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Riflessioni su stato di eccezione, diritto

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Riflessioni su stato di eccezione, diritto
GIULIANA SCOTTO
Riflessioni su stato di eccezione,
diritto internazionale e sovranità
Copyright © MMVIII
ARACNE editrice S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
00173 Roma
(06) 93781065
ISBN
978–88–548–2241–2
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
Non sono assolutamente consentite le fotocopie
senza il permesso scritto dell’Editore.
I edizione: novembre 2008
Indice
Elenco abbreviazioni ....................................................................
9
Status quaestionis
1.
Introduzione .....................................................
2.
Piano d’indagine ..............................................
11
15
Capitolo
Capitolo
I
Alcuni punti nevralgici della teoria dello
stato di eccezione
1.1
1.2
Stato di eccezione e ordinamento giuridico .....
Posizione del diritto. Potere costituente e potere costituito ......................................................
a) Potere costituente e determinatezza ............
b) Potere costituente/ordinamento giuridico e
potenza/atto .................................................
49
1.3
1.4
Regola ed eccezione ........................................
Sovrano e Stato sovrano ..................................
54
66
II
Stato di eccezione e diritto interno
2.1
2.2
2.3
Costituzioni flessibili e costituzioni rigide ......
Legislazione d’urgenza. Il decreto–legge ........
Lo sviluppo delle norme sui diritti individuali
fondamentali e altre situazioni di emergenza ..
Un confronto con ordinamenti giuridici stranieri: la normazione d’urgenza in talune costituzioni europee ................................................
Sospensione del diritto e violazione del diritto
2.4
2.5
7
17
40
42
91
102
113
124
133
Indice
8
Capitolo
Capitolo
III
Stato di eccezione e diritto internazionale
3.1
Istituti del diritto internazionale rilevanti ai fini di
una critica alla dottrina dello stato di eccezione ....
a) Divieto dell’uso della forza ..........................
b) Principio di sovrana eguaglianza ................
c) Principio di effettività ..................................
― Effettività e soggettività .......................
― Effettività e violazione delle norme interne sulla competenza a stipulare ........
― Effettività e clausola rebus sic stantibus
― Effettività ed elemento materiale della
consuetudine .........................................
― Effettività ed efficacia ..........................
d) Istituti dell’eccezione nel diritto internazionale?
― Forza maggiore .....................................
― Estremo pericolo ...................................
― Stato di necessità ..................................
― Limite generale dello jus cogens ..........
― Rappresaglia e legittima difesa .............
141
148
153
163
164
166
167
174
178
181
184
186
188
195
197
3.2
3.3
La sovranità nel diritto internazionale .............. 200
Indisponibilità del diritto .................................. 207
IV
Puntelli per una conclusione. Stato di eccezione, diritto e linguaggio
4.1
4.2
4.3
4.4
4.5
4.6
Diritto e violenza ..............................................
Diritto e controfattualità ...................................
Riconoscimento e terzietà giuridica .................
Diritto, linguaggio e politica ............................
Diritto e tempo .................................................
U–topìa del diritto ............................................
215
225
227
232
238
243
Bibliografia ................................................................................... 247
Capitolo I
Alcuni punti nevralgici della teoria
dello stato di eccezione
1.1 Stato di eccezione e ordinamento giuridico
In breve, quali profili problematici vengono messi in luce dalla teoria dello stato di eccezione, quali sono le questioni che essa solleva?
Gli aspetti riguardati da questa teoria sono molti e cercheremo ora di
presentarne una sintesi in modo da meglio focalizzarne alcune implicazioni.
Per gli studiosi ― e sostenitori ― di questa figura teorica, lo stato
di eccezione va innanzitutto connesso all’ordinamento giuridico vigente. Sotto questo profilo lo stato di eccezione rappresenterebbe il
meccanismo con il quale, in situazioni di emergenza o di necessità,
verrebbe operata la sospensione della vigenza di un ordinamento giuridico precostituito. L’ordinamento giuridico in vigore costituirebbe
l’insieme delle norme da applicarsi a situazioni “normali”, mentre cesserebbe di valere al presentarsi di situazioni non previste: in situazioni
eccezionali, appunto. In altre parole, in situazioni eccezionali non regolate dalle norme vigenti, queste ultime verrebbero sospese per lasciar spazio, in ultima analisi, a una sorta di vuoto giuridico1. Situazioni eccezionali in grado di sospendere il diritto vigente potrebbero
esemplificarsi in guerre, catastrofi naturali, epidemie dilaganti; ma anche, secondo alcuni studiosi, disordini interni che possono verificarsi
nel corso della pacifica vita di qualsiasi Stato democratico. A tale pro1
Cfr. per es. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 63 ss.; F. Rimoli, Stato di eccezione
e trasformazioni costituzionali: l’enigma costituente, in corso di pubblicazione su «links.
Zeitschrift für deutsche Literatur– und Kulturwissenschaft», e al momento leggibile al sito
http://www.associazionedeicostituzionalisti.it/materiali/anticipazioni/eccezione_trasformazion
e/index.html.
17
18
Capitolo I
posito e come discuteremo più analiticamente più avanti, alcuni studiosi intendono in senso assai ampio il concetto di “eccezionalità” o di
“urgenza” quale situazione a fondamento della possibilità di sospensione del diritto2.
L’implicazione principale di questo meccanismo di sospensione
dell’ordine giuridico è, per noi moderni educati ai principi dello Stato
di diritto e di legalità, la possibilità che in situazioni eccezionali vengano sacrificati taluni diritti personali fondamentali. Secondo i sostenitori della teoria dello stato di eccezione numerosi esempi di situazioni comportanti la sospensione dei diritti fondamentali sarebbero attestati dalla storia, e tanto più rilevanti sarebbero quelli a noi più vicini
nel tempo3 in quanto i sistemi giuridici contemporanei sono in un certo
senso più evoluti rispetto agli ordinamenti giuridici più antichi. In
questi ultimi ― e si pensi soltanto a certi istituti primitivi del diritto
romano quali la manus iniectio4, oppure alle pratiche di tortura così
2
Cfr. per es. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 13 ss. La dottrina costituzionalistica
italiana ha sottolineato la vaghezza di concetti come “necessità” e/o “urgenza” discusse in sede di assemblea costituente all’epoca della redazione di quello che è divenuto l’attuale art. 77,
2° comma, della nostra Costituzione repubblicana: a tale proposito si è parlato di “clausola in
bianco”: cfr. A. Celotto, E. Di Benedetto, Art. 77, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, (a cura di), Commentario alla Costituzione, UTET, Torino 2006, tomo II, pp. 1507–1530, a p.
1509.
3
Cfr. la rassegna di alcuni eventi salienti nella Breve storia dello stato di eccezione in G.
Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 21, in fine, e ss.; recentemente v. anche P. Mindus, Emergenza, costituzione, diritti fondamentali: una guida critica, Working Papers n. 9 – Luglio
2007, Dipartimento di Studi Politici, Torino 2007, disponibile on–line al sito
http://www.dsp.unito.it/download/wpn9.pdf, a p. 14 ss. Per una ricostruzione storica della legislazione d’emergenza in Italia nel periodo fra l’adozione dello Statuto albertino e il primo
dopoguerra, v. C. Latini, Governare l’emergenza. Delega legislativa e pieni poteri in Italia
tra otto e novecento, Giuffrè, Milano 2005.
4
La manus iniectio è un antico istituto processuale dello jus privatum, attestato già dalle
XII tavole, in virtù del quale il creditore di un individuo condannato da uno iudex privatus al
pagamento di una somma di denaro, ha il diritto, «[d]opo 30 giorni di tregua (dies iusti) […]
di acciuffare il debitore dovunque lo trovi e di condurlo davanti al pretore; qui, ripetendo il
gesto, dichiara: “quod tu mihi iudicatus (o damnatus) es sestertium X milia, quandoc non solvisti, ob eam rem ego tibi sestertium X milium iudicati manum inicio”. Dopo questa dichiarazione solenne, che è l’actio, il magistrato, se non vi riscontra irregolarità, pronuncia (a quanto
pare) il verbo addico; con che il creditore è autorizzato a trascinare il debitore a casa sua, a tenerlo legato sessanta giorni con catene del peso di 15 libbre, nutrendolo (ove il debitore non si
procuri altrimenti da vivere) con una libbra di farro al giorno; ha però il dovere di condurlo a
tre mercati consecutivi, e di proclamare pubblicamente la condizione del suo prigioniero e la
somma di cui è debitore. Ove in queste occasioni nessuno si presenti a riscattare il malcapitato, egli può essere venduto come schiavo di là dal Tevere o messo a morte; se più sono i debi-
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
19
largamente accettate in epoca medievale ― i diritti della persona umana in quanto tale erano ben lontani dall’essere non soltanto effettivamente applicati, ma anche semplicemente consacrati nell’oggettività
di un testo scritto5. Per conseguenza, la teoria dello stato di eccezione
applicata a quest’epoca sarebbe potuta servire eventualmente a descrivere la sospensione di diritti considerati di per sé derogabili e inessenziali. Negli ordinamenti contemporanei, invece, si rileva sempre più
frequentemente la presenza di un nucleo di norme fondamentali (solitamente di rango costituzionale, o comunque corredate di speciali garanzie) a tutela dei diritti degli esseri umani in quanto tali. In un tale
contesto storico più evoluto, la possibilità di sospendere tali diritti
fondamentali in virtù dell’invocazione dello stato di eccezione è tanto
più impressionante in quanto i termini in cui viene ricostruita la teoria
dello stato di eccezione vorrebbero mettere in luce debolezze indicate
come ineliminabili dei sistemi giuridici, foss’anche dei più avanzati6.
tori, si distribuiscono fra loro i brani del cadavere, e un versetto delle XII tavole ha cura di
scagionare i creditori da ogni responsabilità per l’eventuale sproporzione fra i brani tolti da
ciascuno e l’ammontare dei crediti» (così V. Arangio–Ruiz, Istituzioni di diritto romano, XIV
ed., Jovene, Napoli 1985, p. 113.)
5
Forse non è inutile ricordare che la prima carta dei diritti dell’uomo ispirati al principio
della tutela della persona umana in quanto tale è faticosa acquisizione della modernità. Risale
infatti soltanto a poco più di due secoli fa, e precisamente al 26 agosto 1789, la Dichiarazione
dei diritti dell’uomo e del cittadino redatta all’epoca della rivoluzione francese, la cui possibilità di applicazione era del resto limitata alla sfera di giurisdizione della Francia, trattandosi di
un atto di diritto interno. Ancor più recente è il primo documento del genere di respiro internazionale: la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dall’Assemblea generale
delle Nazioni Unite sfiora appena i sessant’anni (risale al 10 dicembre 1948). Sull’importanza
della Dichiarazione del 1948 ai fini dell’internazionalizzazione dei diritti umani v. A. Marchesi, Diritti umani e Nazioni Unite. Diritti, obblighi e garanzie, Franco Angeli, Milano 2007,
spec. capitolo I, par. 2, p. 13 ss.
6
La detenzione di presunti terroristi a Guantánamo, in dispregio della dignità delle persone nonché delle più elementari garanzie processuali costituirebbe uno degli episodi più
recenti da leggere in tal senso (cfr. gli autori ricordati supra, introduzione, par. 1, nota 3, p.
12). La situazione di eccezionale minaccia rappresentata dal terrorismo islamico costituirebbe in altre parole la ragione fondante la sospensione di tali diritti fondamentali nei confronti degli individui sospettati. In particolare sulla situazione dei detenuti a Guantánamo
cfr. il Rapporto congiunto del 15 febbraio 2006 Situation of Detainees at Guantánamo Bay
presentato dalla Commissione sui diritti umani al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, UN.Doc. Future E/CN.4/2006/120. Al fine di mostrare la debolezza di tale lettura ci sembra rilevante che in tempi recenti lo stesso presidente Bush abbia ritirato
l’argomento dello stato di eccezione affermando che nel carcere di Guantánamo i detenuti
sarebbero trattati “bene” (cfr. la dichiarazione rilasciata il primo agosto 2007 disponibile
on–line al sito http://www.rainews24.rai.it/notizia.asp?newsid=55366). In letteratura, sullo
20
Capitolo I
La connessione fra diritto e stato di eccezione così descritta si fonderebbe sulla natura del potere sovrano in quanto tale. Secondo la celebre definizione di Carl Schmitt, ciò che identificherebbe il sovrano
sarebbe anzi proprio il potere di decidere sullo stato di eccezione7. Il
potere sovrano mostrerebbe la sua natura più autentica proprio nella
figura dello stato di eccezione, in quanto nelle situazioni eccezionali o
di emergenza o di urgenza che dir si voglia si assisterebbe a un ricongiungimento dei vari aspetti del potere sovrano nelle mani di un unico
soggetto decidente. In base al principio della divisione dei poteri accolto negli odierni ordinamenti democratici, il potere sovrano si trova
“normalmente” frazionato fra più organi competenti all’esercizio delle
attività sovrane per eccellenza. Nello stato di eccezione, invece, si assisterebbe alla riunione dei poteri sovrani in capo a un unico organismo o individuo8, che per via della situazione di urgenza potrebbe
spingersi sino a decidere la sospensione di certi diritti, fra cui eventualmente, ove la situazione lo rendesse necessario9, i diritti fondamentali delle persone. L’eccezionale riunificarsi dei poteri tipicamente
statali in capo a un unico individuo o organo10 lascerebbe rilucere, sestatus dei prigionieri di Guantánamo cfr.: G.H. Aldrich, The Taliban, Al Quaeda and the
Determination of Illegal Combatants, in «American Journal of International Law» (AJIL),
vol. 96, 2002, pp. 891–898; R. Wolfrum, The Attack of September 11, 2001, the Wars
Against the Taliban and Iraq. Is There a Need to Reconsider International Law on the Recourse to Force and the Rules of Armed Conflict?, in Max Planck Yearbook of United Nations Law, vol. 7, 2003, pp. 1–78, spec. p. 52 ss.
7
Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie. Vier Kapitel zur Lehre von der Souveränität, Duncker
& Humblot, Berlin 20048, p. 13: «[s]ouverän ist, wer über den Ausnahmezustand entscheidet».
8
Un esempio in tal senso è indicato dalla stessa dottrina dello stato di eccezione, e si tratta
di un esempio importante in quanto tocca la ricostruzione teorica delle competenze di governo
in base alle norme costituzionali vigenti in più di uno Stato contemporaneo. L’esempio in
questione sarebbe offerto da quelle previsioni che contemplano una potestà legislativa del governo in situazioni lato sensu eccezionali. In tali situazioni si assisterebbe al riunirsi di competenze sovrane ― quella legislativa e quella esecutiva, solitamente esercitate da organi diversi ― in capo al governo, cui spettano di regola, nei sistemi democratici, funzioni di tipo
unicamente esecutivo. Per una enumerazione casistica da intendersi in tale senso cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 26 ss.
9
Sarebbe questo d’altronde il senso del brocardo “necessitas legem non habet”, richiamato da autori che hanno riflettuto sullo stato di eccezione (per es. Santi Romano, Sui decreti–legge e lo stato di assedio in occasione del terremoto di Messina e di Reggio Calabria
(1909), ora in Id., Scritti minori, a cura di G. Zanobini, I, Giuffrè, 1950, rist. 1990, p. 349 ss.;
G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 9).
10
Cfr. C. Schmitt, Die Diktatur. Von den Anfängen des modernen Souveränitätsgedankens
bis zum proletarischen Klassenkampf, Duncker & Humblot, Berlin 1964, trad. it. a cura di B. Li-
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
21
condo questa dottrina, l’autentica e insopprimibile pienezza del potere
sovrano11. Che il potere pubblico vada concepito come insopprimibilmente sovrano sembrerebbe apparentemente confermato dal fatto che
alcune carte costituzionali moderne non prevedono una eliminazione
del potere sovrano in quanto tale, ma ne affidano la titolarità al popolo12. L’affidamento del potere sovrano al popolo sembrerebbe peraltro
suggellare una costituzionale frammentazione del potere con la conseguente impossibilità che esso possa mai raccogliersi in un unico individuo13. Ma la dottrina dello stato di eccezione pare trascurare questa
modalità frammentata che contraddistingue il potere sovrano delle costituzioni repubblicane. Piuttosto, a tale proposito la dottrina dello stato di eccezione potrebbe giovarsi della riflessione di Hegel il quale,
verani, La dittatura. Dalle origini dell’idea moderna di sovranità alla lotta di classe proletaria,
Laterza, Roma–Bari 1975, p. 159.
11
V.C. Schmitt, Politische Theologie, cit., p. 19: «[d]er Ausnahmefall offenbart das Wesen der staatlichen Autorität am klarsten».
12
Cfr. per es. la Costituzione della Repubblica italiana la quale all’art. 1, 2° comma,
esplicitamente sancisce: «[l]a sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e
nei limiti della Costituzione». Di analogo tenore l’art. 3, 1° comma, della Costituzione
francese, secondo il quale: «[l]a sovranità nazionale appartiene al popolo che la esercita per
mezzo dei suoi rappresentanti e mediante referendum». Leggermente diversa l’enunciazione della corrispondente norma contenuta nella Costituzione tedesca, la quale non parla
di “sovranità”, bensì di “potere statale”: «[t]utto il potere statale emana dal popolo. Esso è
esercitato dal popolo per mezzo di elezioni e di votazioni e per mezzo di organi speciali investiti di poteri legislativo, esecutivo e giudiziario» (così l’art. 20, n. 2, Grundgesetz). Le
versioni in lingua italiana delle principali costituzioni statali europee possono leggersi al sito www.associazionedeicostituzionalisti.it, al link “materiali”. Recentemente, sul problematico concetto di sovranità popolare v. L. Ferrajoli, La sovranità nel mondo moderno, Laterza, Roma–Bari 1997, 20042, p. 29 ss.; M. Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano. La
Costituzione italiana nella storia del costituzionalismo moderno, il Mulino, Bologna 1998,
20042, p. 61 ss.; G. Silvestri, Lo Stato senza principe. La sovranità dei valori nelle democrazie pluraliste, Giappichelli, Torino 2005, p. 32.
13
È per es. quanto espressamente stabilito dall’art. 3, 2° comma, della Costituzione francese, secondo cui «[n]essuna frazione del popolo né alcun individuo può attribuirs[i]
l’esercizio [della sovranità]». Tale norma va in ogni caso interpretata in connessione con le altre norme costituzionali riguardanti situazioni emergenziali, per es. l’art. 16 e gli artt. 35 ss.
La più recente riflessione italiana, nell’esigenza di superare l’impasse della nozione di sovranità popolare, è giunta a proporre la teoria della sovranità dei valori: cfr. G. Silvestri, Lo stato
senza principe, cit., p. 111: «[i]l nucleo essenziale dei valori epocali afferma la sua sovranità
al di sopra del diritto, come sopra il diritto si collocava il sovrano hobbesiano, artefice
dell’ordine e non soggetto ad esso». In senso conforme v. A. Baldassarre, La sovranità dal
cielo alla terra, in G.M. Cazzaniga (a cura di), Metamorfosi della sovranità. Tra Stato nazionale e ordinamenti giuridici mondiali, ETS, Pisa 1999, pp. 61–83, spec. a p. 73.
Capitolo I
22
nel qualificare come “rozza” l’idea della sovranità popolare come opposta alla sovranità del monarca14, sembrerebbe rafforzare l’idea professata da tale dottrina per cui, quali che siano le norme concretamente
vigenti in un ordinamento giuridico, in situazioni eccezionali non previste riaffiorerebbe il potere sovrano nella sua interezza, indissolubilmente congiunto alla figura di uno solo, nelle cui mani è affidato il potere decisionale ultimo15.
La constatazione di un meccanismo tale da sospendere, fra gli altri,
14
Cfr. G.F.W. Hegel, Grundlinien des Philosophie des Rechts, Berlin 1821, trad. it. Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1998, par. 279, pp. 479–
481: «il senso ordinario in cui in epoca moderna si è cominciato a parlare di sovranità popolare è quello di sovranità opposta alla sovranità esistente del monarca. In questa opposizione,
la sovranità popolare appartiene a quei pensieri confusi che hanno per fondamento una rappresentazione rozza del popolo. Il popolo, preso senza il suo monarca e senza l’articolazione
del Tutto che vi è appunto necessariamente e immediatamente connessa, è infatti la massa
amorfa che non costituisce più nessuno Stato. […] Per sovranità popolare, inoltre, si potrebbe
intendere la forma della repubblica, e, in modo più determinato, la democrazia (infatti, sotto
la parola “repubblica” si fa rientrare ogni tipo di molteplici mescolanze empiriche, le quali,
comunque, non hanno nulla a che vedere con una considerazione filosofica». Questa scarsa
considerazione riservata al fenomeno della sovranità popolare nel suo legame con la forma
repubblicana si spiega in quanto per Hegel è la monarchia costituzionale l’unica forma politica in cui si perfezionerà lo Stato (cfr. loc. ult cit., par. 237, p. 465). A chiusura della sua breve
riflessione sulla sovranità popolare, coerentemente con tale presupposto, Hegel ribadisce:
«[l]a sovranità non può essere intesa in riferimento a un popolo che venga rappresentato come
stirpe patriarcale, o nella situazione arretrata e non sviluppata in cui sono possibili le forme
della democrazia o dell’aristocrazia […], oppure, infine, in una situazione arbitraria e disorganica. Essa, piuttosto, dev’essere compresa in riferimento a un popolo pensato come una totalità sviluppata entro sé, autenticamente organica: in un tale popolo, la sovranità è come la
personalità del Tutto, e questa personalità, nella realità conforme al proprio concetto, è la persona del monarca» (loc. ult. cit., par. 279, p. 481; tutti i corsivi all’interno dei passaggi citati
in questa nota sono nel testo).
15
Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie, cit., p. 19: «[d]er Souverän schafft und garantiert die Situation als Ganzes in ihrer Totalität. Er hat das Monopol der letzten Entscheidung». Il problema della sovranità popolare è problema teorico delicato, cui non si è ancora
offerta un’analisi risolutiva proprio per quanto riguarda il rapporto con gli eventuali meccanismi d’eccezione. Che cosa significa affermare la sovranità del popolo quando poi, in situazioni di emergenza, il potere potrebbe essere assunto da uno solo, eventualmente contro
la posizione giuridica dei singoli che compongono il popolo? È per tale motivo che
l’appartenenza del potere sovrano al popolo non risolve di per sé il problema dello stato di
eccezione, come già osservato per es. da G. Silvestri, Lo Stato senza principe, cit., p. 99. Ed
è il medesimo motivo ― riteniamo ― a fondamento del fatto che alcuni costituzionalisti
che si sono confrontati con questo problema hanno condotto la propria riflessione sul piano
del diritto positivo, limitandosi a valutare se effettivamente la nostra Costituzione lasci
spazio all’irruzione dello stato di eccezione, senza arrischiare un’indagine sui rapporti fra
tale dimensione indeterminata di violenza e la natura del diritto.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
23
i diritti fondamentali che ci costituiscono come soggetti esistenti, non
può che turbarci, giacché lascia apparire le posizioni giuridiche individuali, che forse rappresentano la conquista più importante della modernità sotto il profilo del viver civile, come un terreno assai meno
saldo di quanto non siamo abituati a pensare16.
La riflessione che mira a illustrare la disponibilità di un simile
meccanismo, per la modalità con cui esso viene ricostruito nel suo
rapporto con il diritto, è ancor più inquietante se si presta attenzione al
fatto che, secondo la dottrina che lo sostiene, lo stato di eccezione
sembrerebbe implicato nel diritto stesso in quanto tale17. In altre parole, il diritto vigente ― e dunque anche i diritti fondamentali della persona umana potrebbero esser fatti valere soltanto nella misura in cui la
situazione su cui l’applicazione di tali diritti incide si mantenesse su
un livello di “normalità”18. Non appena la situazione fattuale regolata
16
Per esempi recenti di ammissibilità della sospensione di alcuni diritti fondamentali delle
persone, in particolare il diritto di parola e di stampa v. M.D. Forkosch, Speech and Press in
National Emergencies in the United States, nel volume pubblicato dalla Société Jean Bodin
L’individu face au pouvoir/Man Versus Political Power, Quatrième partie – Fourth Part. Europe orientale au moyen age, aux temps modernes et contemporaines (1989), De Boeck–
Wesmael, Bruxelles 1989, pp. 445–502. Conseguenze catastrofiche dell’accoglimento della
teoria schmittiana sono invece delineate in A. Fischer–Lescano, Redifining Sovereignty via International Constitutional Moments? The Case of Afghanistan, in M. Bothe, M.E. O’Connell,
N. Ronzitti (a cura di), Redefining Sovereignty. The Use of Force After the Cold War, Transnational Publishers, Ardsley (NY) 2005, pp. 335–364, spec. a p. 360 ss.
17
Cfr. C. Schmitt, Politische Theologie, cit., pp. 18–19; ID., La dittatura, cit., p. 151.
18
Per es. G.F.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., par. 278, p. 475, a proposito della sovranità, pur sottolineando esplicitamente come la sovranità non vada confusa con
l’arbitrio, e come dunque l’agire sovrano debba essere sempre orientato al benessere dello
Stato, sembra poi ammettere che, in situazione di emergenza, certe posizioni giuridiche possano essere sacrificate: «[p]oiché la sovranità è l’idealità di ogni legittimità particolare, è allora facile, e anche molto frequente, fraintendere la legittimità prendendola per mera potenza e
vuoto arbitrio, e considerare la sovranità come sinonimo di dispotismo. Il dispotismo, però,
designa in genere la situazione dell’assenza di leggi, situazione in cui ha valore di legge ― o,
piuttosto, al posto della legge ― la volontà particolare in quanto tale, si tratti poi di un monarca o di un popolo (oclocrazia). La sovranità, per contro, costituisce il momento dell’idealità
delle sfere e delle funzioni particolari proprio nella situazione legale, costituzionale: la sovranità fa sì che ciascuna di tali sfere non sia un’entità indipendente, autonoma nei propri fini e
modi di operare, approfondendosi soltanto entro di sé, bensì piuttosto che ciascuna sfera, in
questi fini e modi di operare, sia determinata e dipendente dal fine del Tutto ― fine che, in
generale e con un’espressione molto indefinita, è stato chiamato il benessere dello Stato. Ora,
questa idealità giunge a manifestarsi in modo duplice. Nella situazione di pace, le sfere e le
funzioni particolari perseguono la realizzazione dell’appagamento dei loro affari e fini particolari. […] Nella situazione di emergenza ― sia essa interna o esteriore –, invece, è nel con-
24
Capitolo I
dal diritto vigente fosse soggetta a un mutamento imprevisto, secondo
la ricostruzione teorica della dottrina dello stato di eccezione sarebbe
il diritto stesso in quanto tale ad ammettere la sospensione dell’ordine
vigente per dar luogo a un vuoto giuridico19. In altre parole, sarebbe lo
stesso ordinamento giuridico ad autorizzare il potere pubblico a “sospendere” certe posizioni giuridiche e dunque a renderne lecita la violazione.
