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INGIURIA - Infocds.it
INGIURIA: REATO DIRE CHI C..ZO SIETE AL PUBBLICO
UFFICIALE
Cass. pen. Sez. V, (ud. 15-01-2008) 19-02-2008, n. 7656
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) B.R., N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 03/11/2006 CORTE APPELLO di POTENZA;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. .
Udito il Procuratore Generale in persona del Dr. .., che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
OSSERVA
La Corte d'appello di Potenza con sentenza 3.11.2006 confermava la decisione del G.U.P. del
tribunale di Potenza in data 4.11.2005 con la quale B.R. era stato condannato per i reati di ingiuria
aggravata (capo A della rubrica), violenza a pubblico ufficiale (capo B) e lesioni aggravate in danno
dell'agente di polizia C.R. (capo C).
Propone ricorso per cassazione l'imputato denunciando violazione di legge e vizio di motivazione
con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo A).
Deduce - riproponendo analoga doglianza avanzata in appello e disattesa - che l'espressione
rivolta agli agenti ("che cazzo volete, chi cazzo siete") aveva significato scurrile ma non era idonea
a ledere l'onore ed il decoro della persona cui era stata rivolta.
Il motivo è destituito di fondamento ed il ricorso deve esser rigettato con le conseguenze di legge.
Deve premettersi che l'accertamento della portata ingiuriosa di una locuzione rientra nei compiti
del giudice di merito, risolvendosi, quindi, in un apprezzamento di fatto che, se adeguatamente
motivato, si sottrae al sindacato di legittimità.
Ciò premesso, va osservato che la Corte territoriale ha argomentato che la frase rivolta agli
operanti, oltre che triviale, ha un'oggettiva idoneità a ledere l'onore ed il decoro del destinatario,
tanto più nel caso in esame, apparendo evidente il proposito di mortificare l'operato degli agenti,
apostrofati, nell'adempimento del proprio dovere, con un epiteto che è sinonimo di disprezzo
dell'uomo, della sua dignità e del prestigio di pubblico ufficiale.
Trattasi di osservazioni appropriate con le quali - in considerazione del contesto nel quale la frase
venne pronunciata e della personalità delle persone offese - è stata ragionevolmente affermata la
valenza offensiva dell'espressione in oggetto;
l'apprezzamento, sorretto da corrette argomentazioni, resta sottratto alle censure del ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2008
"AVETE ROTTO" È REATO DI INGIURIA.
Cassazione Penale sentenza 35584-2007
Ogni frase si sa deve essere valutata nel suo contesto ed anche un'espressione oramai
entrata a far parte del liguaggio corrente può essere considerata dalla legge come una vera
e propria ingiuria. E così anche l'espressione "avete rotto le palle" secondo la Cassazoine
(Sentenza 35548/2007) benché generalmente tollerata può far scattare una condanna
penale. Tutto dipende dal contesto in cui vien pronunciata e a chi viene rivolta. Il caso
esaminato dalla Corte, vede come protagonista un frate domenicano (direttore di una
comunità per tossicodipendenti) che all'arrivo di una pattuglia dei carabinieri si era rivolto
loro dicendo 'avete rotto le palle'. Il frate è stato subito denunciato e condanato per
ingiuria. Inutile il ricorso in Cassazione. Secondo gli Ermellilni "i giudici di merito hanno
plausibilmente ritenuto che [il frate] intendesse contrastare l'operazione dei carabinieri,
qualificandola come inutilmente vessatoria e quindi attribuendo sostanzialmente ai
militari la responsabilita' di un abuso". La frase "avete rotto le palle" si legge nella sentenza
"puo' essere utilizzata in funzione delle azioni piu' disparate". E non e' nemmeno in
discussione "l'accettabilita' sociale di un tale linguaggio, perche' l'art. 594 c.p. non punisce
la volgarita' in se'. Cio' che rileva e' il significato dell'azione compiuta dal frate con quelle
parole".
“INGNORANTE E DILETTANTE!” E’ REATO
Cassazione – Sezione quinta penale – sentenza 23 gennaio – 27
febbraio 2008, n. 8639
Presidente Fazzioli – Relatore Carrozza Pm Izzo – conforme – Ricorrente F. W.
