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Commento integrale ai canti I, III, VI, XI, XVII e XXX del

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Commento integrale ai canti I, III, VI, XI, XVII e XXX del
1
Indice
1.Introduzione generale alla terza cantica del
Paradiso (p. 2)
2. Primo canto (p. 7 )
3. Terzo canto: Piccarda Donati (p. 16)
4. Sesto canto: il discorso di Giustiniano (p.21)
5. Undicesimo canto: san Tommaso d’Aquino e san
Francesco (p. 28)
6. Diciassettesimo canto: la profezia di Cacciaguida (p.
38)
7. Trentesimo canto: la visione di Dio (p. 47)
2
Introduzione generale alla terza cantica del Paradiso
3. I tempi del viaggio di Dante
3
Dante vuole espressamente che al suo viaggio, un’esperienza reale e concreta (come per es. nella
Bibbia il passaggio del Mar Rosso che conduce gli Ebrei dall’Egitto alla Terra promessa), si
attribuisca anche un significato ulteriore: il viaggio è anche un cammino di passione (Venerdì),
redenzione (sabato/Pasqua) e rinascita (7 giorni della creazione) di Dante uomo e dell’umanità
intera. Non solo: collocare la propria vicenda personale di traviamento e redenzione nella più
ampia luce delle grandi categorie della cristianità (passione, morte e resurrezione di Cristo da una
parte, la creazione dall’altra) è in sintonia con l’esigenza tipicamente medievale di collegare
particolare e universale, di dare un significato generale ed esemplare alle personali vicende umane.
Il Paradiso
In una prospettiva strettamente spaziale, il Paradiso è tutto ciò che sta al di sopra della sfera del
fuoco, che segna il confine tra le cose contingenti (deperibili e mutevoli) e le cose trascendenti
(incorruttibili ed eterne): le prime sono al di sotto di essa, le seconde al di sopra. Per quel che
riguarda le differenze strutturali, dobbiamo innanzitutto precisare che il Paradiso, come Dante lo
vede e lo racconta, non esiste. L’Inferno è un luogo reale, destinato a permanere, nella forma in
cui Dante lo visita, oltre il giudizio finale. La montagna del Purgatorio è allo stesso modo un luogo
tangibile, sia pure destinato a sparire, come luogo di purgazione, al momento in cui l’ultima anima
avrà spiccato il volo verso il cielo, alla fine dei tempi. Il Paradiso al contrario – come vedremo
meglio in seguito - è soltanto uno spettacolo, una sorta di straordinario show allestito da Dio
stesso per un solo spettatore: Dante.
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Dante immagina il Paradiso come un sistema astronomico costituito da nove cieli, che
sono sfere concentriche fatte di materia cristallina e incorruttibile (la quinta essenza o etere) e
ruotanti attorno alla Terra. I primi sette cieli prendono il nome dal pianeta che ruota all’interno di
ognuno di essi: Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno. Il cielo delle stelle fisse
contiene tutti gli astri che ruotano intorno alla Terra in posizioni reciproche sempre uguali tra loro.
Tutto il sistema dei nove cieli concentrici è inglobato nell’Empireo, cielo infinito che si
identifica con Dio stesso: esso è una sorta di cielo che si distingue dagli altri per essere immobile.
Nell’Empireo (in greco la parola significa «infuocato», ovviamente dall’amore divino) ha
propriamente sede Dio; l’Empireo è uno spazio senza confini, eterno e infinito, è una dimensione
puramente spirituale, fatta di luce e di amore, dove risiedono eternamente le anime dei beati in
contemplazione di Dio; le anime dei beati hanno sede nell’Empireo in una sorta di anfiteatro,
gerarchicamente ordinato, al centro del quale c’è il lago di luce della Grazie divina.
Nell’Empireo è contenuto il cielo nono o Primo Mobile, al quale la potenza divina si
trasmette come movimento rapidissimo. Dal Primo Mobile tale movimento si comunica via via ai
cieli sottostanti, differenziandosi, grazie all’intervento operativo degli angeli. Il Primo Mobile o
Cristallino è il cielo più esterno e più vasto; invisibile dalla Terra, non contiene astri. Essendo il
cielo più vicino all’Empireo, la sede di Dio, ruota vertiginosamente spinto dall’amore per il suo
creatore; questo movimento si trasmette ai cieli sottostanti. Per questo il nono cielo è detto Primo
Mobile.
Le anime dei beati
A differenza di quanto avviene nell’Inferno e nel Purgatorio, nel Paradiso le anime dei beati
non risiedono stabilmente in uno dei cieli, bensì vi si recano solo per apparire a Dante e per fargli
comprendere meglio il legame tra quel cielo e la virtù che le ha rese beate. In realtà le anime
risiedono tutte nella «candida rosa», una specie di gigantesco anfiteatro che Dante vede formarsi
a poco a poco dopo essere entrato nell’Empireo. In questa immensa assemblea, esse sono divise in
due metà: da un lato quelli che credettero nel futuro arrivo di Cristo, dall’altro quelli che
credettero in Cristo dopo la sua venuta.
Fin dal primo cielo, Dante capisce che i beati sono riuniti tutti insieme e che «ogne dove /
in cielo è paradiso» (III, 88-89): qui non valgono le categorie mentali umane di spazio e tempo,
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perché tutto è presente nello stesso momento in un unico punto, cioè nella mente di Dio. Le
anime dei beati sono tutte sullo stesso piano, nel senso che tutte si trovano nella pace
dell’Empireo, in eterna contemplazione di Dio, a lui più o meno prossime secondo il grado di
perfezione della loro beatitudine. Per conferire concretezza visiva al manifestarsi dei beati, Dante
immagina che le anime da lui incontrate, per una grazia speciale, concessa al poeta, siano discese
dal luogo nel quale eternamente si trovano (la rosa dei beati nell’Empireo) in uno dei sette cieli,
che più corrisponde alla loro inclinazione al bene. In sostanza, le anime si mostrano nei vari cieli a
seconda di quale fu l’influsso che determinò maggiormente il loro bene operare. Così si
susseguono: 1) nel Cielo della Luna, presieduto dalla gerarchia celeste degli Angeli, le anime di
coloro che furono impediti nel mantenimento dei voti a causa di una violenza subita (la tradizione
astrologica attribuiva alla Luna l’origine di influissi mutevoli e infatti vi compaiono anime che non
poterono adempiere a un voto fatto in Terra); 2) nel cielo di Mercurio, presieduto dalla gerarchia
celeste degli Arcangeli, le anime di coloro che hanno agito bene, ma spinti dal desiderio di gloria e
di onore (si tratta pertanto di anime ancora eccessivamente legate alla prospettiva limitante del
mondo); 3) nel cielo di Venere, presieduto dai Principati, gli spiriti amanti; 4) nel cielo del Sole,
presieduto dalle Potestà angeliche, gli spiriti sapienti; 5) nel cielo di Marte, presieduto dalla
gerarchia angelica delle virtù, le anime dei martiri e di coloro che combatterono per la fede; 6) nel
cielo di Giove, presieduto dalle Dominazioni angeliche, le anime di coloro che amarono e
praticarono la giustizia; 7) nel cielo di Saturno, presieduto dalle intelligenze angeliche dei Troni, gli
spiriti contemplativi; 8) nell’ottavo cielo o cielo delle stelle fisse, presieduto dai Cherubini, Dante
può contemplare il trionfo di tutti i beati compresi la Vergine Maria e Cristo, mentre nel nono cielo,
o Primo Mobile, presieduto dai Serafini, Dante ha la percezione dell’origine della Creazione e
contempla l’ordine delle nove gerarchie angeliche, intelligenze motrici dei nove cieli, visibili sotto
forma di nove cerchi luminosi ruotanti intorno a Dio, che si presenta come un punto centrale
ancora più luminoso. Nell’Empireo, sede propria di Dio, compare a Dante tutta la corte celeste: i
beati, che come una fiumana di luce, si dispongono come i petali di una candida rosa, e gli angeli.
Perché dunque il Paradiso è soltanto uno spettacolo, una sorta di straordinario show
allestito da Dio stesso per un solo spettatore, Dante?
Apparentemente sembra che il Paradiso sia un luogo fisico, perché anche qui, come negli
altri regni c’è una topografia particolare, costituita dai cieli come li rappresenta la cosmologia
tolemaica (nove); anche qui Dante viaggia, di cielo in cielo. Il problema è tuttavia che ciò che
appare al poeta di cielo in cielo non esiste veramente lì, in quella forma: le anime dei beati
scendono dal loro luogo, l’Empireo (dalla rosa dei beati), il vero Paradiso, per consentire al divino
pellegrino di imparare via via i misteri della fede cristiana e di penetrare, come egli può, per gradi
successivi, nel mistero di Dio. Questo muta radicalmente anche le modalità di comunicazione fra
Dante e le anime che egli incontra. All’Inferno e in Purgatorio egli era un visitatore, a volte un
intruso male accolto, e talvolta anche in Purgatorio, liquidato con impazienza (pensa all’incontro
con Catone). Di conseguenza il suo dialogo con le anime aveva tutti i caratteri dell’accidentalità e
dell’improvvisazione; doveva ritagliarsi il suo spazio nella vita di interlocutori ben altrimenti
affaccendati. Qui, invece, in Paradiso, i santi scendono dall’Empireo apposta per parlare con Dante.
Inoltre le anime sanno sempre in anticipo ciò che Dante pensa o vorrebbe dire, perché leggono
tutto come già riflesso nella mente di Dio. La comunicazione, in Paradiso, perde dunque la sua
urgenza informativa, e diventa più espressiva, un atto non funzionale, ma di espansione verbale e
fisica dell’affettività.
La guida
Dante si rivolge a Beatrice per esprimerle la sua intensa gioia e il suo stupore, ma non la
trova più al suo fianco: ormai portata a termine la sua missione, la donna è tornata a occupare il
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suo posto nel terzo giro della rosa. La terza guida di Dante, nell’ultima tappa del viaggio (la visione
di Dio), è Bernardo da Chiaravalle, monaco e abate francese dell’ordine cistercense, fondatore
della celebre abbazia di Clairvaux (Chiaravalle) e di altri monasteri, vissuto nel XII secolo (10901153) e rappresentante più insigne della teologia mistica. Sarà il «santo sene», cioè Bernardo, a
rivolgere una preghiera d’intercessione alla Vergine (Paradiso XXXIII, 1-39) affinché Dante possa
accedere alla contemplazione di Dio e affinché gli conceda la virtù necessaria per sostenerla.
Perché proprio San Bernardo? Per due ragioni: a) perché è stato un grande mistico ed è solo
attraverso la teologia mistica che Dante può arrivare alla contemplazione di Dio. Egli interviene
non a caso nel momento in cui bisogna abbandonare la teologia operativa (Beatrice) per
abbandonarsi alla pura intuizione della divinità, ottenuta soltanto attraverso la grazia gratuita; b)
in secondo luogo perché è devoto di Maria, grazie alla quale, come si racconta nel II canto
dell’Inferno, Dante è stato aiutato a uscire dalla condizione di peccato nella quale si trovava.
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Il primo canto del Paradiso
Sintesi del contenuto
Il proemio
vv. 1-12
Prima terzina. Il Paradiso si apre con una solenne e maestosa invocazione a Dio, la cui gloria si
diffonde per tutto l’universo. La gloria di colui che tutto move è da intendersi come un sinonimo
della luce divina. Di quella gloria si dice infatti che penetra e risplende, diffondendosi e
manifestandosi per tutto l’universo. Subito dopo Dante afferma di essere stato proprio nel cielo
che, all’interno della creazione, riceve di più di quella gloria-luce, vale a dire nell’Empireo. Egli ci
rivela di aver visto cose, che chi torna in quel luogo non sa né può ridire. Una volta infatti che
l’uomo è giunto vicino all’oggetto del suo massimo desiderio (disire), il suo intelletto si sprofonda
tanto in quello, abbandonando il mondo sensibile e la dimensione della memoria che non può
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seguirlo. Dante sostiene in sostanza che è impossibile ripetere nella memoria l’esperienza della
visione di Dio: l’intelligenza cerca di riavvicinarsi il più possibile a quell’obiettivo, ma non c’è
memoria umana capace di registrare, e poter esprimere adeguatamente quello sforzo supremo.
Ma nonostante tutto, quel poco che Dante riuscirà a ricordare sarà comunque materia del suo
canto.
2) La protasi, che costituisce l’incipit del Paradiso, mette subito in evidenza due caratteristiche
fondamentali della terza cantica in forte contrapposizione tra loro:
a) da una parte lo sfolgorio della gloria-luce di Dio, che pervade in misura maggiore o minore tutto
l’universo, b) dall’altra i poveri mezzi che Dante avrà a disposizione per tentare di ridire, di
raccontare lo sfolgorio di quella luce.
A) Quanto al primo, Dante afferma che la luce, e quindi la presenza di Dio, è dappertutto
nell’universo, anche se variamente distribuita. Il picco di luce divina si registra «nel ciel che più de
la sua luce prende»: l’Empireo, destinazione ultima del viaggio paradisiaco di Dante, qui anticipato
come la tappa finale, quella che lo ha portato più vicino a Dio. Il tema della luce come emanazione
e manifestazione della divinità deriva dalla filosofia platonica e neoplatonica, la quale pensava
che la creazione, partendo da Dio – luce assoluta – non potesse che perdere a poco a poco
splendore, dando vita a forme di esistenza via via meno nobili e sempre più lontane dalla divinità.
Tale concezione era stata incorporata nella teologia cristiana, e viene riecheggiata anche qui da
Dante, anche se in senso gioioso e positivo.
b) Soffermiamoci ora sul secondo aspetto: Dante è stato nel cielo (io fui nel cielo), l’Empireo, che
è il luogo del cosmo invaso in più alto grado dalla luce gloriosa di Dio. Lì ha visto cose che non
possono essere ripetute da nessuno che abbia avuto il privilegio di tornare sulla terra dopo quella
visione, perché l’intelletto si è inabissato così profondamente nel mistero divino, che la memoria
non può stargli dietro, dal momento che la memoria appartiene alla sfera corporea e sensoriale,
mentre l’intelletto all’anima razionale, che può spingersi, con la grazia di Dio, fino all’altezza della
mente divina. Ci attende quindi il resoconto di un viaggio in cui il narratore si troverà a combattere
non soltanto con la propria lingua e il proprio stile, impotenti a rappresentare il Paradiso, ma con
la propria memoria, che non riuscirà a serbare se non una minima parte della visione. Essa è
avvenuta, infatti, in condizioni speciali e ormai non più riproducibili: l’intervento della grazia divina
che ha consentito l’accesso ai misteri di Dio non è più attivo, e il Paradiso ha lasciato soltanto una
labile traccia nella mente del poeta. Anche nei rispettivi proemi delle altre due cantiche Dante
confessa la limitatezza delle sue risorse umane e poetiche nel riferire quel che ha visto durante il
viaggio di discesa nell’abisso del male e di risalita verso i vertici del bene. Qual è allora la grade
differenza rispetto al Paradiso? I due primi viaggi erano stati affrontati con i sensi (udito, tatto,
olfatto, vista), percepiti e vissuti facendo ricorso alle normali risorse della nostra vita fisica, del
nostro corpo. Non così in Paradiso. Vissuto travalicando i limiti dei sensi umani, il Paradiso non può
essere né raccontato né, prima ancora, ricordato da chi sia poi entrato nella normalità
dell’esistenza.
Ricapitolando, appare qui uno degli aspetti fondamentali della poesia del Paradiso: la
consapevolezza dichiarata della propria insufficienza rispetto al tema, sia dal punto di vista delle
risorse umane (la memoria, lo sforzo di ricordare un’esperienza mistica indicibile avvenuta in
condizioni speciali e irripetibili) e stilistiche (come è possibile descrivere la luce sovrumana di Dio?).
vv. 13-36: l’Invocazione ad Apollo
Note
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L’un giogo di Parnaso: il monte Parnaso, che nel mondo classico era simbolo della poesia, è
costituito da due cime, chiamate Cirra (cfr. v. 36) e Nisa, sacre rispettivamente ad Apollo e a Bacco.
Dante, però, come altri autori medievali, sembra confondere uno dei due gioghi con il monte
Elicona, sacro alle Muse e quindi anch’esso associato alla poesia. Per affrontare l’ultima gara che
gli è rimasta (aringo = termine di origine germanica indicante il campo di gara e, per estensione, la
gara stessa; in senso figurato sta a significare l’ardua prova che il poeta deve affrontare scrivendo
il Paradiso).
L’invocazione ad Apollo
13-27: prima parte
Invocazione ad Apollo e speranza di ottenere l’alloro poetico. La prima parte dell’invocazione si
può suddividere in due sezioni:
a) nella prima, che occupa le prime tre terzine, Dante «si rivolge ad Apollo, antico dio ispiratore di
poesia, perché, nella stesura del suo ultimo lavoro così arduo, lo renda capace di recepire la sua
virtù (fammi del tuo valor sì fatto vaso), nella misura che egli ritiene giusta per assegnare l’alloro,
ovvero la corona destinata ai grandi poeti. Per cantare il viaggio che ha compiuto nell’Inferno e nel
Purgatorio, Dante ha invocato l’aiuto delle muse che abitano una delle due cime del monte
Parnaso; adesso però è necessario il supporto anche di Apollo che dimora sull’altra cima del monte,
Cirra, per poter iniziare la sua ultima sfida. Rivolgendosi nuovamente ad Apollo, Dante lo prega di
entrare nel suo cuore (entra nel petto mio), di cantare al suo posto (spira tue, dove «tue» è tu con
epitesi (estensione) fiorentina, qui anche per ragioni di rima), con la stessa intensità e forza del
canto con cui vinse in duello il satiro Marsa, che scorticò vivo con la sua pelle.
b) Nella seconda parte, di nuovo un’invocazione ad Apollo (o divina virtù) con la quale Dante
chiede che gli venga concessa la facoltà di mostrare agli altri uomini ciò che del «beato regno» è
rimasto impresso nella sua memoria. Ed egli si inchinerà ai piedi della pianta di alloro, così amata
da Apollo, per coronare con quelle foglie la sua fronte, se attraverso la sua ispirazione e
l’argomento sacro si dimostrerà degno di tanto onore».
Il proemio del Paradiso come superamento dei proemi delle precedenti cantiche.
a) Richiesta del supporto congiunto delle Muse e di Apollo, delle numi tutelari della poesia al
completo. Nel II canto dell’Inferno (il primo della cantica a tutti gli effetti, perché il I canto serviva
a prologo di tutta l’opera), Dante aveva invocato, piuttosto rapidamente, le muse; nel I canto del
Purgatorio aveva fato appello ancora alle sante Muse, e in particolare, alla più nobile di esse,
Calliope, e aveva rammentato la sfida delle nove sorelle, le Muse, con le Piche, le quali, sconfitte,
erano state punite con la trasformazione in gazze. Adesso, sulla soglia del Paradiso, Dante mette in
chiaro che invocare le Muse non gli basta più, ora gli occorre l’ausilio di ambedue, delle Muse e di
Apollo. Sotto questo aspetto il superamento dei proemi delle due cantiche precedenti è evidente:
Dante ha bisogno del sostegno dei numi tutelari della poesia al completo per affrontare la
narrazione di una materia difficilissima, ardua, una vera a propria missione impossibile.
b) Il mito di Marisa vs mito delle Piche. Nella stessa ottica si colloca l’accenno al mito del satiro
Marsia: se nel Purgatorio si era ricordata la sfida delle Muse con le Piche, adesso si cita quella di
Apollo con Marsia, finita anch’essa con la sconfitta dello sfidante e con una punizione ancora più
atroce (Marsia viene scorticato vivo).
c) LA CONSAPEVOLEZZA DEL VALORE DELLA PROPRIA POESIA E L’ASPIRAZIONE ALLA GLORIA
POETICA. Il terzo motivo per cui il proemio del Paradiso è concepito come un superamento dei
precedenti, è negli ultimi versi (vv. 25-27): qui, e più ancora nel celebre inizio del canto XXV, Dante
manifesta la speranza che la cantica del Paradiso possa ottenergli la corona d’alloro. Il motivo
dell’incoronazione indica in modo significativo la consapevolezza che il poeta ha del valore della
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sua poesia e, in particolare, della grande poesia del Paradiso (consapevolezza che verrà
solennemente proclamata nei primi versi del II canto, vv. 1-15).