Indubbiamente vi sono stati periodi anche recenti della storia delle
istituzioni giuridiche d’Europa in cui lo stato di eccezione, così come
delineato dalla dottrina che lo sostiene, sembrerebbe la figura più adatta a descrivere la modalità secondo la quale certe posizioni giuridiche a vantaggio di singoli sono state sospese. Per es. nell’art. 48, 2°
comma, della Costituzione di Weimar si leggeva
[s]e nel Reich tedesco la sicurezza e l’ordine pubblico sono seriamente disturbati o minacciati, il presidente del Reich può prendere le misure necessarie al ristabilimento della sicurezza e dell’ordine pubblico, eventualmente con
l’aiuto delle forze armate. A questo scopo egli può sospendere in tutto o in
parte i diritti fondamentali stabiliti negli articoli 114, 115, 117, 118, 123, 124
e 15320.
cetto semplice della sovranità che confluisce l’organismo politico sussistente nelle proprie
particolarità: allora alla sovranità è affidato il compito di salvare lo Stato sacrificando ciò che
in altre circostanze ha legittimazione. In tal modo, quell’idealismo perviene alla sua realtà peculiare» (corsivi nel testo). Quest’ultima osservazione di Hegel sembra tuttavia riconfermare
che anche nella situazione di emergenza il sacrificio di posizioni giuridiche dovrebbe sempre
essere orientato al benessere dello Stato concepito come un tutto organico, poiché è tale il significato in cui vanno intesi “idealità” e “idealismo” in questo contesto: Hegel chiarisce questo punto in un passaggio precedente dello stesso par. 278, cfr. p. 473 della trad. italiana citata. Per quanto Hegel non si spinga a indagare come la conduzione a buon fine del potere sovrano in situazioni di emergenza possa essere oggetto di garanzia giuridica, ci pare comunque
che il filosofo tedesco sia ben lontano dall’intento di fondare un meccanismo di sospensione
dei diritti che possa essere utilizzato a piacimento da parte di chi detiene la sovranità.
19
Cfr. per es. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 78.
20
Trad. citata in G. Agamben, Stato di eccezione, cit., pp. 24–25; il testo originale
della costituzione di Weimar è reperibile al sito http://www.lwl.org/westfaelische–
geschichte/que/normal/que843.pdf. In generale, sulla Repubblica di Weimar v. C. Klein,
La République de Weimar, Flammarion, Paris 1968, trad. it. a cura di P. Cabrini, La Repubblica di Weimar, Mursia, Milano 1970; e in connessione con il problema dello stato
di eccezione v. anche C.L. Rossiter, Constitutional Dictatorship, cit., p. 30 ss., spec. p.
36; P. Mindus, Emergenza, costituzione, diritti fondamentali, cit., p. 15 ss.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
25
Come possiamo vedere chiaramente da questa norma, è la Costituzione medesima a prevedere la possibilità di una sospensione di certe
posizioni che essa stessa prevede e tutela. Il riferimento alla presenza
di un disturbo o una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico e alla finalità del loro ristabilimento ha contorni così vaghi da lasciare
ampio spazio all’arbitrio di chi debba decidere non soltanto sulla sospensione dei diritti, ma anche sul darsi concreto dei presupposti di
fatto legittimanti tale sospensione. Per via della vaghezza dei termini
in cui sono enunciati i limiti di applicazione della norma ricordata,
qualunque situazione di emergenza potrebbe essere idonea a produrre
la sospensione dei diritti fondamentali in questione21. Considerata l’applicazione assai ampia che di questa norma è stata fatta, e considerato
il periodo storico assai turbolento immediatamente successivo a quello
in cui la Costituzione di Weimar ha visto la luce, non sembrano a tale
proposito inadeguate le parole di Walter Benjamin quando nell’Ottava
tesi sulla filosofia della storia affermava: «[l]a tradizione degli oppressi ci insegna che lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola»22.
Secondo alcuni studiosi tale affermazione di Benjamin manterrebbe
tutta la sua pregnanza anche se applicata al nostro tempo23, pur essen21
A tale proposito Agamben ha ricordato: «i poteri eccezionali del presidente rimasero a
tal punto indeterminati che non solo l’espressione “dittatura presidenziale” fu usata correntemente nella dottrina di riferimento all’art. 48, ma Schmitt poté scrivere nel 1925 che “nessuna
costituzione della terra come quella di Weimar aveva così facilmente legalizzato un colpo di
stato”» (G. Agamben, loc. ult cit., ivi, p. 25).
22
W. Benjamin, Tre tesi di filosofia della storia, in Angelus novus, cit., pp. 75–86, a p. 79.
23
In particolare il concetto di “stato di emergenza permanente” come sviluppato dalla
scuola di Francoforte è ricostruito in W.E. Scheuermann, Between the Norm and the Exception. The Frankfurt School and the Rule of Law, The MIT Press, Cambridge (Massachussets)
1994, spec. p. 123 ss. Il concetto di stato di emergenza permanente è impiegato in D. Losurdo,
Utopia e stato di eccezione. Sull’esperienza storica del socialismo reale, Laboratorio politico,
Napoli 1996, p. 5. Per quanto riguarda scrittori più recenti possiamo riportare la seguente osservazione: «[i]l problema [è] quello di cogliere la forma stessa come una discontinuità in actu, come espressione vivente di una lacerazione e una rottura che traccia una frontiera tra ragione e irrazione, dicibile e indicibile, parola e silenzio: la vera catastrofe è la creazione di “identità” tramite la produzione di forma. Ogni forma si costituisce attraverso un ritaglio di contorni che è imposizione violenta di confini. Il concetto di catastrofe viene così pienamente ad
assumere il carattere di ritrascrizione della nozione di crisi nei termini dello “stato d’eccezione” come regola» (così G. Marramao, Potere e secolarizzazione. Le categorie del tempo,
Bollati Boringhieri, Torino 2005, p. 216). Ad analoga conclusione arriva già G. Agamben,
Stato di eccezione, cit., p. 11; nella stessa linea sembra porsi la riflessione di A. Landwehr,
26
Capitolo I
do stata meditata in tempi assai più bui. Essa anzi costituirebbe il corollario della riflessione che non soltanto mette in luce il nesso in cui
parrebbero stretti insieme in modo indissolubile violenza e diritto, ma
che anche, una volta sgomberato il campo dall’ordinamento giuridico
sospeso mediante il ricorso al meccanismo dell’eccezione, illumina la
pura violenza come “cosa della politica”24. Sarebbe, in altre parole,
proprio la “strategia dell’eccezione” ad «assicurare la relazione fra
violenza anomica e diritto»25 e a lasciar apparire la dimensione della
violenza quale fondamento del diritto, una volta sospesa la vigenza di
quest’ultimo26.
Questa dimensione di violenza sarebbe da cogliersi, secondo la corrente di pensiero in parola, non soltanto come ciò che si rivela nella situazione di emergenza motivante la disapplicazione dell’ordinamento
vigente, ma anche come fondamento originario rispetto al diritto almeno in senso cronologico, cioè antecedentemente il momento di posizione dell’ordinamento stesso. Per es. Schmitt ravvisa nella dittatura
sovrana un potere in grado di produrre una nuova carta costituzionale.
L’attività costituente sarebbe caratterizzata secondo Schmitt da un
grado minimo di giuridicità rispetto al costituendo ordinamento27, ma
il fatto di chiamare tale potere “dittatura” mostra in maniera inequivo“Gute Policey”. Zur Permanenz der Ausnahme, in A. Lücke, M. Wildt (a cura di), Staats–
Gewalt: Ausnahmezustand und Sicherheitsregimes. Historische Perspektiven, Wallstein, Göttingen 2008, pp. 39–63; e in materia di diritto penale, tale idea sottende l’indagine di M.L.
Cesoni pubblicata in M.L. Cesoni (a cura di), Nouvelles méthodes de lutte contre la criminalité: La normalisation de l’exception. Étude de droit comparé (Belgique, États Unis, Italie,
Pays–Bas, Allemagne, France), Bruylant, Bruxelles 2007, p. 3.
24
Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 77. Nel medesimo senso si era già innestata per es. la riflessione di J. Derrida, Forza di legge, cit., pp. 53 e 95 ss., cui fa eco
l’introduzione del curatore, F. Garritano, “In nome della legge”, ivi, pp. 4–77, a p. 12. V. anche F. Rimoli, Stato di eccezione e trasformazioni costituzionali, cit., spec. il par. 3.
25
Così G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 77.
26
Tale lettura, secondo qualche autore, risalirebbe a un pensiero assai antico: cfr.
l’interpretazione, recentemente proposta, dell’enigmatico frammento 169 di Pindaro in cui si
parla del nómos basiléus: «[l]’enigma non consiste qui tanto nel fatto che nel frammento siano
possibili più interpretazioni; decisivo è piuttosto che […] il poeta definisce la sovranità del
nómos attraverso una giustificazione della violenza. Il significato del frammento si chiarisce,
cioè, soltanto se si comprende che esso ha al suo centro una scandalosa composizione di quei
principî per eccellenza antitetici che sono, per i Greci, Bía e Díke, violenza e giustizia. Nómos
è il potere che opera “con mano più forte” l’unione paradossale di questi due opposti» (G.
Agamben, Homo sacer, Einaudi, Torino 1995 e 2005, pp. 36–37).
27
C. Schmitt, La dittatura, cit., p. 158.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
27
cabile il tratto di possibile arbitrarietà nella gestione di tale potere28. Il
costituendo ordinamento raccoglierebbe dunque la dimensione violenta dell’atto del porre la norma e tale dimensione violenta manterrebbe
con l’ordinamento giuridico un rapporto di tipo fondativo29.
Se in Schmitt il grado minimo di giuridicità dell’attività del potere
costituente àncora quest’ultimo all’interno dell’ordinamento giuridico,
la dottrina pura del diritto elaborata da Kelsen si spinge a considerare
la Grundnorm come un vero e proprio infondato dal punto di vista
giuridico, cioè come l’arrischiare di un fondamento di tipo solamente
ipotetico30. Dal punto di vista materiale, invece, Kelsen afferma che un
28
«In senso generalissimo si può definire dittatura ogni eccezione rispetto a uno stato di
cose ritenuto giusto, sicché il termine indica un’eccezione ora rispetto alla democrazia, ora rispetto ai diritti di libertà sanciti dalla costituzione, ora rispetto alla divisione dei poteri» (così
C. Schmitt, La dittatura, cit., p. 159).
29
C. Schmitt, Politische Theologie, cit., p. 19 in fine. Nel medesimo senso v. anche J.
Derrida, Forza di legge, cit., p. 95 ss. In generale, sulla natura del potere costituente v. C.
Klein, Théorie et pratique du pouvoir constituant, Presses universitaires de France, Paris
1996.
30
H. Kelsen, Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik,
Franz Deuticke Verlag 1934, Wien, trad. it. a cura di R. Treves, Lineamenti di dottrina pura
del diritto, Einaudi, Torino 19848, pp. 97–98: «[s]e ci si chiede […] quale sia il fondamento
della validità della costituzione, su cui poggiano tutte le classi e gli atti giuridici compiuti in
base alla legge, si giunge forse a una costituzione più antica e così infine a quella storicamente
originaria che fu promulgata da un singolo usurpatore o da un’assemblea formatasi in un modo qualsiasi»; e ivi, più avanti, pp. 98–99: «[l]a dottrina pura del diritto si vale di questa norma fondamentale come di un fondamento ipotetico. Se si parte dal presupposto che tale norma
sia valida, è valido anche l’ordinamento giuridico che si fonda su di essa. La norma fondamentale attribuisce all’atto del primo legislatore e di qui a tutti gli atti dell’ordinamento giuridico che poggiano su di questo, il significato del dover essere, quello specifico significato per
il quale nella proposizione giuridica la condizione è legata alla conseguenza del diritto; e la
proposizione giuridica è la forma tipica in cui deve necessariamente presentarsi tutto il materiale del diritto positivo. Nella norma fondamentale, in ultima istanza, trova la sua base il significato normativo di tutti i fatti che costituiscono l’ordinamento giuridico. Soltanto in base
al presupposto della norma fondamentale il materiale empirico che si presenta alla determinazione giuridica può essere inteso come diritto, cioè come sistema di norme giuridiche. Secondo la natura di questo materiale, cioè secondo gli atti che debbono essere determinati come atti giuridici, si regola anche il contenuto particolare di quella norma fondamentale che sta alla
base di un determinato ordinamento giuridico. Essa è soltanto l’espressione del presupposto
necessario per comprendere positivisticamente il materiale giuridico. Essa non vale come
norma giuridica positiva, perché non è prodotta nel corso del procedimento del diritto; essa
non è posta, ma è presupposta come condizione di ogni posizione del diritto, di ogni procedimento giuridico positivo. Con la formulazione della norma fondamentale la dottrina pura del
diritto non vuole assolutamente inaugurare un nuovo metodo scientifico della giurisprudenza.
28
Capitolo I
ordinamento giuridico può in quanto tale contenere qualsiasi norma,
purché questa si trovi in rapporto di derivazione/implicazione logica
rispetto alla legge fondamentale. Non soltanto è considerato come giuridico unicamente l’ordinamento positivo, non soltanto la dottrina kelseniana del diritto è pura perché è scevra da ogni commistione con elementi attinti dalla morale o dalla religione, ma anche perché la norma viene in considerazione esclusivamente sotto un profilo formale.
Ciò significa che la norma può rendere obbligatorio ovvero sanzionare
qualunque tipo di comportamento umano: perciò per Kelsen la norma
giuridica in quanto tale può avere qualsiasi contenuto31. Sotto il profilo
del problema della sovranità, Schmitt ha criticato la posizione kelseniana, in quanto Kelsen semplicemente eviterebbe di confrontarsi con
la tematica della sovranità limitandosi a negarla32. La questione in realtà è più complessa e ci riserviamo di approfondirla più avanti33. Ciò
che qui preme rilevare è come in realtà, la stessa visione puramente
formale del diritto come proposta da Kelsen offra la possibilità di inserire il problema della sovranità e dell’arbitrio che questa, concepita
in termini assoluti, porta con sé, lungo il versante tutto interno del
contenuto dell’ordinamento giuridico. È sufficiente infatti assumere
che un ordinamento contempli fra le sue norme (per es. fra quelle costituzionali) la possibilità di sospendere i diritti fondamentali in deEssa vuol dare soltanto la coscienza di ciò che tutti i giuristi fanno per lo più incoscientemente
quando, nel comprendere il loro oggetto, rifiutano un diritto naturale dal quale potrebbe essere
dedotta la validità dell’ordinamento giuridico positivo, ma intendono però questo diritto positivo come ordinamento valido, non già come realtà psicologica, ma come norma. Con la dottrina della norma fondamentale, la dottrina pura del diritto tenta di rilevare, attraverso
all’analisi dei procedimenti effettivi, le condizioni logico–trascendentali del metodo, sinora
usato, della conoscenza giuridica positiva».
31
«Ogni qualsiasi contenuto può essere diritto: non vi è nessun comportamento umano
che, come tale, in forza del suo contenuto, non possa diventare contenuto di una norma giuridica» (H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 96).
32
C. Schmitt, Politische Theologie, cit., p. 29: «Kelsen löst das Problem des Souveränitätsbegriffs dadurch, dass er es negiert». Sul rapporto fra la teoria della decisione schmittiana
e la concezione kelseniana della sovranità cfr. J.F. Kervégan, Hegel, Carl Schmitt. La politique entre spéculation et positivité, Léviathan, Paris 1992, édition “Quadrige” 2005, p. 32 ss.
33
Cfr. infra, capitolo III, par. 3.3, spec. pp. 201–202, con le relative note. Per un cenno di
quanto il pensiero kelseniano sul punto si traduca in un’articolazione assai più complessa che
non la semplice negazione che gli attribuisce Carl Schmitt, cfr. H. Kelsen, Das Problem der
Souveränität und die Theorie des Völkerrechts. Beitrag zu einer reinen Rechtslehre, Mohr,
Tübingen,19282, rist. Scientia, Aalen 1960, pp. 48 e 56–57.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
29
terminate circostanze eccezionali per poter includere il principio dello
stato di eccezione fra le norme giuridiche positive. Kelsen insomma
distingue assai nettamente l’aspetto politico dall’aspetto strettamente
giuridico34. A Kelsen non interessa quali scelte abbiano portato alla istituzione di un certo tipo di ordinamento, contenente certi diritti piuttosto che altri. Il potere decisionale in cui per Schmitt consiste la sovranità che sarebbe a fondamento del diritto, per Kelsen invece o è
ambito regolato dal diritto, cioè riceve una delimitazione giuridica,
ovvero è spazio libero d’azione35.
A differenza della posizione schmittiana, la teoria kelseniana, è noto, ha avuto grandissima risonanza fra gli studiosi del diritto36. La dottrina e la giurisprudenza italiane si possono tuttora dire ancorate ad alcuni principi cardine professati da Kelsen. Innanzitutto, il metodo per
vagliare il valore di una certa norma, la sua forza, vigenza ed efficacia,
nonché la sua appartenenza a un ordinamento è fortemente ispirato al
metodo kelseniano di risalimento al fondamento su cui la norma in
questione riposa37. Questo metodo è accolto nel principio della gerarchia delle fonti del diritto fissato agli artt. 1–8 delle disposizioni preliminari al codice civile italiano del 1942, come integrati e modificati
a seguito dell’adozione della Costituzione del 194838. In secondo luo34
Su questo punto e le relative implicazioni riguardo alla teoria dello stato di eccezione v.
D. Dyzenhaus, The Constitution of Law. Legality in a Time of Emergency, Cambridge University Press, Cambridge 2006, p. 199 ss.
35
Cfr. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität, cit., p. 48.
36
Sulla diversità di approccio di alcuni temi di teoria del diritto da parte di Kelsen e
Schmitt vedasi per es. gli scritti raccolti a cura di D. Diner, M. Stolleis, Hans Kelsen and Carl
Schmitt. A Juxtaposition, Bleicher, Gerlinger 1999.
37
Kelsen parla a tale proposito di «costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico» (H.
Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 111).
38
L’art. 1 delle cd. preleggi stabilisce infatti: «[s]ono fonti del diritto: 1) le leggi; 2) i regolamenti; 3) le norme corporative; 4) gli usi». Gli artt. 2, 3, 4 e 8 delle medesime “preleggi”
fissano i rapporti gerarchici fra tali fonti. Dopo l’eliminazione, mediante il r.d.l. del 9 agosto
1943 n. 721, delle norme corporative vigenti durante il regime fascista, a seguito dei lavori
dell’Assemblea costituente, la Costituzione è stata posta come legge fondamentale di carattere
rigido, a differenza dello Statuto albertino che ne rappresenta l’antecedente storico (sul punto
e sulla sua rilevanza in materia di stato di eccezione v. infra, capitolo II, par. 2.1, p. 93, in fine,
ss.). Ciò significa, per l’interprete del diritto, che per es. un certo uso (tipologia di norma posta al grado infimo della gerarchia delle fonti), è legittimo e può essere considerato parte
dell’ordinamento giuridico italiano soltanto se è conforme a tutt’e tre le fonti di rango superiore; il regolamento a sua volta deve essere conforme sia alla Costituzione che alla legge e
quest’ultima deve tenersi nei limiti, sostanziali e procedurali, fissati dalla Costituzione. Sul
30
Capitolo I
go, l’accento posto sul carattere unicamente formale del diritto ha
prodotto negli operatori giuridici una tendenza, a quanto pare dura a
sradicarsi, che talora si concreta nel lasciar prevalere l’esigenza di applicare una norma sul fondamento della sua validità valutato in senso
formale piuttosto che sulla corrispondenza di tale norma a canoni di
giustizia39. In altre parole, i principi della teoria kelseniana, soprattutto
prima che subentrassero vari correttivi che ne hanno per così dire intorbidito l’istanza di purezza, avrebbero determinato una sorta di distorsione dello strumento giuridico, che verrebbe applicato facendo
valere ragioni meramente formali talora a scapito della giustizia. Tale
tendenza deve riscontrarsi non solo fra gli operatori del diritto interno,
ma anche fra i giuristi internazionalisti. Per es., nell’ambito delle Nazioni Unite, un’interpretazione meramente formalista sembra essere
quella attualmente prevalente per quanto riguarda la determinazione
della minaccia alla pace ai sensi dell’art. 39 della Carta, norma nella
quale sono fissati i presupposti per l’azione del Consiglio per la sicurezza a tutela della pace e della sicurezza internazionali40. La dottrina
funzionamento della gerarchia delle fonti nel sistema giuridico italiano v. per es. C. Lavagna,
Istituzioni di diritto pubblico, UTET, Torino 1985, rist. 1986, p. 135 ss.; in generale sulle fonti del diritto italiano cfr. V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale. 6a ed. agg., II, 1,
L’ordinamento costituzionale italiano (Le fonti normative), Cedam, Padova 1993.
39
Per una breve sintesi delle questioni applicative sollevate dalla teoria kelseniana cfr.
J.W. Bendersky, Introduction: The Three Types of Juristic Thought in German Historical and
Intellectual Context, introduzione alla versione in lingua inglese di Über die drei Arten des
wissenschaftlichen Denkens di Carl Schmitt, pubblicata negli Stati Uniti d’America con il titolo On the Three Types of Juristic Thought, Praeger, Westport, Connecticut 2004, p. 8 ss.
40
Ricordiamo che una volta rilevata l’esistenza di certi presupposti (minaccia alla pace,
violazione della pace e atto di aggressione), il Consiglio per la sicurezza può agire, ai sensi
della Carta, mediante l’adozione di misure provvisorie (art. 40), di misure pacifiche (art. 41) e
di misure comportanti l’uso della forza armata (art. 42). Se per “violazione della pace” e “atto
di aggressione” è intuitivo il riferimento a situazioni caratterizzate dalla presenza di conflitti
armati in atto, la nozione di “minaccia alla pace” presenta contorni assai meno netti. Appare
dunque evidente la grande importanza che riveste la questione dell’interpretazione della nozione di minaccia alla pace. Dal suo esser intesa in senso meramente formalistico (cioè come
qualunque comportamento che il Consiglio per la sicurezza ritenga tale), ovvero legato a una
precisa situazione concreta caratterizzata da certi tratti distintivi (come il fatto che un certo
Stato concretamente metta a repentaglio la pacifica convivenza con altri Stati, per es. minacciando l’uso di armi nucleari: ciò che, per ricordare un episodio recente, ha fatto l’Iran nei
primi mesi del 2007; oppure: come una situazione di guerriglia interna cui lo Stato non è in
grado di far fronte e che rischia di estendersi nello spazio e nel tempo ecc.) dipende infatti la
legittimità dell’azione del Consiglio per la sicurezza. Dal modo di intendere la minaccia alla
pace dipende in altre parole la portata stessa delle competenze del Consiglio. Se la minaccia
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
31
maggioritaria, infatti, purtroppo si limita a considerare come “minaccia alla pace” ciò che il Consiglio determina in quanto tale41. In tale
determinazione il Consiglio sarebbe, secondo alcuni studiosi, del tutto
legibus solutus. È palese il rischio di abusi cui si presta (e cui si è prestata in passato) l’interpretazione formalistica di questa nozione. Tale
approccio formalistico ci sembra tanto più inquietante ponendo mente
al fatto che il criterio della giustizia è espressamente posto a limitare
una parte significativa dell’attività degli organi delle Nazioni Unite42.
È comunque indubbio che, dalla prima formulazione della teoria
kelseniana con la quale si riuscivano a giustificare anche le efferatezze
degli Stati totalitari perché fondate su norme ritenute giuridiche in
quanto semplicemente poste, ancorché in dispregio dei diritti più elementari, sono stati fatti molti passi avanti nella tutela delle situazioni
giuridiche degli individui. L’esigenza di una interpretazione meramente formale delle norme si scontra con l’affermarsi di un nucleo via via
più solido e indisponibile di diritti fondamentali. Si pensi per es. che
l’adesione a certe organizzazioni internazionali è attualmente condizionata al requisito che lo Stato aderente possegga un ordinamento
alla pace viene intesa in senso restrittivo, appariranno arbitrarie le risoluzioni in cui il Consiglio dichiara l’esistenza della minaccia esclusivamente per rivestire di legittimità
l’imposizione agli Stati di nuovi obblighi al cui rispetto essi non sarebbero tenuti. Ci pare che
in questo senso “arbitrario” debbano esser lette una serie di risoluzioni a partire dalla n. 748
del 31 marzo 1992, sul caso Lockerbie, sino alla ris. 1546 dell’8 giugno 2004 con la quale, nel
corso della cd. II Guerra del Golfo, è stata in sostanza imposta una nuova forma di governo in
Iraq.
41
In tal senso per es. B. Conforti, Diritto internazionale, VII ed., Editoriale scientifica,
Napoli 2006, p. 368: [n]ell’accertare se sussista una minaccia o violazione della pace o un atto
di aggressione, il Consiglio gode di un larghissimo potere discrezionale («Il Consiglio ― si
limita a dire l’art. 39 ― accerta l’esistenza…», ecc.). La discrezionalità può aver modo di esercitarsi soprattutto con riguardo all’ipotesi della “minaccia alla pace”: «trattasi infatti di una
ipotesi assai vaga ed elastica che, a differenza dell’aggressione e della violazione della pace,
non è necessariamente caratterizzata da operazioni militari o comunque implicanti l’uso della
violenza bellica, e che quindi si presta a inquadrare i più vari comportamenti di uno Stato e
le più varie situazioni» (corsivi nostri).
42
V. l’art. 1 della Carta delle Nazioni Unite, in cui sono enunciati i fini dell’Organizzazione, fra i quali «to bring about, by peaceful means, and in conformity with the principles
of justice and international law, adjustment or settlement of international disputes or situations
which might lead to a breach of the peace»; nonché l’art. 2, par. 3 della Carta che sancisce
l’obbligo per tutti gli Stati membri di «settle their international disputes by peaceful means in
such a manner that international peace and security, and justice, are not endangered» (corsivi
nostri).
Capitolo I
32
fondato sui principi democratici, sul rispetto dei diritti fondamentali
della persona umana e dello stato di diritto43. Tali norme esprimono
insomma una coscienza più salda dell’importanza della tutela di certe
posizioni giuridiche fondamentali. Inoltre, non può dimenticarsi che
l’aspetto della purezza nella teoria kelseniana non era per certi versi
lontano da motivi che l’avvicinano a una vera e propria etica del diritto. Si tratta di un aspetto quasi paradossale, in quanto esplicitamente
Kelsen ha inteso sganciare il contenuto della norma giuridica da valutazioni di tipo morale o da precetti di natura religiosa. Ciononostante,
l’aver individuato nella logica formale l’unico criterio–guida per l’applicazione delle norme giuridiche, avrebbe dovuto garantire una indisponibilità delle posizioni giuridiche coinvolte e la possibilità di un
controllo di tale applicazione sulla base di valori unicamente razionali
e dunque universalmente comunicabili e condivisibili. La purezza del
diritto era ― volendo attribuire la più grande onestà intellettuale al più
importante giurista del Novecento ― un tentativo di aggirare
l’ostacolo rappresentato da qualunque impostazione sostanzialista che
si sarebbe prima o poi impantanata nelle aporie che il tentativo di definire valori come la giustizia, il bene e simili ― valori confinanti se
non forse addirittura coincidenti con valori etici ― porta inevitabilmente con sé44. Tenendo conto di questo aspetto, nonché delle tendenze evolutive in senso sostanzialista, può affermarsi che i contenuti dei
sistemi giuridici attuali sembrano orientarsi sempre più decisamente
nel senso dell’affermazione perentoria di certi diritti fondamentali
considerati indisponibili.
