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Dire l`esperienza estetica - Università degli Studi di Palermo

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Dire l`esperienza estetica - Università degli Studi di Palermo
Aesthetica Preprint
Dire l’esperienza estetica
a cura di Rita Messori
Centro Internazionale Studi di Estetica
Aesthetica Preprint©
è il periodico del Centro Internazionale Studi di Estetica. Affianca la collana Aesthetica©
(edita da Aesthetica Edizioni, commercializzata in libreria) e presenta pre-pubblicazioni,
inediti in lingua italiana, saggi, bi­blio­grafie e, più in generale, documenti di lavoro.
Viene inviato agli studiosi im­pegnati nelle problematiche estetiche, ai repertori bi­blio­
grafici, alle maggiori biblioteche e istituzioni di cultura umanistica italiane e straniere.
Il Centro Internazionale Studi di Estetica
è un Istituto di Alta Cultura costituito nel 1980 da un gruppo di studiosi di Estetica. Con
d.p.r. del 7-1-1990 è stato riconosciuto Ente Morale. Attivo nei campi della ricerca scientifica e della promozione culturale, organizza Convegni, Seminari, Giornate di Studio,
Incontri, Tavole rotonde, Conferenze; cura la collana editoriale Aesthetica© e pubblica
il periodico Aesthetica Preprint© con i suoi Supplementa. Ha sede presso l'Università degli Studi di Palermo ed è presieduto fin dalla sua fondazione da Luigi Russo.
Aesthetica Preprint
80
Agosto 2007
Centro Internazionale Studi di Estetica
Il presente volume viene pubblicato col contributo del Dipartimento di Filosofia
dell’Università degli Studi di Parma.
Dire l’esperienza estetica
a cura di Rita Messori
Indice
Presentazione
di Rita Messori
7
Il rapporto fra poetica e retorica
di Emilio Mattioli
11
Dire l’esperienza: alle origini della letteratura
di Giovanni Lombardo
17
Rappresentazione pittorica e rappresentazione poetica
in Tommaso d’Aquino
di Fabrizio Amerini
27
De la poésie comme réponse à la nuit
L’union du dire et du voir
di Baldine Saint Girons
39
«Ricostruire l’esperienza stessa della genialità»
Il problema del genio in Joseph Louis Segond
di Fabio Rossi
51
Descrivere l’arte, descrivere il mondo: Diderot promeneur
di Rita Messori
63
Stile e stili
di Elio Franzini
75
“Ästhetische Arbeit”: l’estetica atmosferica di Gernot Böhme
e l’attualità della retorica
di Salvatore Tedesco
83
Presentazione
di Rita Messori
Da più di un decennio a questa parte, si è assistito a una vera e
propria svolta in ambito estetico: la messa in discussione della identificazione estetica-filosofia dell’arte e la riproposizione dell’esperienza
estetica quale questione centrale della disciplina. La ricerca, sia teorica
sia storiografica, si è dunque maggiormente concentrata sul significato
e sul ruolo che la sensibilità e l’affettività, nelle loro varie e mutevoli
declinazioni, assumono in un’ottica generale di ricerca e formazione
del senso.
Questa svolta, in concomitanza con alcuni fattori che hanno avuto
in ambito estetico una significativa ripercussione – perdita di spinta
propulsiva dell’ermeneutica, ma anche della cosiddetta rivalutazione
della retorica, “argomentativa” o “figurale” – ha visto un affievolirsi
dell’interesse nei confronti di questioni legate al linguaggio, che, come
è noto, ha costituito uno dei nodi problematici su cui la filosofia del
Novecento si è dibattuta.
A tal punto pare necessario un ripensamento del significato del linguaggio in ambito estetico a partire dal rapporto che si viene a instaurare tra linguaggio ed esperienza estetica: come dire l’esperienza estetica?
In che modo rendere testimonianza del reale esperito? In definitiva:
quale relazione tra sentimento del mondo e articolazione del senso?
È nel tentativo di dare una risposta a tali interrogativi che si è svolto
a Parma nel novembre del 2006 il convegno Dire l’esperienza. Nuove
prospettive tra estetica e retorica di cui il presente volumetto raccoglie gli
atti. Mi auguro che il vivace confronto iniziato durante lo svolgimento
dei lavori possa proficuamente proseguire.
A unire i vari contributi è la consapevolezza che sia da un punto
di vista teorico, sia da un punto di vista storiografico, determinante
appare l’apporto della tradizione retorico-poetica, e non soltanto perché costituisce un percorso genetico della nascita dell’estetica: per secoli ha presentato modalità di espressione la cui pregnanza richiede
una adeguata riflessione in grado di esplicitarne il significato filosofico.
Come ribadisce Emilio Matttioli, ripensare l’unità di sentire e parlare
è possibile solo a partire da una ritrovata coappartenenza di poetica e
retorica. Studi recenti sulla retorica dell’antica Grecia mostrano il ruolo fondamentale giocato dal genere epidittico derivato dalla tradizione
poetica; se la poesia diviene un atto pubblico attento al sentire comune,
il discorso retorico esprime i sentimenti e le passioni del soggetto parlante. Nella stessa direzione si muove quella teoria del linguaggio che,
rifacendosi alla poetica di Meschonnic, vede nel duplice ripiegamento
autistico di retorica e poetica un segnale evidente della separazione tra
linguaggio e vita.
Inserendosi in un dibattito storiografico attualissimo, l’intervento di
Giovanni Lombardo mostra come nell’epos arcaico le tecniche linguistiche della narrazione, ovvero le forme verbali che il logos assume per
“dire l’esperienza”, esprimano fondamentalmente due modalità diverse
di rapportarsi al reale. O, mediante l’uso dell’imperfetto, noi ci muoviamo verso i fatti, consapevoli del continuum temporale a cui essi appartengono, o, mediante l’uso dell’aoristo, i fatti si avvicinano a noi in
una indefinita momentaneità. Si tratta di due modi della visualizzazione
del linguaggio poetico che vanno a costituire due schemi interpretativi
dell’esperienza dell’arte, sia a livello produttivo sia a livello fruitivo.
Se vi è una storia del “dire l’esperienza” certamente il Medioevo ne
rappresenta un momento ancora poco preso in esame dagli estetologi.
Mentre ad esempio alcuni tratti dell’estetica tommasiana concernenti
la poetica e la retorica sono stati studiati, altri rimangono in ombra.
Secondo Fabrizio Amerini molto lavoro rimane da fare sulle teorie
della rappresentazione applicate al campo pittorico e poetico, e sulle
teorie dei colori rispetto alla percettibilità sensoriale e alla conseguente
relazione del colore col sentimento del bello. Ciò potrebbe gettare una
nuova luce sul rapporto tra poesia e pittura.
Ed è sulla poesia come risposta all’esperienza della vita nella sua
fuggevolezza che si concentra il saggio di Baldine Saint-Girons. Resistendo al rischio di sacralizzare la lettera e di far dimenticare il reale,
la poesia moderna afferma il qui e ora del miracolo evanescente della
presenza. Ancora una volta la tradizione retorica, con Longino, ci offre
un paradigma interpretativo: le immagini evocate divengono apparizioni. Le phantasiai poetiche rappresentano le cose nel momento del loro
nascere, del loro emergere dal buio della notte che diviene qui figura
dell’altro. La poesia è continua sperimentazione, modo di pensare in
atto, le cui tecniche precise rendono conto del continuo movimento
tra ciò che si rivela e ciò che si nasconde; quanto a noi si nega rimane
sempre al di là di ogni nostra esperienza e di ogni nostro dire, pur
costituendone la condizione di possibilità.
La produzione artistica, nel suo essere creazione spirituale e inventio
di nuove modalità espressive, è frutto di una personalità geniale. Sulla
teoria del genio di Joseph Louis Segond, pensatore della prima metà
del Novecento, quasi sconosciuto in Italia e forse presto dimenticato
in Francia, si concentra il contributo di Fabio Rossi. Poiché fondamen
talmente naturale e corporea, quella del genio è “potenza di sentire” al
di là di ogni riduzione intelletualistica o mistico-sentimentale. Potenza
che, attualizzandosi, si concreta in una tecnica, e nell’operare si rende
immanente.
E di genio della critica si deve senza alcun dubbio parlare a proposito di Diderot salonnier che nella Promenade Vernet conduce il rapporto
tra parola e immagine sino all’apice della sperimentazione. Facendo
riferimento ai visual studies, in cui il tema dell’ekphrasis gioca un ruolo di primo piano, nel mio intervento ho tentato di mostrare come il
racconto-descrizione dell’attraversamento fittizio dei paesaggi di Vernet
conduca a una messa in questione dell’equivalenza evidentia-enargeia.
Dire l’esperienza del manifestarsi delle cose “come se” qui e ora venissero alla presenza significa coglierle nel passaggio dalla potenza all’atto.
La subiectio sub oculis è dunque a un tempo visualizzazione (enargeia)
e attualizzazione (energeia).
Utilizzando un termine goetheano, Husserl chiama “stile” la capacità di cogliere quel flusso “oscillante” dell’apparire che è il mondo
della vita; capacità che si traduce in rappresentazioni dotate di senso
e tendenti all’unità. Come dimostra Elio Franzini, in quanto fenomeno
originario lo stile diviene la matrice di un senso espressivo, il nucleo di
possibilità che dà luogo alla varietà degli stili. In tal modo la pluralità
delle forme non è mera frammentazione ma morfogenesi che, come
voleva Goethe, ha nel simbolo, cioè nel “legame” tra le parti, nella
ricerca della trama del mondo che tiene provvisoriamente insieme le
cose che via via ci si presentano, il proprio fondamento di unità.
Il “sentore della presenza” diviene l’evento percettivo fondamentale
su cui si costruisce la nuova estetica (Aisthetic), in quanto teoria generale della percezione, di Gernot Böhme. Come mette in evidenza il saggio
di Salvatore Tedesco, esplicito è il richiamo all’operazione baumgarteniana e non soltanto riguardo ai contenuti. Se l’interesse conoscitivo si
orienta sulla manifestatività occorre concentrarsi su fenomeni intermedi,
come l’atmosfera, che si situano al di qua della separazione di polo soggettivo e polo oggettivo. È soltanto a partire dai “problemi estetici” che
diviene possibile una terminologia adeguata e un impianto concettuale.
In tal senso la retorica può fornire un modello di argomentazione della
teoria estetica nella misura in cui avviene l’articolazione del nesso delle
percezioni sensibili.
Il rapporto fra poetica e retorica
di Emilio Mattioli
Il rapporto fra poetica e retorica ha subito negli ultimi tempi un
riassetto e una modificazione. Impossibile tracciarne il quadro completo, mi limiterò ad alcuni momenti problematici e, particolarmente,
a due periodi: l’antichità e la contemporaneità. In realtà il problema
storiografico si intreccia a quello teorico. In primo luogo va notato che
la separazione fra poetica e retorica ha effetti rovinosi, è proprio nel
rapporto fra le due discipline che se ne scoprono le radici profonde
e le ragioni. È noto come la rinascita novecentesca della retorica, che
pure è un fenomeno estremamente importante, sia avvenuta in maniera
autonoma ed anzi il rapporto fra le due discipline sia stato considerato
un’indebita confusione. Nella cultura italiana si è sentito presto il bisogno di ripensare il rapporto e di ricostituirlo, probabilmente anche
perché la scuola neofenomenologica italiana aveva creato con il suo
lavoro sulle poetiche il terreno adatto anche ad un approccio vitale
alla retorica. Aveva scritto Luciano Anceschi, il maggior studioso di
poetica del secolo scorso, nel 1957: «Quanto alla Retorica, poi, sembra davvero che non giovi indugiare nella nozione che ne ebbero e
contro la quale polemicamente si posero, condannandola, i romantici
e i realisti del secolo xix; fu questa una interpretazione ovviamente
unilaterale per motivi strumentali; invece, c’è da pensare che la Retorica sia una disposizione storicamente variabile che, volta a volta, vuole
rilevare e significare in leggi, in norme, in avvertimenti le ragioni del
rinnovamento letterario e artistico dei diversi tempi, movimenti» 1. E
non è evidentemente un caso che Renato Barilli, scolaro di Anceschi,
abbia pubblicato un libro davvero originale come Poetica e Retorica 2,
in cui l’unità fra poetica e retorica era vista come unità fra sentire e
pensare, come antidoto alla divisione delle due culture. Ma direi che
su questa strada si sono fatti degli ulteriori passi avanti. Per questi
recenti svolgimenti prenderò come testo di riferimento Jeffrey Walker,
Rhetoric and Poetics in Antiquity 3.
Walker smantella l’opinione vastamente diffusa, cui già accennavamo, secondo la quale poetica e retorica sono due discipline incompatibili e sostanzialmente differenti che l’antichità ha indebitamente
confuse e cerca di dimostrare che è sbagliata l’idea secondo la quale
11
la retorica è sorta come un’arte di pratica oratoria civile nelle corti di
giustizia e nelle assemblee dell’antica Grecia, mentre la retorica epidittica, poetica o letteraria, sarebbe un’arte, puramente formale di secondaria importanza. Altrettanto sbagliata, secondo Walker, l’idea secondo
la quale il passaggio dall’oratoria civile a quella epidittica segna una
decadenza. La separazione fra la retorica intesa come dottrina delle
figure e la retorica dell’argomentazione e della persuasione si ritrova,
con conseguenze negative, nella teoria letteraria moderna. La revisione che Walker fa della storia della retorica nell’antichità comporta
un’idea della retorica intesa come un’arte di argomentazione/persuasione epidittica che deriva originariamente dalla tradizione poetica e
che si estende ai discorsi pratici della vita pubblica e privata. Walker
riconnette questa impostazione alla riabilitazione dei sofisti compiuta
negli anni novanta (in Italia il grande lavoro di Untersteiner sui sofisti
è cominciato molto prima) e alla revisione della nozione convenzionale del discorso epidittico inteso come mero ornamento e limitato alla
elencazione rituale delle credenze e dei valori tradizionali.
Inoltre questo discorso si fonda su di un esame dell’antica poesia,
principalmente la lirica greca arcaica, intesa e praticata come un’argomentazione epidittica che si rivolge ad un uditorio. Walker costruisce
quella che può essere chiamata una storia sofistica della retorica che
include poesia e poetica come parti centrali del dominio retorico. Secondo lo studioso la poetica grammaticalizzata della tarda antichità e
del medioevo ha reso più difficile cogliere l’idea di retorica poetica
che la lirica arcaica incorpora.
È lecito chiedersi quale fondamento filologico abbia questa impostazione così profondamente innovativa del rapporto fra poetica e retorica e della storia della retorica stessa: l’argomentazione è ricchissima
e non riassumibile, evidentemente, ma il presupposto primo e fondante
sta nell’abbandono dell’idea anacronistica che la poesia antica e la
lirica in particolare sia espressione di sentimenti soggettivi ed escluda
la dimensione argomentativa. Particolarmente significativa in questo
senso l’elaborazione del concetto di entimema lirico, inteso come l’argomentare specifico della poesia. Da sottolineare ancora che il legame
fra poesia e quindi poetica e retorica esiste già prima che la retorica
assuma la sua denominazione tecnica 4, a partire da Esiodo che nella
Teogonia (vv. 81-104), ne dà, secondo Walker, la prima indicazione,
parlando dell’eloquenza del re e di quella dell’aedo 5. Il termine rhetorikê, per altro non risulta univoco, «come denominazione equivoca o
sineddoche per l’arte del logos in senso ampio o generale comprende
implicitamente nel suo dominio tutte le forme del logos, incluso il logos
poetico e il pensiero interno come anche tutte le varietà di “prosa”.
Così l’eloquenza persuasiva della “poesia” è contemporaneamente un
sottoinsieme dell’arte generale della “retorica” e il suo antenato. Inoltre in quanto quella epidittica è la forma “primaria” e centrale della
12
poesia, e in quanto la poesia è a sua volta la forma originaria e finale
della forma epidittica (o come tale viene intesa), la poesia è anche la
forma originaria e finale della retorica» 6.
Walker sottolinea come le implicazioni di questa situazione si esplicitino nella tarda antichità e si capisce anche così come Elio Aristide
possa affermare che la miglior poesia sia quella che si avvicina di più
alla retorica 7.
Walker non cita il poderoso lavoro di Laurent Pernot, La rhétorique de l’éloge dans le monde gréco-romain 8, ma è necessario tenerne
conto, perché dà due apporti fondamentali che per altro si legano alle
posizioni di Walker, non le contraddicono: interpreta in modo radicalmente innovativo il genere epidittico, mostra il legame profondo fra
poesia e oratoria e quindi fra poetica e retorica. Farò due citazioni da
questo testo che non si può in alcun modo ignorare, se si vuol parlare
del genere epidittico con consapevolezza:
«L’analyse traditionelle de l’éloquence épidictique ne doit donc pas
être totalement rejetée, puisqu’elle fait apparaître deux aspects importants, la dimension esthétique et la dimension rituelle. Mais cette
analyse reste insuffisante, parce qu’elle ne tient pas compte du contenu des discours. Il est évident que l’art de l’enkômion ne peut être
appréhendé indépendamment de tout message, et qu’un discours ne
se réduit pas à l’accomplissement d’un cérémonial. Contrairement à
la musique, le discours épidictique fait appel au sens. Contrairement
au rite, il n’est pas entièrement codifié et déterminé à l’avance. Contrairement à l’énoncé performatif, il ne se réduit pas à une formule
stéréotypée; l’orateur ne se contente pas de dire “Je te loue”, mais il
ajoute “parce que…”, et dans les considérants de l’éloge, s’engouffrent
la signification et la persuasion. Il faut donc rompre avec la tradition
du dédain. Pour comprendre l’éloquence épidictique antique, il faut
refuser l’explication paresseuse de l’art pour l’art et identifier les buts
et le effets des discours, plus clairement que les anciens n’ont su le
faire» 9. L’analisi dei valori veicolati dal discorso epidittico ne mostra
la ricchezza di contenuti e Pernot può ben a ragione affermare che
«la fonction épidictique est un phénomène anthropologique qui se retrouve – avec d’importantes variations, naturellement – dans beaucoup
de sociétés humaines» 10.
L’altra citazione essenziale per il mio discorso è questa: �����������
«Il est impossible d’étudier la rhétorique épidictique sans relever, à chaque étape, des rapprochements avec la tradition poétique, en particulier avec
la tradition de la poésie encomiastique. L’histoire du genre montre que
les orateurs ont progressivement pris en charge des formes héritées
des poètes. La tekhne trahit l’importance des précédents poétiques
dans le domaine de la typologie, avec la célébration plurielle et l’expression des sentiments et des passions, et dans le domaine du style,
avec l’esthétique de la douceur, l’asianisme, les tropes et les figures, les
13
rythmes. Ce n’est pas tout, la tradition poétique faisant encore sentir
son poids dans la terminologie de l’éloge, dans certains topoi, dans les
procédés de composition, parfois dans les conditions de prononciation
et dans les titres. En ce qui concerne l’exigence morale, Pindare déjà
revendique la vérité de ses éloges. La mission de porte-parole a été
assumée par des poètes; enfin, on vient de relever le thème, poétique
par excellence de l’inspiration religieuse. Le bilan de ces rapprochement [...] s’avère donc extrêmement riche. Il établit, au-delà de toute
contestation, l’existence d’une continuité entre la tradition poétique et
l’éloquence épidictique» 11.
Si può a questo punto ritornare a Walker e precisamente alla interpretazione che egli dà della I Olimpica di Pindaro. Bloom, che ritiene
che la I Olimpica celebri il poeta e Pegaso e non Ierone e Ferenico,
decontestualizza l’ode e ignora che cosa sia la poesia epidittica, dandone una lettura romantica falsificante. L’epinicio non prescinde da
vincitore e pubblico, poggia sui valori della società cui appartiene;
solo in questa prospettiva la poesia diventa comprensibile. Ecco un
esempio fra molti altri: è nel rapporto fra poetica e retorica che si
possono cogliere i valori della letteratura antica.
Ma sembra che ormai questa svolta sia in atto; Eugenio Amato lo
testiomonia efficacemente in un resoconto 12 di un volume di Enrico
Rebuffat dedicato alle Tecniche di composizione poetica negli Halieutica
di Oppiano 13; il punto di partenza di Eugenio Amato è proprio il superamento della separazione che compie Walker fra retorica e poesia.
Se, dunque, per l’antichità la revisione storiografica è ormai operante e i due frutti più vistosi sono il riallineamento di poetica e retorica
e la valorizzazione del genere epidittico, resta da esaminare come si
ponga il rapporto fra poetica e retorica nel dibattito attuale.
Farò riferimento, per questo aspetto, ad Arnaud Bernadet, La rhétorique en procès. Un point de vue critique: la poétique de Henri Meschonnic. Approches et perspectives 14; scrive l’autore: «La poetica è una delle
maggiori proeccupazioni della retorica oggi» 15. Occorre chiedersi come
mai. La rinascita della retorica che è un fenomeno vistoso del secolo
appena trascorso, è avvenuta, per lo più, senza rapportarsi alla poetica e
questo ha comportato delle conseguenze gravi, la più vistosa delle quali
è stata l’esasperazione formalistica evidente nell’idea che la retorica fosse
soltanto la dottrina delle figure da riprendere dalla tradizione o da riscrivere in termini semiotici come, per esempio, ha fatto il gruppo μ nella
Retorica generale. Le figure della comunicazione 16. Certamente c’è stato
anche un ricupero diverso che ha privilegiato l’argomentazione, quello
di Perelman, che ha dato luogo ad una nuova retorica fondata, come è
noto, su basi logiche. Ma, mentre da una parte la crisi del formalismo
ha inevitabilmente travolto la retorica delle figure, dall’altra la nuova
retorica, la retorica dell’argomentazione, non poteva prestarsi ad un rapporto esauriente con la poetica. Vale la pena allora osservare, seguendo
14
Bernadet, come uno studioso della poetica del rango di Meschonnic sia
giunto a porsi il problema della retorica. Meschonnic, per cui la poetica
è lo studio del valore di un’opera, ritrova la retorica, liberando la poetica
dall’ascendenza strutturalista. Secondo Bernadet il rinnovamento della
retorica non deve aver luogo senza tener conto delle obiezioni critiche
che la poetica le muove. Un primo punto è il rifiuto della teoria dello
scarto, la separazione fra lingua poetica e lingua quotidiana è un non
senso che comporta la separazione del linguaggio dalla vita. Ma non è
per questa via che si afferma la specificità di un testo.
«Il taglio fra retorica e poetica non può che favorire un duplice
ripiegamento autistico che ha per conseguenza il più spesso una formalizzazione tecnica e descrittiva dell’oggetto letterario senza teoria del
soggetto, della società, senza etica. [...] È l’annessione della poetica da
parte della linguistica che ne fa una retorica neo-classica delle figure.
Ricollegando la retorica alla poetica, questa identificazione non è più
possibile al contrario, e permette di delimitare il campo specifico di
applicazione delle due discipline» 17. «Poiché la retorica è “una delle
strategie del segno, uno degli effetti del paradigma linguistico” 18, un
pensiero del discontinuo, c’è la possibilità effettivamente di includere
la retorica nella poetica, di includere il discontinuo nel continuo, senza
annullare la specificità di questa disciplina. Se questa trasformazione
del retorico in poetico si manifesta principalmente nella scrittura letteraria, essa è ugualmente presente nel discorso scientifico» 19.
Questo si spiega non dimenticando «che una dimostrazione è anche
la scrittura di una dimostrazione; che la scienza è anche una retorica,
perché essa non mira solo a dimostrare e a provare, ma a persuadere
della prova e della dimostrazione» 20. E così «la specificità poetica e retorica del discorso vero è la leva attraverso la quale è possibile e anche
legittimo mettere in discussione la validità delle verità prodotte dalle
scienze» 21. «È diventando poetici che la figura, l’analogia, il ragionamento diventano pensiero. Si manifesta così una forte correlazione tra
il valore di un pensiero e il valore del discorso di questo pensiero,
cioè un discorso e un pensiero portati al valore» 22.
Di straordinaria importanza è il discorso relativo al rapporto fra
poesia e figure. «La modernità della figura è la scomparsa della figura.
Integrata al sistema della poesia, essa non appartiene più allo stile ma
diventa un linguaggio soggettivo in quanto esso è “la storicità delle
trasformazioni del vedere, del pensare, del sentire, del comprendere” 23, tutte categorie di coscienza trasformate in categorie etiche. La
defigurazione della forma retorica non è un’antiretorica ma consacra
il transfert dal retorico al poetico di cui l’antiretorica non costituisce
che un caso particolare. La figura di una poesia è poetica soltanto
se mette in risalto l’attività soggettiva di questa poesia. [...] Il valore
sistematico di una figura dipende dal suo carattere unico, essa non ha
valore – questo valore qui – che in questa poesia qui» 24.
15
In conclusione a me preme sottolineare che soltanto in una rinnovata prospettiva del rapporto fra poetica e retorica, sia a livello storiografico che teorico, questi studi possono ritrovare un senso e uno
slancio.
1 L. Anceschi, Barocco e Novecento, Milano, Rusconi, 1960, p. 231; già in “Aut
Aut”, n. 30 (1957).
2 R. Barilli, Poetica e Retorica, Milano, Mursia; 1969, n, ed. 1984.
3 J. Walker, Rhetoric and Poetics in Antiquity, New Jork,Oxford University Press,
2000.
4 La rhétorique avant la rhétorique per usare l’espressione di Laurent Pernot sul
quale ci soffermeremo fra poco.
5 Già prima di Walker, Friedrich Solmsen aveva segnalato che Esiodo considera la
retorica come sorella della poesia e che questa concezione non era rimasta senza eco, ma
Walker non cita il contributo di Solmsen The ‘Gift’ of Speech in Homer and Hesiod, in
Kleine Schriften, Hildesheim, 1968, pp. 1-15, ben presente invece a Giovanni Lombardo
in Il genio del cantore Poetica e Retorica nella supplica di Femio (Hom.,Od., XXII 344353), “Helikon”, xxxv-xxxviii, 1995-98, pp. 3-54, in cui l’autore dimostra che Femio
dà un bell’esempio dell’arcaica sorellanza fra poetica e retorica: Femio il professionista
della poetica si rivolge a Odisseo, il professionista della retorica.
6 J. Walker,cit., p. 41, trad. nostra.
7 Contra Platonem, 427-428.
8 L. Pernot, t. i , Histoire et technique, t. ii Les valeurs, Paris, Institut d’études
augustiniennes, 1993.
9 L. Pernot, cit., pp. 660-61.
10 Ivi, p. 796.
11 Ivi, pp. 635-36.
12 http//www.plekos.uni-muenchen.de./2003/rrebuffat.html.
13 E. Rebuffat, Tecniche di composizione poetica negli Halieutica di Oppiano, Firenze,
Olschki, 2001.
14
www.hatt. nom. fr/rhetorique/art 12c.htm.
15
A. Bernadet, cit., p. 42.
16
Gruppo μ, Retorica generale. Le figure della comunicazione, Milano, Bompiani,
1976.
17
A. Bernadet, cit. p. 22.
18
H. Meschonnic, Politique du rythme Politique du sujet, Lagrasse, Verdier, 1995,
p. 384.
19
A. Bernadet, cit., p. 27.
20
Ibid., rimaneggiato.
21
Ivi��������
�����������
, p. 29.
22
Ivi��������
�����������
, p. 30.
23
H. Meschonnic, cit., p. 551.
24
A. Bernadet, cit., pp. 35-36.
16
Dire l’esperienza: alle origini della letteratura
di Giovanni Lombardo
In questo mio intervento, vorrei affrontare il tema del nostro incontro, “Dire l’esperienza”, dal punto di vista dei piú remoti inizî della
letteratura: quelli che ci vengono attestati dall’epos omerico. Infatti
le prime testimonianze relative a un’esperienza estetica (intendendo
qui per “esperienza estetica” l’esecuzione di un testo poetico e la sua
simultanea ricezione da parte di un pubblico) ci vengono proprio dalla
prassi dei piú antichi cantastorie: gli aedi omerici. Nell’epos arcaico,
“dire l’esperienza” significa anzitutto “raccontare una storia”. L’espressione “raccontare una storia” può essere riferita alla realtà o all’invenzione. Raccontano storie coloro che espongono eventi realmente accaduti, ma raccontano storie anche coloro che espongono eventi possibili
o addirittura fantastici. Vedremo appunto che l’alternativa tra verità e
finzione (destinata a diventare un motivo ricorrente nella plurisecolare
vicenda dell’estetica letteraria) è già chiara a Omero, quando al canto
veritiero dei cantori contrappone il canto menzognero delle Sirene.
Ma il bisogno di oggettività precede l’inclinazione fantastica e investe
il senso primevo dell’attitudine a raccontare una storia. Che significa,
infatti, originariamente, “raccontare una storia”? La risposta al nostro
quesito è ancora custodita dall’etimo dei termini che, in italiano, definiscono questa attività. L’espressione “raccontare una storia” consta
di una parola discesa dal latino (raccontare) e di una parola discesa
dal greco (storia). Cominciamo a interrogare la parola di derivazione
latina. Il verbo raccontare è un composto del verbo contare e indica
propriamente, attraverso il prefisso iterativo ri-, il ripetersi di un procedimento di calcolo applicato agli eventi, in modo che la loro verbalizzazione proceda secondo un certo ordine. Questa esigenza di ordine si
deve al verbo latino da cui l’italiano contare deriva: il verbo computare,
composto tardo del verbo putare, che significa propriamente “pulire”,
con riferimento alla mondatura degli alberi, e quindi “sfrondare” o,
per l’appunto, “potare”. L’accezione materiale del mettere ordine nel
fogliame di una pianta o di un albero genera l’accezione traslata del
mettere ordine nei pensieri e nelle parole ovvero il significato di “calcolare”, “fare il conto” o, più in generale, “giudicare”. Spiega Varrone
nel de lingua latina (6.63):
17
putare valet purum facere [...] ideo putator, quod arbores puras facit. Ideo ratio
putari dicitur, in qua summa fit pura: sic is sermo in quo pure disponuntur verba,
ne sit confusus atque ut diluceat, dicitur disputare.
putare significa rendere pulito [...] perciò si dice “potatore”: perché rende puliti
gli alberi. Perciò si dice anche che “risulta potato [pulito]” quel calcolo in cui si
ottiene una conclusione netta. Così quel discorso in cui le parole vengono disposte
in maniera pulita, in modo che riesca non già confuso ma chiaro, si dice disputare.
(Lascio – tra parentesi – agli esperti di informatica il piacere di
constatare come l’urgenza ordinatrice del verbo putare e dei suoi composti sia ancora evidente nel piú famoso fra i discendenti moderni del
verbo computare: il termine computer).
La stessa alternanza fra un senso materiale e un senso intellettuale, propria del verbo latino putare, si ritrova nel verbo greco legein,
da cui deriva il termine logos, uno dei vocaboli greci per indicare il
“racconto”. Il verbo legein discende da una radice ie. leg- indicante
l’atto del “raccogliere” e attiva anche nel latino legere. E appunto il
verbo legein significa anzitutto “raccogliere”, sia nel senso di unificare
cose inizialmente disperse, sia nel senso di individuare, in un insieme
disparato, gli oggetti appartenenti a una determinata classe, separandoli dagli oggetti appartenenti a una classe diversa. Nei due casi, è
evidente un bisogno di ordine che genera, per traslato, il significato,
poi piú diffuso, di “dire”, “parlare” – ovvero un significato in cui gli
oggetti non sono piú raccolti e ordinati materialmente, ma sono unificati attraverso un enunciato verbale, nella rappresentazione di colui
che parla. Questo enunciato può avere anche la forma di un discorso
interno e cioè di un logos nel senso di un “pensiero”. (La radice leg- si
ritrova, come ho accennato, anche nel verbo latino legere col significato iniziale di “raccogliere”, “scegliere”, e con il significato traslato di
“leggere”, disceso probabilmente dalla locuzione legere oculis, “raccogliere, trascegliere con gli occhi [le lettere dell’alfabeto]”). Il racconto
si configura dunque originariamente nella forma di un “calcolo”, di
un’operazione intesa a mettere ordine. Ed è certo significativo che, in
Omero, la comunicazione linguistica, considerata dal punto di vista
del chiedere e del dare informazioni, sia espressa da un composto del
verbo legein: il verbo katalegein, che vale propriamente “enumerare”
(donde il termine katalogos che è appunto una “enumerazione”): katalegein un oggetto, una situazione, un evento significa per l’appunto
fornirne un rendiconto verbale affidabile e dettagliato.
