Terapia genica dei tumori, stato dell`arte e prospettive
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Terapia genica dei tumori, stato dell`arte e prospettive
© Springer-Verlag 2001 Pathologica (2001) 93:625-630 EDITORIALE P.-L. Lollini Terapia genica dei tumori, stato dell’arte e prospettive Gene therapy for cancer: state of the art and future perspectives It was the best of times, it was the worst of times, it was the age of wisdom, it was the age of foolishness, it was the epoch of belief, it was the epoch of incredulity. Charles Dickens, A Tale of Two Cities Riassunto La sperimentazione clinica della terapia genica è iniziata da oltre dieci anni e diverse centinaia di trial sono stati avviati nel mondo per analizzare molti approcci differenti ai problemi oncologici. Solo di recente hanno iniziato a comparire risultati positivi che dimostrano una reale efficacia clinica della terapia genica. Questo editoriale esamina in modo critico l’intero campo della terapia genica dei tumori, descrivendo vantaggi e svantaggi dei vari approcci e delineando quali potranno essere le principali linee di sviluppo futuro. Parole chiave Terapia genica • p53 • Virus oncolitici Key words Gene therapy • p53 • Oncolytic viruses P.-L. Lollini () Sezione di Cancerologia Dipartimento di Patologia Sperimentale, Università di Bologna, Viale Filopanti 22, I-40126 Bologna, Italia e-mail: [email protected] Tel.: +39-051-241110 Fax: +39-051-242169 Introduzione Negli ultimi due anni la terapia genica ha attraversato una fase critica che ne ha in pratica sancito la transizione dall’infanzia alla maturità, o almeno all’adolescenza. Un momento rilevante è stata la morte di un paziente, Jesse Gelsinger, a causa di un’alta dose di un vettore adenovirale somministrato per curare la malattia ereditaria da cui era affetto, in forma peraltro non grave [1]. Si è trattato del primo evento di questo tipo dovuto a terapia genica, a più di dieci anni dal primo trial clinico. Al di là di diversi fatti contingenti riguardanti la morte di Jesse Gelsinger, fatti che pure hanno causato una revisione della regolamentazione di tutta la terapia genica negli Stati Uniti, questo evento ha rappresentato un punto di svolta perché ha fatto capire che la terapia genica è uno strumento potente, che può uccidere, al pari di tutti gli altri approcci terapeutici usati in medicina. L’altro evento importante è stata la presentazione di risultati positivi che dimostravano, per la prima volta, che alcuni approcci di terapia genica sono effettivamente in grado di indurre delle risposte obiettive in una significativa percentuale di pazienti oncologici in combinazione con farmaci antitumorali [2]. Questi risultati permettono quindi di iniziare ad immaginare un futuro di terapie integrate, in cui la terapia genica esce dalla fantascienza ed entra nella pratica clinica corrente, affiancando e potenziando i protocolli correnti. Cos’è la terapia genica La terapia genica si basa sulla possibilità di curare le malattie mediante l’inserimento di materiale genetico all’interno delle cellule. La cellula prende il nome di recipiente, o cellula ricevente, e il processo è una forma di trasduzione genica; 626 il gene trasferito si chiama transgene e il veicolo usato per la trasduzione nella cellula ricevente è denominato vettore [3]. La trasduzione genica di cellule di mammifero viene utilizzata da oltre trent’anni, ma molti metodi, ad esempio la trasfezione mediante plasmidi di origine batterica, sono caratterizzati da una bassa efficienza e sembravano prestarsi soprattutto a studi sperimentali in vitro. È stata la messa a punto di vettori virali ad alta efficienza di trasduzione, tra gli anni ’70 e ’80, a permettere di iniziare a progettare sperimentazioni precliniche e cliniche basate sul trasferimento genico in vivo. Attualmente sono disponibili numerosi tipi di vettori virali, basati su retrovirus, adenovirus, virus adeno-associati, herpes ed altri ancora. La ricerca in questo campo è particolarmente attiva, perché vi è ancora spazio per importanti sviluppi, ad esempio per quanto riguarda lo spettro di cellule trasducibili con i vari tipi di vettore, o il “carico utile”, cioè le dimensioni dei transgeni che possono essere veicolati [3]. Nell’ultimo decennio sono stati sviluppati sistemi di trasduzione in vivo di alcuni tessuti, ad esempio il muscolo, senza usare vettori virali, ma semplicemente plasmidi contenenti il gene di interesse. Mancando la protezione di involucri virali, queste tecniche vengono definite sistemi basati su “DNA nudo” (naked DNA) [3]. P.