IL BELLO DEL GIAPPONE, NONOSTANTE HELLO KITTY E I DELFINI.
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IL BELLO DEL GIAPPONE, NONOSTANTE HELLO KITTY E I DELFINI.
IL BELLO DEL GIAPPONE, NONOSTANTE HELLO KITTY E I DELFINI. DI SIMONA ANGIONI È cominciata sull’aereo, la sensazione di essere cullata. Come se ci fossero onde e io fossi su una nave, invece che in volo. E non mi ha mai abbandonato, per tutto il viaggio in Giappone. Una specie di nenia, di dolcezza perenne, un ciondolare assorto in balia di una droga leggera. Non so il perché di questa morbida distanza. Forse per contrastare i continui stimoli di un paese fuori di testa. Raccontare il Giappone non è impresa facile. Perché è assurdo: è punk, imperiale, hellokittiano e minimalista. Ci sono i lottatori di sumo, ma anche gli otaku, schiavi della tecnologia, che non mettono il naso fuori di casa. Molto difficile individuare un colore predominante, in quest’isola poco più grande dell’Italia. Dove l’emotività dei giovani si è inceppata al punto che nei Love Hotel di Tokyo si paga per guardare negli occhi uno sconosciuto, e nei Rabbit Bar si può accarezzare un coniglio per mezz’ora, bevendo un the. Io ci sono stata troppo poco per pretendere di averci capito qualcosa. Posso solo tracciare qualche pennellata superficiale che restituisca la follia di un posto in cui la gente paga un biglietto per andare a visitare un Museo di Parassiti. (Il Meguro Parasite Museum di Tokyo) Tokyo è una città verdissima, e in inverno il colore del cielo è saturo, pastello a cera azzurro. Le 13 linee della metropolitana le si intrecciano nella pancia creando un tessuto pieno di vita, perché si fanno un sacco di cose là sotto. Si compra cibo raffinato nei depachika, si fa shopping, si va in palestra, accompagnati da una voce registrata che sussurra il nome delle fermate come se ti stesse rivelando un segreto. Anche le cose più quotidiane, in Giappone, nascondono un aneddoto, una leggenda, un significato simbolico. C’è tanto folclore, ovunque. A Tokyo, sulle scale mobili, per esempio, se decidi di stare fermo e far passare gli altri, stai a sinistra, perché è la città dei samurai, che portavano la katana a sinistra. A Osaka stai a destra, perché è la città degli affari e il portafoglio, nel kimono, veniva infilato a destra. A Kyoto stai dove vuoi perché si sentono anarchici e anche un po’ radical chic. Ci sono storielle per tutto, insomma. Forse anche perché la religione predominante, lo shintoismo, è un culto animista. Tanti simboli e milioni di spiriti e divinità (i Kami) con superpoteri, magie nelle tasche e saghe infinite. Lo shintoismo, come accarezzare un coniglio , per mezz ora, bevendo un the il buddhismo, predica il non-attaccamento alle cose della vita. Una religione perfetta per i samurai, perché rendeva più lieve la possibilità della morte prima di ogni combattimento. Il Capodanno giapponese dura tre giorni ed è il momento in cui si va nei templi e nei santuari per ingraziarsi l’anno nuovo. Prima di raggiungere i luoghi di culto si passa sotto i “torii”, i portali che designano l’accesso alle aree sacre, il cui nome significa “dove risiedono gli uccelli”. E dai torii in poi, avanti tutta con i riti propiziatori. Personalmente non me ne sono perso uno: ho comprato frecce di legno per centrare gli obiettivi del 2014, ho battuto le mani dopo aver tirato monetine, accarezzato i reni di una statua, sorteggiato oracoli, appeso cavallini di legno, mi sono fatta sfiorare la testa dal ramo di un salice piangente per scacciare l’emicrania, ho bevuto acqua da una fonte sacra e mi sono purificata le mani con la cenere di un fuoco perenne. Poi. Ho provato, senza riuscirci, a sollevare una pietra il cui peso era direttamente proporzionale ai peccati di chi provava a sollevarla. Ho lavato le statue dei Bodhisattva con l’acqua sorgente, sono passata nella narice di una statua enorme e, infine, sono persino entrata nella pancia-tenebra di un Buddha, aggrappata ad un rosario gigante, per rinascere