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INGIURIA - Infocds.it
INGIURIA: REATO DIRE CHI C..ZO SIETE AL PUBBLICO UFFICIALE Cass. pen. Sez. V, (ud. 15-01-2008) 19-02-2008, n. 7656 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: 1) B.R., N. IL (OMISSIS); avverso SENTENZA del 03/11/2006 CORTE APPELLO di POTENZA; visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. . Udito il Procuratore Generale in persona del Dr. .., che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo - Motivi della decisione OSSERVA La Corte d'appello di Potenza con sentenza 3.11.2006 confermava la decisione del G.U.P. del tribunale di Potenza in data 4.11.2005 con la quale B.R. era stato condannato per i reati di ingiuria aggravata (capo A della rubrica), violenza a pubblico ufficiale (capo B) e lesioni aggravate in danno dell'agente di polizia C.R. (capo C). Propone ricorso per cassazione l'imputato denunciando violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo A). Deduce - riproponendo analoga doglianza avanzata in appello e disattesa - che l'espressione rivolta agli agenti ("che cazzo volete, chi cazzo siete") aveva significato scurrile ma non era idonea a ledere l'onore ed il decoro della persona cui era stata rivolta. Il motivo è destituito di fondamento ed il ricorso deve esser rigettato con le conseguenze di legge. Deve premettersi che l'accertamento della portata ingiuriosa di una locuzione rientra nei compiti del giudice di merito, risolvendosi, quindi, in un apprezzamento di fatto che, se adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità. Ciò premesso, va osservato che la Corte territoriale ha argomentato che la frase rivolta agli operanti, oltre che triviale, ha un'oggettiva idoneità a ledere l'onore ed il decoro del destinatario, tanto più nel caso in esame, apparendo evidente il proposito di mortificare l'operato degli agenti, apostrofati, nell'adempimento del proprio dovere, con un epiteto che è sinonimo di disprezzo dell'uomo, della sua dignità e del prestigio di pubblico ufficiale. Trattasi di osservazioni appropriate con le quali - in considerazione del contesto nel quale la frase venne pronunciata e della personalità delle persone offese - è stata ragionevolmente affermata la valenza offensiva dell'espressione in oggetto; l'apprezzamento, sorretto da corrette argomentazioni, resta sottratto alle censure del ricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2008. Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2008 "AVETE ROTTO" È REATO DI INGIURIA. Cassazione Penale sentenza 35584-2007 Ogni frase si sa deve essere valutata nel suo contesto ed anche un'espressione oramai entrata a far parte del liguaggio corrente può essere considerata dalla legge come una vera e propria ingiuria. E così anche l'espressione "avete rotto le palle" secondo la Cassazoine (Sentenza 35548/2007) benché generalmente tollerata può far scattare una condanna penale. Tutto dipende dal contesto in cui vien pronunciata e a chi viene rivolta. Il caso esaminato dalla Corte, vede come protagonista un frate domenicano (direttore di una comunità per tossicodipendenti) che all'arrivo di una pattuglia dei carabinieri si era rivolto loro dicendo 'avete rotto le palle'. Il frate è stato subito denunciato e condanato per ingiuria. Inutile il ricorso in Cassazione. Secondo gli Ermellilni "i giudici di merito hanno plausibilmente ritenuto che [il frate] intendesse contrastare l'operazione dei carabinieri, qualificandola come inutilmente vessatoria e quindi attribuendo sostanzialmente ai militari la responsabilita' di un abuso". La frase "avete rotto le palle" si legge nella sentenza "puo' essere utilizzata in funzione delle azioni piu' disparate". E non e' nemmeno in discussione "l'accettabilita' sociale di un tale linguaggio, perche' l'art. 594 c.p. non punisce la volgarita' in se'. Cio' che rileva e' il significato dell'azione compiuta dal frate con quelle parole". “INGNORANTE E DILETTANTE!” E’ REATO Cassazione – Sezione quinta penale – sentenza 23 gennaio – 27 febbraio 2008, n. 8639 Presidente Fazzioli – Relatore Carrozza Pm Izzo – conforme – Ricorrente F. W. Fatto 1. Con sentenza del 14 dicembre 2005 il Tribunale di Treviso, in composizione monocratica, in riforma di quella del giudice di pace della stessa città del 6 aprile precedente, ha dichiarato la F. W. responsabile del reato di cui all’art. 594, comma 1, c.p. per avere, mediante l’invio di un fax, offeso l’onore e il decoro di Z. Franca, affermando che era ignorante e dilettante. Il giudice dell’appello ha argomentato che non poteva desumersi, come aveva affermato il giudice di pace, che con il fax in questione l’imputata avesse inteso solo evidenziare la scarsa professionalità della Z. , in quanto aveva già scritto che le cavalle, che erano state affidate alla parte lesa per l’allevamento, erano state tenute in cattive condizioni igieniche ed alimentate in modo insufficiente, descrivendo così in modo oggettivo l’inadeguatezza della prestazione, mentre aggiungendo le parole “dilettante e ignorante” aveva voluto dare alla critica una connotazione inequivocabilmente spregiativa. 1.2. Il Tribunale ha, pure, precisato che doveva escludersi che l’imputata non avesse compreso il significato delle parole usate, perché non risultava che la stessa, di nazionalità straniera, avesse una limitata o incompleta comprensione della lingua italiana. Anzi risultava che essa aveva usato correttamente l’italiano sia nel fax che nel corso dell’interrogatorio davanti al giudice di pace. 1.3. Lo stesso giudice ha escluso l’applicabilità dell’art. 599 c.p. perché non vi era alcuna prova che le cavalle fossero state tenute male dalla Z. e che l’imputata avesse scritto il fax nello stato d’ira determinato da tale comportamento. L’imputata ricorre per cassazione deducendo: 2.1. l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 594, comma 1, c.p. perché questo prevede espressamente la presenza dell’offeso, per cui, semmai, l’imputata sarebbe stata responsabile della fattispecie di cui al comma 2 stessa disposizione normativa. 2.2. l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 599 c.p. perché il Tribunale non ha tenuto conto di quanto acquisito durante l’istruttoria, con particolare riguardo alle dichiarazioni della parte civile, nelle quali si ammetteva che le cavalle avevano contratto alcune patologie durante la permanenza nell’allevamento della stessa. 2.3. la manifesta e illogicità della motivazione sull’esistenza dell’elemento soggettivo sia perché frasi ben più gravi di quelle usate da essa imputata sono entrate ormai nel linguaggio comune, sia perché risulta che il fax è gonfio di errori e sgrammaticature, fa riferimento a termini impropri, dimostrando la mancanza di non saper scrivere in perfetta lingua italiana. Diritto 4.1. Il primo motivo è inammissibile, perché manifestamente infondato. Il riferimento, nell’imputazione, al comma 1 dell’art. 594 c.p. costituisce un mero errore materiale, perché in essa si fa riferimento proprio all’offesa mediante l’invio di un fax come previsto dal comma 2 della stessa disposizione normativa. 4.2. La seconda censura è, poi, inammissibile perché generica. Anche l’interpretazione dell’art. 606, lett. e c.p.p., nella formulazione operata dall’art. 8 della legge n. 46 del 2006 (“mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificatamente indicati nei motivi di gravame”) che estende il vizio deducibile in sede di legittimità, anche alla contraddizione ad un atto esterno al testo, costituito da un atto del processo e, quindi, anche da un atto probatorio (tra le tante Cass., sez. VI, 24 maggio 2007, n. 24680, Cass., sez. Vi, 28 settembre 2006 n. 35964, Cass., sez. I, 14 luglio 2006, n. 25117, Cass. sez. V, 24 maggio 2006, 36764) richiede che gli atti del processo siano specificatamente indicati e rappresentati. Nella specie manca la specificità, perché si deduce, ai fini dell’esimente di cui all’art. 599 c.p., che la parte civile avrebbe ammesso che le cavalle avevano contratto alcune patologie, senza specificare quali queste fossero, né da quali atti risultassero. Dette patologie non sono evidenziate dalla sentenza di primo grado, ove si fa riferimento genericamente alle condizioni fisiche in cui gli animali erano stati restituiti, senza ulteriore approfondimento. Non sono stati, inoltre specificatamente indicati e rappresentati gli atti del processo da cui risulterebbe l’ammissione della parte civile. 