-L. Lollini: Terapia genica dei tumori Terapia genica dei tumori La terapia genica nasce dall’idea di riparare i geni alterati nelle malattie ereditarie non oncologiche, ma fin dall’inizio delle sperimentazioni cliniche si è avuta una “contaminazione” oncologica. Il primo trial clinico di terapia genica infatti è stato condotto in pazienti oncologici, perché gli organismi regolatori americani si opponevano all’idea di provare una terapia, che comportava rischi ancora indeterminati, in pazienti pediatrici affetti da malattie genetiche per le quali, in alcuni casi, esistevano già delle terapie sostitutive convenzionali [3]. Questa precoce esposizione alle idee della terapia genica ha portato gli oncologi a cercare da subito applicazioni di questa nuova modalità terapeutica. Oggi il numero di trial clinici di terapia genica approvati negli Stati Uniti vede una netta predominanza di studi oncologici, che costituiscono circa il 75% del totale [4]. A livello sperimentale, sono stati proposti e collaudati numerosissimi approcci di terapia genica dei tumori, ma in molti casi è difficile prevedere un futuro clinico di successo. Nella trattazione che segue cercherò di delineare non solo le principali aree di sviluppo, ma anche di dare una valutazione estremamente critica sulla loro possibilità di attestarsi stabilmente nella pratica clinica. I limiti della terapia genica Virus oncolitici Il problema principale di tutta la terapia genica, sia nei confronti delle patologie oncologiche che genetiche, è che con i mezzi attuali l’inserimento di geni in vivo e la loro espressione sono limitati nello spazio e nel tempo. Non esiste oggi un vettore virale che possa essere iniettato in vivo per via sistemica in quantità sufficiente a trasdurre un gene terapeutico in tutte le cellule malate presenti in un organismo. Da questo punto di vista, la terapia genica risulta decisamente inferiore a farmaci convenzionali, quali gli antiblastici, che possono facilmente raggiungere per via sistemica tutte le cellule bersaglio. La terapia genica ha quindi per il momento le caratteristiche di una terapia essenzialmente locale, che mal si presta ad affrontare malattie sistemiche, quali i tumori metastatici, o malattie genetiche che si esprimono in tessuti diffusi in tutto l’organismo, come ad esempio le distrofie muscolari. Anche nell’applicazione locale ci sono dei limiti dovuti all’efficienza con cui i vettori virali inseriscono il gene terapeutico nelle cellule riceventi. La percentuale di cellule trasdotte in vivo è sempre molto bassa, largamente inferiore alla proporzione di cellule su cui agisce un qualsiasi farmaco convenzionale, e alcuni tipi cellulari sono particolarmente difficili da trasdurre, ad esempio le cellule non proliferanti sono un cattivo bersaglio per molti tipi di vettori virali. Sono questi limiti dunque che delineano i campi attuali di applicazione della terapia genica e che mostrano chiaramente quali siano le direttrici di sviluppo. I vettori virali normalmente usati per la terapia genica sono virus difettivi, in cui è stata volutamente disabilitata la capacità replicativa, sia per evitare la possibilità di una infezione virale, sia per poter inserire transgene. I virus oncolitici invece rappresentano un sistema selettivo che utilizza la capacità citopatica di alcuni virus, geneticamente modificati per replicare selettivamente nelle cellule tumorali, uccidendole. Il sistema oncolitico attualmente più sofisticato è rappresentato da un adenovirus modificato nel gene E1B, che replica solo in cellule che hanno difetti di espressione del gene