Ma a parte questo punto, su cui torneremo, e anche volendo attenersi all’accento più sostanzialistico che formalistico che connota
l’attività lato sensu legislativa degli ultimi decenni, certamente il fatto
che le garanzie a tutela di alcuni diritti fondamentali vengano scritte
nella legge vigente non sembra implicare di per sé che, in situazioni di
43
Cfr. l’art. 49 del Trattato sull’Unione europea e il richiamo ivi contenuto all’art. 6, par.
1 del medesimo strumento. La piena condivisione dei principi dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali è uno degli impegni richiesti agli Stati anche ai fini dell’adesione al Consiglio d’Europa (cfr. l’art. 3 del Trattato istitutivo).
44
Il positivismo giuridico nel suo complesso può in fondo considerarsi il richiamo alla
concretezza del dato costituito dalla norma vigente al fine di evitare di impegolarsi nelle disquisizioni dei giusnaturalisti che apparivano astratte e non in grado di rendere ragione delle
norme giuridiche positive ispirate a principi di sperequazione.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
33
necessità e/o urgenza, tali diritti non possano essere sospesi, soprattutto se si ricorda che questo è quanto in effetti è accaduto nel corso di
alcune congiunture storiche ancora a noi vicine nel tempo. Detto altrimenti: la circostanza che la teoria kelseniana abbia preso maggior
piede rispetto a quella schmittiana e il fatto che nel suo accoglimento
sia invalsa una tendenza “sostanzialista” dal punto di vista della tutela
delle posizioni giuridiche degli esseri umani, non è di per sé la prova
che il diritto non possa esser sospeso mediante il meccanismo dell’eccezione. Situazioni quali stato di assedio, calamità di varia natura e
fatti storici di respiro grandioso, come l’attentato alle torri gemelle del
2001, certamente rendono attuale la riflessione sul rapporto fra il diritto, come insieme di norme a tutela di certi valori fondamentali, e la
sua sospensione nel caso di eventi eccezionali, attestata come fatto
storico.
Per tale motivo, qualcuno ha ritenuto di rispolverare in tempi recenti la teoria schmittina dello stato di eccezione, ricostruendo questa
figura teorica come la soglia che consente il passaggio fra il diritto e il
fatto45. L’interpretazione dello stato di eccezione come la soglia fra il
diritto e il fatto si rivelerebbe adeguata a descrivere questo fenomeno
innanzitutto perché lo stato di eccezione non sarebbe propriamente
preso dentro al diritto46, ma sarebbe piuttosto un meccanismo includente di esclusione, ovvero di inclusione escludente. Lo stato di eccezione non potrebbe essere regolato dal diritto in quanto costituirebbe il
mezzo attraverso il quale il diritto viene sospeso. Mediante lo stato di
eccezione, proclamato per far fronte a una situazione di emergenza
non regolata dal diritto vigente, farebbe irruzione il non–regolato, il
mero fatto ― o, come anche è stato detto, la pura violenza:
la saldatura impossibile fra norma e realtà, e la conseguente costituzione
dell’ambito normale, è operata nella forma dell’eccezione, cioè attraverso la
presupposizione del loro nesso […]. In ogni caso, lo stato di eccezione segna
45
Così G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 34.
«Esser fuori e, tuttavia, appartenere: questa è la struttura topologica dello stato di eccezione» (così G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 48, corsivi nel testo). Alla riflessione di
Agamben si ispirano anche J.–C. Paye, La fin de l’État de droit. La lutte antiterroriste, de
l’état d’exception à la dictature, La Dispute/SNÉDIT, Paris 2004, p. 185; F. Rimoli, Stato di
eccezione e trasformazioni costituzionali, cit., par. 1, in fine; nonché l’Einleitung dei curatori
del volume A. Lücke, M. Wildt (a cura di), Staats–Gewalt, cit., pp. 9–38, a p. 22.
46
34
Capitolo I
una soglia in cui logica e prassi s’indeterminano e una pura violenza senza
logos pretende di attuare un enunciato senz’alcun riferimento reale47.
Nella situazione di eccezione in altre parole, apparirebbe, secondo
questa dottrina, qualcosa di simile allo stato di natura: un autentico,
originario non–regolato, che precederebbe alla stregua di fondamento
la dimensione della convivenza civile fondata sul diritto. Il tratto meramente fattuale di tale dimensione fondante il diritto sarebbe palese
ove si tenesse a mente che la sospensione del diritto determinerebbe
per il singolo individuo l’impossibilità di far valere la propria pretesa
giuridica basata sull’ordinamento sospeso. La posizione giuridica del
singolo verrebbe travolta dai fatti non regolati né ― evidentemente ―
regolabili instauratisi con lo stato di eccezione. In stato di eccezione la
pretesa giuridica di cui il singolo fosse titolare non sarebbe affidata
per la sua affermazione a un potere super partes, funzionante in base a
regole stabilite su cui il singolo possa fare affidamento, bensì si troverebbe in balìa delle forze in gioco, del mero esser–più di qualcuno che
determina per vie di fatto il soccombere, il mero esser–meno di qualcun altro48.
47
G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 54. Rispetto al potere politico, Foucault, nello
scritto del 1975 Dialogo sul potere, in M. Foucault, Biopolitica e liberalismo. Detti e scritti su
potere ed etica 1975–1984, trad. it. a cura di O. Marzocca, Medusa, Milano 1994, p. 41 ss., a
p. 43, considera il linguaggio in funzione meramente strumentale: «il potere non è al di fuori
del discorso. Il potere non è né fonte né origine del discorso. Il potere è qualcosa che opera attraverso il discorso, poiché il discorso è esso stesso un elemento di un dispositivo strategico di
relazioni di potere». Una posizione diversa su questo punto sembra leggersi in J. Derrida,
Forza di legge, cit., p. 58 s., dove l’autore, sottolineando la coappartenenza fra giustizia e forza, sembra ammettere una radice comune di logos e violenza.
48
Cfr. T. Hobbes, Leviathan, (1651), trad. it. di Leviatano, G. Micheli, Fabbri, Milano
1996, vol. I, p. 120: «durante il tempo in cui gli uomini vivono senza un potere comune che li
tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione che è chiamata guerra e tale
guerra è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo. La guerra, infatti, non consiste solo nella
battaglia o nell’atto del combattere, ma in un tratto di tempo, in cui è sufficientemente conosciuta la volontà di contendere in battaglia; […] così la natura della guerra non consiste nel
combattimento effettivo, ma nella disposizione verso di esso che sia conosciuta e in cui, durante tutto il tempo, non si dia assicurazione del contrario. Ogni altro tempo è pace. Perciò tutto ciò che è conseguente al tempo di guerra in cui ogni uomo è nemico ad ogni altro uomo, è
anche conseguente al tempo in cui gli uomini vivono senz’altra sicurezza che quella che la
propria forza e la propria inventiva potrà fornire loro […] v’è continuo timore e pericolo di
morte violenta, e la vita dell’uomo è solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve». Che lo stato di natura di Hobbes vada inteso alla luce dello stato di eccezione può leggersi per es. in G.
Agamben, Homo sacer, cit., p. 118, e in M. Maraviglia, La penultima guerra. Il “katéchon”
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
35
L’irruzione di questa dimensione “naturale”, “anomica”, “caotica”,
attraverso la soglia dello stato di eccezione farebbe apparire la violenza quale dimensione sottostante lo stesso ordinamento giuridico in
quanto tale49. Il nesso che tale dottrina istituisce fra stato di eccezione,
sovranità e decisione situerebbe inoltre l’ambito della decisione in
questa dimensione violenta. La politica, interpretata come arbitrio legibus solutus della decisione sovrana, si connoterebbe, come abbiamo
già accennato, per questo tratto di violenza pura. All’assolutezza del
potere sovrano farebbe riscontro questa pura violenza che, nell’indeterminatezza di logos e caos caratterizzante lo stato di eccezione50, sembrerebbe significare violenza senza limiti, senza determinazione.
L’aver pensato lo stato di eccezione come la soglia attraverso la quale
può trapelare questa dimensione di pura violenza sembra dare a
quest’ultima spazio di manovra e di azione, ancorché soltanto in circostanze eccezionali. L’aver posto a fondamento del diritto una regione di anomia, sembrerebbe alludere a ciò, che comunque si voglia intendere il diritto, qualunque contenuto si voglia dare alle norme giuridiche in cui il diritto storicamente si concreta, la dimensione violenta
che lo regge in quanto fenomeno non potrà mai essere eliminata51. Il
nella dottrina dell’ordine politico di C. Schmitt, Edizioni Universitarie di Lettere Economia
Diritto, Milano 2004, p. 32.
49
Non è forse inutile ricordare come questa modalità interpretativa del rapporto fra diritto
e anomia, ordine e caos non sia così lontana dall’humus culturale nel quale è maturata la posizione di Schmitt. Come è stato osservato, per quanto riguarda i temi del pensiero schmittiano
si tratta «di spunti avvicinabili tanto a partire da un approccio religioso, quanto vitalista; non a
caso riemergono in ambito filosofico, politico, teologico, sapienzale e psicanalitico. Si pensi a
Freud, che in uno scritto del 1915 [S. Freud, Zeitgemässes über Krieg und Tod, pubblicato per
la prima volta in Imago, vol. 4, 1915, e successivamente dalla Internationaler Psychoanalytischer Verlag, Leipzig, Wien, Zürich 1924, trad. it. a cura di M. Spinella, in Considerazioni
sulla guerra e sulla morte/Caducità, Editori Riuniti, Roma 1982, N.d.A.] osservava come la
guerra, “eliminando le sedimentazioni depositate in noi dalla civiltà”, “lasciasse apparire
l’uomo primitivo”; e si chiedeva se non fosse il caso di “adattarsi” “restituendo alla morte,
nella realtà come nel pensiero, il posto che le compete” giusta la massima “si vis vitam para
mortem”» (L. Papini, Ecumene e decisione. Teologia politica e critica della modernità in Carl
Schmitt, Name edizioni, Genova 2004, p. 117). Tale humus culturale è il medesimo in cui evidentemente attecchisce la riflessione di J. Derrida, Forza di legge, cit., p. 111 ss.
50
Cfr. G. Agamben, Stato di eccezione, cit., pp. 77–78.
51
«L’eccezione sovrana (come zona d’indifferenza fra natura e diritto) è la presupposizione della referenza giuridica nella forma della sua sospensione. In ogni norma che comanda o vieta alcunché (per es. nella norma che vieta l’omicidio) è iscritta, come eccezione presupposta, la figura pura e insanzionabile della fattispecie che, nel caso normale, invera la sua
36
Capitolo I
rapporto di fondante–a–fondato che terrebbe insieme stato di eccezione e diritto, allude anzi, nel tempo in cui scriviamo pervaso di echi del
pensiero di Heidegger52, all’esigenza di preservare in qualche maniera
lo stato di eccezione quale fondamento del fenomeno giuridico. Se,
come invita a pensare Heidegger, l’uomo deve farsi pastore dell’essere53 in quanto fondamento sfondato, e se, come suggeriscono i
teorici dello stato di eccezione, attraverso il meccanismo dell’eccezione, la pura violenza quale fondamento ultimo della politica può
penetrare nella connessione dei rimandi che tiene insieme l’ordine
quotidiano delle cose sciogliendo la vigenza dell’ordinamento giuridico che regola la “normalità”54, ravvisiamo una consonanza quanto meno evocativa fra il pensiero heideggeriano e la dottrina dello stato di
eccezione. Ponendoci dal punto di vista del vasto orizzonte aperto dal
pensiero heideggeriano, tale consonanza potrebbe indurci inevitabilmente ad ammettere che è lo stato di eccezione, recante con sé la faglia da esso stesso dischiusa sulla dimensione originaria di violenza, a
costituire il fondamento del fenomeno giuridico in quanto tale55. Fatrasgressione (nell’esempio, l’uccisione di un uomo non come violenza naturale, ma come
violenza sovrana nello stato di eccezione)» (così G. Agaben, Homo sacer, cit., p. 25, corsivo
nel testo).
52
Un’eco del pensiero heideggeriano si ode non tanto e non soltanto in C. Schmitt, Der
Nomos der Erde im Völkerrecht des Jus Publikum Europaeum, Duncker & Humblot, Berlin
1974, trad. it. di E. Castrucci, Il nomos della terra nel diritto internazionale dello “jus publicum europaeum”, Adelphi, Milano 1991, p. 70, quanto più distintamente in G. Agamben,
Homo sacer, cit., p. 23, dove si parla dello stato di eccezione nel senso di “localizzazione (Ortung) fondamentale”: immediato risuona il rimando al secondo saggio in M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Neske, Pfullingen 1959, trad. it. a cura di A. Caracciolo e M. Caracciolo
Perotti, In cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano 1973, p. 45 ss., nel quale si cerca di
individuare il luogo del poema di Georg Trakl, luogo che si lega, coerentemente nel pensiero
di Heidegger, alla questione della topologia dell’essere (cfr. anche M. Heidegger, Vier Seminäre. Zürcher Seminar, Klostermann, Frankfurt am Main 1977, trad. it. di M. Bonola, a cura
di F. Volpi, Seminari, Adelphi, Milano 1992, p. 132).
53
Cfr. M. Heidegger, Brief über den Humanismus, Klostermann, Frankfurt am Main
1976, trad. it. a cura di F. Volpi, Lettera sull’“Umanismo”, Adelphi, Milano 1995, 20004, p.
56.
54
Cfr. G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 31: «[i]l diritto ha carattere normativo, è “norma” (nel senso proprio di “squadra”) non perché comanda e prescrive, ma in quanto deve innanzitutto creare l’ambito della propria referenza nella vita reale, normalizzarla» (corsivo nel
testo).
55
«La relazione di eccezione esprime […] semplicemente la struttura formale originaria
della relazione giuridica. La decisione sovrana sull’eccezione è, in questo senso, la struttura
politica originaria, a partire dalla quale soltanto ciò che è incluso nell’ordinamento e ciò che è
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
37
cendo convergere, in virtù del potere evocativo delle parole impiegate,
la direzione lungo la quale si muove il pensiero heideggeriano e la riflessione dei teorici dello stato di eccezione, sembrerebbe potersi concludere che il fondamento caotico rivelato dalla struttura dell’eccezione debba essere preservato56 nella misura in cui vogliamo mantenere anche quel “poco di diritto”, limitato, sospendibile a seconda del
capriccioso funzionamento degli organi nelle cui mani è affidato il potere sovrano, potere di cui tuttora disporrebbero certi individui od organi negli ordinamenti statali contemporanei57.
Ulteriore conseguenza dell’aver stretto insieme sovranità, stato di
eccezione e decisione ultima è che nella figura del sovrano, in quanto
titolare del potere decisionale in merito allo stato di eccezione non soltanto si indeterminerebbero diritto e anomia, violenza e logos, ma anche si svelerebbe il luogo58 in cui appare qualcosa come la nuda vita59.
escluso da esso acquistano il loro senso. Nella sua forma archetipica, lo stato di eccezione è,
dunque, il principio di ogni localizzazione giuridica, poiché esso soltanto apre lo spazio in cui
la fissazione di un certo ordinamento e di un determinato territorio diventa per la prima volta
possibile» (così G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 24).
56
In tal senso, ci sembra, devono esser lette le parole di G. Agamben per il quale la sovranità come da lui interpretata ha “legittimato e reso necessario” fenomeni come il campo di
concentramento (in Homo sacer, cit., p. 132).
57
A una conclusione analoga sembrerebbero ispirate anche le parole di T. Hobbes, Leviatano, cit., pp. 179–180.
58
«Una delle tesi della presente ricerca è che proprio lo stato di eccezione, come struttura
politica fondamentale, nel nostro tempo emerge sempre più in primo piano e tende, in ultimo,
a diventare la regola. Quando il nostro tempo ha cercato di dare una localizzazione visibile
permanente a questo illocalizzabile, il risultato è stato il campo di concentramento. Non il
carcere, ma il campo, è, infatti, lo spazio che corrisponde a questa struttura originaria del nomos. Ciò si mostra, fra l’altro, nel fatto che mentre il diritto carcerario non è fuori
dell’ordinamento normale, ma costituisce solo un ambito particolare del diritto penale, la costellazione giuridica che orienta il campo è […] la legge marziale o lo stato di assedio» (così
G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 24).
59
Sulla “nuda vita” v. W. Benjamin, Per la critica della violenza, cit., p. 26. Tale concetto
è ripreso in G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 101: «lo stato non si fonda su un legame sociale, di cui sarebbe espressione, ma sul suo scioglimento (déliaison). […] La déliaison non va
intesa come scioglimento di un vincolo preesistente (che potrebbe avere la forma di un patto o
contratto); piuttosto il vincolo ha esso stesso originariamente la forma di uno scioglimento o
di un’eccezione, in cui ciò che è catturato è, insieme, escluso e la vita umana si politicizza soltanto attraverso l’abbandono a un potere incondizionato di morte. Più originario del vincolo
della norma positiva o del patto sociale è il vincolo sovrano, che è, però, soltanto uno scioglimento; e ciò che questo scioglimento implica e produce ― la nuda vita, che abita nella terra
di nessuno tra la casa e la città ― è, dal punto di vista della sovranità, l’elemento politico originario».
38
Capitolo I
A tale proposito, e contro le aspettative che i meccanismi di garanzia
dei diritti umani, fiore all’occhiello del civile vivere della contemporaneità, ci hanno lasciato più o meno coscientemente nutrire, a proposito dell’homo sacer, antica figura al limite fra diritto e religione risalente al mondo romano e reinterpretata alla luce delle vicende politiche del nostro tempo, leggiamo:
[c]iò che è catturato nel bando sovrano è una vita umana uccidibile e insacrificabile: l’homo sacer. Se chiamiamo nuda vita o vita sacra questa vita che
costituisce il contenuto primo del potere sovrano, disponiamo anche di un
principio di risposta per il quesito benjaminiano circa «l’origine del dogma
della sacertà della vita». Sacra, cioè uccidibile e insacrificabile, è originariamente la vita nel bando sovrano e la produzione della nuda vita è, in questo
senso, la prestazione originaria della sovranità. La sacertà della vita, che si
vorrebbe oggi far valere contro il potere sovrano come un diritto umano in
ogni senso fondamentale, esprime, invece, in origine proprio la soggezione
della vita a un potere di morte60.
La “nuda vita” qui richiamata coinciderebbe dunque con lo stato di
natura di cui parla Hobbes, con quella condizione della guerra di tutti
contro tutti, quale dimensione originaria della politica e fondamento
del fenomeno giuridico61.
Ma è ammissibile una ricostruzione del genere? È adeguata a illuminare il fondamento del diritto? Nel nostro tempo la politica può essere pensata in così indissolubile connessione con la sovranità intesa
come l’ambito decisionale nel quale si concentrano in maniera illimitata facoltà e poteri tali da poter agire se necessario al di fuori dei vincoli imposti dalle norme giuridiche? Lo Stato contemporaneo, al suo
60
Questo il pensiero di G. Agamben, Homo sacer, cit., pp. 92–93 (corsivi nostri), rispetto
al quale gli studiosi del diritto internazionale crediamo non possano fare a meno di rabbrividire. Non si tratta di una dottrina nuova, al contrario; e anche nel secolo appena concluso essa è
stata autorevolmente sostenuta da altri autori di lingua italiana, ancorché sulla base di un approccio differente: cfr. U. Campagnolo, in H. Kelsen, U. Campagnolo, Diritto internazionale
e Stato sovrano, Giuffrè, Milano 1999, che qualifica la sovranità come onnipotenza del diritto
e ammette che il singolo possa essere sacrificato allo Stato: «lo Stato può chiedere al suddito
anche il sacrificio della vita: il compimento di questo sacrificio contiene la prova suprema
dell’effettiva sovranità dello Stato e del diritto» (loc. ult. cit., ivi, p. 151).
61
G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 41–42; sul punto cfr. anche M. Maraviglia, La penultima guerra, cit., p. 32.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
39
interno, nella gestione della cosa pubblica, potrebbe davvero sospendere i diritti dei singoli semplicemente invocando il sopravvenire di
una situazione di emergenza? E che cosa accade a tale riguardo nel diritto internazionale in quanto ordinamento regolante l’attività degli
Stati quali enti sovrani? Se è adeguata la descrizione del rapporto diritto–sovranità che viene proposta dai teorici dello stato di eccezione,
e se diritto e sovranità sembrano, pur implicandosi, escludersi a vicenda62, quale ossimoro rivela l’espressione “diritto internazionale” tenendo a mente che questo diritto regola le attività di entità sovrane63?
Di che diritto fra Stati può parlarsi visto che il diritto internazionale si
indirizza a soggetti sovrani? Si deve ritenere che nel diritto internazionale contemporaneo sia applicabile ancora la dottrina dell’autolimitazione dello Stato64, intesa nel senso che lo Stato sarebbe vincolato ai
propri obblighi sino a quando non decidesse capricciosamente di liberarsene, e ciò senza conseguenze, proprio perché lo Stato è “sovrano”?
È questo quanto accade nei rapporti giuridici fra Stati? Il diritto internazionale conosce un istituto come lo stato di eccezione? In situazioni
eccezionali, accade in effetti che gli Stati sospendano i propri obblighi
giuridici a proprio piacimento?
62
Nel senso che o vige l’ordinamento giuridico, e allora il potere sovrano è tutto ritirato al
suo grado minimo, quale invisibile fondamento del diritto; ovvero riaffiora il potere sovrano
nella sua pienezza e l’ordinamento giuridico viene sospeso.
63
Il principio di sovrana eguaglianza degli Stati non soltanto si fonda sul diritto non scritto, ma anche è costantemente ribadito in numerosi strumenti internazionali. Qui basti ricordare per es. che l’Organizzazione delle Nazioni Unite è espressamente informata alla «sovrana
eguaglianza di tutti i suoi membri» (art. 2, par. 1 della Carta Onu).
64
La più matura formulazione della teoria dell’autolimitazione così intesa viene ascritta
dalla dottrina internazionalistica contemporanea principalmente allo Jellinek (cfr. per es. B.
Conforti, Diritto internazionale, cit., p. 8; più recententemente S. Hobe, K. Nowrot, Whither
the Sovereign State?, in German Yearbook of International Law, 2007, pp. 243–302, a p. 253;
ma anche lo stesso Kelsen sembra incorrere in un fraintendimento del pensiero di Jellinek: cfr.
Das Problem der Souveränität, cit., pp. 168–173), che va letto anche alla luce delle idee esposte in G. Jellinek, Die rechtliche Natur der Staatenverträge, Hölder, Wien 1880. In verità una
più attenta lettura sia di Die rechtliche Natur, sia di G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, O.
Haring, Berlin 1914, p. 475 ss. dovrebbe scongiurare il fraintendimento per cui secondo Jellinek lo Stato sarebbe vincolato al diritto internazionale soltanto nella misura in cui si sia autolimitato, con conseguente possibilità di svincolarsi a suo piacimento degli obblighi internazionali contratti. Le pagine rilevanti di Jellinek ― cfr. infra in nota 73 alcuni passaggi rilevanti ai fini del nostro discorso ― sembrano ispirate a tutt’altra concezione del diritto, inteso come meccanismo istitutivo di un doppio vincolo, obbligante non soltanto il destinatario della
norma, ma anche il soggetto stesso che la pone.
Capitolo I
40
Indubbiamente il peculiare fenomeno giuridico costituito dal diritto internazionale ci consente di far luce sulla fondatezza della teoria dello stato di eccezione meglio che altri ambiti giuridici ritenuti più “evoluti”. Non è raro sentir dire ― persino da alcuni specialisti della materia ― che l’ordinamento internazionale sarebbe un
ordinamento “primitivo”65, e ciò a causa di alcune caratteristiche
che sembrerebbero inficiare l’effettività se non addirittura la validità delle sue norme66. Da eminenti filosofi la società internazionale è
stata paragonata allo stato di natura67, per cui quale miglior banco di
prova per vagliare la teoria dello stato di eccezione se non quello
che ne misura l’applicabilità al diritto internazionale? Ma a questo
esame arriveremo soltanto dopo aver cercato di far luce su alcuni
aspetti problematici sollevati dalla teoria dello stato di eccezione e i
quali, per la soluzione offerta, gettano a nostro avviso una fitta ombra sul fenomeno diritto e sul suo fondamento.
A tale fine prenderemo ora in considerazione la teoria dello stato di
eccezione sotto un primo profilo fra quelli appena sopra sintetizzati, e
cioè quello che assume il potere sovrano come fondamento dell’atto
che pone il diritto.
1.2 Posizione del diritto. Potere costituente e potere costituito
L’atto che pone il diritto68 viene ricostruito dalla teoria dello stato
di eccezione secondo una duplice modalità. Da una parte abbiamo,
65
V. innanzitutto, per l’autorevolezza dell’opinione espressa, H. Kelsen, Lineamenti di
dottrina pura del diritto, cit., p. 150–151; ma anche assai più recentemente T. Treves, Diritto
internazionale, cit., p. 24.
66
Sul punto torneremo infra, capitolo III, par. 3.1, spec. p. 178 ss.
67
Cfr. per es. G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., p. 555, par. 333.
68
Ci riferiamo in questo paragrafo all’atto di posizione per così dire “originario”, per es.
all’atto con cui viene posta la costituzione di uno Stato. Gli atti di carattere derivato invece (per
es. le leggi, i regolamenti, i decreti ecc.) non rivestono grande importanza in questo punto del
nostro discorso, in quanto la loro posizione segue in linea di massima le procedure sulla produzione giuridica già in vigore. Come accennato (cfr. supra, nota 38), nel caso dell’ordinamento italiano il principio della gerarchia delle fonti determina che la legge debba essere adottata conformemente alla Costituzione, che il regolamento debba essere a sua volta conforme alla legge e
che gli usi a loro volta non possano modificare i regolamenti. Si crea così una sistematicità, una
intrinseca coerenza che informa (o almeno: dovrebbe informare) l’intero ordinamento giuridico,
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
41
come già accennato69, un potere costituente che presenta un legame di
giuridicità “minimo” rispetto al costituendo ordine giuridico: è il caso
della dittatura sovrana come delineato nel pensiero di Schmitt70.
Dall’altra parte il rapporto fra questo atto del porre–il–diritto e il diritto–posto si presterebbe a esser descritto sull’orma dell’aristotelico
rapporto fra potenza e atto71. A tale proposito e tenendo a mente i tratti
salienti della sovranità rispetto allo stato di eccezione, qualcuno arriva
ad affermare che con i concetti di potenza e atto, Aristotele avrebbe
pervadendolo a partire dai principi costituzionali sino alle fonti di produzione di infimo grado.
Tale sistematicità caratterizza l’ermeneutica giuridica a tutt’oggi. Questa osservazione non è forse senza utilità. Nonostante che l’approccio sistematico, risalente almeno alla meditazione hegeliana, sia stato per certi versi superato pressoché in ogni ambito della cultura umanistica a seguito della rottura della forma che ha attraversato quasi ogni settore culturale nel corso del Novecento, siglando secondo varie modalità il naufragio del sapere per così dire “razionale”, il diritto,
che appartiene al sapere di tipo umanistico anche quando si fregia del nome di scienza, non ha
affatto rinunciato a tale istanza di sistematicità. L’attività ermeneutica del giurista è strettamente
vincolata al principio di unità che terrebbe insieme tutte le norme formanti un ordinamento giuridico. L’influenza del pensiero kelseniano sull’ermeneutica giuridica traspare con evidenza sotto questo profilo. Conseguenza prima del mantenimento di questo approccio sistematico
nell’attività di interpretazione del diritto è che le norme giuridiche vengono valutate nel senso
della loro conformità ai principi fissati nella carta costituzionale dello Stato. L’attività ermeneutica consiste, in ultima analisi, per usare un’espressione di sapore kantiano, nella sussunzione del
contenuto delle norme giuridiche nell’ambito di questi principi primi. In secondo luogo,
l’approccio sistematico si lega strettamente al principio di “ragionevolezza” che condiziona non
solo la possibilità di accogliere o meno una certa interpretazione giuridica, ma anche la permanenza stessa della norma oggetto di interpretazione fra quelle dell’ordinamento a seguito del
giudizio di costituzionalità.
