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L`IDENTITA` ESSENZIALE DI SATANA E BUDDHA Miei Carissimi

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L`IDENTITA` ESSENZIALE DI SATANA E BUDDHA Miei Carissimi
L’IDENTITA’ ESSENZIALE DI SATANA E BUDDHA
Miei Carissimi Amici,
coniugare due figure così antitetiche, come Satana (indiscusso rappresentante del male assoluto) e Buddha
(per molti, emblema del bene assoluto), potrebbe apparire alla coscienza di qualcuno di noi blasfemo, o
comunque un’intollerabile, quanto ingiustificata, provocazione.
Lungi dall’avere anche solo lontanamente intenzioni di questo tipo, la correlazione tra le due figure mi si è
imposta nella notte tra il 23 e il 24 novembre 2013 con l’indiscutibile evidenza di un’intuizione. Satana e
Buddha sono il diverso nome che lo stesso principio “divino” assume a seconda della “direzione” nella
quale agisce: l’essenza di tale principio è il “NO”, e la sua azione consiste nella «negazione».
Che Satana sia la negazione “in persona” non ci sono dubbi, tant’è che Goethe, nel Faust (verso 1338), non
trova altro miglior modo che questo, per consentire a Mefistofele (denominazione di una specifica funzione
di Satana, come sarà spiegato più avanti) di dichiarare la sua vera identità: «Ich bin der Geist, der stets
verneint» (“Io sono lo spirito, che sempre nega”). In particolare, ciò che Satana nega – o meglio, ciò che
viene negato dalla negazione cui la tradizione dà nome di Satana – è Dio.
Ma cosa significa, in concreto, negare Dio? Significa negare tutti gli attributi che appartengono alla realtà
che viene chiamata Dio, e pertanto: l’eternità, l’immaterialità – e di conseguenza l’“aspazialità –
l’“onnipotenza”, ossia l’essere all’origine dell’universo, l’univoca identità con Se Stesso. Negare una realtà
con questi attributi significa, concretamente, essere coscienti di una realtà con attributi diametralmente
opposti: quindi, una realtà che si manifesta come costituita da materia incomprimibile, occupante perciò
uno spazio; una realtà connotata dal divenire (ossia, dall’apparire/nascere e dallo scomparire/morire delle
cose); una realtà limitata, imperfetta, relativa, molteplice, dove l’identità continuamente svanisce
nell’allucinante succedersi di forme effimere, sempre cangianti.
Negare Dio significa, dunque, in concreto, vedere la realtà quale si presenta ai nostri occhi: ovvero, come
“māyā” o “saṃsāra”, per dirla con le parole di Buddha; vale a dire, come mondo del “fluire insieme delle
cose che hanno una misura”. Māyā, infatti, significa letteralmente, secondo l’interpretazione che ne dà
Franco Rendich, “andare (yā) di ciò che è misurabile (mā),” mentre saṃsāra significa “scorrere (sāra)
insieme (saṃ)”.
Ma se Satana è la negazione di Dio che porta alla luce un mondo di forme evanescenti, che cos’è, nella sua
essenza, Buddha, se non proprio la negazione di tale mondo? E’ fuori discussione, infatti, che la via del
Buddha è intesa a portare al “nirvāṇa”, ossia esattamente alla condizione opposta al saṃsāra. Questo
risultato si ottiene, come indica esplicitamente la stessa parola nirvāṇa, tramite la negazione di tale mondo:
negando, cioè, a tale mondo valore di realtà (da cui, la considerazione buddhista del saṃsāra come
“mondo delle illusioni”). Il termine sanscrito nirvāṇa si compone, infatti, di due parti, di cui la prima – «nir»
– esprime propriamente negazione: talché, nirvāṇa è letteralmente la «negazione del “vāna”». Sempre
secondo la ricostruzione etimologica formulata da Franco Rendich, la radice sanscrita “van” esprime la
“separazione (“v”) dall’energia vitale (“an”), cosicché nirvāṇa è lo “stato in cui NON si è separati
dall’energia vitale (Dio)”, ovvero da ciò per cui NON valgono le categorie che valgono nel mondo delle
illusioni.