oncosoppressore p53 [5]. Come è noto questi difetti si riscontrano in molte cellule tumorali e quindi questo virus risulta selettivamente citopatico per le cellule tumorali, ma non per le cellule sane circostanti. Un adenovirus oncolitico di questo tipo è stato sviluppato industrialmente da una compagnia biotecnologica ed è stato valutato clinicamente fino a studi di fase III in tumori del capo e del collo in combinazione con farmaci antiblastici. I risultati finora disponibili, relativi agli studi di fase II, dimostrano una significativa efficacia che va a sommarsi a quella del trattamento farmacologico [2]. Si tratta del sistema di terapia genica che appare ad oggi maggiormente candidato ad acquistare un posto stabile accanto alla terapia convenzionale in oncologia. Gli elementi che vanno sottolineati in questo successo sono almeno tre: innanzitutto la strategia oncolitica, quindi P.-L. Lollini: Terapia genica dei tumori l’avere affrontato un tipo di tumore maligno in cui un approccio locale ha un significato preciso, infine l’integrazione ab initio con gli schemi convenzionali di terapia. Per quanto riguarda gli sviluppi futuri, questi adenovirus oncolitici hanno un notevole differenziale terapeutico e quindi sono in corso studi per verificarne la possibilità di utilizzo, non solo in trattamenti strettamente locali, ma anche con somministrazioni a livello di organo (ad esempio, a livello epatico) che preconizzano un possibile, ma ancora incerto, sviluppo in senso sistemico [6]. Sono inoltre in sperimentazione virus oncolitici basati su meccanismi d’azione diversi, come ad esempio un adenovirus attivo in cellule che iperesprimono l’oncogene HER-2, o un reovirus citopatico per cellule con RAS attivato [3]. Sarebbe di notevole importanza poter disporre di un’ampio spettro di virus oncolitici, ma la ricerca in questo senso è particolarmente difficile, mancando meccanismi generalizzabili e dovendo fare affidamento su interazioni ecologiche tra singolo tipo virale e cellula ospite. Terapia genica dei tumori basata su geni oncosoppressori Nei tumori, i geni oncosoppressori sono solitamente alterati in modo da eliminarne l’espressione e questo li rende simili ai geni contenenti mutazioni geniche causa di malattie ereditarie, per le quali la terapia genica è nata. Gli approcci metodologici in questo contesto sono in generale di tipo sostitutivo, dovendo inserire nella cellula ricevente una copia funzionante del gene alterato. Le cose non sono sempre così semplici, ad esempio le mutazioni di p53 generano frequentemente una proteina alterata che si comporta da dominante negativo, interferendo con la proteina endogena normale e quindi anche con il prodotto di un gene p53 trasdotto. Tuttavia, generalmente, affrontare le alterazioni degli oncosoppressori mediante approcci di terapia genica sostitutiva è più semplice e di più facile successo rispetto agli approcci ablativi necessari per sopprimere l’espressione degli oncogeni (si veda oltre). Inoltre, si tratta di un’area terapeutica in cui non esistono concorrenti: non abbiamo infatti oggi a disposizione farmaci in grado di rimpiazzare il prodotto mancante di un gene oncosoppressore. È noto che i tumori maligni sono il risultato di alterazioni geniche multiple, ci si potrebbe quindi chiedere se sia sufficiente ripristinare con la terapia genica una singola proteina mancante o alterata per bloccare la proliferazione tumorale. Buona parte degli esperimenti in vitro dimostrano che questo è in effetti possibile. Ad esempio, la trasduzione di p53 normale (“wild type”) in cellule tumorali portatrici di p53 mutato, oltre ad altre alterazioni geniche, è sufficiente a bloccarne la crescita [7], e fenomeni analoghi sono stati dimostrati per altri geni oncosoppressori. Gli studi clinici in questo senso hanno per ora riguardato solo p53. Alcuni trial clinici di fase I/II con adenovirus o con retrovirus hanno cercato di introdurre p53 wild-type per 627 via broncoscopica o per iniezione diretta in carcinomi polmonari [8, 9]. È stata ottenuta una certa percentuale di regressioni