69
Cfr. supra, questo capitolo, par. 1.1, p. 26 s.
70
Così C. Schmitt, La dittatura, p. 158: «la dittatura sovrana deriva dall’informe pouvoir
constituant soltanto quoad exercitium e immediatamente. Essa è una reale commissione ed è
tutt’altra cosa dal rifiuto di ogni altra derivazione terrena, come nel caso in cui si fa appello al
Dio trascendente. Essa fa invece appello al popolo sempre presente, che può entrare in azione
in ogni momento e quindi avere un peso immediato anche sotto l’aspetto giuridico. Esiste
sempre un “minimo di costituzione” intanto che viene riconosciuto il pouvoir constituant. Ma
poiché devono essere ancora create le condizioni perché possa divenire attuale il potere costituente del popolo, il contenuto in sé problematico della volontà costituente, in virtù dei suoi
stessi presupposti, rimane ancora indistinto nelle circostanze che giustificano questa dittatura» (corsivi nostri).
71
«Il rapporto fra potere costituente e potere costituito è altrettanto complesso di quello
che Aristotele istituisce fra la potenza e l’atto, la dýnamis e l’enérgheia» (così G. Agamben,
Homo sacer, cit., p. 51). Riguardo al rapporto fra rivoluzione e diritto una lettura analoga
sembra essere quella di A. Kojève, Esquisse d’une phénonénologie du droit, Gallimard, Paris
1982, trad. it. a cura di R. d’Ettorre, Linee di una fenomenologia del diritto, Jaca Book, Milano 1989, p. 98.
42
Capitolo I
consegnato, in realtà, alla filosofia occidentale il paradigma della sovranità.
Poiché alla struttura della potenza, che si mantiene in relazione con l’atto
precisamente attraverso il suo poter non essere, corrisponde quella del bando
sovrano, che si applica all’eccezione disapplicandosi. La potenza (nel suo
duplice aspetto di potenza di e potenza di non) è il modo attraverso cui
l’essere si fonda sovranamente, cioè senza che nulla lo preceda e determini
(superiorem non recognoscens), se non il proprio poter non essere72.
Ora, entrambe queste modalità interpretative dell’atto di posizione
del diritto non sembrano offrire una adeguata ricostruzione del fenomeno, né del rapporto fra potere costituente e potere costituito.
a) Potere costituente e determinatezza
Per quanto riguarda la prima di esse, abbiamo visto come Schmitt
parli di un “minimo di costituzione” che riconnetterebbe il potere costituente della dittatura sovrana, per il medio di un legame assai sottile
― minimo, appunto ― all’ordinamento giuridico costituendo. Schmitt
sembra confondere due piani: da un lato interpreta il potere sovrano
come svincolato da ogni determinazione, dall’altro afferma che il dittatore sovrano non potrà disporre in maniera completamente assoluta,
perché troverà davanti a sé il popolo quale suo interlocutore. Pur in
questa modalità minima, il popolo opererà un condizionamento sul
dittatore sovrano e in virtù di tale condizionamento l’atto di posizione
dell’ordinamento giuridico nuovo avrà un orientamento di tipo contenutistico. Tuttavia, non potrebbe propriamente dirsi che tale condizionamento abbia natura veramente “giuridica”, almeno non nel senso
kelseniamo ampiamente condiviso del termine. Non appartenendo
all’ordinamento che ancora non esiste, infatti, il rapporto di interlocuzione fra dittatore sovrano e popolo non è conforme ad alcuna norma
positiva di rango superiore. Il suo dispiegarsi non è limitato dall’osservanza di alcuna norma giuridica esistente al cui mancato rispetto
72
G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 54. Poco più avanti, ibidem, l’autore prosegue: «potenza e atto non sono che i due aspetti del processo di autofondazione sovrana dell’essere. La
sovranità è sempre duplice, perché l’essere si autoespande mantenendosi, come potenza, in relazione di bando (o di abbandono) con sé, per realizzarsi poi come atto assoluto (che non presuppone cioè altro che la propria potenza). Al limite, potenza pura e atto puro sono indiscernibili e questa zona di indistinzione è, appunto, il sovrano».
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
43
corrisponderebbe la comminazione di una sanzione. Ciononostante ―
in un certo senso, probabilmente oltre l’intenzione di Schmitt ― si
può continuare ad affermare che tale rapporto fra dittatore sovrano e
popolo mantiene un che di giuridico, ma soltanto se si ammette che
l’elemento giuridico si radica in una dimensione ontologica che trascende il singolo ordinamento storicamente dato o dantesi. E ciò in un
duplice senso. Dittatore sovrano ― ovvero: potere costituente, a prescindere dalla sua natura dittatoriale ― e popolo appartengono sempre
a una congiuntura storica ben precisa. Le norme da istituire sono, sotto
il profilo del contenuto, sempre condizionate da fattori storici nonché
dalla tradizione giuridica precedente73. Pensiamo al caso della Costituzione italiana. La forma repubblicana ivi sancita (art. 1 Cost.) è il prodotto di una situazione storica ben precisa, forse addirittura il colorito
frutto di un bluff elettorale. Molte delle norme previste dalla nostra
Costituzione raccolgono esperienze giuridiche precedenti; in altre parole non sono generate a partire da un vuoto del diritto (né tanto meno
a partire da un vuoto del linguaggio). Per es. la disposizione sull’abolizione della pena di morte dalle norme penali applicabili in tempo di pace (art. 27, 4° comma Cost.)74 riveste di rango costituzionale
quanto già prima della fondazione della Repubblica prevedeva il decreto legislativo luogotenenziale del 10 agosto 1944 n. 22475. Né è raro
il caso di norme costituzionali cui si sono ispirati strumenti cronologicamente coevi o successivi, in cui diritti fondamentali degli individui
sono stati consacrati per la prima volta in ambito europeo e con effetti
73
In questo senso a nostro avviso va intesa l’osservazione di Jellinek per cui «[d]er Staat
kann sich jeder selbstgesetzten Schranke entledigen, aber nur in den Formen des Rechtes und
neue Schranke schaffend. Nicht die einzelne Schranke, sondern die Beschränkung ist das
Dauernde. So wenig aber der absolut beschränkte, so wenig existiert rechtlich der absolut
schrankenlose souveräne Staat» (G. Jellinek, Allgemeine Staatsrechtslehre, cit., p. 482). Ritorneremo su questo punto che illumina il rapporto fra limitazione e durevolezza: cfr. infra,
capitolo IV.
74
Sulle evoluzioni della normativa italiana in tema di pena di morte vedasi in particolare
A. Marchesi, La pena di morte. Una questione di principio, Laterza, Roma–Bari 2004, p. 75
ss., che peraltro non può tener conto della importante modifica con legge costituzionale n. 1
del 2 ottobre 2007, con cui la pena capitale è stata definitivamente eliminata anche nel caso
delle leggi militari di guerra. Pertanto l’attuale art. 27, 4° comma Cost. recita tout court:
«[n]on è ammessa la pena di morte».
75
Per sottolineare lo stretto legame con la situazione storica in cui venne adottato il decreto luogotenenziale in questione, possiamo ricordare come comunque questo atto non si applicasse ai reati fascisti e compiuti in collaborazione con i nazi–fascisti, ma ai soli reati ordinari.
44
Capitolo I
obbligatori per i soggetti internazionali aderenti. Per es. la norma sulla
presunzione d’innocenza nel caso di imputazione di reato prevista dalla nostra Costituzione (art. 27, 1° comma Cost.) ha trovato un’immediata eco nell’art. 6 n. 2 della Convenzione europea del 1950 per la
salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali elaborata in seno al Consiglio d’Europa (cd. Convenzione di Roma). E come
recentemente la pena di morte è stata completamente abolita nel nostro ordinamento, così già la Francia aveva adottato soltanto pochi
mesi prima la medesima soluzione, espungendo la pena di morte dalla
propria costituzione76. Questo movimento di contiguità fra ordinamenti giuridici, realizzato mediante questa sorta di emulazione di norme,
riguarda anche qualche strumento del diritto internazionale. Per es. la
già ricordata Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo è un atto
prodotto dalla volontà di Stati sovrani riuniti in sede di Assemblea generale delle Nazioni Unite. Essa non nasce nel vuoto, né storico né
giuridico77, e al contempo è un atto del tutto innovativo. Dalle circostanze storiche della sua adozione emerge il carattere “tetico” se non
propriamente “ipotetico” dell’atto di porre il diritto. La Dichiarazione,
infatti, pur non implicando di per sé alcun effetto obbligatorio per gli
Stati78, si è posta come il fondamento storico–politico per la successiva
adozione di atti vincolanti che hanno segnato le tappe dell’evoluzione
della normativa internazionale in tema di diritti dell’uomo. Essa si è
posta come “ipotesi” nel senso letterale di “fondamento sottostante”,
pur senza avere carattere obbligatorio nei suoi effetti, e senza che gli
76
Cfr. la loi constitutionnelle n. 2007–239 del 23 febbraio 2007, che ha condotto alla riforma dell’art. 66–1 della costituzione francese.
77
La Dichiarazione è il frutto della situazione storica che l’ha generata: il sanguinoso secondo conflitto mondiale e le gravissime violazioni dei diritti individuali verificatesi in quel
contesto avevano sollevato l’esigenza ― per non dire l’urgenza ― di fissare in un documento
di respiro universale un elenco di diritti fondamentali dell’essere umano in quanto tale. Dal
punto di vista della tradizione giuridica in cui la Dichiarazione si innesta, il primo antecedente
è rappresentato dalla dichiarazione dei diritti dell’uomo del 4 luglio 1776 contenuta nella Costituzione americana varata a seguito della dichiarazione di indipendenza; il contenuto del
principio di eguaglianza fra tutti gli uomini ivi enunciato, ha poi trovato articolazione nella
Carta adottata nel corso della Rivoluzione francese. A questa ha fatto seguito poi, in Europa,
la promulgazione di varie costituzioni nazionali durante l’Ottocento e il Novecento, nelle quali certi principi fondamentali (principi democratici e diritti umani fondamentali in senso stretto) sono stati sanciti secondo modalità più o meno garantiste.
78
Essa infatti, come la maggior parte degli atti dell’Assemblea Generale, ha natura meramente esortativa.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
45
Stati che l’hanno adottata in sede di Assemblea generale avessero un
obbligo in tal senso nel quadro della neonata Organizzazione delle
Nazioni Unite. Pur essendo atto di soggetti sovrani e pur possedendo
un’indubbia portata fondativa, essa non costituisce in alcun modo
l’estrinsecarsi del potere sovrano illimitato, dittatoriale, così come
questo dovrebbe manifestarsi secondo i sostenitori dello stato di eccezione.
La figura dello stato di eccezione, nella modalità con cui essa viene
intesa, come “vuoto di diritto”, come topos in cui si indeterminerebbero il diritto e la vita, linguaggio e realtà mediante la sospensione e del
diritto e del linguaggio, non ci sembra insomma riuscire a descrivere
adeguatamente la modalità dell’atto di posizione di norme giuridiche.
Né d’altronde potrebbe pervenirsi a diversa conclusione postulando un
potere sovrano dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite quale organo legislativo mondiale in nuce79. Il potere dell’Assemblea generale
delle Nazioni Unite non può verosimilmente paragonarsi a quello di
un organo sovrano concepito nella maniera assoluta in cui viene inteso
dalla dottrina dello stato di eccezione. L’Assemblea generale è un
consesso di Stati sovrani, che ivi siedono conformemente al principio
di eguaglianza, in posizione di parità. Essa non è organo sovraordinato
agli Stati, i quali restano liberi sia di adottare le risoluzioni assembleari, sia di non approvarle ricusando il proprio voto. Né le risoluzioni
adottate dall’Assemblea sono di regola obbligatorie per gli Stati membri80. Ciononostante, a ridosso della creazione delle Nazioni Unite abbiamo l’adozione della Dichiarazione universale. Gli Stati non erano
obbligati a votarla, né a conformarsi ai principi ivi consacrati. Sotto un
certo profilo può dirsi che la Dichiarazione con la sua enumerazione
solenne di norme è puro atto politico ma già iscritto nella dimensione
giuridica81.
Come possiamo vedere da questi pochi esempi, né le norme della
nostra Costituzione (né d’altronde quelle di altre costituzioni di Stati
79
Opinione che pure è stata autorevolmente sostenuta: cfr. H. Kelsen, The Law of the
United Nations, Steven and Sons, New York 1950, pp. 149 ss. e 192.
80
Cfr. gli artt. 10 ss. della Carta delle Nazioni Unite.
81
Insomma è il diritto a pervadere la politica e non il contrario, anche se è accade ― e
purtroppo accade spesso ― che la politica strumentalizzi gli atti normativi a fini il cui realizzarsi produce l’effetto perverso della negazione del diritto.
46
Capitolo I
europei) né i principi enunciati nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo sono nati nel vuoto, nella dimensione anomica del potere sovrano. Essi sono germinati in una certa situazione storica in cui
nella coscienza delle persone che hanno redatto tali documenti era
presente l’esigenza di tutelare certi valori, dando loro importanza primaria rispetto ad altri. Inoltre queste norme, ancorché poste per la
prima volta per il nostro Paese o per la società internazionale, hanno
fatto riferimento a una consolidata tradizione giuridica, sia di diritto
interno che di diritto costituzionale, proprio e di altri Stati82. In altre
parole: potere costituente e popolo sono sempre gettati in una situazione storica precisa, e la libertà nella scelta politica del costituendo
ordinamento è ben lungi dall’essere una libertà indeterminata. Ma c’è
un altro senso in cui si può parlare, dicevamo, probabilmente oltre
l’intenzione di Schmitt, di un nesso o vincolo “giuridico” che condiziona l’attività del potere costituente, e cioè in senso ontologico. Se
invece di ritenere il diritto come una mera sovrastruttura storicamente
contingente e sospendibile in dipendenza dei capricci del sovrano, lo
intendiamo come un che di ineliminabile, che ci costituisce come soggetti esistenti, allora comprendiamo in senso più profondo dove risieda questa dimensione giuridica precedente la costruzione di uno strumento scritto. In questo senso, come vedremo meglio più avanti nel
corso della trattazione, il diritto si radica nella soggettività stessa costituendola, in maniera simile a quanto accade nel caso del linguaggio,
e anzi, servendosi proprio del linguaggio. La posizione di norme è infatti in primo luogo atto di enunciazione. La dimensione della scrittura
caratterizza in maniera eminente sia il linguaggio che il diritto (l’atto
di posizione delle norme guadagna la sua più grande solennità e dimensione progettuale nella fissazione di norme scritte). Pensare a uno
spazio anomico originario ― per es. quello della dittatura sovrana ―
equivarrebbe a pensare a una dimensione originariamente a–logica83,
nel senso di dimensione spogliata del logos. Ma è proprio il logos che
82
Ancora: il fatto che la nostra Costituzione abbia carattere rigido (cfr. art. 138 Cost.) dipende dal fallimento, sotto il profilo della tutela effettiva dei diritti fondamentali e dei valori
democratici, cui è andata incontro la carta costituzionale che cronologicamente l’ha preceduta,
lo Statuto albertino. Sul punto v. infra, capitolo II, par. 2.1.
83
Questa è, del resto, coerentemente con i propri assunti, la posizione di G. Agamben,
Homo sacer, cit., p. 24 ss., e Id., Stato di eccezione, cit., p. 49 ss.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
47
invece contraddistingue l’uomo fra tutti i viventi84, senza che questi
possa mai spogliarsene definitivamente.
L’invocazione della dimensione originaria del potere politico85
concepito come sovranità assoluta, priva di determinazioni e soprattutto legisbus/verbis soluta, non convince, perché essa si pone in diretto
contrasto con la dimensione ontologica dell’uomo quale ente parlante.
Come è stato osservato,
[l]’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non proferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci
perdiamo nell’ozio. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s’intende affermare soltanto che l’uomo
possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del parlare. S’intende dire
che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla86.
Richiamando questa riflessione, non vogliamo negare la presenza
nell’uomo di una radice a–linguistica. Sicuramente l’uomo possiede
questo tratto che caratterizza anche tutti gli altri viventi, così come
possiede un corpo, così come prova fame e sete e bisogno di dormire e
di giocare e di riprodursi. Ma la radice linguistica permea l’essenza
dell’uomo in modo tale che anche attività “naturali” ed “elementari”
come mangiare, bere, dormire, giocare e riprodursi assumano per lui
implicazioni straordinarie cui gli altri viventi non hanno alcun acces-
84
Il motivo del misconoscimento della dimensione più propria dell’uomo quale ente parlante non è forse così sorprendente se si considera che, nonostante il maturarsi della riflessione filosofica, il progredire delle conoscenze scientifiche, il contatto con culture estranee ecc.,
ancora non abbiamo una parola della nostra lingua che riesca a dire questa dimensione propria
ed esclusiva dell’uomo pensandola nella sua pienezza e nella sua differenza rispetto agli altri
viventi. A tal fine ci serviamo tuttora di una parola straniera come la parola greca λόγος, della
quale non riusciamo peraltro a cogliere adeguatamente il significato: ragione, causa, proporzione, proposizione, oracolo, misura, norma, informazione, discorso, arringa, parola, linguaggio, colloquio…? Tutti significati, questi, attestati in greco antico assieme ad altri ancora.
85
G. Agamben, Homo sacer, cit., p. 55.
86
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, cit., p. 27.
48
Capitolo I
so87. L’uomo non può mai deporre in maniera definitiva la propria dimensione linguistica. Può tacere, può tentare con i più svariati stratagemmi di rimuovere il logos che lo costituisce e che gli si manifesta
per lo più come un peso, come un’angoscia88, ma non può non essere
solcato dalla dimensione di comprensibilità che lo lega ai suoi simili
per il medio del linguaggio, non può non riconoscerla quando la ravvisa in un altro suo simile89.
Tenendo presente ciò, lo stato di eccezione inteso quale antecedente logico–storico ― quale fondamento ― rispetto all’atto primo di posizione del diritto non può verosimilmente contraddistinguersi per il
tratto della pura violenza, come ciò che lascerebbe trasparire la “nuda
vita”, e ciò non perché l’uomo non sia per natura violento, o sia “più
abile” di tante bestie. Il punto è che anche il puro fatto (il mero agire)
non si dà mai nell’uomo secondo la stessa qualità in cui parliamo dei
fatti della natura90. Nell’uomo è sempre presente una dimensione con87
Per contrapporre l’uomo agli altri viventi sotto uno dei profili indicati nel testo, si pensi
per es. all’ambito del gioco: alla differenza che senza continuità separa l’attività di un gattino
che gioca con una pallina di carta stagnola o un gomitolo di filo, da una parte, e i campionati
del mondo di calcio o i giochi olimpici dall’altra parte.
88
Per il nesso che viene posto fra linguaggio ed essere, avvertito come un “peso”, v. M.
Heidegger, Sein und Zeit, Niemayer, Tübingen 1927, trad. it. a cura di P. Chiodi, Essere e
tempo, Longanesi, Milano 1976, par. 29, p. 172, e parr. 52–53, pp. 311–324.
89
Mentre invece, in maniera del tutto non necessaria, pur possedendo un corpo, come gli
animali e le piante, pur ospitando funzioni vitali alla maniera di altri viventi, l’uomo non è in
grado di render conto di questi: come osservava Kant, «nessuna ragione umana (né alcuna ragione finita, che fosse simile per qualità alla nostra, pur superandola quanto mai per grado)
può sperare di comprendere la generazione anche solo di un’erbetta a partire da cause meramente meccaniche» (I. Kant, Kritik der Urteilskraft (1790), Zweiter Teil. Kritik der teleologischen Urteilskraft, trad. it. a cura di L. Amoroso, Critica della capacità di giudizio, Rizzoli,
Milano 1995, Parte seconda. Critica della capacità di giudizio teleologica, par. 77, p. 689).
Per una lettura di questo passaggio di Kant in rapporto alla questione politica v. H. Arendt,
Lectures on Kant’s Political Philosophy, The University of Chicago, Chicago 1982, trad. it. a
cura di P. Portinaio, Teoria del giudizio politico, il nuovo melangolo, Genova 2005, pp.
25–26.
90
La dimensione fattuale dell’uomo è legata al suo esser–gettato nel mondo, ma questo
suo esser–consegnato è radicalmente diverso dalla condizione degli altri enti quali “semplicemente presenti”: «[l]a fatticità (Faktizität) non è l’effettività (Tatsächlichkeit), il factum
brutum della semplice presenza, ma un carattere dell’essere dell’esserci» (M. Heidegger, Essere e tempo, cit., par. 29, p. 173, trad. leggermente modificata), legato alla gettatezza (Geworfenheit) e al progetto (Entwurf) come ciò che propriamente libera dalla gettatezza. Cfr. anche M. Maraviglia, La penultima guerra, cit., pp. 32–33, nt. 38, il quale tuttavia sembra accogliere senza porsi troppe questioni la presunta identità fra la “fatticità” di cui parla Heidegger
e che caratterizza l’uomo nella sua condizione di Geworfenheit e il factum brutum che appar-
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
49
trofattuale91, una presa di distanza, che non può mai essere completamente annullata, e ciò perché in essa si annida la facoltà linguistica, la
quale non può essere eliminata senza incidere sull’essenza dell’uomo
in quanto tale.
b) Potere costituente/ordinamento giuridico e potenza/atto
Per quanto invece specificamente riguarda la ricostruzione del rapporto potere costituente/ordinamento giuridico in termini analoghi al
rapporto potenza/atto, il chiamare in causa la riflessione contenuta nella Metafisica di Aristotele, poggia, a nostro avviso, su una distorsione
del pensiero aristotelico. Innanzitutto può porsi in questione la correttezza dell’interpretazione della nozione di “potenza” (δύναµις) come
un che di indeterminato92. Inoltre, per noi moderni è assai difficile
sprofondarci nella concezione del linguaggio degli antichi greci e
comprendere veramente che cosa essi intendessero dire con la parola:
logos. Parimenti è assai difficile comprendere le opere artistiche del
loro tempo, enigmatiche e perfette nei loro rapporti di proporzione.
Ma una lettura anche superficiale del passo della Metafisica su potenza e atto invocato al fine di corroborare la tesi dello stato di eccezione
tiene alla dimensione della semplice presenza. L’autore infatti, pur consapevole, prima facie,
dell’uso diversificato che fa Heidegger dei termini Faktizität e Tatsächlichkeit, finisce poi con
l’identificare la nozione heideggeriana di Faktizität con la “datità” (das Existentielle) secondo
l’interpretazione schmittiana (cfr. loc. ult. cit., ivi, pp. 32–33, nota e testo), concetto che ― riteniamo ― Heidegger non avrebbe potuto ritenere coerente con la propria visione in quanto
intriso di vitalismo. Per una esplicita presa di distanza di Heidegger dal vitalismo e dalla nozione di Erlebnis, cfr. Essere e tempo, cit., pp. 352–353 e 449; posteriormente alla Kehre, cfr.
Id., Der Ursprung des Kunstwerkes, in Holzwege, Klostermann, Frankfurt am Main, VIII ed.,
2003, pp. 66–69, trad. it. di P. Chiodi, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, La
Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 62–65.
91
Ciò significa che la dimensione controfattuale dell’uomo non può convergere con la
“nuda vita” che si rivelerebbe nello stato di eccezione, riunite insieme nella figura del sovrano: infatti «[l]a controfattualità non è compatibile con un fenomeno vitale e con
un’interpretazione solo vitale di fenomeni vitali; la controfattualità è, per struttura, anche contro–vitale, sorge oltre/contro il fatto, che si impone solo perché c’è, perché vive–più» (così B.
Romano, La legge del testo. Coalescenza di logos e nomos, Giappichelli, Torino 1997, p. 117,
corsivi nostri).
92
Cfr. per es. M. Heidegger, Grundbegriffe der aristotelischen Philosophie, Klostermann,
Frankfurt am Main 2002, p. 299 ss., spec. a p. 300: «das δυνάµει–Sein ist eine positive Bestimmung der Weise seines Da».
Capitolo I
50
mostra chiaramente il riferimento a questa “radice linguistica”, a questa dimensione del “logos” (come inteso da un greco, scritto da un
greco nella sua propria lingua) che permea anche la figura della potenza. Innanzitutto, Aristotele traccia una distinzione fra potenze, a seconda che esse abbiano o meno il logos:
[p]oiché questi principi [cioè quelli in base ai quali si può pensare la potenza
come principio del movimento, e di cui Aristotele ha appena parlato nel paragrafo precedente] si trovano, alcuni negli esseri animati, altri invece negli esseri animati, nell’anima e nella parte dell’anima che ha il logos, è evidente
che anche le potenze saranno, alcune, prive di logos [¥λογοι], altre, invece
conformi al logos [µετὰ λόγου]; perciò tutte le arti e le scienze poetiche sono
potenze: infatti sono principi di mutamento in altro o nella cosa stessa in
quanto altra. E mentre tutte le potenze conformi al logos sono le stesse per
ambedue i contrari, quelle prive di logos sono invece, ciascuna, potenza di un
solo contrario: il caldo, per esempio è potenza solo di riscaldare, mentre l’arte
medica è potenza della malattia e della salute. La causa di questo sta nel fatto
che la scienza [ε̉πιστήµη] è logos, e il logos stesso mostra la cosa e la sua negazione, benché non nello stesso modo: infatti la scienza è di ambedue i contrari, ma prevalentemente di quello positivo. Pertanto, è necessario che anche
queste potenze secondo il logos siano di ambedue i contrari, e che, di uno dei
contrari, lo siano per loro propria natura: infatti anche il logos si riferisce a
uno dei contrari per sua stessa natura, all’altro, in un certo qual modo, solo
per accidente […]. E poiché i contrari non si trovano insieme nella medesima
cosa, mentre la scienza è la potenza dei contrari in quanto ha il logos, e
l’anima ha il principio di movimento: ebbene, ne deriva che, mentre ciò che è
salubre produce solamente salute, ciò che ha capacità di riscaldare produce
solamente calore e ciò che ha capacità di raffreddare produce solamente freddo, colui che possiede la scienza, invece, produce ambedue i contrari. Il logos, infatti si riferisce ad ambedue i contrari, ancorché non nello stesso modo, e si trova nell’anima la quale possiede il principio del movimento: pertanto l’anima con lo stesso principio può muovere ambedue i contrari, avendoli
essa congiunti nel medesimo: perciò le potenze secondo il logos producono il
contrario rispetto alle potenze senza logos, perché con un unico principio,
cioè il logos, abbracciano ambedue i contrari93.