Veniamo ora al secondo termine della nostra formula “raccontare
una storia”: il termine storia. Questo termine risale, attraverso il latino
historia, al greco historíe, in cui si riconosce la radice ie. *wid-, indicante l’atto del vedere e riscontrabile, per es., nei termini greci oîda, “io
so”, ideîn, “vedere”, idéa, “forma visibile”, eîdos, “specie visibile”, eidolon, “immagine”, e nel latino video. Rientrando nel campo semantico
18
del verbo oîda, “io so in quanto ho visto”, la historie, è propriamente
l’inchiesta, l’indagine compiuta attraverso l’osservazione diretta delle
fonti. Nel v sec. a. C., accingendosi a raccontare le guerre della Grecia
contro la Persia, Erodoto (ca. 484-425 a.C.) – il grande logógraphos,
cioè il grande “scrittore di racconti”, che viene spesso salutato come
il padre della storiografia e talvolta anche come il padre dell’etnografia – dichiara di concepire il suo lavoro come una histories apódexis,
ovvero come l’esposizione di ciò che egli ha visto, come il racconto di
un’indagine condotta con la curiosità del viaggiatore infaticabile che,
nello spirito della scienza ionica, ricerca le cause degli eventi servendosi, per quanto è possibile, di una verifica personale delle fonti.
La nostra rapida analisi etimologica ci dimostra dunque che, in principio, “raccontare una storia” non significa altro che “dire l’esperienza”
ovvero imporre un ordine verbale a una serie di cose e di eventi che il
narratore ha visto con i proprî occhi. Questa dimensione autoptica del
racconto si ritrova appunto nella poetica degli antichi aedi, coí come
ci permettono di ricostruirla i dati estraibili dai poemi di Omero. Nell’Odissea ci viene presentata l’esibizione di due cantori: Femio, che canta
davanti ai proci, i pretendenti di Penelope, a Itaca; e Demodoco, che
canta davanti ai Feaci, alla corte del re Alcinoo. Assistito dalla Musa
(simbolo della memoria sociale e garanzia, insieme, della discendenza
sovrannaturale e dell’attendibilità del canto), il cantore celebra le imprese
degli uomini e degli dèi in modo da perpetuarne il kléos, cioè la «fama»,
la «gloria» (anzitutto nel significato del “sentore”: il termine kléos rimanda al verbo klyein, “ascoltare”). Queste imprese possono riferirsi ai
miti tradizionali: per esempio, gli Amori di Ares e Afrodite (oggetto del
secondo dei tre canti di Demodoco); o possono prendere la forma di una
aoidè neotáte, cioè di un «canto novissimo», suggerito dalle vicende della
storia contemporanea: per esempio, i fatti della guerra troiana (Troiká)
o i ritorni (nóstoi) degli eroi greci da Ilio. Temi di grande attualità, che
avvincono straordinariamente l’attenzione degli astanti inducendoli in uno
stato di térpsis (cioè di «diletto») e di thélxis (cioè di «fascinazione»).
Non sempre però l’ascolto aedico genera la spensieratezza dell’intrattenimento aproblematico e fascinatorio. Se i proci godono quando
Femio rievoca il luttuoso rimpatrio degli eroi, Penelope è straziata da
quel canto (che le ricorda l’incerto destino del consorte ancora lontano)
e invita perciò l’aedo a intonare un’altra storia. Se i Feaci si compiacciono quando Demodoco ricorda i fatti di Troia, Ulisse prorompe in
singhiozzi all’udire quelle storie che lo coinvolgono in prima persona.
Ignorando che il naufrago ospitato alla corte di Alcinoo è il famoso re
di Itaca, Demodoco rievoca un episodio della guerra troiana che vede
Achille a diverbio con lo stesso Ulisse. Ma Ulisse, benché turbato da
questo racconto, loda l’aedo e lo invita a cantare un altro episodio
troiano di cui egli stesso è stato protagonista: lo stratagemma del cavallo
ligneo. Leggiamo i versi di Omero (Od. 8.487-98):
19
Demodoco, al di sopra di tutti i mortali io ti lodo:
ti ha addestrato la Musa, figlia di Zeus, oppure Apollo,
perché davvero secondo un bell’ordine tu canti il destino
degli Achei:
quanto fecero, quanto subirono, quanto gli Achei soffrirono.
Come se tu stesso fossi stato presente o lo avessi sentito da
altri che furono lí.
Ma suvvia, cambia argomento e canta l’allestimento [il kosmos]
del cavallo
di legno, che Epeo fabbricò con Atena:
l’inganno che un giorno Ulisse condusse sull’acropoli,
avendolo riempito dei guerrieri che distrussero Ilio.
E se anche queste cose come si deve racconterai,
io certamente dirò a tutti gli uomini
che un dio propizio ti ha concesso il canto divino.
A giudizio di Ulisse, il canto di Demodoco è bello, dilettevole e
affascinante perché risponde a un criterio di appropriatezza insieme
formale e morale: esso è infatti costruito nel rispetto di un kósmos e
di una moîra, cioè secondo un “bell’ordine” compositivo e secondo
una pertinente “destinazione” contenutistica e pragmatica. Ulisse si
compiace che l’ordine verbale del racconto aderisca all’ordine reale
degli eventi ed elogia l’aedo per la maestria con cui riferisce certi fatti
“come se” egli stesso ne fosse stato testimone oculare o “come se” ne
avesse avuto notizia da un testimone oculare. La prospettiva del “come
se” rinvia alle tecniche della mimesis e presuppone che la realtà e la
narrazione non siano perfettamente isomorfe e sovrapponibili: anche ai
livelli più elementari, rappresentare la realtà con un racconto equivale
già a interpretarla, a filtrarla attraverso un meccanismo selettivo che
sappia estrarne gli elementi significativi per ricomporli in un nuovo
ordine mimetico. Perciò il “come se” implica anche che la realtà possa
essere rappresentata o per quello che essa è oppure per quello che essa
potrebbe essere. Implica cioè la differenza tra il vero e il verosimile e
dunque la possibilità dell’illusionismo poetico. Esaminiamo brevemente
i due aspetti di questa differenza.
Nel caso di una poetica del vero, “dire l’esperienza” ovverosia “raccontare una storia” risponde a quel bisogno di verifica diretta che abbiamo poc’anzi estratto dalla nostra analisi etimologica. Tra il pubblico
di Demodoco, nessuno quanto l’ideatore dell’astuzia del cavallo sarà
in grado di verificare se sia stato fornito un racconto fedele. Questa
precisione autoptica è peraltro il segno di una specialissima assistenza
sovrannaturale: le Muse o addirittura Apollo sono garanti dell’attendibilità di un aedo che sappia intonare una aoidè neotáte, un «canto d’attualità», perché i soggetti tratti dalla storia contemporanea richiedono
un impegno poetico molto strenuo. Tant’è vero che l’Iliade e l’Odissea,
esempî supremi di canti ispirati dall’attualità, si aprono invocando il
soccorso della Musa nell’ardua esposizione di alcune importanti vi20
cende della storia nazionale (non è diversa la funzione della preghiera
alle Muse nell’iliadico proemio del Catalogo delle navi). Ispirato da
un’energia divina, il cantore rafforza i poteri immaginifici della sua arte
e coinvolge immediatamente l’uditorio negli eventi evocati dal canto,
mettendoli sotto gli occhi mentali dei suoi ascoltatori attraverso quei
procedimenti stilistici che poi i trattati di retorica registreranno fra
le tecniche di visualizzazione proprie dell’enárgeia, cioè dell’evidenza
realistica ovvero della subiectio sub oculos. Tecniche che implicano, per
cosí dire, la capacità di “far vedere con le orecchie”: perché, proprio
mentre colgono con l’orecchio la magica affinità tra il corso delle parole e il corso delle cose, gli ascoltatori provano le medesime emozioni
che proverebbero se gli avvenimenti raccontati si svolgessero realmente
davanti ai loro occhi.
Sennonché, mettere un evento sotto gli occhi dell’ascoltatore significa
trasportare l’ascoltatore nel passato in cui quel certo evento è accaduto
oppure trasportare l’evento nel presente in cui esso viene evocato per
l’ascoltatore. A detta di Ulisse, il cantore è bravo perché racconta i fatti
di Troia “come se” egli stesso ne fosse stato testimone diretto (cioè
“come se” egli stesso si fosse avvicinato a quei fatti) o “come se” li avesse appresi da qualcuno che ne sia stato testimone diretto (cioè “come
se” i fatti si fossero avvicinati al cantore). Nel primo caso, gli occhi dell’ascoltatore vanno verso l’evento, nel secondo caso l’evento viene sotto
gli occhi dell’ascoltatore. Alcuni studî recenti hanno tentato di spiegare
come queste due possibilità di visualizzazione mentale dipendano dall’aspetto dei tempi verbali piú frequenti nella narrazione – l’imperfetto
e l’aoristo – e hanno ricollegato l’uso dell’imperfetto all’oggettività del
racconto storiografico, l’uso dell’aoristo alla soggettività del racconto
poetico (cfr. E. J. Bakker, Pointing to the Past. ������������������������
From Formula to Performance in Homeric Poetics, Cambridge, Ma., 2005). Considerati
������������������������
in rapporto
alla categoria morfologica dell’aspetto (cioè in rapporto alla categoria
afferente all’eîdos di un’azione ovvero al modo in cui essa viene per l’appunto vista attraverso il linguaggio), l’imperfetto e l’aoristo definiscono
la durata o la momentaneità di un certo fatto. L’aspetto durativo dell’imperfetto implica che l’azione sia vista “come se” si stesse svolgendo
in un passato più esteso del testo che la descrive e che può ritagliarne
solo la fase registrata da un testimone: qui la visione dei fatti dà luogo
al loro racconto. L’aspetto momentaneo dell’aoristo implica invece che
l’azione sia vista “come se” accadesse in una dimensione assoluta, in
un tempo indefinito (o per l’appunto aóristos, «indeterminato»), che
può anche essere il tempo passato, ma senza alcuna precisazione relativa alla durata e all’origine (recente o remota) dell’azione stessa: qui il
racconto dei fatti dà luogo alla loro visione e l’azione tende ogni volta
a riattualizzarsi e a coestendersi nel testo che la descrive. Così, quando
prevale l’imperfetto, il presente si immerge nel passato; quando invece
prevale l’aoristo, il passato riemerge al presente.
21
Che, anche a prescindere dall’uso di questi due tempi verbali, la
subiectio sub oculos possa realizzarsi secondo questa doppia modalità
è indubbio; ma l’ipotesi che su questa base il linguaggio dello storico
venga poi a distinguersi dal linguaggio del poeta non sempre trova sicure conferme nella precettistica antica in tema di visualizzazione mentale.
Vero è che, per esempio, Aristotele, attribuendo alla poesia, protesa
all’universale, un valore più filosofico della storia, legata al particolare,
sembra riproporre la differenza tra la dimensione assoluta del discorso
poetico e la dimensione relativa del discorso storico; ma è anche vero
che i precetti aristotelici sull’atto del pro ommáton tithesthai, cioè del
“mettere sotto gli occhi”, riconoscono alla poesia entrambe le possibilità di visualizzazione. Nella Poetica, Aristotele vuole che il drammaturgo, accingendosi a comporre il suo testo, provi a prefigurarsene
gli effetti scenici ed emotivi (Aristot. Poet. 17.1-2, 1455a 22-33). Una
mimesis che intenda infatti catturare gli spettatori alla vicenda messa
in scena esige che il poeta sappia dosare la carica immaginifica delle
sue parole, saggiando anzitutto su sé stesso la tecnica dell’enárgeia.
Conferendo allo stile una grande forza icastica, questa tecnica permette
di “dire l’esperienza” in modo che l’ascoltatore colga con l’occhio della
mente quanto viene descritto. Prima che il linguaggio poetico, l’atto
del pro ommáton tithesthai definisce però, piú in generale, il processo
psicologico definito per solito phantasía. Correlato al verbo phainesthai,
“apparire”, il termine phantasía indica l’«immaginazione»: non già, ovviamente, nel significato moderno dell’intuito creativo del genio, ma nel
significato antico di una facoltà rappresentativa dipendente dalle sensazioni. Più precisamente, la phantasía è una sorta di movimento attivato
nell’anima dalla percezione (aisthesis) in modo da generarvi un flusso di
phantásmata, di “apparizioni” ovverosia una serie di precise – ancorché
immateriali – «immagini» delle cose percepite (aisthémata). Queste immagini permettono alla mente di pensare e non v’è àmbito conoscitivo
che possa farne a meno. Il movimento della phantasía – spiega Aristotele – può essere volontario o involontario (Aristot. de an. 327b 17-20; de
insomn. 460b 9-19). Facciamo un uso attivo e deliberato della phantasía
quando, per es., richiamiamo alla memoria un’immagine passata; ne
facciamo invece un uso passivo e non calcolato quando – per esempio
nei sogni o nei delirî della febbre – la nostra mente è abitata da visioni
che possono facilmente ingannarci. Nel primo caso, noi andiamo verso
un’immagine passata (secondo lo schema che, per comodità, possiamo
chiamare imperfettivo, anche se in Aristotele non c’è alcun riferimento
all’uso dei tempi verbali); nel secondo caso, un’immagine, per così dire,
“si attualizza”, venendo verso di noi (secondo lo schema che possiamo
chiamare aoristico).
Per prelibare mentalmente gli effetti d’una scena in corso di composizione, anche il poeta deve ricorrere alla sua facoltà immaginativa: e può farlo volutamente, attivando gli strumenti del suo ingegno,
22
oppure spontaneamente, secondando le spinte della sua ispirazione.
L’alternativa tra un uso cosciente e governabile e un uso spontaneo
e irriflesso della phantasía viene infatti illustrata mediante i due più
tradizionali modelli del poeta in quanto personalità “creativa”: il modello del poeta euphyés cioè del poeta che trae le sue doti dal talento
naturale, e il modello del poeta manikós, cioè del poeta che deve il
suo canto a una sorta di divina follia (di manía). Il poeta di talento è
detto euplastos, “duttile”, perché sa piegare le sue facoltà alle esigenze
della composizione; il poeta ispirato è detto ekstatikós, “fuori di sé”,
perché – secondo la vecchia equazione tra la poesia e l’enthousiasmós
– compone come posseduto da un dio. La differenza tra questi due tipi
creativi emerge quando i poeti devono, appunto con il soccorso della
phantasía, sperimentare su sé stessi le emozioni che la loro parola, confortata dal gesto scenico, accenderà negli spettatori: se il sobrio poeta
euphyés ricorre alla facoltà immaginativa per fingersi (come capita nei
processi della memoria) un certo stato emotivo, l’ebro poeta manikós
abita già in uno stato emotivo tale da nutrire (come avviene nei sogni o
nelle allucinazioni) la facoltà immaginativa. Ritorna anche qui la doppia
modalità di visualizzazione che già conosciamo: o la mente dell’euphyés
va verso l’immagine (secondo lo schema imperfettivo) oppure l’immagine viene verso la mente del manikós (secondo lo schema aoristico).
In entrambi i casi, abbiamo però da fare con l’attività poetica, non
già con l’attività storiografica. E in entrambi i casi (ma soprattutto nel
caso del poeta manikós) la phantasía è collegata al pathos, all’emozione.
Questo collegamento è proposto da Aristotele anche nella Retorica,
dove anzi i processi di visualizzazione sembrano piuttosto privilegiare
la modalità aoristica. Occupandosi delle strategie discorsive adatte ad
accendere le passioni dell’uditorio, Aristotele tratta della paura (phobos)
e della pietà (eleos), cioè dei pathe proprî dell’esperienza tragica (Rhet.
2.5.1, 1382a 21-22, 2.8.3, 1385b 13-16). Chi voglia muovere gli ascoltatori alla paura o alla pietà deve attivarne la phantasía, in modo che
essi possano fingersi una sventura (kakón) imminente e, sentendosene
atterriti o commossi, possano poi vivere l’esperienza della catarsi. Gli
oratori capaci di una recitazione tale da accompagnare, con un’acconcia
gestualità, le nervature emotive del linguaggio, «fanno apparire (phainesthai) vicino il male», dice Aristotele, «mettendolo sotto gli occhi (pro
ommáton poioûntes) dell’ascoltatore»: un pathos che si mostri davanti
agli occhi (en ophthalmoîs phainómenon) è infatti condiviso più prontamente (Rhet. 2.8.14-15, 1386a 33-34, 1386b 8). E qui appunto sembra
prevalere la modalità di visualizzazione aoristica: l’immagine si approssima agli occhi della mente e provoca una forte risposta emotiva.
Un altro antico trattatista che contempla la doppia modalità della
visualizzazione mentale nell’àmbito della poesia è Longino. Nel cap.
15 del Perì hypsous, egli si occupa della phantasía (detta anche eidolopoiía, “fabbricazione di immagini”) e la definisce «un pensiero che,
23
comunque si presenti alla mente, genera un discorso» (phantasía pân
to hoposoûn ennóema gennetikòn logou paristámenon). Ma distingue
l’enárgeia, l’“evidenza realistica”, tipica della fantasia oratoria, più legata all’oggettività e alla verisimiglianza, dall’ekplexis, l’urto emotivo,
proprio della fantasia poetica, più libera e più proclive al meraviglioso.
Questa distinzione sembrerebbe riproporci la differenza tra la visualizzazione durativa o storiografica (nella quale la nostra vista mentale
si avvicina ai fatti) e la visualizzazione momentanea o appunto poetica
(nella quale i fatti si avvicinino alla nostra vista mentale). Sennonché
Longino adduce come esempio di fantasia poetica un passo dell’Oreste di Euripide (vv. 255-57) in cui il protagonista, ossesso dalle Furie
anguicrinite, invoca la madre perché lo liberi dalla morsa delle sue
persecutrici:
Madre, t’imploro, non aizzare contro di me
quelle giovani con gli occhi di sangue, serpentiformi:
sono loro, sono loro: e mi saltano intorno.
«Qui – spiega Longino – il poeta stesso ha visto le Erinni e ha quasi costretto anche i suoi ascoltatori a guardare ciò che la sua fantasia
gli ha raffigurato». Nel comporre la scena, Euripide visualizza dunque mentalmente l’angoscia di Oreste, trasferendosi nell’antico mito
e identificandosi con il suo personaggio. Ma quando Longino afferma
che cosí anche gli ascoltatori di Euripide sono portati a guardare (a
theásasthai) ciò che il poeta ha immaginato, pensa alla lettura del testo,
piuttosto che alla sua messa in scena: è chiaro infatti che in teatro
questa situazione viene fruita anzitutto come spettacolo per l’occhio
della vista. Quando Euripide e, con lui, i suoi lettori s’immedesimano
nello stato d’animo del personaggio, si verifica una subiectio sub oculos
di tipo imperfettivo, che disloca l’ascoltatore dal piano del suo “qui e
ora” al piano del “lí e allora”, proprio dell’evento visualizzato; quando invece gli spettatori, a teatro, fruiscono del testo attraverso la sua
concreta rappresentazione, si verifica una subiectio sub oculos di tipo
aoristico, che disloca l’evento visualizzato dal suo “lí e allora” al “qui
e ora” della messa in scena.
Torniamo a Omero e agli elogi di Ulisse a Demodoco. Esponendo
i fatti “come se” vi avesse preso parte, il cantore si dimostra abile a
governare quelle tecniche della verosimiglianza che potrebbero ingannare gli ascoltatori impossibilitati a controllare l’effettiva attendibilità
di un racconto. Siamo cosí giunti al secondo aspetto dell’alternativa tra
verità e finzione entro cui, come abbiamo preavvisato, si dibattono le
antiche tecniche per dire l’esperienza. A questo punto, infatti, la nostra
formula “raccontare una storia” si allontana dal significato etimologico
che la vincolava al rendiconto autoptico delle cose e si avvicina a uno
dei significati che, ancora oggi, il linguaggio comune le affida allorché
24
dice “raccontare storie” per intendere “raccontare favole” o addirittura
“raccontare fandonie” (per cui, quando abbiamo l’impressione che il
nostro interlocutore voglia raggirarci, lo invitiamo a non “raccontarci
storie”). Avendo partecipato all’impresa troiana, Ulisse può attestare
che Demodoco è un cantore fededegno. Ma ove ai fruitori non sia
dato di controllarne la corrispondenza al vero, un prodotto mimetico trae efficacia fascinatoria da quella che, in termini aristotelici, si
definisce la sua apergasía, cioè la sua “lavorazione” in quanto kosmos
capace di rispecchiare, con i fatti reali, anche i fatti possibili: e dunque
in quanto kosmos capace di mentire. Tale sarà, secondo Parmenide,
il kosmos epéon apatelós, l’«ingannevole universo verbale» della doxa,
dell’«opinione», che, allestendo una seduzione illusionistica pronta a
distrarre i mortali dalla via verso la alétheia, verso la «verità», impone
al filosofo di riconsiderare con un piú vigile rigore teoretico la tensione
tra un impiego attendibile e un impiego malfido del linguaggio, così
che i suoi uditori non si lascino irretire dalle finzioni di chi tramuta la
realtà nelle sue immagini fallaci.
L’estremizzazione leggendaria degli effetti illusorî del canto dà luogo
ai miti della seduzione musicale: per esempio, il mito di Orfeo, il cantore che con la sua voce piega le fiere, le selve e le rocce. O il mito delle
Sirene che, nell’Odissea, attirano i naviganti con una melodia irresistibile e fatale. Esse tentano anche Ulisse, promettendogli il piacere assoluto
e, insieme, il sapere assoluto. L’integrazione di piacere e di sapere è il
postulato fondamentale della poetica autoptica: la poesia non può garantire alcun godimento vero se non si prefigge di raccontare fatti veri.
Ma le Sirene smentiscono questo postulato nell’atto stesso in cui sembrano confermarlo: giacché alla dolcezza delle loro voci non s’accoppia
l’autenticità delle loro affermazioni. Ai naviganti esse offrono scienza
e ritorno in patria: di fatto – come diceva Marziale (3.64) – esse non
dànno che un crudele gaudium e una blanda mors, una «gioia crudele»
e una «morte carezzevole». La sola “verità” del loro canto ammaliante
sta appunto nel piacere dell’ascolto, nella lusinga fisica di un orecchio
tutto atteso a una melodia bellissima e inesorabile.
L’intuizione omerica dell’autonomia formale della poesia e dei suoi
poteri illusionistici anticipa una problematica che verrà poi sviluppata
nella retorica dei Sofisti e soprattutto di Gorgia. E appunto in àmbito
retorico la nozione di kosmos si affermerà con il significato decisamente estetico di ornatus, “abbellimento stilistico”. Ma con i Sofisti
ci troviamo ormai in una fase avanzata della storia letteraria. Una fase
in cui la problematica relativa ai modi di “dire l’esperienza” porta a
maturazione quell’alternativa tra una poetica della pura invenzione e
una poetica del racconto attendibile che, come ho cercato di suggerire,
trova le sue radici, già alle origini della letteratura, nell’arte omerica
di raccontare una storia.
25
Rappresentazione pittorica e rappresentazione poetica
in Tommaso d’Aquino
di Fabrizio Amerini
Parlare di “estetica medievale” non è facile oltre che storiograficamente discutibile 1. Come è stato sottolineato da più studiosi, il
principale motivo di difficoltà e di perplessità storiografica risiede nel
fatto che durante il Medioevo i canali di accesso e di trattazione delle
questioni che oggi noi consideriamo di pertinenza dell’estetica sono
stati molteplici e hanno preso forme differenti a seconda del tempo e
del luogo in cui vengono studiati. In generale, le riflessioni di estetica
che possono essere rintracciate in epoca medievale devono essere ricavate da contesti spuri. Nel Medioevo problemi di estetica non sono
stati esplicitamente riconosciuti e tematizzati, non essendoci stata una
disciplina di studio autonoma qualificabile come estetica né qualcosa di
pur lontanamente assimilabile all’estetica come dal Settecento ad oggi
viene intesa. Per di più, raramente s’incontrano in epoca medievale
osservazioni su che cosa sia una teoria artistica o su quali condizioni
debba soddisfare una teoria per essere considerata una teoria estetica.
Le riflessioni sono tutte, per così dire, pre-teoriche e riguardano intuizioni differenti su che cosa sia il bello e su quali rapporti debbano
intercorrere tra la bellezza e la sua rappresentazione artistica. In epoca
medievale, cioè, ci s’imbatte di frequente in forme di estetica descrittiva, saltuariamente in esempi di estetica normativa, piuttosto sporadicamente in considerazioni meta-estetiche. Neppure un’attenzione privilegiata viene rivolta all’estetica come ricerca sulle condizioni del piacere o della contemplazione estetica, nonostante che la sensibilità nei
confronti del bello e il tema del diletto giochino un ruolo importante
nelle meditazioni estetiche dei maestri medievali 2. L’attenzione sembra
essere tutta rivolta al rapporto che si può instaurare tra esperienza,
artista e opera d’arte. Quale esperienza, tuttavia, un’opera d’arte deve
intercettare ed esprimere, per un filosofo medievale? È evidente che
a seconda che si scelga di privilegiare il rapporto tra l’opera d’arte e
il soggetto o tra l’opera d’arte e l’oggetto, scaturiscono due immagini
dell’estetica molto differenti. Seppur in modo non troppo esplicito, i
maestri medievali hanno esplorato entrambe queste connessioni. In
ciò che segue mi limiterò a mettere in risalto alcuni punti di queste
esplorazioni che considero rilevanti per una ricostruzione filosofica del27
l’estetica nel Medioevo, concentrando l’attenzione soprattutto sul basso
Medioevo e, più in particolare, su Tommaso d’Aquino 3.
In generale, è stato notato che i filosofi medievali sviluppano riflessioni di estetica prevalentemente all’interno di una più generale
riflessione sulla bellezza e sul bello (pulchrum). Tale inclusione spiega
le difficoltà che l’estetica ha incontrato nel corso del tempo per guadagnare la propria autonomia rispetto ad altre discipline. Il legame tra
estetica e teoria del bello fa emergere infatti i debiti che la cosiddetta
“estetica medievale” ha avuto nei confronti di altri campi del sapere,
come l’etica (per i rapporti tra bello e bene), la teologia (per i rapporti
tra bello creaturale e bellezza divina), la metafisica (per la connessione
tra bello, essere e vero), l’ottica (per i rapporti tra bello, colore e fenomeno della luce), le scienze del quadrivio in genere (per i rapporti
tra bellezza e proporzionalità numerica e geometrica).
Il concetto di bello viene connesso dai filosofi medievali, in modo
piuttosto condiviso, a quello di ordine (ordo) e quest’ultimo è la chiave
che consente loro di proporre una fondazione teologica e scritturale,
quindi oggettiva, del bello, dal momento che l’ordine è uno degli attributi che Dio ha impresso al mondo all’atto della creazione. Come
spiega esemplarmente Bonaventura nel suo Itinerarium mentis in Deum
(1259), riassumendo una lunga tradizione interpretativa, specialmente
di ascendenza agostiniana, Dio ha creato il mondo in peso, numero
e misura (Sapienza, 11, 20). Il peso indica l’ubicazione delle cose nel
mondo, il numero il principio della loro distinzione sostanziale e quantitativa, la misura il fattore della loro delimitazione formale e qualitativa. Numero e misura sono la radice dell’intelligibilità del reale, che si
delinea come il risultato della piena corrispondenza tra la misura e il
misurato, tra il modello e la copia. Queste due relazioni “esemplari”
non sono troppo diverse tra loro: le cose sono misurate nell’essere da
Dio, ma sono state anche create ad immagine e somiglianza del loro
Creatore, ed è un tratto essenziale delle creature quello di essere in
un rapporto proporzionato di somiglianza (similitudo) con Dio e, di
riflesso, con le altre creature. Dal numero e dalla misura delle cose
scaturisce quindi l’ordine, che altro non esprime che un rapporto di
proporzione, per cui, come aveva precisato già Agostino nel De musica
e nel De civitate Dei, «la bellezza non è altro che uguaglianza numericamente proporzionata [...] è una certa disposizione delle parti, accompagnata dalla soavità del colore» 4. Questa idea agostiniana di bellezza,
che si arricchirà nel corso del tempo di sollecitazioni provenienti da
altre tradizioni filosofiche, aristoteliche e soprattutto neo-platoniche
(e.g. Pseudo-Dionigi), godrà di larga fortuna in epoca medioevale e
sarà ripresa, tra gli altri, anche da Tommaso d’Aquino, il quale ricorda
come, basilarmente, la «bellezza richieda due cose, lo splendore [del
colore] e la proporzione delle parti» 5.
28
Queste concise definizioni, proposte da Agostino e riprese tra gli
altri da Bonaventura e da Tommaso, rivelano alcune cose. In prima
istanza, da queste definizioni emerge come il concetto cardine di una
teoria del bello resti quello classico di proporzione (proportio) delle
parti in un tutto, che è a sua volta dipendente dal concetto di accordo tra il tutto e il suo esemplare ideale. Tommaso sintetizza questo
concetto attraverso la nozione tecnica di consonantia, che impiegata
originariamente in ambito musicale a indicare la melodia e armonia dei
suoni, viene generalizzata a regola universale per definire l’armonica
proporzione delle parti in un tutto, che è ciò che spiega qualunque
stato soggettivo, sensoriale o emozionale, che scaturisce dalla relazione
tra il soggetto e l’oggetto 6. In seconda istanza, il successivo riferimento al colore e allo splendore (splendor) o chiarezza (claritas) 7 allarga
l’orizzonte d’indagine sul bello, permettendo una caratterizzazione del
bello non solo in termini intrinsecamente o estrinsecamente oggettivi,
ma anche per così dire soggettivi, grazie alla connessione del bello a
una teoria generale della percezione sensibile. Infatti, il colore è considerato una proprietà reale delle cose, ma il colore in quanto visibile
richiede, nei termini del processo percettivo che Aristotele illustra nel
De anima, la presenza di un soggetto percettore e di un fattore attivante questo processo. Il soggetto è identificato con il singolo individuo, mentre il fattore di attivazione è identificato con la luce, la quale
permette la trasformazione dei visibili in potenza in visibili in atto e
quindi in visti in atto. Rispetto al processo percettivo di ricezione di
una forma sensibile, la bellezza viene a esprimere, così, sia l’arrangiamento armonico delle parti di una cosa colorata (in questo senso un
colore bello è «un colore che è conveniente alla vista per vedere» e
tale è un colore che a sua volta possiede una gradazione cromatica
armoniosa) 8, sia la corrispondenza che si ha tra la forma del ricevente
e la forma del ricevuto. La riproduzione a livello percettivo della forma
e del colore di una cosa sono a fondamento dell’esperienza del bello,
il cui indicatore è dato dal sentimento di piacere che la cosa colorata
suscita nell’anima.
È stato fatto notare come l’insistenza agostiniana sulle cose come
immagini di Dio, effetti-segni che rinviano alla loro causa-esemplare,
sia alla base di gran parte del simbolismo e dell’allegorismo medievale.
Non occorre soffermarsi troppo qui sulla connessione tra bello e ordine, e tra bello, luce e colore, essendo queste connessioni un commonplace del pensiero estetico medievale che è stato comunque esaminato
dalla storiografia del secolo scorso. In questa sede mi limiterò a richiamare due aspetti di queste connessioni che considero particolarmente
significativi e su cui, ritengo, ci sia ancora del lavoro da fare.