Nel chiedere all’inizio del Purgatorio l’aiuto delle Muse, Dante aveva rievocato un’altra sfida
fatta da morali a immortali, e un’altra conseguente punizione: le Pieridi trasformate in gazze.
Perché questa insistenza? Nel rievocare, dando inizio alla trattazione di materia sempre più alta,
le due punizioni, Dante rivolge a sé stesso un monito, che è, come ben sappiamo, uno dei più
costanti dell’intera Commedia e sarà solennemente ribadito anche all’inizio del canto seguente. È
possibile affrontare in poesia anche i temi più ardui per le forze umane, purché si sappia che ciò è
un dono divino, che è la divinità stessa a parlare per bocca del poeta. Dante si pone in guardia
contro quella che egli sa bene essere la sua nemica, la superbia. Marsia e le Pieridi sono mortali
che hanno creduto di poter fidare unicamente sulle loro forze umane, senza e anzi contro la
divinità, e sono stati sconfitti e puniti. L’ingegno deve dunque essere costantemente guidato dal
pensiero di Dio, pena la perdita del bene eterno.
vv. 28-36: la seconda parte dell’invocazione ad Apollo
Parafrasi dei vv. 28-33: O padre Apollo, così di rado si dà l’occasione di cogliere del tuo alloro per
adornare il trionfo di un capitano vittorioso o di un poeta, per colpa delle basse aspirazioni degli
uomini di oggi, i quali non ambiscono più a tali onori, e se ne dovrebbero vergognare – che la
fronda dell’albero i cui fu trasformata Dafne, la figlia di Peneo, quando invoglia qualcuno al suo
possesso (di sé asseta), dovrebbe avere l’effetto di generare letizia nella già lieta divinità di Delfi»
(Apollo stesso, che a Delfi aveva il suo più celebre tempio e oracolo, dovrebbe essere ben contento
se qualcuno aspira alla corona d’alloro dell’eccellenza poetica).
Ultima terzina: talvolta basta anche solo una favilla per suscitare un grande incendio / forse, dopo
di me, poeti migliori rivolgeranno invocazioni, perché Apollo risponda.
Il proemio si chiude con un’amara constatazione: non accade più di incoronare con l’alloro un
imperatore o un poeta, in grado di guidare l’umanità verso il bene, perché i tempi e gli uomini
sono corrotti. Apollo dovrebbe tuttavia gioire se qualcuno – come Dante – nutre ancora il
desiderio di cingersi con le foglie della pianta cara al dio. I migliori poeti saranno non coloro che
avranno maggiori risorse poetiche, ma coloro che sapranno meglio pregare. 2) I versi costituiscono
un atto di umiltà, in perfetta sintonia con il tema centrale del proemio: la dichiarazione della
povertà dei propri mezzi umani e poetici di fronte all’ardua impresa di cantare l’indicibile,
l’ineffabile.
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Seconda parte (vv. 37-81): dal paradiso terrestre al paradiso vero e proprio. L’esperienza del
«trasumanar».
1) vv. 38-42. La perifrasi astronomica.
Come era avvenuto nell’Inferno (II, 1-5) e nel Purgatorio (I 13 ss. e 115-117), una complessa
perifrasi astronomica segna l’avvio della narrazione vera e propria dell’ultima parte del viaggio
dantesco. Prima di riprendere il racconto, il poeta indica il tempo dell’inizio del suo viaggio. Il
preciso significato astronomico di questi versi è complesso e assai discusso. Se ne ricava (con
qualche fatica e incertezza di lettura) che siamo nel mezzogiorno dell’equinozio di primavera,
quando le coordinate costituite dall’orizzonte, dall’eclittica (traiettoria (cerchio massimo) descritta
apparentemente dal Sole sulla sfera celeste nel suo corso annuale; deriva il suo nome dal fatto che
le eclissi hanno luogo quando la Luna viene a trovarsi con la Terra e il Sole nel piano dell’eclittica, e
allineata con essi), dal meridiano equinoziale e dall’equatore (i quattro cerchi) si congiungono nel
punto in cui sorge il sole, dando luogo a tre croci, anche se alquanto imperfette, ovvero non
proprio ad angolo retto. Quattro cerchi, come le virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza,
temperanza: sono le virtù umane principali, riguardano essenzialmente l'uomo e costituiscono i
pilastri di una vita dedicata al bene), tre croci, come le virtù teologali (fede, speranza e carità; sono
le virtù che quelle virtù che riguardano Dio, rendono l'uomo capace di vivere in relazione con la
Trinità e fondano ed animano l'agire morale cristiano, vivificando le virtù cardinali).
Al v. 39, con una complessa immagine astronomica di difficile interpretazione, Dante afferma che il
viaggio verso i cieli del paradiso ha inizio quando quattro cerchi si incrociano formando tre croci. I
quattro cerchi citati dovrebbero essere l’equatore celeste, l’eclittica (cioè il cerchio massimo
descritto dal sole in un anno), il meridiano equinoziale (il meridiano celeste che passa per i poli e
punti equinoziali) e l’orizzonte; le tre croci formerebbero nel punto in cui sorge il sole l’equinozio
di primavera.
2) Il poeta usa un’immagine concreta, in questo caso astronomica, per dire qualcosa che va oltre
l’immagine stessa. L’immagine dei quattro cerchi (che richiamano le quattro virtù cardinali) che si
“giungono” con tre croci (le tre virtù teologali) può rappresentare proprio la congiunzione tra cielo
e terra, il segno della riconciliazione tra Dio e l’uomo: il simbolo per eccellenza di questa
riconciliazione è proprio la croce. Infine è importante anche il luogo in cui Dante vede la
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congiunzione tra cerchi e croci: il poeta non è ancora salito al cielo., si trova ancora nel paradiso
terrestre, cioè in quel giardino che, all’inizio dei tempi, aveva segnato, seppur per poco, lo stato di
perfetta armonia tra il Creatore e le sue creature, prima che queste ultime commettessero il
peccato originale.
2) vv. 43-54
Parafrasi vv. 43-45: il sole, sorgendo da tal foce, cioè dal punto dell’orizzonte appena descritto,
aveva fatto mattina (mane) di là, cioè nell’emisfero australe dove si trovavano Dante e Beatrice, e
sera di qua, cioè nell’emisfero boreale interamente buio.
Parafrasi 49-54: e così come un secondo raggio suole generarsi per rifrazione dal primo (che
abbia colpito una superficie riflettente) e ritornare in su, proprio come un falcone pellegrino che
vuole tornare in alto (dopo essersi avventato sulla preda), così dall’atto di Beatrice, percepito
attraverso gli occhi della mia immaginazione, si generò il mio, e fui capace di fissare il mio sguardo
nel sole al di là di quanto noi uomini siamo abituati a fare. Dante vuol dire che egli ripete il gesto
che vede fare a Beatrice, usando due similitudini: la riflessione di un raggio di luce e il movimento
di un falcone da caccia, che dall’alto scende sulla preda e risale verso l’alto. Ma secondo molti
interpreti, pelegrin potrebbe essere anche un vero e proprio pellegrino, ansioso di tornare in
patria dopo aver compiuto il suo pellegrinaggio: in questo caso, tuttavia, il parallelismo col doppio
movimento del raggio, incidente e riflesso, verrebbe a cadere.
Inizio del viaggio/ Dante e Beatrice fissano lo sguardo direttamente nel sole
1) Dopo aver precisato l’ora precisa dell’inizio dell’ultima parte del viaggio (mezzogiorno del 21
marzo 1300), Dante vede Beatrice volta sul fianco sinistro, verso oriente, con lo sguardo fisso nel
sole, come mai nessuna aquila (uccello che, secondo i Bestiari [un genere di testi, particolarmente
in voga nel Medioevo, che costituivano una sorta di campionario o enciclopedia di descrizioni di
animali (reali e immaginari), accompagnate da spiegazioni moralizzanti e riferimenti tratti dalla
Bibbia.] medievali ha la possibilità di guardare il sole per un lungo tempo e di volare molto in alto)
era stata in grado di fare. E come un raggio di luce, colpendo una superficie riflettente rimbalza
verso l’alto, verso il luogo da cui proviene, e come il pellegrino cerca di far ritorno alla sua patria
(oppure come il falco, dopo aver catturato la preda, riprende il volo), così il poeta, che con gli occhi
ha seguito il gesto di Beatrice e lo ha impresso nella sua mente, lo ripete e alza lo sguardo verso il
sole, mantenendolo per un tempo maggiore di quanto un uomo normalmente possa sopportare.
2) Dante deve spiegare come mai anch’egli, imitando Beatrice, riesca a fissare la luce del sole con
un’intensità assai superiore a quella delle normali capacità umane. Per farlo usa due similitudini: la
prima, quella del raggio riflesso, attinta al mondo della scienza, la seconda quella del pellegrino o
del falco (dipende dalle interpretazioni che si vogliono attribuire ai versi), derivante dalla normale
esperienza di vita dell’epoca.
3) Il gesto di Beatrice solo in apparenza è semplice, perché è un gesto che forza oltre i suoi limiti le
risorse umane: nessuno può fissare gli occhi nel sole, normalmente, senza rimanerne abbagliato.
Tant’è vero che Dante deve ricorrere alle discutibili credenze del suo tempo, ereditate peraltro dal
mondo classico, secondo cui solo l’aquila,fra tutti i viventi, poteva guardare dritto al sole: Beatrice,
infatti, contempla il disco solare con un’intensità che mai aquila, afferma Dante, ne dimostrò
l’eguale. L’immagine di Beatrice che fissa gli occhi nel disco solare ci fa capire, dunque, che siamo
alle soglie di un mondo e di un’esperienza, dove nulla ormai funzionerà più come siamo abituati
noi a vedere sulla terra, e come, più o meno, siamo stati abituati a vedere anche nell’Inferno e nel
Purgatorio. La doppia similitudine serve proprio a rimarcare questo aspetto, questa sconvolgente
novità.
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3.vv. 55-66
Parafrasi 55-57: Molte cose che sulla terra (qui) non sono consentite (non lece) alle nostre
capacità (virtù), sono permesse nel paradiso terrestre (là), grazie al luogo stesso, creato come
dimora propria dell’umanità. Dopo la purificazione avvenuta nelle acque del Letè e dell’Eunoè,
Dante ha riacquistato la perfetta condizione di Adamo prima del peccato originale nel Paradiso
terrestre, che era stato creato da Dio come sede propria dell’uomo; tale stato di grazia rende
pertanto più acute anche le facoltà sensitive. Guardare il sole rappresenta per Dante il momento
della raggiunta perfezione etica e intellettuale, grazie al quale egli può iniziare l’ascesa al cielo.
L’essere riuscito a fissare gli occhi nel sole è quindi un atto superiore alla capacità umana e Dante
ne dà ragione ai vv. 55-57: il Paradiso era stato creato da Dio come dimora perfetta dell’uomo, che,
uscito perfetto dalle mani del creatore, possedeva facoltà sensibili in grado assai maggiore di
quanto rimasero in lui dopo il peccato e la cacciata all’Eden. Dante, purificato, è nelle condizioni di
Adamo prima del peccato. Il poeta confessa tuttavia di non essere riuscito a tollerare a lungo lo
splendore del sole, ma neppure per un periodo troppo breve da non vederlo lanciare faville tutto
intorno, come fa il ferro che esce incandescente dal fuoco. Dante ha la sensazione di una luce così
intensa che un altro sole, per opera di Dio, pare essersi aggiunto al primo. È il secondo passaggio:
l’immagine del progressivo crescere dello splendore e del fuoco, che sembra nascere dai raggi del
sole, segna l’ascesa del poeta dalla terra del Paradiso terrestre al cielo della Luna, segna cioè il
passaggio della sfera del fuoco che delimita il confine tra il mondo corruttibile e imperfetto (la
terra) e il mondo perfetto e incorruttibile della sfera celeste. Non potendo guardare direttamete il
sole per lungo tempo, Dante usa gli occhi di Beatrice come uno specchio. Dante contempla la luce
del Paradiso celeste attraverso gli occhi di Beatrice, riflesso in essi, da essi mediato. L’immagine
evidenzia il ruolo di Beatrice nell’ultima parte del viaggio: in quanto rivelazione divina, la donna
costituisce il tramite fondamentale tra l’uomo e Dio.
4.vv. 67- 81
vv. 66-69: nel fissare lo sguardo (aspetto, adspicium?) in Beatrice, Dante si sente trasformare
dentro di sé come si sentì trasformare Glauco, quando assaggiò l’erba che lo rese un dio marino,
compagno della altre divinità acquatiche. Racconta infatti il poeta Ovidio (Metamorfosi XIII, vv.
898 ss.) che Glauco, povero pescatore della Beozia (regione della Grecia), aveva osservato come i
pesci da lui pescati, a contatto con una certa erba del litorale, tornavano vivi e guizzanti, e
saltavano di nuovo nell’acqua; assaggiatale, egli si trovò trasformato in un istante nel dio del
mare.
Seconda terzina: l’esperienza di superare i confini dell’umano non si potrebbe dire a parole.
Trasumanar è neologismo dantesco, il primo dei tanti che il poeta inventerà in questa cantica,
sollecitato dall’esigenza di forzare i limiti della lingua normale, per descrivere un’esperienza
assolutamente fuori dalla normalità. A cui esperienza grazia serba: per coloro ai quali la grazi di
Dio tiene in serbo l’esperienza vera e concreta del trasumanar. SI tratta di coloro che, in altre
parole, per grazia di Dio andranno in Paradiso, potranno sperimentare personalmente che cosa
significa oltrepassare i confini dell’umano: per il momento, però, si devono accontentare del
paragone istituito da Dante con il mito antico, per avere un’idea di quello che li aspetta.
Parafrasi, vv. 73-75: se io ero, nel mio essere, solo la parte che tu creasti per ultima (cioè l’anima:
il riferimento è all’episodio biblico in cui Dio soffia l’anima in Adamo dopo averne plasmato il
corpo; Dante non sa se, salendo verso il paradiso, è ancora in possesso del corpo fisico o se è
solamente anima, puro spirito), o amore che governi il cielo, lo sai tu, che mi innalzasti (levasti)
14
con la tua grazia.
Terzine finali: quando il moto rotante delle sfere celesti, che tu rendi eterno (sempiterni) proprio
attraverso il desiderio di te (ovvero infondendo in esse l’impulso a ricongiungersi con te, di qui il
loro movimento), mi attirò (fece atteso) con quella musica che stesso accordi (temperi) e dirigi
nota per nota (discerni), mi parve allora che tanta parte del cielo si accendesse della fiamma
solare, che mai alluvione, per eccesso di pioggia o straripare di fiumi, formò un lago tanto ampio.
Salendo verso il cielo della Luna, e quindi avvicinandosi alle sfere celesti, Dante ne ascolta per la
prima volta l’armonia: allo stesso tempo vede che il cielo si allaga di luce: o perché il Sole stesso
(che secondo il sistema tolemaico gira anch’esso, in quarta posizione intorno alla Terra) si fa più
vicino, o perché Dante diventa qui capace di vedere la straordinaria luminosità delle sfere celesti,
composte di materia lucidissima e trasparente, o ancora perché, secondo altri interpreti (ed è
forse questa la lettura più giusta) egli sta attraversando la sfera del fuoco che gli antichi
immaginavano si interponesse tra il mondo sublunare e la prima sfera della Luna.
Sintesi: Dante tenta di descrivere una sorta di metamorfosi interiore la cui natura vera sarà
apprezzabile e conoscibile fino in fondo solo ai veri beati, a coloro che avranno la fortuna di sedere
in Paradiso a contemplare la grazia divina; per tentare di capire e far capire l’essenza di tale
metamorfosi egli ricorre al paragone mitologico del pescatore Glauco trasformato in dio. Tale
metamorfosi spirituale e divina (come sembrerebbe suggerire il paragone) è indicata con il
neologismo trasumanar, che letteralmente significa «andare oltre (trans) l’umano (umanare)»; per
descrivere un’esperienza così oltre l’umano, oltre la normalità, come quella del Paradiso, la lingua
umana non basta più. I neologismi danteschi sono il segno linguisticamente più vistoso della
tensione a cui sono sottoposte le risorse espressive di Dante, nello sforzo impari di essere
all’altezza dei contenuti di quest’ultima cantica.
La metamorfosi interiore è così sconvolgente, che in Dante affiora un dubbio: egli è salito in cielo
con il corpo o con l’anima solamente? Probabilmente – questa è l’indicazione implicita – questa
metamorfosi è l’esperienza di una vita puramente spirituale, liberata dalla prigionia della carne e
dai limiti dei sensi. Solo Dio è in grado di saperlo (tu lo sai); Dante rinvia dunque a Dio la
conoscenza perfetta della presenza o meno del corpo di chi è ammesso alla sua visione.
Nella sua ascesa al cielo della Luna, nel processo ineffabile del trasumanar, Dante percepisce il
suono armonioso e sublime prodotto dai cieli che ruotano, mossi dall’amore di Dio al quale
aspirano a ricongiungersi, e si sente invaso da un’immensa distesa di luce.
2) Dante non si accorge dello stacco da terra, non si accorge materialmente del volo graduale che
sta compiendo dal Paradiso terrestre alla sfera del fuoco e di qui al cielo della Luna: la sua
metamorfosi, il suo cambiamento è solo interiore. E’ un fatto che riguarda l’anima, fuori dallo
spazio e fuori dal tempo. Non a caso, Dante definisce tale processo ineffabile, cioè impossibile da
«significar per verba» con il neologismo «trasumanar»: la sua è davvero un’esperienza
«sovrumana», nel senso che non avviene nei confini materiali e sensibili del corpo umano, ma
riguarda principalmente l’anima, ma anche perché valica i confini dell’umano, della Terra per
ascendere alla contemplazione del divino, che è armonia sublime (la musica dei cieli che ruotano)
e lago di luce. 3) La prima esperienza è la percezione di un’armonia divina: è la musica delle sfere
celesti, accordata e regolata da quel supremo direttore d’orchestra che è Dio stesso. La seconda è
la sensazione che il sole dilaghi improvvisamente per tutta l’estensione del cielo, come
un’alluvione di luce.