della massa neoplastica trattata, ma nessun effetto su altre lesioni presenti nello stesso paziente, ribadendo l’effetto essenzialmente locale di questo tipo di terapia. In questi primi studi, la trasduzione di p53 wild-type è stata necessariamente tentata come monoterapia e quindi non è possibile valutarne l’efficacia con combinazioni di farmaci antitumorali. Un’area di sviluppo interessante è costituita dai geni oncosoppressori alterati in fasi precoci e ben determinate della progressione neoplastica, come p53, FHIT e altri. La conoscenza dei difetti molecolari presenti in lesioni preneoplastiche e in condizioni che predispongono al cancro apre la strada ad una prospettiva di prevenzione genica precoce. Terapia genica contro gli oncogeni Nelle neoplasie gli oncogeni sono tipicamente iperespressi, o sono espressi in forme attivate, e questo ne fa un bersaglio difficile per la terapia genica, che deve ricorrere a strategie di tipo ablativo, basate sulla trasduzione stabile di costrutti antisenso, di dominanti negativi o di altri costrutti che portino comunque ad un’interferenza negativa con l’oncoproteina alterata. In realtà, l’espressione degli oncogeni, sia a livello di mRNA che di proteina, è un eccellente bersaglio per strategie di tipo convenzionale (non genico) basate su su oligonucleotidi antisenso e soprattutto su farmaci disegnati in modo razionale, ad esempio inibitori delle tirosina-cinasi e delle farnesiltransferasi [10, 11]. Aggiungendo a questo le altre limitazioni della terapia genica, più volte ricordate, risulta difficile prevedere un grosso futuro per gli approcci di terapia genica anti-oncogene. Geni di suicidio L’idea alla base di questo tipo di terapia genica è quella di inserire nelle cellule tumorali un gene, la cui espressione causi direttamente o indirettamente la morte della cellula ricevente. Sono numerosi i geni candidati a questo scopo, compresi quelli coinvolti nei meccanismi di morte cellulare programmata. La classe più utilizzata è quella dei geni responsabili dell’attivazione metabolica di farmaci citotossici, che presentano anche il vantaggio di una possibile diffusione alla cellule vicine del metabolita attivo, portando così anche alla morte di cellule non trasdotte (cellule bystander) [3]. Questo tipo di terapia è stato sperimentato nei gliomi umani, utilizzando come vettore del gene di suicidio un retrovirus, la cui specificità per le cellule proliferanti avrebbe dovuto portare alla trasduzione solo delle cellule tumorali, risparmiando le cellule cerebrali normali quiescenti. In realtà, la sperimentazione clinica ha mostrato chiaramente che il limite di questa tecnica consiste nella possibilatà di raggiungere una percentuale significativa di cellule neoplastiche: lesioni tumorali distanti pochi millimetri dal punto di 628 inoculo non venivano raggiunte dal transgene e non rispondevano al trattamento farmacologico [12]. Per quanto riguarda poi la morte delle cellule bystander, si è visto che diversi metaboliti tossici (ad esempio, quelli del ganciclovir, attivato da timidina cinasi di origine virale) passano alle cellule vicine attraversando le gap junction, ma molti tipi di cellule tumorali presentano una ridotta comunicazione cellulare e quindi non sono raggiunte dai metaboliti attivi [13]. In conclusione, è difficile determinare oggi se questo approccio, concettualmente molto elegante, possa trovare delle applicazioni cliniche competitive rispetto ai tradizionali approcci antiblastici. Graft-versus-leukemia e controllo della reazione graft-versushost La migliore dimostrazione clinica dell’efficiacia antitumorale della risposta immunitaria è data dal trapianto di midollo allogenico nelle leucemie. La presenza di linfociti T maturi all’interno del midollo trapiantato comporta sia un rischio di reazione del trapianto contro l’ospite (graft-versushost), sia la possibilità di una risposta immunitaria che distrugge le cellule leucemiche residue (graft-versus-leukemia). Questo comporta una riduzione altamente significativa della probabilità di ricaduta leucemica, tanto maggiore