4.3. È, infine, manifestamente infondato, e quindi, inammissibile il terzo motivo. Rettamente il giudice dell’appello ha ritenuto che le parole dilettante e ignorante sono state usate insieme in senso spregiativo, perché esse comunemente hanno un tale significato, specialmente quando si vuole evidenziare mancanza di adeguata preparazione in relazione ad attività professionali, come quella esercitata dalla parte offesa, allevatore di cavalli, che richiedono sapere tecnico e cultura. Inoltre, l’accertamento del giudice dell’appello circa la perfetta comprensione della lingua italiana da parte dell’imputata è immune da vizi logici, avendo lo stesso fatto riferimento alla coerenza delle espressioni usate, “dilettante ed ignorante”, con il residuo contenuto del fax e all’interrogatorio della stessa imputata, svoltosi senza necessità di interprete. Con la memoria si chiede la dichiarazione della prescrizione triennale che sarebbe maturata successivamente alla sentenza di appello. Però, l’inammissibilità del ricorso per cassazione, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p. nel caso di prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso (Cass. Sez. Un., 22 novembre 2000, De Luca – Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428). Pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile e la F. condannata al pagamento delle spese processuali. Poi, tenuto conto della sentenza 13/6/2000 n. 186 della Corte Costituzionale e del fatto che non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, la ricorrente è tenuta anche al versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, determinata, per le ragioni di inammissibilità, nella misura di Euro 1000,00. PQM La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di euro 1000,00. MINACCIA: NO SE IL MALE PROSPETTATO NON DIPENDE DALL’AGENTE Cassazione penale, sezione v, sentenza n. 35763 del 25/10/2006 (Presidente: B. Foscarini; Relatore: P. Marini) Il giudice di pace di Genzano, con sentenza 24/3/2005, ha condannato R.A. alla pena di euro 350,00 di multa quale responsabile di ingiurie e minacce (reati ritenuti in continuazione) rivolte a C. L. attraverso messaggi sms a mezzo di telefono cellulare; fatti accertati fra lug. e l’ago. 2003. L’imputato ricorre per cassazione deducendo: mancanza o manifesta illogicita’ della motivazione; non solo non risulterebbe accertato il testo dei messaggi sms asseritamente offensivi, ma la stessa riconducibilita’ della scheda telefonica all’imputato trarrebbe da dichiarazione interessata dall’effettiva intestataria B.K. e da dichiarazioni testimoniali non convincenti (M.llo F. in punto di riconoscimento della voce dell’imputato chiamato al telefono cellulare indicato dalla persona offesa); inosservanza o erronea applicazione della legge penale quanto al ritenuto reato di minaccia. Il primo motivo di gravame e’ manifestamente destituito di ogni fondatezza. L’impugnata sentenza, invero, ha con tutta evidenza esaustivamente esposto gli elementi di prova a carico dell’imputato, coniugando coerentemente in senso univocamente accusatorio: l’interruzione, nel lug. 2003, del rapporto sentimentale fra persona offesa ed imputato; le dichiarazioni accusatorie della persona offesa con riferimento ai messaggi sms ingiuriosi e intimidatori; la disponibilita’ in capo all’imputato della scheda telefonica utilizzata nell’occorso, cosi’ come dichiarato dalla B. Ha poi del tutto logicamente ritenuto