Aspetti fondamentali
Il primo canto, come il secondo dell’Inferno e il primo del Purgatorio, è un’introduzione all’intera
cantica sotto due aspetti: da una parte ne definisce lo stile e la lingua (di gran lunga più elevati
rispetto alle cantiche precedenti in proporzione all’innalzamento della materia del canto),
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dall’altra preannuncia le caratteristiche distintive del regno beato, del Paradiso in cui si svolgerà
l’ultima parte del viaggio di Dante. Alla complessità della nuova materia di canto corrisponde
l’ampiezza del proemio, che occupa ben 36 versi.
Quali sono dunque gli aspetti fondamentali del Paradiso anticipati nel primo canto?
a) In primo luogo l’insistenza sulla limitatezza delle risorse umane e poetiche che Dante avrà a
disposizione per tentare di ridire, di raccontare il viaggio, l’ascesa verso la luce pure di Dio e la
sua contemplazione estatica. La lunga invocazione ad Apollo si spiega dunque con il fatto che la
scrittura dell’ultima cantica sarà particolarmente ardua e rappresenta per il poeta una sfida
altissima. La materia è troppo elevata perché la si possa raccontare con quell’accuratezza che ha
guidato le due cantiche precedenti.
b) Tale constatazione introduce il tema, molto importante, dell’ineffabilità, cioè dell’incapacità di
Dante autore di raccontare la sublime esperienza vissuta da Dante personaggio, che non può
aver trattenuto nella memoria tutto ciò che ha visto: quello che verrà raccontato nel Paradiso non
sarà altro che una pallida ombra di quell’esperienza. Tutta la terza cantica è percorsa da questo
tema, è il teatro di una lotta continua dell’autore con la memoria del personaggio, perché il primo
(l’autore) vuole mettere per iscritto ciò che il secondo (il personaggio) a rigore, non potrebbe
neppure ricordare, tanto elevata è l’avventura che ha vissuto, un’avventura che oltrepassa i limiti
delle capacità dell’intelletto umano.
c) L’altro aspetto fondamentale, strettamente legato ai precedenti, è l’esperienza della luce e
della gloria di Dio (si veda la terzina iniziale), in una parola di tutto ciò che va oltre la dimensione
umana, dunque terrena delle altre due cantiche (Inferno e Purgatorio sono luoghi fisici, il Paradiso
è immateriale), esperienza che caratterizza tutta l’ultima tappa del viaggio dantesco e che qui
viene narrato nella sua fase iniziale, di “decollo”. In effetti, l’unica azione narrata nel canto è lo
stacco dal Paradiso terrestre al cielo, dalla terra al cielo della Luna attraverso la sfera del fuoco; e
non è nemmeno una vera e propria azione, è un gioco di sguardi – quello di Beatrice fisso nel sole,
quello di Dante fisso negli occhi di Beatrice – che consente quel trasumanar, quell’andare al di là
dei limiti della condizione umana, quell’approssimarsi alla natura divina, che costituisce il nucleo
del racconto.
d) E veniamo all’ultimo aspetto rappresentato proprio dal verbo chiave del canto, il trasumanar. Il
neologismo mette l’accento anche sull’eccezionalità, per così dire geografica, della cantica: non
più paesaggi umani, terrificanti o piacevoli, di inferno e purgatorio, che, fino a questo punto,
hanno fatto sembrare il viaggio dantesco un pellegrinaggio vero e reale, fino al rigoglioso giardino
dell’Eden; ora Dante viaggia in una dimensione del tutto nuova e anche il paesaggio che lo
circonda è rarefatto e totalmente alieno, estraneo.
16
Commento al terzo canto del Paradiso
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vv. 34-41
Dante si
rivolge a
Piccarda
L’incontro con Piccarda Donati
1) Sintetizza il contenuto della sequenza. 2) Questo è il primo incontro di Dante
con un’anima beata. Che differenza c’è rispetto allo stile e allo schema
comunicativo tenuto dal poeta all’Inferno e in Purgatorio nel parlare con i
dannati e i penitenti?
1) Incoraggiato da Beatrice, Dante si rivolge a quella delle anime che sembra più
desiderosa (vaga di ragionar) con lui e chiede, in nome di quella felicità eterna
che soltanto chi la prova può intendere (la dolcezza della beatitudine non può
essere compresa se non da chi la prova, perché va al di là di qualsiasi esperienza
umana), di fargli la grazia del suo nome e della sorte sua e delle sue compagne
(cioè di rivelargli il nome e la condizione che le è assegnata in questo cielo).
2) E’ la prima volta che Dante parla con un’anima beata. Qual è la differenza
rispetto a Inferno e Purgatorio? Il dialogo con i dannati e con le anime purganti
aveva sempre un carattere di accidentalità: Dante interveniva nella tortura dei
mal nati (pensa all’incontro con Paolo e Francesca travolti dal turbine o con
Ciacco immerso nella melma putrida) e nella penitenza dei purganti (pensa
18
2.vv. 43-57
all’incontro con Sordello che se ne sta in disparte, come se non volesse essere
interpellato da nessuno) cercando di catturare la loro attenzione, distraendoli
dalla loro sorte ultraterrena. Qui in Paradiso, invece, tutto è previsto e
programmato: gli spiriti beati appaiono nelle sfere proprio per parlare con Dante;
il poeta chiede e dialoga, ma, come sarà detto esplicitamente più avanti, ciò che
egli dice è già letto dai beati nella mente di Dio. Le conversazioni del Paradiso si
risolvono così nell’esecuzione di uno spartito senza scosse e senza sorprese: esse
servono a scendere sempre più in profondità nella luce del vero, e ogni
domanda/risposta è una rivelazione progressiva del divino.
1) Sintetizza il contenuto della sequenza (vv. 43-57). 2) Nella sua risposta Piccarda
risponde anche a domande che Dante non ha ancora posto e che vorrebbe porre.
Quali? Perché si comporta in questo modo?
1) Alla richiesta di Dante (conoscere la sorte sua e delle anime del cielo della
Luna) l’anima beata risponde che l’amore (la nostra carità), comune a tutti i beati,
non consente di rifiutare una giusta richiesta (giusta voglia, v. 44). La carità, cioè
l’amore per il prossimo, spinge ogni anima a rendere compartecipi della sua gioia
le altre, purché esse abbiano desideri giusti; in questo esse si comportano come
Dio. Come Dante l’aveva pregata in nome della sua eterna beatitudine, così
l’anima di Piccarda risponde collegando la prontezza e la disponibilità delle sue
parole con la carità che pervade tutta la corte (metafora con cui il poeta designa
l’intero gruppo dei beati) dei beati.
A causa della trasfigurazione ultraterrena, Dante non riconosce lo spirito della
donna che pure aveva incontrato nel mondo. Si tratta di Piccarda Donati, sorella
dell’amico Forese, amico di Dante e poeta anch’egli. L’anima sa perché Dante non
l’ha riconosciuta subito: per il suo essere più bella, perché la sua beatitudine
trascende le sue antiche fattezze. Eppure, non esita a precisare che la sorte
toccata a lei e alla sua schiera può sembrare piuttosto bassa (giù cotanto), e che
la sfera lunare che le pertiene è quella più lenta, e quindi più lontana da Dio,
motore immobile dell’universo. Né nasconde la ragione di questo “confino” ai
margini del Paradiso: sia Piccarda sia gli altri spiriti lunari non hanno soddisfatto i
loro voti; si erano assunti, in altre parole, degli impegni di perfezione cristiana (nel
caso di Piccarda i voti di castità, povertà e umiltà) che poi non erano stati in grado
di assolvere. Gli spiriti di questa sfera sono lieti di essere posti nel grado di
beatitudine stabilito da Dio, sono cioè felici (letizian) di obbedire alla sua volontà.
2) Questo primo scambio di battute con Piccarda, attesta come la modalità di
dialogo e di incontro con le anime sia molto diversa rispetto a quanto avveniva
nelle cantiche precedenti: a) in primo luogo la straordinaria disponibilità al
dialogo e la prontezza nell’esaudire le richieste del poeta, in nome di quella carità,
o amore divino che ispira ogni azione e ogni parola dei beati; b) in secondo la
trasfigurazione che impedisce a Dante di riconoscere le fattezze umane degli
spiriti; ciò era accaduto anche nell’Inferno (si pensi all’incontro con Ciacco), ma
qui la situazione è ben diversa: se nel primo regno era il peccato ad aver
deturpato le fattezza umane dei dannati rendendoli irriconoscibili agli occhi di
Dante, qui è l’esatto contrario, perché è lo straordinario amore di Dio che muove
tutto l’universo a conferire una nuova fisionomia, “celeste”, alle anime, una
fisionomia che spesso si discosta da quella terrena; c) in terzo luogo le anime dei
beati leggono nella mente di Dio e anticipano tutte le richieste di Dante: qui
19
Piccarda sa perché il poeta non la riconosce (anche se Dante non ha manifestato
espressamente tale difficoltà) e soprattutto anticipa una domanda ovvia, che il
pellegrino non le ha ancora posto: non vi sentite un po’ mortificati, qui nell’ultimo
gradino di Paradiso? Sembra quasi che Piccarda abbia indovinato le curiosità di
Dante e che, giocando d’anticipo, gli abbia fornito una risposta preventiva.
Tuttavia Dante non rinuncerà a porre una domanda di cui in realtà ha già avuto la
risposta; d) infine la spontanea e assoluta uniformità delle anime beate alla
volontà di Dio. La letizia e la pace che le contraddistinguono consistono proprio in
questa sincera e piena sintonia con la volontà divina: le anime sono cioè felici di
obbedire a tale volontà, anche se relegate nell’ultimo gradino del Paradiso.
3.vv. 58-66
Nella prima parte del suo intervento Dante giustifica la ragione del mancato
La seconda riconoscimento dell’anima beato: egli è in grado di percepire nell’aspetto
domanda di straordinario dei beati una nuova e indefinibile dimensione divina, che li
Dante
trasforma interiormente, rendendoli differenti dalle immagini che in vita avevano
suscitato; per questo motivo non è stato rapido a riconoscere e a ricordare
Piccarda. Nella seconda parte D. rivolge una domanda allo spirito della donna: se
è vero che le anime di questo cielo sono così felici (v. 66), ma esse non desiderano
tuttavia giungere a sfere più elevate, a cieli più vicini a Dio, per amare e conoscere
in misura maggiore?
La domanda non è oziosa, cioè inutile: Dante ha preso atto della felicità delle
anime che gli stanno di fronte, ma chiede se non vorrebbero essere più felici. Ciò
non toglie che Piccarda abbia già risposto, quando ha detto che la sua letizia stava
nell’accordo con l’amore di Dio, sagacemente accostando questa dichiarazione al
riconoscimento che lei e la sua schiera stanno “giù cotanto”. In realtà, Dante,
ragionando con mentalità umana, non può sottrarsi all’idea che, se c’è un grado
maggiore o minore, è inevitabile desiderare un miglioramento. Il sorriso di
Piccarda al v. 67 sottolinea questa diversità di sentire.
4. vv. 67-87
1) Perché Piccarda sorride alla domanda di Dante e perché si rivolge a lui,
La risposta di chiamandolo «frate»? 2) Sintetizza la risposta di Piccarda.
Piccarda
1) Piccarda, con un sorriso condiviso con le altre anime, coglie il senso della
ingenua domanda del poeta che ancora ragiona con la misura dei valori terreni,
per i quali chiunque tende sempre a desiderare una condizione più alta e migliore
di quella in cui si trova. Si rivolge al poeta chiamandolo “frate” perché il legame
che tiene insieme le anime del Paradiso (e anche quelle del Purgatorio: pensa
all’abbraccio fraterno con Sordello nel VI canto del Purgatorio) è quello della
fratellanza e della corale appartenenza alla “corte” di Dio.
2) La risposta di Piccarda ha una chiara impostazione teologico-dottrinale, poiché
è funzionale a delineare la “struttura” del terzo regno, in particolare la natura dei
gradi di beatitudine (cioè di vicinanza a Dio), che non risponde a un criterio
gerarchico umano e terreno (come avveniva per la distribuzione dei dannati e
delle anime purganti negli altri due regni).
I desideri dei beati – afferma Piccarda – sono regolati e soddisfatti dal principio
costitutivo della beatitudine del Paradiso, che è la carità (l’amore divino), la quale
appaga ogni desiderio (fa in modo che i beati non vogliano se non quello che già
possiedono e non sentano bisogno d’altro). Proprio la carità fa sì che essi non
possano desiderare una sfera più alta, perché ciò vorrebbe dire essere in
disaccordo con il volere divino, che ha assegnato loro un determinato grado di
beatitudine. E il disaccordo non può trovar posto in Paradiso. La natura della
20
carità, infatti, è proprio quella di conformarsi alla volontà di Dio. Pertanto, la
condizione formale della beatitudine delle anime come Piccarda è attenersi ai
voleri divini. La gerarchia delle sfere piace a tutti, così come piace a Dio, il quale fa
sì che i voleri delle anime si conformino al suo. Nella volontà di Dio esse trovano
pace.
Il senso della risposta di Piccarda è in sostanza questo: ogni anima e ogni storia
mantiene la sua unicità e la sua individuale identità (per es. Piccarda si trova nel
cielo della Luna perché non ha potuto mantenere fede ai voti di perfezione
cristiana, non per sua volontà, ma perché costretta), e gioisce tanto quanto si è
meritata di gioire. Allo stesso tempo, la carità fa sì che tutto l’ordine paradisiaco
stesso, considerato nel suo insieme, sia fonte di beatitudine; è il sentirsi parte di
una cosmica armonia che costituisce la pace di queste anime.
5. vv. 88- 96 1) La sequenza dei vv. 88-96 si può dividere in due parti: individuale e sintetizzale.
Il dubbio è Nella prima terzina Dante non fa altro che ripetere in forma sintetica e con parole
stato chiarito sue il concetto che gli è stato appena spiegato, come se volesse interiorizzarlo: il
Paradiso è ovunque, anche se la grazia divina vi è distribuita diversamente. È
questo un altro tratto che diventerà caratteristico dei dialoghi di Dante con gli
spiriti beati: dopo la sequenza domanda/spiegazione, non è raro che faccia
seguito “l’interiorizzazione” della verità da parte del pellegrino, che se la ripete
con parole sue.
Nelle due terzine seguenti, Dante, chiariti i dubbi teologici, lascia spazio a una
richiesta più mondana, o almeno più legata alla storia personale di queste anime:
quale fu la tela lasciata non finita delle loro esistenze? Quale fu il voto lasciato
incompiuto?
2) Le due similitudini: con la prima, ai vv. 91-93, Dante vuole indicare il suo stato
d’animo che, soddisfatto della risposta, per cui ringrazia, desidera ora sapere
quale sia stato il voto che Piccarda non portò a compimento. Con la seconda, ai.
Vv. 95-96, il voto inadempiuto è paragonato a una tela non finita di tessere.
L’immagine ci riporta alla vita fiorentina di una città dove l’arte della tessitura e il
commercio dei tessuti erano le fonti principali della prosperità economica della
città.
6.97-108
1) Piccarda racconta la sua storia. Giovinetta, si era fatta suora francescana,
La storia di seguendo l’esempio sublime di santa Chiara. Si era così consacrata allo sposo
Piccarda
celeste (Cristo), intenzionata a vegliare e a dormire con lui per il resto della sua
esistenza, lontano dal mondo, chiusa nell’abito di clarissa, seguendo la regola del
suo ordine. Ma non doveva andare così. Uomini, abituati più al male che al bene,
la strapparono a forza alla dolce pace del chiostro; solo Dio sa quale fu in seguito
la sua vita.
2) E’ un racconto stringato, denso di omissioni, lontano anni luce, se vogliamo, dal
resoconto abbastanza dettagliato della passione d’amore di Paolo e Francesca del
V canto. Perché? Innanzitutto, quello che Piccarda non dice esplicitamente è che
era stato difficile, per lei fanciulla, chiamarsi Piccarda Donati, cioè appartenere a
una famiglia potente, faziosa, violenta, protagonista delle lotte di partito
fiorentine (essere la sorella e la figlia dei capi della parte nera del partito guelfo).
In secondo luogo, quegli uomini che la rapiscono dal convento per costringerla a
sposarsi, erano i suoi fratelli e soprattutto Corso Donati, i cui criminosi
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comportamenti Piccarda non può denunciare se non con pacato distacco.
Piccarda, infine, non dice quello che accadde in seguito: un matrimonio forzato,
l’inevitabile rottura dei voti, una vita coniugale infelice perché contraria al suo
animo e al suo iniziale progetto di vita. Il suo voto rotto e incompiuto ci parla non
soltanto di un itinerario spirituale di perfezione interrotto, ma della violenza di
un’epoca, e, più ancora dell’impotente e frustrata protesta delle donne contro
tale violenza.
I temi fondamentali
a) Il primo incontro con i beati e la diversa modalità di interazione con Dante rispetto a quanto
accade nell’Inferno e nel Purgatorio (vedi commento ai vv. 34-41 e 43-57);
b) la “carità” di Dio e i gradi della beatitudine (la questione dottrinale discussa nella risposta di
Piccarda, vedi commento ai vv. 58-96);
c) la storia di Piccarda Donati: benché trasfigurata dalla luce dell’amore di Dio con cui è in perfetta
consonanza e benché sia in grado, con grande sapienza dottrinale, di chiarire i dubbi di Dante sulla
gerarchia della beatitudine, mostrando notevole sicurezza e solidità di convinzioni, Piccarda, in
virtù della sua storia è un’anima fragile e imperfetta. Proprio la fragilità è il fulcro della
rappresentazione di Piccarda, fragilità di cui la donna stessa è consapevole nel tentativo di
sottrarsi alla violenza della potente famiglia rifugiandosi nel dolce chiostro. Proprio per questo
Dante fa sì che Dio perdoni Piccarda (e così pure Costanza d’Altavilla, protagonista di una storia
molto simile), non negando a queste fragili donne la beatitudine, sia pure nel grado più basso.
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Sesto canto del Paradiso: il discorso di Giustiniano
QUAL E’ IL RAPPORTO TRA IL SESTO CANTO DEL PARADISO E I CORRISPONDENTI DELLE ALTRE
DUE CANTICHE (SESTO DELL’INFERNO E SESTO DEL PURGATORIO)?
Il canto VI del Paradiso, come quelli dell’Inferno e del Purgatorio, è di carattere politico, a
imitazione e omaggio al canto VI dell’Eneide, dove Virgilio aveva profetato il futuro di Roma e della
dinastia che sarebbe nata da Enea. Nel canto VI dell’Inferno, l’incontro con Ciacco era stato
l’occasione per riflettere sui mali endemici della “città partita”, divisa, ovvero di Firenze, dilaniata
dalle lotte intestine. Nel Purgatorio, l’incontro affettuoso tra i due mantovani, Virgilio e Sordello,
aveva innescato per contrasto il lamento-invettiva sulle divisioni insanabili dell’Italia
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contemporanea, ormai non più donna di province, ma bordello. Qui, nel sesto del Paradiso, la
visione, da municipale e nazionale, si fa universale. Dalla realtà ristretta del comune e da quella,
più ampia ma ancora limitata, della “nazione” italiana, ci si solleva a quella dell’impero universale.