Fatto
1. Con sentenza del 14 dicembre 2005 il Tribunale di Treviso, in composizione monocratica,
in riforma di quella del giudice di pace della stessa città del 6 aprile precedente, ha
dichiarato la F. W. responsabile del reato di cui all’art. 594, comma 1, c.p. per avere,
mediante l’invio di un fax, offeso l’onore e il decoro di Z. Franca, affermando che era
ignorante e dilettante.
Il giudice dell’appello ha argomentato che non poteva desumersi, come aveva affermato il
giudice di pace, che con il fax in questione l’imputata avesse inteso solo evidenziare la
scarsa professionalità della Z. , in quanto aveva già scritto che le cavalle, che erano state
affidate alla parte lesa per l’allevamento, erano state tenute in cattive condizioni igieniche
ed alimentate in modo insufficiente, descrivendo così in modo oggettivo l’inadeguatezza
della prestazione, mentre aggiungendo le parole “dilettante e ignorante” aveva voluto
dare alla critica una connotazione inequivocabilmente spregiativa.
1.2. Il Tribunale ha, pure, precisato che doveva escludersi che l’imputata non avesse
compreso il significato delle parole usate, perché non risultava che la stessa, di nazionalità
straniera, avesse una limitata o incompleta comprensione della lingua italiana. Anzi
risultava che essa aveva usato correttamente l’italiano sia nel fax che nel corso
dell’interrogatorio davanti al giudice di pace.
1.3. Lo stesso giudice ha escluso l’applicabilità dell’art. 599 c.p. perché non vi era alcuna
prova che le cavalle fossero state tenute male dalla Z. e che l’imputata avesse scritto il fax
nello stato d’ira determinato da tale comportamento.
L’imputata ricorre per cassazione deducendo:
2.1. l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 594, comma 1, c.p. perché questo
prevede espressamente la presenza dell’offeso, per cui, semmai, l’imputata sarebbe stata
responsabile della fattispecie di cui al comma 2 stessa disposizione normativa.
2.2. l’inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 599 c.p. perché il Tribunale non ha
tenuto conto di quanto acquisito durante l’istruttoria, con particolare riguardo alle
dichiarazioni della parte civile, nelle quali si ammetteva che le cavalle avevano contratto
alcune patologie durante la permanenza nell’allevamento della stessa.
2.3. la manifesta e illogicità della motivazione sull’esistenza dell’elemento soggettivo sia
perché frasi ben più gravi di quelle usate da essa imputata sono entrate ormai nel
linguaggio comune, sia perché risulta che il fax è gonfio di errori e sgrammaticature, fa
riferimento a termini impropri, dimostrando la mancanza di non saper scrivere in perfetta
lingua italiana.
Diritto
4.1. Il primo motivo è inammissibile, perché manifestamente infondato.
Il riferimento, nell’imputazione, al comma 1 dell’art. 594 c.p. costituisce un mero errore
materiale, perché in essa si fa riferimento proprio all’offesa mediante l’invio di un fax
come previsto dal comma 2 della stessa disposizione normativa.
4.2. La seconda censura è, poi, inammissibile perché generica.
Anche l’interpretazione dell’art. 606, lett. e c.p.p., nella formulazione operata dall’art. 8
della legge n. 46 del 2006 (“mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della
motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero da
altri atti del processo specificatamente indicati nei motivi di gravame”) che estende il vizio
deducibile in sede di legittimità, anche alla contraddizione ad un atto esterno al testo,
costituito da un atto del processo e, quindi, anche da un atto probatorio (tra le tante Cass.,
sez. VI, 24 maggio 2007, n. 24680, Cass., sez. Vi, 28 settembre 2006 n. 35964, Cass., sez. I, 14
luglio 2006, n. 25117, Cass. sez. V, 24 maggio 2006, 36764) richiede che gli atti del processo
siano specificatamente indicati e rappresentati.
Nella specie manca la specificità, perché si deduce, ai fini dell’esimente di cui all’art. 599
c.p., che la parte civile avrebbe ammesso che le cavalle avevano contratto alcune patologie,
senza specificare quali queste fossero, né da quali atti risultassero. Dette patologie non
sono evidenziate dalla sentenza di primo grado, ove si fa riferimento genericamente alle
condizioni fisiche in cui gli animali erano stati restituiti, senza ulteriore approfondimento.