attendibile la B., laddove costei ha riferito che fu l’imputato, con il quale ella aveva intrattenuto in precedenza una relazione sentimentale, a chiederle di intestarsi la scheda vodafone, trovando tale dichiarazione puntuale conferma nella circostanza che fu proprio l’imputato a rispondere al corrispondente numero telefonico digitato dal M.llo F. in sede di prime indagini; e, d’altra parte, poiche’ lo stesso M.llo F. aveva chiesto al R. di recarsi in caserma per ritirare gli effetti personali e l’interlocutore non si qualifico’ per persona diversa e non interessata, e’ incensurabile che il giudice di merito abbia ulteriormente valorizzato il deposto del pubblico ufficiale anche laddove il teste ha dichiarato sembrargli, all’apparecchio, la voce dell’imputato… A fronte di tale motivazione, il ricorso di risolve, quanto al primo motivo, nella pretesa di diverso e piu’ favorevole apprezzamento degli elementi di prova veicolandone una lettura riduttiva e domestica dell’intera vicenda. Fondato, viceversa, e’ il secondo motivo di gravame. La sentenza impugnata, invero, non spende alcuna parola in punto alla valenza intimidatoria delle frasi contestate nel relativo capo di imputazione (capo B) e deve dirsi, in effetti, che le stessesse, consistendo nelle frasi: ignorante, farai la fine di tuo padre…, tanto non vai avanti al tuo baretto…, perderai tutto illusa, non integrano il reato di minaccia; non puo’ parlarsi di minaccia, infatti, quando il male non sia prospettato come dipendente dalla volonta’ dell’agente, come e’ nella fattispecie, rappresentando le frasi niente piu’ che un auspicio o una previsione dell’imputato che l’attivita’ della persona offesa, (la gestione di un baretto, non sarebbe andata a buon fine (perderai tutto, illusa), cosi’ come era avvenuto in altra occasione per il di lei genitore (farai la fine di tuo padre). Consegue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di minaccia contestato al capo b) perche’ il fatto non sussiste; il relativo aumento di pena per continuazione, pari a euro 13,00 di multa, deve essere eliminato (sicche’ la pena resta determinata in euro 337,00 di multa); dichiarato inammissibile il ricorso nel resto. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato al capo B (art. 612 c.p.) perche’ il fatto non sussiste, ed elimina il relativo aumento di pena per continuazione di euro 13,00 di multa; dichiara inammissibile nel resto il ricorso. Roma, 20/9/2006. Depositata in Cancelleria il 25 ottobre 2006 Non puo’ parlarsi di minaccia quando il male non sia prospettato come dipendente dalla volonta’ dell’agente ma rimesso ad un auspicio o una previsione che l’attivita’ commerciale della persona offesa (nella specie la gestione di un baretto) non sarebbe andata a buon fine INGIURIA: “MI FAI SCHIFO” E’ REATO Cass. pen. Sez. V, (ud. 16-04-2007) 02-08-2007, n. 31451 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PIZZUTI Giuseppe - Presidente Dott. SCALERA Vito - Consigliere Dott. SANDRELLI Gian Giacomo - Consigliere Dott. BRUNO Paolo Antonio - Consigliere Dott. DIDONE Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto il 24.11.2005 da: parte civile ...omissismsmvld.....; avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale di Monza il 10 ottobre 2005; nel procedimento a carico di: ...omissismsmvld...., nato a (OMISSIS). Letto il ricorso e la sentenza impugnata. Sentita la relazione del Consigliere Dr. Paolo Antonio BRUNO. Udite le conclusioni del Procuratore Generale in sede, in persona del Sostituto Dr. Enrico Delehaye, che ha chiesto l'annullamento con rinvio in accoglimento del ricorso di parte civile. Sentito, altresì, l'avv. Luigi Vulcano che, nell'interesse dell'imputato, ha chiesto il rigetto del ricorso della parte civile. Svolgimento del processo ...omissismsmvld.... era chiamato a rispondere, innanzi al Giudice di pace di Desio, del reato di cui all'art. 594 c.p. perchè offendeva l'onore ed il decoro di ...omissismsmvld....., pronunciando