Come si vede, bel lungi dall’incarnare il luogo della sospensione
del linguaggio, la potenza dell’anima conforme al logos, dunque
dell’anima umana, è secondo Aristotele permeata del logos al punto
93
Aristotele, Metafisica, libro Θ, 2, 1046 a 36–1046 b 24, trad. it. a cura di G. Reale leggermente modificata, Bompiani, Milano 2000, pp. 399–400.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
51
tale da riuscire a generare il proprio contrario, ma ciò sempre a partire dal proprio fondamento, il logos. Abbiamo accennato alla dimensione ontologica in cui siamo convinti che il diritto nell’essere umano si radichi così come vi si radica il linguaggio. Avremo modo di ritornare più volte sul punto. Ma se in base alle osservazioni svolte
appare evidente la connessione fra diritto e linguaggio94, ai fini di
una indagine critica della teoria dello stato di eccezione ciò significa
che l’atto di posizione del diritto come passaggio dalla potenza
all’atto non può mai prendere le mosse dalla dimensione della potenza concepita come regione di “anomia” e di “aloghía”. Il logos (e
dunque, individuando la connessione fra diritto e linguaggio, per
conseguenza anche il nomos) pervade l’attività “sovrana” di posizione della norma, anche quando tale attività produca il proprio contrario, cioè quando fondi un ordinamento informato al principio della
negazione del logos e del diritto. L’esito dell’atto di posizione di
norme e il contenuto di queste sono fortemente dipendenti dalle circostanze storiche, ma comunque il potere costituente è pervaso dal
logos. Il potere costituente, ciò che Schmitt chiama la dittatura sovrana, non può mai essere caratterizzato da quella sospensione del
linguaggio di cui taluno ha parlato95. Quando infatti, noi uomini pos94
Per il momento limitiamoci a osservare come il diritto si concreti in enunciati linguistici. Anche nei sistemi giuridici, come quello internazionale, nei quali la consuetudine è fonte
del diritto di primo grado, le norme di cui essa si compone sono sempre intrise di linguaggio e
non possono essere ritenute “meri fatti” nel senso in cui lo sono i fatti naturali. Le norme consuetudinarie costituiscono comportamenti consapevoli degli Stati, i quali a seconda delle circostanze, hanno cura eventualmente anche di manifestare la propria volontà di attribuire o
meno a un certo comportamento il valore di precedente ai fini dell’individuazione di nuove
norme. La dimensione linguistica della consuetudine internazionale si manifesta inoltre nella
pratica degli accordi di codificazione, con i quali si tenta di fissare in forma scritta gli usi in
vigore nella società di Stati (cfr. l’art. 13 della Carta delle Nazioni Unite). Il valore degli accordi di codificazione non consiste nella trasformazione di un “nudo fatto” in una “norma”,
ma risiede nell’attività di rilevazione delle consuetudini “in quanto norme”, che si limitano ad
essere trascritte. Le modifiche eventualmente apportate alle norme consuetudinarie a titolo di
sviluppo progressivo del diritto possono imporsi come norme soltanto se vengono accettate
dagli Stati; in caso contrario è la consuetudine ancora in vigore a doversi considerare l’unica
norma vigente in quanto norma. Sul rapporto fra consuetudine ed effettività v. infra, capitolo
III, par. 3.1, lett. c, p. 174 ss.
95
Secondo qualcuno, nello stato di eccezione emergerebbe la dimensione anomica e quella alogica quasi che fossero due “esigenze” rispettivamente del diritto e del linguaggio per poter avere un fondamento: è «come se tanto il diritto che il logos avessero bisogno di una zona
anomica (o alogica) di sospensione per poter fondare il loro riferimento al mondo della vita. Il
52
Capitolo I
siamo dire mai di trovarci effettivamente nella sospensione del linguaggio? Anche là dove il linguaggio venga negato come libertà, anche là dove non riusciamo a parlare, dove non abbiamo le parole, anche là dove la lingua è spogliata dell’aspetto denotativo96, ci troviamo sempre solcati, sempre segnati dall’appartenenza ad esso97.
In questo senso l’atto di posizione della norma non è mai svincolato né dalla dimensione giuridica né dalla dimensione linguistica in
quanto tali98. Anzi, proprio l’atto di posizione della norma, con il suo
caratteristico tratto ipotetico, si mostra consonante con l’arrischiamento che contraddistingue l’uomo in quanto parlante, in quanto formatore di ipotesi99.
È questo il senso, riteniamo, della riflessione kelseniana a proposito
della norma fondamentale. La larga popolarità di cui l’impostazione
kelseniana ha goduto fra i giuristi ha forse opacizzato la distinzione che
Kelsen traccia fra la norma fondamentale (Grundnorm), come fondamento ipotetico del porre il diritto, e la carta costituzionale o legge fondiritto sembra poter sussistere solo attraverso una cattura nell’anomia, così come il linguaggio
può sussistere solo attraverso un afferramento del non–linguistico. In entrambi i casi, il conflitto sembra vertere intorno a uno spazio vuoto: anomia, vacuum giuridico da una parte, essere puro, vuoto di ogni determinazione e di ogni predicato reale dall’altra. Per il diritto questo
spazio vuoto è lo spazio di eccezione come dimensione costitutiva. La relazione fra norma e
realtà implica la sospensione della norma, così come, nell’ontologia, la relazione fra linguaggio e mondo implica la sospensione della denotazione nella forma di una langue» (così G.
Agamben, Stato di eccezione, pp. 77–78).
96
In tal senso esplicitamente G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 50.
97
Cfr. di M. Heidegger il saggio dedicato alla poesia di Stefan George La parola dal titolo
L’essenza del linguaggio, in In cammino verso il linguaggio, cit., pp. 127–170. Come si può
leggere in questo saggio, la mancanza della parola per dire il ni–ente (kein Ding), lungi dal
costituire la sospensione della langue, rappresenta invece quanto di più originario l’uomo possa esperire riguardo alla propria appartenenza al linguaggio. Per questo Heidegger ivi afferma
che «il linguaggio è la dimora dell’essere» (loc. ult. cit., p. 132).
98
Cfr. B. Romano, Filosofia del diritto, Laterza, Roma–Bari 2002, 20053, p. 168: «le regole sulla formazione–creazione di un testo nella relazione dei parlanti sono date con la formazione del testo delle regole sul relazionarsi dei soggetti del linguaggio–discorso; testo e regole sono intesi nella loro condizione di coalescenza, che si manifesta nell’unità di trialità (discorso/testo) e terzietà (regole/diritto), consentendo la formazione di un Testo coesistito, omogeneo alla comunicazione esistenziale, triale e riconoscente, non riducibile all’informazione vitale, duale ed escludente». La posizione del testo normativo, proprio per il radicarsi di
logos e nomos nell’uomo in quanto tale, non è dunque riducibile nel suo fondamento, al rivelarsi di qualcosa come la “nuda vita”, cioè quella dimensione di assolutezza e di esclusione
dell’altro che secondo la teoria dello stato di eccezione caratterizzerebbe la figura del sovrano.
99
Cfr. B. Romano, Il diritto non è il fatto, cit., p. 9 ss.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
53
damentale (Grundgesetz) positiva da cui possono farsi derivare tutte le
norme secondarie che costituiscono un ordinamento giuridico100. La carta costituzionale di uno Stato non è, secondo Kelsen, la norma fondamentale, bensì soltanto la legge fondamentale, cioè l’atto normativo basilare, positivamente istituito, da cui discendono, in rapporto di conformità, gli atti normativi derivati che assieme alla legge fondamentale
formano l’ordinamento di uno Stato. La norma fondamentale, si rinverrebbe invece, risalendo tutte le varie evoluzioni normative storicamente
verificatesi, nel seguente assunto: «la coazione deve essere posta nelle
condizioni e nel modo che è stato determinato dal primo costituente o
dagli organi da lui delegati»101. Dove si trova questa norma fondamentale? Essa è il fondamento della giuridicità di un norma istituita, e dove
potrebbe mai radicarsi? La risposta verosimile, tenendo conto del valore
ontologico del fenomeno giuridico, è che essa si annidi nell’essenza
stessa dell’essere umano in quanto tale, l’unico vivente parlante che regoli la propria convivenza con i propri simili in base a norme giuridiche, mediante le quali si è operata una presa di distanza dalla condizione fattuale dell’esser–più di qualcuno a scapito di qualcun altro, opponendo a tale condizione fattuale il diritto di tale qualcun altro. Vi è in
altre parole una coappartenenza di diritto, linguaggio e formazione di
ipotesi, e la prima ipotesi su cui si fonderebbe la vis obligandi delle
norme positivamente istituite, si fonda, a nostro avviso, in questa ipotetica norma fondamentale, indimostrata ― come d’altronde è indimostrato il linguaggio nel senso che esso non può essere indagato come un
qualunque altro oggetto del mondo. Il fondamento del diritto positivo
non risiederebbe in una dimensione anomica, ma al contrario, in una regione normativa o “normata”, quella della Grundnorm, che mostra, a
nostro avviso, come la coappartenenza di diritto e linguaggio penetri il
fenomeno giuridico sin nel suo fondamento. Il diritto nel suo fondamento è ambito pervaso tanto dal logos che dal nomos, e la teoria dello stato
di eccezione che ne vorrebbe la sospensione non riesce adeguatamente a
descrivere il fenomeno.
100
Vittima di un travisamento di questo tipo sembra essere d’altronde lo stesso Schmitt
(cfr. C. Schmitt, Politische Theologie, cit., p. 27 in fine: «der Staat ist daher für die juristische
Betrachtung identisch mit seiner Verfassung, das heißt der einheitlichen Grundnorm», corsivi
nostri).
101
H. Kelsen, Lineamenti di dottrina pura del diritto, cit., p. 98.
54
Capitolo I
1.3 Regola ed eccezione
Un altro punto debole della teoria dello stato di eccezione è la modalità ― assai ampia a quanto pare ― con la quale essa intende il fenomeno dell’eccezione102. In realtà ci sembra che debba essere tracciata una distinzione fra le varie situazioni. Lo stato di eccezione considerato come rapporto fra ordinamento giuridico e situazioni propriamente eccezionali, cioè non previste, non regolate dalle norme vigenti,
non va confuso con il rapporto fra regola ed eccezione che tiene insieme le varie norme dell’ordinamento vigente, delimitandone reciprocamente l’ambito applicativo. Nel nostro ordinamento rintracciamo
in molte disposizioni il richiamo a “leggi” o “norme” speciali” 103, e il
principio di specialità nella forma dell’antico brocardo lex specialis
derogat legi generali viene tuttora assunto come criterio ermeneutico
cui attenersi nell’attività di applicazione del diritto, sia interno che internazionale104. La norma speciale si configura rispetto a quella generale come un precetto corredato di alcuni elementi supplementari che
individuano una fattispecie più circoscritta di quella delineata dalla
102
Nello stato di eccezione dovrebbero ricomprendersi secondo alcuni non soltanto eventi
catastrofici quali la guerra, lo stato d’assedio, fatti naturali quali epidemie, cataclismi ecc.,
bensì anche eventi di portata assai più modesta, come per es. la sospensione di certi divieti
(per es. quelli sugli atti osceni) in occasione di festività popolari (G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 13 ss. e p. 91 ss.).
103
Alcune disposizioni normative vigenti nel nostro ordinamento fanno espresso riferimento a leggi o norme speciali. Cfr. per es. gli artt. 2, 39, 82, 83, 138, 400, 609 ss., 722, 798,
830, 831, 834–837, 839, 840, 845, 854, 856, 858, 862, 865, 866, 868, 871, 872, 909, 932, 933,
941, 959, 964, 971, 977, 1159–bis, 1281, 1471, 1496, 1536, 1551, 1680, 1765, 1836, 1859,
1866, 1883, 1884, 1886, 1902, 1929, 2001, 2006, 2020, 2077, 2095, 2107, 2110, 2114–2116,
2128, 2134, 2215, 2221, 2229, 2230, 2239, 2249, 2251, 2329, 2357–bis, 2359–quater, 2410,
2423–ter, 2448, 2461, 2510, 2512, 2516, 2517, 2540, 2542, 2547, 2574, 2579, 2580, 2583,
2587, 2590, 2591, 2594, 2602, 2617, 2624, 2635 ss., 2671, 2672, 2694, 2695, 2742, 2746,
2748, 2750, 2771, 2774, 2775, 2777, 2778, 2781–2783, 2785, 2806, 2809, 2810, 2911 del codice civile italiano; nonché gli artt. 14 e 38 della nostra Costituzione.
104
Cfr. sul punto lo studio recentemente condotto dalla Commissione delle Nazione Unite
per il diritto internazionale in materia di Fragmentation of international law: difficulties arising form diversification and expansion of international law, in Report of the International
Law Commission Fifty–eight session (1 May–9 June and 3 July–11 August 2006), General
Assembly Official Records, Sixty–first session, Supplement n. 10 (A/61/10), riprodotto in
Yearbook of the International Law Commission, 2006, vol. II, Part 2, pp. 400–423, alle pp.
408–410, in cui ci si sofferma specificamente sul principio lex specialis derogat legi generali
quale criterio ermeneutico.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
55
norma generale, e a cui quest’ultima verrebbe applicata se non fosse
per la presenza, nel caso concreto, di quegli ulteriori elementi che impongono invece l’applicazione della norma speciale105. Per esempio:
nel diritto penale italiano abbiamo la disposizione generale sull’omicidio che stabilisce: «chiunque cagiona la morte di un uomo è punito
con la reclusione non inferiore ad anni ventuno» (art. 575 cod. pen.).
La fattispecie in esame, il provocare la morte di un essere umano, è
enunciata in termini assai vaghi rispetto alle modalità commissive di
questo reato ovvero rispetto alle motivazioni che possono aver spinto
un individuo al gesto omicida, o ancora alla natura dei rapporti intercorrenti fra l’omicida e l’ucciso. Nella realtà concreta possono presentarsi circostanze e modalità attuative di questo reato che possono portare a una diversa valutazione dello stesso. E il nostro sistema di diritto penale dà rilievo a tali circostanze e modalità attuative regolando
ipotesi speciali accanto alla previsione generale. Per es. l’omicidio
consumato nell’ambito dei rapporti familiari più stretti viene in generale ritenuto più grave dell’omicidio di una persona non legata da vincoli di parentela106; ma fra questi, per es. l’infanticidio, come gesto
sconsiderato della puerpera versante in condizioni di abbandono materiale e morale, prevede una pena più temperata rispetto a quella
dell’ipotesi generale107. Parimenti, una pena ridotta rispetto a quella
prevista dall’art. 575 cod. pen. è prevista per il caso dell’omicidio del
consenziente, purché non ricorrano determinate circostanze che rendono applicabile la disposizione generale (art. 579 cod. pen.)108. Come
105
Insomma, quando un caso sfugge all’applicazione di una regola ciò accade non perché
manchi la regola, ma perché il caso in questione ricade nell’ambito di applicazione di una regola diversa.
106
Cfr. l’art. 577 n. 1 cod. pen. che commina la pena dell’ergastolo nel caso in cui l’omicidio venga commesso contro l’ascendente o il discendente.
107
Cfr. l’art. 578 cod. pen.: «[l]a madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da quattro
a dodici anni. A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni ventuno. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da un terzo a due terzi. Non si applicano le aggravanti stabilite dall’articolo 61 del codice penale».
108
Cfr. l’art. 579 cod. pen.: «[c]hiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui
è punito con la reclusione da sei a quindici anni. Non si applicano le aggravanti indicate
nell’articolo 61. Si applicano le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: 1)
contro una persona minore degli anni diciotto; 2) contro una persona inferma di mente, o che
56
Capitolo I
si vede da questi pochi esempi, il rapporto di genere a specie che si
stabilisce fra le norme non può essere opportunamente descritto come
rapporto fra norma ed eccezione, a meno di non considerare ogni applicazione di norme “eccezione”109. La norma speciale rispetto alla generale ha semplicemente la funzione di delimitare la fattispecie cui
applicare il diritto in maniera più consona a certi valori sociali che è
l’ordinamento stesso a garantire. Come abbiamo visto brevemente, nei
casi “speciali” dell’omicidio, la norma speciale ha la funzione di graduare l’applicazione della pena tenendo conto di circostanze, che, secondo il sentire comune ovvero secondo i valori accettati e protetti
dall’ordinamento, determinano la totale riprovazione ovvero una più
mite condanna da parte dei consociati cui l’ordinamento si rivolge110.
Ancora, possiamo ricordare nel medesimo senso l’art. 14 delle disposizioni preliminari al Codice civile italiano, secondo il quale «[l]e
si trova in condizione di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze
alcooliche o stupefacenti; 3) contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto
con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno».
109
Al fine di chiarire il concetto di legge eccezionale, è stato osservato: «l’eccezionalità di
una disposizione di legge non può venire intesa in senso puramente logico–formale. Nella
complessità dell’ordinamento giuridico l’ambito di applicazione di qualsiasi norma di legge è
limitato dal concorrere e dall’intersecarsi di altre norme. Ogni norma può allora apparire come eccezione rispetto ad un’altra. Per esempio: la disposizione secondo la quale il malato di
mente che abbia cagionato un danno può essere condannato a pagare un’equa indennità al
danneggiato, se quest’ultimo non ha potuto ottenere il risarcimento da chi era tenuto alla sorveglianza dell’incapace (art. 2047 comma 2 cod. civ.), si presenta come un’eccezione alla regola per cui l’incapace non risponde delle conseguenze del fatto dannoso (art. 2046 cod. civ.).
Ma questa regola costituisce a sua volta eccezione alla regola, più generale, che obbliga al risarcimento chiunque abbia cagionato un danno ingiusto (art. 2043 cod. civ.). E questa regola,
a sua volta, costituisce eccezione a un più generale principio di libertà d’azione. Ma sarebbe
chiaramente assurdo concludere che tutte le regole giuridiche, tranne generali e generici principi di libertà, siano eccezionali» (P. Trimarchi, Istituzioni di diritto privato, Giuffrè, Milano
1983, p. 15).
110
In un’ottica comparativa, possiamo ricordare il riferimento alla teoria del contemperamento dei diversi interessi quale fondamento principale della dottrina sulle cause di giustificazione nel diritto penale tedesco: cfr. S. Schmidt, Mehrartige Rechtfertigungskonstellationen
am Beispiel des Festnahmerechts und der Notrechte, Kovač, Hamburg 2007, p. 3 ss. Un analogo fondamento è ― riteniamo ― alla base delle cause di giustificazione tradizionalmente
ammesse dai sistemi di diritto penale (per es. lo stato di necessità, la legittima difesa ecc.), che
non costituiscono un ambito non regolato, né tantomeno una clausola in bianco: cfr. sul punto
lo studio comparativo di S. Marti, Rechtsvergleichendes über den rechtfertigenden Notstand –
Die Schweiz, Deutschland und die U.S.A. im Vergleich, in M. Mona, K. Seelmann (a cura di),
Grenzen des rechtfertigenden Notstands, Schulthess Juristische Medien, Zürich, Basel, Genf
2006, pp. 41–68.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
57
leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre
leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati». Neanche queste leggi che fanno eccezione a regole generali vengono
assimilate dalla dottrina allo stato di eccezione (che propriamente
dovrebbe riferirsi a situazioni quali per es. la guerra, lo stato
d’assedio, cataclismi ecc.), nonostante il bisticcio che può prodursi
per via del medesimo nome111. Anche nel caso dell’art. 14 disp. prel.
cod. civ. ci troviamo insomma di fronte a “leggi speciali” e non ai
più problematici “stati di eccezione” veri e propri. Ci sembra in altre
parole che la teoria dello stato di eccezione non possa fare per così
dire di tutta un erba un fascio, perché il fenomeno dell’eccezione nel
diritto interno non può essere confuso con quella situazione eccezionale, in principio non regolata dall’ordinamento e nella quale, come
storicamente attestato, è possibile che si verifichi, in base al prevalere di una o l’altra delle forze in gioco, la violazione delle posizioni
giuridiche fondamentali dei singoli quale risultato dell’esercizio di
un potere autoritativo. Nell’ambito dell’ordinamento giuridico,
[l]’eccezione […] non è concetto della dottrina dello Stato, per cui «è sovrano chi decide sullo stato di eccezione» (Schmitt); il caso d’eccezione non è
«il caso non descritto dall’ordinamento giuridico vigente», «l’ignoto», ma
qualcosa che è già previsto, e come tale, già disciplinato. Il diritto vive e si
manifesta più attraverso norme speciali che attraverso eccezioni; il nucleo essenziale del diritto non è l’eccezione, ma, semmai, la specialità, che appare
una delle costanti più significative del diritto stesso112.
Per le riflessioni svolte, ci pare di dover ridimensionare la portata
dello stato di eccezione. La teoria che lo sostiene e che se ne serve per
dare conto di molteplici istituti va a nostro avviso circoscritta, se mai,
al problema delle sole circostanze eccezionali non previste dall’ordinamento, e anche per questo aspetto, come vedremo, cum grano salis.
111
A tale proposito si possono ricordare le parole di F. Antolisei, Diritto penale. Parte
generale, Giuffrè, Milano 1987, p. 94: «sono leggi “eccezionali” quelle che vengono emanate
per sopperire a bisogni dello Stato derivanti da situazioni anormali, come la guerra, lo stato
d’assedio, un terremoto, una epidemia, ecc.; esse non vanno confuse con le leggi eccezionali
di cui si fa parola nell’art. 14 delle disposizioni preliminari del codice civile (norme che implicano eccezioni a regole generali)».
112
Così V. Italia, La fabbrica delle leggi. Leggi speciali e leggi di principio, Giuffrè, Milano 1990, pp. 61–62.
Capitolo I
58
Correlativamente, anche la sfera di esercizio del potere sovrano, quanto meno nella sua connessione con l’ordinamento ancora vigente, non
potrebbe esser pensata come assoluta e indeterminata, ma dovrebbe
subire una compressione.
In primo luogo occorre distinguere quella modalità di esercizio
del potere sovrano che non ha natura politica. Il potere sovrano può
estrinsecarsi nello svolgimento di attività giurisdizionali, legislative
ed esecutive che in quanto tali soggiacciono vari limiti. Tali limiti
possono essere sintetizzati nell’obbligo del rispetto della Costituzione e in generale delle leggi. Un giudice, per es., nella misura in cui
eserciti la funzione autoritativa di disporre una misura privativa della
libertà nei confronti di un individuo, non potrebbe farlo lecitamente
al di fuori dei vincoli impostigli dalla Costituzione e dalla legge. Il
Parlamento, nell’atto con cui delibera una legge, è tenuto al rispetto
della Costituzione sotto il profilo sia procedurale che sostanziale. Gli
organi del potere esecutivo, nello svolgimento dell’attività esecutiva,
non possono contravvenire alle norme costituzionali né, in linea di
massima, a quelle legislative. Qual’è la conseguenza dell’enunciazione di tali limiti, qual’è il rovescio della medaglia dell’affermazione che gli organi che esercitano il potere sovrano sono tenuti al rispetto di certe norme? I principi che delimitano l’esercizio delle attività sovrane si trovano sparpagliati per il nostro ordinamento giuridico in quanto sistema113. In generale sono previste conseguenze giuridiche, sia procedurali che sostanziali, per il caso in cui detti organi
valichino indebitamente tali limiti. In particolare per quanto riguarda
l’attività della pubblica amministrazione, esplicitamente la nostra
Costituzione all’art. 113 afferma il principio della impugnabilità di
tutti gli atti114:
113
Per cui, per riprendere qualcuno degli esempi proposti nel testo, una legge contraria ai
principi fondamentali dell’ordinamento adottata dal Parlamento è suscettibile di annullamento
da parte della Corte costituzionale; un provvedimento illegittimamente privativo della libertà
produce l’obbligo di risarcimento (art. 314 del codice di procedura penale).
114
Nel nostro ordinamento, abbiamo assistito a un’importante evoluzione storica sotto
questo profilo: v. la sintesi delle principali tappe che storicamente hanno scandito tale evoluzione in F. Saitta, Art. 113, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, cit., pp. 2136–2161, tomo III, alle pp. 2137–2141.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
59
[c]ontro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela
giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria o amministrativa. Tale tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate
categorie di atti.
Insomma, la stessa Costituzione pone conseguenze procedurali
per eventuali violazioni dei diritti ad opera dei funzionari e dipendenti statali. Dal punto di vista sostanziale, invece, l’art. 28, 1° prop.,
Cost., dispone: «[i] funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti
pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti».
Dunque funzionari e dipendenti dello Stato, persone cioè che esercitano o possono esercitare un potere pubblico, si trovano, sotto il profilo regolato dalla norma in questione, in condizione di parità rispetto
ai privati e rispondono direttamente per le eventuali violazioni di diritti commesse115. Assoggettati a questa norma in qualità di funzionari dello Stato, sono non soltanto i magistrati, ma anche i ministri che
formano il Governo.
Dunque, in generale, le funzioni sovrane sono esercitate entro vincoli normativi. L’attività che se mai è più difficile assoggettare a limiti
giuridici è l’attività politica in senso stretto116, e soltanto per questa
115
La presenza di tali norme non va sottovalutata, perché è il frutto di un’evoluzione storica che più o meno lentamente ha eroso la posizione privilegiata di cui in certi sistemi giuridici hanno goduto i funzionari pubblici. Nel diritto francese per es. almeno sino al 1989 è ancora in vigore la regola della impunità dei pubblici funzionari per gli atti rilevanti dal punto di
vista penale compiuti nell’esercizio delle loro funzioni: cfr. M. Guillaume–Hofnung, Un exemple français d’échec à la limitation des gouvernants: l’impunité des fonctionnaires auteurs d’infractions pénales, in L’individu face au pouvoir, cit., pp. 321–346. Un’importante riforma costituzionale del 1993 (loi constitutionnelle n. 93–952 del 27 luglio 1993) ha poi stabilito la responsabilità penale dei ministri per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, assegnandone la competenza alla Cour de Justice: cfr. l’art. 68–1 della costituzione francese. In
generale per un esame comparato sulla giustizia amministrativa in Europa, v. G. Recchia (a
cura di), Ordinamenti europei di giustizia amministrativa, vol. XXV del Trattato di diritto
amministrativo diretto da G. Santaniello, Cedam, Padova 1996.
116
«La responsabilità individuale del singolo ministro a cui fa riferimento l’art. 95 [della
nostra Costituzione] non ha natura soltanto politica, ma ha carattere generale per ogni atto posto in essere dalla singola Amministrazione. Tale responsabilità giuridica si desume dal combinato disposto degli artt. 95 e 28 Cost., norma quest’ultima che prevede la responsabilità di
tutti i pubblici funzionari (e quindi anche dei ministri) degli [sic!] atti compiuti in violazione
dei diritti, secondo le leggi civili, penali ed amministrative. Si tratta di una forma di responsa-
60
Capitolo I
sfera di attività dovrebbe porsi a nostro avviso il problema dello stato
di eccezione. Fra le attività sovrane senza alcun dubbio quella politica
in senso stretto, quella cioè che si concreta nella libertà di scelta fra
varie possibilità offerte dalla contingenza di una determinata situazione, difficilmente può assoggettarsi a qualche forma di controllo, nel
senso che la scelta fra vari mezzi e fini legittimi non è sindacabile117.
In altri termini, in presenza di più finalità che possono essere perseguite legittimamente, il conseguimento di un determinato risultato non
può essere opposto all’esigenza di perseguirne uno diverso, parimenti
legittimo. Conformemente a questo modo di intendere l’attività politica in senso stretto, nell’ambito dello sviluppo delle garanzie giurisdizionali contro gli atti della pubblica amministrazione, già nel 1924 il
Testo Unico delle leggi sul Consiglio di Stato stabiliva che contro gli
atti o provvedimenti emananti dal Governo nell’esercizio del potere
politico non è ammesso ricorso giurisdizionale al Consiglio di Stato118.