Il Buddha, di conseguenza, è la negazione della “separazione da Dio” generata dalla negazione “satanica” di
Dio. In particolare, Buddha è la negazione della negazione in cui Satana consiste, e proprio perciò esso
rappresenta la via che riconduce a quello stato originario nel quale l’energia originaria (“an”, o Dio) NON è
(illusoriamente) separata da se stessa: “an”, cioè, torna ad essere consapevole di essere “an”, e non vede
più se stessa come “van” (vale a dire, “da un punto esterno a se stessa”).
Satana e Buddha condividono, pertanto, la stessa “essenza”, che è la «negazione». Entrambi sono, cioè,
negazione: l’unica differenza tra loro consiste nel diverso “oggetto” verso il quale l’identica funzione che
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essi sono, e svolgono, viene esercitata. E ancor più precisamente, si può dire che Satana e Buddha sono i
due diversi nomi che la stessa funzione divina (la negazione) assume, a seconda dell’oggetto verso il quale è
esercitata: Satana è il nome che la negazione assume, quando Dio nega Se Stesso; Buddha è il nome che
essa assume, quando Dio nega Satana, ovvero la negazione di Se Stesso.
Ora, mi rendo perfettamente conto che l’affermazione secondo la quale Dio nega Se Stesso, finendo per
svolgere la funzione di Satana, può oltremodo ferire la sensibilità di moltissimi miei simili. Ma, ancora una
volta, ciò è quanto di più lontano si possa immaginare dalle mie intenzioni. Dio, in verità, NON è né Satana,
né Buddha, ma ha in Sé il potere di negare. E necessariamente, ce l’ha: non l’avesse, non sarebbe
onnipotente, cioè non sarebbe Dio; ovvero, Dio non esisterebbe. Dio, invece, esiste (dal momento che se
non esistesse, non esisterebbe nulla); e poiché esiste, ed è Dio, ha, insieme a tutti gli altri, anche l’immenso
potere di negare: potere, che dapprima non può che esercitare verso Se Stesso, non esistendo altro
all’infuori di Sé (se infatti esistesse un essere che non fosse Dio, Dio non sarebbe Dio: vale a dire, ancora
una volta, Dio non esisterebbe).
Ma se Dio NON è Satana, né Buddha – essendo Satana e Buddha soltanto i diversi nomi che un Suo
medesimo potere (il potere di negare) assume a seconda dell’oggetto verso il quale è esercitato – che cos’è
Dio? Evidentemente, Dio è una realtà che rimane – e deve rimanere – identica a se stessa, qualunque sia il
potere esercitato. A questo riguardo, non trovo migliore definizione che quella che il padre della
psicosintesi, Roberto Assagioli, ha dato dell’uomo: «centro di volontà e autocoscienza». Ora, se l’uomo è
stato creato da Dio a Sua immagine e somiglianza, come si dice nella Genesi, ciò significa che Dio Stesso è
un “centro di volontà e autocoscienza”. E, in effetti, qualunque sia il potere che Dio esercita, foss’anche
quello della negazione (tramite il quale Esso vede Se Stesso per come non è), Dio resta comunque un
“centro di volontà e autocoscienza”: se nega, infatti, è perché vuole negare; inoltre, sia che abbia perfetta
coscienza di Sé, sia che abbia una coscienza di Sé alterata dalla negazione “satanica” di Se Stesso, resta il
fatto che Dio è, in ogni caso, coscienza di Se Stesso – vale a dire, “autocoscienza”.
Per quanto seducenti possano apparire alla nostra logica queste argomentazioni, l’idea che Dio possa
negare Se Stesso, svolgendo di conseguenza la funzione che la tradizione ascrive a un soggetto distinto, ed
anzi, opposto a Esso, quale è Satana, stride con la nostra sensibilità, che su tale tradizione si è formata.
Eppure, che Dio debba negare Se Stesso, è inevitabile, una volta che si ammette che Esso sia dotato di
volontà. L’esistenza della volontà è infatti possibile, soltanto a condizione che il contenuto della volontà non
sia ancora realizzato, non sia ancora presente: in altre parole, manchi (una volontà senza contenuto è infatti
assenza di volontà). Ora, poiché Dio non può, in Sé, mancare di nulla, è inevitabile che per poter sorgere in
Lui una volontà – per esempio, la volontà di creare – è necessario che Esso neghi una parte di Sé Stesso, in
modo tale da poter volere realizzare ciò di cui la Sua coscienza avverte la mancanza (la parte negata di Se
Stesso/Se Stessa).