Il primo aspetto da rimarcare è che il processo di ricezione della
forma di un oggetto da parte di un soggetto conoscente garantisce una
saldatura tra le due connessioni di un’opera d’arte all’esperienza che
29
abbiamo distinto all’inizio. Per quanto ci possano essere eventi o produzioni artistiche la cui funzione è esclusivamente quella di esprimere
stati emozionali di un soggetto, o anche di suscitare stati emozionali
simili in un altro soggetto (si pensi alle rappresentazioni teatrali o alla
poesia, di cui parleremo più avanti), in genere un’opera d’arte deve
essere valutata rispetto alla sua capacità di rappresentare o imitare
un certo oggetto, e nel caso specifico di rappresentazioni pittoriche,
di rappresentare la proporzione armonica delle parti e del colore che
un oggetto possiede, riproducendo così una certa forma che l’oggetto
ha impresso nel soggetto conoscente. Da questo punto di vista, è degno di nota che molte riflessioni sulla rappresentatività dei dipinti si
trovino all’interno dei dibattiti epistemologici sulla natura e funzione
delle rappresentazioni mentali. Siccome molti filosofi medievali, tra cui
Tommaso d’Aquino, ritengono, sulla scia di Boezio, che una rappresentazione mentale naturale rappresenti le cose non come sono in sé
stesse, al di fuori della mente, ma così come sono state ricevute dalla
mente, ne consegue che anche la bellezza di un’opera d’arte viene a
risiedere nella capacità che l’opera d’arte possiede di mimare la debita
proporzione delle parti e del colore di una cosa rispetto al modo in
cui tale proporzione è stata ricevuta dalla mente. In questo senso, il
processo rappresentativo richiede non solo una somiglianza qualitativa
tra ciò che rappresenta e ciò che è rappresentato, ma anche una loro
adeguazione proporzionale, che è il frutto di un intervento di ricostituzione dei dati percettivi operato dalla mente.
Il secondo aspetto che ritengo utile sottolineare si collega in qualche
misura al primo. Soprattutto nel corso del xiii secolo, la fondazione
teoretica del bello e la determinazione del suo valore cognitivo emergono nel contesto di quella che i medievali presentano come un’indagine
sui cosiddetti trascendenti, ovvero su alcune nozioni transcategoriali,
come ens, unum, bonum, verum, aliquid, res, cui qualcuno aggiungerà
per l’appunto pulchrum 9. Tommaso d’Aquino, ad esempio, che propone una spiegazione tutto sommato chiara e condivisa della natura dei
trascendenti, osserva che i concetti di bello e di bene (ma il discorso
vale anche per il rapporto tra il bello e gli altri trascendenti), sono
realmente identici se considerati rispetto a un dato oggetto di cui si
predicano, perché si fondano su una stessa cosa, cioè sulla forma di
questo oggetto. Differiscono tuttavia concettualmente. Mentre il bene
riguarda la facoltà appetitiva dell’uomo e si pone come la causa finale
rispetto all’agire pratico, il bello riguarda la facoltà conoscitiva e si
pone come la causa formale rispetto alla percezione dell’oggetto. Belle,
infatti, sono dette quelle cose che piacciono una volta viste (pulchra
dicuntur quæ visa placent) e la vista è una facoltà conoscitiva; ma siccome la conoscenza avviene per assimilazione dell’oggetto conosciuto
al soggetto conoscente, e l’assimilazione dipende dalla forma, allora il
bello riguarda propriamente la forma dell’oggetto 10. Stando a queste
30
osservazioni di Tommaso, mentre uno stato emozionale di tipo etico
si perfeziona completamente nel raggiungimento di ciò che è bene per
la facoltà appetitiva, uno stato emozionale di tipo estetico si realizza
pienamente nell’acquisizione cognitiva (apprehensio, cognitio) di una
forma e quindi nel piacere di questa acquisizione, e questa compete
solamente a quelle che sono le più nobili facoltà conoscitive sensoriali,
ossia la vista e l’udito 11.
L’accentuazione del valore cognitivo del bello e della sua connessione al processo percettivo costituisce il filo rosso della riflessione
estetica di Tommaso e di gran parte dei filosofi del basso Medioevo,
nelle varie forme in cui essa si articola. È evidente che assumendo questo punto di vista compito dell’estetica viene a essere, per Tommaso,
quello di fissare le condizioni alle quali l’esperienza del bello possa
essere data e, quindi, riprodotta. Un’opera d’arte non sembra avere
altro compito che quello di rappresentare un oggetto o un evento bello,
ossia di re-presentare la sua forma alla mente del soggetto conoscente.
All’interno di questo processo ricettivo e riproduttivo, Tommaso assume che non solo un’opera d’arte possa essere detta bella, ma anche
un evento o un oggetto, nonostante che “bello” si dica di un oggetto,
di un evento o delle loro rappresentazioni in modo diverso. Mentre
un oggetto o un evento è bello, infatti, se in virtù di una distribuzione
armonica delle parti e dei colori induce un sentimento di piacere in chi
lo percepisce, una rappresentazione è bella se è in grado di ri-suscitare
un sentimento di piacere rispetto al modo in cui essa rappresenta la
forma di quel determinato oggetto o evento. Non è possibile scorgere ancora in Tommaso una distinzione precisa tra bello e sublime, il
cui termine per altro è impiegato da Tommaso, seppur confinato a
indicare l’eccellenza di uno stato o di una funzione. Stando ai testi di
Tommaso, il sublime non sembra esprimere nient’altro che una forma
intensa di bellezza o una bellezza cui corrisponde un piacere intenso.
Esso scaturisce dal sentimento di admiratio o contemplazione compiaciuta e timorosa che si prova di fronte a oggetti o eventi maestosi,
rari o insoliti, che eccedono cioè le nostre facoltà conoscitive e di cui
si ignora la causa 12.
Riassumendo. In termini oggettivi, il criterio intrinseco di definizione del bello continua ad essere dato, per Tommaso, dalla debita proporzione delle parti e del colore di una cosa, mentre il criterio estrinseco è dato dalla corrispondenza tra la cosa e il suo esemplare divino.
Estrinsecamente una cosa è bella se partecipa della bellezza ideale e
una cosa ne può partecipare a vari gradi, a seconda del modo in cui
l’idea di bellezza in Dio – che altro non è che Dio stesso considerato
in quanto bello – è partecipabile dalle creature 13. In termini soggettivi, invece il criterio definitorio del bello risiede nella capacità di una
cosa, una volta vista, di suscitare un sentimento di piacere. Un’opera
d’arte è al contrario bella se rappresenta il bello, che è considerato da
31
Tommaso, sulla scorta dello Pseudo-Dionigi, un fine universalmente e
naturalmente ricercato dall’uomo 14.
Una rappresentazione pittorica, dunque, ha come fine la raffigurazione del bello e non può tendere che a questo fine. Ciononostante
Tommaso precisa che, sebbene un’opera d’arte sia detta bella se rappresenta il bello, tuttavia, in quanto rappresentazione, essa deve essere
detta bella se rappresenta una cosa in modo perfetto, anche se la cosa è
in sé non-bella. Come nel caso delle cose, anche nel caso delle rappresentazioni la perfezione o bellezza deve essere valutata, da un punto di
vista formale, esclusivamente in termini della capacità di rassomigliare
in modo vero una certa cosa. Ne risulta che il processo rappresentativo
pittorico del bello, anche terminologicamente, è descritto da Tommaso
come in tutto e per tutto simile al processo rappresentativo di una
cosa da parte di una rappresentazione mentale naturale 15. Questo collegamento non deve stupire, se si pensa che nel De anima Aristotele
aveva caratterizzato l’intelletto come una tabula su cui possono essere impresse picturæ differenti. In definitiva, come le rappresentazioni
mentali, anche la rappresentazione pittorica ha lo scopo di ripresentare
una forma, riproducendo così il processo sensoriale che ha suscitato
un certo piacere 16.
Se sul versante delle rappresentazioni pittoriche un certo approfondimento storiografico è stato portato avanti, decisamente più scoperto
appare il versante della poetica, intesa non tanto come teoria della composizione letteraria, ma come disciplina che studia l’utilizzo di rappresentazioni di tipo segnatamente linguistico, vocale o scritto, o teatrale.
Un’attenzione maggiore, invece, è stata rivolta alla retorica 17.
Mi sembra che i motivi principali che hanno determinato nel Medioevo una svalutazione della poetica filosofica siano stati due. Il primo è storico e riguarda la sistemazione della poetica all’interno della
classificazione delle scienze e il suo inserimento tardo nel curriculum
di studio universitario. Il secondo invece è teorico e riguarda il fatto
che la poetica tende a prescindere da un criterio stretto di rappresentazione mimetica, concernendo principalmente il rapporto tra una
rappresentazione e il suo fruitore rispetto a un determinato effetto che
si vuol indurre nel fruitore.
Non indugio troppo sul primo motivo, essendo noto che la sistemazione operata dai commentatori neo-platonici tardo-antichi, soprattutto
alessandrini, delle opere aristoteliche aveva comportato l’inclusione della Retorica e della Poetica tra le opere dell’Organon. Come tale questa
sistemazione era giunta al mondo arabo e di qui, tramite le varie trattazioni de divisione scientiarum, era giunta al mondo latino occidentale 18.
Questo fatto aveva avuto ripercussioni sul dibattito circa la natura e
la scientificità della retorica e della poetica, così come sull’insegnamento, poiché la Retorica e la Poetica erano considerati comunemente
32
i libri conclusivi dell’Organon e venivano perciò letti solo dopo aver
commentato gli altri libri; di fatto, la loro lectura era facoltativa. In
particolare, la poetica filosofica ebbe uno sviluppo piuttosto limitato,
non essendoci una tradizione poetica consolidata (a differenza della retorica) alternativa a quella aristotelica con cui i medievali erano venuti
in contatto prima dell’arrivo della Poetica aristotelica. Questa, com’è
noto, venne tradotta dal greco da Guglielmo di Moerbeke solo molto
tardi (1 marzo 1278), mentre fino a quella data l’unica via di accesso
alla poetica aristotelica era costituita dalla traduzione dall’arabo del
Commento Medio alla Poetica di Averroè, che molti, tra cui Tommaso, erroneamente citano come traduzione dell’opera aristotelica. Tale
traduzione fu portata a termine da Ermanno il Tedesco a Toledo, il 17
marzo 1256, dopo che, nel 1250, in seguito alla traduzione dall’arabo
della Retorica, Ermanno aveva rinunciato a tradurre direttamente la
Poetica a causa della sua oscurità e del disaccordo tra metrica araba e
metrica greca 19. Nonostante che il Commento averroista abbia avuto
una certa diffusione (siamo a conoscenza di almeno 23 manoscritti che
lo conservano), la Poetica fu un testo poco commentato. A tutt’oggi
sono sopravvissute in un manoscritto parigino solo alcune glosse e una
breve esposizione letterale, databili al 1307, del maestro Bartolomeo
da Bruges 20.
Di maggiore interesse filosofico è il secondo motivo. L’inclusione
della poetica e della retorica, tanto quella argomentativa quanto quella
epidittica, nella logica – secondo l’accezione larga di logica che i medievali avevano ereditato dai commentatori neoplatonici tardo-antichi
– ne ha determinato inevitabilmente lo statuto. Nella distinzione delle
opere dell’Organon che Tommaso propone nel prologo del suo Commento agli Analitici Secondi 21, ad esempio, la retorica e la poetica sono
accomunate dal fatto di far uso di procedimenti discorsivi, rientrando
così, a giusto titolo, nella filosofia razionale 22. Tommaso giustifica questa conclusione osservando che ogni arte riguarda atti della ragione,
essendo un’arte «nient’altro è che un certo ordinamento della ragione,
nel modo in cui attraverso determinati mezzi gli atti umani giungano
a un debito fine» 23, e la retorica e la poetica riguardano specifici atti
razionali. In particolare, entrambe le discipline vengono incluse in ciò
che, sulla base della tradizione, Tommaso chiama l’ars inventiva, in
quanto contrapposta all’ars iudicativa. Seguendo l’articolazione proposta da Tommaso, emerge con chiarezza la subordinazione della poetica
e della retorica alla logica, ma anche, di riflesso, la rivalutazione che
Tommaso compie di queste discipline. Modificando la divisione tradizionale, seguita ad esempio da Avicenna e Alfarabi, che collocava la retorica e la poetica a completamento dell’Organon, Tommaso preferisce
seguire Simplicio, Gundissalino e Averroè, collocando di conseguenza
la retorica e la poetica tra la topica e la sofistica. Così facendo, Tommaso riconosce al ragionamento retorico e poetico un grado, seppur
33
minimo, di razionalità e certezza conoscitiva. I procedimenti poetici
e retorici risultano, così, discorsivi sebbene non assertivi (a differenza
di quelli sillogistici) e incapaci di suscitare una credenza od opinione
stabile nell’uditore (a differenza di quelli topici), ma non per questo
puramente sofistici 24.
Accomunate per il comune procedere razionale e la comunque marginale scientificità, le due discipline sono distinte da Tommaso per il
grado di certezza i cui ragionamenti possono determinare. Tommaso
collega la retorica, in ossequio alla tradizione, al parlare correttamente
al fine della persuasione (la retorica non è quindi una disciplina primariamente morale né giurisprudenziale) 25 e stabilisce che essa perviene
a suscitare non più che una debole adesione, una sorta di diffidenza
(suspicio), nell’uditore, per quanto questi sia portato a inclinare più
verso una che non verso l’altra parte di un’alternativa contraddittoria 26.
La poetica, invece, può suscitare nell’uditore solo una certa valutazione
soggettiva (æstimatio) rispetto a una delle due parti della contraddizione, in virtù della sua rappresentazione, così come se si rappresenta un
cibo sotto forma di cosa riprovevole questa rappresentazione suscita
un senso di riprovazione nell’uomo 27. A differenza di una rappresentazione pittorica standard, quella poetica prescinde da un criterio stretto
di somiglianza. I poeti mirano alla rappresentazione in quanto tale,
rappresentano per il gusto di rappresentare, essendo il diletto della
rappresentazione – determinato dalla pratica di fare inferenze (collationes) dalla rappresentazione al rappresentato e viceversa – radicato nella
natura umana 28, e nel contempo svolgono, come i retori, una funzione
educativa ed etico-politica nella misura in cui inducono i fruitori delle
loro rappresentazioni a seguire la virtù e ciò che è decoroso e ad abbandonare il vizio e ciò che è turpe 29. Come aveva notato Averroè, il
linguaggio poetico non è assertivo ma immaginativo e rappresentativo 30,
quindi chi si trova di fronte a un enunciato poetico si limita a reagire
con una sorta di semplice valutazione soggettiva rispetto all’alternativa
posta dalla contraddizione 31.
Le precisazioni che Tommaso avanza sulla poetica devono essere
lette alla luce della sua esigenza di differenziare poesia e Sacra Scrittura. Tommaso sapeva, infatti, che le due discipline potevano apparire
simili non solo perché entrambe fanno uso di metafore e figure 32,
ma anche perché entrambe si occupano di oggetti in qualche misura
trascendenti l’esperienza. In base a questa somiglianza, qualcuno poteva essere portato ad attribuire al linguaggio poetico quel sovrasenso
spirituale (allegorico, morale, anagogico) tradizionalmente attribuito al
linguaggio scritturale 33.
Il modo in cui Tommaso differenzia le due discipline getta luce sullo statuto che Tommaso accorda alla poesia. Secondo Tommaso, l’uso
di metafore è il tratto distintivo del linguaggio poetico 34. Tuttavia non
vi è niente di illecito o irragionevole nel fatto che anche il linguaggio
34
scritturale faccia uso di similitudini e parabole 35. Entrambi i linguaggi,
infatti, si riferiscono a enti, eventi o stati emozionali che eccedono la
ragione e che non risultano perciò significabili in quanto tali. Da questo punto di vista, può essere concesso che poesia e Sacra Scrittura siano accomunate dall’impiego di un linguaggio segnatamente simbolico
(modus symbolicus) 36. Ma da ciò nessuno è tenuto a inferire che possa
essere accordato al linguaggio poetico anche un senso spirituale oltre
quello letterale. La ragione di questa limitazione è che nessuna rappresentazione poetica, così come nessuna rappresentazione scritturale, ha
in quanto tale la possibilità di andare oltre il significato letterale delle
parole che essa impiega, dal momento che, primo, le rappresentazioni linguistiche si servono di segni e che, secondo, i segni sono stati
scelti convenzionalmente e imposti per significare nient’altro che ciò
che significano. Ne consegue che in una rappresentazione poetica e
scritturale significato letterale e significato metaforico si subordinano
e, parzialmente, si sovrappongono. Le metafore si configurano come
similitudini che partendo da cose visibili conducono a cose invisibili,
secondo una certa corrispondenza di alcune, selezionate proprietà che
i due estremi della similitudine sono ritenuti condividere 37. Quanto al
senso letterale delle parole, perciò, Sacra Scrittura e poesia non possono diversificarsi. La Sacra Scrittura, tuttavia, si riferisce a cose che
a loro volta significano, mentre ciò non può accadere per la poesia. E
con senso spirituale si intende precisamente questo: la proprietà delle cose, come rispecchiate nelle parole, di significare altre cose 38. In
conclusione, linguaggio e stile possono talvolta coincidere, ma poesia
e Sacra Scrittura si distinguono con il variare dell’intenzione con cui
le parole sono impiegate. Per lo più, la poesia tende a riprodurre,
tramite le sue rappresentazioni linguistiche, cose meravigliose o rare,
incitando gli uomini alle virtù (sia intellettuali sia pratiche), la Sacra
Scrittura ovviamente fa uso di rappresentazioni per un fine escatologico e soteriologico 39.
Alcuni dei tratti dell’estetica tommasiana che abbiamo brevemente
richiamato sopra sono stati studiati, altri invece rimangono nell’ombra.
Mi sembra che ci sia ancora molto lavoro da fare sul versante della
ricostruzione delle teorie medievali della rappresentazione applicate al
campo pittorico e poetico, così come mancano adeguati approfondimenti sulle teorie medievali dei colori rispetto alla percettibilità sensoriale del colore e alla conseguente relazione del colore con il sentimento del bello 40. Credo che una via da seguire, e privilegiare, nella
ricostruzione delle riflessioni estetiche medievali possa essere quella di
reimpostare l’indagine storica sulla bellezza come ricerca filosofica sui
rapporti tra una rappresentazione, sia essa pittorica o poetica, il soggetto che la ha intenzionalmente espressa e l’oggetto cui la rappresentazione si riferisce. In quest’ottica, risulta interessante e filosoficamente
35
fruttuoso precisare i valori e gli stati cognitivi che un filosofo medievale
è disposto ad attribuire e associare alle rappresentazioni artistiche in
genere. Tommaso, ad esempio, riconosce al linguaggio pittorico e poetico una comune radice rappresentazionale e una comune capacità di
indurre nello spettatore-ascoltatore un sentimento di piacere o diletto,
attribuendo alla rappresentazione pittorica o poetica in particolare una
rappresentatività naturale che ne determina interamente, rispetto a un
dato codice linguistico, il contenuto e valore semantico. Ogni rappresentazione, infatti, è vista essenzialmente come un segno complesso,
composto di altri segni, capace di riferirsi di per sé a qualcos’altro,
indipendentemente dall’intenzione dell’artista 41. Rispetto tuttavia al
produttore o al fruitore dell’opera, la rappresentazione artistica si profila come un meccanismo tecnicamente elaborato di rappresentazione
della forma di un oggetto, di un evento o, in generale, di una qualsivoglia esperienza, rappresentazione che necessita per essere decodificata
di una chiave interpretativa più o meno immediata. Ciò che distingue
la rappresentazione per parole, in genere, da quella per immagini è
proprio l’immediatezza della decifrazione 42. Da un punto di vista cognitivo, la rappresentazione poetica, essenzialmente metaforica, introduce un fattore addizionale rispetto a quella pittorica, perché le rappresentazioni poetiche in quanto poetiche non si limitano a significare
le cose (spesso inesistenti) che sono ricavabili dal significato proprio
dei termini, quanto piuttosto altre cose con le quali le cose significate
dai termini stanno in un selezionato rapporto di similitudine 43. Poter
provvedere un trattamento unificato del linguaggio poetico e pittorico
in termini rappresentazionali potrebbe gettare nuova luce sul modo in
cui i maestri medievali hanno affrontato, nel caso, l’affascinante problema dell’intertraducibilità tra pittura e poesia.
1
Per un’introduzione all’estetica medievale, si vedano M. T. Fumagalli Beonio Brocchieri, L’estetica medievale, Bologna, Il Mulino, 2002 e, soprattutto, U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale, Milano, Bompiani, 1987, cui rimando per ulteriori riferimenti
bibliografici. Quanto alle risorse in rete, si può consultare la voce Estetica Medievale,
curata da G. C. Garfagnini, sul sito http://www.italicon.it, sezione “Filosofia”.
2
Su questo aspetto si può vedere M. Bettetini, Il lecito piacere della finzione artistica,
in M. Bettetini - F. ��������������������������
D. Paparella (a cura di), La felicità nel Medioevo, Louvain-La-Neuve,
Fédération Internationale des Instituts d’Études Médiévales, 2005, pp. 53-67.
3
Per una presentazione d’insieme dell’estetica di Tommaso d’Aquino, si vedano M.
de Wulf, Études historiques sur l’esthétique de St. Thomas d’Aquin, Louvain, Institut
Supérieur de Philosophie, 1896; F. J. Kovach, Die Ästhetik des Thomas von Aquin,
Berlin, De Gruyter, 1961; U. Eco, Il problema estetico in Tommaso d’Aquino, Milano,
Bompiani, 1970.
4 Cf. Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, i, 11, e II, 5. Per i passi di Agostino, cf. De musica, vi, 13, 38, e De civitate Dei, xxii, 19, 2. Cf. anche Epistulæ, 3, 4, e
Super Genesim ad litteram, iv, 3.
5 Cf. Scriptum super Sententias, i, d. 3, q. 2, a. 3, expositio textus: «Pulchritudo
36
consistit in duobus, scilicet in splendore, et partium proportione»; d. 31, q. 2, a. 1: «Ad
rationem autem pulchritudinis duo concurrunt, secundum Dionysium, scilicet consonantia et claritas… His duobus addit tertium Philosophus ubi dicit, quod pulchritudo
non est nisi in magno corpore». Cf. anche Summa Theologiæ Ia, q. 39, a. 8; iiaiiae, q.
145, a. 2; Super De divinis nominibus, c. 4, lec. 5; Sentencia libri Ethicorum, i, lec. 13;
Super Psalmos, 44, 2.
6 Sulla nozione di consonantia, si vedano Sentencia libri De anima, i, lec. 9; ii, lec.
18-19; Sentencia libri De sensu et sensato, i, lec. 17; Expositio libri Posteriorum, i, lec.
15; Super De div. nom., c. 4, lec. 5.
7 I due termini sono pressoché sinonimi in Tommaso (cf. e.g. Super Sent., iv, d.
44, q. 2, a. 4, qc. 2). Sul significato del termine splendor cf. Super Sent., ii, d. 13, q.
1, a. 3.
8 Cf. Quaestiones de veritate, q. 25, a. 1; Sent. De an., ii, lec. 22.
9 Sulle nozioni trascendenti in epoca medievale, si veda J. Aertsen, Medieval Philosophy and the Transcendentals: the Case of Thomas Aquinas, Leiden-New York-Köln,
Brill, 1996.
10 Cf. e.g. Sum. Theol., ia, q. 5, a. 4, ad 1.
11 Cf. Sum. ������
Theol., ia-iiae, q. 27, a. 1, ad 3.
12 Cf. Super Sent., iii, d. 26, q. 1, a. 3; iv, d. 48, q. 1, a. 4, qc. 3, ad 2; Qu. de ver.,
q. 26, a. 4, ad 7; Postilla super Psalmos, 8, 1; Sum. Theol., iaiiae, q. 32, a. 5; q. 41, a. 4
e ad 4; iiia, q. 15, a. 8; Sent. �����������������
De sensu et sens., ii, lec. 3.
13 Cf. Super De div. nom., c. 5, lec. 4.
14 Ibidem.
15 Si confrontino, ad esempio, Sum. ������
Theol., ia, q. 39, a. 8, e De 108 articulis, q. 1.
16 Sul valore rappresentativo delle immagini, si vedano Super Sent., i, d. 28, q. 2,
a. 1 ss.; Qu. de ver., qq. 2, a. 3; 4, a. 4, ad 2; 8, a. 5; 22, a. 14; 23, a. 7, ad 11; Sum.
Theol., ia, q. 93.
17 Per un’introduzione generale alla retorica e alla poetica nel Medioevo, si vedano
C. Marmo, Retorica e poetica, in L. Bianchi (a cura di), La filosofia nelle Università.
Secoli xiii-xiv, Firenze, La Nuova Italia, 1997, pp. 141-62, e G. Dahan-I. Rosier-Catach
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(éds.), La Rhétorique d’Aristote: traditions et commentaires de l’Antiquité au xviie siècle,
Vrin, Paris 1998, ai quali rinvio per ulteriori riferimenti bibliografici.
18 Non tutte le divisioni delle scienze includevano però la poetica tra le discipline
logiche. Per
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una panoramica, si veda G. Dahan, Les classifications du savoir aux xiie et
xiiie siècles, in L’enseignement philosophique 40/4 (1990), pp. 5-27.
19 Cf. De arte poetica, in Aristoteles Latinus, t. xxxiii, ed. L. Minio-Paluello, Leiden,
Brill, 1968, p. 41. Su
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retorica e poetica nella filosofia araba, si veda D. L. Black, Logic
and Aristotle’s Rhetoric and Poetics in Medieval Arabic Philosophy, Leiden, Brill,1990.
20 Entrambe sono state pubblicate in G. Dahan, Notes et textes sur la poétique au
Moyen Âge, in Archives d’Histoire Doctrinale et Litteraire du Moyen-Age 47 (1980),
pp. 172-93.
21 Cf. Expositio libri Posteriorum, i, 1 (proemium), in Opera Omnia, t. i* 2, ed. R.-A.
Gauthier, Roma-Paris, Commissio Leonina-Vrin, 1989, pp. 3-7, ll. 1-123.
22 Ivi, pp. 6-7, ll. 118-120. Si
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veda l’apparato delle fonti ad lineas.
23 Ivi�������������������������
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, p. 3, ll. 9-12 e 24-31.
24 Ivi, p. 3, ll. 9-12. Cf.
����������
anche Sent. Ethic., ix, lec. 7.
25 Sebbene il diritto, l’etica e la politica siano i suoi ambiti di applicazione più
naturali (cf. Sent. Ethic.,
������ i, lec. 3). Cf. Super Sent., iii, d. 33, q. 3, a. 1, qc. 4; Sum.
Theol., iiaiiae, q. 48.
26
Cf. Exp. Post., I, 1 (proemium), pp. 6-7, ll. 107-111.
27 Ivi, p. 7, ll. 111-118.
28 Cf. Sum. Theol., iaiiae, q. 32 a. 8; iiaiiae, q. 94, a. 4; Super Corinthios, c. 11, lec. 1;
Averroè, In Poetriam, in Aristoteles Latinus, t. xxxiii, pp. 44-45.
29 Cf. Exp. Post., i, 1 (proemium), p. 7, ll. 116-118; Super Timotheum, c. 4, lec. 2;
Expositio libri Peryermenias, i, lec. 7; Averroè, In Poetriam, pp. 43-44.
37
30
Cf. In Poetriam, p. 42. Si noti che la versione latina di Ermanno il Tedesco aveva
reso il termine arabo equivalente al greco mimesis con repraesentatio piuttosto che con
imitatio.
31
Sul rapporto tra aestimatio e suspicio. ���������
Cf. e.g. Qu. de ver., q. 26, a. 8, ad 3.
32 Cf. Sum. Theol.,
������ Ia, q. 1, a. 9, arg. 1; iiaiiae, q. 94, a. 1; Quodlibet vi�i, q. 6, a. 3,
arg. 2.
33 Cf. Super Meteora, ii, c. 1; Sent. �����
Phys., ii, lec. 2; Sent. Met., I, lec. 3-4.
34 Cf. Super Meteora, II, lec. 5; Sent. Pol., III, lec. 1; Super Iob, c. 3.
35 Cf. Sum. Theol., ia, q. 1, a. 9.
36 Cf. e.g. Super Sent., i, prol., q. 1, a. 5, ad 3; Sum. Theol., iaiiae, q. 101, a. 2, ad
2.
37 Cf. Super Sent., i, d. 34, q. 3, a. 2, ad 3; Qu. de ver., q. 7, a. 2; Super Iob, c. 2,
lec. 3; Sum. Theol., ia, q. 1, a. 9, ad 3; Super Galatos, c. 4, lec. 7; Quod. vii, q. 6, a. 3,
e a. 3, ad 2.
38 Cf. Sum. Theol., ia, q. 1, a. 10; Quodlibet vii, q. 6, a. 1; Super Galatos, c. 4, lec.
7. Non
�������������������������������������������������������������������������������������
mi pare che le osservazioni sul rapporto tra senso spirituale e sapere teologico
costituiscano una liquidazione di fatto dell’allegorismo universale tipico della cultura
medievale, come U. Eco assume (cf. Arte e bellezza, p. 97). Esse anzi ribadiscono l’allegorismo universale, precisando i livelli di significazione rispetto alle diverse forme di
linguaggio.
39 Cf. Sum. ������
Theol., ia, q. 1, a. 9, ad 1; iaiiae, q. 32, a. 8.
40 In quest’ottica, risulta molto interessante, per quanto poco studiato, il commento
di Tommaso a quei capitoli del De sensu et sensato dedicati al colore (i, lec. 6-8, e ii,
lec. 3).
41 Cf. Sum. Theol., iiaiiae, q. 110, a. 1, e Super Psalmos, 26,6.
42 Cf. e.g. Qu. de ver., q. 7, a. 1, ad 14.
43 Cf. Super Sent., i, d. 16, a. 1, a. 3, ad 3; Sum. ������
Theol., ia, q. 17, a. 2, ad 2.
38
De la poésie comme réponse à la nuit
L’union du dire et du voir
di Baldine Saint Girons
1. La poésie me semble d’abord et avant tout une réponse à l’expérience de la présence – un effort pour la soutenir, la célébrer et la
mémoriser – mais cette réponse est aussi admirable qu’éphémère et
périlleuse. Car, en interprétant la présence et en la restituant par des
mots, la poésie risque aussi de sacraliser la lettre et de faire oublier
le réel au profit de ce qu’Yves Bonnefoy appelle «un château de présence, d’immortalité, de retour» 1. Or, la poésie dont nous avons besoin aujourd’hui n’est plus une poésie qui s’évade dans une forteresse
de paroles et se mette à l’abri des dégradations du réel. La poésie
d’aujourd’hui, c’est-à-dire sans les dieux, affirme bien plutôt l’ici et
le maintenant avec leur âcre goût de mortalité. Elle célèbre d’autant
mieux la splendeur qu’elle en sait le miracle et l’absence de durée.
Baudelaire nous apparaît comme le poète de la modernité par excellence dans la mesure même où il cherche «à faire dire au poème
cet extérieur absolu, ce grand vent aux vitres de la parole, l’ici et le
maintenant qu’a sacralisés toute mort» 2. Et il lui est revenu de créer
un nouveau mythe, en donnant à «la passante» un être d’autant plus
inoubliable qu’il disparaît aussitôt, et en lançant une nouvelle muse,
«Modernité», mixte poignant de mode et d’éternité, d’éphémère et
d’intemporel.
La rue assourdissante autour de moi hurlait.
Longue, mince, en grand deuil, douleur majestueuse,
Une femme passa, d’une main fastueuse
Soulevant, balançant le feston et l’ourlet.
Agile et noble, avec sa jambe de statue.