pulita e perfetta. L’anno, in compenso, una volta tornata a casa, è cominciato malissimo. Un’atmosfera completamente diversa, silenziosa e ovattata, abbraccia le montagne intorno ad Hakone, località termale non lontano da Tokyo. Il monte Fuji sullo sfondo, severo come un Dio, e un antico ryokan appoggiato in un giardino giapponese in cui stare senza fare nulla per un paio di giorni. Ascoltare i ruscelli e le fronde degli alberi. Immergersi nelle vasche termali con la neve intorno, mangiare cibo tradizionalissimo che vuol anche dire pesce e zuppa di miso a colazione. E così sia. Nei ryokan si cena in camera, nel minimalismo più assoluto, in solitudine, però poi ci si immerge tutti insieme negli onsen a fare conversazione e diventare fantasmi nei vapori delle acque bollenti. Le donne che portano la cena e srotolano con eleganza i futon nelle camere, indossano kimono tradizionali e provano a spiegarti il complessissimo meccanismo del “togli le scarpe appena entri nel ryokan, usa le pantofole sul legno, stai scalzo sul tatami, rimetti le pantofole per il bagno ma toglile quando entri nella stanza con l’onsen, usa l’asciugamano piccolo per coprirti e lascia quello grande nella cesta all’ingresso, poi molla quello piccolo, recupera quello grande e rimettiti le pantofole perché farai un pezzo sul legno, se invece esci nel giardino, scarpe! Infine indossa il kimono, guarda la neve che cade, e goditi la pace dei sensi” Sono belle, queste donne. Timide e leggiadre, non le senti camminare, ma quando ti arrivano alle spalle non ti spaventano. Fanno parte della casa, hanno la leggerezza del bambù e della carta di gelso. Non parlano inglese, ridono con le piccole mani davanti alla bocca e hanno sempre la nuca scoperta, perché quella, per i giapponesi, è la parte più sensuale nel corpo di una donna. Decisamente poco coperti sono i lottatori di Sumo, strani esseri con i lineamenti da fanciulla e la forza di un tir. Nel periodo di Capodanno non ci sono tornei, ma si può assistere ad un allenamento in una beya (palestra). È un’esperienza bellissima, perché non ha nulla di turistico. La palestra di Arashio si trova a Tokyo nel quartiere di Ningyochor, famoso per le bambole, i biscotti, e i biscotti a forma di bambola. Si può vedere l’allenamento solo dalla strada, al di là di una grande finestra. La lotta è molto rituale. Tutto è simbolo, dallo spargimento del sale prima dell’incontro alle decorazioni del dohyo. I due contendenti si guardano negli occhi prima di dare l’assalto al corpo avversario. Sembra spostarsi lo spazio, quando si lanciano uno contro l’altro, ma tutto dura pochissimo. Massima potenza in pochi secondi. Perde chi esce dal dohyo, chi tocca a terra con una parte del corpo, chi cade e chi perde il perizoma. La pudicizia prima di tutto. I rikishi si allenano molto presto, in palestre con l’aria viziata che fa la condensa sui vetri, ma anche questo fa parte del gioco e del rito. Come il chanko, uno stufato ipercalorico che mangiano tutti insieme dallo stesso pentolone. Alle 10 del mattino. Kyoto è la città dei mille templi, l’antica capitale del paese (fino al 1868), e oggi il centro culturale del Giappone. È anche la città del famoso Padiglione d’oro a cui Yukio Mishima dedicò un romanzo. La guida Kyoko (che vuol dire figlia rispettosa), sarcastica e pessimista, ci racconta che ormai il suo è diventato un paese di “kimono in poliestere”, per sottolineare come le tradizioni stiano svanendo per far posto a paccottiglia e fregature per Un sentiero buio , porterAà sicuramente ad uno spazio aperto i turisti. Lo dice perché non è mai stata in Cina, dove effettivamente infilano le bancarelle di gadgets anche nei templi. Kyoto è un po’ turistica, è vero, ma l’atmosfera vince ancora sul karaoke. Ci sono le abitazioni interamente in legno, i canali in miniatura e le geishe che sfuggono agli sguardi indiscreti. Ci sono soprattutto i giardini dei templi, luoghi perfetti che raccontano storie immaginifiche. Tra i più belli e intimi, il Rock