nei suoi confronti termini quali "mi fai schifo". Con sentenza del 21 giugno 2004, il giudicante dichiarava l'imputato responsabile del reato ascrittogli e lo condannava alla pena pecuniaria di Euro 180,00 di multa, oltre al risarcimento del danno nei confronti della C., costituitasi parte civile. Pronunciando sul gravame proposto dall'imputato, il Tribunale di Monza, sezione distaccata di Desio, assolveva lo stesso D. con la formula perchè il fatto non sussiste. Avverso la pronuncia anzidetta, la parte civile ha proposto ricorso per cassazione, deducendo le ragioni di censura indicate in parte motiva. Motivi della decisione 1. - Con il primo motivo d'impugnazione, parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 192 c.p.p. nonchè manifesta illogicità della motivazione, sul rilievo che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto che le dichiarazioni della persona offesa abbisognassero di elementi di riscontro, per concludere che non era stata raggiunta la prova che l'imputato avesse realmente proferito le parole di cui al capo d'imputazione. Nessuna rilevanza avrebbe potuto assumere la circostanza che, per episodi ben più gravi, il D. non fosse stato condannato, in quanto precedenti gravi situazioni erano state regolarmente denunciate ed il PM aveva ritenuto di non esercitare l'azione penale essendo decorsi i termini per proporre querela. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 594 c.p. e contraddittorietà di motivazione, sul rilievo che il tribunale, nel ritenere che il giudizio negativo espresso dalle parole incriminate era stato formulato nei limiti della continenza intrinseca, aveva indebitamente mutuato criteri di giudizio relativi all'esercizio del diritto di critica, relativamente al diverso reato di diffamazione. L'espressione in oggetto aveva, invece, contenuto intrinsecamente offensivo, essendo irrilevante che esprimesse una mera opinione, in quanto qualsiasi ingiuria esprime una valutazione personale di chi offende. Nè poteva giovare all'imputato il fatto che l'espressione stessa fosse stata mi fai schifo, anzichè altra analoga fai schifo che, secondo il giudicante, avrebbe avuto invece valenza oggettivamente ingiuriosa. Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 599 c.p. e art. 192 c.p.p., sul rilievo che, erroneamente, il Tribunale aveva rimproverato al giudice di primo grado di non avere, compiutamente, ricostruito i fatti al fine di accertare se ricorressero i presupposti dell'esimente specifica di cui all'art. 599 c.p.. A parte che non era specificato a quale circostanza l'esimente dovesse riferirsi, se alla reciprocità od alla provocazione, il giudice di merito non era tenuto a ricostruire i rapporti pregressi, ma limitarsi a verificare se, nella fattispecie oggetto di giudizio, ricorressero i presupposti per l'applicazione della stessa esimente. Nel caso di specie, l'imputato aveva addirittura negato di aver proferito espressioni ingiuriose, di talchè era recisamente esclusa la possibilità dell'applicazione dell'esimente. Chiedeva, pertanto, che questa Corte Suprema volesse annullare l'impugnata sentenza ai fini civilistici, confermando le statuizioni civili della sentenza di primo grado ovvero rinviare ad altro giudice del Tribunale di Desio. 2. - E', certamente, fondata la prima ragione di censura, sussistendo il denunciato errore di giudizio, sul riflesso che il giudice di secondo grado aveva ritenuto necessario che le parole della persona offesa fossero verificate alla stregua di precisi elementi di riscontro, nella specie insussistenti. L'assunto è, infatti, in contrasto con la consolidata regola di giudizio, secondo cui le dichiarazioni accusatorie della persona offesa possono, anche da sole, sostenere un'affermazione di penale responsabilità, ove sottoposte ad un attento controllo di credibilità oggettiva e soggettiva, non richiedendo necessariamente neppure riscontri esterni, quando non v'è ragione di dubitare