Moi, je buvais, crispé comme un extravagant,
Dans son œil, ciel livide où germe l’ouragan,
La douceur qui fascine et le plaisir qui tue.
Un éclair… puis la nuit! – Fugitive beauté
Dont le regard m’a fait soudainement renaître,
Ne te verrai-je plus que dans l’éternité?
Ailleurs, bien loin d’ici! trop tard! jamais peut-être!
Car j’ignore où tu fuis, tu ne sais où je vais,
Ô toi que j’eusse aimée, ô toi qui le savais! 3.
39
Dans la poésie moderne, on rencontre moins des images que des
apparitions, des phantasiai. Il faut si possible reprendre on la traduction
de phantasia par apparition que propose Jackie Pigeaud chez Longin.
Car le sublime me semble de plus en plus un problème de vitesse: il
passe aux trois sens du mot: traverse des obstacles, apparaît fugitivement et se fait moins accepter qu’admettre. Chez Baudelaire, l’apparition surgit pour s’évanouir aussitôt et induire le sentiment de l’irréversible. Nous ressentons alors les dures rafales d’un réel qui impose sa loi;
et la poésie reprend nécessité et saveur, en s’écartant d’un esthétisme
qui serait hors du temps.
Il y a lieu de se moquer avec Benjamin Fondane des théoriciens du
plaisir et du divertissement. L’essentiel, c’est la puissance inouïe de la
poésie à l’état naissant:
Ouvrons les yeux: la poésie est un besoin et non une jouissance, un acte et non
un délassement; le poète affirme, la poésie est une affirmation de la réalité. Quand
nous écoutons une œuvre d’art, nous ne contemplons pas, ni ne jouissons, nous affirmons ce que tout le long de la journée nous avons nié honteusement: la pleine réalité
de nos actes, de notre espoir, de notre liberté, l’obscure certitude que l’existence a
un sens, un axe, un répondant 4.
Fondane dit admirablement le besoin et l’espoir; mais la poésie
est-elle capable d’y répondre sans nous bercer d’illusions nouvelles qui
rendront le réel encore plus gris? Ses affirmations ne sont-elles pas
des mensonges? Que la poésie ne soit pas innocente, qu’elle atteigne
la démesure, les mythes grecs l’attestent: Orphée est dépecé par les
bacchantes, Amphion succombe à la folie, Marsyas se fait écorcher
vif. Aux mythes de châtiment correspondent, en outre, des mythes
de naissance proprement dramatiques: l’art poétique doit sa naissance
à un malheur ou un viol. Syrinx ne devient roseau et instrument de
musique que pour échapper à l’étreinte physique de Pan qui invente
sa flûte en écoutant le végétal agité par les vents; Procné ne devient
rossignol qu’après avoir tenté de venger sa sœur Philomèle, violée et
privée de langue par Tirée. Le malheur ne guette pas seulement le
poète accompli: il rend parfois poète. Il n’est pas seulement rançon
de la poésie: il est sa condition de possibilité.
L’intitulé du présent colloque explicite bien le défi essentiel: dire
l’expérience, y réussir. Car cela signifie non pas nier le terrible, mais
saisir son lien à la vie; non pas céder au désenchantement, mais y voir
le corrélat de l’enchantement. «Ce n’est que ça», mais «c’est ça». On
pourrait retrouver par ce biais le problème que nous a légué Aristote.
La mimèsis dont il s’agit dans l’art n’est pas celle de l’essence, mais
d’un réel foncièrement vivant, toujours changeant, soumis à la mort,
dont il importe d’extraire ou d’inventer la poésie profonde. Dans l’art
et dans la poésie, il en va de notre rapport au réel de l’expérience.
Mais de la sorte, l’art et la poésie ne font pas que répondre au
40
réel en l’imitant: ils en répondent, s’en montrent responsables, se
portent garants de sa splendeur ou de ce que j’ai appelé «l’éclat de
l’insaisissable». Quoi de plus mystérieux que le rire, et surtout le rire
d’assentiment? Celui-ci est peut-être le germe poétique par excellence,
la forme embryonnaire de la reconnaissance et de la louange, car il
surgit à même la vie cosmique, comme pourrait témoigner le premier
sens du verbe grec gelaô: non pas «rire», mais «briller, resplendir».
Lorsque «toute la terre resplendit de l’éclat étincelant de l’airain» chez
Homère (Iliade xix, 362), lorsque «la demeure resplendit de l’éclat
des déesses» chez Hésiode (Théogonie, 40), lorsque «le ciel et la terre
resplendissent du parfum des fleurs» dans l’Hymne à Déméter, il s’agit
bien de «resplendir» et il n’y a pas de métaphore. Cela signifie que
le rire se trouve in statu nascendi dans l’étincellement cosmique ou,
peut-être même davantage, que le cosmos rit avant même que l’homme
ne rit. Gelaô peut ainsi, être rapproché de galênê, le calme de la mer
ensoleillée. Et le syngelasai, le rire avec, est d’abord à prendre dans ce
contexte: nous rions à la nature, au ciel, à la terre, à l’océan. La poésie,
tout entière, pourrait être contenue dans ce rire initial et ne faire que
développer le langage qui s’y trouve inclus in nuce.
Seulement, le dire poétique apparaît alors non seulement comme
une réponse au cosmos, mais comme un acte qui interprète sa présence
en s’en portant responsable. Ce n’est pas un simple geste, c’est un acte
et, même davantage, un façonnement d’œuvre. Cet acte et ce façonnement, je voudrais le comparer à ceux de la peinture. Car la peinture,
elle aussi, dit l’expérience, bien qu’en l’absence de mots. Si son travail
aboutit à montrer le monde autrement et à modifier, si peu que ce soit,
notre rapport au visible, la question demeure: le peintre regarde-t-il
pour peindre ou peint-il pour regarder? L’expérience qu’il dit est-elle
d’abord optique ou d’abord viscérale, sentie comme un spectacle ou
comme un rythme qui s’empare de lui? Fiedler ou Ervin Strauss ont
bien montré le rôle prééminent d’un sentir délivré de la perception et
Strauss a fait du «mouvement présentiel» une détermination qui relève
d’un mode acoustique (et non optique) de la spatialité. Mais encore
faut-il se garder réduire le sentir à une structure originaire: il faut réinjecter la technique dans les gestes, comme l’ont montré Marcel Mauss,
en étudiant les «techniques du corps», ses habitus fondés sur un apprentissage, ou Walter Benjamin, en fondant le mouvement expressif
sur un jeu langagier, ouvert sur la créativité. Le musicien, le danseur,
le peintre font des expériences dont il faut comprendre la technique
pour en ressentir pleinement la force.
Que fait maintenant le poème? Il ne représente pas plus un monde
pérenne et déjà connu que ne le fait le tableau; il ne se contente pas
de communiquer une pensée toute faite: il pense le monde autrement
et agit, si peu que ce soit, sur notre pensée. Qu’est-ce donc qui meut
le poète? Encore moins que le peintre, ce ne saurait être strictement
41
une vision: il s’agit plutôt d’un désir d’explorer avec des mots son rapport au monde, à autrui, à lui-même. Dire l’expérience, ce n’est alors
pas dire une expérience préexistante; c’est continuer à expérimenter.
La peinture et la poésie peuvent ainsi se présenter comme des façons
de penser en acte, dont le mode d’action reste peu clair et partiellement
imprévisible, alors même qu’il se fonde sur des techniques très précises. Telle est, me semble-t-il, la leçon que nous donne Longin: dans le
sublime, c’est grâce à la technique et à la capacité d’en faire oublier les
ressorts que la pensée conquiert sa puissance la plus haute. Et c’est à ce
moment-là qu’elle peut engendrer le choc, l’ekplexis poétique.
2. Si la poésie et la peinture répondent à l’énigme de la présence
et répondent d’elle, il me semble qu’elles s’adressent particulièrement
à la nuit et la prennent en charge. Il s’agit, en effet, dans chacun de
ces cas, d’une gestation lente, difficile et cachée, selon une technique
à la fois immémoriale et nouvellement raffinée. La nuit est gravide,
l’art est gravide.
Quand la poésie s’adresse à la nuit, elle se fait grosse non seulement de la parole, mais de la vision spécifique que suscite la nuit:
l’écoute se transforme en réponse, et le regard en invocation. Mieux, la
poésie accorde parole et regard; elle retrouve l’union profonde du dire
et du voir 5. Allocutaire privilégié et miroir en morceaux, la nuit est la
figure de cet Autre, auquel nous en appelons directement. Ni la nuit,
ni la poésie ne sont les symboles de l’Autre: elles assurent au contraire
la rencontre avec l’Autre, elles sont des véhicules de sa manifestation.
Par mimétisme avec la nuit, l’art se fait enceint; et ses fruits peuvent
alors apparaître comme des «morceaux de nuit».
La nuit peint et il y a donc des techniques de la nuit que la peinture de la nuit retrouve, voilà la découverte qui a donné son impulsion à mon dernier livre, Les Marges de la nuit. La nuit suscite l’envie
de la mettre en mots et en musique, pas seulement en tableau; mais
mots, musique et tableau, en amont de l’acte artistique, motivent le
désir. Car, comme nous sommes des êtres de langage, les mots et leur
musique interviennent toujours plus ou moins dans les sensations que
nous éprouvons.
Reste que les interdits auxquels se soumettent le poète et le peintre
sont différents: le premier fait comme s’il avait les yeux vides, le second comme s’il avait les lèvres coupées. L’un oublie qu’il est capable
de peindre et dessiner, l’autre qu’il sait s’exprimer oralement. Mettre
en rapport un texte littéraire et un tableau exige donc une grande prudence méthodologique. Le poète peut vouloir devenir un iconographe
(eikonographos); mais ce qu’il suggère par des mots à notre seule vue
intérieure n’est pas la même chose que ce que le peintre donne à notre
vue extérieure et intérieure. Et, inversement, le peintre peut vouloir
devenir un poète, mais ce qu’il suggère par les signifiants plastiques est
42
d’un autre ordre que ce que le poète fait entendre par des signifiants
verbaux. Léonard de Vinci ironisait déjà:
Appelles-tu la peinture “poésie muette”», le peintre peut qualifier de “peinture
aveugle” l’art du poète 6.
De fait, il est significatif qu’on reproche rarement à la poésie son
aveuglement, alors qu’on tend à faire du mutisme une spécificité au
fond bien contestable de la peinture. Or, de même qu’il y a une vision
inhérente aux mots (un voir propre à la lexis qui conduisait Aristote
à considérer la tragédie d’abord comme un texte lu et à réduire donc
le rôle de la mise en scène), il y a un type de discours produit par la
seule peinture, dans lequel les directions de l’imagination, ses points
d’appui, d’arrêt, de rebroussement sont bien spécifiques. C’est donc
la peinture, mais d’abord la photographie, que nous allons d’abord
privilégier, pour aller à la rencontre de la nuit cosmique, dans l’espace
hypétral. Entre visible et invisible, nous traquerons le désir en cherchant à comprendre comment il se hisse à une expression qui, pour
n’être pas verbale, n’en est pas moins rigoureuse.
Soit une photographie de Sugimoto: Bass strait, Table cape, 1997.
Les marges du ciel s’y agrandissent sans fin, vérifiant la formule de
Claudel: «Où le soleil se cache, éclate le ciel» 7. Sugimoto a expliqué qu’il avait cherché toute sa vie à répondre à la question suivante:
«Peut-on voir, aujourd’hui, un paysage comme un homme primitif
43
le faisait?» 8. Il prit pour medium la photographie, parce qu’elle lui
permettait une vision calme et prolongée, rarement possible dans la
vie ordinaire. Et il privilégia le grand angle, augmenta les temps de
pause et déclencha l’obturateur le plus tard possible. Tel est le cas
ici. Un ciel d’hiver, complètement noir, occupe la moitié du tableau ;
mais la lumière, issue d’une source invisible, frémit sur l’eau et prend
un éclat d’une douceur envoûtante. La nuit se mire et se contracte
sans rien perdre de son infinitude. Faisant preuve d’un dépouillement
accordé à la sensibilité moderne, l’art de Sugimoto utilise les leçons
de la gravure à la manière noire, dont la photographie et le cinéma se
sont réclamés à leurs débuts: un art fondé sur le contraste ou plutôt
sur la collision entre noir et blanc. Aucun des deux protagonistes ne
triomphe durablement. La mise en valeur est réciproque et l’échange
des rôles toujours possible.
Soit maintenant un tableau du Greco qui célèbre non la nuit cosmique, mais ce que j’appellerai “le mystère du feu” (Allégorie, vers
1585) 9.
Les commentateurs prirent longtemps à la lettre la formule d’un inventaire du xviie siècle, dans laquelle on interprétait le personnage
central comme une femme. Or, celui-ci est en fait la reprise du Garçon
allumant une bougie, peint à Rome dix bonnes années plus tôt 10, dans
le cercle du cardinal Farnese et sous l’inspiration possible de Fulvio
Orsini. Le défi était de reproduire l’original antique perdu d’Antiphile,
évoqué par Pline l’Ancien.
44
Antiphile est renommé pour un Jeune Garçon soufflant sur un feu, tandis que
le reflet éclaire la maison, d’ailleurs fort belle, ainsi que le visage de l’enfant luimême 11.
Bassano peignit à la même époque un jeune garçon attisant la flamme, mais vu de profil et placé dans un tableau religieux. Le Greco
semble être le premier à l’avoir présenté seul et dans une position
frontale. Puis il reprit cette figure originale et l’intégra dans une toile
plus grande. Mais pourquoi l’avoir accompagné d’un singe (avec ou
sans chaînes, selon les versions) et d’un fou? Les commentateurs voulurent trouver une source littéraire à la composition et y cherchèrent
l’application de vieux proverbes, tournant autour de l’idée qu’attiser
la braise, c’est provoquer le diable. On peut cependant penser qu’il
s’agit d’une invention personnelle du peintre, comme David Davies l’a
d’ailleurs suggéré. Essayons donc de retrouver le mouvement d’invention du Greco, qui le fait se tourner vers la nuit.
Le singe représente traditionnellement à la fois l’animalité, le mimétisme social et, depuis Titien, le mimétisme pictural (ars simia Naturæ).
Le fou, lui, est peut-être le maître fantasque du singe, mais, en tout
cas, un être inadapté à la vie prétendue-normale. Entre l’homme et la
bête, mais aussi, peut-être, entre deux âges de la vie, le jeune garçon
allume sa bougie à un charbon incandescent. Voilà qui signifie d’abord
qu’il transmet le flamme d’un objet à un autre. Pourquoi chercher
des symboles partout? Avant de représenter la luxure, le feu est le
feu tout simplement. Unissant leurs regards sur le même objet, nos
trois personnages ont, certes, l’air de conspirateurs; mais ils n’en ont
que l’air; car ce qu’ils célèbrent est l’action mystérieuse du feu qui se
communique à son autre dans une nuit immémoriale. L’élémentaire
oublié, ou plutôt l’élémental, fait ici retour.
Troisième exemple, non plus la nuit cosmique, ni le mystère du feu,
mais la puissance du rêve, deviné du dehors: Le Songe de Constantin
de Piero della Francesca dans le cycle de la légende de la vraie Croix
d’Arezzo (1452-1466). Il me semble que cette fresque émeut par l’introduction d’un déséquilibre rarement analysé. On dit généralement que
le rêve de l’empereur reste imperceptible aux assistants; mais ce n’est
pas exact: un événement se produit qui propage ses ondes de choc. Et
nous en avons trois indices: le soldat de droite brandit sa masse d’armes,
comme pris d’inquiétude; le serviteur, vêtu de blanc, se réveille subitement, le coude encore affalé sur la couche impériale, et lève un regard
ennuyé et hagard vers le soldat de gauche; celui-ci, tenant fermement sa
lance, parallèle au mât et pointée tel un index vers l’ange, surgit dans
un total contre-jour – peut-être le premier contre-jour de l’histoire de la
peinture et certainement le plus notoire. L’état d’alerte des soldats et du
serviteur, soudain éclaboussés de lumière, suppose la prise de conscience
au moins partielle d’un changement de situation: que se passe-t-il ?
45
Endormi, tout juste réveillé, sur le qui-vive, vigile à son poste, les
quatre personnages présentent la série complète des états de conscience. La lumière surnaturelle qui provient de l’ange blondit le casque et
le haut de l’armure du soldat à la lance, fait saillir l’épaule du serviteur
et argente sa tunique blanche, éclaire la banquette, rosit la literie, et
va se nicher jusque sous le casque rond du soldat de droite. Bien sûr,
Piero est un maître de la perspective, mais ce qui le rend inimitable est
son habileté à créer un espace intime qu’il met en mouvement par la
«force agissante et divinisée» de la lumière. Grâce à la nuit, l’énigme
de l’événement se redouble et l’illumination pictoriale donne à voir
davantage même que le rêve, le ressort du rêve: ce qui se joue dans le
lieu secret où se produit l’illumination de l’âme.
3. La peinture parle, la poésie peint. L’art n’est pas seulement infu46
sion, mais effusion, au sens où saint Paul écrivait aux Corinthiens «Si
nous avons été hors de sens, c’était pour Dieu; si nous sommes raisonnables, c’est pour vous» 12 et saint Bernard: «Ce qui se passe entre
Dieu et moi, je puis l’expérimenter, mais non l’exprimer; avec vous, au
contraire, je tâche de parlez de façon que vous compreniez» 13. Mais
le génie de l’art est de nouer les temps de l’infusion et de l’effusion.
D’une part, la sensation est déjà pétrie de langage; elle est interprétative et inventive, et, d’autre part, l’œuvre ne vise pas d’abord à communiquer: elle tend d’abord à traduire, à célébrer, à “dire” dans un
nouveau medium ce qui se noue de fondamental dans le rapport à
l’Autre. Cet Autre n’est pas un simple mixte de visible d’invisible, de
dicible et d’indicible: il est le sans-fond, inlassablement fuyant, et il se
dédouble entre ce qui est tourné vers nous et ce «qui n’est pas tourné
vers nous» (Du Bouchet), ce qui se donne et ce qui se réserve.
La Nuit est la figure privilégiée de l’Autre, parce que toujours en
partance et toujours double: «nuit» singulière et nuit immémoriale.
«Cette immense nuit, semblable au vieux Chaos», qu’évoque Baudelaire 14, nous projette au lieu où le temps s’abolit. «ô Nuit, tu es la
nuit» 15: Dieu réaffirme chez Péguy l’unité et la dualité de la nuit: la
Nuit majuscule et intemporelle, «réserve» primordiale et fondamentale
de l’être, manifeste son énergie créatrice dans la succession des nuits.
Aussi bien, si chaque nuit se devance elle-même dans l’opacité de sa
préhistoire, nul Fiat nox ne saurait rendre compte de l’épaisseur de
l’obscurité dans sa radicale précession. Mais, dans l’impossibilité de
vouloir l’advenue de la nuit (Fiat nox), nous pouvons du moins souhaiter notre fusion avec elle. «Ah! fussé-je nuit!», tel est le vœu que
nous nous mettons à formuler avec le Zarathoustra de Nietzsche.
Mais dire la nuit, dire l’Autre, c’est toujours traduire. Comme l’a
montré Emilio Mattioli, la traduction occupe une position centrale,
dans la mesure où elle oblige à penser non seulement le mouvement
permanent du langage (la Sprachbewegung de Friedmar Apel), mais l’efficience d’une «démonstration» qui ne passe pas seulement par les idées
claires et distinctes, mais par le rythme et la prosodie (Meschonnic,
Poétique de la pensée, le latin de Spinoza) et par des techniques de visualisation qui imposent la présence au-delà des simples apparences.
Dans une formule célèbre, Valéry définissait la poésie par une «hésitation entre le sens et le son». Mais cette hésitation se situe aussi
entre vison et voyance; ainsi pourrait-on, me semble-t-il, interpréter
le poème Obsession de Baudelaire. Une impatience secoue le poète
devant le bavardage des étoiles: la nuit n’y mime-t-elle pas le jour, ses
mots affublés de modes d’emploi et ses regards soupeseurs d’infime?
Ne devons-nous pas invectiver cette nuit qui nous prive de la vraie
nuit, de la Nuit immense et unique, ouvrant mystérieusement l’espace
par un mouvement qui précède toute reconnaissance et toute nomination?
47
Comme tu me plairais, ô nuit! sans ces étoiles
dont la lumière parle un langage connu!
car je cherche le vide, et le noir, et le nu! 16.
L’homme moderne s’est fatigué du sublime de la nuit étoilée, dont la
contemplation avait longtemps semblé destinée, selon la célèbre formule
de kant, à remplir les cœurs «d’une admiration et d’une vénération
toujours nouvelles et toujours croissantes» 17. La modernité se soucie
peu des astres à la brillance ponctuelle. Elle s’émeut, au contraire, d’un
regard nocturne qui rejette les œillères de la lumière physique et se moque des lignes de démarcation préconçues. Il lui faut arracher l’horizon
à son sens étymologique et traditionnel de limite pour lui restituer une
dimension fabuleuse 18 à la charnière du dedans et du dehors, dans
l’inquiètement de l’invu. «Que les étoiles soient les yeux mêmes de
la nuit est traditionnel, mais la poésie moderne de la nuit commence
en rompant avec ce regard-là, en n’en voulant plus», écrit Jean-Louis
Chrétien dans L’antiphonaire de la nuit 19.
«Le vide, et le noir, et le nu» seraient-ils alors ces éléments dans
lesquels nous aspirerions à retrouver les conditions de notre surgissement et amorcerions un retour à l’origine? Baudelaire désigne en tout
cas comme objets de sa quête les trois sources successives d’angoisse
du nouveau-né: le vide qui entraîne une chute sans fin, le noir qui
déjoue toute capacité d’anticipation et le nu qui prive des moyens élémentaires de défense. Pourquoi une quête si négative? Sans le retour
au vide, au noir et au nu, point d’advenue possible du sublime. Mais si
l’on accepte l’épreuve, il arrive que la vacuité réussisse à se peupler de
formes, que l’obscurité finisse par déployer ses toiles, et qu’un peuple
d’ombres «aux regards familiers» émerge de la prunelle dénudée du
poète:
Mais les ténèbres sont elles-mêmes des toiles
Où vivent, jaillissant de mon œil par milliers,
des êtres disparus aux regards familiers! 20.
Invoquant la Nuit, «maussade hôtesse», le poète aime, en effet, se
comparer à un peintre, obligé de trouver ses couleurs sur un fond qui
les nie. Mais, force est de le constater, c’est à la nuit immémoriale et
infamilière que Baudelaire s’adresse contre la nuit éclairée, domestiquée et amadouée.
4. J’en viens rapidement à ma conclusion, en vous priant d’excuser le
caractère un peu brouillon de cet exposé. Qu’ai-je voulu démontrer?
1) Qu’il y a un péché de la poésie, lorsque celle-ci se détourne de
l’ici-maintenant pour croire au «château de présence, d’immortalité,
de retour» que bâtissent les mots.
48
2) Que la poésie qui s’adresse à la nuit accorde singulièrement parole et regard, invocation et évocation.
3) Que la poésie est, comme la peinture, un moyen de voir, et qu’elle n’est pas plus aveugle que la peinture n’est muette: la poésie déploie
un autre pouvoir de la vision, la voyance intérieure, comme la peinture
déploie un autre pouvoir du langage, l’expressivité plastique.
4) Que la poésie, enfin, est traduction, mais traduction sans original, traduction d’un sans-fond en perpétuel mouvement: elle suppose
donc un dédoublement interne, entre ce qui d’elle se révèle et ce qui,
en elle, subsiste: l’œuvre.
Par tous ces traits, la poésie me semble en affinité profonde avec
la nuit, dont j’ai essayé dans mon dernier livre, Les Marges de la nuit,
de définir l’opération à l’aide de cinq axiomes.
1) La nuit ne fait pas de nous des aveugles. La nuit n’est pas les
ténèbres et parler de nuit noire n’a rien de pléonastique, puisque celleci n’est qu’une espèce parmi d’autres du genre «nuit». Le propre de
la nuit est de faire jaillir la lumière avec une intensité accrue sur un
fond noir qui absorbe les rayonnements et n’en réfléchit aucun. Elle
ouvre une vision marginale, invente un chromatisme inédit et favorise,
par les rêves et les fantasmes, une véritable «voyance» intérieure et
imaginative.
2) La nuit n’est pas l’inverse contradictoire du jour. La nuit et le
jour ne s’opposent pas comme de simples entités logiques, l’une excluant l’autre selon le principe de contradiction: ce sont des puissances
réelles en perpétuelle rivalité, se soustrayant, mais le plus souvent se
composant de diverses manières. Non contente de modifier les conditions d’exercice de notre vision, la nuit pénètre à l’intérieur de nous
et nous fait ainsi tressaillir et vibrer de concert avec elle.
3) Elle rend davantage sensible les résonances. Êtres et choses ne
se réduisent plus à leurs apparences, mais prennent une vie propre,
mêlant leurs souffles et échangeant leurs énergies. Les images et les
sons s’appellent, se répondent et s’unissent
4) La nuit n’occupe pas une position anecdotique dans la peinture,
mais renverse l’idée du «tableau» et rapatrie ce qui est localement vu
dans l’immensité qui l’englobe. Une autre histoire de la peinture est
possible à partir d’elle : une histoire délivrée du souci premier de la
figurativité et de la perspective.
5) La nuit nous rend spontanément métaphysiciens en s’imposant
paradoxalement à la fois comme principe de réalité et comme principe
de fiction: présence tactile qui nous pénètre et présence fantastique qui
déploie songes et illusions. Pourvoyeuse d’espaces, la nuit se déplace
entre les extrêmes du ciel et des enfers, du perceptible et de l’imperceptible. Accepter alors de nous y perdre et d’aller à sa rencontre, c’est
aussi tenter d’assumer notre destinée, individuelle et collective.
Telle me semble la poésie: elle nous éclaire autrement que par des
49
idées claires et distinctes, elle n’est pas la simple absence du discours
rationnel ou du discours courant, elle multiplie les résonances, elle
comprend la nécessité du dessaisissement et, enfin, elle redonne aux
questions métaphysiques leur radicalité, en imposant une méthodologie
d’un type original qui passe par la rencontre de l’Autre, le changement
de coordonnées, l’assomption du risque de se perdre.
1 Y. Bonnefoy, L’acte et le lieu de la poésie dans L’Improbable et autres essais, Mercure de France, 1980, Gallimard, Folio essais, 1992, p. 107.
2 Ivi, p. 116.
3 Les Fleurs du mal, xciii, œuvres complètes, éd. Y.-G Le Dantec, revue par C.
Pichois, Paris, Gallimard, 1961, p. 88.
4 B. Fondane, Faux traité d’esthétique, 1938, rééd. Paris, Méditerranée, 1998.
5 J.-L. Chrétien, L’antiphonaire de la nuit, Paris, L’Herne, Méandres, 1989, p. 23.
6 Léonard de Vinci, Les carnets, ii, trad. Louise Servicen, Paris, Gallimard, 1987,
chap. xxviii, p. 226.
7 P. Claudel, Cantique de la rose dans œuvre poétique, Paris, Gallimard, 1967, p.
370.
8 K. Brougher et D. Elliott, Hiroshi Sugimoto, Catalogue de l’exposition de Tokyo
et Washington D.C., 2006, p. 109.
9 Greco (1541-1614), Allégorie, vers 1585, Edimbourg, Galerie Nationale d’Ecosse.
Il en existe deux versions, l’une à Naples, l’autre en Floride, exposées à Edimbourg en
1989. Voir le catalogue El Greco, Mystery and illumination, dir. David Davies, Edimbourg, 1989.
10 Voir E. Harris, “Spanish paintings from Morales to Goya in the National Gallery
of Scotaland”, Burlington Magazine, xliii, 1951, p. 313.
11 Pline, Histoire naturelle, xxxv, 40, Paris, Les Belles Lettres, 1985, p. 119.
12 Paul, II Epitre aux Corinthiens, v, 13.
13 Sermon sur le Cantique des cantiques, 85, 14.
14
Ch. Baudelaire, De profundis clamavi, Les Fleurs du mal, cit., p. 31.
15
Ch. Péguy, Porche du mystère de la deuxième vertu, Œuvres poétiques complètes,
introd. de François Porché, Paris, Gallimard, 1957.
16
Ch. Baudelaire, Les Fleurs du mal, lxxix, Obsession, cit., p. 71.
17
Critique de la raison pratique, début de la conclusion.
18
Voir M. Collot, L’Horizon fabuleux, Paris, José Corti, 1988.
19
L’antiphonaire de la nuit, Paris, éditions de l’Herne, Méandres, 1989, p. 55.
20
Ch. Baudelaire, Les Fleurs du mal, lxxix, Obsession, cit., p. 71.
50
«Ricostruire l’esperienza stessa della genialità»
Il problema del genio in Joseph Louis Segond
di Fabio Rossi
Il concetto di genio è stato anche in Francia, con quello di gusto,
uno dei concetti fondatori dell’estetica moderna, nel xviii secolo, e
rimane, malgrado alcune vicissitudini che lo hanno affinato e messo in
relazione con determinati fatti sia della storia 1 che della psicologia 2,
uno dei concetti maggiori dell’estetica francese contemporanea. Se,
come ripetutamente sostiene Annie Becq nella sua eccellente Genèse
de l’esthétique française moderne 1680-1814, è possibile individuare
nella «costituzione della nozione di soggetto personale creatore», di
«soggetto geniale», «la condizione ideologica essenziale» all’emergenza
dell’estetica moderna 3 e, pertanto, definire legittimamente quest’ultima
come «estetica moderna del genio creatore» 4, l’importanza che il concetto di genio conserva nell’ambito dell’estetica francese, soprattutto
tra la seconda metà del xix secolo e la prima del xx, è esemplarmente
documentata dal nutrito elenco di pubblicazioni ad esso esplicitamente
dedicate 5.
Tra coloro che, nella prima metà del Novecento, hanno rivolto la
loro attenzione al tema del genio va certamente ricordato Joseph Louis
Segond. Questo tema, infatti, non solo è presente dall’inizio alla fine
della sua «estetica del sentimento» 6, ma ne diventa, per così dire, il
centro di interesse principale nell’opera Le problème du génie, nella
quale egli si propone di «ricostruire l’esperienza stessa della genialità» 7 e di «elucidare l’enigma del genio, limitandosi a restare sul piano
psicologico, [ed] evitando con scrupolo ogni esegesi trascendente del
problema» 8. Ma poiché, come già abbiamo evidenziato altrove, richiamando l’attenzione su tre delle tematiche più significative del pensiero
di Segond, la figura e l’opera di questo filosofo sono state pressoché
ignorate in Italia e, forse, troppo rapidamente dimenticate in Francia 9,
in questa sede, vorremmo sinteticamente presentare gli obiettivi e i
contenuti essenziali dell’opera summenzionata.
1. Gli obiettivi – Sono ripetutamente esplicitati da Segond nel corso della sua opera 10 e, in particolare, nel primo capitolo, L’énigme
du génie. Movendo dalla constatazione che «genio», «geniale», sono
i termini inconsueti con i quali abitualmente «colui che interroga la
51
propria esperienza in maniera ingenua» 11 esprime esattamente «la qualità nuova» della propria sorpresa e della propria scoperta di fronte
a certe opere e a certi atti che gli appaiono al di là delle sue forze e
delle sue attese e che attestano la presenza in colui che ne è l’autore
di una forza e di una potenza produttrici incomparabili con ciò che
egli è e può fare, Segond, nella convinzione che caratteristiche quali la
«diversità inconciliabile e incomprensibile», la «superiorità incomparabile», la rarità e la straordinarietà con le quali ci si rappresenta ciò che
è considerato geniale «siano insufficienti forse per caratterizzarlo senza
alcuna confusione possibile» 12, poiché, a suo giudizio, diversamente da
quello che sembra suggerire «l’impressione diretta e ingenua», l’opera
e l’atto geniali realizzano al di fuori di colui che li riconosce «l’analogo
di ciò che sarebbe lui stesso se avesse la potenza d’esserlo» 13 o «il suo
proprio ideale» 14, si pone, da «analista», il problema del genio, vale
a dire il problema di render conto in termini intelligibili «della possibilità di qualcosa che sia analogo alla nostra potenza personale e che,
malgrado questa analogia fondamentale, resti senza alcuna proporzione
con la nostra potenza» 15.