L’intero canto è occupato dal lungo e articolato discorso dell’imperatore Giustiniano, al quale
Dante affida il compito di ripassare, in un fulmineo riassunto, la storia di Roma, da Enea fino a
Carlo Magno e fino alla decadenza presente dell’impero. Esiste dunque una corrispondenza
strutturale precisa, ma anche una progressione evidente: dalla città di Firenze si passa all’Italia
intera e infine a tutto l’Impero. Il discorso di Dante è sempre insieme politico e morale: il disordine
civile, infatti, è letto come conseguenza del peccato e del traviamento dell’umanità. Insieme alle
responsabilità dei singoli ci sono quelle delle parti politiche (Guelfi e Ghibellini) e delle grandi
istituzioni (il Papato, che usurpa il potere temporale, i sovrani europei restii a riconoscere l’auorità
imperiale).
Commento ai vv. 1-36: la prima parte del discorso di Giustiniano
vv. 1-12
1.Perché l’anima non rivela subito la sua identità, ma premette al suo discorso una precisazione
cronologica che contiene un importante riferimento a Costantino e al simbolo dell’aquila? 2. Chi è
Giustiniano? Per quale grande opera viene qui ricordato?
Il discorso di Giustiniano si apre con un’ampia precisazione cronologica che contiene un riferimento
al trasferimento della capitale dell’impero Romano da parte di Costantino in oriente: rispetto ad
Enea, mitico fondatore dell’Impero di Roma (in quanto antenato di Augusto), che aveva portato
“l’aquila”, cioè il potere simbolico da Troia, in Oriente, in Italia, a Occidente, Costantino ha
compiuto il percorso inverso, trasferendo nel 330 d.C. la capitale a Bisanzio (poi Costantinopoli),
sullo stretto dei Dardanelli, cioè vicino alla Troade, in Turchia, dove appunto sorgeva Troia. Colui
che parla, Giustiniano, è un erede del trono imperiale d’Oriente, un successore di Costantino. In
questi primi versi è evidente come Dante formuli un’accusa al gesto di Costantino, sottolineando
come la sua decisione fosse stata presa contro il volere divino (contr’al corso del ciel): il cammino
dell’aquila (simbolo dell’autorità imperiale, del potere), con Costantino è andato contro il corso dei
cieli e della storia: all’incontrario rispetto al moto naturale del sole (da est a ovest) e rispetto alla
direzione delle peregrinazioni di Enea, dalla Troade, in Asia Minore, alle rive del Lazio. La decisione
di Costantino è densa di conseguenze negative per Dante: in primo luogo lo smembramento
dell’Impero romano e soprattutto la consegna dell’Occidente al papa e al suo governo temporale,
avvenuto con la famosa donazione di Costantino, un falso fabbricato ad hoc dalla curia papale
nell’alto medioevo (intorno al VII sec.) per legittimare il potere temporale esercitato dalla Chiesa in
Italia e in Occidente. Dante credeva all’autenticità di tale documento (che il filologo Lorenzo Valla
dimostrò essere un falso intorno alla metà del Quattrocento) con cui l’imperatore, in procinto di
partire per Bisanzio-Costantinopoli, avrebbe lasciato il potere su Roma e sui territori circostanti al
papa allora in carica, Silvestro. Nel cammino contrario che Costantino impone all’aquila imperiale
dobbiamo leggere dunque una disapprovazione implicita da parte di Dante. Non a caso, l’anima
beata che parla si presenterà proprio come l’anti-Costantino.
L’aquila
L’altro aspetto importante di questo esordio è la figura simbolica dell’aquila, la vera protagonista
dell’ampio excursus di Giustiniano sulla storia dell’impero romano dalle origini fino a Carlo Magno.
Nel racconto dell’imperatore il soggetto non sarà questo o quel personaggio illustre, bensì l’aquila,
che sin dai primordi contrassegna il potere e l’autorità romana. Tutti i verbi del discorso di
Giustiniano avranno come soggetto non Scipione o Cesare, ma, con coerenza implacabile, solo
l’aquila romana. È lei che “fa”, cioè che agisce incarnandosi via via in personaggi che sono soltanto
“portatori” di questo simbolo dell’autorità che sfida i secoli. Ne esce così una vicenda per così dire
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“spersonalizzata” (priva cioè, come sarebbe naturale, di attori umani, di protagonisti che
imprimono il corso agli eventi), che corrisponde a una precisa intenzione ideologica. Dante vuole
dichiarare, attraverso la vicenda epica, l’epopea dell’aquila romana, che la storia di cui essa è stata
protagonista era una storia che trascende la dimensione umana. Secondo Dante l’aquila è lo
stemma di Dio stesso, della provvidenza divina, ovvero del disegno con cui Dio guida la storia
umana. L’aquila diventa quindi l’emblema non di un potere terreno, ma di una finalità superiore.
2) Chi parla è Giustiniano, imperatore d’Oriente dal 527 al 565; Da notare innanzitutto come con la
dichiarazione (in forma di chiasmo) “Cesare fui e son Iustiniano”, il personaggio allontani da sé in
un passato mondano che nell’aldilà appare insignificante, la gloria del titolo imperiale. In secondo
luogo egli si presenta come il grande riformatore del diritto romano; anzi, attribuisce l’ispirazione
di tale impresa al “primo amor ch’i sento”, cioè a Dio stesso, e più esattamente allo Spirito Santo,
che nella Trinità personifica l’amore tra il Padre e il Figlio. Dante coglie molto bene in questi versi il
concetto fondamentale della riforma di Giustiniano: d’entro le leggi trassi il troppo e il vano. La
commissione di giuristi a cui l’imperatore affidò la riorganizzazione del corpus di leggi ereditato
dall’antichità romana (dalla fondazione di Roma alla sua epoca), operò proprio con lo scopo di
sfrondare quanto vi era di ormai superato nella legislazione romana, perché riferito a usi e costumi
del passato, e di togliere anche quanto di contraddittorio era stato generato dall’accumularsi delle
disposizioni giuridiche. Dall’iniziativa di Giustiniano uscì il Corpus Iuris Civilis elaborato tra il 528 e il
533, un vero capolavoro della scienza giuridica che costituì il fondamento legislativo dell’Occidente
europeo fino alla fine dell’antico regime, ossia fino alla promulgazione del codice napoleonico.
Perché Giustiniano viene ricordato soprattutto per l’opera di restaurazione e di rinnovamento
dell’antico diritto romano? Spezzata l’unità politica del mondo con la dissoluzione dell’antico
impero romano e esauritisi nel nulla anche i tentativi di riunificazione compiuti prima da
Giustiniano stesso, poi da Carlo Magno, grazie al Corpus sopravvive l’unità giuridica, e questa era
la premessa perché l’unità politica potesse essere tentata di nuovo, come Dante con tutte le sue
forze auspicava.
vv. 13-21 La presunta conversione di Giustiniano
Parafrasi terzina finale: io credetti al papa Agapito; e ciò che era espresso nella sua fede, ora lo
vedo così chiaro, come tu vedi ogni contraddizione falsa (da una parte) e vera (dall’altra). Ora che
è di fronte a Dio, in Paradiso, Giustiniano vede distintamente che Cristo era insieme Dio e uomo,
allo stesso modo in cui un uomo distingue verità razionali elementari e semplici. Il v. 21 esprime il
principio di non contraddizione, alla base della logica di Aristotele, principio secondo il quale, date
due proposizioni contraddittorie, una deve essere falsa e l’altra vera. La verità di fede, per i beati,
è evidente come per noi lo sono i principi basilari della logica.
Giustiniano afferma che prima di intraprendere l’opera di restaurazione e riorganizzazione del
diritto romano, egli credesse all’unica natura divina di Cristo (una natura esser in Cristo, secondo la
teoria monofisita elaborata da Eutiche, Patriarca di Costantinopoli e diffusa nei primi secoli dopo
Cristo); il papa Agapito, benedetto dal cielo, convinse l’imperatore ad abbandonare l’eresia per
sposare la vera fede.
Alcune precisazioni in merito ai dati storici contenuti in questi versi: a) il Corpus Iuris Civilis era già
stato completato nel 533, prima che papa Agapito si recasse a Costantinopoli (per impedire
l’invasione dell’Italia da parte delle truppe dell’imperatore: in tale occasione Giustiniano avrebbe
deciso di aderire all’ortodossia cattolica); b) inoltre non risponde a verità che Giustiniano fosse
inizialmente seguace dell’eresia monofisita (monofisita era invece l’imperatrice Teodora, sua
moglie); l’imperatore non aveva dunque alcun bisogno di essere convertito all’ortodossia cattolica.
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È dunque evidente come Dante intenda ricondurre l’impresa del Corpus Iuris Civilis a
un’ispirazione divina, intervenuta proprio quando Giustiniano decise di ritornare alla vera fede. Il
rapporto di Giustiniano con papa Agapito, a sua volta, è esemplare di come dovrebbe essere il
rapporto tra potere temporale e potere spirituale, basato sulla concordia. Impero e papato
collaborano per il bene dell’umanità: ecco perché l’opera di Giustiniano è presentata come una
conseguenza della sua conversione, operata da papa Agapito.
vv. 22-27
Sintesi. Giustiniano afferma che, dopo la sua conversione alla vera fede, egli ottenne da Dio
l’ispirazione per iniziare l’opera di revisione del corpus di leggi dell’antico diritto romano,
dedicandosi interamente a tale ardua impresa. Tutto assorbito dalla riforma legislativa,
Giustiniano decise di delegare le operazioni militari a Belisario, il suo generale di fiducia, il quale fu
così favorito dall’assistenza divina, che i suoi successi in guerra furono interpretati da Giustiniano
come segno che egli dovesse dedicarsi esclusivamente a opere di pace (posarmi).
Dante liquida in pochi versi l’impresa militare con la quale Giustiniano tentò di riconquistare
l’Occidente nel tentativo di restaurare l’antica unità dell’Impero romano, mentre insiste ancora
sull’impresa legislativa e sulle opere di pace. Perché?
L’opera di Giustiniano come restauratore dell’unità imperiale fu per Dante triplice: a) quella bellicoterritoriale, con il ricongiungimento all’Impero d’Oriente dell’Africa, della Spagna, della Gallia e
dell’Italia; b) quella religiosa con il ripudio dell’eresia monofisita; c) quella legislativa con
l’elaborazione del Corpus Iuris Civilis. I due primi tentativi non approdarono ad alcun risultato
duraturo (la riconquista dell’Occidente fu effimera e l’unità religiosa si dissolse quattro secoli dopo
circa con lo Scisma d’Oriente nel 1054 ) al contrario del terzo. Si capisce pertanto perché al centro
delle attenzioni del poeta ci sia la terza opera, quella del Corpus Iuris Civilis, la raccolta unificata
delle leggi romane: il fondamento del diritto di tutto il mondo e presupposto indispensabile per la
ricostituzione dell’unità dell’impero in cui Dante credeva fortemente, in controtendenza rispetto
agli eventi politici della sua epoca (l’affermazione delle autonomie comunali in Italia e delle
monarchie nazionali in Europa di fatto resero vana ogni utopia imperialistica, ogni tentativo cioè di
ricostituire l’antica unità dell’Occidente sotto l’autorità di un unico imperatore come era stato
nell’impero romano e con Carlo Magno). Di qui l’insistenza sull’opera riformatrice di Giustiniano in
campo legislativo.
Commento 28-36
Ultima terzina (Pallante): la virtù romana – e la storia dell’aquila di Roma – comincia dalla morte
di Pallante, il giovane figlio del re Evandro che, alleatosi con Enea, glielo affida perché impari
sotto la sua forte guida l’arte della guerra; Pallante viene poi ucciso in battaglia da Turno, re dei
Rutuli. La storia romana che Giustiniano racconta inizia dunque dove era finita l’Eneide di Virgilio.
28-36. 1) Sintetizza il contenuto dei versi. 2) Come viene definito l’excursus sulla storia
dell’aquila, cioè dell’impero romano che occupa buona parte del discorso di Giustiniano? Qual è
il motivo?
Conclusa la risposta alla prima domanda di Dante relativa all’identità dell’anima beata,
Giustiniano avverte la necessità di approfondire il tema dell’autorità imperiale, simboleggiata
dall’aquila, che egli ha appena accennato all’inizio del suo discorso. La giunta (v. 30) che adesso
egli sente necessaria al suo discorso, riprenderà su ampia scala proprio la storia dell’impero e le
vicissitudini dell’aquila che ne è l’emblema. Scopo dell’ampia digressione storica è far comprendere
quanto sia folle opporsi all’autorità imperiale (all’aquila, al sacrosanto segno) per interessi
particolari: l’allusione è da una parte ai ghibellini d’Italia, che dell’aquila imperiale hanno fatto una
bandiera di fazione (mentre essa simboleggia un potere universale voluto da Dio), dall’altra ai
guelfi, che si oppongono a quel simbolo (come dirà più avanti al v. 100). Giustiniano invita infine
26
Dante a considerare quanta virtù ha reso questo segno degno di rispetto: è la virtù dei grandi
romani, di cui sta per cominciare la sintetica rassegna. Qui virtù va intesa nel senso latino di virtus,
che significa non solo rettitudine di costumi, ma anche coraggio, forza, valore. All’inizio
dell’excursus sulla storia dell’impero romano, Dante colloca Pallante, giovane eroe, figlio del re
Evandro, che morì combattendo per Enea contro Turno, in modo che l’aquila potesse stabilire il suo
potere sul Lazio.
La conclusione dell’excursus storico sull’Impero romano: commento ai vv. 94-96
Perché la digressione sulla storia dell’impero romano si conclude con Carlo Magno e con l’impresa
menzionata nei versi (intervento contro i Longobardi che minacciavano di invadere i territori
dell’Italia controllati dal papa)?
Le ragioni sono sostanzialmente due: a) alla luce della concezione figurale (l’unità dell’impero
romano prefigura l’unità della Chiesa) e della visione provvidenziale della storia tipica del
Medioevo (per cui l’impero romano è stato voluto da Dio perché si creassero le premesse storiche
per la diffusione del cristianesimo e perché questa diventasse una fede universale), Dante crea un
legame di continuità tra la storia dell’Impero romano e quella del Sacro Romano Impero,
istituzione nata per merito delle imprese di Carlo Magno (742-814); b) nell’excursus che precede
questi versi, Dante non esalta le imprese militari di Roma, ma pone l’accento sulla sua funzione
provvidenziale, che ne ha fatto la mano esecutrice della volontà divina: l’Impero ha diffuso la pace
che ha permesso la predicazione di Cristo e degli apostoli (vv. 79-81); durante l’impero Cristo è
stato crocifisso per redimere l’umanità dal peccato originale (vv. 82-90); l’impero ha vendicato la
morte di Cristo distruggendo il tempio di Gerusalemme (vv. 91-93); all’Impero la Chiesa ha chiesto
protezione quando era in difficoltà (vv. 94-96). Come si vede, a Dante non interessa appurare in
modo documentario ed esatto la verità dei fatti storici. Questo atteggiamento è in genere comune
alla cultura medievale, per la quale i fatti singoli e accidentali possono essere compresi solo se
inseriti in un quadro generale, che è di origine teologica. La storia tracciata in questo canto della
Commedia è dunque una storia a tesi; così per es. Dante tace del tutto la decadenza dell’impero,
passando dall’imperatore Tito (80 d.C.) a Carlo Magno (IX sec.), per giungere alle lotte tra Guelfi e
Ghibellini, presentate come segno evidente della corruzione del presente.
Dal passato al “presente”: i Guelfi e i Ghibellini
Commento ai vv. 97-11
Sintesi: solo dopo aver conosciuto le imprese gloriose dell’aquila romana, ossia la storia
dell’impero romano, è possibile giudicare la situazione politica attuale (cioè dell’epoca di Dante),
caratterizzata dalla frammentarietà del potere politico e dilaniata da lotte fra partiti avversi, che
parteggiano per il papa (guelfi) o per l’imperatore (ghibellini). La causa di tale grave crisi è data dal
comportamento delle fazioni in questione, le quali rinnegano a vario titolo l’autorità dell’unico
imperatore: i guelfi la rifiutano apertamente, poiché invece dell’aquila adottano come loro
stemma i gigli d’oro della casata di Francia; i ghibellini, al contrario, si rifanno a tale simbolo ma ne
stravolgono il senso, ne fanno un trofeo a servizio della loro parte. Non è facile comprendere
quale dei due schieramenti commetta la colpa più grave. Giustiniano esorta questi ultimi a servirsi
di un altro simbolo per compiere i loro atti, perché chi allontana l’aquila dalla verità dimostra di
non conoscere i suoi insegnamenti. L’anima dell’imperatore ammonisce poi il nuovo re Carlo
d’Angiò, Carlo II, a non pensare di contrastarla: dovrà abituarsi invece a temere i suoi artigli, che in
passato tolsero il pelo a regnanti più potenti di lui. Il discorso si chiude con un monito: toccherà a
Carlo II espiare le malefatte di Carlo I e della sua dinastia, che aveva usurpato il regno dell’Italia
meridionale a Manfredi e, quindi, all’impero. Peraltro, è impensabile che Dio voglia cambiare
bandiera, e scambiare l’armi, cioè il suo stemma, l’aquila imperiale, con i gigli degli Angiò.
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Qual è il rapporto tra le due fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini e l’excursus sulla storia dell’impero
romano (sulle imprese del sacrosanto segno, dell’aquila romana)? Qual è il rapporto tra il passato
illustre rappresentato dalle virtuose imprese degli antichi romani fino a Carlo Magno e la miseria
del presente (dell’epoca di Dante)?
Solo alla luce delle straordinarie imprese compiute dall’aquila, simbolo dell’autorità imperiale ma
anche segno concreto e operante della provvidenza divina nella storia, si può capire l’enormità
della colpa e dell’errore di coloro che o si appropriano illegittimamente del sacrosanto segno, cioè
dell’aquila (la fazione dei Ghibellini), o la combattono come nemico (i Guelfi). Questi ultimi, i Guelfi,
oppongono i gigli gialli, cioè lo stemma francese, al “pubblico segno” dell’aquila, innalzando così
un vessillo nazionale contro un simbolo di portata universale. Gli altri, i Ghibellini, che sembrano
invece abbracciare l’autorità imperiale e il suo simbolo, se ne servono in realtà “a parte”, come di
un “logo di partito”. Rivendicando dunque il carattere universale dell’aquila, Giustiniano (e
attraverso di lui Dante) deplora severamente chi combatte quel sacrosanto segno, cioè chi si
oppone all’idea di ordine universale sulla terra garantito da un’unica autorità, quella imperiale.
Temi fondamentali
1.La visione provvidenzialistica della storia. L’ampio excursus sulla storia dell’impero romano, o
meglio sulle imprese dell’aquila, simbolo dell’autorità imperiale, non è una fedele ricostruzione
storica, bensì una grande epopea, un grande racconto epico dove, in sostanza, l’eroe è uno solo,
anche se assume diverse sembianze. Ogni personaggio è sempre e soltanto uno strumento di Dio,
in quanto le gesta terrene sono viste dalla prospettiva del cielo. L’eroismo dei Romani, la loro virtù
ha una ragion d’essere solo in funzione del fine provvidenziale per cui sono stati pensati e voluti da
Dio: creare le premesse per l’affermazione della fede cristiana che deve avere un carattere
universale. Sotto questo, Dante rilegge il passato non come uno storico, su basi documentarie,
bensì come un teologo, per cui le vicende dell’antico impero romano si spiegano non in sé (non
hanno cioè una loro rilevanza storica autonoma), ma alla luce di un più ampio disegno
provvidenziale.