Che sia necessario che Dio abbia il potere di negare Se Stesso – e quindi, a maggior ragione, la negazione di
Sé – deriva poi inevitabilmente dall’ammissione che Esso sia il Creatore dell’universo. E’ evidente, infatti,
che, per creare, Dio debba negare l’identità fra Se Stesso e il creato: debba negare, cioè, la Sua presenza
nello “spazio” riservato al creato (vale a dire, a ciò che Esso NON è, perché se lo fosse, il creato finirebbe
per essere Dio Stesso, risultando così non creato – visto che Dio è, per definizione, non creato). Ma se il
creato NON è Dio, significa che è la Sua negazione: cioè, Satana. E l’evidenza della nostra esperienza ce lo
conferma, dal momento che fra gli attributi di Dio vi è la Bontà assoluta, mentre nel creato, accanto al
bene, si staglia il male.
A questo proposito, vale rilevare che la negazione del Bene assoluto (Dio) non implica necessariamente
l’esistenza del Male assoluto: è sufficiente l’inesistenza del Bene assoluto, e quindi anche la semplice
esistenza di un “Bene parziale” – un Bene, cioè, limitato dalla presenza del Male (anch’esso, perciò,
necessariamente limitato).
D’altra parte, il Male assoluto è impossibile, poiché è impossibile la negazione assoluta. La negazione,
infatti, per poter essere, necessita quanto meno della propria esistenza, che pertanto essa non deve, né
può, negare: ma ciò significa che la negazione ha sempre un limite, che è l’impossibilità di negare se stessa,
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poiché se lo facesse, finirebbe per non essere più negazione. La negazione, di conseguenza, è, e può essere,
soltanto relativa – al contrario dell’affermazione, che invece può essere assoluta, poiché la sua natura non
è in contraddizione con se stessa: dal momento che l’affermazione asserisce l’esistenza, essa è coerente in
primo luogo con l’affermazione della sua stessa esistenza.
Da queste considerazioni emerge, dunque, che la negazione non può che scaturire da alcunché di esistente,
poiché “assoluta” – vale a dire, senza un fondamento esterno a se stessa – non può esistere. Di qui, la
necessità che la negazione sia una proprietà intrinseca a Dio, che è l’essere per eccellenza.
E ancora, che il male sia negazione, e non possa che essere negazione, deriva dal fatto che il concetto
stesso di male contiene in sé un’idea di “avaria, carenza, difetto”, che rinvia necessariamente a un termine
di paragone perfetto, rispetto al quale l’avaria, la carenza o il difetto possa emergere ed essere così rilevato.
La perfetta identità di un essere con se stesso non può in alcun modo essere ricompresa nel concetto di
male: talché, il male non può esistere in termini assoluti, perché, se così fosse, esso realizzerebbe una
perfetta identità con se stesso che, come visto, fuoriesce dal campo di esistenza del male.
Il male, pertanto, è negazione, non soltanto perché, come questa, può esistere soltanto in termini relativi,
ma anche perché esso intrinsecamente implica la negazione di alcunché di definibile come bene – al pari
della negazione, che per esistere, deve presupporre, come minimo, la sua stessa esistenza, e di
conseguenza l’affermazione di questa (cosicché essa non è negazione assoluta, poiché non riesce ad essere,
anche, negazione di se stessa).
Per contro, il bene, oltre che in termini relativi, può esistere anche in termini assoluti, come perfetta
aderenza di un essere a se stesso (per esempio, Dio nella sua perfetta autocoscienza di Se Stesso come Dio).