Non sono stati, inoltre specificatamente indicati e rappresentati gli atti del processo da cui
risulterebbe l’ammissione della parte civile.
4.3. È, infine, manifestamente infondato, e quindi, inammissibile il terzo motivo.
Rettamente il giudice dell’appello ha ritenuto che le parole dilettante e ignorante sono
state usate insieme in senso spregiativo, perché esse comunemente hanno un tale
significato, specialmente quando si vuole evidenziare mancanza di adeguata preparazione
in relazione ad attività professionali, come quella esercitata dalla parte offesa, allevatore di
cavalli, che richiedono sapere tecnico e cultura. Inoltre, l’accertamento del giudice
dell’appello circa la perfetta comprensione della lingua italiana da parte dell’imputata è
immune da vizi logici, avendo lo stesso fatto riferimento alla coerenza delle espressioni
usate, “dilettante ed ignorante”, con il residuo contenuto del fax e all’interrogatorio della
stessa imputata, svoltosi senza necessità di interprete.
Con la memoria si chiede la dichiarazione della prescrizione triennale che sarebbe
maturata successivamente alla sentenza di appello. Però, l’inammissibilità del ricorso per
cassazione, dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, non consente il formarsi di un
valido rapporto di impugnazione e preclude la possibilità di rilevare e dichiarare le cause
di non punibilità di cui all’art. 129 c.p.p. nel caso di prescrizione del reato maturata
successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso (Cass. Sez. Un., 22 novembre 2000,
De Luca – Cass., Sez. Un., 22 marzo 2005, n. 23428). Pertanto, il ricorso va dichiarato
inammissibile e la F. condannata al pagamento delle spese processuali.
Poi, tenuto conto della sentenza 13/6/2000 n. 186 della Corte Costituzionale e del fatto che
non sussistono elementi per ritenere che “la parte abbia proposto ricorso senza versare in
colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, la ricorrente è tenuta anche al
versamento di una somma, in favore della Cassa delle Ammende, determinata, per le
ragioni di inammissibilità, nella misura di Euro 1000,00.
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle
spese processuali e al versamento in favore della Cassa delle Ammende della somma di
euro 1000,00.
MINACCIA: NO SE IL MALE PROSPETTATO NON DIPENDE
DALL’AGENTE
Cassazione penale, sezione v, sentenza n. 35763 del 25/10/2006
(Presidente: B. Foscarini; Relatore: P. Marini)
Il giudice di pace di Genzano, con sentenza 24/3/2005, ha condannato R.A. alla pena di
euro 350,00 di multa quale responsabile di ingiurie e minacce (reati ritenuti in
continuazione) rivolte a C. L. attraverso messaggi sms a mezzo di telefono cellulare; fatti
accertati fra lug. e l’ago. 2003.
L’imputato ricorre per cassazione deducendo: mancanza o manifesta illogicita’ della
motivazione; non solo non risulterebbe accertato il testo dei messaggi sms asseritamente
offensivi, ma la stessa riconducibilita’ della scheda telefonica all’imputato trarrebbe da
dichiarazione interessata dall’effettiva intestataria B.K. e da dichiarazioni testimoniali non
convincenti (M.llo F. in punto di riconoscimento della voce dell’imputato chiamato al
telefono cellulare indicato dalla persona offesa); inosservanza o erronea applicazione della
legge penale quanto al ritenuto reato di minaccia.
Il primo motivo di gravame e’ manifestamente destituito di ogni fondatezza.
L’impugnata sentenza, invero, ha con tutta evidenza esaustivamente esposto gli elementi
di prova a carico dell’imputato, coniugando coerentemente in senso univocamente
accusatorio: l’interruzione, nel lug. 2003, del rapporto sentimentale fra persona offesa ed
imputato; le dichiarazioni accusatorie della persona offesa con riferimento ai messaggi sms
ingiuriosi e intimidatori; la disponibilita’ in capo all’imputato della scheda telefonica
utilizzata nell’occorso, cosi’ come dichiarato dalla B.