Garden del Daisen-In Temple, in cui l’architetto ha provato a esprimere lo spirito Zen solo attraverso la sabbia e le rocce. È piccolo e astratto, ma una volta compreso il linguaggio, è bellezza senza compromessi. Lo Shrine Garden, invece, più grande e sontuoso, è una meta di pellegrinaggio durante la fioritura dei ciliegi. L’architetto ha utilizzato la tecnica shakkey, rendendo il paesaggio retrostante parte integrante della composizione e la sensazione di armonia, totale. Un altro aspetto che rende i giardini giapponesi così magici è che i giochi di luce e ombre hanno una valenza psicologica. Un sentiero buio porterà sicuramente ad uno spazio aperto, alla luce piena, così da far provare a chi passeggia un brivido di gioia, e la sensazione che il brutto sia passato per sempre. Il complesso buddhista del Koyasan si trova in cima ad una montagna nella Penisola di Kii, ed è uno dei luoghi più sacri del Giappone. Non ci sono alberghi, si dorme nelle foresterie dei templi e si mangia una cucina vegetariana senza carne, pesce, cipolle e aglio. L’aglio e la cipolla sono vietati per rispetto ai luoghi sacri. Meglio avere l’alito profumato al cospetto degli Dei. Non scherzano, da queste parti. I monaci studiano un buddhismo esoterico e praticano il silenzio, anche se poi non pagano le tasse e investono in borsa. Ebbene sì, sono ricchi questi religiosi. Meglio sorvolare sulle contraddizioni, che se no tutto diventa indegno. Degno di essere attraversato in silenzio e con devozione è invece l’Oku-no-in, un cimitero con migliaia di cedri e tombe in pietra. L’atmosfera è crepuscolare, con la nebbia bassa che nasconde i piedi e le ginocchia. Tra gli alberi spuntano le statue di Jizo, il Bodhisattva protettore dei bambini, che i pellegrini vestono con cappelli di lana e bavaglini trasformandolo in un pupazzo grottesco. E dopo il ritiro spirituale, il viaggio termina con un paio di giorni nella Las Vegas del Giappone. Osaka è una città apparentemente priva di fascino. Quasi interamente rasa al suolo dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, si presenta grigia e poco poetica. Il suo bello è un bello pop e godereccio. Il quartiere di Dotombori è un susseguirsi di ristoranti a buon mercato e sale a gioco in cui l’alienazione regna sovrana. I pachinko, una via di mezzo tra un flipper e una slot machine, sono migliaia. File ininterrotte di ragazzi si giocano le giornate e gli stipendi dall’alba all’alba, in un ambiente stravolto di luci fosforescenti. Un inferno nelle mani della Yazuka, che ha fatto del gioco d’azzardo la sua attività principale. Ma a Osaka in compenso si mangia benissimo, dalle cene tradizionali Kayseki allo street food da combattimento. Il sushi è solo una piccolissima parte di un universo culinario infinito e incantevole, per gli occhi e per il palato. Tutto è esteticamente ineccepibile e la varietà sconfinata. Dai tre tipi di spaghetti in brodo, ramen, udon e soba, agli yakitori delle bancarelle (spiedini di pollo). Dalla okonomiyaki, un pancake di cavolo e calamari che suona strano lo so, ma invece c’è da diventarne più schiavi di un Big Mac, ai dolci fatti con la pasta dei fagioli azuki. E poi il temibilissimo fugu, il manzo di Kobe, la carne di Omi e le polpette di polpo in pastella delle bancarelle. Si beve saké, si beve birra, e si beve il the matcha che ha il colore dei prati finti all’inglese, ma è raffinato, amaro, e difficilissimo da preparare. Sono passate due settimane, ma il Giappone e i giapponesi sono ancora un mistero. Il wabi-sabi, la visione del mondo che permea ogni cosa, restituisce un senso di caducità che però non diventa tristezza, ma delicatezza struggente che si sente persino nelle sale gioco e nei negozi di calzini con Hello Kitty. È la bellezza che vince sulla modernità, sui gruppi di turisti con la guida, e persino sui kimono in poliestere. Ma è anche la bellezza che perde miseramente nelle stragi dei delfini nella baia di Taiji. Non è un paese facile da capire, ma vale la pena provarci.