quanto più forte è la reazione graft-versus-host [14]. Il principale limite di questa alternativa terapeutica consiste nel controllo della reazione graft-versus-host, che può essere devastante per il paziente, senza eliminare la reazione graft-versus-leukemia. La soluzione proposta dalla terapia genica consiste nell’inserire ex vivo un gene di suicidio nei linfociti T del donatore allogenico prima dell’infusione al paziente leucemico. In questo modo, diventa possibile causare l’autodistruzione dei linfociti T, somministrando il profarmaco attivato dal gene di suicidio solo nel caso si sviluppi una graft-versus-host pericolosa per l’ospite. Uno studio clinico italiano [15] ha dimostrato che questo approccio è possibile, ma sono anche emersi alcuni effetti indesiderati che possono limitarne l’efficacia. Ad esempio, l’espressione da parte dei linfociti di geni di suicidio di origine virale o di altre sequenze presenti nel vettore può a sua volta scatenare una risposta immunitaria che porta all’eliminazione precoce dei linfociti T geneticamente modificati da parte del sistema immunitario dell’ospite. Un’alternativa potrebbe essere quella di utilizzare geni più “fisiologici”, ad esempio geni dell’apoptosi normalmente espressi dall’organismo, nei confonti dei quali è presente una tolleranza immunologica [16]. P.-L. Lollini: Terapia genica dei tumori nell’organismo i risultati di uno stimolo, ad esempio un vaccino, somministrato localmente. L’immunoterapia genica è facile e poco rischiosa, non comportando grosse tossicità collaterali, e per questi motivi ha avuto una notevole diffusione: due terzi di tutti i trial di terapia genica tumorale sono basati su approcci immunologici. Nonostante ciò e il dispiegamento di molte idee ingegnose, l’immunoterapia genica non ha di fatto prodotto i risultati clinici sperati. In parte, questo è dovuto all’adozione di approcci monoterapici, in cui le cellule erano trasdotte con un singolo gene e la terapia era somministrata a pazienti in fase avanzata, i meno adatti a rispondere a stimoli immunologici [17]. Per trovare un futuro clinico, l’immunoterapia genica dovrà quindi progredire, soprattutto per quanto riguarda il versante applicativo, lungo varie direttrici: (a) integrazione con i protocolli di trattamento con farmaci antitumorali; (b) combinazione di più stimoli, per attivare contemporaneamente tutte le difese immunitarie e superare la naturale scarsa responsività del nostro sistema immunitario nei confronti delle cellule tumorali; (c) passaggio a studi clinici in fase adiuvante o addirittura a studi di prevenzione primaria dei tumori umani, per valutare pazienti informativi in grado di rispondere attivamente agli stimoli [18]. Terapia genica antiangiogenica La crescita tumorale dipende dall’apporto sanguigno dell’ospite e dalla formazione di una nuova rete vascolare, costituita in gran parte grazie all’attivazione di fenomeni di neoangiogenesi. L’angiogenesi è quindi un attraente bersaglio di terapie antitumorali, perché è necessaria alla sopravvivenza di tutti i tumori e perché è basata sull’utilizzo di cellule normali, che a differenza di quelle neoplastiche non dovrebbero avere la capacità di attivare meccanismi di resistenza alla terapia. In questo ambito sono ovviamente possibili anche approcci di terapia genica, basati ad esempio sul blocco di geni codificanti fattori angiogenici o sulla produzione di fattori antiangiogenici [3]. Sia nel caso della terapia genica che in quello di terapie farmacologiche antiangiogeniche, siamo in presenza di approcci sperimentali, che devono ancora dimostrare la propria efficacia clinica, ed è difficile scommettere sull’affermazione della terapia genica rispetto ai numerosi inibitori farmacologici attualmente allo studio, dotati di una intrinseca semplicità logistica di somministrazione. Geni di resistenza ai farmaci Terapia genica immunologica L’uso della terapia genica per potenziare le risposte immunitarie antitumorali porta a superare il limite dell’efficacia locale della terapia genica, infatti in questo caso è la natura sistemica della risposta immunitaria specifica a diffondere Un altro settore oncologico, in cui sono in sperimentazione approcci di terapia genica, è quello della prevenzione degli effetti tossici dei farmaci antitumorali. L’idea è quella di inserire nelle cellule normali, esposte ai farmaci antitumorali, un gene che le renda resistenti. Vi sono P.