2. La visione politica di Dante e l’ideologia del potere universale: l’aspirazione a ricostituire l’unità
politica dell’antico impero romano sulla base dell’unità giuridica e legislativa ricostituita da
Giustiniano con l’ambiziosa impresa del Corpus Iuris Civilis.
L’ideologia politica di Dante è fondata sulla visione utopistica di un mondo ordinato e unitario, in
cui un potere centrale fondato sulla legge (ma anche sul volere di Dio) conduca gli uomini alla
felicità; di qui la valenza simbolica della figura dell’imperatore Giustiniano a cui viene riconosciuto
il merito di aver rifondato il diritto romano, ripristinando quell’unità giuridica e legislativa su cui
potrà e dovrà essere rifondata l’unità politica, l’ordine universale sulla terra che si è dissolta dopo
Carlo Magno e che è impedita dai particolarismi nazionali (le monarchie nazionali) e cittadini (i
comuni) dell’epoca del poeta. Al di là dei guelfi e dei ghibellini e di una politica partigiana e faziosa,
Dante vede la salvezza dell’umanità, su questa terra, solo nell’utopia dell’impero, ovvero di un
regno che reincarni di nuovo, secondo la volontà di Dio, il potere unificante e pacificatore
dell’aquila di Roma. Tale visione è utopistica, perché non corrisponde più alla realtà dei fatti e
perché la politica di Dante è rivolta al passato. L’impero, che il sommo poeta invoca come garante
dell’ordine politico universale (secondo una concezione tipicamente medievale) era entrato in una
crisi da cui non sarebbe uscito, come conferma peraltro l’affermazione delle autonomie cittadine,
dei liberi comuni e più avanti delle monarchie nazionali (il Carlo II d’Angiò evocato alla fine
dell’invettiva contro guelfi e ghibellini ne è un esempio).
28
29
Undicesimo canto: San Tommaso d’Aquino e San Francesco
Sintesi del decimo e dell’undicesimo canto
30
Chi sono i tre protagonisti del canto XI?
1.Tommaso d'Aquino può essere considerato il più influente e importante pensatore cristiano
del Medioevo. Figlio del conte d'Aquino, nacque nel castello di Roccasecca, in Campania, nel 1226,
e divenne frate domenicano nel 1243. Studiò a Parigi e a Colonia dove incontrò Alberto Magno.
Una volta completata la sua formazione iniziò a insegnare nella stessa Colonia, a Parigi, a Napoli,
per poi tornare nuovamente a Parigi. Rientrò in Italia nel 1272 e vi mori nel 1274. Fu
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canonizzato nel 1323 e poi proclamato dottore della Chiesa. A Tommaso si deve la più organica
sistemazione della teologia cristiana secondo i fondamenti razionali della filosofia aristotelica.
Oltre ai commenti alle opere del filosofo greco, Tommaso è autore di due fondamentali Summae:
la Summa Theologiae [Summa di teologia] e la Summa contra Gentiles [Summa contro i pagani].
Dante riconosce la centralità delle dottrine di Tommaso, concedendo al santo un posto d'onore tra
gli spiriti sapienti del quarto cielo del Paradiso.
2.San Francesco d’Assisi
San Francesco, al secolo Francesco Giovanni di Pietro Bernardone, nacque ad Assisi nel 1182 in
una ricca famiglia di commercianti. Dopo la conversione, avvenuta nella primavera del 1207,
abbandonò tutti i beni terreni per praticare la povertà evangelica, divenendo il poverello di Assisì.
Nel 1209, raccolti intorno a sé un primo gruppo di proseliti, si recò con essi a Roma per chiedere a
papa Innocenzo III l'approvazione della Regola del suo Ordine: l'approvazione fu solo orale e quella
definitiva sarebbe avvenuta solo nel 1223, con papa Onorio III. La fama di Francesco crebbe negli
anni enormemente e con essa la schiera di frati francescani che lo seguirono sulla via della povertà
evangelica. Nel 1219 compì un viaggio in Egitto e Palestina, nel corso della quinta crociata, per
predicare il Vangelo anche in Oriente e convertire il sultano al cristianesimo. Francesco alternò
spesso alla vita attiva periodi di ritiro in luoghi solitari, raccolto in preghiera e contemplazione.
Secondo le agiografie del santo, fu proprio nel periodo di un suo ritiro spirituale sul monte della
Verna. sull'Appennino toscano, che egli ricevette le stigmate. 11 3 ottobre del 1226, due anni dopo
questo evento, morì nella chiesa di Porziuncola, nei pressi di Assisi; nel 1228 fu proclamato santo.
Tra le sue opere ricordiamo qui la più nota, il Cantico di Frate Sole, conosciuto anche come Cantico
delle creature, considerato l'inizio della tradizione letteraria italiana.
3. San Domenico
San Domenico, al secolo Domenico di Guzmàn, nacque a Calaruega, in Spagna, nel 1170. Di
famiglia agiata, studiò arti liberali e teologia e, terminati gli studi, assecondando la sua vocazione,
fu ordinato sacerdote all'età di ventiquattro anni. Dopo alcuni anni trascorsi in Danimarca come
sottopriore al fianco del vescovo Diego Acevedo, fu inviato nel 1205 da papa Innocenzo III come
missionario in Linguadoca (Francia), dove rimase un decennio al fine di convertire gli eretici. In
questi anni maturò l'idea di fondare un proprio ordine monastico che potesse dare l'esempio di
vita in povertà e umiltà. In occasione di un viaggio a Roma, propose quindi al pontefice la sua
Regola, che venne ufficialmente riconosciuta da papa Onorio III nel 1216; tra i suoi principi vi
erano la predicazione, lo studio, la povertà mendicante, le missioni di evangelizzazione. Domenico
morì a Bologna il 6 agosto 1221; fu proclamato santo nel 1234.
Elogio di san Francesco (XI canto)
vv. 43-54
Note:
Francesco
51.come… Gange: come fa questo sole (cioè l’astro, nel cui cielo si trova san
nuovo sole
Tommaso mentre parla) quando, durante l’equinozio di primavera (talvolta)
sorge dal Gange, cioè dalla parte più orientale del mondo abitato. Si riteneva
che nel periodo dell’equinozio, in cui il sole è più luminoso, gli influssi sulla Terra
fossero migliori.
vv. 43-54. 1) Riassumi il contenuto dei versi. 2) Qual è la connotazione simbolica
del luogo di nascita di san Francesco?
L’elogio di san Francesco inizia con un’ampia perifrasi per determinare la
posizione geografica del luogo di nascita del santo, perifrasi che rientra nel
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gusto retorico del tempo (se ne trovano altre simili nella Commedia). Assisi è
collocata sul declivio del monte Subasio, delimitato dalle due valli del Turpino e
del Chiascio, e guarda verso Perugia, più precisamente verso la parte della città
dove si apriva Porta Sole, oggi distrutta. Poiché Perugia sorge proprio dirimpetto
al declivio del Subasio, da qui dalla parte in cui si apriva la Porta Sole, la città
riceve il riverbero del calore estivo e il freddo invernale. Le due città di Gualdo
Tadino e Nocera Umbra, situate dalla parte opposta di Perugia, dietro al
massiccio del Subasio, che incombe su di loro (grave giogo), vengono a trovarsi
in condizioni climatiche più infelici. Per questo se ne dolgono. Sulla pendice più
favorevole del monte Subasio, là dove il pendio si fa più dolce, perché la sua
ripidità si attenua, venne al mondo un sole che è come questo sole dove ora
Dante si trova, quando sorge dal Gange a riscaldare il mondo, nell’equinozio di
primavera.
vv. 55-63.
2) E’ evidente come Dante imposta in questi versi una relazione-identificazione
tra il Sole e San Francesco: come il Sole in primavera fa rinascere la vita di ogni
specie vivente, così san Francesco sole-innovatore nel mondo ecclesiale agisce
per ricondurre la Chiesa al suo impegno originario. Perciò chi parla di Assisi –
afferma Tommaso – non dica Assisi, ma lo chiami Oriente, se vuole esprimersi
correttamente. Ascesi era il nome con cui era conosciuta anticamente Assisi e
Dante opera una nuova sovrapposizione tra quella città e l’Oriente: infatti, visto
che essa ha mostrato la nascita di un Sole, san Francesco, non può che essere un
luogo geografico che coincide con il levante, posizione astronomica dalla quale è
naturale che sorga un sole luminoso. Tutto il discorso di Dante in queste terzine
si rifà a un’immagine tradizionale di san Francesco: nell’iconografia francescana
tale immagine veniva spesso usata per indicare il santo di Assisi.
Francesco, nuovo sole destinato a illuminare e riscaldare d’amore la Cristianità,
comincia a far sentire ben presto, sin dal luogo di nascita, il benefico influsso
della sua presenza.
Qui inizia il racconto della vita del santo. Da quale significativo episodio
prende le mosse? In quale prospettiva viene narrato?
Dopo l’ampia perifrasi geografica, san Tommaso inizia a raccontare la vita di
Francesco a partire dalla giovane età. Non erano infatti passati molti anni dalla
sua nascita (molto lontan dall’orto, v. 55, dove orto sta per sorgere, riferito alle
stelle che si vedono dalla terra) che il Santo, qui ancora identificato con il sole
cominciò a offrire il benefico influsso della sua virtù alla terra; infatti, per amore
della povertà (per tal donna, v. 58) il giovane Francesco si affrettò a far guerra al
proprio padre, a contrastarne i voleri. E in presenza della curia episcopale e del
proprio genitore il santo si unì simbolicamente e concretamente a lei.
Gli episodi chiave che avviano Francesco alla scelta di vivere il Vangelo in
maniera radicale e assoluta sono narrati in una prospettiva “cavalleresca”: nei
versi si dice infatti che sin da giovane il santo entrò in guerra con il padre per
amore di una donna rifiutata da tutti, che la sposò solennemente, di fronte al
padre e alla corte episcopale, che dopo le nozze, l’amò di giorno in giorno
sempre più. Francesco viene in sostanza rappresentato come un cavaliere dei
poemi cavallereschi in atto di combattere per l’amore di una donna. Così, fin
dall’inizio, la figura del santo ci appare come quella di un paladino, e di questo è
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spia evidente l’espressione “correre in guerra”.
vv. 64-72
Note
67-69: né valse… fé paura: Lucano racconta nella Farsaglia (V, vv. 519-531) che
un pescatore dell’Epiro di nome Amiclate, poverissimo, nel bel mezzo della
guerra civile e nell’imperversare delle violenze e delle ruberie, lasciava
tranquillamente aperta la sua capanna, limitandosi a pararne l’entrata con una
barca rovesciata, non avendo niente da perdere; né si scompose quando
ricevette la visita di Cesare in persona che, nel cuore della notte, voleva essere
traghettato in Italia. Per questo Cesare (colui che a tutto il mondo fé paura)
trovò la povertà in compagnia di Amiclate, sicura, cioè perfettamente tranquilla,
imperturbabile.
71-72 Né valse…: Tommaso aggiunge che, perché gli uomini la seguissero, alla
povertà non servì mostrarsi fedele e fiera, al punto da avere la forza e il coraggio
di rimanere unita a Cristo anche sulla croce e piangere con lui il suo dolore,
mentre la madre Maria era ai piedi del figlio a disperarsi della sua morte.
Quali sono i pregi della «donna misteriosa» che Francesco ha deciso di sposare
contravvenendo al volere paterno?
La donna misteriosa di cui sta parlando Tommaso, vedova del primo marito
(Gesù), era rimasta trascurata e disprezzata per più di millecento anni, senza che
nessuno si facesse avanti a reclamarne le grazie, sino a Francesco. Eppure aveva
i suoi meriti, come il coraggio (tanto che durante le guerre civili di Roma si era
fatta trovare senza paura nella capanna del povero pescatore Amiclate, quando
lo stesso Cesare vi aveva fatto irruzione), e la fiera, indefettibile costanza e
fedeltà, tanto che, di fronte a Gesù crocifisso, essa era salita a patire con lui
sulla croce, mentre Maria stessa, la madre, era rimasta ai piedi del martirio di
suo figlio.
vv. 73-84
Note:
il venerabile Bernardo: è Bernardo da Quintavalle, un nobile di Assisi, maggiore
di qualche anno rispetto a Francesco e già uomo maturo quando si convertì alla
povertà francescana: nel 1209 distribuì le sue ricchezze ai poveri e fu fedele
seguace di Francesco sino alla morte di questi, alla quale fu presente.
vv. 80-81 (si scalzò, essere tardo): lo “scalzarsi (togliersi le scarpe, cioè nel senso
figurato di rinunciare a ogni bene)” indica la scelta di una povertà radicale; allo
stesso tempo, sembra un gesto necessario per correre più rapidamente al
seguito della coppia felice Francesco/Povertà. Il venerabile Bernardo fu il primo
a togliersi simbolicamente i calzari e a seguire Francesco, e per quanto si fosse
affrettato a compiere la sua scelta, gli parve comunque di averla compiuta in
ritardo.
Egidio-Silvestro: altri due fra i primi seguaci di Francesco; Egidio fu un giovane di
Assisi (nato nel 1190), che le fonti antiche ci descrivono come un’anima
semplice, dedita alla contemplazione e al lavoro manuale; Silvestro, un prete,
anch’egli di Assisi, si convertì, secondo la tradizione, dopo un sono miracoloso.
vv. 73-84. Tutta la vita del santo, come indica esplicitamente san Tommaso, può
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essere raccontata attraverso una metafora, un mezzo metaforico. Quale e in
che modo? Considera questi e anche i versi precedenti.
San Tommaso, che sta procedendo “troppo chiuso”, cioè oscuro, chiarisce che i
due amanti di cui sta parlando sono Francesco e Povertà. La Povertà e
l’innamoramento di Francesco per lei sono il mezzo metaforico attraverso cui
l’intera vita del santo può essere succintamente raccontata. La scelta radicale
della povertà e la celebre scena in cui, in piazza ad Assisi, Francesco si spoglia
delle sue vesti e le restituisce al padre, rimanendo nudo di fronte a tutti,
diventano in questa trasposizione metaforica il fidanzamento di un figlio ribelle
con una donna impresentabile, e il provocatorio sposalizio solenne con lei; il
procedere del santo sulla via della rinuncia a tutti gli averi e a ogni possesso
mondano diventa il progressivo consolidarsi di una esemplare felicità coniugale
tra lui e la sua metaforica sposa. La prima fondazione dell’ordine francescano,
con i primi compagni di Francesco che lo seguono “scalzandosi”, cioè scegliendo
di andare a piedi nudi, in abito di mendicanti come il loro maestro, è presentata
a sua volta come il radunarsi di una sorta di corte di paladini erranti attorno a
un signore e alla sua “domina”: innamorati tutti della stessa dama, la Povertà,
proprio come nelle corti medievali tutti si ponevano al servizio della signora del
castello.
vv.85-99
Note:
capestro: la semplice corda usata al posto della cintura di cuoio.
vv. 97-99:
parafrasi: la santa volontà (“voglia”, espressa dalla regola) di questo pastore di
anime (archimandrita1) fu onorata (redimita2) con una seconda corona (una
seconda approvazione) dallo Spirito santo grazie a Onorio III. Nel 1223, quando
ormai l’ordine si era ampliato, Francesco ottenne la definitiva approvazione
della regola da una bolla papale di papa Onorio III: è questa la seconda corona,
seconda rispetto al primo sigillo di Innocenzo III.
vv. 85-99
1.Anche in questa parte del racconto san Tommaso non perde di vista la
metafora principale su cui si regge tutto il suo discorso. Perché? 2. In che modo
Dante presenta la scelta della povertà da parte di Francesco? È una figura
remissiva e debole oppure…?
1.Anche il progressivo formalizzarsi dell’ordine francescano non perde di vista,
nel dipanarsi del racconto di san Tommaso, la metafora principale su cui si
regge tutto il discorso. Quando Francesco si reca a Roma, presso papa
Innocenzo, per ottenere una prima legittimazione ufficiale, per sé e per i suoi
1
Archimandrita s. m. [dal lat. tardo archimandrita, gr. ἀρχιμανδρίτης, comp. di ἀρχι (v. archi-) e μάνδρα «recinto»
quindi «monastero»] (pl. -i). – In origine, il superiore di un monastero greco, poi (sec. 6°) di una federazione di
monasteri; modernamente, si distingue l’a. effettivo, capo di un monastero basiliano importante (in Italia, S. Salvatore
di Messina), e l’a. titolare, dignità onorifica concessa a monaci e anche a sacerdoti secolari. In Dante (Par. XI, 99: La
santa voglia d’esto a.), è titolo attribuito a s. Francesco. Il termine è un grecismo prezioso in sintonia con l’altezza e la
solennità dei versi.
2
Redimire v. tr. [dal lat. redimire, di etimo incerto], letter. – Incoronare, cingere; è usato quasi soltanto il part. pass.
redimito e i tempi da esso composti: Di seconda corona redimita Fu per Onorio da l’Etterno Spiro La santa voglia
d’esto archimandrita (Dante); redimito di fior purpurei April te vide su ’l colle emergere Dal solco di Romolo ..., o
Roma (Carducci); O Verità redimita Di quercia (D’Annunzio). www.treccani.it
35
compagni, ci va “con la sua donna”, con “madonna Povertà”. 2. La scelta della
povertà non configura un Francesco umile o mitemente remissivo: di fronte al
papa egli espone la sua “dura intenzione”, cioè proprio il carattere pauperista
del suo ordine, “regalmente” (l’avverbio ben si accorda alle immagini precedenti
di una nobile lotta per ottenere il possesso della sua donna, la Povertà) e senza
lasciarsi intimidire per il fatto di essere il figlio di un semplice mercante. A
differenza della tradizionale immagine del santo offerta dalla letteratura
francescana, Dante fa del poverello di Assisi una figura maestosa ed eroica, il
santo campione della povertà. Quello dantesco è un Francesco “innamorato”
che arditamente sfida il padre, si accompagna con una donna di cui nessuno ha
capito il valore, se ne fa il campione, raduna intorno a sé una corte di fedeli (i
suoi seguaci), e con piglio regale chiede un sigillo solenne al suo stile di vita; è un
Francesco combattente e avventuroso, un Francesco “cavalleresco”, ben lontano
dall’immagine che finirà per prevalere, di un santo teneramente “animalista”.
99-108
109-117
3
Note
Sete del martirio: per desiderio di sacrificare la propria vita seguendo l’esempio
di Cristo.
1. Tommaso accenna a un nuovo e fondamentale momento della vita di
Francesco, quello relativo al viaggio in Egitto: dopo aver predicato con umiltà la
fede di Cristo e degli apostoli di fronte al “superbo” sultano d’Egitto, comprese
che la sua gente (cioè i musulmani) era ancora troppo immatura alla
conversione. Per non restare inoperoso Francesco, tornò ai buoni frutti
dell’erba italiana (v. 105), vale a dire tra quelle persone presso le quali la sua
predicazione aveva ottenuto migliori risultati. Egli giunse all’aspra montagna
della Verna (in Toscana, tra il Tevere e l’Arno) e da Cristo stesso ricevette
l’ultimo sigillo, il divino riconoscimento, dopo quello dei papi, cioè le stimmate3,
che per due anni e fino alla morte recò impresse nella sua carne.