Cercando di rendere intelligibili l’opera e l’atto del genio, Segond
si propone, in particolare, di confutare e respingere sia «una riduzione
intellettualistica del genio», vale a dire la spiegazione del «razionalismo intransigente» che riduce «l’opera che chiamiamo geniale […]
alla misura stessa dello spirito umano» 16, sia «l’attitudine sentimentale
nei confronti del genio» 17, che, riservando un regno inaccessibile alla
superiorità del genio, si risolve in «una professione di misticismo» 18.
2. L’ambito e i gradi del genio – Poiché la riduzione della cosiddetta
opera geniale a un semplice meccanismo intellettuale non è egualmente
verosimile per tutte le produzioni dello spirito e soprattutto poiché la
nozione del genio definita in precedenza «sembra limitare l’ambito di
questa potenza alle creazioni umane la cui inaccessibilità si impone
al nostro sguardo con evidenza» 19, Segond, nel secondo capitolo, Le
domaine du génie, cerca di mostrare la presenza del genio «in tutti gli
ordini del sentimento e del pensiero».
Confutando il rifiuto di Kant e di Schopenhauer di riconoscere l’esistenza del genio nell’ordine della scienza, della tecnica, della filosofia e
la loro intenzione di «riservare il nome di genio a ciò che resta strettamente inimitabile per i discepoli, poiché l’avvento e l’origine non ne
possono essere scomposti» 20, e, in questa prospettiva, di riconoscerne
«l’esistenza e l’incondizionatezza fondamentale» soltanto nell’ambito
dell’arte, Segond cerca di mostrare che «questo giudizio di Kant sembra contrario all’esperienza storica» 21.
Pur ammettendo infatti, con Kant, che, se le tecniche speciali delle
arti sono trasmissibili e, proprio per questo, passibili di progresso e di
spiegazione razionale, «la potenza di creazione, la realtà incontestabile
52
e il ruolo originale del genio» sono non trasmissibili e irriducibili,
Segond non solo fa propria la tesi di Marcel Proust che, per quanto
concerne l’essenza e non i mezzi dell’invenzione artistica, sia indispensabile «riconoscere […] l’equivalenza del genio a se stesso» e con ciò
«“ritrovare”, quale che sia l’epoca e la forma della sua incarnazione
artistica, l’unità concreta del “tempo” in una sorta di eterno» 22, ma sostiene la validità di questa concezione proustiana tanto nell’ordine della
sensibilità religiosa 23 quanto in quello dell’eroismo 24, tanto nell’ambito
sentimentale (l’arte, il fervore religioso, l’eroismo) quanto nell’ambito, apparentemente opposto, dell’intelligenza (la scienza, la tecnica, la
filosofia), il quale, conseguentemente, lungi dal meritare l’ostracismo
che ne bandiva il genio è veramente l’ordine universale 25.
Alla dimostrazione che in tutti gli ordini del sentimento e del pensiero il genio si rivela come «una sorta di assoluto spirituale» 26, «inimitabile» nel suo atto creatore e, «dovunque, egualmente distante dalla
nostra esigenza di invenzione, dovunque eguale a sé» 27, Segond, nel
terzo capitolo, Les degrés du génie, fa seguire l’opportuna precisazione
che la sua adesione alla tesi proustiana di una «equivalenza dei tempi
in una sorta di “eterno” del genio» non vuole in alcun modo significare che tutte le creazioni geniali debbano essere considerate equivalenti
né che i loro creatori debbano essere situati tutti «alla medesima altezza infinita in rapporto alla nostra umiltà» 28. Considerando infatti i
diversi ordini in cui si rivela la genialità dei creatori, Segond sottolinea
non solo come, grazie al nostro sentimento che valuta per finezza tanto
le opere e gli atti quanto i loro autori, in ciascuno di questi ordini si
stabilisca una gerarchia delle espressioni geniali, ma, ulteriormente,
come «ciascuno di questi creatori o quasi tutti, per quanto resti sempre
situato in alto, ci appaia come ineguale a se stesso nella sua opera o
nel suo atto» 29, cosicché, «dovunque, ciò che avevamo considerato
come un assoluto, sempre eguale a se stesso, si rivela a noi nella sua
innegabile relatività» 30.
3. Genio, talento, identificazione del genio, ammirazione, gusto
– «L’esperienza sincera» dell’ineguaglianza di ogni genio agli altri e a
se stesso induce Segond ad incentrare la propria attenzione successivamente sui problemi del rapporto tra genio e talento, dell’identificazione
del genio, del rapporto tra il genio e colui che lo riconosce, tra genio
e ammirazione.
Se, per quanto concerne il primo problema, egli, pur distinguendo
il genio dal talento, respinge la tesi di coloro che li oppongono per
affermare la loro analogia, la loro assimilazione, e l’esistenza di un
«passaggio continuo» dal genio al talento 31; relativamente al secondo,
sostiene la tesi della «presenza latente», «della frequenza e perfino
dell’onnipresenza del genio creatore» 32. Pur riconoscendo infatti che
la genialità, anche quella per così dire d’occasione e quasi miracolosa,
53
è sempre rivelazione della potenza d’invenzione e dell’«originalità radicale di colui in cui l’ammiriamo», egli, accogliendo ancora una volta
«una verità che Marcel Proust ha visto bene», ravvisa nella genialità la
presenza di una duplice rivelazione: quella di una visione o di un’azione virtualmente «possibili al nostro desiderio di compimento», ma, al
tempo stesso, quella dell’impossibilità, per la nostra potenza chiusa in
se stessa, dell’«attualizzazione totale di questo compimento virtuale,
a causa dell’originalità, foss’anche quella di un istante, di colui che
realizza questa visione o quest’azione e che ce ne rivela così l’essere e
il valore incomparabili». In questo senso, per Segond, «la genialità è
dovunque […] sempre identica a sé per il carattere che la distingue e
che sembra contraddittorio: l’inaccessibilità nell’analogia» 33.
Da queste convinzioni scaturisce la definizione segondiana sia dell’ammirazione che del gusto: la prima, lungi dall’essere considerata
semplicemente come «un’attitudine recettiva nei confronti del genio»,
è intesa come la «forma sensibile della genialità dell’ammiratore» 34;
«il gusto, in ciò che ha di veramente positivo», è ricondotto alla capacità diversa che ciascuno può avere di attualizzare «la propria potenza
idealizzata che ciascuno ammira» 35.
4. Il problema della spiegazione del genio – Dopo aver caratterizzato
il fenomeno del genio (capitolo i), averne situato l’apparizione in ogni
dominio (capitolo ii) e averne scaglionato le forme secondo la loro
relatività (capitolo iii), Segond, nel capitolo quarto, Physiologie du génie, rivolge la propria attenzione «al problema […] della spiegazione
del genio» 36. E poiché «spiegarlo significa certamente ridurlo ai suoi
elementi, se la cosa è possibile», egli, incentrata la sua attenzione in
particolare su alcune individualità geniali determinate e ragguardevoli, prende in considerazione successivamente le diverse condizioni di
possibilità di una spiegazione del genio.
Individuate due prime condizioni importanti, ma ancora insufficienti, non decisive, nell’ereditarietà o nelle influenze ataviche e nell’«impregnazione embrionale» o nell’influenza della vita intra-uterina,
Segond sottolinea l’importanza rilevante che nella spiegazione della
genialità assume la conoscenza della «cenestesi», vale a dire della «coscienza attuale, oscura del resto, che l’individuo geniale acquisisce sia
della sua condizione fisiologica sia delle modificazioni di questa condizione». Grazie a tale conoscenza, infatti, e all’approfondimento che
essa implica ulteriormente dei rapporti tra genio e nevrosi, genio e
psicanalisi, Segond ritiene non solo di poter sostenere che, contrariamente a ciò che farebbero credere le abituali ricerche sull’ereditarietà, il genio non è semplicemente «una potenza del cervello» ma una
«potenza del corpo», ma che, «forza di creazione spirituale» 37, esso
debba incarnarsi non solo nel corpo ma anche nelle tare del corpo e
nel sentimento che le riflette, sì da mostrasi come «il sentimento, co54
sciente o no, diretto o “sublimato”, delle “tare” che la sua originalità
determina e trasfigura» 38.
A questa «spiegazione parziale» del genio che ne riconduce l’«energia
autonoma e irriducibile alla potenza stessa, del tutto singolare, dell’individuo» 39, Segond, nel capitolo quinto, Génie et hazard, fa seguire la
considerazione del rapporto tra genio e caso, genio e circostanze fortuite. Movendo dalla constatazione che, in tutte le sue manifestazioni,
«il genio, potenza di cambiamento e di progresso, ci si manifesta come
invenzione reale», la quale, in tutti gli ordini, «significa […] l’incontro
fecondo delle idee e la loro combinazione originale» 40, Segond si chiede
se tale incontro possa essere considerato, come sostiene Paul Valéry nel
Cahier B o nelle strofe dell’Aurore 41, «come semplice caso, nel quale
nessuna potenza che fosse veramente originale e che si potesse ritenere
misteriosa nel suo “miracolo”, giocherebbe il ruolo essenziale», o, in
altri termini, se «il puro caso, e non la potenza misteriosa dello spirito
che vigila», possa essere ritenuto «il signore dell’arte, qualunque essa
sia, e soprattutto della grande arte» 42.
Cercando di evidenziare ciò che «è implicato veramente in questa
esegesi del tutto razionalistica della genialità» 43, tentata da Valéry, e
della quale «il Leonardo che egli ha fabbricato, sdegnoso quale si mostra della storia e delle circostanze, è come l’immagine sia nell’Introduction à la méthode sia nello studio recente (e senza alcuna palinodia) su
Léonard et les philosophes» 44, Segond, pur riconoscendo taluni aspetti
positivi di questa «spiegazione intellettualistica (o che vuole esserlo)»
del genio, rifiuta con decisione «l’esito di questo sforzo analitico» 45,
che coincide essenzialmente con «l’ eliminazione» del «genio stesso, a
titolo di potenza originale» 46. Se, infatti, a questa interpretazione egli
ascrive il merito di aver posto in luce «il ruolo nell’opera geniale della
coscienza contro l’abbandono all’incoscienza, della riflessione contro la
“sciocchezza”, della coscienza di sé e del suo atto contro la chimera di
“una comunicazione dal cielo”, in breve dell’autocritica», egli evidenzia
tuttavia che questa enfatizzazione dell’«intelligibile» non può in alcun
modo significare né che «questa coscienza del pensiero, assumendo se
stessa per fine, si sostituisca veramente nel genio creatore, considerato
come tale e non come critica di sé e del suo atto, all’opera stessa della
creazione», né che «questa riflessione, che sostituisce l’intelligenza della
scelta alla sciocchezza dell’occasione pura, sia creatrice della scelta a
titolo di riflessione».
5. Genesi primaria, natura, atto e determinazioni fondamentali del
genio – Rifiutando l’«intellettualismo estremo che Valéry ha formulato», Segond non intende certamente negare «il ruolo essenziale del
caso nella creazione geniale», bensì, pur ponendolo come Valéry al
principio di quest’ultima, situarlo diversamente, concependolo non più
soltanto come un insieme di occasioni che apparirebbero indipenden55
temente dal soggetto creatore e che questi utilizzerebbe seguendo un
disegno del tutto razionale e consapevole, ma come l’atto stesso, «personale e interiore», «veramente radicale», «che sceglie la combinazione
migliore tra questa materia del caso» e che «esprime la genesi primaria
del genio».
Di qui l’importanza che Segond assegna, al fine della comprensione
del genio, alla conoscenza, «fin dall’inizio e in ciò stesso che simula
l’occasione», dell’«originalità individuale ed unica del genio» e la sua
convinzione che proprio in essa e su ciò che, ricorrendo a due termini
distinti, egli definisce il temperamento e il carattere trovi il suo fondamento la «potenza di creazione del genio» 47.
Nel rivolgere la propria attenzione al «genio come potenza di creazione e di novità», Segond, nel capitolo sesto, non può fare a meno,
tuttavia, di rimarcare l’apporto che proprio coloro che sono definiti
«meditativi» o «metafisici» hanno fornito alla comprensione e alla formulazione esatta della realtà psicologica del principio del genio. Riferendosi in particolare a Kant e a Schopenhauer, egli ne riassume le
tesi in quella, unica, «del “fiat” primordiale con il quale si costituisce
radicalmente l’individualità di ciascuno» 48, vale a dire nell’affermazione
di «una scelta rinnovata, sempre analoga», tra tutti i possibili che la
diversità degli incontri continuamente moltiplica e tra tutti i casi prodotti in ogni istante dall’infinità dei contatti, scelta nella quale trova
espressione il susseguirsi di un medesimo pensiero determinante 49.
Ma, poiché la natura del genio è solidale alla potenza del corpo,
Segond si sforza di mostrare che proprio nell’avvento di questa potenza organica deve essere individuata «la realtà del “fiat” costitutivo
e la libertà radicale del genio» 50. Pur convenendo perciò con Bergson
e Lachelier che il genio, «potenza di creazione e di novità», è potenza
«spirituale», Segond sottolinea che «il genio è, per questo radicamento
nel corpo, natura prima di tutto» e che proprio alla natura, quella che
le scienze naturali cercano di spiegare alla loro maniera, deve essere
ricondotta la sua genesi prima 51.
Nella convinzione, pertanto, che solo un’«esegesi del genio», capace
di situare la sua natura e la sua efficacia nell’organizzazione originale dell’individuo, cioè del suo corpo nel quale il suo spirito è radicato, possa
renderne la genesi intelligibile, senza incorrere nel pericolo, contemplato
da ogni altra spiegazione, di disincarnare il genio e di farne qualcosa
di astratto, di sporadico e di arbitrario 52, Segond, interpretando in un
senso finalistico certi passaggi di Claude Bernard 53, non esita a ricondurre la natura e la potenza creatrice del genio a quella del puro istinto 54, o perlomeno, a sostenere l’esistenza di un «passaggio continuo»
«dalla genialità vitale, la quale è invenzione dell’organismo, alla genialità
istintiva, che è invenzione di un adattamento all’ambiente, e, da questa
alla genialità propriamente spirituale, che è invenzione di un’opera nella
quale il pensiero dell’uomo si ritrova pienamente espresso» 55.
56
E tuttavia, proprio perché in ciascuno di questi stadi il genio si rivela sempre quale «potenza originale di organizzazione», cosciente della
propria invenzione e capace talvolta di renderne conto, Segond, dopo
aver sostenuto che «è esatto dire che l’istinto racchiude in sé ciò che
si chiama genio» 56, ritiene di dover completare la sua spiegazione del
genio affermando non solo che il genio è parimenti, «e in tutti i casi,
cosciente o no, attività razionale» 57, «potenza razionale» 58, e «invenzione di quest’attività razionale e delle forme o dei prodotti nelle quali essa
si incarna e si realizza» 59, ma riconoscendo ulteriormente che il genio
«è più che ragione, poiché dal suo atto nasce ciò che è ragione» 60.
Ora, per designare quel modo di produzione veramente originale
«grazie al quale entra nel mondo del reale ciò che non aveva ancora figura di realtà», Segond fa ricorso al termine di immaginazione,
intendendo con essa «l’origine di tutto ciò che è figura, sensibile o
intelligibile, sconosciuta al mondo» 61.
6. Genio ed ispirazione – Per approfondire «questa spiritualità intellettuale» che costituisce lo «stadio più perfetto della creazione umana»,
Segond, nel capitolo settimo, prende in considerazione il problema dell’ispirazione o della «creazione prima e sentimentale, da parte del genio,
di un mondo simbolico», di «un universo dei valori», e del dibattito cui
esso dà luogo tra «la spiegazione dell’attività geniale attraverso il puro
meccanismo intellettuale e l’affermazione, al principio di tale attività,
di una potenza inconscia» 62.
Considerando e confrontando la tesi romantica di «un possesso assoluto della persona dell’artista da parte di una sorta di demone ispiratore» 63, che trova espressione ad esempio nelle Contemplations di Victor
Hugo 64, e quella intellettualistica di Valéry, «per il quale l’ispirazione si
risolve in arrangiamenti» 65, Segond pone in luce i limiti e l’insostenibilità di entrambe queste esegesi. Se ai sostenitori della tesi del «possesso»
o ai «partigiani della creazione involontaria» 66 egli fa presente il ruolo
essenziale che il «controllo lucido del lavoro di composizione» riveste
nei più grandi artisti e nei meglio «ispirati» 67, e se ai fautori della «creazione controllata» egli obietta che gli esempi ai quali essi fanno ricorso
non permettono di «negare l’azione reale» di un’ispirazione personale,
non riflessa e inconscia, dal momento che numerosi atti d’invenzione
artistica sono estranei a questa composizione volontaria 68, agli uni e
agli altri egli rimprovera la negazione o la confusione di due momenti
ben distinti: quello della costituzione preliminare di uno stato «lirico»,
senza il quale non potrebbe esservi ispirazione autonoma, e quello dell’elaborazione stilizzata dell’opera nella quale quello stato si esprime 69;
l’uno, coincidente con la «fase involontaria della creazione artistica,
nella quale la coscienza non gioca alcun ruolo efficace», l’altro, la fase
cosciente e volontaria, «nella quale l’artista è pienamente in possesso
di sé e padrone della sua opera» 70.
57
Ancor più precisamente e coerentemente con le analisi svolte in
precedenza, Segond, rifiutata «la tesi romantica della presa di possesso», sostiene una duplice tesi: quella dell’intelligibilità del fenomeno
dell’ispirazione 71, della quale individua il «segreto» non tanto nelle
costruzioni mentali dei «puri logici» ma «nella cenestesi dei creatori
e nelle sue risonanze spirituali» 72, e quella dell’«intelligibilità integrale dell’opera d’arte fino al principio irriducibile di creazione individuale» 73. Alla luce di esse, pertanto, egli, respinta in definitiva ogni
distinzione di momenti, fasi e metodi, ritiene di poter affermare non
solo che «la potenza originale e singolare che chiamiamo genio, se è
libertà radicale e invenzione assoluta, non ha il suo luogo da alcuna
parte e la sua azione in alcun istante, perché essa è immanente nella
sua opera e non accantonata nei limiti di un vago presentimento» 74,
ma anche che, «pur cosciente, nel momento in cui appare, nello spirito
che la vede nascere e che la giudica, ogni invenzione, in quanto tale,
proprio perché apporta ciò che non era, è dunque originalmente e
radicalmente inconscia» 75.
7. L’impersonalità del genio – Non ci soffermeremo sul contenuto
dei capitoli ottavo e nono, nei quali Segond, considerando «il genio
vitale e indiscutibile nell’efficacia [della sua opera]» 76, le condizioni
che essa postula e i mezzi della sua realizzazione, analizza il rapporto
tra genio, cultura e tecnica, ma ci limiteremo piuttosto a richiamare
l’attenzione sul problema che, a conclusione della sua ricostruzione
dell’esperienza della genialità, Segond affronta nel decimo ed ultimo
capitolo della sua opera, vale a dire quello dell’«impersonalità del genio», al fine di evidenziare come la soluzione da lui propostane separi ancora una volta la concezione segondiana del genio da quella di
Schopenhauer, il quale «riconduceva l’arte alla contemplazione pura e
il sentimento dell’artista creatore a un’intuizione desoggettivizzata» 77,
e dei fautori di «un intellettualismo estremo» 78.
A quanti misconoscono «il principio personale» della genialità Segond ricorda infatti che, come hanno evidenziato le sue analisi precedenti, «ciò che è al principio del genio, in ogni ambito, è […] il
temperamento, nel senso completo del termine» 79, e che, se il genio
(specie quello degli scienziati, dei tecnici dell’industria, dei filosofi) può
essere «impersonale per i suoi risultati, non lo è per il suo principio,
il quale è tutto di passione» 80.
In coerenza con questa tesi e al fine di documentare l’inesattezza
della «pretesa all’impersonalità del genio» in tutti i campi, Segond
pone in luce successivamente che il genio «è sempre – scientemente o
no – affermazione di sé» e, per questo, «aristocratismo» 81; che questo
aristocratismo «è naturalmente autoritario, un’autentica tirannia» 82, e,
in quanto tale, «negazione d’altri» 83; che il genio «instancabilmente si
orienta verso se stesso», animato, come ben rivela il mito di Narciso 84,
58
da un’inquietudine essenziale, da un bisogno inappagato di creazione
ulteriore, da un’inquietudine indefinita di realizzazione, che vanifica,
come in Faust, ogni possibilità di arrestarsi e di accontentarsi, e nei
quali trova espressione il suo desiderio di «rifugio nell’eterno» 85.
1 Cfr., per esempio, E. Zisel, Le Génie. ������������������������������������������
Histoire d’une notion de l’Antiquité à la
Renaissance, traduit de l’allemand par M. Théver, Préface de N. Heinich, Paris, Les
Éditions de Minuit, 1993; A. Philonenko, Relire Descartes, le génie de la pensée française, Paris, J. Grancher éditeur, 1994; J. Attali, Blaise Pascal ou le génie français, Paris,
Fayard, 2000; M. Guénaire, Le génie français, Paris, Grasset, 2006:
2 Ci basti segnalare la trilogia di M. Pradines, Traité de Psychologie générale, t. i:
Les fonctions élémentaires, t. ii: Le génie humain – Ses oeuvres (Technique, religion, art
et science, langage, politique), t. iii: Le génie humain – Ses instruments (Imagination,
mémoire, raison, sentiment et volonté), Paris, PUF, 1943-1946.
3 A. Becq, op. cit., Paris, Albin Michel, 1994², pp. 34, 14, 353; Sul “genio”, in
particolare, pp. 695-741.
4 Ivi, p. 750.
5 Senza aver la pretesa di volerne fornire un elenco completo, vorremmo segnalare
quelle di: G. Seailles, Essai sur le génie dans l’art, Paris, Alcan, 1883; F. Brunetière,
Le génie dans l’art, in “Revue des deux mondes”, 15. 4.
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1884; L. Caro, Essai sur le
génie dans l’art, in “Revue des savants”, octobre 1884; E. Faguet, Le génie dans l’art,
in “Revue bleue”, 17. 4. 1887; F. Mentre, Le problème du génie, in “Revue de philosophie”, juin 1905; L. Pascal, Esthétique nouvelle fondée sur la psychologie du génie, Paris,
Mercure de France, 1910; J. Segond, Le problème du génie, Paris, Flammarion, 1930;
H. Delacroix, Les sentiments esthétiques et le génie, in G. Dumas, Nouveau traité de
psychologie, t. VI, Paris, PUF, 1937, pp. 447-545; H. Delacroix, L’invention et le génie,
Paris, Alcan, 1939.
6 Cfr. F. Rossi, L’«estetica del sentimento», in Id., Religione, morale ed estetica in
Joseph Louis Segond, Città di Castello (PG), Alfagrafica, 2001, pp. 163-263. Più precisamente, ancora, per quanto concerne il tema del genio, nelle opere di estetica di
Segond, cfr. J. Segond, L’esthétique du sentiment, Paris, Boivin et Cie, 1927, pp. 45-49,
151-52; Id., Traité d’esthétique, Paris, Editions Montaigne, 1947, pp. 41-42, 57-62. E,
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ulteriormente, Id., Traité de psychologie, Paris, Armand Colin, 1930, paragraphès 92,
117, 129.
7
J. Segond, Le problème du génie, cit., p. 102.
8
Ivi, p. 170.
9
Cfr. F. Rossi, cit., pp. 2, 167-69.
10
J. Segond, �����������������������������
cit.,�����������������������
pp. 12 ss., 102, 170.
11
Ivi,
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p. 12.
12
Ivi,
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p. 8.
13
Ivi,
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p. 9.
14
Ivi,
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������
p. 10.
15
Ivi,
�����������
������
p. 12.
16
Ivi,
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������
p. 15.
17
Ivi,
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������
p. 17.
18
Ivi, p. 14. Sul rifiuto del “misticismo” come “ricorso all’intervento di un mondo
soprannaturale”, cfr. anche p. 218.
19 Ivi,
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p. 20.
20 Ivi, pp. 23-24. Relativamente al tema del genio in Kant e Schopenhauer, cfr. I.
Kant, Critica del giudizio, Parte i: Critica del giudizio estetico, Sezione i: Analitica del
giudizio estetico, Libro ii: Analitica del sublime, Deduzione dei giudizii estetici puri, §
59
46-50; Id., Antropologia dal punto di vista pragmatico, Parte i: Didattica antropologica,
Libro i: Della facoltà di conoscere, § 57; A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e
rappresentazione, Libro iii: Il mondo come rappresentazione, § 36.
21
Ivi,
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������
p. 27.
22 Ibidem. ������������������������������������������������������
Ma su questa tesi, cfr. anche, pp. 27, 32, 36, 45, 47.
23 Ivi,
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������
p. 32.
24 Ivi,
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p. 36.
25 Ivi,
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p. 44.
26 Ivi,
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������
p. 45.
27 Ivi,
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������
p. 48.
28 Ibidem.
29 Ivi,
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p. 51.
30 Ivi,
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p. 52.
31 Ivi,�������
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p. 59.
32 Ivi,
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������
p. 62.
33 Ivi,
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������
p. 64.
34 Ivi,
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������
p. 79.
35 Ivi,
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pp. 80-81.
36 Ivi,
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������
p. 82.
37 Ivi,
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�������
p. 124.
38 Ivi,
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�������
p. 123.
39 Ivi,
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�������
p. 124.
40 Ivi,
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�������
p. 125.
41 Ivi,
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p.
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133. Ma
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è la tesi che Segond ritrova, «bien avant que Valéry publiât ses
propres notes», anche «dans les premières pages [du] livre [de Marcel Proust,] Du côté
de chez Swann» (������������
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, p. 135)
42 Ivi,
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�������������
pp. 132, 135.
43 Ivi,
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p. 144.
44 Ivi,
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p. 161.
45 Ivi,
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p. 68.
46 Ivi, p. 144 ss.
47 Ivi, pp. 163-64.
48 Ivi, p. 171.
49 Ivi, p. 174.
50 Ivi, p. 178.
51 Ivi, pp. 178-79.
52 Ivi, p. 183.
53 Ivi, pp. 179-85.
54 Ivi, pp. 187, 189.
55 Ivi, p. 192.
56 Ivi, p. 189.
57 Ivi, pp. 194, 196.
58 Ivi, p. 196.
59 Ivi, p. 194.
60 Ivi, p. 196.
61 Ivi, p. 197.
62 Ivi, p. 201.
63
Ibidem.
64
Ivi, p. 204.
65
Ivi, p. 203.
66 Ivi, p. 208.
67 Ivi, p. 206.
68 Ivi, pp. 208-09.
69 Ivi, p. 208.
70 Ivi, pp. 208, 212.
60
Ivi, p. 216.
Ivi, p. 217.
73
Ivi, p. 219.
74
Ivi, p. 220. «C’est d’un bout à l’autre de l’élaboration effective de l’oeuvre d’art
que se retrouve, toujours efficace et indispensable, cet acte singulier et irréductible qui
est celui de la création» (pp. 220-21).
75 Ivi, pp. 221-22.
76 Ivi, p. 231.
77 Ivi, p. 271.
78 Ivi, p. 275.
79 Ivi, p. 270.
80 Ivi, p. 273.
81 Ibidem.
82 Ivi, p. 274.
83 Ivi, p. 275.
84 Ivi, pp. 276-77.
85 Ivi, p. 277.
71
72
61
Descrivere l’arte, descrivere il mondo:
Diderot promeneur
di Rita Messori
Je me rappelle ma première rencontre avec la Vue de
Delft de Vermeer. Tout d’un coup, au premier regard, je
me suis retrouvé marchant sur les eaux, oui! debout sur
le plan d’eau dont l’étendue ouverte à même l’espace de
Vermeer glissait sous mes pieds et, sous-tendant ma présence, m’exposait à moi-même dans cette ouverture.
Henri Maldiney, Esquisse d’une phénoménologie de l’art.
«Per descrivere un Salon di mio e di tuo gradimento, sai, amico
mio, cosa sarebbe necessario? Ogni sorta di gusto, un cuore sensibile
a ogni fascino, un animo suscettibile di un’infinità di entusiasmi differenti, una varietà di stili che corrisponda alla varietà dei pennelli;
poter essere grande o voluttuoso con Deshays, semplice e autentico
con Chardin, delicato con Vien, patetico con Greuze, poter creare ogni
illusione con Vernet. Ma dimmi: dov’è un Vertumnus del genere? Forse, per trovarlo, sarebbe necessario andare fin sulle rive del lago Lemanno...» 1. Questa invocazione a Vertunno, dio della trasformazione,
contenuta nel Salon del 1763, potrebbe essere posta in epigrafe a La
promenade Vernet 2, dove Diderot conduce il difficile e sofferto ma
a un tempo ineludibile rapporto tra parola e immagine sino all’apice
della sperimentazione. Una scrittura metamorfica – a proposito della
quale Lyotard non ha esitato a parlare di genere satirico – che, di fronte alla pittura, misura i propri limiti e mette allo scoperto potenzialità
inaspettate 3.
Oltre al genio critico del proprio autore, La promenade Vernet deve
il suo fascino allo scacco a cui è destinato ogni tentativo di definizione,
costringendo i suoi lettori a un continuo ripensamento dei parametri
interpretativi di una descrizione dell’arte che si fa arte della descrizione
e, in ultima analisi, del concetto di evidentia retorica, fondamentale per
comprendere tanto la tradizione dell’ekphrasis quanto quella del paragone tra poesia e pittura 4. Si tratta in effetti di uno scritto che sembra
mettere in crisi lo stesso esercizio di critica ekphrastica praticato, con
entusiasmo ma anche con qualche perplessità, da Diderot a partire dal
1759: non di rado la descrizione cede il passo alla narrazione, al dialogo filosofico e persino alla forma epistolare. Una sorta di dichiarazione
implicita dell’impossibilità della parola di sviluppare una dimensione
63
iconica legata al particolare rappresentativo del dipinto, che non porta
però a una negazione tout court della capacità di visualizzazione del
linguaggio ma semmai alla creazione di nuove forme espressive rivelatrici di un nuovo modo di vedere e di dire la pittura.
Pur consapevole della particolarità di un scritto critico che si presenta come un racconto breve, dunque come un pezzo letterario, Diderot inserisce La Promenade Vernet – senza titolazione alcuna – nell’impegnativo Salon del 1767. Dopo un lungo e complesso discorso
di apertura l’autore ci conduce attraverso il Salon Carré del Louvre
– dove ricordiamo dal 1725 gli Accademici esponevano annualmente
le loro opere – descrivendoci più o meno diffusamente e con vistosi
mutamenti di stile i quadri di Vien, Chardin, Le Prince, Robert, Loutherbourgh e Vernet, appesi con ordine accademico alle pareti 5.
Il “mettere sotto gli occhi” della critica ekphrastica si origina da un
rinnovato esercizio dello sguardo: «il compito che mi avete proposto
mi ha costretto a fissare gli occhi sulla tela. [...] Ho dato tempo alle
impressioni di arrivare e di entrare. Ho aperto il cuore alle sensazioni.
Ho lasciato che mi invadessero» 6. Uno “sguardo che ascolta” secondo la celebre frase di Paul Claudel, “un régard de telle sorte qu’on le
parle” secondo la meno celebre ma per noi ancor più significativa formula di Francis Ponge 7. Da questo indugiare sulla tela percorrendone
l’unità compositiva, il variare del colore e l’espressività delle figure,
nasce una parola evocatrice di immagini, un linguaggio descrittivo che
si costruisce su due livelli di assenza dell’opera: facendo appello alla
sua capacità rammemorativa, Diderot ci fa vedere ciò che fisicamente
davanti a lui più non c’è e che davanti a noi forse non avremo mai.