Ha poi del tutto logicamente ritenuto attendibile la B., laddove costei ha riferito che fu
l’imputato, con il quale ella aveva intrattenuto in precedenza una relazione sentimentale, a
chiederle di intestarsi la scheda vodafone, trovando tale dichiarazione puntuale conferma
nella circostanza che fu proprio l’imputato a rispondere al corrispondente numero
telefonico digitato dal M.llo F. in sede di prime indagini; e, d’altra parte, poiche’ lo stesso
M.llo F. aveva chiesto al R. di recarsi in caserma per ritirare gli effetti personali e
l’interlocutore non si qualifico’ per persona diversa e non interessata, e’ incensurabile che
il giudice di merito abbia ulteriormente valorizzato il deposto del pubblico ufficiale anche
laddove il teste ha dichiarato sembrargli, all’apparecchio, la voce dell’imputato…
A fronte di tale motivazione, il ricorso di risolve, quanto al primo motivo, nella pretesa di
diverso e piu’ favorevole apprezzamento degli elementi di prova veicolandone una lettura
riduttiva e domestica dell’intera vicenda.
Fondato, viceversa, e’ il secondo motivo di gravame.
La sentenza impugnata, invero, non spende alcuna parola in punto alla valenza
intimidatoria delle frasi contestate nel relativo capo di imputazione (capo B) e deve dirsi,
in effetti, che le stessesse, consistendo nelle frasi: ignorante, farai la fine di tuo padre…,
tanto non vai avanti al tuo baretto…, perderai tutto illusa, non integrano il reato di
minaccia; non puo’ parlarsi di minaccia, infatti, quando il male non sia prospettato come
dipendente dalla volonta’ dell’agente, come e’ nella fattispecie, rappresentando le frasi
niente piu’ che un auspicio o una previsione dell’imputato che l’attivita’ della persona
offesa, (la gestione di un baretto, non sarebbe andata a buon fine (perderai tutto, illusa),
cosi’ come era avvenuto in altra occasione per il di lei genitore (farai la fine di tuo padre).
Consegue che la sentenza deve essere annullata senza rinvio limitatamente al reato di
minaccia contestato al capo b) perche’ il fatto non sussiste; il relativo aumento di pena per
continuazione, pari a euro 13,00 di multa, deve essere eliminato (sicche’ la pena resta
determinata in euro 337,00 di multa); dichiarato inammissibile il ricorso nel resto.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato al capo B (art. 612 c.p.)
perche’ il fatto non sussiste, ed elimina il relativo aumento di pena per continuazione di
euro 13,00 di multa; dichiara inammissibile nel resto il ricorso.
Roma, 20/9/2006.
Depositata in Cancelleria il 25 ottobre 2006
Non puo’ parlarsi di minaccia quando il male non sia prospettato come dipendente
dalla volonta’ dell’agente ma rimesso ad un auspicio o una previsione che l’attivita’
commerciale della persona offesa (nella specie la gestione di un baretto) non sarebbe
andata a buon fine
INGIURIA: “MI FAI SCHIFO” E’ REATO
Cass. pen. Sez. V, (ud. 16-04-2007) 02-08-2007, n. 31451
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PIZZUTI Giuseppe - Presidente
Dott. SCALERA Vito - Consigliere
Dott. SANDRELLI Gian Giacomo - Consigliere
Dott. BRUNO Paolo Antonio - Consigliere
Dott. DIDONE Antonio - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto il 24.11.2005 da:
parte civile ...omissismsmvld.....;
avverso la sentenza pronunciata dal Tribunale di Monza il 10 ottobre 2005;
nel procedimento a carico di:
...omissismsmvld...., nato a (OMISSIS).
Letto il ricorso e la sentenza impugnata.
Sentita la relazione del Consigliere Dr. Paolo Antonio BRUNO. Udite le conclusioni del
Procuratore Generale in sede, in persona del Sostituto Dr. Enrico Delehaye, che ha chiesto
l'annullamento con rinvio in accoglimento del ricorso di parte civile.
Sentito, altresì, l'avv. Luigi Vulcano che, nell'interesse dell'imputato, ha chiesto il rigetto
del ricorso della parte civile.