2.San Tommaso non lo dice apertamente, ma ci fu nella vita di Francesco,
proprio mentre il movimento da lui creato cresceva in numero, visibilità e
popolarità, un chiaro rigetto proprio di ciò che il suo ordine stava diventando:
una struttura di potere, troppo grande, troppo difficile da mantenere fedele agli
intendimenti originari. Di qui l’abdicazione a capo dell’ordine e il desiderio di
cambiare scenario, l’azzardo generoso della missione in Egitto (1219) presso il
sultano, una sorta di contro-crociata pacifica, mentre il mondo cristiano ne
preparava una quinta, non pacifica.
1) Sintetizza il contenuto dei versi. 2) Com’è narrata la morte del santo dal
punto di vista di Tommaso (pensa a la metafora su cui si regge tutto il suo
discorso, la sua agiografia del santo)?
Nell’ottobre del 1226, sentendo prossima la morte, san Francesco, fattosi
portare alla Porziuncola, ordinò ai suoi frati che lo spogliassero e lo deponessero
nudo sulla nuda terra per significare, con quest’ultimo atto, la sua totale
Stìmmate (o stìgmate; anche stìmate e ant. stìmite o stigme) s. f. pl. [dal lat. stigmăta, plur. di stigma -ătis, dal gr. στίγμα -ατος: v. stigma1]. – 1. In
greco il termine indicava il marchio impresso col ferro sul bestiame in segno di proprietà, o anche su schiavi fuggitivi, spesso per punizione; nella
lettera di s. Paolo ai Galati (6, 17) indica con valore fig., in contrapp. alla circoncisione giudaica, i patimenti sofferti da Paolo per Cristo, che sono i
suoi «marchi» (Ego enim stigmata Domini Iesu in corpore meo porto). Nel linguaggio eccles. posteriore indica le piaghe sul corpo di Cristo in
conseguenza della crocifissione (nelle mani, nei piedi e nel costato), attorno alle quali, dal medioevo, si sviluppò un culto particolare. Di qui il
termine è usato nella mistica cattolica per designare il fenomeno della riproduzione – temporanea o permanente, completa o parziale – delle
piaghe di Cristo (o di altre conseguenze della passione: ferite della flagellazione o della corona di spine, ecc.) nel corpo di alcuni santi.
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dedizione alla povertà evangelica. 2.L’episodio si trasfigura nell’immagine
dantesca, nel commiato del santo dalla sua donna nel momento supremo della
morte.
Temi fondamentali del canto
1. La figura di La presentazione di san Francesco insiste su due aspetti contrapposti: da una
san Francesco parte la sua estrema povertà e umiltà, dall’altra la gloria che ha raggiunto e la
sua regalità spirituale (cfr. v. 91). È la logica dei Vangeli: quanto più un uomo si
abbassa, tanto più Dio lo innalza. Perciò Francesco assume dei connotati eroici:
si pensi al storia del rapporto con “madonna Povertà” e la sua rilettura in chiave
cavalleresca ed epica, ma si consideri anche il fatto che, tra tanti episodi che
poteva ricordare della sua vita, Dante sceglie quello della predicazione al
sultano: in esso, infatti, si esprime la sete del martirio, che rivela un ardore di
carità tale da sfidare la morte.
2. L’invito alla L’invito alla povertà assoluta (è il tema chiave dell’agiografia di Francesco tutta
povertà e la incentrata sull’allegoria delle nozze con madonna Povertà) ha come implicito
polemica
bersaglio polemico la Chiesa, che si è allontanata dai primitivi insegnamenti di
implicita con la Cristo. In questo e nel canto successivo, Dante non cessa di ricordare come
Chiesa
Francesco e Domenico siano stati inviati dalla Provvidenza a risollevare le sorti
corrotta
di una Chiesa sull’orlo del disastro. In effetti nel corso del XII secolo la moralità
del clero si era allentata e i fedeli erano sempre più perplessi di fronte a
fenomeni come la simonia (vendita delle cariche ecclesiastiche) e il nepotismo.
Questo malcontento aveva portato alla diffusione all’interno della Chiesa, di
movimenti eterodossi o apertamente ereticali, che predicavano il ritorno alla
povertà evangelica e l’avvento di un’era di rinnovamento.
Eppure, qui le gerarchie ecclesiastiche appaiono sempre al fianco di Francesco:
la “spiritual corte” (v. 61) del vescovo di Assisi lo protegge e celebra anzi le sue
nozze con la Povertà; Innocenzo III dà la sua prima approvazione; Onorio III
sancisce definitivamente la sua regola. La Chiesa è del resto vera mediatrice per
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il Cielo: Onorio parla per volontà dello Spirito Santo, e il primo sigillo impresso
dal pontefice (v. 93) è confermato dall’ultimo sigillo (v. 107) che Cristo stesso
concede con le stimmate. Dante fa qui suo il progetto di conciliazione fra ordini
mendicanti e gerarchie ecclesiastiche che attraversa la cultura medievale.
Mentre infatti i movimenti ereticali sono banditi dalla Chiesa, i francescani sono
accolti al suo interno per consentire un contatto più stretto con le masse
popolari ed evitare il conflitto sociale tra miserabili e ricchi (fra i quali c’erano
anche gli alti prelati). Quello della povertà resta comunque il valore francescano
che più Dante esalta, diversamente da altri grandi racconti della vita del santo,
come ad esempio quello per immagini realizzato da Giotto, che ne ridimensiona
la centralità.
38
39
Analisi e commento dei vv. 13-93 del XVII canto
La richiesta di Dante (vv. 13-27).
Il discorso che Dante rivolge all’antenato si può suddividere in tre sezioni: a) un esordio dal tono
molto elevato; b) una sezione centrale; c) la richiesta finale. Individuale nel testo e riassumine il
contenuto.
40
L’esordio (prime due terzine) è di stile alto e solenne, denso di immagini ricercate: l’antenato è
una radice (piota, che indica propriamente il piede, la base) che si spinge in alto. L’immagine è
quella di un albero rovesciato, con le radici su in Paradiso e i rami sulla terra. Sullo stesso tono la
similitudine seguente con cui Dante sottolinea la capacità di Cacciaguida di conoscere le “cose
contingenti4”, cioè “tutto ciò che può accadere”, il futuro. In quanto beato, infatti, egli contempla
la mente di Dio, che tutto sa: perciò conosce il futuro con la stessa chiarezza con cui noi mortali
conosciamo i teoremi della geometria (per esempio quello secondo cui in un triangolo, in cui la
somma degli angoli ottusi è 180°, solo un angolo può essere ottuso, cioè maggiore di 90°). Più
familiare e dimesso il tono delle due terzine centrali; il tono scende infatti verso accenti domestici,
diretti: mentre attraversava il Purgatorio e prima ancora l’Inferno, “dette mi fuor della vita futura
parole gravi”, afferma Dante. Parole gravi perché sono come pesi sul cuore, che Dante si è portato
dentro pazientemente e che ora è il momento di considerare per quello che sono. Si tratta delle
varie predizioni, più o meno chiare, che, nei regni precedenti Dante ha udito dai vari spiriti
incontrati. Sono parole, profezie che pesano, benché – aggiunge Dante – “io mi senta come un
cubo (tetragono) davanti ai colpi della fortuna”. Il sostantivo “tetragono” indica propriamente il
cubo, simbolo di stabilità perfetta, perché fermo su qualunque delle sue facce. Metaforicamente
indica l’atteggiamento dell’animo forte di fronte alla sventura. Il discorso si chiude con la richiesta
finale: Dante rivolto all’antenato rivela il desiderio di conoscere quale sorte lo attenda, perché un
colpo, una notizia dolorosa, se prevista, arreca a chi la riceve minor danno, come una freccia, che
si vede arrivare, sembra che corra in aria più lentamente.
La profezia di Cacciaguida
1.La premessa filosofica (vv. 37-45).
Note
37-39 (la contingenza…etterno): gli avvenimenti contingenti, che non si estendono al di fuori del
breve spazio (quaderno) del mondo terreno, sono tutti visibili nella mente divina.
Il discorso di Cacciaguida inizia con una premessa filosofica sulla conoscenza di Dio sulle cose
terrene, un concetto non semplice che Dante cerca di esemplificare ricorrendo a che cosa?
Cacciaguida vuol dire che gli avvenimenti terreni (la contingenza, cioè tutto ciò che accade, ma
non ha carattere di necessità), in tutta loro imprevedibile varietà, sono leggibili nella mente di Dio;
tuttavia essi non sono determinate dal suo volere. Allo stesso modo, chi guarda una nave che
passa, può prevederne il corso, senza però condizionarlo con il semplice atto di guardarlo. La
capacità di vedere nel futuro dei beati non intacca il libero arbitrio dell’uomo. Dante cerca di
esemplificare un concetto non semplice (l’onniscienza di Dio) ricorrendo all’immagine comune,
tratta dall’esperienza quotidiana, di chi assiste al passaggio di una nave. Come fa Cacciaguida a
conoscere il futuro? Perché la sua profezia, a differenza di quelle degli indovini pagani, è
attendibile? La visione del futuro arriva all’avo di Dante dal cospetto di Dio (indi), come arriva a un
orecchio la musica che si sprigiona da un coro (organo va inteso nel senso di canto polifonico).
Semplicemente contemplando Dio Cacciaguida può conoscere il tempo che si prepara al poeta,
così come giunge all’orecchio una dolce melodia di organo. È questo il secondo paragone, che
apparentemente “stona” con la sorte dolorosa riservata a Dante (si parla infatti “dolce armonia da
organo”).
2.vv.46-54. L’esilio da Firenze
Note
4
In filosofia, accessorio, eventuale, accidentale (contrapp. a necessario); anche nell’uso com., di ciò che si verifica
casualmente, in una particolare circostanza: per cause c., in situazioni contingenti. Come sost., il contingente, tutto ciò
che è accidentale, che può non essere, opposto al necessario.
41
52-54: la colpa verrà attribuita dai più (in grido), come al solito, alla parte sconfitta, ma la giusta
punizione (vendetta) sarà testimonianza della verità divina che la assegna.
1. Sintetizza il contenuto dei versi. 2.Cacciaguida predice l’esilio di Dante da Firenze. Il suo
linguaggio è certamente più chiaro e diretto delle precedenti profezie, ma è ancora ammantato
di allusività. In che punto?
1. La dolorosa profezia dell’esilio inizia con un riferimento mitologico, desunto dalle Metamorfosi di
Ovidio (XV, 493-532): come Ippolito dovette lasciare Atene per colpa della crudele matrigna (la
noverca del v. 47), cioè Fedra, allo stesso modo Dante sarà obbligato a lasciare Firenze. [Secondo il
mito, Ippolito, figlio del re Teseo e dell’amazzone Ippolita, giovane bellissimo e casto, aveva
suscitato l’amore impuro della matrigna Fedra, amore da lui non corrisposto; accusato da Fedra,
per vendetta, di averla violata, Ippolito, senza rivelare la menzogna di cui era stato oggetto, fu
maledetto dal padre Teseo e cacciato dalla città.]. Dante identifica la sua dolorosa sorte con quella
del mitico giovane e la figura della madre vendicativa e crudele è rappresentata dalla città di
Firenze. L’esilio del poeta, aggiunge Cacciaguida, è voluto e cercato, presto sarà ottenuto da chi
questo evento sta già preparando, e cioè dalla curia pontificia, in quei luoghi, in Vaticano, dove si
fa mercato di Cristo stesso. Ovviamente i perdenti saranno perseguitati dall’opinione di essere stati
nel torto. Come di solito accade, la colpa sarà attribuita dall’opinione pubblica alla parte politica
che ha perduto la sua battaglia, ma la punizione che in breve tempo sarà assegnata ai colpevoli
testimonierà quale verità è necessario credere.
2.L’allusività riguarda soprattutto la seconda parte: la menzione reticente del papa, con la perifrasi
usata per designare la curia romana, la designazione un po’ cripitca (cioè oscura) della parte
“offensa”. In questi versi Cacciaguida si riferisce in maniera allusiva al turpe mercimonio della
simonia, diffuso nella Chiesa di quell’epoca, con la quale gli uomini del clero vendevano, in cambio
di denari o favori, indulgenze per accedere in Paradiso. C’è poi un’ulteriore allusione al piano
segreto ordito da papa Bonifacio VIII contro la parte bianca della città (i Guelfi bianchi) di Firenze:
come si sa, Dante nel 1301, fu inviato a Roma come ambasciatore, ma nel contempo il pontefice si
accordava con Carlo di Valois (figlio di Filippo III, re di Francia, 1270-1325) per portare aiuto ai Neri,
che presero il potere nella città toscana. A Dante allora non fu concesso di tornare in patria, e
l’anno successivo, accusato di baratteria (reato consistente nel ricavare un profitto personale da
una carica pubblica), fu condannato all’esilio. Nei vv. 52-54 si fa infine riferimento all’infausta sorte
di alcuni dei protagonisti di questo piano politico, come quella toccata a Bonifacio VIII morto nel
1303 e a quella di Corso Donati, leader della parte Nera, che muore nel 1308, decessi considerati
allora quasi come condanne divine.
vv. 55-60: il fulcro della profezia di Cacciaguida
1.I versi rappresentano il fulcro della profezia di Cacciaguida: cosa accadrà a Dante, che nelle
Epistole si definiva «exul immeritus», «ingiustamente esiliato»? 2. Individua la figura retorica
dell’ordine e spiegane la valenza semantica (il significato e la funzione).
L’esilio costringerà Dante ad abbandonare ogni cosa cara, a condurre un’esistenza precaria,
lontano dagli affetti familiari. Questo è il primo strale, cioè la prima freccia scoccata dall’arco
dell’esilio, ovvero il primo dolore che assale l’esiliato. Egli proverà poi l’umiliazione del chiedere, il
sapore amaro del pane altrui, ottenuto scendendo, come un questuante, le scale altrui. Le
metafore del pane e del sale intendono sottolineare l’umiliazione del mendicante costretto a
elemosinare cibo e ospitalità da parte dei suoi benefattori. 2. L’anafora del pronome personale di
seconda persona singolare (qui in particolare, ma anche nei versi precedenti e successivi) da una
parte, serve a rafforzare la predizione del futuro, sottolineandone il carattere di realtà
assolutamente vera, senza alcuna possibilità di cambiamento – veramente Dante dovrà lasciare
42
ogni cosa cara, dovrà provare l’amarezza di chiedere ospitalità ad altri – dall’altra serve a
evidenziare la diversità di Dante rispetto agli altri (altrui, vv. 59-60), sia perché vittima di un dolore
terribile sia per il modo con cui lo dovrà affrontare, senza venir meno alla propria dignità.
vv. 61-69: Dante e i fuoriusciti della parte bianca dei Guelfi
Dante sarà costretto ad abbandonare Firenze assieme alla sua parte, cioè al gruppo di Guelfi
bianchi, cacciati dai Neri, sostenitori di Bonifacio VIII e di Carlo di Valois. Qual è il rapporto tra il
poeta e i suoi «compagni» di sventura?
Ai danni e ai dolori dell’esilio (l’abbandono della patria, della famiglia, degli amici) si aggiunge un
più grave dolore: la compagnia malvagia e infida degli altri esiliati fiorentini con la quale il poeta
condividerà la sua sventura. Si allude qui al pessimo rapporto che Dante ebbe con i compagni di
esilio, con i quali peraltro tentò, senza riuscirvi di far rientro in città. In effetti, i fuoriusciti bianchi
si macchiarono di violenze di ogni tipo al punto che il poeta dovette abbandonarli, turbato dalla
loro condotta, tanto da meritarsi da parte degli ex alleati l’accusa di tradimento e di viltà. Non a
caso, Cacciaguida gli annuncia che la perfida compagnia si volgerà contro di lui, colma di
ingratitudine, folle ed empia. Una follia che verrà pagata con il sangue da i suoi compagni di
sventura, ma non da Dante. Il poeta infatti, che pure partecipò a due tentativi di ritornare a
Firenze con la forza (nel 1302 e nel 1303), si dissociò dalla terza spedizione militare, che finì nella
sanguinosa sconfitta dei Bianchi alla Lastra, presso Firenze, nell’estate de 1304. Pare anzi che il
poeta avesse sconsigliato questo ulteriore tentativo e che gli altri fuoriusciti lo avessero accusato
di viltà e di tradimento; di qui la sua rottura sdegnosa con gli antichi compagni e gli accenti
particolarmente duri e polemici di questo passo. In questi versi, Dante accentua la sua solitudine,
sottolineando il suo distacco dagli altri compagni di sventura, rispetto ai quali il poeta può vantarsi
di aver fatto parte per se stesso.
vv. 70-84. Da cittadino a cortigiano: l’ospitalità di Cangrande della Scala
Note
73-75: Dante esalta in questi versi la cortesia di Bartolomeo, il quale nutrirà nei confronti del poeta
una tale premurosa benevolenza che fra protetto e protettore il “fare” di quest’ultimo precederà il
chiedere del primo (mentre fra gli altri di solito accade il contrario).
76-78: accanto a Bartolomeo, Dante conoscerà uno che alla nascita fu profondamente segnato
dall’influsso di Marte, pianeta guerriero, tanto che le sue imprese saranno ben degne di nota. Si
tratta di Cangrande della Scala, fratello minore di Bartolomeo, nato nel 1291 (quindi, al tempo del
viaggio di Dante in Paradiso, ragazzo di appena nove anni). Associato al fratello nel governo di
Verona, già nel 1311, ne fu signore assoluto nel 1312 fino alla morte, che lo colse ancora giovane
nel 1329. Dante lo celebra qui come il suo più generoso protettore, durante gli anni dell’esilio; in
effetti, il secondo soggiorno veronese (1312-1318) fu uno dei periodi più sereni della vita del poeta
e, per questa ragione, egli indirizzò a Cangrande la celebre Epistola, in cui spiega l’ordinamento e il
significato del suo poema.
82: nel 1312 Cangrande rimane l’unico signore di Verona. L’espressione “’l Guasco” allude a papa
Clemente VII (Bertrand de Got, originario della Guascogna), successore di Bonifacio VIII e primo
dei papi avignonesi, che incoraggiò dapprima Arrigo VII di Lussemburgo a scendere in Italia, ma
successivamente, dopo la sua incoronazione a imperatore nel 1312, si schierò dalla parte di
Roberto d’Angiò, incitando i Guelfi alla ribellione. Si noti il contrasto tra Guasco (detto in tono
sprezzante) e l’aggettivo “alto” riferito ad Arrigo. Dante che aveva riposto molta della sua fiducia
in Arrigo, rimase profondamente turbato da questo mutamento di rotta del Vaticano, e non
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perdonò mai più al papa il suo tradimento. Con la sconfitta dell’imperatore moriva infatti anche il
sogno universalistico di Dante.
vv. 70-84. 1) Sintetizza il contenuto dei versi. 2) Nell’ultima parte della profezia di Cacciaguida
assistiamo, per così dire, alla trasformazione di Dante da cittadino di una città repubblicana,
Firenze, a «uomo di corte», alla mercé e alla benevolenza dei vari signori. Quali sono le doti degli
Scaligeri, qual è il loro profilo politico?