-L. Lollini: Terapia genica dei tumori diversi geni che si prestano a questo scopo, il più collaudato è quello della resistenza multipla ai farmaci (MDR-1) [3]. Anche questo settore risente delle limitazioni della terapia genica: alcune forme di tossicità grave e limitante, come quelle a carico del sistema digerente, sono attualmente fuori portata, per l’impossibilità di trasdurre geni in modo efficiente in un sistema anatomicamente così vasto. Gli sforzi si sono quindi concentrati sulla tossicità ematologica, che è affrontabile prelevando precursori emopoietici ed effettuando poi la trasduzione genica in vitro con sistemi ad alta efficienza. Le cellule trasdotte vengono infine reinfuse al paziente. È stata effettuata un’ampia sperimentazione preclinica, che ha dimostrato l’efficacia di questi sistemi nell’animale e di alcuni tentativi clinici basati sulla trasduzione di MDR-1 in precursori emopoietici. In realtà, nessuno dei pazienti che hanno ricevuto cellule geneticamente modificate è poi stato trattato con chemioterapia, quindi l’efficacia clinica è ancora da valutare. Il punto chiave è ancora una volta la concorrenza da parte degli approcci “non genici”, infatti i grandi progressi nell’uso dei fattori di crescita emopoietici mette in discussione l’attuabilità di questa terapia genica. In questo caso, i fattori limitanti non derivano dall’efficacia locale, dato che la trasduzione genica avviene in vitro, ma soprattutto dai problemi logistici dovuti alla complessità della terapia genica rispetto alla somministrazione dei fattori di crescita, un limite condiviso in parte anche dal trapianto di midollo. Conclusioni La terapia genica ha finora proposto una miriade di approcci terapeutici diversi, spesso molto ingegnosi, ai problemi di tipo oncologico. È chiaro che, come per qualunque tipo di terapia sperimentale, molti di questi approcci metodologici finiranno per non trovare mai un’applicazione clinica reale e saranno scartati per la scarsa efficacia o talora per l’eccessiva complicazione logistica. È però altrettanto evidente che alcune delle proposte che vengono dalla terapia genica tumorale sono in grado già oggi di integrarsi in modo efficace nei protocolli terapeutici, portando significativi miglioramenti nelle percentuali di risposta. In breve, è chiaro che la terapia genica è qui per rimanere. Una nota conclusiva riguardante la situazione del nostro Paese. L’Italia è stata presente fin dagli albori della terapia genica e ha prodotto non solo eccellenti studi sperimentali, ma anche diversi trial clinici d’avanguardia. È importante che la nostra ricerca clinica rimanga presente ora che si tratta di gestire la transizione della terapia genica tumorale dagli studi pilota ad una più ampia sperimentazione clinica di punta. Ringraziamenti Un ringraziamento a Gabriella Madrigali per l’eccellente e costante aiuto amministrativo. Le ricerche dell’autore sono finanziate dall’Associazione Italiana per la Ricerca sul 629 Cancro (AIRC), dal Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (MURST) e dall’Università di Bologna. Summary Gene therapy entered the clinical arena more than one decade ago. Hundreds of clinical trials were initiated worldwide to investigate many different approaches to oncological problems. Positive results became available only recently, showing that gene therapy is actually capable of curing human neoplasms. This editorial scrutinizes the whole field of gene therapy for cancer, describing advantages and disadvantages of the various approaches, and trying to forecast the main future developments. Bibliografia 1. Somia N, Verma IM (2000) Gene therapy: trials and tribulations. Nat Rev Genet 1:91-99 2. 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