Ma perché Dio deve necessariamente avere il potere di negare, per poter essere Dio? Innanzitutto, perché
senza tale potere, come già detto, non sarebbe onnipotente: potrebbe, cioè, soltanto “provare” ciò che
Esso è, ma non anche ciò che Esso non è; tramite il potere satanico dell’autonegazione, Dio può invece
provare che cosa significhi non essere Se Stesso. Certo, ciò non consente a Dio di non essere più Dio – vale
a dire, «autocoscienza»: tuttavia, nell’ambito di questo Suo immodificabile essere autocoscienza, Esso può
essere sia ciò che è (autocoscienza di ciò che in verità Esso è), sia ciò che non è (autocoscienza di ciò che
Esso in verità NON è). L’unico “limite” che Dio ha, è che non può non essere autocoscienza: non può
essere, cioè, assenza di autocoscienza. In altre parole, Dio è Dio e non può essere “Non-Dio” – vale a dire,
negazione di Sé. Dio, in altre parole, non può essere Satana: può, bensì, negare Se Stesso, ma senza
smettere perciò di continuare ad essere Se Stesso. Ed è proprio per questo motivo che la negazione di Dio è
illusione: perché Dio non smette di essere Se Stesso – cioè, autocoscienza – neanche quando ha coscienza
di Sé come della Sua negazione (di Se Stesso come Satana).
Ciò significa che, proprio in quanto ha il potere di negare, Dio è un essere infinito: un essere, cioè, che può
essere Se Stesso (pura autocoscienza di Sé, in quanto Dio) ed essere Non Se Stesso (autocoscienza alterata
di Sé come Satana).
Inoltre, proprio in virtù di tale potere, Dio può conoscere, ed essere così onnisciente. La conoscenza, infatti,
consiste nella capacità di distinguere il vero (“ciò che è”) dal falso (“ciò che non è”). Ora, se Dio non avesse
il potere di negare Se Stesso, acquisendo una coscienza di Sé come di Satana, non potrebbe avere alcuna
coscienza di ciò che è falso, e quindi, non potrebbe conoscere. Per altro, proprio il termine conoscere
implica l’esistenza di questa duplice coscienza: infatti, è composto dal prefisso “co” – che significa
«insieme», indicando così una molteplicità – e dalla radice greca νόος (nóos, genericamente traducibile con
“mente”). Dunque, conoscenza è il risultato derivante dal “mettere insieme” (a confronto) almeno due
“menti” (coscienze): la “coscienza di ciò che è” (perfetta autocoscienza di Dio) e la “coscienza di ciò che non
è” (autocoscienza alterata di Dio come negazione di Se Stesso).
Che Satana e Buddha siano, infine, forse i due nomi più adeguati per qualificare la duplice valenza del
potere divino di negare, si evince dal significato etimologico dei termini. Satana deriva dall’ebraico ‫ׂשטן‬
(Śāṭān), generalmente tradotto con «avversario», «accusatore», «oppositore»; il verbo corrispondente
significa «resistere», «avversare», «opporsi in giudizio». La sua radice è ‫( ׂשט‬Śeṭ), che significa «ribelle».
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Ora, considerato che l’essenza di qualsivoglia “opposizione, avversione o resistenza” è il «NO», e che la
negazione di Dio è essenzialmente un atto di «ribellione» – ovvero, di rivolta contro ciò che non può essere
controvertito, in quanto costituente l’innegabile verità – non solo appare lecito denominare Satana il
potere di Dio di negare Se Stesso, ma sembra anche che miglior nome non gli si possa attribuire.
E, analogamente, oltremodo adeguato appare il nome Buddha per denotare il potere divino di negare,
quando questo ha come oggetto Satana (ossia, la negazione di Dio). Il termine sanscrito «buddha» significa
letteralmente, secondo Franco Rendich, «che porta [h] energia [b] luminosa [d]»: vale a dire, in termini
latini, «lucifero» (“portatore di luce”). Considerato che Lucifero è il nome che la tradizione giudaicocristiana attribuisce a Satana prima che questi fosse espulso dal Cielo, non solo risulta corroborata anche
per questa via la congiunzione del nome Buddha con il nome Satana, ma risulta pure confermata l’identità
essenziale del contenuto espresso dai due termini: Buddha è lo stesso Satana – ovvero, negazione – prima
che esso si manifesti (come negazione di Dio).
Vale poi aggiungere che il “portare luce” implicato dal termine buddha è, più precisamente, un “portare alla
luce”, e quindi un passare dallo stato di oscurità a quello di luminosità. Ora, tenuto conto che
tradizionalmente Dio è considerato la Luce stessa, e che dunque Satana, la Sua negazione, non può essere
che l’Oscurità, Buddha non può essere altro che quella negazione dell’Oscurità che porta di nuovo
(“riporta”) alla Luce. Buddha non è, quindi, Luce esso stesso, bensì è la via che porta alla Luce e che, una
volta giuntavi, risulta necessariamente «illuminata». Tant’è, che proprio «illuminato» costituisce una delle
due traduzioni classiche del termine buddha, la seconda essendo «risvegliato»; un termine, anche questo,
che implica un ritorno a uno stato originario, che per qualche motivo è andato perso.