Il primo rifugio e la prima ospitalità saranno offerti a Dante dal gran Lombardo, cioè da
Bartolomeo della Scala, nel cui stemma domina, sulla scala, l’aquila imperiale del Sacro Romano
Impero, di cui i ghibellini Scaligeri si sentivano, almeno formalmente vassalli. Bartolomeo si
dimostrerà così liberale e generoso nei confronti del poeta, che fra di loro sarà primo colui che
concede (Bartolomeo) rispetto a colui che prega (Dante). La disponibilità dello Scaligero sarà tale
che non occorrerà che il poeta chieda perché lui avrà già dato. Accanto al gran Lombardo, cioè a
Bartolomeo della Scala, Dante troverà Francesco della Scala, detto Cangrande: costui subì un così
forte influsso di Marte, pianeta guerriero (da questa stella forte, v. 77) che le sue imprese saranno
eccezionali e degne di memoria. I popoli – continua Cacciaguida – non si sono potuti ancora
rendere conto (non se ne son le genti ancora accorte, v. 79) delle sue grandi qualità, perché è
ancora troppo giovane; infatti ad oggi (1300) solo nove volte questi cieli hanno girato attorno a lui,
sono trascorsi cioè solo nove anni. Tuttavia, prima che il papa Guascone, cioè Clemente V, inganni
il nobile imperatore Arrigo VII, egli avrà modo di dare luminose prove della sua virtù, che consiste
nel mostrare disprezzo verso la politica e la guerra, verso il denaro necessario a ottenere cariche
importanti e le fatiche delle imprese militari.
2. Il quadro offerto da Cacciaguida è incoraggiante (a differenza di quanto si potrebbe pensare
leggendo i vv. 55-60 dove l’ospitalità dei potenti signori dell’Italia dell’inizio del Trecento è sentita
come un faticoso mendicare il pane altrui): egli sceglie di profetare il rapporto di eccezione che
Dante stringerà, a Verona, con i signori Scaligeri, prima Bartolomeo e poi, soprattutto, con il
celebre Cangrande. Non a caso, del primo, il gran Lombardo, si cita subito la cortesia, ovvero la
signorile liberalità; si dice che egli sarà più svelto nel concedere, di quanto Dante lo sia nel
domandare. L’altra dote, fondamentale per Dante, è la fedeltà all’imperatore testimoniata
dall’aquila posta sulla scala nello stemma nobiliare. Anche Cangrande si distingue per le virtù
tipicamente feudali di cortesia e di liberalità (valori che stanno lentamente tramontando nell’Italia
di questo periodo, soppiantati dall’etica mercantile improntata sulla ricerca dell’utile e del
guadagno, sul risparmio, sulla parsimonia e sul cauto investimento del denaro). Non a caso, la
prima dimostrazione evidente (le faville) della sua virtù si riconosceranno nel disprezzo del denaro.
Per il Dante dell’esilio si configura in sostanza una dimensione politica, morale e culturale nuova.
Egli sarà a contatto con l’ambiente delle corti, non più con un libero comune; sarà in rapporto con
la volontà di un principe, non più con la complicata burocrazia delle magistrature fiorentine;
diventerà sempre più familiare con i valori dominanti di questo modo “cortese” e specialmente, con
quello fondamentale della cortesia.
6.vv. 85-93. La profezia delle straordinarie imprese future di Cangrande
1) Le prime due terzine sono un elogio di Cangrande in forma di profezia. Perché? 2) L’ultima
terzina contiene un monito, un avvertimento finale. Di cosa si tratta?
La forma verbale prevalente è al futuro: tutte le doti, che Cacciaguida ha già evidenziato,
brilleranno ancora di più, poiché Cangrande introdurrà la giustizia tra la gente, molti cambieranno
condizione e da ricchi diventeranno poveri e viceversa, i potenti saranno abbattuti e gli umili si
innalzeranno. Su di lui Cacciaguida trasferisce le parole che la Vergine Maria, nel Vangelo di Luca,
aveva proferito nel suo Magnificat a proposito di Dio onnipotente (“depose i potenti dai loro troni
ed esaltò gli umili; riempì di beni i bisognosi, e i ricchi rimandò a mani vuote”), che riempie di beni
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i bisognosi e rimanda i ricchi a mani a mani vuote. È una splendida esaltazione della figura del
signore cortese, di cui vengono messe in luce la cortesia, la magnificenza, la liberalità (la
generosità nel donare), la benevolenza senza limiti. 2. La profezia di Cacciaguida termina con
queste parole lasciate volutamente nel vago, che alludono alle straordinarie imprese future di
Cangrande, alle quali gli stessi contemporanei, che vi assisteranno, stenteranno a crederle (di qui
l’invito a non rivelarle).
Il dubbio di Dante (vv. 106-120)
Note
108: ch’è più grave…: chi si abbandona, senza fare resistenza, al colpo del nemico, lo sente più
grave, più a fondo.
Qual è il dubbio di Dante? Cosa teme? La profezia di Cacciaguida ha fatto sorgere in Dante un
dubbio: se dirà ciò che ha visto nei regni dell’Oltretomba, urterà la suscettibilità di molti potenti e
potrà essere quindi difficile trovare ospitalità, quando sarà cacciato da Firenze. Ma se tacerà, per
timidezza e paura, perderà la fama presso i posteri: di qui l’imbarazzo del poeta. Si noti la
semplicità con cui Dante introduce il tema della fama, della gloria poetica, della rinomanza presso
la posterità. Egli la presenta in tono dimesso, come una questione pratica: esule, scacciato da
Firenze, sa che avrà bisogno di trovare ospitalità altrove; sa che anche nel suo straordinario viaggio
gli sono apparse sotto una luce tutt’altro che lusinghiera tante persone, istituzioni, casate, città del
suo tempo. Di qui il dilemma: dire la verità su quello che ha visto, e così far masticare amaro
parecchia gente di cui potrebbe avere bisogno? Oppure addomesticare, ammorbidire, censurare e
così tradire la verità e sminuire la sua rinomanza presso i posteri?
La risposta di Cacciaguida (vv. 121-135)
121-123 la luce d’oro…: la gioia di dare risposte a Dante rende sempre più luminosi gli spiriti; per
questo la luce di Cacciaguida lampeggia come il riverbero del sole in uno specchio.
124-126 coscienza fusca: ogni coscienza fosca, cioè macchiata di vergogne proprie o dei propri
congiunti non potrà che risentirsi della tua parola brusca, cruda e severa.
129. La rogna: la rogna o scabbia è una fastidiosa malattia della pelle, all’epoca assai diffusa. in
forte contrasto con il registro elevato del verso precedente, è un’espressione tratta dal gergo
popolaresco, adeguata al livello degli uomini che hanno la coscienza fusca, cioè sporca. D’altra
parte, la Commedia non è soltanto profezia (vision), ma anche vigorosa denuncia (parola brusca)
della corruzione del mondo contemporaneo.
130-132: il messaggio della poesia dantesca è qui paragonato a un cibo, spiacevole al primo
assaggio (primo gusto), ma sostanzioso e nutritivo una volta digerito.
133-135: il vento si abbatte soprattutto sugli alberi più alti: così la poesia di Dante si rivolgerà
soprattutto ai potenti della terra. Già questo – dire la verità senza guardare in faccia a nessuno – è
non piccolo motivo di onore.
121-135 1.Sintetizza il contenuto della risposta di Cacciaguida. 2. Qual è la missione di Dante?
L’avo esorta il poeta a dire sempre e comunque la verità: chi ha la coscienza sporca non potrà che
risentirsi delle sue parole, ma egli dovrà manifestare integralmente quello che ha visto durante il
suo viaggio oltremondano “lasciando che chi ha la rogna, si gratti dove sente prurito” (il detto
indica metaforicamente il fastidio colpevole di coloro che si sentiranno colpiti da Dante). La voce
del poeta sarà come un cibo sgradevole al primo assaggio, ma altamente nutritivo una volta
digerito. Il suo grido – cioè la sua poesia (grido rimanda alla parola di Giovanni il Battista “voce di
uno che grida nel deserto”, dunque parola di protesta, di testimonianza e di profezia
inevitabilmente scomoda perché si preferisce non ascoltarla) sarà come il vento che si abbatte
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sulle cime più alte degli alberi: non potrà che rivolgersi e chiamare in causa i potenti della terra,
ma anche questo è motivo non secondario di pregio e di onore. Anzi, proprio per questo, durante
il viaggio nell’Oltretomba, Dante ha visto personaggi importanti, perché la sua poesia ne
acquistasse maggiore forza di suggestione e di persuasione.
2. La missione di Dante consiste nel “dire la verità”, senza timore, senza timidezza, senza paura di
offendere e di compromettersi. Per questo la sua non è più nemmeno poesia: è un grido. “Grido”
è un termine meravigliosamente complesso: vi possiamo leggere indignazione, invocazione,
rimprovero, protesta; in ogni caso, è una voce che parla in cerca di ascolto, che interroga e
coinvolge il proprio tempo. La parola indica, dunque, l’intento civile, pubblico e politico della
poesia dantesca, della Commedia. E’ una voce che pretende di essere ascoltata, come quella di un
vero e proprio profeta, dai potenti di questo mondo. Già l’altezza di questa ambizione – secondo
Cacciaguida – è motivo di onore.
La chiusa del canto
136-142. Perché – secondo Cacciaguida – si sono mostrate a Dante, in Paradiso (in queste rote), in
Purgatorio e all’Inferno soltanto anime di personaggi famosi?
La chiusa del canto spiega perché Dante ha incontrato nel corso del suo viaggio soltanto
personaggi di spicco della storia antica e moderna. Si è trattato di una strategia comunicativa
intenzionale, escogitata ad hoc, per rendere le verità apprese dal poeta più vivide e più
memorabili, perché l’animo di chi ascolta non si appaga (non si posa) e non presta fede se gli si
fornisce un esempio derivato da materia poco nota od oscura, oppure un argomento di scarsa
evidenza, cioè argomentazioni teoriche prive di esempi cogenti e chiari. “Altro argomento che non
paia” rimanda alle tecniche oratorie del tempo, che facevano largo uso dell’exemplum, cioè della
breve narrazione, inserita soprattutto nelle prediche o nell’agiografia (genere letterario che tratta,
spesso in chiave leggendaria, della vita dei santi e dei martiri) allo scopo di far emergere in
maniera evidente verità di ordine morale (comportamenti lodevoli o degni di biasimo), nell’intento
di orientare il lettore nella scelta tra vizi e virtù.
Temi e aspetti fondamentali
Attraverso la profezia di Cacciaguida e il dialogo con l’antenato, Dante elabora una tenace
autodifesa del proprio operato politico, della propria condotta morale e della propria missione
poetica. Vediamo in che modo, partendo dall’aspetto politico e morale.
Emblematico da tale punto di vista il riferimento mitologico alla vicenda di Ippolito: come il
figlio di Teseo viene cacciato dal padre per le calunnie colpevoli della matrigna Fedra, così Dante
viene bandito da Firenze perché accusato ingiustamente di baratteria. Alla somiglianza delle
circostanze, si accompagna quella della grandezza dei due personaggi, entrambi vittime di una
persecuzione ingiusta ed entrambi, in modo diverso, eroi. Alla durezza delle condizioni dell’esilio,
fa riscontro la dignità che il poeta rivendica per sé, in quanto uomo saggio in grado di prevedere e
arginare i danni della sorte avversa, e in quanto uomo forte e per natura “ben tetragono ai colpi di
ventura”. La sua statura morale e politica non spicca solo dal confronto con i fiorentini che lo
hanno cacciato e che sono alleati di un papa corrotto, ma anche dal confronto con “la compagnia
malvagia e scempia” degli altri Bianchi esuli, da cui egli prende ben presto le distanze. Solo e
sdegnoso, Dante appare come colui che fa parte per se stesso e che assiste alla punizione divina
sui propri nemici (vv. 52-54, 65-66). Attraverso le parole di Cacciaguida, Dante erige un
monumento a se stesso, difendendo le proprie scelte politiche e la propria statura morale (la
propria dignità, la fedeltà ai valori di onestà e giustizia).
La sua autodifesa riguarda anche la poesia e in particolare in rapporto ai potenti. Per non
venir meno al suo dovere di uomo e di cittadino – che è tutt’uno col dovere del poeta – Dante era
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stato esiliato. Allo stesso modo, per conseguire la fama e la gloria poetica, egli non deve rinunciare
alla verità, non deve scendere a compromessi, sfidando i pericoli che ciò potrà comportare. La
poesia, dunque, implica un preciso impegno politico (anche per questo Dante concede tanto
spazio a Cangrande, suo ospite, e non manca di colpire i papi Clemente V e Bonifacio VIII), un
impegno che per Dante si alimenta di una passione personale, pagata sino in fondo, ma che
intende avere un significato valido per tutti. Qual è allora la finalità di un’opera come la
Commedia? La poesia è un alto grido, cioè parola profetica, testamento che deve avere valore di
monito e insieme di insegnamento per tutta l’umanità: una medicina amara all’inizio, che poi si
rivelerà “un nutrimento vitale” che contribuirà al progresso civile e morale di un’Italia e di
un’Europa – quelle del tardo Medioevo – piegate dalla confusione, dalla corruzione e dal disordine.
Investito dall’avo, che è morto combattendo per la fede ed è ora beato in Paradiso, Dante appare
simile a un profeta dell’Antico Testamento, testimone di verità e per questo perseguitato dai suoi
contemporanei. Il suo poema è una voce che grida, proprio come quella di Giovanni Battista nel
deserto, una voce scomoda, che colpisce i potenti della terra, ma che al contempo assolve un’alta
funzione pedagogica e morale.
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48
Siamo al termine del Paradiso, alle soglie estreme del dicibile, del raccontabile: qui si conclude il
viaggio di Dante e dunque anche il suo poema. Questo canto, il centesimo della Commedia, è
diviso in due parti: la preghiera alla Vergine di san Bernardo e la visione di Dio.
Prima parte: vv. 1-39
Prima di leggere i vv. 1-39, proviamo a rispondere a due domande fondamentali: a) perché san
Bernardo si rivolge a Maria chiedendole di intercedere in favore di Dante (perché il poeta possa
contemplare Dio)? b) Perché è proprio san Bernardo e non un’altra figura (un altro santo)?
a) Perché Maria è il tramite più efficace tra il divino e l’umano, perché attraverso di lei Dio ha
accettato di incarnarsi: quindi, quale miglior intermediario potrebbe consentire a un uomo mortale
quale è Dante la visione di Dio? Attraverso la Vergine “il divino si umanizza e l’umano, salvandosi
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sale al divino” (U. Bosco). B) La preghiera alla Vergine costituisce uno dei vertici più alti della
poesia dantesca, ed è significativo che essa sia messa in bocca al mistico san Bernardo, tra i più
convinti diffusori del culto di Maria durante il XII secolo. Costui, già dal XXXI canto, ha sostituito
Beatrice al fianco di Dante, per condurlo sino alla visione diretta di Dio. San Bernardo (1090-1153),
monaco cistercense, era stato nemico di ogni tentativo di razionalizzare la fede cristiana e di
ridurla a filosofia (pensa alla filosofia tomistica e al tentativo di razionalizzare la fede ricorrendo al
pensiero di Aristotele); diffidente di ogni conoscenza non finalizzata alla religione, si era distinto
per la sua sostanziale avversione per i pensatori pagani (come Platone e Aristotele). San Bernardo
è dunque un santo per molti aspetti lontano dalla mentalità e dalla sensibilità di Dante, ma qui è
evocato evidentemente proprio in quanto rappresentante di una modalità intuitiva, antiintellettualistica, di rapportarsi al mistero di Dio. A lui spetta infatti il compito di accompagnare
Dante dentro un’esperienza che non ha più nulla di irrazionale, che comporta l’abbandonarsi senza
riserve, senza difese, al torrente di luce con cui Dio si manifesta. Bernardo – è opportuno ribadirlo –
era stato anche un grande devoto di Maria e teologo mariano; nessuno meglio di lui, dunque, può
rivolgersi alla Vergine, perché interceda a sua volta presso Dio, e ottenga a Dante, al culmine del
suo viaggio, il supremo privilegio della visione beatificante.
1-3. L’invocazione iniziale
3.termine- consiglio: punto fermo del volere divino, che da sempre ha scelto Maria come
strumento del suo piano di redenzione dell’umanità.
vv. 1-3. 1.La preghiera di san Bernardo comincia con un vero e proprio ossimoro e prosegue con
due paradossi. Individuali? 2. Perché ricorre a tali espressioni? Qual è la sua intenzione?
Ossimoro (il paradosso della vergine-madre). Come si può essere insieme vergine e madre?
Maria, madre e figlia di suo figlio, in quanto come creatura è figlia di Dio e come madre del Cristo è
madre di Dio; si riferisce al fatto che, come narrato nei Vangeli, Maria generò Gesù Cristo per
opera dello Spirito Santo, per cui la giovane donna è al tempo stesso una vergine e una madre.
Seconda antitesi (Come si può essere figlia del proprio figlio? Maria creatura figlia di quel Dio che
è allo stesso tempo suo figlio; Maria è la creatura che diventa madre del suo creatore): in
quanto figlia di Dio padre, come tutti gli esseri umani, e in quanto madre di Cristo, che è Dio
incarnato, Maria è detta “figlia del tuo figlio” (che è poi il dogma fondamentale del cristianesimo,
ossia l’incarnazione di Dio in Cristo).
Terza antitesi (come può essere Maria allo stesso tempo umile e nobile?): Maria, creatura umile e
insieme la più alta e nobile delle creature; si riferisce alla semplice umiltà di Maria che la rende
benedetta e più alta rispetto a qualunque altra donna.
2.L’intenzione di san Bernardo è quello di condensare nell’invocazione iniziale il mistero della
Vergine, ampiamente sviscerato in quella “branca” della teologia cristiana che era (e che è ancora)
la “mariologia” (di cui san Bernardo era uno dei maggiori rappresentanti) e reso familiare al
popolo cristiano attraverso la liturgia e l’arte figurativa. In sostanza nella figura di Maria si incentra
il mistero dell’incarnazione, e quindi della salvezza: il figlio di Dio si fa uomo, nel grembo di una
vergine che lo concepisce non per via umana, ma per intervento dello Spirito Santo. Ne consegue
che Maria è insieme madre ma anche figlia, in quanto creatura umana, del Figlio-Dio che essa dà
alla luce (figlia del tuo figlio), il che fa di lei la più alta delle creature, per la grandezza del compito
che le è affidato, mentre nello stesso tempo la sua docilità al volere divino, fin dal momento
dell’annunciazione (“Ecco la serva di Dio”) testimonia della sua mirabile umiltà.
2.vv.4-21. L’elogio.
7-9. Nel ventre di Maria, in cui è stato concepito Gesù, il salvatore del mondo, si è riacceso l’amore
tra Dio e l’uomo, spento dopo il peccato originale di Adamo: dal caldo di quell’amore nella pace
eterna è sbocciato il fiore della mistica rosa dei beati. San Bernardo vuol dire che il Paradiso stesso
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è conseguenza dell’incarnazione di Cristo nella Vergine: senza quel divino mistero non ci sarebbe
salvezza e non ci sarebbe Paradiso.
10-12: in Paradiso, Maria è come una torcia accesa e splendente (facie= torcia, latinismo) di carità,
è una fiaccola ardente, come ardente e luminoso è il sole a mezzogiorno (di qui l’aggettivo
meridiana). In cielo Maria è l’esempio luminoso di carità per gli angeli e per i beati. Sulla terra,
invece, la Vergine è inesauribile (vivace) fonte di speranza, poiché rappresenta la più efficace
mediazione tra Dio e l’umanità.
