e vitale, piena di
sensualità, andava incontro ai gusti popolari.
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La cortigiana Hanaogi, la oiran di più alto livello della casa Ogiya. Serie: Zensei matsu no yosoi jūni shi (Abbigliamento dei giovani pini nel loro splendore: 12 rami). Gosotei Toyokuni II, 1830
ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 22x36,6). Collezione
Giancarlo Mariani.
La Ogi-ya (“Casa del ventaglio”), aveva come cortigiana principale Hanaogi, scelta tra le ragazze più belle e dotate di preparazione culturale; le sue competenze principali erano la
calligrafia, scrivere poesie e capacità di conversare. Il dragone
giallo dipinto sul suo kimono era in Cina uno dei simboli della
cultura, in quanto ritenuto di immensa sapienza. Nella complicata iconografia di questa serie, alle dodici immagini è associato anche un segno zodiacale, in questo caso il Topo (Ne).
La geisha Kume di Shinbashi alla festa di fine anno vicino ad
Asakusa. Serie: Tōkyō Jiman Jūni ka getsu (L’orgoglio di Tōkyō
durante i 12 mesi). Taisho Yoshitoshi, 1880, xilografia policroma, oban tate-e (cm 25,2x37,4). Collezione Giancarlo Mariani.
Una serie che continua nella tradizione di abbinare giovani
e belle ragazze con i mesi, i segni zodiacali, le attività più varie. Questo esemplare è di seconda tiratura (cc. 1890): lo si
evince dalla cancellazione del prezzo, che era nella piccola
tabella accanto ai dati dell’editore, e da un’inchiostrazione
più raffinata rispetto alla prima. Nella tabella con il prezzo
era scritto “atai nijigo rin” (“costo 225 rin”).
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Miyamoto Musashi sōshū hakone no sanchu… Miyamoto Musashi è assalito da un branco di lupi tra le montagne. Serie: Trittici di guerrieri (musha-e). Utagawa Kuniyoshi, 1861, xilografia
policroma, trittico di oban (cm 25,2x36,7 l’uno). Collezione
Giancarlo Mariani.
Miyamoto Musashi (1584-1645) è un famoso rōnin, guerriero
e pittore; sviluppò uno stile di combattimento che utilizzava
insieme le due spade portate dai samurai: tachi e wakizashi.
A 16 anni partecipò alla battaglia di Sekigahara (1600), militando nella parte che risultò sconfitta. In seguito si ritirò per
un lungo periodo tra le montagne più impervie del Giappone, perfezionando il suo stile di combattimento. Il presente trittico allude a questo periodo. Musashi si difende con
le due spade dall’attacco di un branco di lupi mentre il suo
compagno Sekiguchi Yatarō sta fumando tranquillo seduto
davanti al fuoco. Un altro esemplare di questo trittico è nella
collezione di Claude Monet.
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Il bandito Kidōmaru assale il gruppo di Raiko.
Serie: Yobu Hakkei (Otto azioni guerresche).
Utagawa Kuniyoshi, 1836 ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 24,9x36,4). Collezione
Giancarlo Mariani.
Sotto l’Imperatore Murakami (947-968 d.C.)
il paese era infestato dai banditi, tra cui
Kidōmaru. Raiko fu incaricato di risolvere il
problema e a tale scopo formò una squadra
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di forti guerrieri, tra cui Kintaro, il bambino
rosso dalla forza erculea, ormai diventato
adulto. Kidōmaru era un bandito cultore delle arti magiche, raffigurato con la pelle blu
e un’espressione feroce, disegnato spesso
mentre tende agguati nascondendosi sotto
una pelle bovina.
Qui sta sferrando il suo attacco nella brughiera di Ichihara attraversata da turbini di
vento.
Il monaco guerriero Negoro No Komizucha, con un lungo bastone chiodato e una naginata, corre sotto una pioggia di spade e lance. Serie: Taiheiki Yeiyuden (Storie del periodo Taiheiki).
Utagawa Kuniyoshi, 1848-49 ca., xilografia policroma, oban
tate-e (cm 24,9x36,8). Collezione Giancarlo Mariani.
Il periodo Taiheiki (“Della grande pace”), nel secondo quarto del XIV secolo, nonostante il nome fu un periodo di lotte feroci tra i fedeli della famiglia imperiale e i seguaci dello
shōgun della famiglia Ashikaga. Kuniyoshi in queste immagini allude a personaggi e periodi più vicini a lui, modificando
i nomi per evitare la severa censura del periodo Tokugawa.