Per altro, questo termine deriva dalla radice «budh», che significa «conoscere». E, come si è detto, proprio
la conoscenza («buddhi», in sanscrito) è il risultato del confronto fra la “pura autocoscienza” di Dio e la Sua
“autocoscienza negata” (“satanizzata”). Si può quindi dire che Satana è la via tramite la quale Dio diventa
Buddha, ovvero “Colui che conosce la Luce”. Da uno stato di pura autocoscienza della propria Luce, nel
quale Dio può soltanto “avvertire” ciò che è, senza avere idea di cosa ciò significhi, poiché non ha ancora
provato l’esperienza del non essere Se Stesso, Dio, dopo l’uscita “fuori di Sé” permessa dalla negazione
satanica di Se Stesso, “ritorna in Sé”, tramite la negazione buddhica della Sua negazione satanica, colmo di
Conoscenza. In questo modo, non solo torna ad essere perfettamente autocosciente di Sé, ma, assieme a
questa autocoscienza, è anche pienamente consapevole di ciò che Esso non è, e quindi onnisciente. E ciò, in
virtù del tanto vituperato processo di negazione.
Ora, è chiaro che questo processo costi a Dio un immenso dolore – com’è logico attendersi dalla stessa
considerazione dell’assunto secondo cui Dio è la Gioia stessa. Tuttavia, è questa l’unica via che Dio ha a
disposizione per sviluppare la conoscenza, la cui essenza implica il confronto fra ciò che è e ciò che non è: e
se ciò che è, è gioia, ciò che non è, non può che essere dolore. Gioia e dolore costituiscono dunque i due
criteri essenziali di conoscenza: la gioia costituisce la prova della verità, mentre il dolore costituisce la
dimostrazione dell’errore. La conoscenza, pertanto, è il risultato dell’errare di Dio al di fuori di Sé – vale a
dire, nella negazione di Sé – e, proprio in quanto è ciò che alla fine risulta di tale errare, essa è ciò che gli
pone fine. Prodotto ultimo dell’errare, la conoscenza è ciò che pone fine all’errare stesso – come già sapeva
bene il grande poeta-filosofo greco, Eschilo, che nell’Agamennone (174-178) scrive: ζῆνα… τὸν πάθει μάθος
/ θέντα κυρίως ἔχειν (Zēna… tòn páthei máthos / thénta kuríōs échein: “Zeus, colui che ha stabilito che
l’apprendimento tenesse la parte di signore sul dolore” – vale a dire, prevalesse su di esso, dominandolo).
La negazione di Dio, da cui trae origine il Suo errare (“vagare fuori di Sé”), e dalla cui negazione sorge la
conoscenza (buddhi, μάθος/máthos), non è tuttavia soltanto dolore (ossia, in qualche modo, percezione
della “distanza” tra falsità e verità): è anche l’entusiasmante esperienza del diverso, del limitato, del
contatto fisico, dello scontro fra corpi, della possibile armonia e complementarietà dei differenti,
dell’incredibile scoperta dell’unità dietro la molteplice varietà delle forme. Negando Se Stesso, Dio scopre
orizzonti infiniti oltre Se Stesso, potendo così percepire la vita in modi che non avrebbe in alcun modo
potuto esperire, se fosse rimasto sempre perfettamente autocosciente. Negando Se Stesso, Dio si è
concesso il lusso, se così si può dire, di sperimentare la vita come cucciolo d’animale, come germoglio di un
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fiore o vecchio albero agli ultimi respiri; come roccia millenaria, mare in tempesta o ente degli abissi; come
vento, nuvole che si schiantano, sole che allucina, meteoriti impazzite che si dissolvono a folle velocità negli
spazi interstellari; come spazi interminati di là da una modesta siepe recanatese; come uomo torturato,
malato, folle; come estasi sublime dell’uomo in unione mistica con l’universo.