14-15 qual… sanz’ali: Maria è qui rappresentata come colei che ha il più alto potere di intercedere
presso Dio, tanto che chi vuole ottenere una grazia e non si rivolge a lei, il suo desiderio è
destinato a fallire, come chi volesse volare senz’ali.
vv.4-21. L’elogio. Quali aspetti fondamentali della figura di Maria vengono esaltati in questa
parte della preghiera?
In primo luogo il suo essere madre di Cristo: nel suo grembo si è riacceso l’amore tra l’uomo e il
suo creatore, che era finito con il peccato commesso da Adamo. Il ventre della Vergine è visto
come un “nido caldo” dove non solo si è riacceso l’amore tra Dio e l’uomo, attraverso la salvezza
portata da Gesù, ma dove è “geminato”, dove è spuntato e poi sbocciato, il Paradiso stesso (fiore),
la candida rosa dei beati. In secondo luogo san Bernardo celebra Maria come “fiaccola (facie)
splendente (meridiana)” di carità, come una torcia splendida ardente dell’amore divino (la
“caritate”), come un sole a mezzogiorno, ma anche come fontana sempre zampillante di speranza
per i mortali sulla Terra. Maria è in sostanza la sintesi mirabile di due virtù teologali: la carità, che è
propria dei beati del Paradiso, e la speranza, ciò di cui hanno più bisogno gli uomini. In terzo luogo,
proprio in virtù di questo, i mortali si affidano alla Vergine per potersi innalzare fino al Creatore e
a lei chiedono la grazia e l’intercessione; san Bernardo esalta la natura di Maria come
dispensatrice di grazie. Questo è un tratto caro alla devozione mariana popolare: quante chiese
intitolate alla “Madonna delle Grazie” ci sono nelle nostre città o nelle nostre campagne. Dante,
per bocca di Bernardo, piega tuttavia questa caratteristica tradizionale della Madonna in senso
spiccatamente cortese. Si parla infatti di misericordia e della pietà della Vergine, ma in particolare
della sua benignità, della sua magnificenza, del suo precorrere liberamente, spontaneamente le
richieste di chi si rivolge a lei. In questo senso, la Vergine viene percepita e invocata come un
grande e generoso signore cortese, largo nel donare e sensibile ai bisogni dei suoi sottoposti:
teologia cristiana e morale modana della gentilezza qui si fondono in un unico ideale di regalità
magnanima e premurosa.
3.vv.22-39. La supplica
Quali sono le richieste che san Bernardo rivolge per Dante alla Vergine?
San Bernardo chiede alla Vergine innanzitutto che Dante, giunto ormai alla sua meta, dopo aver
toccato e visitato l’infima lacuna dell’universo, sia liberato dall’ultima foschia, cioè dalla “nube”
che ancora vela il suo sguardo e gli impedisce di vedere direttamente il volto di Dio. A questa
Bernardo aggiunge una seconda richiesta: che la Vergine, dopo che il poeta avrà goduto di una così
alta visione (dopo tanto veder) mantenga “sani”, puri, i suoi affetti, cioè le sue inclinazioni interiori.
Infatti, tornato sulla terra, Dante tornerà uomo come gli altri, soggetto alle deviazioni e tentazioni
della natura umana; nemmeno la visione diretta di Dio avrà il potere di assicurargli, di per sé,
l’immunità dal male. Così ribadisce il v. 37, in cui la protezione (guardia) di Maria è invocata ad
aver ragione dei movimenti umani, ovvero degli impulsi delle passioni terrene.
51
33° canto del Paradiso, seconda parte (vv. 55-66 e 115-145)
Dopo che Maria ha accolto la richiesta formulata da san Bernardo (vv. 40-45), comincia la seconda
parte del canto: anche la terza e ultima guida di Dante sparisce e rimane sulla scena il poeta da
solo, alle prese con una vera e propria «battaglia» nella quale lo sguardo umano (di Dante
personaggio), benché più volte potenziato, tenta di accedere con grandissima difficoltà alla
profondità della luce divina.
55-66. È questo l’inizio della contemplazione della luce divina, dell’ultima frazione del grande
viaggio di Dante: la vista viene potenziata, diventa maggiore, ma, allo stesso tempo, altre facoltà
vengono meno. Quali e in che modo il poeta rende l’idea di tutto questo?
Dante avverte il lettore che d’ora in avanti il suo veder, cioè la sua vista (e quello che gli fu
concesso di vedere) fu maggiore (maggio) di quello che la sua parola umana può esprimere, parola
che si dà per vinta (cede) di fronte a quella vista, così come la memoria di quello che vide si
arrende, sopraffatta, di fronte all’altezza della visione. Siamo dunque di fronte a una doppia
dichiarazione di impotenza: non solo la visione di Dio non si può esprimere a parole, ma la
memoria stessa che cerca di recuperare quella visione (dunque anche prima di tentare di
restituirla in linguaggio umano) deve cedere a tanto oltraggio (splendida parola, qui usata da
Dante nel suo significato antico, non sempre negativo, di “cosa che va oltre” il normale), cioè
all’eccesso smisurato di quella esperienza.
A questo punto Dante esprime la propria eccezionale condizione di grazia e insieme
l’inadeguatezza linguistico-poetica di fronte all’esperienza della visione di Dio, attraverso una serie
di similitudini: l’uomo che al risveglio non ricorda più il proprio sogno, conservandone solo
un’indistinta sensazione (vv. 58-63); la neve che si scioglie al sole, i responsi della Sibilla cumana
scritti su foglie che sono abbandonate al vento. Sono tutte immagini che esprimono l’incapacità di
riafferrare la visione in sé, nella sua totalità, come se fosse stato un sogno, un bel sogno di cui è
rimasta una sensazione di dolcezza. Così si disfà la forma della neve (si “disgilla”, cioè perde la sua
forma sciogliendosi. Il verbo è il contrario di sigillare, inteso nel senso di imprimere un disegno
tramite un sigillo), quando si scioglie al sole; così si disperdeva il significato degli oracoli della
Sibilla cumana, quando il vento, penetrando nel suo antro, scompigliava le foglie sulle quali essa
scriveva ordinatamente i suoi vaticini. Trasumanar significar per verba / non si poria, aveva già
avvertito Dante all’inizio del Paradiso: questo andare oltre le risorse normali dei nostri sensi tocca
qui il suo culmine.
vv. 115-145: la visione di Dio
Per un mortale è impossibile vedere Dio: Dante non lo descrive direttamente, ma attraverso
progressive visioni che ha di LUI.
1.76-105: la prima visione è quella dell’unità dell’universo in Dio: il poeta vede una luce e la fissa
per cercare di penetrarne l’essenza; in questa luce vede, o meglio è certo di avere visto, perché il
ricordo di quella visione ancora gli dà una gioia profondissima, la perfetta unità dell’intero
universo in Dio, il creato avvinto da perfetto amore al suo Creatore. La molteplicità frammentaria
e dispersiva con cui la realtà si mostra sulla terra, nel profondo della luce divina si ricompone in
perfetta e armonica unità.
2.vv. 106-126 (115-126). La visione di Dio come Trinità
Note:
52
124-126. La terzina contiene un’ardua sintesi del mistero trinitario; Dio è luce eterna che sola
siede in se stessa, cioè trova in sé la sua consistenza, ovvero non è situabile in nessun luogo
creato; è luce che sola si comprende e mentre si comprende (questo è il Padre che pensa se stesso
nel figlio) ed è compresa (questo è il Figlio, pensato dal Padre) genera amore (lo Spirito Santo) e si
compiace sorridendo di questo amore. Cfr. Matteo, 11,27: “nessuno conosce il Figlio se non il
Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio, e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare”.
1. Attraverso quali immagini Dante arriva a descrivere il mistero della Trinità? 2. Cosa afferma il
poeta ai vv. 121-123?
1. Nel profondo della luce divina appaiono a Dante tre giri, cioè tre cerchi (figura del Padre, del
Figlio, dello Spirito Santo), di tre colori diversi (figura delle tre distinte persone della Trinità) e della
stessa dimensione (contenenza: figura della uguale partecipazione delle tre persone della Trinità
alla stessa natura divina); l’uno, il secondo di quei giri, sembrava riflesso dal primo come un
arcobaleno si raddoppia da un altro (da iri a iri: i due arcobaleni sono il Padre e il Figlio,
quest’ultimo generato dal primo e a lui identico nella natura divina), mentre il terzo sembrava un
cerchio di fuoco che venisse alimentato dall’uno e dall’altro in pari misura (figura dello Spirito
Santo che “procede”, secondo il credo cattolico, dal Padre e dal Figlio, ovvero è la conseguenza
eterna dell’amore scambievole delle due prime persone della Trinità).
In sintesi: le tre persone della Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo sono raffigurati come tre cerchi
distinti (di tre colori diversi), ma uguali nella sostanza (una contenenza); il cerchio è il simbolo della
divina eternità, perché non ha un inizio e una fine. Il secondo cerchio (il Figlio) è riflesso dal primo
(il Padre) come un arcobaleno sdoppiato, mentre il terzo cerchio (lo Spirito Santo) pare di fuoco,
un fuoco alimentato dagli altri due. È la rappresentazione grafica della Trinità: Padre, Figlio e
Spirito Santo, tre persone diverse (simboleggiate dai tre diversi colori), un solo Dio (simboleggiato
dalla identica dimensione dei tre cerchi), il Figlio generato dal Padre (i due arcobaleni riflessi l’uno
nell’altro), mentre la terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, è l’amore che lega insieme il
Padre e il Figlio (per questo il terzo giro “parea foco”, e per questo quel fuoco pare ispirato,
“insufflato” dagli altri due giri).
2.La visione ci appare evidente, eloquente; è una rappresentazione grafica e icastica della Trinità
per noi impeccabile, densa di spessore teologico (si noti l’occorrenza di termini filosofici quali
“sussistenza” e “contenenza”); eppure Dante non manca di sminuirla con una nuova professione
di inadeguatezza: rispetto a quello che egli ha in mente (al suo concetto) il suo dire è corto e fioco.
Quello che ha in mente non è che un minimo residuo di quello che ha visto: anche definirlo “poco”
non sarebbe adeguato. Infatti, Dante tenta di restituire, stavolta a parole, il mistero trinitario
intuito nella visione, con una terzina di spettacolare forza sintetica (124-126): nei tre versi il poeta
condensa lo sforzo secolare della cultura cristiana di restituire la Trinità nelle categorie mentali e
nel linguaggio della filosofia platonico-aristotelica, per cui il Padre, che genera il Figlio uguale a se
stesso, e lo Spirito d’amore che li lega, vengono configurati come una mente eterna, che pensando
se stessa si oggettiva in un pensiero che a sua volta è capace di intendere quella mente; dal
rapporto tra questo pensiero pensante e questo pensiero pensato si sprigiona un atto di reciproco
amore.
3.127-139: la terza è la visione del mistero dell’incarnazione.
1.L’articolazione della terza visione (vv. 127-138) presenta la stessa struttura della precedente.
Perché? 2. Cosa accade nell’ultima terzina (vv. 139-141)?
La prima terzina è occupata dalla descrizione della visione di Dio come mistero dell’incarnazione: il
secondo cerchio (circulazione) che appariva nella profondità della luce divina, concepito come un
lume riflesso dal primo (è il Figlio, il secondo cerchio, che è riflesso del Padre, il primo cerchio),
comincia a mutare sotto lo sguardo di Dante. Più il poeta lo fissa attentamente, più quello cambia,
53
finché al suo interno, esso assume l’aspetto di una figura umana. Segue, come nella visione
precedente, la similitudine, la cui funzione è rendere l’idea dell’inesprimibile, cioè della visione
di Dio, attraverso il raffronto con la dimensione quotidiana e reale: Dante, che fa fatica a
rendersi conto di quella vista nova, cioè della compresenza del cerchio della fisionomia umana
entro il secondo “giro”, è come un geomètra, un matematico studioso di geometria, che tanto si
concentra per trovare la formula della quadratura del cerchio (che gli consenta di calcolare le
misure del cerchio), di trasformare una superficie circolare in poligono quadrangolo, e non riesce a
escogitare, pur con la massima concentrazione del pensiero, il principio, la formula di cui ha
bisogno (ond’elli indige). La quadratura del cerchio era problema discusso fin da Archimede, e ben
noto a Dante. Come il matematico che si sforza di trovare la formula che gli consenta di misurare il
cerchio, così Dante avverte l’incapacità di comprendere ciò che quella visione gli comunica. Il
poeta si chiede come la figura umana possa unirsi al cerchio e come vi si collochi (l’imago del
cerchio e come vi si indova); in altre parole come la sembianza dell’uomo possa essere unita a
quella di Dio, com’è possibile che l’umanità di Cristo stia insieme con il suo essere Dio.
2.Dante cerca di penetrare nel mistero dell’incarnazione con lo strumento della ragione (di qui la
similitudine con il matematico che tenta di risolvere un problema di geometria) e capire come in
Cristo possano essere compresenti natura umana e natura divina (rappresentate dall’immagine e
dalla circonferenza in cui quella si inscrive e trova spazio). Tuttavia questo non è possibile, per i
limiti stessi della ragione umana (v. 139: il supremo ma insufficiente sforzo delle facoltà umane per
intendere il mistero divino viene reso attraverso la metafora del volo, che richiama ancora una
volta l’impresa di Ulisse; penne= ali dell’intelletto). Dante non può arrivarci da solo. Occorre un
ultimo e risolutivo intervento della grazia divina. Stavolta è un fulgure, cioè una folgorazione,
un’illuminazione improvvisa, da cui viene percossa la mente del poeta. Questa sorta di fulmine che
investe il poeta è il mezzo attraverso cui sua voglia, cioè l’oggetto del suo desiderio, Dio stesso, gli
viene incontro. In seguito a questo improvviso bagliore il desiderio di sapere viene soddisfatto.
vv. 142-145: l’amor che move il sole e le altre stelle, l’explicit della Divina Commedia
Qual è la condizione necessaria per vedere Dio che Dante indica a chiusura del XXXIII canto del
Paradiso e della Commedia?
La fantasia, cioè la capacità immaginativa (la capacità di pensare e di rappresentare il pensiero per
figure e immagini) di Dante, pur giunta così in alto, deve arrendersi; ormai Dio non è più
concepibile per immagini. Dopo la folgorazione, si esaurisce la facoltà immaginativa del poeta, cui
vengono meno la capacità di vedere e la possibilità di esprimere. Nel momento in cui viene meno la
facoltà di tradurre in immagini intelligibili i dati dell’esperienza sensibile, Dante si trova a essere in
perfetta armonia intellettiva e affettiva con Dio (disio e velle coincidono), motore immoto
dell’universo. Dio, motore del cosmo, l’amor che move il sole e le altre stelle, armonizza Il desiderio
di Dante– la sua sete intellettuale di conoscenza – con la sua volontà (velle, infinito del verbo latino
che indica “volere”). Le due facoltà – desiderio e volontà – girano insieme come una ruota, il cui
moto è uguale in ogni punto. È questa la condizione che permette al pellegrino il compimento del
suo viaggio, che coincide con la contemplazione del “volto” di Dio, la visione diretta di Dio.
Da notare: il Paradiso si chiude circolarmente riecheggiando il proprio inizio (cfr. v. 145 e v. 1 “la
gloria di colui che tutto move”), mentre “stelle” è l’ultima parola di tutte e tre le cantiche (Inferno,
XXXIV, v. 137 “e quindi uscimmo a riveder le stelle”; Purgatorio, XXXIII, v. 146 puro e disposto a
salir le stelle). Questo senso di perfetta chiusura e compiutezza bilancia, fa da contrappeso alle
ripetute dichiarazioni di insufficienza espressiva da parte di Dante: nella celebrazione di Dio come
supremo amore (l’amor che move il sole e le altre stelle) e nel riconoscimento di essere parte
dell’ordine da lui voluto, la poesia trova la sua pace, il suo explicit più logico e naturale.
54
Temi fondamentali
1.Il primo è senza dubbio la tensione continua tra l’abbandono mistico, proprio della fede, e lo
sforzo razionale di comprendere il mistero di Dio, tensione che è congenita, per così dire, alla
struttura bipartita del canto stesso. Le due parti sono infatti molto diverse. Dapprima abbiamo la
lunga preghiera di san Bernardo alla Madonna, che, sebbene strutturata con una retorica sapiente,
fa appello al lato più sentimentale e più candido della fede, tanto da aprirsi con tre antitesi (figlia
del tuo figlio, umile e alta, termine… d’etterno consiglio), che ripugnano alla ragione (cioè che non
sono razionali), ma che sono serenamente accettate dalla fede più spontanea. Non a caso a
pronunciarla è san Bernardo, campione del misticismo e del culto mariano e fermo oppositore
delle tendenze razionalistiche della filosofia medievale. Nella seconda parte prevale invece il
lessico teologico-filosofico della Scolastica (sussistenza, contenenza, fantasia) e scientifico (il
geomètra che tenta di trovare la quadratura del cerchio), mentre la ragione umana di Dante si
sforza sempre più di penetrare con i propri limitati mezzi mortali in tre vertiginosi misteri (le tre
visioni di Dio) riuscendoci quasi del tutto (a parte l’aiuto finale dell’illuminazione divina). Eppure le
due macrosezioni del canto non stridono tra di loro, anzi sono serenamente legate in quanto
fanno appello a due momenti fondamentali della fede che, pur con le difficoltà testimoniate dai
contrasti della filosofia medievale (misticismo vs razionalismo), possono procedere in armonia.
2.Il secondo è dato dalla straordinarietà dell’esperienza celeste, dalla difficoltà di fare fronte ad
essa, dall’impegno nel narrarla, tutti aspetti che Dante aveva già messo in evidenza nel primo
canto e che qui tornano con maggiore intensità. Nell’ultimo del Paradiso assistiamo a una sorta di
“sinergia” tra Dante autore che si sforza di trascrivere l’esperienza della visione di Dio e Dantepersonaggio, che assistito dalla grazia di Dio, alla fine realizzerà il suo sommo desiderio, la
contemplazione del volto di Dio. Di fronte al mistero e all’indicibile Dante-autore non si arrende e
ricorre a tutte le sue risorse intellettuali e poetiche; Dante è convinto che neppure la più alta delle
esperienze (quella mistica) coincida con il silenzio e la totale rinuncia alla razionalità. Perciò, anche
se il suo parlare di Dio è come il balbettio di un infante (di un bambino che non sa parlare, vv. 106108: ormai sarà più corta mia favella, / pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante / che bagni ancora
la lingua a la mammella), non viene meno al suo dovere: testimoniare e comunicare il mistero di
Dio.
3.Il terzo è il tema della beatitudine. La mente umana del poeta, già duramente provata dalla
comprensione dei due primi misteri di Dio (molteplicità nell’uno e trinità) è troppo limitata per
superare l’ultimo, quello dell’incarnazione; così Dio viene in suo soccorso con l’illuminazione della
sua grazia, paragonata a un “fulgore” (v. 141) che in un attimo fa raggiungere a Dante la
beatitudine. Questa altri non è se non l’identificazione della propria volontà con quella infallibile di
Dio. Lo ha spiegato Piccarda Donati nel III canto ed è stato ribadito altrove in più occasioni.
Comprendiamo così che Dante, per un istante, è stato reso da Dio pari ai beati nella visione di tutti
i suoi misteri.
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