Svolgimento del processo
...omissismsmvld.... era chiamato a rispondere, innanzi al Giudice di pace di Desio, del
reato di cui all'art. 594 c.p. perchè offendeva l'onore ed il decoro di ...omissismsmvld.....,
pronunciando nei suoi confronti termini quali "mi fai schifo".
Con sentenza del 21 giugno 2004, il giudicante dichiarava l'imputato responsabile del
reato ascrittogli e lo condannava alla pena pecuniaria di Euro 180,00 di multa, oltre al
risarcimento del danno nei confronti della C., costituitasi parte civile.
Pronunciando sul gravame proposto dall'imputato, il Tribunale di Monza, sezione
distaccata di Desio, assolveva lo stesso D. con la formula perchè il fatto non sussiste.
Avverso la pronuncia anzidetta, la parte civile ha proposto ricorso per cassazione,
deducendo le ragioni di censura indicate in parte motiva.
Motivi della decisione
1. - Con il primo motivo d'impugnazione, parte ricorrente denuncia violazione e falsa
applicazione dell'art. 192 c.p.p. nonchè manifesta illogicità della motivazione, sul rilievo
che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto che le dichiarazioni della persona offesa
abbisognassero di elementi di riscontro, per concludere che non era stata raggiunta la
prova che l'imputato avesse realmente proferito le parole di cui al capo d'imputazione.
Nessuna rilevanza avrebbe potuto assumere la circostanza che, per episodi ben più gravi,
il D. non fosse stato condannato, in quanto precedenti gravi situazioni erano state
regolarmente denunciate ed il PM aveva ritenuto di non esercitare l'azione penale essendo
decorsi i termini per proporre querela. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa
applicazione dell'art. 594 c.p. e contraddittorietà di motivazione, sul rilievo che il tribunale,
nel ritenere che il giudizio negativo espresso dalle parole incriminate era stato formulato
nei limiti della continenza intrinseca, aveva indebitamente mutuato criteri di giudizio
relativi all'esercizio del diritto di critica, relativamente al diverso reato di diffamazione.
L'espressione in oggetto aveva, invece, contenuto intrinsecamente offensivo, essendo
irrilevante che esprimesse una mera opinione, in quanto qualsiasi ingiuria esprime una
valutazione personale di chi offende. Nè poteva giovare all'imputato il fatto che
l'espressione stessa fosse stata mi fai schifo, anzichè altra analoga fai schifo che, secondo il
giudicante, avrebbe avuto invece valenza oggettivamente ingiuriosa.
Il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 599 c.p. e art. 192 c.p.p., sul
rilievo che, erroneamente, il Tribunale aveva rimproverato al giudice di primo grado di
non avere, compiutamente, ricostruito i fatti al fine di accertare se ricorressero i
presupposti dell'esimente specifica di cui all'art. 599 c.p.. A parte che non era specificato a
quale circostanza l'esimente dovesse riferirsi, se alla reciprocità od alla provocazione, il
giudice di merito non era tenuto a ricostruire i rapporti pregressi, ma limitarsi a verificare
se, nella fattispecie oggetto di giudizio, ricorressero i presupposti per l'applicazione della
stessa esimente. Nel caso di specie, l'imputato aveva addirittura negato di aver proferito
espressioni ingiuriose, di talchè era recisamente esclusa la possibilità dell'applicazione
dell'esimente.
Chiedeva, pertanto, che questa Corte Suprema volesse annullare l'impugnata sentenza ai
fini civilistici, confermando le statuizioni civili della sentenza di primo grado ovvero
rinviare ad altro giudice del Tribunale di Desio.
2. - E', certamente, fondata la prima ragione di censura, sussistendo il denunciato errore di
giudizio, sul riflesso che il giudice di secondo grado aveva ritenuto necessario che le
parole della persona offesa fossero verificate alla stregua di precisi elementi di riscontro,
nella specie insussistenti. L'assunto è, infatti, in contrasto con la consolidata regola di
giudizio, secondo cui le dichiarazioni accusatorie della persona offesa possono, anche da
sole, sostenere un'affermazione di penale responsabilità, ove sottoposte ad un attento
controllo di credibilità oggettiva e soggettiva, non richiedendo necessariamente neppure
riscontri esterni, quando non v'è ragione di dubitare della loro attendibilità (cfr., tra le altre,
Cass. sez. 3, 27.3.2003, n. 22848, rv. 225232). Il giudice di merito, insomma, è chiamato ad
una valutazione di attendibilità in sè dell'assunto accusatorio della persona offesa, nei
termini di un apprezzamento squisitamente di merito, che, ove congruamente motivato, si
sottrae al controllo di legittimità.