Una duplice absentia che comporta dunque una vivace attivazione
dell’occhio “interno”, sia nella fase produttiva sia in quella fruitiva
del testo.
La Promenade Vernet è un esempio di promenade picturale che ha
in Filostrato il più illustre antesignano? Nelle sue Eikones il retore di
Lemno, praticando la tecnica icastica dell’evidentia, dipinge con le parole i quadri di una pinacoteca napoletana, i cui soggetti sono legati a
doppio filo alla narrazione, sia essa mitica, letteraria o storica. La capacità mimetica delle immagini pittoriche è tale da provocare, in qualche
caso, una sorta di rapimento dello sguardo, che si lascia prendere dalla
rappresentazione al punto di entrare in essa. Descrivendo il dipinto Le
isole – forse non a caso un paesaggio – Filostrato immagina di avventurarsi per mare, in compagnia del suo giovane interlocutore 8.
Ma la Promenade Vernet non si presenta come una rassegna in stile
letterario di una immaginaria galleria di quadri, per la precisione sette,
di Joseph Vernet, all’epoca pittore notissimo in particolar modo come
paesaggista. In effetti, ciò che per Filostrato costituisce una sorta di
diversa articolazione del rapporto tra parola-immagine-parola, per Diderot diviene una scelta che intenzionalmente grava sul rapporto tra
64
immagine-parola-immagine, provocando una serie di conseguenze che
cercheremo almeno in parte di mettere in luce.
Se è vero che l’ekphrasis orienta lo sguardo, «gli mostra i sentieri
che solo lui può percorrere» 9, mettendolo per così dire in moto, ciò
accade segnatamente quando la descrizione stessa è in movimento, ovvero quando non è semplicemente animata da verbi opportunamente
scelti o interrotta da sequenze narrative. Come se il movimento prendesse avvio dall’esigenza descrittiva e la descrizione si sviluppasse soltanto a partire dal movimento.
La Promenade Vernet è il racconto dell’esperienza sensibile, affettiva e di pensiero dell’attraversamento fisico dello spazio di paesaggio
aperto dai quadri di Vernet. Improvvisamente al lettore si schiudono
scenari naturali, marine e paesaggi montani, che il protagonista, Diderot, percorre insieme a un abate seguito da due allievi. Per parlare
nel giusto modo dei paesaggi di Vernet, per meglio restituire ai pochi
ma sceltissimi lettori della Correspondance littéraire – su cui i Salons
venivano pubblicati – i dipinti di uno dei suoi pittori preferiti, Diderot
sceglie dunque di entrare nei quadri stessi. Un gesto, fittizio, di cui
dobbiamo comprendere le ragioni se vogliamo mettere in luce alcuni
degli effetti.
Ciò che agli occhi di Diderot contraddistingue i paesaggi di Vernet è l’illusione, la magia 10. Ed è su questo giudizio che si esercita
la critica del salonnier. Più di altri Vernet è capace di farci vedere
la natura come se fosse non solo lì davanti a noi rappresentata sulla
tela, ma intorno a noi, con la sua forza suggestiva e insieme impositiva, con il suo vigore, con il suo irrefrenabile moto di trasformazione.
Come se prendesse vita nel momento in cui la guardiamo. Se accade
che il pittore sia capace di trasmettere incanto sulla tela, «sembra che
consideriamo ciò che è prodotto dall’arte come se fosse opera della
natura. Non è al Salon, ma nel folto di una foresta, è tra le montagne
che il sole ombreggia e illumina, che Loutherbourgh e Vernet sono
grandi» 11. Così dice Diderot negli Essais sur la peinture usciti un anno
prima, nel 1766.
La difficoltà della rappresentazione sta nella corretta distribuzione
delle luci e delle ombre su ciascun piano, e su ciascun tratto infinitamente piccolo degli oggetti che lo occupano; «sta ancora negli echi,
nei riflessi di tutte queste luci le une sulle altre. Quando quest’effetto
è ottenuto (ma dove e quando non lo è?), l’occhio è conquistato, appagato, ovunque è soddisfatto e ovunque si appaga: procede, si immerge, torna sulle proprie tracce. Tutto è connesso, tutto si tiene. Ci
si dimentica dell’arte e dell’artista. Ciò che si ha davanti a noi non è
più un quadro, è la natura, è una parte dell’universo» 12.
Mettendoci la natura sotto gli occhi il pittore trasforma l’inanimato
della tela, con ciò che di essa si sviluppa e si estende, il disegno e il colore, in animato. Per Diderot il pittore “illusionista” ha lo straordinario
65
dono di mostrarci la natura nel suo realizzarsi, nel suo diversificato
dispiegarsi spazio-temporale, in definitiva di rappresentare il miracolo
del passaggio dall’invisibile profondità della potenza all’atto del suo
visibile palesarsi.
Di chiara matrice aristotelica, l’illusione della presenza è uno dei
principi cardine della teoria del paragone che equipara poesia e pittura
sulla base della loro capacità di visualizzazione. L’opera artistica è un
far vedere, un mostrare la realtà nel suo rendersi visibile 13. Una poesia
e una pittura sono composizioni, costruzioni di senso contrassegnate
da una fortissima tensione referenziale. La magia dell’arte si verifica
nella misura in cui si compie la mimesis: l’aspetto illusorio dell’arte
costituisce il culmine del processo mimetico. Nell’atto illusorio la mimesis sembra comportare la perdita di distanza tra spettatore e opera
compiendo una sorta di rapimento dello sguardo. Ciò implica il superamento dell’atteggiamento contemplativo del fruitore e a un tempo
il superamento del quadro in quanto “finestra”. Se Diderot, mediante
un atto immaginativo, non è più spettatore ma fruitore compartecipe
della rappresentazione pittorica, va da sé che il quadro non è più un
oggetto fisico posto di fronte a lui, rappresentante un proprio oggetto
riconoscibile e dunque descrivibile 14.
A catturare lo sguardo non sono tanto le cose visibilmente colte
sulla tela, ma il loro stesso essere visibili, il loro manifestarsi; in tal
modo Diderot si inserisce in un processo, quello della visibilità 15. L’illusione consiste nell’entrare a far parte del gioco della manifestatività.
Un gioco che ha le sue regole e le sue procedure e non si consuma,
illusoriamente, nell’istante dell’immediatezza.
Attentissimo alle prassi artistiche, alla dimensione del “fare” del
“far-vedere”, Diderot si chiede quale tecnica possa con maggior efficacia provocare l’illusione. La composizione ha di certo il suo ruolo,
come si evince da alcuni passaggi della Promenade Vernet 16. Facendo
implicito riferimento alle Betrachtungen über die Malerei di Hagedorn
(1762) Diderot sostiene che «a un paesaggio si può dare un’apparenza
concava o convessa. Quella convessa se c’è un soggetto che occupa la
parte anteriore della scena: lo sfondo sarà definito allora da uno spazio
ampio e pressoché illimitato. Quella concava, se il paesaggio è il soggetto principale: lo spazio è allora sulla parte anteriore, mentre il paesaggio occupa e delimita lo sfondo» 17. Nel caso dell’apparenza concava,
adatta al paesaggio semplice e non a quello storico, sembra crearsi uno
spazio di profondità da indurre lo spettatore a entrare. Ma questo è
agli occhi di Diderot niente altro che un artificio. È soprattutto il colore quale «soffio divino» che può «dare vita al quadro» 18. «Non c’è
nulla di più efficace in un quadro della verità del colore» 19.
Chi è dunque, si chiede Diderot, un grande colorista, chi è maggiormente in grado di far nascere l’illusione? «Chi ha scelto il tono della natura e degli oggetti in piena luce», chi non ha imitato dei modelli
66
nel chiuso del proprio atelier ma chi ha osservato con partecipazione la
natura. L’«intrepido pennello» di Vernet «prova piacere nel combinare
col più grande ordinamento, con la più grande varietà e la più solida
armonia tutti i colori della natura in ogni loro sfumatura» 20. Quanto
Diderot dice del colore, dell’incarnato, del chiaro-scuro delle mezze
tinte e dello sfumato presenta non poche analogie con quanto De Piles afferma a proposito del coloris nel Cours de peinture par principes
(1708) 21. Diderot come De Piles intuisce dei rapporti di simpatia-antipatia, prevalenza, repulsione o attrazione, che molto assomigliano a
delle leggi fisiche che regolano i diversificati rapporti dei fenomeni di
natura. Ed è la percezione dei rapporti che legano i colori ai nostri stati
d’animo che rende bello un dipinto. Ad eccezione di Chardin, pittori
coloristi sono soprattutto i paesaggisti, i quali, secondo de Piles, traggono piacere dalla varietà della natura e dalla sollecitazione dei sensi,
creando dei siti dove l’artista per primo «se promène» 22.
La magia che ci sorprende di fronte a un quadro di Vernet è dovuta all’imporsi visivo e alla vitalità dell’immagine. In tal modo l’uomo si
sente immerso nella natura, un essere vivente partecipe di una realtà in
continuo movimento e trasformazione. L’affermazione della virtù visiva
dell’arte e in particolar modo della pittura, passa attraverso il recupero
del binomio enargeia-energeia. Emerge in tal modo l’ambivalenza del
concetto di evidentia che, sbilanciandosi a favore della visualizzazione,
rischia di “fissare” e dunque di “bloccare” l’immagine, senza cogliere
l’essenziale “vibrare”. L’immagine pittorica è per Diderot visualizzazione e attualizzazione, rappresentazione visiva del movimento manifestativo 23. Il recupero dell’energeia, della scossa vitale che attraversa
la natura, è ciò che accomuna Diderot a molti dei suoi contemporanei,
e in particolare a Lessing. Mentre però Lessing riabilita il movimento
e l’azione nella rappresentazione dell’uomo, ponendo l’accento sull’espressione delle passioni e dei pensieri, Diderot pare qui essere maggiormente attratto dalla natura e dal rapporto uomo-natura, nel senso
di messa in evidenza della naturalità dell’uomo: «ero stanco, avevo
visto delle belle cose, avevo respirato l’aria più pura e avevo fatto un
sano esercizio. [...] Il giorno dopo, svegliandomi, dicevo tra me e me
che era questa la vita vera, la vera dimora dell’uomo» 24. L’attenzione
all’espressione, alla mimica facciale, alla gestualità, così come a un linguaggio spontaneo e non affettato, né troppo astratto, mira al recupero,
reso possibile dalla finzione artistica, di una dimensione “originaria”
dell’essere umano 25.
L’illusione della presenza provoca dunque lo spettatore a ri-collocarsi in mezzo alla natura. E quale modo più efficace di comunicare ai
lettori della Correspondance littéraire il potere illusorio dell’immagine
pittorica, del dire l’illusione stessa? Del raccontare l’esperienza dell’illusione? Una esperienza sensibile e affettiva che fa della Promenade
Vernet una passeggiata estetica in cui il dialogo filosofico nasce in si67
tuazione, in cui il pensiero si fa esperienziale e, per usare le parole di
Diderot, «locale» 26. Guidato dal suo sguardo errante, Diderot promeneur, o forse sarebbe più corretto dire paysageur, si inoltra nello spazio
aperto dall’immagine pittorica percorrendone la profondità, acquisendo
diversi punti di vista 27. Da solo o in compagnia si spinge oltre le rocce
che si ergono davanti a lui, si affatica lungo scoscesi sentieri che si inerpicano sulle montagne scoprendone nuovi versanti, prima in ombra. Il
talento pittorico di Vernet pare sollecitare il proprio spettatore-scrittore
a cogliere il “fremito” del passaggio dal non visibile al visibile 28.
A seconda delle difficoltà, il camminare è ora lento ora veloce; può
interrompersi se il nuovo scorcio merita uno sguardo meditativo e silenzioso, se un personaggio incontrato sollecita l’immaginazione o se
ci si interroga sulla bellezza del sito. Il fragore di una cascata che agita
le acque tranquille di un torrente ci può colpire, come la morbidezza del muschio più verde. L’entusiasmo della scoperta può infonderci
nuove energie e la vista del baratro che sprofonda sotto il ponte può
immobilizzarci. Nel camminare vi è un andare incontro alle cose e un
venire incontro delle cose stesse. Non soltanto chi cammina avanza:
anche la natura si fa avanti, ci sorprende, colpisce il nostro sguardo.
Può esservi un momento in cui il soggetto è fortemente scosso; più che
sentirsi smarrito nel fitto della boscaglia senza più alcun sentiero da
seguire, egli fa esperienza dello smarrimento di sé, del sentirsi perduto
di fronte alla grandiosità, alla magnificenza della natura.
La Promenade diviene dunque una esperienza corporea in cui tutti
i sensi sono allertati e le emozioni muovono il nostro animo non meno
che i nostri organi e le nostre membra. L’esperienza estetica mette in
cammino il pensiero che lungo la via acquisisce una propria andatura.
Giova ricordare che in questi anni a impegnare Diderot non è soltanto
la critica militante o la ricerca teorica intorno all’arte, ma anche lo studio della fisiologia animale e umana. Parte degli Éléments de physiologie
furono scritti tra il 1767 e il 1768 intervallando la stesura del Salon,
mentre a distanza di un anno fu redatto, di getto, Le Rêve de D’Alembert. Della genesi simultanea di questi testi non solo è testimonianza
l’inserimento di interi passaggi degli Éléments nel Rêve, ma anche l’introduzione del Salon in questione. Polemizzando contro l’idealizzazione
artistica della natura, dunque contro il concetto batteuxiano di “bello
naturale”, Diderot afferma risolutamente che non vi è una bella natura
in sé sussistente la quale, a disposizione dell’artista, può essere colta e
copiata 29.
Per rappresentare l’uomo, l’artista deve averlo senza pregiudiziale
alcuna osservato, lungo le strade, nelle botteghe, durante lo svolgimento
delle sue più ordinarie attività, nell’esercizio delle sue funzioni vitali.
Ma non serve all’artista scorticare l’uomo, praticarne l’anatomia; gli
sfuggirebbe la vita. Continuamente soggetto alle sollecitazioni esterne,
l’uomo è unione instabile di anima e corpo, di pensiero e sensazione,
68
di ragione e passione. «Sentire è vivere» leggiamo negli Éléments: l’affezione dei sensi è la prima e cosciente relazione che si instaura col
mondo 30. E tra gli organi di senso sono gli occhi a svolgere un determinante ruolo orientativo: «l’occhio ci guida. Noi siamo il cieco, l’occhio
è il cane che ci conduce» 31. Dando adito alle altre sensazioni, l’occhio
ci fa evitare gli ostacoli lungo il cammino. La visione è dunque percorrimento dello spazio, movimento né rettilineo né uniforme, che ha una
sua durata. L’occhio non si fissa sulle cose, spazia su di esse, compie un
percorso che tien conto della «diversità delle sensazioni» 32.
Quello della visione è però un movimento continuamente interrotto:
«noi passiamo i due terzi della nostra vita nella notte perché smettiamo
di vedere tutte le volte che chiudiamo le palpebre» 33. Ogni battito
di ciglia è una breve, «piccola notte» una sottile striscia d’ombra che
non ci impedisce di percepire il flusso continuo della luce. Ma c’è di
più: l’atto della visione non è soltanto attraversamento, movimento,
durata e passaggio velocissimo di ombra e di luce. Perché la visione sia
visione di qualcosa occorre che essa diventi costruzione. Immaginiamo
di avere davanti a noi un albero: «il campo dell’occhio abbraccia una
sola parte dell’albero, se l’occhio non ripete l’esperienza non conoscerà l’albero». Tutte le esperienze dovranno legarsi perché si raggiunga
la nozione precisa di albero. «Per conseguire questa nozione esatta e
delle parti e dell’insieme occorre che l’immaginazione dipinga il tutto
nell’intelletto» 34.
Se per spiegare la pittura occorre far ricorso all’immaginazione
quale «occhio interno» 35, per spiegare l’immaginazione occorre far
riferimento alla pittura in quanto composizione unitaria delle parti che
ha già nella visione una prima e determinante fase costruttiva. Non a
caso Diderot affermerà alcune pagine dopo che «l’immaginazione è
un colorista» 36 e che l’uomo di immaginazione passeggia nella propria
mente come in una galleria di immagini 37. È l’esperienza dei Salon a
suggerire non soltanto un linguaggio immaginativo intessuto di similitudini e metafore ma anche dei veri e propri paradigmi concettuali; e
ciò sembra valere in particolare per la natura ibrida dell’immaginazione
che possiamo intuire dai suoi prodotti, ovvero dalle immagini.
Possiamo ora chiederci quali conseguenze comporta la scelta di
descrivere una serie di quadri attraverso l’esperienza estetica da essi
provocata. Viene innanzitutto messo in crisi uno dei principî teorici
della teoria umanistica della pittura che ha anche nel Settecento illustri
sostenitori: l’immediatezza della visione. Se, come si diceva più sopra,
la pittura di paesaggio è ben riuscita essa genera l’illusione della presenza, che richiede l’esercizio dell’occhio fisico ma anche e soprattutto
di quello mentale. La vista sorpresa, rapita e quasi abbacinata dal colore affida all’occhio della mente il “come se” della finzione. Sollecitato
da un dipinto fortemente illusorio, l’immaginario erompe. È “come
se” la natura davanti a noi si generasse e nell’atto della generazione
69
mostrasse le sue infinite possibilità che solo l’immaginazione, dello
spettatore-scrittore Diderot, può intravedere.
Cogliere l’atto manifestativo e la sua apertura della dimensione della
possibilità, cogliere l’imporsi visivo e vitale della realtà nel suo darsi:
ciò non è frutto di un atto immediato, o di una presa diretta. Lo sguardo che la “visibilità” della pittura di Vernet richiede è un cammino
lento e insieme scattante, tortuoso e insieme mirato, faticoso e insieme
estasiato: quello della parola di Diderot. Un linguaggio il cui processo
di significazione – nella Promenade ben rappresentato dal dialogo filosofico ma anche dal progressivo utilizzo di termini tecnici della pittura
– si radica all’interno dell’esperienza estetica della magnificenza visiva
del reale, o, come diceva De Piles, dell’onnipotenza delle cose create
che alla vista si offrono 38.
Il carattere di esibizione dell’immagine oscilla tra un effetto di simultaneità e una processualità costruttiva. Diderot è alla ricerca di
una sorta di giustezza del guardare: soltanto la descrizione può dare al
quadro il giusto sguardo o, meglio, il giusto tracciato visivo che sappia
cogliere la manifestatività nella sua unità e varietà. La generosa gratuità del miracolo della presenza esige uno sguardo riconoscente, che
sappia pazientare e indugiare, che si lasci condurre dalle cose stesse.
Diderot paga il debito del manifestarsi pittorico delle cose col prezzo
di un lungo ma necessario détour che dell’immagine dispiega il magico
vibrare del colore.
Determinanti diventano le riflessioni che il nostro autore dedica al
tema dell’ut pictura poësis nello stesso Salon del 1767, dopo aver scritto
la Promenade Vernet e prima di focalizzare la propria attenzione sull’opera di Loutherbourg, anch’egli paesaggista. Come colpire gli occhi
e le orecchie, si chiede Diderot, come fare immaginare attraverso il solo
prestigio dei suoni il fragore di un torrente che precipita, le sue acque
rigonfie, la piana sommersa, il suo movimento maestoso e il suo cadere
in un profondo precipizio? 39. Lo scrittore che segue le regole formali
di una versificazione di maniera non merita di essere letto. È la natura e
soltanto la natura a dettare la vera armonia di un periodo e di un certo
numero di versi. Armonia che è data dal movimento del linguaggio,
dal suo ritmo. Per lo scrittore il ritmo è tutto: è la «magia prosodica»
dovuta a una scelta particolare dell’espressione, è una certa distribuzione delle sillabe lunghe o brevi, dure o dolci, sorde o acute, leggere
o pesanti, lente o rapide, lamentose o ridenti, una concatenazione di
piccole onomatopee, analoghe alle idee che con insistenza occupano il
nostro pensiero, alle sensazioni che avvertiamo o che vogliamo eccitare,
ai fenomeni di cui cerchiamo di rendere i particolari, alle passioni, alla
natura, al carattere e al movimento delle azioni. Ispirata da un gusto
naturale, dalla mobilità dell’anima e da una acuta sensibilità, sarà un’arte non più di convenzione, un’arte naturale come lo sono gli effetti
della luce e i colori dell’arcobaleno. Soltanto in tal modo lo scrittore
70
diventerà un colorista e potrà cimentarsi nella descrizione, difficile ma
non impossibile.
Sono evidenti le analogie tra questa solo abbozzata teoria del linguaggio come ritmo e quella del geroglifico sviluppata nella Lettre del
1751 40. Nel tessuto del geroglifico trovano unità il «dire» e il «mostrare», l’articolazione linguistica e l’ostensività, due tendenze che è
compito dell’arte condurre dal contrasto all’armonia. Ma a distanza di
una quindicina d’anni l’urgenza di una unità di artificiale e naturale
in seno al linguaggio si approfondisce di una acutissima e tormentata
sensibilità nei confronti della trasformazione metamorfica della natura,
anche umana, della sua potente azione, del suo vigore. Il potere di
visualizzazione del linguaggio verbale non può che seguire le leggi del
colore e sfuggire a ogni sterile e immobilizzante descrittivismo che,
come l’anatomia, ci restituisce una morta natura.
La seconda conseguenza, strettamente legata alla prima, dipende
dalla composizione stessa di uno scritto letterario sulla base dell’esperienza dello spettatore, e dalla fruizione che tale scritto esige. La trasformazione del lettore in spettatore è possibile solo se lo spettatore
si trasforma in scrittore. Mentre il pittore, attraverso l’effetto illusorio,
orienta la simultaneità verso un dispiegamento spazio-temporale, lo
scrittore tende il proprio tessuto linguistico alla simultaneità visiva del
“fremito” del passaggio. La fruizione di una forma artistica genera la
produzione di una seconda forma artistica che né si confonde né vuole
sostituirsi alla prima. Una seconda produzione che richiede una seconda fruizione, quella del lettore o dell’ascoltatore. Tale compresenza di
differenti piani della produzione e della fruizione pare provocare una
sorta di mise en abîme. Come Diderot è stato “reclamato” dai quadri
di Vernet, allo stesso modo il lettore di Diderot è chiamato a prender
parte al gioco.
Ora, non è la natura dipinta da Vernet, non è la realtà a sprofondare in un gioco infinito di specchi “fatto ad arte”? Il linguaggio descrittivo non si frappone tra il soggetto e la realtà nel suo manifestarsi,
così ben rappresentata nell’opera pittorica? Quest’ultima è in definitiva
la domanda che si pone Lessing a proposito della descrizione. Nel suo
Laocoonte egli ci parla di due modalità differenti che ha la poesia di
rapportarsi all’arte figurativa. Quando ad esempio Virgilio descrive lo
scudo di Enea ci descrive l’opera d’arte e non ciò che è stato rappresentato. La poesia avvilisce se stessa imitando l’imitazione, dandoci
«fredde reminescenze di particolari di un genio esterno, invece che i
tratti originali del proprio» 41. Se Virgilio invece avesse imitato il gruppo del Laocoonte, avrebbe descritto non questo gruppo ma ciò che il
gruppo rappresenta. Solo in questo caso il poeta è originale e non un
mero copiatore, poiché descrive le cose stesse. Ora, come collocare
l’autore della Promenade Vernet? Dalla parte di chi descrive l’opera o
dalla parte di chi descrive la natura?
71
L’alternativa è per Diderot impraticabile perché improponibile. Egli
si colloca nel luogo stesso della loro implicazione. Non ci è possibile
descrivere la natura, così come a noi si dà, se non attraverso l’arte, e
non ci è possibile descrivere l’arte, se non attraverso l’esperienza visiva e immaginativa della natura che essa rappresenta, in una tensione
referenziale non di rado spasmodica.
La descrizione non può essere il mero repertorio di ciò che viene rappresentato. Il linguaggio ekphrastico di Diderot, mostrandoci
l’immagine pittorica, ci mette sotto gli occhi il “far vedere”, l’atto
manifestativo in cui l’arte consiste, compiendo così il passaggio dalla
descrizione della cosa rappresentata alla descrizione dell’esperienza
manifestativa della cosa che l’immagine mette in atto. L’efficacia del
linguaggio icastico e vivificante viene misurata così con la capacità
di portare il lettore nell’ambito pre-riflessivo di appartenenza partecipativa al mondo della vita. È un far rivivere l’esperienza estetica del
nostro essere radicati, dell’insuperabile qui e ora. Se la pittura offre al
linguaggio l’ancoraggio nella dimensione manifestativa, estetica, precategoriale, il linguaggio offre alla pittura l’esplicitazione della propria
“mediatezza”.
È attraverso lo spazio di mediazione dell’arte nella sua defatigante laboriosità che possiamo avvicinarci alle cose stesse senza illuderci
di coglierle nella loro pienezza manifestativa, nello splendore di una
presenza per noi sempre differita, e che sempre rimane da dipingere
e da dire. La manifestatività è quell’originario che solo mediatamente
e indirettamente possiamo tentare di attingere.
Ecco dunque il paradosso emergente dall’incontro di pittura e poesia, di immagine e parola nella Promenade Vernet: il potere illusionistico dell’arte ci rende consapevoli dell’illusione della semplice-presenza
delle cose. Attraverso una esperienza estetica a tutto tondo che esige
di essere detta e immaginata, la magia dell’arte ci restituisce la realtà
nel suo manifestarsi visibile, nel suo generarsi, nel suo essere vita.
1
D. Diderot, Œuvres complètes, éd. �����������������������������������������������
H. Diekmann, J. Proust, J. Varloot et alii, 34
voll., Hermann, Paris, 1975 e ss, v. xiii p. 341. La traduzione è nostra, come la sottolineatura.
2
Faremo d’ora in poi riferimento all’edizione italiana, preceduta da un prezioso
saggio introduttivo, curata da Massimo Modica: D. Diderot, La Promenade Vernet, Nike,
Milano, 2000.
3
J.-F. Lyotard, La philosophie et la peinture à l’ère de leur expérimentation, in L’art
des confins, a cura di A. Cazenave e J.-F. Lyotard, Paris, PUF, pp. 465-77.
4 Sull’ekphrasis v. in part.: M. Krieger, Ekphrasis: The Illusion of the Natural Sign,
Baltimore & London, John Hopkins University Press, 1992. Beschreibungskunst-Kunstbeschreibung. Ekphrasis von der Antike bis zur Gegenwart, a cura di G. Boehm e H.
Pfotenhauer, München, Wilhelm Fink Verlag, 1995. �����������������
J. Lichtenstein, La description de
tableaux: énoncé de quelques problèmes, in La description de l’oeuvre d’art. Du modèle
72
classique aux variations contemporaines, Paris, Somogy, 2001, pp. 295-302. ��������
Il numero monografico di “Word & Image” (1999) dedicato all’ekphrasis. M. Cometa, Parole
che dipingono, Letteratura e cultura visuale tra Settecento e Novecento, Roma, Meltemi,
2004.
5 D. Diderot, Œuvres complètes, cit., vol. xvi.
6 D. Diderot, Salon de 1765, Œuvres complètes, cit., vol. xv, p. 57.
7 Sulla concezione di sguardo in Ponge e sul suo rapporto col linguaggio Henri
Maldiney si sofferma in: Le vouloir dire de Francis Ponge, Fougères, éd. Encre marine,
1993, p. 27 e ss.
8 Filostrato, Immagini, trad. it. di G. Schilardi, introd. di F. Fanizza, Lecce, Argo,
1997, pp. 167-74. «Il dipinto segue il racconto dei poeti», p. 169. ���������������������
Su questi temi v. B.
Cassin, Procédures sophistiques pour construire l’évidence, in Dire l’évidence. Philosophie
et rhétorique antiques, a cura di C. Lévy e L. Pernot, Paris, l’Harmattan, 1997, p. 29.
9 G. Boehm, Bildbeschreibung. Über die Grenzen von Welt und Sprache, in Beschreibungskunst-Kunstbeschreibung, cit., p. 40.
10 Termini largamente usati da Diderot e da molti dei suoi contemporanei.
11 D. Diderot, Sulla Pittura, Palermo, Aesthetica, 2004, p. 50.
12 Ivi, p. 51.
13 Concordiamo con Boehm quando afferma che ad accomunare immagine e parola
è il mostrare. V.
�������������
G. Boehm, Bildbeschreibung. Über die Grenzen von Welt und Sprache,
cit., p. 35.
14 Sul diverso ruolo dello spettatore vedi M. Fried, Absorption and Theatricality:
Painting and Beholder in the Age of Diderot, Berkeley, Los Angeles and London, University of California Press, 1980.
15 A questo proposito v. G. Boehm, Bildbeschreibung. Über die Grenzen von Welt
und Sprache, cit., p. 27.
16 D. Diderot, La Promenade Vernet, cit., p. 148.
17 D. Diderot, Sulla Pittura, cit., p. 115.
18 Ivi��������
�����������
, p. 44.
19 Ivi��������
�����������
, p. 47.
20 Ibidem.
21 Paris, Gallimard, 1989, pp. 216-17.
22 Ivi��������
�����������
, p. 99.
23 Pur riconoscendo una fondamentale componente di azione dell’immagine, Boehm
si sofferma soltanto sul significato di evidentia in quanto enargeia.
24 D. Diderot, La Promenade Vernet, cit., p. 146.
25 Ivi, pp. 162-63. Sono evidenti le analogie con le teorie linguistiche di Vico, Rousseau, Herder. Sul rapporto tra estetica e linguaggio v. di F. Bollino, Ragione e Sentimento.
Idee estetiche nel Settecento francese, Bologna, CLUEB, 1991; in part. le pp. 207-24.
26 D. Diderot, La passeggiata dello scettico, Milano, Serra e Riva ed., 1984, p. 7: «mi
resi conto che Cleobulo s’era fatta una sorta di filosofia locale; che tutta la sua campagna
era animata e parlante per lui; che ogni oggetto gli forniva pensieri di un genere particolare, e che le opere della natura erano ai suoi occhi un libro allegorico ove leggeva
mille verità che sfuggivano agli altri uomini».
27 A questo proposito v. B. Saint Girons, Le paysage et la question du sublime, in
Aa. Vv. Le paysage et la question du sublime, ARAC, Valence, 1997, p. 87: paysageur è
«l’homme, assurément moderne, qui, loin de se contenter d’admirer naïvement la nature
dans la pluralité d ses manifestation ou d’en Etudier certains phénomènes isolés, vient
à la considérer sous l’angle très restreint qu’il a arbitrairement choisi et donné à cette
partie la valeur du tout».
28 V. di H. Maldiney, Esquisse d’une phénoménologie de l’art, in L’art au regard de
la phénoménologie, a cura di E. Escoubas e B. Giner, Toulouse, Presses Universitaires
du Mirail, 1993, pp. 216 e 235.
29 D. Diderot, Œuvres complètes, cit., vol. xvi, pp. 10-11.
30 Circa l’approccio è evidente il debito contratto nei confronti dell’empirismo; cir-
73
ca i contenuti Diderot si avvale anche di una conoscenza della letteratura scientifica
dell’epoca. V. introduzione e note al testo dell’ed. francese (Œuvres����������
complètes, cit., vol.
xvii).
31
D. Diderot, Éléments de physiologie, in Œuvres complètes, cit., vol. xvii, p. 247.
32 Ibidem.
33 Ivi���������
������������
, p. 246.
34 Ivi����������
�������������
, p. 457.
35 Ibidem.
36 Ivi���������
������������
, p. 480.
37 Ivi���������
������������
, p. 475.