Questa norma è da considerarsi tuttora vigente, benché qualcuno abbia
sollevato dubbi in merito a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione119. Ma in ogni caso l’attività politica, pur concretandosi nella libera scelta di diversi obiettivi non determinabili a priori, non può concretarsi nella scelta di finalità contrarie ai principi costituzionali né alle leggi, a meno di non modificare queste ultime mediante procedimenti legittimi, sia dal punto di vista formale che sostanziale. In altre
parole, la scelta governativa fra i diversi fini è libera, ma tali fini non
possono esser posti contra legem. Pur se qualcuno ha affermato che la
politica costituirebbe una sfera d’azione caratterizzata dall’assenza di
bilità che in realtà mal convive con l’organizzazione interna della pubblica amministrazione
che si è venuta formando nel corso degli anni e che prevede una netta distinzione fra l’attività
di indirizzo affidata all’organo politico e l’attività di gestione che esercitano gli organi interni
all’amministrazione stessa» (così E. Catelani, Art. 95, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti,
Commentario alla Costituzione, cit., tomo II, pp. 1836–1858, a p. 1852). Cfr. anche C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 666.
117
«La funzione politica o di governo è […] quell’attività variamente disciplinata
dall’ordinamento, ma comunque sempre presente in ogni società politica, caratterizzata dal
fatto di dirgersi all’individuazione di finalità non prestabilite dalla legge, cioè liberamente valutabili, salvo i limiti introdotti dalla Costituzione», così C. Lavagna, Istituzioni di diritto
pubblico, cit., p. 679.
118
Art. 31 del rd. del 26 giugno 1924 n. 1054.
119
Dubbi che condividiamo pienamente. A tale proposito cfr. C. Lavagna, Istituzioni di
diritto pubblico, cit., p. 936.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
61
regole, almeno in situazioni “normali” è se non pacifico quantomeno
verosimile che la politica si svolga nel rispetto di regole:
[i] mezzi normali della politica […] dovrebbero essere quelli del confronto
civile della competizione, delle regole precostituite, ecc. Regole stabilite prima, e perciò regole di diritto. La regola normale della politica, quindi, dovrebbe esser quella disciplinata dalle regole giuridiche. Deriva da ciò
l’esistenza, necessitata, di una serie di punti comuni tra la politica ed il diritto, nel senso delle condizioni normali, dei mezzi normali della politica”120.
Il rapporto fra politica e diritto non sembra dunque potersi configurare come un rapporto di fondante–a–fondato, in cui il diritto svolge la
parte di mero strumento aggirabile mediante il ricorso alla categoria
della libertà assoluta dell’azione politica.
Corollario del fatto che anche l’esercizio delle attività sovrane è
soggetto a vincoli normativi è rappresentato dal divieto di istituire
giudici speciali. Pertanto non è possibile sottrarre date categorie di atti
pubblici o di persone che svolgano una funzione pubblica al potere
giurisdizionale ordinario: anche coloro che esercitano attività politica
in senso stretto non godono di una posizione privilegiata sotto il profilo considerato in quanto l’eventuale violazione di diritti da essi prodotta è oggetto di cognizione del giudice ordinario. A tale proposito
l’art. 102 Cost. stabilisce infatti: «[l]a funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario. Non possono essere istituiti giudici straordinari o
giudici speciali» (commi 1° e 2°, 1° prop.). Tale norma è importante ai
fini del nostro discorso giacché nessuna circostanza eccezionale, ai
sensi del dettato costituzionale, potrebbe giustificare l’istituzione di un
organo giurisdizionale straordinario né speciale che esercitasse la propria funzione in dispregio dei diritti fondamentali delle persone, per
esempio istituendo un divieto di azione contro certe categorie di persone che esercitano il potere pubblico ovvero contro certi atti posti in
essere da queste persone.
120
Cfr. V. Italia, La fabbrica delle leggi, cit., p. 21. Nel medesimo senso A. Benz, Selbstbindung des Souveräns: Der Staat als Rechtsordnung, in M. Becker, R. Zimmerling (a cura
di), Politik und Recht (PVS Sonderheft 36/2006), VS Verlag für Sozialwissenschaften, Wiesbaden 2006, pp. 143–163, a p. 144.
62
Capitolo I
Vero è che queste norme conoscono qualche eccezione ― è forse il
caso di usare questo termine, almeno prima facie ― sia per quanto riguarda la responsabilità del Governo per i cd. reati ministeriali, sia per
quanto riguarda la figura del Capo dello Stato.
Ma in primo luogo, per quanto concerne la responsabilità del Governo, tale eccezione riguarda soltanto una determinata categoria di
reati, vale a dire quelli compiuti nell’esercizio delle funzioni, e non si
tratta affatto di una impunità o di una immunità assoluta. L’art. 96 della Costituzione si limita a stabilire in tali casi un requisito procedurale
non previsto per i reati commessi da tutti gli altri funzionari dello Stato, dato che assoggetta la procedibilità per tali reati all’autorizzazione
parlamentare, ferma restando la competenza del giudice ordinario in
materia121. Una volta rilasciata l’autorizzazione in questione, dunque,
la competenza per tali cause spetta al giudice ordinario precostituito
per legge e non a un tribunale ad hoc. Al giudice ordinario inoltre va
in ogni caso attribuita la cognizione per tutti gli altri tipi di illeciti ordinari, sia civili che penali, commessi dal Presidente del Consiglio dei
ministri e dai ministri, senza alcuna limitazione procedurale, dunque
in condizioni di parità rispetto agli individui privati122.
Il Capo dello Stato, invece, ai sensi dell’art. 90 Cost. «non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che
per alto tradimento o per attentato alla Costituzione. In tali casi è messo
in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri». Ora, è vero che in questa ipotesi si potrebbe
concludere di trovarsi di fronte a un istituto dell’eccezione, ma a ben
guardare dubitiamo che possa essere lo stato di eccezione a offrire
l’adeguata ricostruzione teorica di questa figura. Quello del Capo del
nostro Stato non può essere infatti considerato un potere sovrano assoluto né insanzionabile. Innanzitutto, l’irresponsabilità del Presidente
della Repubblica vale soltanto per gli atti compiuti nell’esercizio delle
sue funzioni: resta quindi ferma la responsabilità per gli atti compiuti in
121
Così recita l’art. 96 Cost.: «[i]l Presidente del Consiglio dei ministri ed i ministri, anche se cessati dalla carica, sono sottoposti, per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni, alla giurisdizione ordinaria, previa autorizzazione del Senato della Repubblica o della
Camera dei deputati, secondo le norme stabilite con legge costituzionale».
122
Per quanto riguarda la recente legge n. 124 del 23 luglio 2008 sulle immunità delle
quattro più alte cariche dello Stato (cd. lodo Alfano), cfr. la nota seguente.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
63
qualità di individuo privato123. Inoltre, anche fra gli atti compiuti nella
qualità di sommo ufficiale dello Stato, la messa in stato d’accusa del
Presidente della Repubblica è pur sempre possibile in caso di alto tradimento o per attentato alla Costituzione124. Ciò significa che di atti miranti al sovvertimento dell’ordine costituzionale125 il Presidente della
Repubblica dovrebbe rispondere dinanzi al Parlamento. Atti di questo
tipo sarebbero senz’altro quelli preordinati alla riunione delle potestà
pubbliche nelle mani di un singolo individuo, in dispregio del principio
di divisione dei poteri sovrani cui è ispirata la nostra Carta costituzionale. Ai fini dello scardinamento della teoria della stato di eccezione, al
fine di dimostrare in quale misura essa sia inadeguata a offrire una descrizione del nostro vigente ordinamento giuridico, ci sembra inoltre
non superfluo porre l’accento sul fatto che il Presidente della Repubblica, se pure irresponsabile per gli atti compiuti nello svolgimento delle
proprie funzioni, con i limiti accennati, non gode mai delle prerogative
123
Basti qui richiamare C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, cit., pp. 637–638; nonché A. Spadaro, Art. 90, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, cit., tomo II, pp. 1752–1764, a p. 90, il quale ricorda come il tentativo di disporre
l’immunità del Presidente della Repubblica e del Presidente del Consiglio dei ministri (salvo
comunque quanto stabilito dagli artt. 90 e 96 Cost.) nonché delle altre tre più alte cariche dello Stato (presidente del Senato, presidente della Camera dei deputati, presidente del Consiglio
dei ministri, presidente della Corte costituzionale) mediante la legge n. 140 del 20 giugno
2003 (cd. lodo Schifani), sia andato rapidamente incontro alla pronuncia di incostituzionalità
(sentenza Corte costituzionale n. 24 del 2004) per lesione degli artt. 3 (principio di eguaglianza) e 24 (diritto di azione e di difesa). Auspichiamo una soluzione del genere anche riguardo
al più recente lodo Alfano che amplia indebitamente, rispetto alla Costituzione, la posizione
delle quattro più alte cariche dello Stato.
124
Non è forse inutile ricordare che comunque la norma costituzionale in questione non
ha sinora trovato applicazione a conferma della estrema sporadicità con cui situazioni eccezionali si manifestano nella prassi e della idoneità degli strumenti ordinari del diritto a risolvere le situazioni problematiche che possono presentarsi.
125
L’art. 283 cod. pen. prevede un’ipotesi di attentato alla Costituzione, la cui applicabilità al Capo dello Stato è stata però revocata in dubbio (per es. da C. Lavagna, op. ult. cit., p.
1005), e ciò vale soprattutto a seguito della recente (e inquietante) modifica cui è stata sottoposta la previsione penalistica, attuata con legge del 24 febbraio 2006 n. 85: «[c]hiunque, con
atti violenti, commette un fatto diretto e idoneo a mutare la Costituzione dello Stato o la forma
di governo, è punito con la reclusione non inferiore a cinque anni». La precedente formulazione invece offriva il destro per sanzionare l’attentato alla Costituzione compiuto non soltanto mediante atti violenti ma con mezzi pacifici purché anticostituzionali: «[c]hiunque commette un fatto diretto a mutare la costituzione dello Stato, o la forma del Governo, con mezzi
non consentiti dall’ordinamento costituzionale dello Stato, è punito con la reclusione non inferiore a dodici anni».
Capitolo I
64
di un sovrano del periodo dell’assolutismo. I suoi poteri costituzionali
consistono per lo più in una funzione riequilibratrice dei rapporti fra
Governo e Parlamento126. Infine, benché il Presidente della Repubblica
goda di questa irresponsabilità ai sensi dell’art. 90 Cost., ciò non significa che gli atti eventualmente adottati in violazione della Costituzione
siano privi di conseguenze giuridiche (e/o politiche). In base all’art. 89,
1° comma Cost. «[n]essun atto del Presidente della Repubblica è valido
se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità». Ciò significa che la responsabilità per atti non concretanti
né alto tradimento né attentato alla Costituzione ricade sui ministri proponenti che controfirmano l’atto presidenziale. Anche in questo caso,
dunque, abbiamo un meccanismo che cerca di evitare l’accentrarsi dei
poteri in capo a un solo individuo al di fuori di ogni controllo. La responsabilità ministeriale di cui all’art. 89 Cost. rappresenta appunto un
meccanismo del genere127.
In ogni caso, ci preme sottolineare come le norme costituzionali ricordate non tanto concretino meccanismi di eccezione, quanto piuttosto un sistema che funziona a seconda delle circostanze concrete. Questo approccio sistematico, che a tutt’oggi informa l’ermeneutica giuridica, ci consente di circoscrivere il fenomeno dello stato di eccezione
a un ambito assai ristretto. In generale, non è infatti lo stato di eccezione il meccanismo idoneo a render conto né del principio di specialità, come già abbiamo visto, né del fenomeno di sospensione della vigenza di una norma. Negli ordinamenti giuridici non è raro rinvenire
126
Sul punto v. per tutti C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 640: «non si
può dire che il Presidente della Repubblica sia il capo di una delle tipiche funzioni statali, cioè
della funzione esecutiva (in tal senso C. cost. n. 35 del 1962); né che partecipi alle diverse
funzioni statali in modo sostanziale, anche perché molti suoi atti esulano dalle tre funzioni
classiche. Si può dire, piuttosto, che egli gode di una particolare posizione, in quanto controlla e coordina l’esercizio delle diverse funzioni, rappresentando, al di sopra e al di là delle mutevoli maggioranze politiche, l’unità e la continuità dell’organizzazione politica statale». Tali
funzioni di controllo e coordinamento nonché quella di rappresentare l’unità e la continuità
dello Stato sono, dal punto di vista della dottrina della sovranità assoluta, competenze assai
limitate, cui non corrisponde in alcun caso costituzionalmente previsto quella reviviscenza di
pienezza di auctoritas che si attiverebbe in circostanze eccezionali.
127
Cfr. M. Midiri, Art. 89, in R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Commentario alla Costituzione, cit., tomo II, pp. 1732–1751, il quale, a p. 1734, nella norma in questione individua
«un assunto della teoria tradizionale di controlli costituzionali, in base al quale la reciprocità
di questi ultimi assicurerebbe l’equilibrio del sistema di governo».
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
65
casi di norme mai applicate, ciò non perché si tratti di norme “eccezionali”, né perché circostanze eccezionali presiedano alla loro applicazione o alla sospensione della loro vigenza. Sia il diritto interno che
il diritto internazionale conoscono il fenomeno della desuetudine quale mancata applicazione di una norma per un periodo di tempo il cui
protrarsi produce nei soggetti destinatari l’affidamento che la norma in
questione non sia più in vigore, finché un atto normativo non intervenga o a suggellare l’abrogazione della norma, ovvero, al contrario,
tenti di rafforzare nei destinatari la convinzione della sua vigenza.
Possiamo avanzare esempi di entrambe le tipologie. Pensiamo per es.
alla figura del turpiloquio, vietato dal codice penale del 1930 al secondo comma dell’art. 726: «[s]oggiace all’ammenda fino a lire centomila chi in un luogo pubblico o aperto al pubblico usa un linguaggio
contrario alla pubblica decenza». La diffusione, anche grazie agli
strumenti mediatici, di un linguaggio scurrile ha prodotto nella coscienza sociale una certa tolleranza nei riguardi del turpiloquio, tanto
da indurre il legislatore ad abrogare la fattispecie in questione la quale
pertanto attualmente non è più prevista come reato128. Esempi di rafforzamento del sentimento di obbligatorietà di certi comportamenti
mediante l’istituzione di sanzioni più severe sono offerti dall’inasprimento delle sanzioni del codice della strada, per es. per il mancato
impiego della cintura di sicurezza, per uso del telefono cellulare alla
guida, per la gara in velocità con conducenti di altre vetture129 ecc.
Anche nel diritto internazionale abbiamo il fenomeno della disapplicazione che può portare all’abrogazione di una norma per desuetudine, o quanto meno alla modifica della sua portata applicativa. Un
esempio è quello del sistema di sicurezza collettiva previsto dalla Carta delle Nazioni Unite agli artt. 43 ss. Il fenomeno della disapplicazione di norme, anche qui, ci sembra lontano dalla modalità secondo la
quale dovrebbe funzionare l’istituto dello stato di eccezione. In altre
parole, il fenomeno della mancata applicazione di una norma può trovare ben altre spiegazioni all’interno del sistema giuridico piuttosto
che non l’invocazione dello stato dell’eccezione.
128
Cfr. l. 25 giugno 1999 n. 205. Resta in vigore, beninteso, il reato di ingiuria (art. 594
cod. pen.), che può ben consistere nell’apostrofare qualcuno con parole turpi.
129
In particolare su quest’ultima figura cfr. l’art. 141, 9° comma, 2° periodo del codice
della strada.
66
Capitolo I
1.4 Sovrano e Stato sovrano
Da quanto detto sinora, ci auguriamo possa essersi fatta strada nel
pensiero di chi legge l’idea che lo stato di eccezione non costituisce il
paradigma con il quale può agevolmente darsi conto del fenomeno diritto. Abbiamo visto come l’attività di posizione di norme (per es.
norme di rango costituzionale) da parte del potere costituente soltanto
irrealisticamente possa essere interpretata come attività indeterminata
e del tutto libera di tratti normativi. Ciò non soltanto perché l’attività
del potere costituente è sempre storicamente condizionata, fra l’altro,
anche dalla tradizione giuridica viva in una certa cultura che si appresta a darsi una carta costituzionale, ma piuttosto perché il diritto, al pari del linguaggio, permea ogni attività umana e non può essere deposto
come ci si potrebbe disfare di un vecchio oggetto consumato.
Abbiamo poi visto in quale senso restrittivo ― se mai ― vada inteso il fenomeno dell’eccezione. All’interno di un ordinamento giuridico il rapporto fra norma generale e norma particolare è meglio descritto dal principio di specialità che non dalla figura dell’eccezione, e ciò
in quanto nel nostro ordinamento la nozione di eccezione serve a profilare la fattispecie cui la norma va applicata. In altri termini, il fatto
che venga applicata la norma “eccezionale” (o meglio, “speciale”),
non significa che venga sospeso l’ordinamento rispetto al caso singolo: più semplicemente, invece della norma generale viene applicata alla fattispecie un’altra norma, meglio corrispondente alla tutela delle
posizioni coinvolte nel caso concreto.
Ma possiamo con ciò veramente escludere la possibilità che, una
volta istituito un ordinamento giuridico, al presentarsi di una situazione eccezionale del tutto imprevista e non regolata dall’ordinamento,
non si produca quell’effetto di riunione dei poteri sovrani in un unico
individuo, il sovrano, che legibus solutus, si faccia carico di sospendere il diritto vigente (ed eventualmente i diritti individuali fondamentali) al fine di preservarlo per poi ripristinarlo una volta esaurita la situazione d’emergenza?
Effettivamente nel corso della storia più volte si è assistito a questa
riunione dei poteri in capo a un unico individuo. Addirittura vi è stato
un lungo periodo della storia d’Europa in cui l’identificazione fra Stato sovrano e persona fisica del sovrano ― subito dopo la nascita della
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
67
società internazionale ― è parsa una modalità adeguata a descrivere la
realtà politica e istituzionale storicamente data a quell’epoca. Pensiamo per es. alla celebre affermazione del re di Francia Luigi XIV, “l’état
c’est moi”. La piena identità di Stato e persona del sovrano caratterizzante le monarchie di quell’epoca storica ha indotto alcuni autori che
si sono occupati del fenomeno a interpretare la sovranità secondo il
parametro dell’assolutezza. Già a ridosso di questo periodo storico Jean Bodin aveva ritenuto di interpretare il concetto di sovranità nel senso di questa assoluta pienezza di poteri130, spianando la strada al concetto di sovranità di cui ancora nella elaborazione teorica della figura
dello stato di eccezione cogliamo distintamente un’eco. In effetti nel
periodo delle monarchie assolute può rinvenirsi tale concezione del
potere pubblico come pienamente incarnato nella figura del sovrano.
Dal punto di vista dell’ordinamento interno, il sovrano di questo periodo raccoglie in sé ogni potere autoritativo, che può essere esercitato
secondo modalità che per noi moderni sfiorano l’arbitrio. Dal punto di
vista del diritto internazionale, la sovranità statale è concepita in questo medesimo periodo, sotto il profilo dei rapporti esteriori con gli altri
Stati, come tendenzialmente coincidente con la persona fisica del monarca131. Questa identificazione fra Stato e monarca porta a concepire
la sovranità come assoluta a partire dalla persona fisica e concreta del
sovrano, e ciò perché il diritto internazionale in questa fase iniziale
ancora non può considerarsi come un ordinamento sviluppato. Oggetto dell’attenzione degli studiosi in questo periodo è piuttosto lo Stato
dal punto di vista del diritto interno, dal momento che i rapporti fra
Stati sono ancora sporadici e la loro regolamentazione riguarda un
130
Cfr. J. Bodin, Les six Livres de la Republique, avec l’Apologie de R. Herpin, Parigi
1583, ristampa anastatica, Scientia, Aalen 1961, p. 122: «La souveranité est la puissance absoluë & perpetuelle d’une Republique». Su questa modalità di intendere l’importanza del pensiero di Bodin nello sviluppo della moderna teoria politica v. per es. J.H. Franklin, Jean Bodin
and the Rise of Absolutist Theory, Cambridge University Press, London 1973. Secondo la ricostruzione offerta da questo autore, per Bodin l’assolutezza del potere andrebbe ricavata in
modo analitico dalla nozione di potere stesso: cfr. loc. ult. cit., p. 23.
131
Cfr. T. Treves, Diritto internazionale, cit., p. 53 ss.; cfr. anche G. Arangio–Ruiz, Diritto internazionale e personalità giuridica, Estratto dalla voce “Stati e altri enti (Soggettività internazionale)” del Novissimo Digesto Italiano, vol. XVIII, Torinese, Bologna 1972, pp. 170–
171, il quale ricorda come ancora alla fine del XIX secolo si trovassero ancora scrittori che
consideravano la personalità internazionale coincidente con quella fisica del sovrano assoluto
(cfr. gli autori citati ivi, nt. 3).
Capitolo I
68
gruppo di materie ancora assai scarno. I teorici dello stato assoluto
non avvertono il bisogno di distinguere la sovranità dello Stato da
quella del monarca, né quello di non confondere la persona dello Stato
ai sensi del diritto internazionale con la persona fisica del sovrano assoluto. La questione della pienezza, dell’inalienabilità e dell’indivisibilità del potere del sovrano dal punto di vista dell’ordinamento interno è
tematica così preponderante che l’individuazione di un concetto di sovranità dal punto di vista del diritto internazionale ancora non costituisce un problema urgente da risolvere. Ci pare interessante comunque rilevare che, a differenza di quanto vorrebbe indurre a pensare la dottrina
dello stato di eccezione, già in Jean Bodin, primo teorico moderno della
figura del sovrano assoluto132, si rinviene l’esigenza di individuare eventuali limiti al potere del monarca133. In particolare Bodin parla di un diritto di resistenza del singolo nei confronti del monarca nel caso di
violazione di norme divine o naturali ad opera di quest’ultimo134. La
previsione di un diritto di resistenza del singolo nel caso della violazione di norme particolarmente importanti da parte del sovrano apre
uno spiraglio nel plesso in cui il singolo sarebbe stretto come mero
oggetto del potere politico. Proprio in quanto il diritto di resistenza del
singolo sorge a seguito della violazione dell’ordinamento giuridico ―
o almeno di certe sue norme fondanti, di rango superiore ― può dirsi
che anche nella dottrina sul potere assoluto del monarca elaborata da
Bodin si annida in realtà il concetto di una indisponibilità del diritto in
quanto tale135.
132
Benché il suo pensiero non nasca nel vuoto ma sviluppi riflessioni già vive durante il
medioevo: cfr. G. Fioravanti, Aristotele, i medievali e la sovranità, in G.M. Cazzaniga, Metamorfosi della sovranità, cit., pp. 23–29.
133
Oltre alla differenza che Bodin espressamente sottolinea fra monarca e tiranno (cfr. infra, nota 135), può riportarsi a tale proposito la seguente riflessione sull’abuso del potere sovrano: «il n’appartient à homme vivant d’envahir la souveranité & se faire maitre de ses compagnons, quelque voire de iustice & de vertu qu’on pretende: &, qui plus est, en termes de
droit celuy est coupable de mort qui use des marques reservees à la souverainté. Si donc le
subiect veut envahir & voler l’estat à son Roy, par quelque moyen que ce soit, ou en l’estat
populaire, ou Aristocratique, de compagnon se faire seigneur, il merite la mort» (J. Bodin, Les
six Livres de la Republique, cit., p. 298).
134
J. Bodin, Les six Livres de la Republique, cit., p. 307. Sul punto v. le osservazioni di
J.H. Franklin, Jean Bodin and the Rise of Absolutist Theory, cit., p. 97.
135
È interessante sottolineare come per lo stesso Bodin il potere sovrano non possa essere
concepito come arbitrio, ma debba invece mantenersi nei limiti del rispetto del diritto natu-
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
69
Questa indisponibilità appare in tutta lucidità pienamente consolidata nella teoria generale dello Stato elaborata da Jellinek all’inizio
del secolo XX. Secondo questo autore, il diritto dello Stato produce un
doppio vincolo: da un lato obbliga il suddito a conformarsi al volere
dello Stato, ma dall’altro lato vincola lo stesso Stato ad attenersi, nei
rapporti con i singoli, a quanto stabilito nelle proprie leggi136.
Che cosa è accaduto nel lasso di tempo che separa la riflessione di
Bodin e quella di Jellinek? Nell’ambito della teoria della sovranità si è
prodotta una divaricazione fra il concetto di sovranità all’interno dello
Stato e quello di Stato sovrano come soggetto del diritto internazionarale: «[i]’ay mis en nostre definition, que les subiects soyent obeissans au Monarque Royal,
pour monstrer qu’en luy seul gist la maiesté souveraine: & que le Roy doit obeir aus lois de
nature, c’est à dire gouverner les subiects, & guider les actions par la justice naturelle, qui se
void & fait congnoistre aussi claire & luisante que la splendeur du soleil: c’est donques la
vraye marque de la Monarchie Royale, quand le Prince se rend aussi doux, & ployable aux
loix de nature, qu’il desire ses subiects luy estre obeissans: ce qu’il fera, s’il craint Dieu sur
tout, s’il est pitoyable aux affligés, prudent aux enterprises, hardi aux exploits, modeste en
prosperité, constant en adversité, ferme en sa parole, sage en son conseil, soigneux des subiects, secourable aux amis, terrible aux ennemis, courtrois aux gents de bien, effroyable aux
mechans, & iuste evers tous. Si donc les subiects obeissent aux lois du Roy, & le Roy aux loix
de nature, la loy d’une part & d’autre sera maistresse, ou bien, comme dit Pindare, Roine» (J.
Bodin, Les Six Livres de la Republique, cit. p. 280). Questa riflessione di Bodin ci sembra particolarmente interessante anche per l’interpretazione del frammento di Pindaro che essa offre.
Essa dovrebbe a nostro modesto avviso indurre i teorici dello stato di eccezione ― e pensiamo in particolare ad Agamben, che, come abbiamo visto legge il frammento di Pindaro sul
nómos basiléus sotto opposta luce ― a non forzare il concetto di sovranità oltre certi limiti ―
diritto naturale, pura ragione o legge divina che siano ― e a frenare la pienezza del potere sovrano prima che esso si trasformi in qualcosa di simile alla greca Û βρις. La differenza fra re e
tiranno è tracciata in J. Bodin, loc. ult. cit., p. 289 ss.
136
G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 478 afferma: «[a]lles Recht wird zu solchem nur dadurch, daß es nicht nur der Untertan, sondern auch die Staatsgewalt bindet», e citando Jehring, Zweck und Recht, I, IV ed., p. 278, prosegue: «„Recht in diesem vollen Sinne
des Wortes ist also die zweiseitig verbindende Kraft des Gesetzes, die eigene Unterordnung
der Staatsgewalt unter die von ihr selben erlassenen Gesetze“. Erläßt der Staat ein Gesetz, so
bindet es sich nicht nur die einzelnen, sondern auch seine eigene Tätigkeit rechtlich an dessen
Normen, er befiehlt im Gesetze auch den ihm als Organe dienenden Personen, ihren Organwillen dem Gesetze mäßig zu gestalten. Da aber der Organwille Staatswille ist, so bindet der
Staat durch Bindung der Organe sich selbst. Der Staat ist eine Einheit, daher ist die Unterordnung der Verwaltung und Rechtsprechung und das Gesetz ein Vorgang, der zugleich innerhalb der einheitlichen Staatsgewalt sich abspielt. Diese Bindung ist aber nicht etwa moralischer sondern rechtlicher Natur. Alle Garantien des öffentlichen Rechts verfolgen in erster
Linie den Zweck, die Bindung der Staatsgewalt an die von ihr festgesetzten Normen zu gewährleisten» (corsivo nel testo); nel medesimo senso l’autore si era già pronunciato: in G. Jellinek, Die rechtliche Natur, cit., p. 42.