Senz'altro fondata è anche la seconda censura, in quanto è affetto da patente illogicità
l'assunto che esclude, in concreto, la valenza offensiva dell'espressione mi fai schifo sul
rilievo che l'uso della particella pronominale mi, in luogo della mera espressione fai schifo,
manifesterebbe l'espressione di un'opinione soggettiva anzichè il dato oggettivo od
obiettivizzante proprio dell'altra locuzione. L'incongruenza logica è palese in quanto ogni
espressione ingiuriosa reca, in sè, un riflesso congetturale, esprimendo l'opinione o la
valutazione di disprezzo di chi la proferisce.
D'altro canto, ove fosse plausibile l'ordine di idee sostenuto dal giudice di merito, sarebbe
sufficiente anteporre a qualsiasi espressione ingiuriosa, anche la più graffiante o
spregevole, la particeli pronominale mi per rendere la condotta illecita esente da sanzione
penale.
Parte ricorrente, poi, ha motivo di dolersi anche dell'ultima questione, relativa alla
sussistenza di eventuale esimente, ai sensi dell'art. 599 c.p., pur prospettata dal giudice di
appello in linea gradata, nel senso che, anche ove fosse da ammettere la valenza ingiuriosa
della frase, il giudice di primo grado avrebbe dovuto ricostruire i rapporti pregressi tra le
parti per valutare l'operatività della previsione normativa. Ed infatti, a parte la mancata
specificazione di quale esimente tra quelle previste dalla norma sostanziale avrebbe potuto
applicarsi nella fattispecie, si trattava di valutare in concreto, con riferimento al singolo
episodio, se sussistessero o meno i presupposti specifici per l'operatività dell'esimente in
ipotesi ritenuta applicabile.
3. - Per quanto precede, la sentenza impugnata deve essere annullata agli effetti civili, con
rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, a mente dell'art. 622 c.p..
P.Q.M.
Annulla agli effetti civili la sentenza impugnata con rinvio al giudice civile competente per
valore in grado di appello per nuovo giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 aprile 2007.
Depositato in Cancelleria il 2 agosto 2007
“I DIPENDENTI PUBBLICI SONO UNA MASSA DI LAZZARONI
E RACCOMANDATI!” E’ INGIURIA
Corte di cassazione penale, sezione quinta sentenza 43087 del
21/11/2007.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUINTA SEZIONE PENALE
Udienza pubblica del 24/10/2007
SENTENZA n° 43087/07
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. CALABRESE RENATO LUIGI - PRESIDENTE
Dott. ROTELLA MARIO - CONSIGLIERE
Dott. OLDI PAOLO - CONSIGLIERE
Dott. SCALERA VITO - CONSIGLIERE
Dott. DIDONE ANTONIO - CONSIGLIERE
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
su ricorso proposto da (...) Mario nato il 07/03/1939
avverso la sentenza del 26/03/2007
Corte di Appello di Torino
Visti gli atti, la sentenza ed il ricorso
udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere ROTELLA MARIO;
udite le conclusioni di (?) del (?);Uditp il difensore Avv. DI PAOLA
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il difensore di (…) Mario propone ricorso contro sentenza della Corte di Torino, che ne
conferma la condanna ad euro 300 di multa ed al risarcimento del danno alla P.C,
inflittagli dal Tribunale di Verbania - Domodossola per ingiuria continuata nei confronti di
(…) Dario, incaricato di pubblico servizio presso i Servizi Sociali del Comune di
Domodossola, dicendogli l'11.9.00, in presenza di più persone che "avrebbe dovuto
guadagnarsi lo stipendio da un punto di vista etico, ma che purtroppo non avveniva, e che
i dipendenti pubblici erano una massa di lazzaroni e raccomandati e che se fosse stato un
dipendente di un'azienda privata sarebbe stato licenziato, atteso il mancato rendimento
sul lavoro e il 2.10.00, in tono sarcastico, non contento delle risposte, "siete delle aquile".La
Corte ritiene incontroverso il fatto anche alla luce di parziali ammissioni dell'imputato.