38 R. De Piles, Cours de peinture par principes, cit., p. 219.
39 D. Diderot, Œuvres complètes, cit., vol. xvi, p. 283 e ss.
40 D. Diderot, Lettera sui sordomuti e altri scritti sulla natura e sul bello, a cura di
E. Franzini, Milano, Guanda, 1989.
41 G. E. Lessing, Laocoonte, trad. a cura di M. Cometa, Palermo, Aesthetica, 2000,
p. 45.
74
Stile e stili
di Elio Franzini
Husserl afferma che la ricerca sul senso delle cose mondane va
avviata su una «nuova via», che è tematizzazione del mondo della vita
in quanto terreno non solo della vita umana, ma del modo con cui essa
esplicita questa sua funzione di essere «terreno». È in questo esatto
punto, in cui manifesta l’esigenza di un Grund concreto e precategoriale, che, pur senza esplicitare la citazione, ricorda la frase con cui
Goethe, nel Faust, traduce l’incipit del Vangelo di san Giovanni, dove
il logos che è all’inizio diventa Azione (Tat). L’azione, osserva Husserl,
«rende il nostro progetto ancora incerto più determinato, lo rende sempre più chiaro, promuovendone la realizzazione» 1. Accanto all’azione,
che è al principio, è però necessaria anche una riflessione metodica, così
da indagare, in tutti i modi di relatività che per essenza gli ineriscono, il
mondo della vita, che è «il modo in cui noi viviamo intuitivamente, con
le sue realtà, così come si danno, dapprima nella semplice esperienza,
e anche nei modi in cui spesso queste realtà diventano oscillanti nella
loro validità (oscillanti tra l’essere e l’apparenza)» 2.
Utilizzando ancora una volta un termine goetheano, Husserl chiama
stile questa capacità di cogliere il flusso “oscillante” delle variazioni
dell’apparire, apparentemente inafferrabile, che è il nostro mondo della
vita, in cui si uniscono l’azione e il metodo. Questo non è un orizzonte
di spiegazione causale e fattuale, non è «quello di determinare se e
che cosa siano realmente le cose, la realtà del mondo» e neppure «che
cosa sia realmente il mondo considerato nella sua totalità, ciò che gli
inerisce in generale, quali leggi strutturali a priori e quali “leggi naturali” gli siano proprie» 3. Il tema è invece un altro: è il mondo così
come appare alla nostra esperienza, l’unificarsi delle parti che sono
rappresentazioni del mondo, che costituiscono interi non per magica
fusione, ma in quanto «rappresentazioni che in ogni fase recano in sé
un “senso”, e intenzionano qualcosa», connettendosi «in un progressivo arricchimento di senso e in una progressiva formazione di senso» 4.
È seguendo questo stile che si può comprendere come gli stili ne
siano soltanto i modi, cioè un progressivo arricchimento di senso: senza voler spiegare, definire, determinare, ma solo esibendo le possibilità
esperienziali delle parti, dei singoli fenomeni, delle singole esperienze,
75
di connettersi in un intero dotato di senso. Warburg sosteneva che
«l’essere delle immagini» consisteva nel formare uno stile, che è poi
la capacità di esibire delle «sopravvivenze». E definiva come «simbolici» questi stili. Per cui, è partendo dalla convinzione che i termini
“stile” e “simbolo” siano in Goethe pressoché equivalenti, e l’uno sia
l’immagine dell’altro, e che quest’ultimo, il simbolo, si opponga all’allegoria come lo stile alla maniera, ed entrambe queste coppie siano a
loro volta radicate nella fondamentale differenziazione tra Bildung e
Gestalt. È partendo dunque da questa allusiva trama concettuale che
la storicità del simbolo – non la sua storia, o il suo ridursi al mutare
delle filosofie della storia – si evidenzia fenomenologicamente negli
“stili” che esso incarna. Così, assumere il simbolo nella sua accezione
di «riconciliazione con differenza», segno di un’eccedenza che è più
dialogo che opposizione tra le parti, rende possibile che suo tramite
si giochi un confronto paradigmatico che ha nell’arte, e nella filosofia
dell’arte, il suo orizzonte di interrogazione. Lo stile di cui qui si parla è
dunque davvero quello che indica Faust: uno stile in cui è impossibile
scindere esperienza e giudizio, conoscenza intuitiva del mondo e sua
apprensione categoriale e apofantica. In cui il simbolo si pone come
possibilità funzionale e al tempo stesso morfogenetica. Lo stile, e si anticipa qui la conclusione che si vuole raggiungere, è l’unità simbolica e
formativa dei molteplici stili, anche là dove essi hanno valore allegorico
o manieristico o dove si pongono nella loro singolarità.
Per mostrare ciò è necessaria una premessa, che si articolerà poi
in un lungo esempio.
È alla ricerca di questo senso stilistico che l’arte, al di là delle condizioni empiriche in cui si manifestano le opere, si presenta come genesi temporale, che offre il senso simbolico della rappresentazione, la
varietà e la complessità delle sue trame intenzionali, dei suoi percorsi
genetici: è uno stile che, come scrive Maldiney, sorge dalla forza di
un evento estetico, da un ritmo temporale «creato nell’Istante stesso,
un’impressione famigliare riconosciuta» 5. Il grado specifico che appartiene alla rappresentazione artistica non è quello capace di “darci”
l’oggetto o l’Essere, bensì di condurre noi e il mondo verso il goetheano “regno delle Madri”, cioè in un movimento temporale che è, nelle
sue morfologie, “eterno gioco del pensiero eterno”. Le rappresentazioni
artistiche non sono il lato invisibile dell’Essere, ma enti che esibiscono
il possesso degli schemi del visibile, in cui si pone anche il tempo spazio dell’invisibile: l’immagine artistica è una rappresentazione che rende
simbolica – che rende “idea estetica” – la presenza in tale rappresentazione di uno “scarto”, in virtù del quale lo schema come prodotto
dell’immaginazione rivela e insieme nasconde, come afferma Kant, le
«determinazioni a priori del tempo secondo regole». Ma, perché ciò
accada, si deve “tradurre” lo stile nella specificità esemplificativa degli
76
“stili”, che ne sono le “forme di vita”, ma che non per questo possono
esaurire il proprio senso nel loro mero esibirsi frammentario.
Un esempio è allora utile per comprendere il percorso: un esempio
dove la scelta di uno “stile” diviene modello di espressione retorica,
che può tradursi in differenziate forme stilistiche. Da un lato, cogliere
il senso espressivo di una forma partendo da una sua considerazione
morfologica è percorso quasi obbligato, in modo tale che si tenti di
comprendere il senso di una forma a partire dal suo colore, e dalla scala di valori qualitativi cui questo colore simbolicamente allude
sfuggendo alle assolutezze ontologiche. Tuttavia, l’aspetto morfologico,
pur essenziale, anche perché permette una sorta di storia dell’arte non
solo senza nomi, ma radicata nella genesi intrinseca degli stilemi, indipendente dagli autori che li hanno tradotti in stile costruttivo, non è
sufficiente, proprio come non sarebbe sufficiente, per comprendere un
ente, considerarlo nella sua staticità formale. Una morfologia corretta
va infatti sempre posta nel quadro di una “morfogenesi”, che comprenda cioè il percorso costitutivo della forma. Senza questo substrato,
senza il dialogo tra forma e contesto, visibile e invisibile che in esso si
manifesta, l’immagine pittorica diventerebbe un’immagine come tante,
un “nulla”, e non invece una figura mitico-simbolica, che ha in sé il
senso della “matrice”.
L’espressività stilistica dell’immagine simbolica è matrice perché si
presenta come possibile: il possibile come lo intende Leibniz, cioè energia spirituale e tensione materica, possibile che è sviluppo, e non staticità della forma. Questo senso di matrice stilistica può essere incarnato,
nel linguaggio pittorico, dall’icona o, in tempi più recenti, dalla pittura
monocromatica. Per cui, il monocromo-icona rappresenta la morfologia
originaria del pittorico: la forma è inseparabile dal colore, e il colore è
la qualità originaria di una simbolicità complessa, di cui la forma è il
senso visibile/invisibile. Ma il monocromo è anche la possibilità dinamica del pittorico, di cui incarna la morfogenesi: la forma diviene secondo
una direzione che, prima degli stili, ovvero delle categorie storico-strutturali del pittorico, cui il pittorico stesso non può venire ridotto, ha nel
colore la sua qualità produttiva, una qualità originaria, che si ripropone
sempre di nuovo, e che sfugge l’equivoco della rappresentazione, della
riconoscibilità, del mimetico, richiedendo una forma di riconoscimento
sia empatica sia razionale.
D’altra parte, come è noto, Leon Battista Alberti tende piuttosto a
ricondurre il pittorico al “disegno”, attestandone di conseguenza il senso razionale, descrittivo, formale. Il monocromo vuole invece ricordare
che il pittorico è colore, ovvero qualità pura del possibile, genesi della
forma che precede le stilizzazioni e che, di conseguenza, affronta la
questione dell’informe e dell’irrappresentabile non come contrari dialettici del formale e della rappresentazione, bensì in quanto suoi elementi
costitutivi originari, esplicitando i quali la pittura conduce sulle strade
77
della Gestaltung, all’interno di una goetheana metamorfosi della forma
che è simbolo della metamorfosi stessa del pensiero, della sua radice
sensibile, di una forza formativa che fonda la presenza, attestandone
sempre di nuovo il senso di possibilità. Il valore simbolico della forma
pittorica è appunto nell’unione, nell’unificazione, della forma matrice
dello stile, la possibilità pura del colore, con le molteplicità ekphrasticoretoriche degli stili, cioè delle forme che ne delineano i contorni.
Il valore simbolico ed espressivo del colore in Goethe 6 è un tentativo di comprendere il simbolo, lo stile, il fenomeno originario, la matrice di un senso espressivo che si esplicita, in polemica con Newton,
in eventi non riducibili a catene causali o spiegazioni meramente concettuali: Steiner, Albers, Kandinsky, Klee, Marc, Wittgenstein, pur con
accenti diversi, hanno ripreso la volontà goetheana di rivestire il colore
di un significato simbolico, spesso sposandola (o contrapponendola con
la teoria del colore romantica di Philip Otto Runge) 7. È significativo
che Goethe distingua simbolo e allegoria anche nella sua Teoria dei
colori: se infatti uso simbolico del colore è quello che se ne serve per
esaltare la sua azione, un «vero nesso» che subito esprime un «significato», l’impiego allegorico «contiene una quota maggiore di casualità
e arbitrarietà, direi perfino qualcosa di convenzionale» 8. Il simbolico
esprime dunque il senso possibile del colore, ma lo esprime a partire
dalla sua realtà empirica, esperienziale, cromatica: non esiste attività
simbolica, infatti, «che non si incontri nello stesso tempo con la natura
e il mondo, a essi ricongiungendosi» 9.
Tuttavia, la sensibilità simbolica del colore non è soltanto il risultato di un movimento interiore, come sembra credere Kandinsky, bensì
soprattutto il legame tra l’occhio e il mondo, che origina un «fenomeno naturale» che si manifesta «attraverso divisione e opposizione,
mescolanza e unione, potenziamento e neutralizzazione, trasmissione
e distribuzione» 10. Di conseguenza, non si contrappone affatto al disegno, ma ne è il necessario completamento. Il disegno, peraltro, non
indica, neppure in Vasari, una forma razionale e intellettualistica, bensì
la capacità di oggettivare, di rendere forme variati in stili, i sentimenti
possibili che l’arte esprime. La pittura, scrive, «è un piano coperto di
campi di colori, in superficie, di tavola o di muro – di tale, intorno a
diversi lineamenti, i quali per virtù di buon disegno di linee girate circondano la figura» 11. Anche Leon Battista Alberti, pur ritenendo che
i modelli e i metodi della natura che l’arte deve reperire e riprodurre
siano riconducibili a espressioni geometriche, matematiche, musicali e
corporee, sa che esse «non rivendicano il distacco dalla natura, dall’esperienza e da un generale orizzonte sapienziale, bensì manifestano
la loro origine simbolica e la costante congruenza con i fenomeni percepiti attraverso i sensi» 12.
L’unità simbolica di una forma, il suo stile – ed è una prima conclusione possibile – è dunque un insieme di disegno e colore, di linea
78
che circoscrive e di cromaticità che tocca i sensi, di stile-matrice e
di stili narrativi, è un geroglifico espressivo 13 da decifrare: una forma
retorico-espressiva costituita da parti distinte, che tuttavia, esplicitando
il significato possibile che è nei loro nessi, possono costituire sempre
nuovi interi.
Se è, come è, unità simbolico-espressiva, che evidenzia i suoi legami con la retorica, la pittura non si limita alla sincronicità simbolica
dell’istante, ma narra storie, affrontando anche un’altra dimensione del
tempo, la diacronicità della narrazione. Le storie devono attirare l’attenzione, convincere un uditorio, commuoverlo ma anche accrescere
il suo sapere: ciò può essere fatto attraverso l’inventio e la dispositio,
cioè quelle parti della retorica che costruiscono una struttura, che però
deve anche movere e delectare. Di questa profonda analogia, che è
una delle componenti più importanti della teoria dell’arte a partire
dal Rinascimento, e che implicitamente connette la razionalità logica della linea disegnata con l’emotività qualitativa del colore, va così
sottolineata la capacità di costruzione di una forma che sia armonica,
cioè in grado di connettere le parti tra loro, ed empatica, che esprime
cioè un senso affettivo che colpisca l’osservatore. Armonia ed empatia sono essenziali per l’espressione di una forma simbolica: armonia
perché, come suggeriva Alberti, vi deve essere amicitia tra le parti e
«l’organicità dell’opera si specchia in questa sintesi tra valori plastici,
effetti chiaroscurali e coloristici» 14; empatia in quanto implica una
“simpatia simbolica” che lega il soggetto e la forma secondo trame
sia affettive sia conoscitive, sia retoriche sia logiche. Proprio come il
disegno e il colore, i due elementi devono comporsi: «la istoria, scrive Vasari, sia piena di cose variate e differenti l’una da l’altra, ma a
proposito sempre di quello che si fa e che di mano in mano figura lo
artefice» 15. La varietà va composta in un quadro armonico, ed esso
deve «dilettare».
Il colore può incarnare la possibilità, corrispondere alla funzione
stilistica che la figuralità ha nell’arte retorica; il disegno può rappresentare quel che per la retorica è l’argomentazione, strutturando il
percorso narrativo; i ruoli e le funzioni possono anche alternarsi o
scambiarsi, secondo modi la cui possibilità è radicata nell’incontro tra
la specificità qualitativa della forma e l’occhio dell’osservatore. Ma quel
che rimane costante, in tale varietà di modi, è la tendenza del diverso
a costituire un’unità (formale e armonica), unità che genera quella
forma empatica e simbolica in virtù della quale la forma stilistica stessa
viene detta “espressiva”. Il simbolo è una monade espressiva, che nel
suo essere semplice e complessa, armonica e lacerata, empatica e fonte
di conoscenza tende sempre a una “amicizia” tra le sue parti, che è la
matrice, lo stile di una tensione costruttiva che ne esplicita, attraverso
forme o stili singolari, la costitutiva trama di possibilità.
Il mutare delle “lingue” in cui tale matrice si esprime – e di cui
79
l’arte novecentesca è utile orizzonte esemplificativo – non modifica
il senso del suo linguaggio, di quello stile che ne anima l’intenzione
formativa e che ne è la condizione di possibilità. Questa “intenzione”
non è una funzione antropologica o, meglio, la costante antropologica
che la anima ne indica il valore conoscitivo, cioè l’istanza gnoseologica
che guida il tentativo di chiarificare il senso possibile che attraversa la
stratificata vita delle forme.
La varietà che qui si esprime non è frammentazione, elogio della
rovina o dell’allegoria, bensì, nella metafora viva del pittorico, incontro
armonico di forma e forza, di disegno e colore, che costituiscono una
unità. La perfezione del passaggio dal possibile al reale si concretizza
così nella forma, nello stile che è unità nella varietà: formula con cui
per molti secoli è definita la bellezza in quanto ente che discende dalla
genesi del possibile, cioè da quella armonia universale cui il possibile
stesso tende nel suo farsi esistente.
La forma simbolica non è mai una realtà statica, un “fatto”: esprime un possibile che è, come voleva Goethe, formativo. Le piccole percezioni, chiare e confuse, radice estetica del sapere simbolico, rendono
tale realtà formale una matrice di possibilità da esplicitare in sempre
nuove forme, senza che il suo senso sia soddisfatto o pacificato da
una tra esse soltanto. Ma senza che, al tempo stesso, la confusione si
trasformi in oscurità o in elogio della mera apparenza: le monadi simboliche, la varietà degli stili, sono forme che tendono al compimento,
all’“amicizia”, non tracce oscure e autoreferenziali, bensì occasioni di
pensiero, di tensione al compimento di un senso di riunificazione simbolica. È tale fenomenologia a mostrare i limiti di qualsivoglia soluzione empirica od ontologica: lo stile simbolico è un nucleo di possibilità
che esprime il proprio senso in molteplici stili, in una varietà di possibili che ne sono, per così dire, le “piccole percezioni”. Le “forme”,
le “icone” che l’arte presenta non sono dunque enti monumentali, né
rovine di un passato immemoriale, bensì senso in genesi, possibile che
si esprime, piccole percezioni che si affacciano, divenendo chiare a
fronte di una spontanea intenzionalità formativa e intersoggettiva. Gli
stili in cui questa genesi si esprime sono il “possibile” che è nello stile,
nella forma simbolica, che cerca, nella varietà, e nei suoi tormenti, una
provvisoria unificazione delle qualità differenti da cui è attraversata la
trama delle cose mondane, che a noi si offrono, nella storia, per essere
sempre di nuovo decifrate nella loro capacità di produrre, attraverso
rappresentazioni finite, senso, espressione, comunicazione.
1 E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, a cura
di E. Paci, Milano, Il Saggiatore, 1968, p. 183, par. 44.
2 Ivi.
80
Ivi.
Ivi, pp. 185-86. Anche “formazione” (Bildung) è ovviamente termine goetheano.
5
H. Maldiney, Regard, parole, espace, Lausanne, L’age de l’homme, 1973, p. 6.
6
Si veda J. W. Goethe, La teoria dei colori, a cura di R. Troncon, Milano, Il Saggiatore, 1979. Per un inquadramento della teoria di Goethe nella problematica contemporanea, si veda il n. 23-24, 1981, de “il verri”, citato da R. Troncon e dedicato a
questa problematica.
7 Si veda P. O. Runge, La sfera del colore, a cura di R. Troncon, Milano, Il Saggiatore, 1985.
8 J. W. Goethe, La teoria dei colori, cit., p. 214.
9 R. Troncon, Appendice “Goethe e la filosofia del colore”, ivi, p. 241.
10 J. W. Goethe, cit., p. 15.
11 G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti architetti, pittori et scultori italiani da Cimabue
insino a’ tempi nostri, a cura di L. Bellosi e A. Rossi, Torino, Einaudi, 1986, p. 58.
12 P. Panza, Leon Battista Alberti. Filosofia e teoria dell’arte, Milano, Guerini, 1994,
p. 23.
13 Troviamo questa espressione in Alberti, Leonardo, Diderot.
14 P. Panza, cit., p. 126.
15 G. Vasari, cit., p. 59.
3
4
81
“Ästhetische Arbeit”:
l’estetica atmosferica di Gernot Böhme
e l’attualità della retorica
di Salvatore Tedesco
Sapientemente dissimulata dietro il concetto piuttosto “esoterico” di atmosfera, la nuova estetica, o piuttosto aisthetica, di Gernot
Böhme si propone come il punto di arrivo di un complesso percorso
all’interno delle tradizioni della fenomenologia novecentesca – e qui
il riferimento andrà non tanto alla linea che da Husserl conduce sino
a Merleau-Ponty, quanto piuttosto all’estetica e all’antropologia fenomenologica da Rothacker, a Klages, sino a Hermann Schmitz – e al
tempo stesso come una robusta, seppure indubbiamente problematica,
ripresa del progetto estetologico baumgarteniano. La nuova «estetica
come teoria generale della percezione» 1 riattiva infatti sin dal nome
– Aisthetik appunto – il riferimento alla scienza baumgarteniana della
sensibilità, realizzando proprio per questo tramite – ed ecco un altro
degli aspetti macroscopici della posizione di Böhme, che sicuramente
hanno contribuito ad iscriverla autorevolmente nell’attuale dibattito
tedesco 2 – una significativa estensione dell’ambito dell’estetica al di
fuori della tradizionale filosofia dell’arte, in direzione di un’estetica
della natura 3 e di una “neo-estetica” che tiene di mira fenomeni quali
il design e una più generale estetizzazione del reale 4.
L’attualità per la verità quasi corriva e direi la sin troppo ampia
circolazione di temi affini nell’estetica tedesca di oggi (pur nella diversità delle posizioni, e per fare solo i nomi maggiori: Welsch, Seel,
Bohrer, Wiesing) ha però portato a trascurare gli intenti propriamente
sistematici del discorso di Böhme, intenti a partire dai quali, tuttavia,
acquista probabilmente ulteriori valenze anche il riferimento a Baumgarten e a quella componente fondamentale, benché spesso travisata,
dell’estetica di Baumgarten che è la retorica.
Böhme condivide anzitutto con Baumgarten l’idea che tramite l’estetica si offra spazio a una peculiare forma di conoscenza, significativamente diversa da quella costituita dalla scienza moderna: «a me interessa sviluppare la conoscenza estetica proprio come una conoscenza
particolare e soprattutto diversa da quella scientifica, e in relazione a
ciò mostrare che essa scopre nel mondo qualcosa che non è accessibile
ad altri modi di conoscenza» 5.
La creazione di uno spazio teorico per l’estetico era stata possibile
83
a Baumgarten solo per il tramite di un profondo ripensamento del
progetto filosofico della modernità, rimettendo in questione il criterio
cartesiano della chiarezza e distinzione della conoscenza e così conducendo a riarticolarlo analiticamente tanto in relazione ai criteri della
verità che alla strumentazione metodologica di cui la mente umana si
serve per elaborare le proprie forme di conoscenza. La teorizzazione
della bellezza come “perfezione della conoscenza sensibile in quanto
tale” 6 e dunque l’affiancamento di un altro possibile ordine delle verità a quello della logica dell’intelletto, apriva il campo a una pluralità
di criteri di perfezione della conoscenza 7, e trovava rispondenza sul
piano dell’organon, della strumentazione filosofica, nella creazione di
una disciplina estetica che veniva ad affiancarsi alla logica tradizionale,
modernamente sempre più volta in direzione della ricerca scientifica.
Ed è proprio a partire da una profonda riflessione sui fondamenti teorici e sulla metodologia della ricerca scientifica contemporanea
che l’estetica è anzitutto chiamata, secondo Böhme, ad assicurare la
necessaria articolazione concettuale e dunque pregnanza di discorso
filosofico a una forma di sapere profondamente alternativa, appunto
sul piano metodologico, nei confronti del corso maggiore della scienza
moderna e della settorializzazione del concetto di esperienza cui essa
conduce.
Una lunga serie di lavori portati avanti da Böhme nel corso degli
anni Sessanta e Settanta, e specie all’epoca della sua collaborazione con
lo Institut zur Erforschung der Lebensbedingungen der wissenschaftlichtechnischen Welt, diretto da Jürgen Habermas e da Carl Friedrich von
Weizsäcker, ci aiuta a comprendere il senso della proposta del nostro;
una proposta, tanto andrà anticipato, che nasce da una riflessione quanto mai attenta sul metodo delle scienze contemporanee, e che giusto nel
cuore di quei procedimenti metodici rintraccia le aperture in direzione
di una differente organizzazione del sapere.
Già a partire dal libro del 1966 Über die Zeitmodi il senso del percorso di Böhme appare d’altronde definito con la massima chiarezza:
Über die Zeitmodi si occupa delle variazioni intervenute nel concetto di
tempo a seguito della moderna fisica quantistica, prendendo sostanzialmente le mosse da Der zweite Hauptsatz und der Unterschied von Vergangenheit und Zukunft 8, un celebre lavoro del 1939 di Carl Friedrich
von Weizsäcker, allora giovane allievo di Heisenberg e Bohr. In parallelo
col dibattito della fisica quantistica, un’analisi delle funzioni grammaticali del verbo era chiamata nel volumetto del 1966 a prospettare, «con
costante riferimento ai fenomeni del comportamento quotidiano» 9, il
nesso delle strutture temporali su cui si articola la comprensione del
tempo propria della coscienza naturale.
Il rapporto fra scientifizzazione e mediazione tecnica dell’esperienza,
da una parte, e “mondo della vita”, dall’altra 10, deve essere elaborato
nella concretezza di determinate Fallstudien, nei punti salienti della
84
sperimentazione teorica a partire dai quali si determina la metodologia
delle singole scienze 11, e non potrà che guidare a tematizzare con particolare attenzione quei momenti in cui emergono forme di elaborazione
scientifica dell’esperienza divergenti dal «superparadigma della scienza
naturale» 12 moderna. Se, come osserva Böhme nell’importante Die Verwissenschaftlichung der Erfahrung 13, la scienza naturale moderna «non
è un’immediata prosecuzione dell’esperienza del mondo della vita»,
istituendo anzi nei confronti di questa una necessaria discontinuità,
emancipandosene in direzione di «ambiti fenomenici che non sono in
generale accessibili all’esperienza del mondo della vita», ciò avviene perché, a differenza dell’altra, quella propria delle scienze naturali «non è
più percezione (Wahrnehmung), ma esperienza mediata da un apparato
tecnico (apparative Erfahrung)».
Tanto più significativa allora la progressiva differenziazione metodologica dei discorsi scientifici che ha luogo nella modernità; non è
un caso che proprio a Carl Friedrich von Weizsäcker Böhme dedichi
nel 1977, l’anno in cui lascia l’Istituto da questi diretto, un saggio sulla
Teoria dei colori di Goethe 14, presentata come esempio di una scienza
della percezione che costituisce una decisa «alternativa al di fuori del
mainstream della scienza naturale moderna» 15 rappresentata, nel caso
specifico, dalla teoria newtoniana del colore.
Almeno tre passaggi dell’argomentazione di Böhme sul modello di
scienza prospettato dalla Farbenlehre risultano anche ai nostri fini del
più grande interesse: anzitutto, osserva Böhme, ben al di qua della
concreta articolazione delle rispettive teorie, Goethe e Newton vengono guidati da un differente interesse conoscitivo (Erkenntnisinteresse),
orientato da un diverso rapporto con la prassi 16: a esser tematizzate da
Goethe saranno in primo luogo le condizioni per il manifestarsi dei colori e saranno appunto tali condizioni, empiriche, a guidare la teoria. In
secondo luogo – e ciò come vedremo determina per intero il discorso
estetologico di Böhme – il concentrarsi dell’interesse conoscitivo sulla
“manifestatività” pone decisamente in secondo piano la discussione
“moderna” sulle qualità primarie e secondarie. Böhme non tarda a
coglierne conseguenze di ancor più ampia portata: «i colori […] non
appartengono né all’ordine della res extensa né a quello della res cogitans, […] non sono né qualcosa di oggettivo né qualcosa di soggettivo,
ma piuttosto […] si danno condizioni oggettive e soggettive per il loro
manifestarsi. La teoria di Goethe prende su di sé l’impegno di indicare
in modo sistematico tali condizioni» 17. In ultimo, la centralità del riferimento storico: la storia della scienza, delle alternative metodiche in
cui essa si costruisce, è essa stessa la scienza 18, con il suo ineliminabile
pluralismo metodologico 19 e con le complesse motivazioni in ordine
alle mutazioni di paradigma che in essa hanno luogo.
Fermiamoci subito per schizzare brevemente la genesi di questo
nesso fra l’interesse conoscitivo e quella che possiamo senz’altro iniziare
85
a chiamare la prassi o anche il lavoro estetico. Il concetto di Erkenntnisinteresse si lega – probabilmente per il tramite di Habermas 20 – al
pensiero di Erich Rothacker 21: sulla base della distinzione fra lebenspraktisches�����������
Bewußtsein, la coscienza pratica che opera nel mondo della vita sempre orientandosi “in situazione”, e wissenschaftspraktisches
Bewußtsein, ovvero l’attività della soggettività propriamente volta alla
“identificazione logica” e dunque alla costruzione delle scienze rigorose 22 – attività essa stessa eminentemente “pratica”, a giudizio di Rothacker, in quanto sempre relativa a un determinato obiettivo conoscitivo
storicamente e problematicamente determinato, sempre relativa, nella
terminologia di Rothacker, a una determinata “dogmatica” 23 – Rothacker giunge all’enucleazione di tre “leggi della coscienza”, fra le quali
ha particolare risalto la terza, il Satz der Bedeutsamkeit o “principio
di significatività” che afferma il carattere selettivo dell’attività con cui
la coscienza attribuisce senso alla realtà sulla base di un determinato
interesse, conoscitivo in senso lato, ovvero un interesse da intendere in
primo luogo come un nesso vitale che lega un soggetto storicamente e
culturalmente determinato a qualcosa 24. Rothacker parla di «costituzione di isole di senso per mezzo della assunzione di interesse» 25, e il
carattere pratico dell’interesse sta appunto in questa funzione costruttiva di senso, e dunque, per quanto riguarda la sfera del lebenspraktisches Bewußtsein, nella peculiare creatività dell’intuizione sensibile. In
parallelo con la hegeliana Arbeit des Begriffs si potrà senz’altro parlare
– propone Rothacker 26 sulla scia di una serie di riferimenti giocati
nell’essenziale sulla linea da Schopenhauer a Fiedler e sino a Klee – di
una Erarbeitung der Anschauung, di una elaborazione dell’intuizione
che avviene in primo luogo nell’ambito della corporeità e della relazione sensibile fra l’uomo e la realtà, scaricandosi quindi nel lavoro
interpretativo del mito 27, e trovando infine un momento di particolare
chiarificazione nella sfera propriamente artistica.
L’interesse di Goethe per le condizioni del manifestarsi dei colori,
e torniamo così alle teorie di Böhme, conduce all’elaborazione di un
sapere sistematico a partire dalla costruzione del senso propria della
prassi artistica: si tratterà dunque di un sapere scientifico, non già
concepito secondo il modello della apparative Erfahrung della scienza
naturale moderna, ma nel senso di una scienza della percezione, di
una scienza delle condizioni oggettive e soggettive insieme del darsi
del fenomeno estetico del colore 28. Quando, vent’anni più tardi, ����
Böhme��������������������������������������������������������������������
attribuirà alla nuova estetica il compito di elaborare un concetto
capace di «dar conto del peculiare stato intermedio delle atmosfere
fra soggetto e oggetto» 29, non farà che proseguire lo stesso progetto,
traendo ogni implicazione dalla valenza in senso proprio ambientale
delle strutture di senso in cui si danno i “fenomeni intermedi” dell’esperienza sensibile.
A esser prefigurata nella Farbenlehre sarà allora «una concezione
86
della natura all’interno della quale la configurazione espressiva (Ausdrucksgestalt) è rilevante nel nesso naturale e i colori sono un fenomeno fra soggetto e oggetto, una realtà in cui si uniscono il visibile e
l’occhio che vede. I colori sono azioni della luce, come dice Goethe,
energeia» 30.
«L’interesse conoscitivo plasma i metodi della conoscenza e con
essi ciò che viene conosciuto» 31, scrive Böhme ritornando nel 1980 ai
risultati del saggio sulla Farbenlehre; ne deriva la necessità di lavorare
sulle alternative della scienza, di tenere aperto un pluralismo metodologico che permetta di intendere la scientificità di quelle forme di sapere
che – piuttosto che alla modificazione tecnica della natura cui mira il
sapere produttivo (Produktionswissen) della scienza naturale moderna – servono all’orientamento (Orientierungswissen) all’interno di un
ordine naturale dato e a teorizzare i fenomeni naturali non solo nelle
loro reciproche relazioni, ma anzitutto nel loro rapporto con l’uomo,
così prefigurando «un’altra relazione con la natura e dell’uomo con
se stesso» 32.