Capitolo I
70
le. Per quanto riguarda la sovranità all’interno dello Stato, i tre secoli
circa che dividono il pensiero di Bodin da quello di Jellinek hanno assistito alla rovinosa caduta delle monarchie assolute a seguito della rivoluzione francese e all’affermarsi della nozione di Stato–apparato per
lo più fondato sul principio della divisione dei poteri, almeno in circostanze “normali”. Molti importanti eventi storici dell’Ottocento sono
mossi proprio dal tentativo di ottenere da parte dei sovrani il temperamento dell’assolutezza dei poteri mediante l’istituzione di organi costituzionali che esercitino le pubbliche potestà secondo modalità limitate da meccanismi di reciproci controlli. La creazione di un apparato
di burocrazia statale, fenomeno tipico del nostro tempo, impedisce di
identificare la figura dello Stato con quella del monarca137. Piuttosto lo
Stato–apparato viene identificato con l’organo governativo nel suo
complesso. Vi è insomma uno spostamento, assai rilevante non soltanto per il diritto interno ma anche per il diritto internazionale, della
consistenza di ciò che identifica lo Stato. In particolare dal punto di
vista del concetto di Stato come persona del diritto internazionale, tale
spostamento sigla il passaggio dalla figura vivente e concreta del sovrano alla macchina burocratica del governo che sopravvive alla eventuale fine fisica (morte o destituzione dall’incarico) delle persone che
la compongono138. In altre parole, il governo identifica la persona dello
137
Cfr. G. Silvestri, Lo Stato senza principe, cit., p. 26: «[p]ur avendo una carica persuasiva molto alta, per la sua interna coerenza logica, la teoria hobbesiana della sovranità lascia
scoperto il soggetto reale della stessa, lo pone in piena luce, anche se, sulla scia delle più antiche dottrine del “corpo astratto” del re, postula una personificazione di tutto l’apparato autoritativo dello Stato, che nel monarca ― o in un’assemblea o addirittura nella totalità del popolo
― si riassume interamente e senza residui. Il limite di questa concezione sta nella duplicità di
funzioni dello stesso soggetto istituzionale: funzione astratta di sovranità e funzioni concrete
di comando (comando generale, tramite la legge, comandi particolari, tramite atti specifici).
L’identificazione in una persona ― o in una pluralità di persone ― fisica della “sede” della
sovranità introduce nel sistema una serie di contraddizioni logico–giuridiche non facilmente
superabili […]. La principale tra queste è l’esistenza di un soggetto considerato contemporaneamente tutto e parte».
138
Significativa, a tale riguardo, ci sembra l’osservazione di Bodin, per il quale lo Stato
non coincide con il governo: «toute Monarchie est seigneuriale, ou Royale, ou Tyrannique: ce
qui ne fait point diversité de Republiques, mais cela provient de la diversité de gouverner la
Monarchie. Car il y a bien difference de l’estat, & du gouvernement: qui est une reigle de police qui n’a point esté touchée de personne: car l’estat peut estre en Monarchie, & neantmoins
il sera gouverné populairement si le Prince fait part des estats, magistrats, offices & loyers
egalement à tous sans avoir esgard à la noblesse, ny aux richesses, ny à la vertu» (J. Bodin,
Les six Livres de la République, cit., p. 272, corsivo nostro; cfr. anche le considerazioni svolte
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
71
Stato in linea di massima a prescindere dalle vicissitudini costituzionali ― e storiche lato sensu ― interne. Riprova di quanto sosteniamo
è l’istituto della successione degli Stati nei trattati internazionali. In
base a questa figura giuridica del diritto internazionale, lo Stato che
abbia subito rivolgimenti di diritto interno (per es. a seguito di rivoluzione, smembramento ecc.) non è legittimato, in linea di massima, a
svincolarsi dagli obblighi precedentemente contratti con altri Stati in
base a trattati. Il presupposto di tale fenomeno è la continuità della
personalità giuridica internazionale a prescindere dalle vicissitudini,
anche quelle meramente personali, dei governanti. Questa osservazione si riallaccia in particolare a un importante aspetto sul quale si appuntavano tanto la teoria della sovranità quanto quella dello stato di
eccezione. Assolutezza della sovranità, stato di eccezione, persona
reale del sovrano e nuda vita sarebbero stretti insieme nell’esigenza di
assicurare la perpetuità del potere pubblico139.
L’istanza di continuità che secondo questa visione dovrebbe essere assicurata dalla sacralizzazione della figura del sovrano, mediante
la ritualizzazione della sua morte che produce uno stato di eccezione,
è stata in realtà storicamente superata mediante la spersonalizzazione
dello Stato e la sua obbiettivazione in apparato. È questo uno dei motivi ulteriori per cui la teoria kelseniana che batte l’accento su questa
obbiettivazione del fenomeno giuridico riesce a descrivere meglio
dell’interpretazione schmittiana gli elementi caratterizzanti lo Stato
nell’attualità storica. Nel corso della modernità i sistemi monarchici
hanno assistito all’erosione dei propri poteri autoritativi a vantaggio
degli organi legislativi e di governo, tant’è che taluno ritiene oggigiorno non più veramente significativa la contrapposizione fra moda Bodin più avanti, ivi, p. 337 ss.).
139
Cfr. l’analisi degli istituti del diritto romano dello iustitium e del luctus publicus condotta da G. Agamben, Stato di eccezione, cit., p. 84 ss., il quale sottolinea, fra le funzioni di
tali istituti, quella di assicurare la continuità del potere pubblico. Nella medesima direzione
sembrano rivolte le riflessioni di A. Benazzo, L’emergenza nel conflitto fra libertà e sicurezza, cit., p. 3, la quale considera lo stato di eccezione come la valvola di sicurezza
dell’ordinamento giuridico. Per una critica di questa modalità di intendere il rapporto fra diritto ed eccezione v. G. Silvestri, Lo Stato senza principe, cit., p. 26 ss. Già Bodin aveva teorizzato il potere sovrano postulandone un’assolutezza connotata dal permanere nel tempo: per
Bodin infatti la sovranità è, come abbiamo visto, potere perpetuo (J. Bodin, Les six Livres de
la Republique, cit., p. 122 ss:, cfr. anche la citazione riportata supra, nota 130).
72
Capitolo I
narchia e repubblica140. Valori come il costituzionalismo, il pluralismo, la democrazia sono via via più diffusi nel nostro mondo e percepiti come irrinunciabili. Si ponga a mente al fatto che quasi tutti
gli Stati del mondo posseggono una carta costituzionale, ciò che invece ancora soltanto cento–centocinquant’anni fa era prerogativa di
poche nazioni141. Si pensi all’enorme progresso che, all’interno di un
ordinamento giuridico, l’adozione di una costituzione può aver segnato dal punto di vista della limitazione degli abusi del sovrano,
della certezza del diritto e per conseguenza della giustizia nell’applicazione delle norme giuridiche. Con ciò non vogliamo naturalmente
negare il perdurare di situazioni assai drammatiche di dispotismo e
di violazione dei diritti individuali più elementari. Vorremmo solo
attirare l’attenzione sull’evoluzione, ancorché forse troppo lenta, che
caratterizza lo sviluppo dei sistemi statali contemporanei, specialmente sotto il profilo del rafforzamento delle garanzie a tutela dei diritti dei singoli rispetto ai possibili abusi da parte del potere statale.
Per quanto riguarda direttamente il nostro Paese, a prescindere dal
nucleo di diritti umani fondamentali garantiti sia mediante disposizioni di rango costituzionale, sia mediante il richiamo a norme internazionali, pensiamo per es. alla grande innovazione prodotta con la legge n. 241 del 1990 cd. “sulla trasparenza”. Per grandi linee possiamo
ricordare che questa legge sancisce il diritto del cittadino di accedere
agli atti pubblici che lo riguardino142. Prima dell’adozione di questa
legge, nella maggior parte dei casi il potere pubblico aveva facoltà di
impedire al singolo interessato di prender visione di documenti in possesso delle autorità, e ciò con grave lesione del diritto di difesa rispet140
P. Biscaretti di Ruffìa, Introduzione al diritto costituzionale comparato. Le “forme di
Stato” e le “forme di governo”. Le costituzioni moderne, Giuffrè, Milano 1988, p. 111.
141
Dati in P. Biscaretti di Ruffìa, Introduzione al diritto costituzionale comparato, cit., p.
619.
142
Prima che venisse adottato quest’atto normativo generale, tale facoltà del singolo era
ammessa soltanto da sporadici atti normativi e da qualche pronuncia giurisprudenziale più illuminata. Sulla legge n. 241 del 1990 v. R. Tomei (a cura di), La nuova disciplina dell’azione
amministrativa. Commento alla legge n. 241 del 1990, aggiornato alle leggi nn. 15 e 80 del
2005, Cedam, Padova 2005; sull’importante regolamento applicativo della legge n. 241, DPR
n. 184 del 2006, cfr. R. Tomei (a cura di), La nuova disciplina dell’accesso ai documenti amministrativi, commento alla legge n. 241 del 1990 e al DPR n. 184 del 2006, Cedam, Padova
2007, e in particolare cfr. ivi, pp. 107–128, F. Pascucci, Commento all’art. 2, riguardante
l’ambito di applicazione della legge.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
73
to agli atti degli organi della pubblica amministrazione. L’impossibilità di accesso agli atti che lo riguardassero poneva infatti il singolo in posizione di netta inferiorità rispetto al potere pubblico, dato che
la mancata conoscenza degli atti in mano all’autorità impediva all’individuo di poter adeguatamente (per es. nei termini di legge) far
valere eventuali vizi di tali atti e tutelare in maniera efficace la propria
posizione giuridica143. Si comprende dunque la grande novità inttrodotta dalla legge n. 241 sotto il profilo della limitazione dei poteri
dell’esecutivo nei riguardi dell’individuo. Inoltre non è forse inutile
ricordare che la legge “sulla trasparenza” è così detta perché in sostanza, mediante l’accessibilità agli atti, rende possibile una forma di controllo diffuso da parte dei cittadini sull’attività della pubblica amministrazione, contribuendo al buon andamento di questa, conformemente
al dettato costituzionale (cfr. art. 97, 1° comma Cost.).
Ancora sotto il profilo della posizione giuridica del singolo rispetto
al potere pubblico, riteniamo che possa leggersi nel senso della medesima evoluzione la riforma del processo penale con l’entrata in vigore
nel 1989 del nuovo codice di procedura penale (cd. codice Vassalli)
mediante il quale è stato integralmente sostituito il cd. codice Rocco,
risalente al 1930. Quest’ultimo atto normativo, adottato nel periodo
fascista, accoglieva una sorta di utopia metafisica, in quanto aveva carattere essenzialmente inquisitorio ed era ispirato al cd. principio della
scrittura144. La cristallizzazione dei risultati delle indagini in documenti scritti che rimanevano custoditi presso il giudice istruttore per un
tempo indefinito consentiva di rimandare potenzialmente ad infinitum
143
Nel medesimo solco evolutivo tracciato dalla legge sulla trasparenza ci sembra inoltre
di poter ricondurre il DPR n. 403 del 20 ottobre 1998, regolamento di attuazione degli artt. 1,
2 e 3 della legge n. 127 del 15 maggio 1997 in materia di semplificazione delle certificazioni
amministrative, il quale in certe situazioni (per es. per pubblici concorsi) da una parte consente ai singoli di presentare, sotto la propria responsabilità, autocertificazioni in luogo di documenti originali, e dall’altra parte impone alle pubbliche amministrazioni l’obbligo di astenersi
dal richiedere la presentazione della documentazione originale (salvo naturalmente l’esercizio
del potere di controllo nel caso di cui sorga il dubbio sulla mendacità delle autocertificazioni
in questione). Questa legge infatti non soltanto contribuisce a snellire le attività degli organi
preposti al rilascio di certificati, ma consente al singolo di tutelare più prontamente i propri diritti e interessi legittimi senza dover dipendere dalle lungaggini della burocrazia.
144
Sulle questioni di principio implicate nel processo di tipo inquisitorio v. F. Cordero,
Procedura penale, IX ed., Giuffrè, Milano 1987, p. 704 (sulla lettura del fascicolo istruttorio
in dibattimento) e p. 948 ss.
74
Capitolo I
la discussione orale della questione, cioè il processo vero e proprio. La
verità circa la responsabilità di un certo reato veniva considerata già
scritta nei documenti costituenti l’esito dell’istruttoria e la celebrazione del processo in udienza spesso si limitava, mediante la lettura dei
documenti raccolti nel fascicolo, a una ripetizione del risultato già acquisito nelle indagini. In altre parole l’attività del giudice istruttore era
di fatto considerata prevalente rispetto a quella del giudice del processo vero e proprio, con la conseguente restrizione, per l’imputato, della
possibilità di far valere in sede dibattimentale una ricostruzione dei
fatti difforme rispetto a quella acquisita durante l’istruttoria e attestata
come prova negli esiti documentari di raccolta della prova. Il principio
della scrittura determinava insomma la prevalenza della testimonianza
scritta su quella orale eventualmente discordante resa in dibattimento.
Il processo informato al principio inquisitorio riponeva la più grande
fiducia nella possibilità di scrivere la verità, di conservarla nel documento cartaceo nonché di renderla disponibile una volta che fosse necessario anche dopo svariati anni dal momento di assunzione della
prova mediante la semplice consultazione del fascicolo dell’istruttoria.
È questa fiducia nell’accesso alla verità, nella sua dicibilità, nella sua
fissabilità in un che di tangibile, di riproducibile, di dato una volta per
tutte e quindi conservabile (la prova documentaria), che ci induce ad
accostare i principi teorici ispiratori del processo di tipo inquisitorio
all’istanza metafisica145 di fissazione della verità o sostanza ― della
sua dicibilità una volta per tutte. Conseguenza dell’adozione del codice Rocco nel 1930 era stata la soggezione del singolo alla verità processuale così consacrata e cristallizzata nel corso dell’istruttoria, con
evidente restrizione della possibilità di far valere la prova contraria.
L’importante modifica legislativa intervenuta in quell’anno pietra
miliare della modernità che è stato il 1989 ha siglato il più consapevole abbandono del principio inquisitorio in favore del principio dibattimentale. La figura del giudice istruttore è stata sostituita da quella del
giudice delle indagini preliminari146, e questa sostituzione non ha significato soltanto un cambiamento nella denominazione dell’organo
145
Pensiamo qui specialmente alla tradizione metafisica un po’ avvizzita tante volte criticata da Heidegger sin dalla sua prima grande opera (cfr. M. Heidegger, Essere e tempo, cit., p.
37 ss.).
146
Cfr. gli artt. 328 ss. cod. proc. pen.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
75
giudicante preposto alla funzione investigativa. L’adozione del principio dibattimentale ha comportato una compressione d’importanza del
ruolo del giudice delle indagini preliminari rispetto al giudice del dibattimento e il conseguente abbandono del principio della scrittura a
favore di quello dell’oralità147. In base a questo principio informatore
dell’attuale sistema, la verità, ben lungi dal costituire un saldo possesso scrivibile e ripetibile indefinitamente, è legata al vivo dispiegarsi
della discussione in aula. La dimensione più propriamente processuale
ha nel sistema attuale la piena preponderanza rispetto ai principi inquisitori. Questi sono stati pressoché eliminati a favore del principio
accusatorio. Conformemente a tale principio, dal punto di vista della
raccolta della prova la testimonianza più autentica, quella in base alla
quale deve formarsi il convincimento dell’organo giudicante, è quella
resa in aula, viva palpitante, e non quella schematica, scheletrica riportata sulla carta dei documenti d’indagine. L’idea di verità che sottende
questo meccanismo processuale è che essa sia un che di sfuggente, di
legato da un lato a impressioni soggettive, dall’altro all’attuale manifestarsi della parola dell’imputato assieme alla sua presenza fisica, ai
suoi tentennamenti, agli eventuali lapsus nella conduzione del discorso, allo stato emozionale manifestato rispetto alle circostanze del delitto. Tutti questi essenziali elementi di valutazione non possono essere
rinchiusi in un documento scritto, per es. nella succinta testimonianza
resa alle autorità di pubblica sicurezza riformulata nel rigido linguaggio di queste ultime, ma invece sollecitano la più profonda attenzione
e il più profondo coinvolgimento del giudice incaricato del compito di
condannare o assolvere. Ulteriore conseguenza di questa nuova normativa processuale è la modifica della posizione dell’imputato rispetto
a quella della pubblica accusa. Il primo segno di questa importante innovazione è stato rappresentato dall’obbligo di informativa gravante
sulle autorità incaricate di svolgere le indagini148. A differenza del
vecchio codice che prevedeva in principio il segreto dell’attività istruttoria, per cui poteva accadere che di punto in bianco una persona si
147
Sull’importanza fondamentale di questa innovazione v. D. Siracusano, Introduzione allo studio del nuovo processo penale, Giuffrè, Milano 1989.
148
Cfr. l’art. 369 cod. proc. pen. disciplinante l’informativa di garanzia, istituto che mira a
informare l’interessato di indagini a suo carico, di modo che egli possa salvaguardare i propri
diritti e avvalersi della facoltà di difesa.
76
Capitolo I
trovasse nella situazione di essere imputata di un procedimento penale
a cose già fatte, cioè una volta raccolti sufficienti indizi a suo carico,
senza che essa avesse minimamente preso parte all’attività di raccolta
delle prove a suo sfavore, l’attuale sistema prevede in linea di massima che l’individuo venga informato del fatto di essere sottoposto a indagini investigative e ciò al fine tutelare il singolo da possibili abusi
del potere sovrano esplicantesi nella forma del potere giudiziario. Mediante l’informazione di garanzia la persona nei cui confronti vengono
svolte indagini viene posta in grado di difendersi149, di contrastare, almeno in linea di principio, il possibile abuso nell’esercizio del potere
giurisdizionale. Ben lungi dall’esser considerato come un fantolino in
mano al potere sovrano, il singolo dispone di una serie di situazioni
giuridiche soggettive che dovrebbero contribuire a rafforzare, mediante l’iniziativa dello stesso interessato, le garanzie giuridiche di cui sono corredati i propri diritti. Questo insieme di principi, in vigore tout
d’un coup sin dall’entrata in vigore del codice Vassalli, trova il proprio corollario nell’innovazione teorica che informa tutto il sistema
del codice e mediante la quale la posizione del singolo è stata elevata a
un grado di parità o quasi parità rispetto alla posizione del pubblico
ministero, almeno per quanto riguarda l’assunzione della prova.
Questa impostazione garantista concretatesi nel principio di parità
fra accusa e difesa nel procedimento penale è stata considerata talmente fondamentale per l’intero sistema, da indurre il Parlamento a dare
copertura costituzionale al carattere accusatorio del processo penale,
in modo da limitare fortemente le possibilità di un ritorno del vecchio
sistema inquisitorio a scapito dei diritti del singolo. Con una importante riforma, infatti, nel 1999 è stato dato rango costituzionale al principio di parità fra le posizioni della pubblica accusa e dell’imputato in
un procedimento penale (cfr. l’art. 111 Cost.)150. Lo sviluppo di questo
149
L’informazione di garanzia contiene infatti, a pena di nullità, l’indicazione della facoltà di nominare un difensore: cfr. gli artt. 369 e 369–bis cod. proc. pen.
150
La riforma è stata attuata con legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999, e il
novellato art. 111 Cost. (commi da 1° a 6°) attualmente dispone: «[l]a giurisdizione si attua
mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio
tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata. Nel processo penale, la legge assicura che la persona accusata di
un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata riservatamente della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico; disponga del tempo e delle condizioni necessari per
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
77
principio ha condotto, nel nostro ordinamento, anche a una ulteriore
rilevante modifica del codice di procedura penale, là ove è previsto
per l’imputato il diritto a svolgere indagini proprie i cui esiti possono
essere contrapposti a quelli delle investigazioni degli organi che svolgono la funzione accusatoria (essenzialmente pubblico ministero e
polizia)151.
preparare la sua difesa; abbia la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, di ottenere la convocazione e
l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione
di ogni altro mezzo di prova a suo favore; sia assistita da un interprete se non comprende o
non parla la lingua impiegata nel processo. Il processo penale è regolato dal principio del
contraddittorio nella formazione della prova. La colpevolezza dell’imputato non può essere
provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore. La legge regola i
casi in cui la formazione della prova non ha luogo in contraddittorio per consenso
dell’imputato o per accertata impossibilità di natura oggettiva o per effetto di provata condotta illecita. Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati». Non è forse inutile ricordare come l’accoglimento di alcuni fra tali principi trovasse un antecedente nelle
norme sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950: cfr. l’art. 6 della Convenzione, che regola il diritto a un processo equo. Recentemente, a livello internazionale i
principi del giusto processo sono stati ribaditi in occasione della Conferenza di Bruxelles
tenuta dagli Stati membri dell’OSCE sui sistemi di giustizia penale (cfr. il testo on–line al
sito: http://www.osce.org/documents/mcs/2006/12/22538_it.pdf).
151
Cfr. l’art. 327–bis cod. proc. pen., introdotto con la legge n. 397 del 7 dicembre
2000: «fin dal momento dell’incarico professionale risultante da atto scritto, il difensore ha facoltà di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a
favore del proprio assistito nelle forme e nelle modalità stabilite nel titolo VI –bis».
Con questa norma si è inteso dare più concreta attuazione alla disposizione costituzionale che prevede la parità fra accusa e difesa. Ci sembra tuttavia doveroso segnalare, a
tale proposito una preoccupante inversione di tendenza ad opera della Corte di cassazione. Nella sentenza Sez. Un. Pen. n. 32009 del 28 settembre 2006, e raccogliendo un
indirizzo interpretativo già diffuso presso giudici di grado inferiore, la suprema Corte
sembra aver in concreto assai limitato le possibilità di indagine da parte dell’imputato
con l’ausilio del suo legale. Raggiungendo un risultato concreto in contrasto col dettato costituzionale che stabilisce la posizione di parità fra accusa e imputato la Corte ha
infatti parificato la figura dell’avvocato di parte nello svolgimento dell’attività di indagine a quella del pubblico ufficiale, sottoponendola dunque alla disciplina più restrittiva che regola l’attività di quest’ultimo (cfr. gli artt. 314 ss. cod. pen. riguardanti
la responsabilità più severa cui soggiace la figura del pubblico ufficiale). Invero le
pronunce della Corte di cassazione non sono vincolanti per i giudici di grado inferiore,
ma sicuramente l’autorevole consesso da cui promanano non può non esercitare una
qualche influenza sull’attività degli organi giudicanti del nostro Paese. In ogni caso,
per non indurre il lettore infatuato della teoria dello stato di eccezione a considerare
questa inversione di tendenza come un argomento a vantaggio del proprio convincimento, vorremmo ricordare che la ingiustificata limitazione del diritto di difesa
dell’imputato in condizione di parità rispetto agli organi di pubblica accusa come in-
78
Capitolo I
Come si può vedere da questi brevi cenni riguardanti i principi che
regolano nel nostro Paese l’esercizio di uno dei tre poteri sovrani per
eccellenza, piuttosto che trovarci davanti a meccanismi che consentono agli organi esercitanti la funzione giurisdizionale di svuotare ― per
così dire ― i diritti dei singoli mediante un atto di avocazione a sé del
potere pubblico concepito come piena sovranità, a mo’ dei monarchi
del periodo dell’assolutismo, assistiamo all’infittirsi nel numero delle
norme che in maniera sempre più dettagliata rafforzano la posizione
degli individui e correlativamente delimitano sempre più efficacemente i possibili abusi da parte degli organi che esercitano la funzione giurisdizionale152.
Certamente la rilevazione della presenza di queste norme garantiste
nel nostro ordinamento giuridico non pregiudica la questione della loterpretata dalla Corte di cassazione non può per ciò solo costituire lo spegnimento di
un diritto soggettivo in base all’esercizio “sovrano” di un potere pubblico (in questo
caso del potere giudiziario). Su tale spinoso tema v. l’interessante contributo di A.
Manna, Il difensore come pubblico ufficiale: le controverse indicazioni provenienti
dalla disciplina delle indagini difensive, testo letto in occasione dell’incontro sul processo penale Il processo penale alla ricerca di nuovi equilibri, Foggia, 16–17 maggio
2003, disponibile on–line al sito http://appinter.csm.it/incontri/realz/9787.pdf. Nonostante la pronuncia della Corte di cassazione, ben prima che l’orientamento da essa inaugurato si consolidi, oltre al fatto che la nostra Corte costituzionale potrebbe avere
occasione di pronunciarsi sul punto, in ambito internazionale potrebbe ben essere sollevata la questione del rispetto della Convenzione europea del 1950 davanti alla Corte
europea dei diritti dell’uomo. A tale proposito non è forse inutile aggiungere che, qualora la parte lesa non ottenesse in base all’ordinamento interno un adeguato riconoscimento del proprio diritto, la Corte europea dei diritti dell’uomo può concedere alla
parte lesa un’equa soddisfazione (cfr. l’art. 41 della Convenzione di Roma).
152
A tale riguardo ci sembrano rilevanti le considerazioni di G. Conso, Le Corti Penali
Internazionali, in G.M. Cazzaniga (a cura di), Metamorfosi della sovranità, cit., pp. 51–59,
a p. 55: «[i]l settore penale è considerato da sempre la massima espressione della sovranità
in ambito giudiziario. Anche là dove vi è monarchia assoluta o popolo sovrano, la porzione
più forte della sovranità è vista in quella esercitata attraverso i tribunali penali: infliggere
pene, soprattutto infliggere la pena di morte. L’ergastolo, la reclusione è qualcosa di molto
più forte di ogni altra sanzione, di ogni altra tassazione, di ogni altra prescrizione, toccando
nel vivo la persona umana. È quindi il massimo di espressione della sovranità»; ove il medesimo autore poche pagine prima aveva scritto: «[l]a sovranità è nozione che induce a
pensare […] al sovrano, beninteso non ad un sovrano come l’attuale re di Spagna o l’attuale
regina d’Inghilterra, ma al monarca assoluto […] ad un Nerone o se preferite a un Luigi XIV
e, peggio, ad un Hitler […] vale a dire, soggetto che detiene il potere, con la “P” maiuscola,
diciamo meglio che detiene la totalità del potere. Ma allora un soggetto, un organo, che di
potere ne abbia solo una parte, come appunto lo ha un tribunale, fornito per definizione del
solo potere giudiziario, può dirsi sovrano? Parrebbe proprio di no» (loc. ult. cit., ivi, p. 52).