Ricostruisce che l’11.09.00 Militello; informato dall'impiegata Bartolomei, che non gli era
possibile iscriversi ad un corso di ginnastica programmato dall’Università della terza età,
perché i posti erano stati assegnati e l’unica possibilità offerta era quella d'inserirsi in lista
d'attesa per rinuncia di altri, chiedeva di parlare con (…) addetto -tra l'altro- alla segreteria
dell'Università. Ottenutane la stessa risposta, dava in escandescenze, pronunciando le
prime frasi incriminate. Ritornato altra volta, per rappresentare il tenore di manifesti
affissi per le strade, che ripetevano l'invito ai cittadini per il corso, e ricevuta la risposta
che essi illustravano meramente il programma, diceva l'altra frase.
Pur ferme talune anomalie della prassi seguita, nell'assegnare i posti prima che tutti gli
iinteressati fossero messi in grado di formulare domande, la Corte rileva che (…) non ne
aveva conoscenza.
Aveva inoltre esperienza di pubblico amministratore e quale segretario di associazione a
tutela del consumatore, e se avesse sospettato le irregolarità avrebbe dovuto rivolgersi ai
responsabili del servizio con esposti motivati, non svolgere un attacco personale ed innei
confronti del singolo impiegato con mansioni esecutive. Ed esclude la possibilità di
riconoscere esimente anche sul piano putativo.
II ricorso, dopo dettagliata premessa volta ad illustrare: 1) la non configurabilità delle
espressioni ingiuriose, 2) insussistenza dell'elemento soggettiva, 3) applicabilità della
scriminante ex art. 599 CO e/o della scriminante speciale di cui all'art. 4 D.lgs. 288/44
(condotta arbitraria ed ingiusta dei dipendenti dell'ufficio) denuncia: (1°) - violazione art.
599/2 e 4 D.lgs. cit. - vizio di motivazione (mancanza illogicità manifesta). Il senso della
questione è nella conclusione che, ferme le anomalie nel comportamento dell'organismo,
in ogni caso il fatto "non ha costituito attacco diretto verso l'impiegato, ma reazione ad un
ulteriore esempio di disservizio della Pubblica amministrazione consistito nei
pubblicizzare il corso di attività motoria, ad iscrizioni ormai compiute, e quindi nel creare
confusione ed inutili aspettative negli utenti".
- Preliminarmente si rileva che le frasi incriminate sono ritenute inconfutatamente
offensive, ed in effetti la parte della premessa del ricorso che esclude gli estremi del fatto
costitutivo di reato sul piano oggettivo e soggettivo è, oltre che non consentita (fatto),
manifestamente infondata, vuoi per la confusione dell'offensivtà con la giustificazione,
vuoi per l'esclusione del dolo in ragione dei motivi della condotta, ferma la sua
volontà.'unica questione, peraltro la sola formalmente enunciata come motivo di ricorso, è
dunque quella della riconoscibilità dell'esimente di cui all'art. 599/2 CP o altra.
La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'affermare che il fatto ingiusto che
provoca lo stato d'ira non deve necessariamente provenire dalla persona fisica dell'offeso,
che può essere legato al provocatore da rapporti tali da farlo apparire come un suo
"nuncius" o, comunque, da giustificare, alla stregua de/le comuni regole di esperienza, lo
stato d'ira e quindi la reazione offensiva dell'agente (cfr. Cass. 9208/86, Mercando - CED
rv. 173111 e 13162/02, Pagliani- 221253).
Il punto è se un impiegato esecutivo, che sia preposto a ricevere il reclamo da parte del
cittadino in relazione ad un atto o un fatto che dipende da un potere dispositivo altrui,
possa rientrare nel concetto di nuncius, inteso mandatario di un rapporto con il
provocatotale da consentire il riconoscimento dell'esimente.