Gli aspetti indubbiamente un po’ ingenuamente “ambientalistici” di
questa contrapposizione fra sapere produttivo e sapere d’orientamento vengono ben presto superati da Böhme grazie all’approfondimento
concettuale del significato della relazione ambientale, nel senso di una
ripresa del concetto di Umwelt nella sua accezione originaria, quale si
trova nella biologia teoretica di Jakob von Uexküll: struttura biologica
(Bauplan) e ambiente di vita della specie stanno fra loro in relazione
di corrispondenza; il concetto di ambiente (Umwelt) si determina in
quanto unità strutturale di mondo percettivo e mondo dell’agire della
determinata specie 33. In una considerazione ambientale, dirà Gehlen
ripensando la lezione di Uexküll, «il soggetto degli eventi non è, per
così dire, né un individuo né una specie, bensì un rapporto tra specie e
ambiente o, per dir meglio, un’interconnessione di varie specie e di vari
ambienti» 34. Proprio in questo senso, nell’Aisthetik, Böhme parlerà di
estetica della natura in quanto «questione della relazione fra qualità
ambientali e condizione (Befindlichkeit) umana» 35, intendendo la Befindlichkeit� come la disposizione dell’io nell’atto percettivo prima che
avvenga in senso pieno la separazione fra il polo soggettivo e il polo
oggettivo 36, e dirà che problema peculiare della nuova estetica è quello
legato alla «messa in forma (Gestaltung) di un ambiente umano» 37.
“Orientamento” e “produzione” formano dunque un’endiadi – proprio come percezione e movimento sul piano della determinazione antropologica dell’agire umano 38 – e una scienza della percezione sarà
elaborazione metodica di un sapere sulle configurazioni espressive della
realtà 39.
Torniamo così al nesso fra interesse, prassi e scienza della percezione, per ritrovarne un’ulteriore decisiva stazione teorica nella Anthropologie in pragmatischer Hinsicht del 1985 40, in cui il concetto
87
di Praxis servirà a teorizzare le relazioni fra atmosfera, condizioni del
suo sorgere e analisi della sua produzione; non entrerò in questa sede
in un’analisi di questo scritto, per limitarmi a sottolineare una svolta,
o piuttosto un chiarimento importante che a partire da esso s’impone
alla riflessione di Böhme: in una rinnovata fenomenologia della percezione ambientale quello di atmosfera vale come concetto antropologico
centrale, risultando tuttavia realmente suscettibile di analisi soltanto in
quanto concetto estetico.
Possiamo finalmente ritornare a Baumgarten e al ruolo che Böhme
gli attribuisce nella storia della scienza estetica e delle sue alternative
disciplinari: decisivo nel progetto baumgarteniano è evidentemente per
Böhme anzitutto il fatto che l’analisi delle condizioni dell’esperienza
sensibile venga sviluppata in forma di scienza; ciò potrà aprire, francamente al di là delle intenzioni dello stesso Baumgarten, all’elaborazione di un diverso modello di scienza delle interazioni fra l’uomo e
la natura 41: «l’estetica come teoria della percezione scopre dunque un
tratto fondamentale della natura che sfugge alla scienza naturale, a ogni
modo a quella moderna. Nella percezione la natura ci viene incontro
come percepibile, essa è, con il termine greco, aistheton» 42.
Altrettanto decisivo è però il procedimento metodico con cui l’esigenza di un sapere sulla sensibilità diviene in Baumgarten scienza in
senso forte; ovvero, come si diceva all’inizio di queste note, l’intreccio
fra la questione metodologica dell’estetico e la fondazione sistematica
della scienza estetica come nuova articolazione dell’organon.
Riprendendo dunque, nei modi e per le ragioni assolutamente peculiari che siamo andati esaminando, l’intenzione teorica baumgarteniana – direi proprio in senso specifico quanto al profondo innesto
fra dimensione metodologica e progetto sistematico – Böhme afferma
che il discorso estetologico non potrà porsi come l’applicazione di un
determinato impianto metodologico o di un programma di ricerca a
“problemi estetici”, ma dovrà piuttosto sviluppare a partire dai problemi stessi un impianto concettuale e una terminologia a essi adeguata 43. Con questo gesto, Böhme si pone risolutamente nel segno
della fenomenologia di Hermann Schmitz, riprendendo in maniera
piuttosto evidente il concetto di sistema da questi elaborato e posto a
fondamento della propria ricerca: l’Aisthetik avrà carattere sistematico,
a giudizio di Böhme, «in quanto essa a partire dalle situazioni problematiche attualmente urgenti del proprio campo di lavoro e a seguito
di tali problemi sviluppa passo dopo passo la propria concettualità» 44.
Doppiamente pertinente risulterà allora l’esempio storico di Baumgarten, se è vero che l’incrocio fra il problema metodologico dell’estetico
e lo sviluppo sistematico della disciplina estetica è reso possibile in
Baumgarten dalla teorizzazione, di origine aristotelica, delle arti come
forme del sapere.
Se per un verso la formulazione delle questioni estetologiche è in
88
definitiva possibile per Böhme solo a partire dai fatti estetici (e in
questo senso si fa valere il carattere di testimonianza degli ordini del
sensibile che le opere d’arte rivestono per la prospettiva dell’Aisthetik),
ciò che qui particolarmente interessa – ciò che apre in senso proprio
la prospettiva del lavoro estetico – è il carattere produttivo del sapere
artistico 45; Böhme valorizza in questo senso l’affermazione di Meier
per cui le belle arti e scienze consistono in una forma di conoscenza
«secondo la quale determinate azioni vengono eseguite in una determinata maniera, e secondo la quale viene prodotto o meno un determinato specifico oggetto» 46: l’opera d’arte, ne conclude Böhme, «è
l’oggettivazione di una conoscenza» 47.
Davvero eroico, nell’Aisthetik, il tentativo di Böhme di indicare i
tratti salienti dell’elaborazione estetica delle atmosfere, a partire dall’individuazione, sulla scorta del dibattito settecentesco sulla fisiognomica, di una serie di “caratteri delle atmosfere” che, complessivamente
considerati 48, conducono – direi – a valorizzare l’immanenza nelle
atmosfere di un movimento espressivo che attraversa l’intera relazione
ambientale fra soggetto e oggetto, fra colui che percepisce e la configurazione percepita; in corrispondenza dei caratteri, Böhme si sforza
anche di indicare una serie di elementi generatori (Erzeugende), che
saranno in ultima analisi l’oggetto specifico del lavoro estetico tanto
nel campo delle arti tradizionalmente intese quanto e soprattutto nei
“nuovi” ambiti del design, della pubblicità, della moda, della cosmetica, dell’architettura d’interni, o ancora, ad esempio, della musica
ambientale 49. E qui ancora Böhme parlerà ad esempio di gestualità
e fisionomia in rapporto al carattere comunicativo delle atmosfere, di
configurazione delle forme e dei volumi in rapporto alle impressioni
motorie legate al carattere emotivo delle atmosfere 50.
Il lavoro estetico consiste dunque nella produzione di strategie volte all’oggettivazione della conoscenza sensibile, e tale oggettivazione,
tale messa in forma delle configurazioni espressive della realtà (cioè,
secondo la terminologia di Böhme, delle atmosfere), si definisce con
Baumgarten perfezionamento della conoscenza sensibile: «Chiunque
dispone della conoscenza sensibile, ed essa è di grande significato nella
vita quotidiana. L’estetica serve al perfezionamento di questa conoscenza; in quanto perfetta la conoscenza sensibile è arte» 51.
Nel cuore di tale strategia di perfezionamento sta per Baumgarten
il ripensamento filosofico della retorica, la costruzione di una teoria
dell’argomentazione estetica. La percezione sensibile può stare al centro dell’estetica di Baumgarten solo in quanto la retorica permette di
riconoscerla capace di un’autonoma strategia conoscitiva di perfezionamento. L’argomentazione estetica ha luogo per Baumgarten nell’articolazione di un nesso di percezioni sensibili, e la retorica illustra le
regole strutturali per il cui tramite avviene il perfezionamento della
conoscenza sensibile cui tutta intera l’estetica è finalizzata 52.
89
Böhme giunge a equiparare il concetto di lavoro estetico a quello
di retorica, e ciò in due accezioni diverse: per un verso al fine di sottolineare l’intonazione affettiva, emozionale, dell’esperienza ambientale
della configurazione dell’oggetto estetico 53, per l’altro verso nella conclusiva articolazione del lavoro estetico nei due versanti della prassi e
della critica estetica 54.
Per quanto Böhme, nel suo ripensamento sistematico dell’estetica
di Baumgarten, finisca col cogliere in modo sempre piuttosto parziale
il ruolo chiave giocato dalla retorica, e in specie dalla teoria dell’argomentazione, la retorica gioca di fatto un ruolo di primo piano nel
discorso estetico di Böhme; per fare un unico esempio, la polarità
poc’anzi brevemente schizzata fra carattere comunicativo e carattere
emotivo delle atmosfere rinvia senz’altro alla polarità retorica fra ethos
e pathos, del resto essa stessa ampiamente adombrata in alcune delle sue conseguenze storicamente più pervasive nella complementarità
sviluppata da Böhme fra prassi e critica estetica.
Straordinaria pervasività del paradigma retorico: secondo il modello baumgarteniano della philosophia instrumentalis, la teoria implica
e richiede la prassi estetica, l’analisi strutturale delle atmosfere non si
compie in Böhme senza la considerazione topica degli elementi generatori delle atmosfere stesse, delle loro condizioni sociali, politiche e
delle forme della comunicazione; di più, quella di Böhme sarà in senso
specifico un’analisi dei mezzi atti a suscitare le atmosfere, e giusto in
questo senso una retorica filosofica e non una poetica normativa delle
atmosfere.
1
Questo il sottotitolo di G. Böhme, Aisthetik. Vorlesungen über Ästhetik als allgemeine Wahrnehmungslehre, München 2001, a oggi la più ampia trattazione estetologica
proposta da Böhme.
2
Mi fa piacere a questo proposito ricordare il lavoro di Giuseppe Gulizia, Anestetica e nuova estetica. Percorsi nel dibattito contemporaneo tedesco, che ho avuto modo
di seguire nell’ambito delle attività del Dottorato di ricerca in “Estetica e teoria delle
arti” dell’Università di Palermo.
3
In questo senso cfr. soprattutto G. Böhme, Natürlich Natur, Frankfurt am Main
1992; Idem, Für eine ökologische Naturästhetik, Frankfurt am Main [1993] 19993; Idem,
Atmosphäre, Frankfurt am Main 1995; e il più recente, in certo modo riassuntivo, Idem,
Die Natur vor uns, Kusterdingen 2002. ����������������������������������������������������
Si vedano in proposito i rilievi critici di P. D’Angelo, Estetica della natura, Roma-Bari 2005.
4
Oltre che in buona parte dei lavori già cit., e nella Aisthetik in primo luogo, il tema
ritorna ad es. nel recente G. Böhme, Architektur und Atmosphäre, München 2006.
5
Idem, Atmosphäre, cit., p. 10.
6 Secondo la definizione del § 14 dell’Estetica di Baumgarten; e cfr. in proposito le
osservazioni di G. Böhme, Aisthetik, cit., p. 15.
7 Per questo punto mi permetto di rinviare al mio L’estetica di Baumgarten, Palermo
2000.
8 Originariamente pubblicato in “Annalen der Physik”, 36, 275 (1939), il saggio è
90
ora leggibile in C. Fr. von Weizsäcker, Die Einheit der Natur, München 1971, nuova
ed. 1982, pp. 172-82.
9
G. Böhme, Über die Zeitmodi, Göttingen 1966, p. 13.
10
Tutta la questione, oggetto del lavoro di Böhme, come si vede, già dagli anni
Sessanta, ritorna in forma sistematica in Idem, Weltweisheit, Lebensform, Wissenschaft.
Eine Einführung in die Philosophie, Frankfurt am Main 1984, rielaborato col titolo Einführung in die Philosophie dieci anni più tardi.
11 In questo senso Idem, Quantifizierung und Instrumententwiwicklung. Zur Beziehung der Entwicklung wissenschaftlicher Begriffsbildung und Meßtechnik, in “Technikgeschichte”, 43 (1976), pp. 307-13.
12 Idem, Die Verwissenschaftlichung der Erfahrung. Wissenschaftsdidaktische Konsequenzen, in G. Böhme e M. von Engelhardt (a cura), Entfremdete Wissenschaft, Frankfurt am Main 1979, pp. 114-36, qui a p. 115.
13 Cit., di seguito si citerà dalle pp. 115-16.
14 Idem, Ist Goethes Farbenlehre Wissenschaft?, in “Studia Leibnitiana”, 9, 1977,
pp. 27-54, ora ripreso in Idem, Alternativen der Wissenschaft, Frankfurt am Main 1980,
pp. 123-53, nel seguito si citerà da questa edizione. L’importante
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saggio si inserisce in
un dibattito decisivo per la riflessione sulla scienza moderna. Mi
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limito qui a indicarne
alcune tappe essenziali: H. Helmholtz, Über Goethes naturwissenschaftliche Arbeiten,
in Idem, Vorträge und Reden, vol. I, Braunschweig 1896, pp. 23-47; G. Benn, Goethe
und die Naturwissenschaften, in Idem, Nach dem Nihilismus, Berlin 1932, pp. 25-85; W.
Heisenberg, Die Goethesche und die Newtonsche Farbenlehre im Lichte der modernen
Physik, in “Geist der Zeit”, 19, 5, 1941, pp. 261-75, con varie ristampe; V. von Weizsäcker, Gestalt und Zeit, in “Die Gestalt”, 7, 1942, anch’esso più volte ripreso in volume;
C. Fr. von Weizsäcker, Goethes Farbentheologie - heute gesehen, Göttingen 1991; un
discorso a parte riguarderebbe la ripresa di tematiche goetheane nella fenomenologia
d’impostazione schmitziana, da H. Schmitz, Goethes Altersdenken im problemgeschichtlichen Zusammenhang, Bonn 1959, al recente G. Böhme, Goethes Faust als philosophischer
Text, Kusterdingen 2005.
15 Idem, Alternativen der Wissenschaft, cit., p. 21.
16 Idem, Ist Goethes Farbenlehre Wissenschaft?, cit., p. 134.
17 Ivi, p. 137.
18 Ivi, p. 140, riflessione costruita da Böhme attorno a una citazione dalla Farbenlehre.
19 È questo un tema cardine della riflessione metodologica di Viktor von Weizsäcker, zio di Carl Friedrich, ed altro autore di riferimento per Böhme; cfr. ad es. �������
V. von
Weizsäcker, Der Gestaltkreis (1940), in Idem, Gesammelte Schriften, vol. 4, Frankfurt
am Main 1997, pp. 270-75.
20 Rothacker guidò Habermas per la dissertazione di dottorato, Das Absolute und
die Geschichte im Denken Schellings, del 1954. �����������������������������������������
Di fatto, ad ogni modo, Böhme si limita,
nelle prime pagine del volume Alternativen der Wissenschaft, cit., pp. 20-21, introducendo le tematiche del saggio sulla Farbenlehre, che in quel volume viene ristampato, a fare
un rapido accenno ad Habermas e a Scheler, senza un esplicito richiamo a Rothacker.
21 Si veda in proposito soprattutto E. Rothacker, Zur Genealogie des menschlichen
Bewusstseins, Bonn 1966; mi permetto di rinviare ai miei S. T., Baeumler, Rothacker e
la storia delle idee, in S. T., Il metodo e la storia, Palermo 2006, pp. 35-74; S. T., Forma
e tempo nell’antropologia filosofica a cavallo della metà del Novecento, in “Fieri. Annali
del Dipartimento di Filosofia Storia e Critica dei Saperi”, n. 4, 2006, pp. 419-37, e alla
bibliografia ivi citata.
22
Cfr. in proposito W. Perpeet, Erich Rothacker, Bonn 1968, pp. 68-75.
23 Cfr. E. Rothacker, Die dogmatische Denkform in den Geisteswissenschaften und
das Problem des Historismus, Mainz 1954
24 Così riassuntivamente in E. Rothacker, Zur Genealogie des menschlichen Bewusstseins, cit., p. 357.
25 Ivi, p. 83.
91
Ibidem.
Tenderei a ripensare nel senso qui di necessità solo accennato le relazioni fra il
pensiero di Rothacker e Blumenberg.
28
Si vedano, in questa direzione, le conclusioni di G. Böhme, Ist Goethes Farbenlehre Wissenschaft?, cit., p. 149.
29 Idem, Atmosphäre, cit., p. 22.
30 Ivi, p. 182.
31 Idem, Alternativen der Wissenschaft, cit., pp. 20-21.
32 Ivi, p. 14.
33 J. von Uexküll e G. Kriszat, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen, Berlin 1934, ripubblicato insieme con J. von Uexküll, Bedeutungslehre (1940),
nella serie “Rowohlts deutsche Enzyklopädie”, Hamburg 1956, cfr. p. 22: «Merkwelt
und Wirkwelt bilden gemeinsam eine geschlossene Einheit, die Umwelt».
34 A. Gehlen, L’uomo. ��������������������������������������
La sua natura e il suo posto nel mondo, ed. it. Milano 1968,
p. 106.
35G. Böhme, Aisthetik, cit., p. 23.
36 Si veda anche questo passo dell’Aisthetik (cit., p. 45), in cui sono raccolti molti
dei presupposti sinora qui analizzati per una scienza generale della percezione: «Il paradigma della percezione da cui muoviamo non è del tipo secondo il quale un soggetto si
riferisce ad un oggetto. L’evento percettivo fondamentale per la nostra ricerca giace al di
qua di ogni scissione fra soggetto e oggetto. Un soggetto e un oggetto della percezione
vengono guadagnati solo sulla via di una ulteriore differenziazione e distanziamento.
L’evento percettivo fondamentale è il sentore della presenza. Questo sentore della presenza è insieme e indivisibilmente il sentore di me stesso come soggetto della percezione
come anche il sentore della presenza di qualcosa».
37 Ivi, p. 23.
38 I riferimenti andrebbero qui alla teoria del Gestaltkreis di Viktor von Weizsäcker
e al “circolo dell’azione” di Arnold Gehlen; entrambe le teorizzazioni impensabili senza
le articolazioni del concetto di ambiente in Uexküll.
39 Da ciò la centralità, in tutto il pensiero di Böhme, del riferimento a Klages, al
concetto di Wirklichkeit des Bildes e anzitutto a L. Klages, Grundlegung der Wissenschaft vom Ausdruck, Bonn 19709, nonché in generale al dibattito sulla fisiognomica,
dal Settecento allo stesso Klages. Un esito di questi problemi in G. Böhme, Theorie
des Bildes, München 1999.
40 G. Böhme, Anthropologie in pragmatischer Hinsicht, Frankfurt am Main 1985.
41 Cfr. Idem, Atmosphäre, cit., p. 180: «Se noi, nel quadro della nuova estetica,
vogliamo ripetere il progetto baumgarteniano, occorre anzitutto chiedersi se la teoria
estetica della natura può conoscere nella natura qualcosa di fondamentalmente diverso
dalla scienza naturale o la natura come qualcosa di fondamentalmente diverso […].
Come dato della scienza naturale non vale la sensazione, ma ciò che si mostra all’apparato tecnico. Anche ciò viene ovviamente in ultima analisi percepito sensibilmente
dall’uomo, ma non nella forma di qualità sensibili, ma in quella di simboli, generalmente
di numeri. Ne deriva la tesi: la natura come partner della sensibilità umana non è tema
delle scienze naturali».
42 Ivi, p. 42.
43 Idem, Aisthetik, cit., p. 11.
44 Ivi, p. 19. A concetto e metodo della filosofia è dedicato il primo capitolo di H.
Schmitz, Die Gegenwart, Bonn 1964, nuova ed. 19983, primo vol. dell’ampio System
der Philosophie (1964-1980). Si vedano in particolare pp. 62-69. ��������������������
Si cfr. anche Idem,
Der unerschöpfliche Gegenstand. Grundzüge
�������������������������
der Philosophie, Bonn 1990, che offre una
panoramica più veloce sull’intero impianto.
45 A partire da questa considerazione si comprende anche il capovolgimento del
concetto di atmosfera operato da Böhme rispetto alle concezioni di Schmitz, e casomai
la ripresa di movenze proprie dell’estetica dell’espressione di Klages o del “numinoso
ambientale” di Rothacker: a Böhme non interessa pensare le atmosfere come freischwe26
27
92
bend, ma tutto al contrario teorizzare le condizioni in cui si istituiscono un polo soggettivo e uno oggettivo nella relazione ambientale: «le atmosfere non sono stati del soggetto
né qualità dell’oggetto. Tuttavia esse vengono sperimentate solo nella percezione attuale
di un soggetto e sono costituite nel loro esser-qualcosa, nel loro carattere, attraverso
la <partecipazione della> soggettività del percipiente. E pur non essendo qualità degli
oggetti, vengono evidentemente prodotte attraverso le qualità degli oggetti nella loro
interrelazione. Il che vuol dire che le atmosfere sono qualcosa fra soggetto e oggetto.
Non sono qualcosa di relazionale, ma la relazione stessa» (G. Böhme, Aisthetik, cit., p.
54). Per la critica di Böhme a Schmitz cfr. G. Böhme, Atmosphäre, cit., pp. 28-34.
46 Il passo dalle Betrachtungen über den ersten Grundsatz aller schönen Künste und
Wissenschaften (Halle 1757) di G. Fr. Meier è riportato da Böhme nell’Aisthetik, cit.,
p. 16.
47 G. Böhme, Aisthetik, cit., p. 16.
48 Se ne ha una disamina ivi, pp. 87-91.
49 Per questo elenco cfr. Idem, Atmosphäre, cit., p. 35.
50 Cfr. Idem, Aisthetik, cit., pp. 101-04.
51 Ivi, p. 16.
52 Rinvio nuovamente all’analisi che ho cercato di fornirne nel mio cit. L’estetica di
Baumgarten, specie pp. 82-89.
53 Cfr. G. Böhme, Aisthetik, cit., p. 53.
54 Ivi, pp. 173-88.
93
Aesthetica Preprint
1 Croce e l’estetica, di R. Assunto, P. D’Angelo, V. Stella, M. Bon­compagni, F. Fanizza
2 Conversazione con Rudolf Arnheim, di L. Pizzo Russo
3 In margine alla nascita dell’estetica di Freud, di L. Russo
4 Lo specchio dei sistemi: Batteux e Condillac, di Ivo Torrigiani
5 Orwel “1984”: il testo, di F. Marenco, R. Runcini, V. Fortunati, C. Pagetti, G. Sertoli
6 Walter Benjamin: Bibliografia critica generale (1913-1983), di M. Brodersen
7 Carl Gustav Jochmann: I regressi della poesia, di P. D’Angelo
8 La Luce nelle sue manifestazioni artistiche, di H. Sedlmayr
9 Anima e immagine: Sul “poetico” in Ludwig Klages, di G. Moretti
10 La disarmonia prestabilita, di R. Bodei, V. Stella, G. Panella, S. Givone, R. Genovese, G. Almansi,
G. Dor­fles.
11 Interpretazione e valutazione in estetica, di Ch. L. Stevenson
12 Memoria e oltraggio: Contributo all’estetica della transitività, di G. Lombardo
13 Aesthetica bina: Baumgarten e Burke, di R. Assunto, F. Piselli, E. Mi­gliorini, F. Fanizza, G. Sertoli,
V. Fortunati, R. Barilli.
14 Nicolò Gallo: Un contributo siciliano all’estetica, di I. Filippi
15 Il processo motorio in poesia, di J. Mukařovský
16 Il sistema delle arti: Batteux e Diderot, di M. Modica
17 Friedrich Ast: Estetica ed ermeneutica, di M. Ravera, F. Vercellone, T. Griffero
18 Baltasar Gracián: Dal Barocco al Postmoderno, di M. Batllori, E. Hidalgo Serna, A. Egido, M. Blanco,
B. Pelegrín, R. Bodei, R. Run­cini, M. Perniola, G. Morpurgo-Tagliabue, F. Fanizza.
19 Una Storia per l’Estetica, di L. Russo
20 Saverio Bettinelli: Un contributo all’estetica dell’esperienza, di M. T. Marcialis
21 Lo spettatore dilettante, di M. Geiger
22 Sul concetto dell’Arte, di Fr. Schleiermacher
23 Paul Valéry e l’estetica della poiesis, di A. Trione, M. T. Giaveri, G. Panella, G. Lombardo
24 Paul Gauguin: Il Contemporaneo ed il Primitivo, di R. Dottori
25 Antico e Moderno: L’Estetica e la sua Storia, di F. Fanizza, S. Givone, E. Mattioli, E. Garroni, J.
Koller
26 I principî fondamentali delle Belle Arti, di M. Mendelsshon
27 Valori e conoscenza in Francis Hutcheson, di V. Bucelli
28 L’uomo estetico, di E. Spranger
29 Il Tragico: Materiali per una bibliografia, di M. Cometa
30 Pensare l’Arte, di E. Garroni, E. Grassi, A. Trione, R. Barilli, G. Dorfles, G. Fr. Meier
31 L’ordine dell’Architettura, di C. Perrault
32 Che cos’è la psicologia dell’arte, di L. Pizzo Russo
33 Ricercari Nowau. Una forma di oralità poetica in Melanesia, di G. M. G. Scoditti
34 Pensieri sparsi sulla pittura, la scultura e la poesia, di D. Diderot,
35 Laocoonte 2000, di L. Russo, B. Andreae, G. S. Santangelo, M. Co­meta, V. Fagone, G. Marrone,
P. D’Angelo, J. W. Goethe
36 La decostruzione e Derrida, di A. Van Sevenant
37 Contributi alla teoria della traduzione letteraria, di E. Mattioli
38 Sublime antico e moderno. Una bibliografia, di G. Lombardo e F. Finocchiaro
39 Klossowski e la comunicazione artistica, di A. Marroni
40 Paul Cézanne: L’opera d’arte come assoluto, di R. Dottori
41 Strategie macro-retoriche: la “formattazione” dell’evento comunicazionale, di L. Rossetti
42 Il manoscritto sulle proporzioni di François Bernin de Saint-Hilarion, di M. L. Scalvini e S. Villari
43 Lettura del “Flauto Magico”, di S. Lo Bue
44 A Rosario Assunto: in memoriam, di L. Russo, F. Fanizza, M. Bettetini, M. Cometa, M. Ferrante,
P. D’Angelo
45 Paleoestetica della ricezione. Saggio sulla poesia aedica, di G. Lombardo
46 Alla vigilia dell’Æsthetica. Ingegno e immaginazione nella poetica critica dell’Illu­mi­nismo te­desco,
di S. Tedesco
47 Estetica dell’Ornamento, di M. Carboni
48 Un filosofo europeo: Ernesto Grassi, di L. Russo, M. Marassi, D. Di Cesare, C. Gentili, L. Amoroso,
G. Modica, E. Mattioli
49 Scritti di estetica, di L. Popper
50 La Distanza Psichica come fattore artistico e principio estetico, di E. Bullough
51 I Dialoghi sulle Arti di Cesare Brandi, di L. Russo, P. D’Angelo, E. Garroni
52 Nicea e la civiltà dell’immagine, di L. Russo, G. Carchia, D. Di Cesare, G. Pucci, M. Andaloro, L.
Pizzo Russo, G. Di Giacomo, R. Salizzoni, M. G. Messina, J. M. Mondzain
53 Due saggi di estetica, di V. Basch
54 Baumgarten e gli orizzonti dell’estetica, di L. Russo, L. Amoroso, P. Pim­pinella, M. Ferraris, E.
Franzini, E. Garroni, S. Tedesco, A. G. Baumgarten
55 Icona e arte astratta, di G. Di Giacomo
56 Il visibile e l’irreale. L’oggetto estetico nel pensiero di Nicolai Hartmann, di D. Angelucci
57 Pensieri sul sentire e sul conoscere, di Fr. Ch. Oetinger
58 Ripensare l’Estetica: Un progetto nazionale di ricerca, di L. Russo, R. Salizzoni, M. Ferraris, M.
Carbone, E. Mattioli, L. Amoroso, P. Bagni, G. Car­chia, P. Montani, M. B. Ponti, P. D’Angelo,
L. Pizzo Russo
59 Ermanno Migliorini e la rosa di Kant, di L. Russo, G. Sertoli, F. Bollino, P. Montani, E. Franzini,
E. Crispolti, G. Di Liberti, E. Migliorini
60 L’estetica musicale dell’Illuminismo tedesco, di L. Lattanzi
61 Il sensibile e il razionale. Schiller e la mediazione estetica, di A. Ardovino
62 Dilthey e l’esperienza della poesia, di F. Bianco, G. Matteucci, E. Matassi
63 Poetica Mundi. Estetica ed ontologia delle forme in Paul Claudel, di F. Fimiani
64 Orfeo Boselli e la “nobiltà” della scultura, di E. Di Stefano
65 Il teatro, la festa e la rivoluzione. Su Rousseau e gli enciclopedisti, di E. Franzini
66 Cinque lezioni. Da linguaggio all’immagine, di P. Ricoeur
67 Guido Morpurgo-Tagliabue e l’estetica del Settecento, a cura di L. Russo
68 Le sirene del Barocco, di S. Tedesco
69 Arte e critica nell’estetica di Kierkegaard, di S. Davini
70 L’estetica simbolica di Susanne Katherina Langer, di L. Demartis
71 La percezione della forma. Trascendenza e finitezza in Hans Urs von Balthasar, di B. Antomarini
72 Dell’origine dell’opera d’arte e altri scritti, di M. Heidegger
73 Percezione e rappresentazione. Alcune ipotesi fra Gombrich e Arnheim, di T. Andina
74 Ingannare la morte. Anne-Louis Girodet e l’illusione dell’arte, di C. Savettieri
75 La zona del sacro. L’estetica cinematografica di Andrej Tarkovskij, di A. Scarlato
76 La nascita dell’estetica in Sicilia, di F. P. Campione
77 Estetica e critica d’arte in Konrad Fiedler, di M. R. De Rosa
78 Per un’estetica del cibo, di N. Perullo
79 Bello e Idea nell’estetica del Seicento, di E. Di Stefano
80 Dire l’esperienza estetica, a cura di R. Messori
Aesthetica Preprint©
Periodico quadrimestrale del Centro Internazionale Studi di Estetica
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Registrato presso il Tribunale di Palermo il 27 gennaio 1984, n. 3
Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione il 29 agosto 2001, n. 6868
Associato all’Unione Stampa Periodica Italiana
issn 0393-8522
Direttore responsabile Luigi Russo
Telling the Aesthetic Experience
For over a decade now, a veritable shift in the field of aesthetics
has taken place: the aesthetic-philosophical identification of art
has been questioned, while the aesthetic experience has been
proposed as the central preoccupation of the discipline. Consequently, research (both theoretic and historiographic) has focused
more on the meaning and role that sensitivity and affectivity (in
their manifold and changing forms) acquire in a general perspective regarding the formation of the senses.
This shift, together with other factors that have had a remarkable
impact on the field of aesthetics (e. g., the decreased boost of
hermeneutics, as well as the so-called re-evaluation of rhetoric,
both “argumentative” and “figurative”) has been accompanied
by a diminished interest in those issues related to language that
had represented one of the complex questions central to 20thcentury philosophical debates. This has caused a rethinking of
the meaning of language in aesthetics that starts from the very
relationship between language and the aesthetic experience: how
can the aesthetic experience be told? How can one testify to what
has been experienced? Finally: what is the relationship between
experiencing reality and the articulation of meaning?
Such themes represented the central focus of the conference
“Telling the Aesthetic Experience: New Perspectives between
Aesthetic and Rhetoric,” which took place in Parma in November 2006. The present volume, edited by Rita Messori (r.messori@
email.it), collects the conference proceedings.
Centro Internazionale Studi di Estetica, Viale delle Scienze, I-90128 Palermo
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