della loro attendibilità (cfr., tra le altre, Cass. sez. 3, 27.3.2003, n. 22848, rv. 225232). Il giudice di merito, insomma, è chiamato ad una valutazione di attendibilità in sè dell'assunto accusatorio della persona offesa, nei termini di un apprezzamento squisitamente di merito, che, ove congruamente motivato, si sottrae al controllo di legittimità. Senz'altro fondata è anche la seconda censura, in quanto è affetto da patente illogicità l'assunto che esclude, in concreto, la valenza offensiva dell'espressione mi fai schifo sul rilievo che l'uso della particella pronominale mi, in luogo della mera espressione fai schifo, manifesterebbe l'espressione di un'opinione soggettiva anzichè il dato oggettivo od obiettivizzante proprio dell'altra locuzione. L'incongruenza logica è palese in quanto ogni espressione ingiuriosa reca, in sè, un riflesso congetturale, esprimendo l'opinione o la valutazione di disprezzo di chi la proferisce. D'altro canto, ove fosse plausibile l'ordine di idee sostenuto dal giudice di merito, sarebbe sufficiente anteporre a qualsiasi espressione ingiuriosa, anche la più graffiante o spregevole, la particeli pronominale mi per rendere la condotta illecita esente da sanzione penale. Parte ricorrente, poi, ha motivo di dolersi anche dell'ultima questione, relativa alla sussistenza di eventuale esimente, ai sensi dell'art. 599 c.p., pur prospettata dal giudice di appello in linea gradata, nel senso che, anche ove fosse da ammettere la valenza ingiuriosa della frase, il giudice di primo grado avrebbe dovuto ricostruire i rapporti pregressi tra le parti per valutare l'operatività della previsione normativa. Ed infatti, a parte la mancata specificazione di quale esimente tra quelle previste dalla norma sostanziale avrebbe potuto applicarsi nella fattispecie, si trattava di valutare in concreto, con riferimento al singolo episodio, se sussistessero o meno i presupposti specifici per l'operatività dell'esimente in ipotesi ritenuta applicabile. 3. - Per quanto precede, la sentenza impugnata deve essere annullata agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a mente dell'art. 622 c.p.. P.Q.M. Annulla agli effetti civili la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello per nuovo giudizio. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 aprile 2007. Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2007 “I DIPENDENTI PUBBLICI SONO UNA MASSA DI LAZZARONI E RACCOMANDATI!” E’ INGIURIA Corte di cassazione penale, sezione quinta sentenza 43087 del 21/11/2007. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUINTA SEZIONE PENALE Udienza pubblica del 24/10/2007 SENTENZA n° 43087/07 Composta dagli Ill.mi Sigg.: Dott. CALABRESE RENATO LUIGI - PRESIDENTE Dott. ROTELLA MARIO - CONSIGLIERE Dott. OLDI PAOLO - CONSIGLIERE Dott. SCALERA VITO - CONSIGLIERE Dott. DIDONE ANTONIO - CONSIGLIERE ha pronunciato la seguente SENTENZA su ricorso proposto da (...) Mario nato il 07/03/1939 avverso la sentenza del 26/03/2007 Corte di Appello di Torino Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere ROTELLA MARIO; udite le conclusioni di (?) del (?);Uditp il difensore Avv. DI PAOLA SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il difensore di (…) Mario propone ricorso contro sentenza della Corte di Torino, che ne conferma la condanna ad euro 300 di multa ed al risarcimento del danno alla P.C, inflittagli dal Tribunale di Verbania - Domodossola per ingiuria continuata nei confronti di (…) Dario, incaricato di pubblico servizio presso i Servizi Sociali del Comune di Domodossola, dicendogli l'11.9.00, in presenza di più persone che "avrebbe dovuto guadagnarsi lo stipendio da un punto di vista etico, ma che purtroppo non avveniva, e che i dipendenti pubblici erano una massa di lazzaroni e raccomandati e che se fosse stato un dipendente di un'azienda privata sarebbe stato licenziato, atteso il mancato rendimento sul lavoro e il 2.10.00, in tono sarcastico, non contento delle