Sul piano obiettivo l'esimente di cui all'art. 599/2 per l'offesa arrecata al mandatario
dell'autore di un fatto ingiusto che provochi stato d'ira è riconoscibile a due condizioni, a)
che lo stesso offeso sia inteso volontario rappresentante del provocatore, b) che, consela
reazione dell'autore dell'ingiuria non concerna la sua persona per sé stesL'esimente è
dunque esclusa nel caso in cui l'offeso sia un mandatario doveroso, preposto per una
mansione di ufficio cui non abbia possibilità di sottrarsi.
Tanto riconosce implicitamente il ricorso, che propone l'alternativa della scriminante di cui
all'art. 4 D.lgs. 288/44. Ma non si avvede che essa appunto presume nella sua accezione
l'abuso del pubblico ufficiale, ovvero un'azione che è oltre il confine di quella cui è
autorizzato, e perciò non giustificata dal compito affidatogli.
Ne segue che sul piano oggettivo non è possibile riconoscere alcuna scriminante, se
l'offeso era tenuto ad un comportamento comunicativo per sé non offensivo di una
decipure ingiusta altrui, al quale non poteva sottrarsi per obbligo di ufficio.
Sul piano putativo, poi, la questione è di puro fatto. E la sentenza ha emotivamente
escluso un errore rappresentativo del ricorrente, anche alla luce della sua esperienza quale
pubblico amministratore ed esponente di una associazione costituita a difesa del
consumatore. La Corte ha per tal via spiegato perché ritiene che Militello non poteva
travisare il ruolo del suo interlocutore, (…), quale mero preposto a fornirgli spiegazioni di
decisioni di cui non era autore ed in minima parte responsabile, e ad accoglierne i reclami.
PQM
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
Roma 24.10.2007
INGIURIA: REATO DIRE CHI C..ZO SIETE AL PUBBLICO
UFFICIALE
Cass. pen. Sez. V, (ud. 15-01-2008) 19-02-2008, n. 7656
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
1) B.R., N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 03/11/2006 CORTE APPELLO di POTENZA;
visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. .
Udito il Procuratore Generale in persona del Dr. .., che ha concluso per l'inammissibilità
del ricorso.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
OSSERVA
La Corte d'appello di Potenza con sentenza 3.11.2006 confermava la decisione del G.U.P.
del tribunale di Potenza in data 4.11.2005 con la quale B.R. era stato condannato per i reati
di ingiuria aggravata (capo A della rubrica), violenza a pubblico ufficiale (capo B) e lesioni
aggravate in danno dell'agente di polizia C.R. (capo C).
Propone ricorso per cassazione l'imputato denunciando violazione di legge e vizio di
motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo A).
Deduce - riproponendo analoga doglianza avanzata in appello e disattesa - che
l'espressione rivolta agli agenti ("che cazzo volete, chi cazzo siete") aveva significato
scurrile ma non era idonea a ledere l'onore ed il decoro della persona cui era stata rivolta.
Il motivo è destituito di fondamento ed il ricorso deve esser rigettato con le conseguenze
di legge.
Deve premettersi che l'accertamento della portata ingiuriosa di una locuzione rientra nei
compiti del giudice di merito, risolvendosi, quindi, in un apprezzamento di fatto che, se
adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità.
Ciò premesso, va osservato che la Corte territoriale ha argomentato che la frase rivolta agli
operanti, oltre che triviale, ha un'oggettiva idoneità a ledere l'onore ed il decoro del
destinatario, tanto più nel caso in esame, apparendo evidente il proposito di mortificare
l'operato degli agenti, apostrofati, nell'adempimento del proprio dovere, con un epiteto
che è sinonimo di disprezzo dell'uomo, della sua dignità e del prestigio di pubblico
ufficiale.
Trattasi di osservazioni appropriate con le quali - in considerazione del contesto nel quale
la frase venne pronunciata e della personalità delle persone offese - è stata
ragionevolmente affermata la valenza offensiva dell'espressione in oggetto;
l'apprezzamento, sorretto da corrette argomentazioni, resta sottratto alle censure del
ricorrente.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 15 gennaio 2008.
Depositato in Cancelleria il 19 febbraio 2008
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