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
79
ro eventuale sospensione in situazioni di necessità ed urgenza, ma
senza dubbio, a nostro avviso, ci aiuta a comprendere come lo Stato
contemporaneo153 abbia profondamente modificato la propria fisionomia rispetto alla struttura piramidale al cui vertice era posto il monarca assoluto concepito come colui in cui la persona stessa dello Stato
era incarnata. Se ancora al tempo di Hegel aveva senso pensare alla
monarchia costituzionale come alla forma più perfetta di Stato quale
stadio finale in cui si sarebbero evolute le monarchie europee, il Novecento ha mostrato la fragilità della struttura monarchica quando essa
non poggi sul più largo consenso dei governati. Dalla fine dell’Ottocento e nel corso del Novecento assistiamo infatti alla deposizione di varie corone, più o meno illuminate: per es. quella francese,
quella asburgica, quella tedesca, quella russa, quella portoghese, quella italiana, quella turca, quella finlandese. Tutte queste maestà sono
state esiliate dal proprio Paese e allontanate dall’esercizio delle funzioni sovrane, ovvero sono state abbattute con la forza bruta di disordini a scopo di eversione, e in loro sostituzione è stata instaurata la
forma di governo repubblicana. I sovrani ancora rappresentativi di
Stati contemporanei ― per es. in Europa il Regno Unito, la Norvegia,
gli Stati del Benelux, la Spagna ― a seguito di svariate vicissitudini
hanno adottato un sistema ispirato ai valori del costituzionalismo.
Hanno accolto in altre parole il principio di divisione dei poteri i quali
vengono gestiti mediante sistemi di pesi e contrappesi e reciproci con-
153
Naturalmente parliamo dei sistemi più evoluti dal punto di vista del costituzionalismo
e del grado di democraticità, senza prendere in considerazione quegli ordinamenti tuttora caratterizzati da regimi dittatoriali. Questo non per l’assunto progressista di ispirazione hegeliana per cui lo Stato necessariamente debba evolversi in senso democratico e tale sviluppo non
conosca nel corso della storia della sua struttura drammatiche ricadute, ma perché pietra miliare nel processo evolutivo della compagine statale può essere considerato il momento in cui
i governati godono di diritti e possono liberamente scegliere un certo sistema politico, piuttosto che le instabili situazioni in cui chi si trova in condizione di maggior forza (numerica, economica, politica ecc.) esercita il potere senza godere del consenso di una parte considerevole dei governati. Tali situazioni in cui l’ordinamento giuridico è ricalcato sulla sproporzione
prodotta da rapporti di mero fatto sono destinate a un rapido superamento non appena vengano meno i presupposti contingenti su cui esse poggiano. Il potere sovrano concepito come dittatura, insomma, invece che riuscire ad assicurare la permanenza di un ordinamento giuridico,
finisce al contrario col minarne la stabilità.
Capitolo I
80
trolli ad opera degli organi costituzionali proprio al fine di evitare la
concentrazione delle funzioni statali in mano a uno solo154.
Con le considerazioni appena svolte non possiamo certamente escludere che gli organi costituzionali, mediante alcune riforme mirate
alla ricongiunzione dei poteri sovrani in un unico individuo, possano
riuscire in una certa congiuntura storica ad aggirare l’ostacolo principale all’esercizio dei poteri sovrani in maniera arbitraria, cioè il nucleo
dei diritti umani fondamentali attualmente sanciti dalla maggior parte
degli ordinamenti statali più evoluti. A una tale possibilità siamo sempre esposti, ma per ragioni di fatto, e non per una intrinseca natura
“sovrastrutturale” e “sradicata” del diritto rispetto all’essenza dell’uomo. Ciò che piuttosto vorremmo sottolineare è che nel presente
momento storico non è più concepibile l’equazione sovrano/Stato sovrano. Lo Stato è sovrano nel senso del diritto internazionale155, dunque dal punto di vista delle relazioni con altri Stati in condizioni di parità, ma ciò non significa che il potere statale all’interno dello Stato
venga gestito alla maniera dei sovrani assoluti di qualche secolo fa. A
livello nazionale non soltanto lo Stato contemporaneo nella sua forma
più avanzata è solitamente organizzato secondo al principio della divisione dei poteri fra tre tipologie di organi che esercitano rispettivamente i compiti legislativi, esecutivi e giudiziari, ma anche l’attività di
imperio statale è parcellizzata nelle mani di una miriade di funzionari
che rendono possibile il funzionamento della macchina statale. Tutti
gli individui incardinati all’interno degli enti pubblici esercitano sì un
pubblico potere, ma secondo una modalità per così dire frantumata,
giacché l’esercizio di tale potere da parte di ciascun funzionario è in
linea di massima soggetto a controlli da parte di organi ulteriori o funzionari ulteriori. È l’estrema complessità dell’organizzazione statale,
la capillarità con cui sono enunciati i diritti e i poteri delle persone
modulati a seconda delle situazioni a rendere in concreto difficile la
154
Pertanto né la regina Elisabetta II d’Inghilterra, né il re Juan Carlos di Spagna possono
paragonarsi, per il tipo di poteri di cui godono, ai sovrani assoluti di alcuni secoli fa. Essi contribuiscono all’andamento della cosa pubblica assieme ad altri organi costituzionali, pur mantenendo funzioni rappresentative e una posizione prestigiosa dal punto di vista della tradizione
storica. Cfr. sul punto le osservazioni, non prive di una dose di ironia, di P. Biscaretti di Ruffìa, Istituzioni di diritto costituzionale comparato, cit., p. 111.
155
Vedremo più avanti in che senso: infra, capitolo III, par. 3.2, p. 200 ss.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
81
possibilità di configurare la declaratoria dello stato di eccezione accompagnata dalla totale eclissi dell’ordinamento statale concepito come apparato complesso. È l’insieme di tutte queste competenze, la loro organizzazione in unità conformemente alla legge fondamentale, a
consentire uno sguardo unitario e finale sul fenomeno di aggregazione
che costituisce lo Stato contemporaneo. Per la complessità strutturale
che compone lo Stato al suo interno, è attualmente difficile immaginare sia l’agglutinarsi delle prerogative sovrane in capo a un unico individuo, sia che tale agglutinarsi costituisca il rovescio della medaglia
del fenomeno giuridico, il suo fondamento e la sua scaturigine.
In altri termini, nel nostro tempo storico in linea di massima “Stato
sovrano” non coincide con “sovrano assoluto”, e ciò tanto dal punto di
vista del diritto interno, quanto dal punto di vista del diritto internazionale.
Dal punto di vista del diritto interno abbiamo assistito storicamente
all’abbandono dei fondamenti teorici dell’assolutismo in favore del
principio della divisione dei poteri. Anzi, possiamo affermare che gli
Stati più progrediti dal punto di vista dei valori democratici hanno così
largamente accolto il principio della divisione dei poteri tanto da non
essersi limitati a una divisione “per tre” fra organi legislativi, esecutivi, giudiziari, bensì si sono spinti sino a operare una frammentazione
ulteriore di ciascun potere fra organi di natura diversa, producendo organi dotati di competenze assai circoscritte e talora di carattere ibrido.
Si pensi per es. alla potestà regolamentare dei dicasteri. Da un lato
ciascun ministro adotta regolamenti nel settore di materie di propria
competenza (cfr. l’art. 17 della legge n. 400 del 23 agosto 1988): pertanto, l’ambito oggettivo del reglamento incontra limiti sostanziali
conformemente al settore di competenza del ministro. Dall’altro lato,
sebbene si tratti di una fonte di produzione di grado inferiore rispetto
alla legge cui deve esser conforme, il regolamento costituisce in ogni
caso esercizio della potestà normativa che, secondo il principio della
divisione dei poteri classicamente intesa, dovrebbe esser riservata
all’organo assembleare. Nel caso dei regolamenti ministeriali si tratta
di vere e proprie fonti di diritto promananti da organi dell’esecutivo,
pur nel rispetto delle leggi parlamentari156.
156
Tale fenomeno non va considerato come indicativo di una “pienezza” dei poteri sovra-
82
Capitolo I
Si pensi poi alle pronunce della Corte costituzionale le quali possono cassare ogni disposizione di legge contraria alla Costituzione con
efficacia vincolante al pari di una legge abrogativa approvata in Parlamento: in questo caso ci troviamo davanti a un organo giurisdizionale (anzi, al sommo organo giurisdizionale nel nostro ordinamento) che
però svolge una funzione legislativa vera e propria. Pensiamo ancora
al verbale non impugnato di una banale multa per infrazione al codice
della strada: riguardo alla multa in sé, si tratta di un atto amministrativo, adottato da organi (per es. i vigili urbani) incardinati nel potere esecutivo. Tale atto però, non impugnato entro il termine perentorio di
sessanta giorni dalla notifica, diviene automaticamente titolo esecutivo
al pari di una sentenza passata in giudicato, senza che per ciò la pubblica amministrazione debba promuovere un processo davanti a un
giudice157. Pensiamo anche al nostro Parlamento che, oltre a promulgare le leggi per la Repubblica (attività legislativa), ne elegge il Presidente, nomina un certo numero dei giudici della Corte costituzionale
(attività quasi–amministrativa), giudica il Capo dello Stato in caso di
alto tradimento o attentato alla costituzione (attività giudicante).
Questo tratto ibrido che caratterizza l’attività ordinaria di alcune
potestà pubbliche non ha nulla a che vedere con la supposta riunificani in capo all’esecutivo, perché, piuttosto, esso semplicemente va incontro alle diverse esigenze organizzative ed esecutive dei singoli ministeri. L’autonomia regolamentare di questi enti
pubblici può meglio realizzare i canoni di efficienza dell’azione della pubblica amministrazione. Esempi di questa potestà normativa del governo possono essere regolamenti con cui
viene disposta l’attuazione di leggi generali, o di atti dell’Unione europea ovvero regolamenti
che vengono adottati nel quadro della cd. delegificazione. La delegificazione, disposta con la
legge n. 400 del 1988 (su cui avremo modo di tornare infra, capitolo II, par. 8), consiste nella
possibilità che in materie non coperte da riserva assoluta di legge (nelle quali la potestà normativa spetta in via esclusiva all’organo legislativo) il Parlamento deleghi al Governo il compito di emanare regolamenti di specificazione di principi legislativi enunciati in via generale,
disponendo l’abrogazione delle norme vigenti dal momento dell’entrata in vigore di quelle regolamentari.
157
Cfr. l’art. 203 del cod. della strada. Dubitiamo che in questo caso si tratti di un meccanismo pienamente in linea con i principi costituzionali in materia di parità nelle posizioni fra
il singolo e la pubblica autorità. Tuttavia sinché la Corte costituzionale non si pronunci sul
punto, non possiamo che osservare l’esistenza nel nostro ordinamento di una simile procedura
e valutarla come l’espressione di una frantumazione infinitesima dei poteri statali di cui alcuni
frammenti, qualitativamente riconducibili a tipologie diverse di poteri, formano in certi settori
competenze ibride, caratterizzate cioè da tratti tipici del potere esecutivo cuciti insieme a elementi di potestà normativa, aggregati a funzioni per alcuni versi analoghe a quelle giurisdizionali.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
83
zione dei poteri sovrani in capo a un unico individuo in stato di eccezione. La frantumazione della pubblica potestà è al momento e ordinariamente così articolata che soltanto assai difficilmente una situazione eccezionale consentirebbe a un individuo unico di esercitare un
controllo tanto esteso su tutta la compagine statale. Chi attualmente
esercita funzioni pubbliche possiede un potere troppo esiguo, troppo
specifico perché una situazione eccezionale possa agevolmente consentirgli di raccogliere rapidamente in sé il potere sovrano nella pienezza con cui esso veniva inteso all’epoca delle monarchie assolute.
Chi gode infatti nel nostro Paese, considerato come archetipo di ordinamento giuridico abbastanza evoluto, di poteri sufficientemente ampi
e legibus soluti da poter rapidamente produrre una sospensione della
vigenza delle istituzioni democratiche in quanto tali? Gli organi previsti dalla nostra Costituzione, pur senza incarnare un sistema perfetto,
sono assoggettati a una disciplina ispirata al tentativo di instaurare un
meccanismo di reciproci controlli proprio al fine di evitare l’insorgere
di abusi ovvero il consolidarsi di poteri troppo vasti e indeterminati in
capo a un unico organo o individuo. Come vedremo più dettagliatamente nel capitolo seguente, anche i poteri governativi di legificazione
in presenza di casi di necessità e urgenza sono ben lungi dall’incarnare
quell’indeterminatezza del potere nella quale secondo taluni autori sarebbe da ravvisare una manifestazione del potere sovrano così come
inteso nel periodo dell’assolutismo158.
Con ciò non vogliamo certo ingenuamente sostenere che il pericolo
di un ripristino di un regime dittatoriale mediante il ricorso al meccanismo dell’eccezione sia definitivamente scongiurato. Purtroppo un
pericolo di questo genere si annida nelle stesse vicende dell’uomo,
come mostra senza equivoci la sua storia sanguinosa. Vorremmo soltanto attirare l’attenzione su ciò, e cioè che le situazioni in cui vi è stata una prevaricazione del potere in dispregio dei diritti delle persone
sono situazioni di fatto, non di diritto, e sono soggette alla contingenza
che riguarda i fatti, nel senso che durano sinché la maggior forza (fisica, militare, economica, politica) di chi le domina riesce a resistere.
Tali situazioni non costituiscono la scaturigine del diritto, ma ne rap158
In tal senso v. invece G. Agamben, Stato di eccezione, cit., pp. 14–15 e 28. Per la discussione di questo aspetto v. infra, capitolo II, par. 2.2, p. 102 ss.
Capitolo I
84
presentano meramente la violazione. Controprova di quanto affermiamo è che tanto più aspri e ingiustificati sono i soprusi dell’autorità,
tanto più accurata è, a vicende concluse, la posizione di un nuovo ordine giuridico che serva, sotto questo profilo, da protezione per il futuro. L’evoluzione degli ordinamenti giuridici sta a significare ciò, proprio nel senso che a ciò allude, fa segno. Lungi dall’aver annullato definitivamente il fenomeno giuridico, le situazioni di cattiva gestione
della pienezza del potere sovrano hanno prodotto l’effetto di rafforzare
l’esigenza che i diritti vengano rispettati159.
Con quanto affermato sinora, vorremmo insomma sottolineare che
uno dei motivi per cui la dottrina dello stato di eccezione non riesce a
convincere né a descrivere adeguatamente il rapporto fra diritto e politica nello Stato contemporaneo è che lo Stato contemporaneo sta progressivamente abbandonando ― auspichiamo definitivamente ― la
forma di governo tipica delle monarchie assolute per esser concepito
come Stato–apparato, formato da una miriade di uffici e funzioni che
esercitano il potere autoritativo come spezzettato in maniera capillare,
articolata, garantita, dal punto di vista del rispetto delle situazioni giuridiche dei singoli, mediante una pluralità di meccanismi di tutela dei
diritti, esperibili in sede giudiziale e in molti casi anche extragiudiziale. In altre parole, non vi è più coincidenza ― se mai vi è stata ― fra
la modalità in cui nello Stato contemporaneo il potere sovrano viene
esercitato e la modalità in cui il medesimo potere sovrano veniva esercitato dal monarca assoluto. Insomma, il concetto di Stato sovrano nel
mondo contemporaneo non coincide con il concetto di “sovrano” quale singolo individuo dotato di pieni poteri, di cui pure la storia ci ha
offerto numerosi esempi160.
159
Non è un caso che per es. le più importanti elencazioni dei diritti della persona siano
state proclamate all’indomani di vicende assai drammatiche: si pensi alla prima Dichiarazione
sui diritti dell’uomo e del cittadino adottata durante la rivoluzione francese e alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo poco tempo dopo la fine del secondo conflitto mondiale.
160
Nel medesimo senso cfr. per es. C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 383.
Che debba registrarsi ormai un abbandono della nozione di sovranità assoluta è la tesi portante dello studio di A. Bolaffi, Il crepuscolo della sovranità. Filosofia e politica nella Germania
del Novecento, Donzelli, Roma 2002; nonché di A.S. Spadoni, Nomos e tecnica. Ragion strategica e pensiero filosofico–giuridico nell’ordinamento dei grandi spazi, Edizioni Scientifiche
Italiane, Napoli 2005, p. 71.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
85
Alla medesima conclusione deve giungersi a nostro avviso osservando il fenomeno Stato dal punto di vista del diritto internazionale. I soggetti destinatari delle norme dell’ordinamento internazionale sono infatti gli Stati sovrani, ma “sovrani” non significa
“sovrani assoluti”161. Il diritto internazionale anzi tiene in massimo
conto l’evoluzione subita dalla struttura statale e richiede, al fine di
poter considerare un certo Stato come soggetto di diritto, che questo possegga non soltanto la “sovranità”, concepita unicamente come “indipendenza”162, ma anche che sia dotato di un minimo di organizzazione. È lo Stato inteso come apparato a esser considerato
come il soggetto di situazioni giuridiche (diritti, obblighi, facoltà)
previste dal diritto internazionale, e ciò in quanto il diritto che regola i rapporti fra gli Stati è diritto fra “potenze”163. Gli Stati sono
potenti in quanto posseggono una struttura, un apparato organizzativo che li metta in grado di porsi in posizione di indipendenza reciproca164. Il requisito dell’organizzazione è essenziale nel diritto
161
V. H. Kelsen, Das Problem der Souveränität, cit., p. 47 ss.
Sul modo di intendere la sovranità nel diritto internazionale v. infra, capitolo III,
par. 3.2.
163
Cfr. G. Arangio–Ruiz, Diritto internazionale e personalità giuridica, cit., p. 52 s.
164
Cfr. G. Arangio–Ruiz, Diritto internazionale e personalità giuridica, cit., p. 56. Lo
Stato concepito come Stato–apparato è anche presupposto fattuale di talune norme del diritto
internazionale generale. Pensiamo per es. alla regola del cd. previo esaurimento dei ricorsi interni. In base a questa norma, la responsabilità internazionale dello Stato sorge non per il fatto
di un solo funzionario statale che abbia agito in contrasto con il diritto internazionale, per es.
disapplicando nei confronti di una persona un diritto fondamentale che avrebbe dovuto invece
applicare conformemente agli obblighi di diritto internazionale consuetudinario o pattizio,
bensì soltanto dopo che l’organizzazione statale nel suo complesso ha manifestato l’intenzione di far proprio il comportamento lesivo in questione a seguito dell’esaurimento di tutte le
vie previste dall’ordinamento per ottenere la corretta e legittima applicazione del diritto. Presupposto di una simile regola è che lo Stato come sovrano non coincida con un unico individuo dotato di poteri assoluti, ma che l’autorità statale venga gestita in modo frantumato ad
opera di individui differenti in grado di controllare, in vario grado e su vari piani (per es. sotto
il profilo di un riesame dei fatti, come nel caso del giudizio d’appello, ovvero sotto il profilo
della mera legittimità, come nel caso del giudizio di cassazione), la corretta applicazione delle
norme. Sul previo esaurimento dei ricorsi interni nel diritto internazionale v. R. Ago, La regola del previo esaurimento dei ricorsi interni in tema di responsabilità internazionale, Cedam,
Padova 1938 (estratto da Archivio di diritto pubblico, vol. 3, 1938, fasc. 2); G. Gaja,
L’esaurimento dei ricorsi interni nel diritto internazionale, Giuffrè, Milano 1967; K. Doering,
Local Remedies, Exhaustion of, in R. Bernhardt (a cura di), Encyclopedia of Public International Law (EPIL), Elsevier Science, Amsterdam, London, New York, Tokyo, vol. III, 1997,
p. 238 ss.; J. Kokott, «Interim Report on The Exhaustion of Local Remedies», in International
162
86
Capitolo I
internazionale attuale giacché esso determina la “quantità” della
potenza. Un singolo individuo in quanto tale, come potrebbe essere
il monarca assoluto, farebbe fatica, nel mondo contemporaneo, a
guadagnare una posizione di “potenza” in condizioni di parità con
gli altri Stati in quanto invece dotati di organizzazione. Diverso è
naturalmente il caso del capo dello Stato–apparato che eserciti il
proprio potere in maniera dispotica, avvalendosi della pienezza del
potere sovrano, per esempio a seguito di golpe. Ciò è avvenuto e
avviene ancora nel nostro tempo storico, ma da un lato si verifica
quasi a dimostrare che il concetto di Stato sovrano è lo Stato apparato e non il monarca assoluto165 e dall’altro lato stiamo assistendo
proprio negli ultimi anni ad alcuni episodi che sembrerebbero avvalorare la tesi dell’attuale genesi di una norma internazionale consuetudinaria la quale imporrebbe agli Stati l’obbligo di evolvere
verso strutture politiche democratiche166. In tal senso possiamo ricordare per es. la risoluzione del Consiglio per la sicurezza delle
Nazioni Unite con cui sono state imposte alcune misure nei riguardi
di Haiti al fine di destabilizzare il governo insediatosi dopo il colpo
di stato167. Anche la creazione di uno Stato iracheno una volta smantellato il regime di Saddam Hussein dovrebbe avere come principale finalità l’istituzione di una struttura statale fondata sulla democrazia. Analogo scopo vorrebbero avere le misure armate con cui
alcune fra le potenze occidentali hanno deciso di occupare
l’Afghanistan. Vero è che tutti questi casi per altro verso hanno determinato l’adozione di misure non conformi al diritto internazionale, ma ciò che qui importa è che a prescindere dalla modalità illecita della conduzione di tali misure o dai relativi fondamenti giuridiLaw Association, Report of the 69th Conference, London 2000, pp. 606–630.
165
Proprio in quanto per considerarsi “sovrano”, cioè “indipendente” ai fini del diritto internazionale, anche chi esercita un potere dittatoriale ha bisogno di poter disporre al proprio
comando di una struttura organizzata per poter esser considerato “potenza” e guadagnare così
lo status di soggetto internazionale.
166
«Tendenze recenti sembrano condizionare l’autodeterminazione, o meglio, l’atteggiamento di altri Stati nei confronti di essa, a ciò che il nuovo Stato in formazione segua
principi democratici, in particolare assicuri la tenuta di libere elezioni e il rispetto dei diritti
umani. [Tali tendenze incidono] soprattutto, sulla cd. “autodeterminazione interna”, relativa
all’assetto interno dei singoli Stati» (così T. Treves, Diritto internazionale, cit., p. 175).
167
Cfr. la risoluzione del Consiglio per la sicurezza n. 940 del 31 luglio 1994.
Alcuni punti nevralgici della teoria dello stato di eccezione
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ci, il loro fine non sembra di per sé considerato illecito dal diritto
internazionale. Sotto questo profilo i casi ricordati sono rivelatori
di una tendenza che forse, in un futuro non molto lontano, sarà consolidata nella regola in base alla quale il diritto internazionale obbligherà i destinatari delle proprie norme a possedere sistemi interni ispirati a valori democratici168.
Se in qualche modo può rilevarsi una tendenza del genere, nel
medesimo solco sembra doversi inscrivere la lecita attività delle
forze di peace–keeping svoltasi per es. in Nicaragua nel 1989 e in
Cambogia nel 1993, attività consistente nell’assistenza e nel monitoraggio allo svolgimento di libere elezioni in quegli Stati169. Più o
meno a questo stesso periodo risale la creazione dell’Ufficio per le
libere elezioni istituito in seno alla Conferenza sulla sicurezza e la
cooperazione in Europa (CSCE) mediante la Carta di Parigi del
1990170. Più in generale sulla questione della democrazia può ricordarsi anche il Documento della CSCE adottato durante la riunione
di Copenaghen il 29 giugno 1990, il quale costituisce uno degli atti
internazionali più importanti a favore del valore della democrazia
all’interno degli Stati171.
Riservandoci di esaminare più avanti il funzionamento dei meccanismi dell’eccezione nella società degli Stati sovrani, possiamo
dunque provvisoriamente concludere che anche a livello del diritto
internazionale il concetto attuale di Stato sovrano non coincide con
il concetto di “sovrano assoluto” come tipologia di regime nazionale.
D’altronde, come è stato osservato da qualche studioso sia in
termini generali172, sia a proposito del concetto di sovranità elabora168
Tant’è che le stesse operazioni di peace–keeping nel tempo si sono evolute dal mero
“mantenimento della pace” al peace–building e al peace enforcement, sino al democracy–
building.
169
Cfr. le risoluzioni del Consiglio per la sicurezza n. 637 del 27 luglio 1989 (sulla situazione in Nicaragua) e nn. 745 del 28 febbraio 1992 e 880 del 4 novembre 1993 (sulle elezioni
in Cambogia).
170
Testo disponibile in International Legal Materials (ILM), 1991, pp. 190–238. In rete il testo
è reperibile in lingua italiana al sito: http://www.osce.org/documents/mcs/1990/11/4045_it.pdf.
171
Testo disponibile in ILM, 1990, pp. 1305–1321; il testo in lingua italiana può
trovarsi on–line al sito: http://www.regione.taa.it/biblioteca/normativa/Org_internazionali/Osce/
Copenaghen%201990.pdf.
172
Così G. Jellinek, Allgemeine Staatslehre, cit., p. 486, il quale molto chiaramente af-
88
Capitolo I
to da Bodin, lo Stato assoluto è un prodotto storico e pertanto transeunte173. Per Jean Bodin l’assolutezza (e la conseguente indivisibilità) del potere può esser ricavata in maniera analitica dal concetto
di potere stesso174. Tuttavia, per quanto Bodin interpretasse il potere
sovrano così concepito come potere essenzialmente inalienabile175,
in realtà il potere assoluto così inteso non incarna l’unica modalità
“piena” e “autentica” di potere autoritativo che possa darsi: la stessa norma dell’inalienabilità della sovranità viene invece intesa in
altri periodi storici, per es. in epoca medievale, in modo molto più
ambiguo:
[i]n principle at least, the only valid exceptions to the rule were grants of
authority and privilege that did not seriously impair the basic set of powers which each incumbent ruler was bound to pass to his successor. But
the actual application of this rule was loose. In order to account for the
decentralized organization of the medieval Empire, the legal commentators had devised all manner of ingenious formulae by which they could
acknowledge almost any alienation or prescription of the Emperor’s authority while still maintaining that imperial unity was somehow unimpaired176.
L’osservazione appena riportata mette in evidenza come non vi
sia stata un’unica modalità di intendere il potere pubblico. Indubbiamente vi è stato un periodo storico in cui il potere sovrano è stato concepito come assoluto e inalienabile, ma questa tesi interpretativa mal si attaglia a descrivere adeguatamente il concetto di Stato e
di potere pubblico nel nostro tempo. Nei capitoli successivi vedreferma: «[d]ie Souveränetät [ist] kein wesentliches Merkmal der Staatsgewalt».
173
J.H. Franklin, Jean Bodin and the Rise of Absolutist Theory, cit., p. 26 ss.
174
J.H. Franklin, Jean Bodin and the Rise of Absolutist Theory, cit., p. 23.
175
Cfr. J.H. Franklin, Jean Bodin and the Rise of Absolutist Theory, cit., pp. 23–24, dove
l’autore sostiene che la concezione assolutista del potere formulata da Bodin deriva dallo studio dell’inalienabilità della sovranità nel diritto romano.
176
J.H. Franklin, Jean Bodin and the Rise of Absolutist Theory, cit., p. 24. Non è inoltre
inopportuno ricordare come sia lo stesso Bodin a osservare che in certi sistemi politici la sovranità non si è manifestata nella forma assoluta da lui teorizzata. A titolo di esempio Bodin
(Les six Livres de la Republique, cit., p. 125) richiama l’esperienza degli arconti della Grecia
antica, che sarebbero sommi “magistrati”, ma non “principi” e neppure “sovrani”, giacché il
loro potere troverebbe un limite temporale, mentre per Bodin, come già accennato, il potere
sovrano va concepito come perpetuo (ivi, p. 122 ss.).
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