risposte, "siete delle aquile".La Corte ritiene incontroverso il fatto anche alla luce di parziali ammissioni dell'imputato. Ricostruisce che l’11.09.00 Militello; informato dall'impiegata Bartolomei, che non gli era possibile iscriversi ad un corso di ginnastica programmato dall’Università della terza età, perché i posti erano stati assegnati e l’unica possibilità offerta era quella d'inserirsi in lista d'attesa per rinuncia di altri, chiedeva di parlare con (…) addetto -tra l'altro- alla segreteria dell'Università. Ottenutane la stessa risposta, dava in escandescenze, pronunciando le prime frasi incriminate. Ritornato altra volta, per rappresentare il tenore di manifesti affissi per le strade, che ripetevano l'invito ai cittadini per il corso, e ricevuta la risposta che essi illustravano meramente il programma, diceva l'altra frase. Pur ferme talune anomalie della prassi seguita, nell'assegnare i posti prima che tutti gli iinteressati fossero messi in grado di formulare domande, la Corte rileva che (…) non ne aveva conoscenza. Aveva inoltre esperienza di pubblico amministratore e quale segretario di associazione a tutela del consumatore, e se avesse sospettato le irregolarità avrebbe dovuto rivolgersi ai responsabili del servizio con esposti motivati, non svolgere un attacco personale ed innei confronti del singolo impiegato con mansioni esecutive. Ed esclude la possibilità di riconoscere esimente anche sul piano putativo. II ricorso, dopo dettagliata premessa volta ad illustrare: 1) la non configurabilità delle espressioni ingiuriose, 2) insussistenza dell'elemento soggettiva, 3) applicabilità della scriminante ex art. 599 CO e/o della scriminante speciale di cui all'art. 4 D.lgs. 288/44 (condotta arbitraria ed ingiusta dei dipendenti dell'ufficio) denuncia: (1°) - violazione art. 599/2 e 4 D.lgs. cit. - vizio di motivazione (mancanza illogicità manifesta). Il senso della questione è nella conclusione che, ferme le anomalie nel comportamento dell'organismo, in ogni caso il fatto "non ha costituito attacco diretto verso l'impiegato, ma reazione ad un ulteriore esempio di disservizio della Pubblica amministrazione consistito nei pubblicizzare il corso di attività motoria, ad iscrizioni ormai compiute, e quindi nel creare confusione ed inutili aspettative negli utenti". - Preliminarmente si rileva che le frasi incriminate sono ritenute inconfutatamente offensive, ed in effetti la parte della premessa del ricorso che esclude gli estremi del fatto costitutivo di reato sul piano oggettivo e soggettivo è, oltre che non consentita (fatto), manifestamente infondata, vuoi per la confusione dell'offensivtà con la giustificazione, vuoi per l'esclusione del dolo in ragione dei motivi della condotta, ferma la sua volontà.'unica questione, peraltro la sola formalmente enunciata come motivo di ricorso, è dunque quella della riconoscibilità dell'esimente di cui all'art. 599/2 CP o altra. La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'affermare che il fatto ingiusto che provoca lo stato d'ira non deve necessariamente provenire dalla persona fisica dell'offeso, che può essere legato al provocatore da rapporti tali da farlo apparire come un suo "nuncius" o, comunque, da giustificare, alla stregua de/le comuni regole di esperienza, lo stato d'ira e quindi la reazione offensiva dell'agente (cfr. Cass. 9208/86, Mercando - CED rv. 173111 e 13162/02, Pagliani- 221253). Il punto è se un impiegato esecutivo, che sia preposto a ricevere il reclamo da parte del cittadino in relazione ad un atto o un fatto che dipende da un potere dispositivo altrui, possa rientrare nel concetto di nuncius, inteso mandatario di un rapporto con il provocatotale da consentire il riconoscimento dell'esimente. Sul piano obiettivo l'esimente di cui all'art. 599/2 per l'offesa arrecata al mandatario dell'autore di un fatto ingiusto che provochi stato d'ira è riconoscibile a due condizioni, a) che lo stesso offeso sia inteso volontario