Il rōnin Yukukawa Sampei Munenori taglia con la katana una
lanterna a mano durante l’attacco al palazzo. Serie: Seichū
Gishi den (Vera lealtà dei seguaci). Utagawa Kuniyoshi,
1847-48 ca., xilografia policroma, oban tate-e (cm 25x36,3).
Collezione Giancarlo Mariani.
Questa è la serie più famosa tra le molte eseguite da Kuniyoshi e altri autori sulla storia dei 47 rōnin (La vendetta dei fedeli
vassalli). È importante notare che questi fogli appartengono alla prima tiratura, prima della numerazione della serie
e della reincisione del marchio dell’editore. I fogli, anche in
presenza di alcuni danni da insetti, mantengono i colori e il
segno delle matrici molto freschi.
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Yazama Jūjirō Motooki fa un segnale con il fischietto durante
l’assalto al palazzo di Kira Yoshinaka. Serie: Seichū Gishi den
(Vera lealtà dei seguaci). Utagawa Kuniyoshi, 1847-48 ca.,
xilografia policroma, oban tate-e (cm 25,6x36,8). Collezione
Giancarlo Mariani.
Ci troviamo di fronte ad una prima tiratura delle molte che
ebbe questa serie. Oltre ad essere successivamente numerata, nelle ultime tirature vennero reincise nuove matrici e
il tono generale risulta consunto. I testi sono di Ippitsu-an
e i nomi, specie nelle rappresentazioni teatrali, vengono
cambiati per ragioni di censura. Ad esempio Kira Yoshinaka
diventa Kōno Moronao e tutta la storia viene romanzata con
molteplici varianti.
Sanada Yoichi Yoshitada e Matano Gorō Kagehisa lottano
ferocemente nella battaglia di Ishibashiyama del 1180 sulle
rocce in riva al mare. Serie: Musha-e (Immagini di guerrieri).
Utagawa Toyokuni I, 1815 ca., xilografia policroma, oban
tate-e (cm 25,6x37,2). Collezione Giancarlo Mariani.
Matano Gorō Kagehisa, guerriero e lottatore del clan Taira,
è spesso rappresentato, oltre che nello scontro con Sanada,
anche nell’incontro di sumo con Kawazu Saburō Sukeyasu.
Nel MFA di Boston, rilegata assieme ad altre immagini di
guerrieri, c’è un altro esemplare senza il blu di Prussia e senza
kiwame e marchio editore. Nel nostro caso, una rottura sull’ideogramma “Go”, la presenza del blu di Prussia (apparso alla
fine degli anni ‘20) e la presenza del marchio di Sanoya-Kihei,
attesta al 1830 la tiratura.
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Una bella donna vista di spalle.
Keisai Eisen, 1840 ca., xilografia policroma montata a kakejiku, kakemono-e
(cm 31x146). Collezione Giancarlo Mariani.
Le donne di Eisen non hanno nulla in
comune con quelle disegnate dai suoi
predecessori, che spesso raffiguravano
tipologie idealizzate e poco riscontrabili
nelle donne giapponesi. Eisen si libera
della sudditanza verso modelli ideali
e raffigura donne che ognuno poteva
incontrare per strada. Il kimono è disegnato con pipistrelli: in Cina il pipistrello
aveva un significato beneaugurante, di
fortuna e prosperità. Le cinque benedizioni tradizionali (Wu fu) sono raffigurate con 5 pipistrelli.
Una ragazza incede verso sinistra, portando sotto il braccio destro un involto
con sopra dipinto il mokkō hon, simbolo
della scuola di canto Tokiwazu.
Kikugawa Eizan, 1825-30 ca., xilografia
policroma montata a kakejiku, kakemono-e (cm 29,5x122). Collezione Giancarlo Mariani.
La ragazza raffigurata sembra andare
a lezione di canto; il fagotto che porta
sottobraccio contiene spartiti di canto
della scuola Tokiwazu, iniziata da Miyakoji Monjidayū che nel 1742 cominciò a
suonare nel teatro kabuki, diffondendo
il suo stile di canto. Nella metropoli di
Edo vi erano numerosi maestri di canto
e di strumenti musicali e numerose persone andavano a imparare.
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Finito di stampare
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