rappresentante del provocatore, b) che, consela reazione dell'autore dell'ingiuria non concerna la sua persona per sé stesL'esimente è dunque esclusa nel caso in cui l'offeso sia un mandatario doveroso, preposto per una mansione di ufficio cui non abbia possibilità di sottrarsi. Tanto riconosce implicitamente il ricorso, che propone l'alternativa della scriminante di cui all'art. 4 D.lgs. 288/44. Ma non si avvede che essa appunto presume nella sua accezione l'abuso del pubblico ufficiale, ovvero un'azione che è oltre il confine di quella cui è autorizzato, e perciò non giustificata dal compito affidatogli. Ne segue che sul piano oggettivo non è possibile riconoscere alcuna scriminante, se l'offeso era tenuto ad un comportamento comunicativo per sé non offensivo di una decipure ingiusta altrui, al quale non poteva sottrarsi per obbligo di ufficio. Sul piano putativo, poi, la questione è di puro fatto. E la sentenza ha emotivamente escluso un errore rappresentativo del ricorrente, anche alla luce della sua esperienza quale pubblico amministratore ed esponente di una associazione costituita a difesa del consumatore. La Corte ha per tal via spiegato perché ritiene che Militello non poteva travisare il ruolo del suo interlocutore, (…), quale mero preposto a fornirgli spiegazioni di decisioni di cui non era autore ed in minima parte responsabile, e ad accoglierne i reclami. PQM rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento. Roma 24.10.2007 INGIURIA: REATO DIRE CHI C..ZO SIETE AL PUBBLICO UFFICIALE Cass. pen. Sez. V, (ud. 15-01-2008) 19-02-2008, n. 7656 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: 1) B.R., N. IL (OMISSIS); avverso SENTENZA del 03/11/2006 CORTE APPELLO di POTENZA; visti gli atti, la sentenza ed il ricorso; udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. . Udito il Procuratore Generale in persona del Dr. .., che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. Svolgimento del processo - Motivi della decisione OSSERVA La Corte d'appello di Potenza con sentenza 3.11.2006 confermava la decisione del G.U.P. del tribunale di Potenza in data 4.11.2005 con la quale B.R. era stato condannato per i reati di ingiuria aggravata (capo A della rubrica), violenza a pubblico ufficiale (capo B) e lesioni aggravate in danno dell'agente di polizia C.R. (capo C). Propone ricorso per cassazione l'imputato denunciando violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo A). Deduce - riproponendo analoga doglianza avanzata in appello e disattesa - che l'espressione rivolta agli agenti ("che cazzo volete, chi cazzo siete") aveva significato scurrile ma non era idonea a ledere l'onore ed il decoro della persona cui era stata rivolta. Il motivo è destituito di fondamento ed il ricorso deve esser rigettato con le conseguenze di legge. Deve premettersi che l'accertamento della portata ingiuriosa di una locuzione rientra nei compiti del giudice di merito, risolvendosi, quindi, in un apprezzamento di fatto che, se adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità. Ciò premesso, va osservato che la Corte territoriale ha argomentato che la frase rivolta agli operanti, oltre che triviale, ha un'oggettiva idoneità a ledere l'onore ed il decoro del destinatario, tanto più nel caso in esame, apparendo evidente il proposito di mortificare l'operato degli agenti, apostrofati, nell'adempimento del proprio dovere, con un epiteto che è sinonimo di disprezzo dell'uomo, della sua dignità e del prestigio di pubblico ufficiale. Trattasi di osservazioni appropriate con le quali - in considerazione del contesto nel quale la frase venne pronunciata e della personalità delle persone offese - è stata ragionevolmente affermata la valenza offensiva dell'espressione in oggetto; l'apprezzamento, sorretto da corrette argomentazioni, resta sottratto alle censure del ricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2008. Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2008