Questo è il prezioso dono che Dio fa a Se Stesso tramite Satana; dono, che giustifica le celebri parole che
Goethe mette in bocca a Mefistofele, altrimenti incomprensibili. Ai versi 1336-1337 del Faust, Goethe fa
dire a Mefistofele di essere «una parte di quella forza, che vuole sempre il male, e fa sempre il bene» (Ein
Teil von jener Kraft, / Die stets das Böse will, und stets das Gute schafft). In altre parole, Mefistofele è una
parte di quella Forza – qui denominata Satana e coincidente sostanzialmente con il potere divino di negare
– che vuole sempre il Male (vale a dire, negare Dio), ma che, ciononostante, non può che fare il Bene –
poiché dal Bene proviene, come riconosce poco più avanti lo stesso Goethe. Ai versi 1349-1350, infatti,
Mefistofele afferma: «Io sono una parte della parte [vale a dire, di quella parte di Dio, che è la Forza/Potere
di negare, ndv], che all’inizio fu tutto, / una parte della tenebra, che la luce generò» (Ich bin ein Teil des
Teils, der anfangs alles war, / Ein Teil der Finsternis, die sich das Licht gebar). Ora, la Luce non può generare
la Tenebra, se non negando Se Stessa; e la Tenebra, prima che sorgesse come negazione di Dio, non era
altro che Dio Stesso – vale a dire, Tutto.
Certo, Goethe non svela quale parte di Satana sia Mefistofele, quale specifica funzione esso svolga
nell’ambito della negazione di Dio nella quale Satana consiste: ma questo, in fondo, poco importa. E’ certo
che, in quanto parte di Satana, ne condivide l’attributo essenziale, che è quello di negare (“verneinen”) Dio:
poi, che il suo negare assuma caratteri speciali, che lo rendano distinguibile da altre forme della “generale”
negazione satanica, non ha importanza ai fini di questo discorso sulla negazione. Ciò che importa rilevare è
che anche un sapiente come Goethe – che non era un semplice letterato, come invece viene spacciato
dall’iconografia ufficiale – era giunto alle stesse conclusioni esposte in questa sede.
Tutto questo discorso perderebbe buona parte della sua utilità pratica, ai nostri fini di “frammenti”
dell’autocoscienza divina autonegata (cioè, “satanizzata”), se non ne traessimo conclusioni pratiche. In che
modo questa possibile, ed eventualmente anche plausibile, descrizione della nostra realtà, può tornarci
utile allo scopo di “migliorare” la nostra vita, nel senso di attenuare l’aspetto “satanico” che
inequivocabilmente si manifesta ai nostri occhi sotto forma di violenze, malattie, povertà – in una parola,
sofferenza e dolore (“pianto e stridor di denti”, per dirla con parole bibliche – Mt 14,30)?
E’ semplice: basta mettere in pratica la lezione principale indicata dalla via del Buddha. Per uscire
dall’inferno della negazione di Dio e tornare nel nirvana (ovvero, “fuori della selva oscura” in cui tale
“inferno” consiste – «vana», infatti, significa in sanscrito «bosco»), non bisogna far altro che negare Satana:
negare, cioè, la sua verità (“realtà”). La sua realtà fatta di forme divenienti è falsa, illusoria – un ingannevole
gioco di specchi che mostra frammentata in infinite immagini limitate, ciò che in verità è un’unica “figura”
illimitata. In concreto, negare Satana significa esercitare la (“propria”) autocoscienza ad andare oltre la
superficie delle apparenze, per cogliere soltanto se stessa: tornare, cioè, a quello stato in cui è soltanto
autocoscienza di ciò che essa è (davvero).
Questo percorso implica una sorta di procedere a ritroso, un “disfare” ciò che Satana (cioè, la negazione di
Dio) ha fatto. Questo “disfare”, in concreto, è un “fare” in maniera contraria – come indica in maniera
molto chiara, tra l’altro, la “seconda legge della natura” enunciata dalla Nuova Medicina Germanica.
Secondo questa legge, il superamento del conflitto che dà origine alla malattia (vale a dire, nei termini del
questo discorso: la negazione “buddhica” della negazione “satanica”), dà origine a una “seconda malattia”,
che ha caratteristiche diametralmente opposte alla prima, in modo tale da riparare i danni provocati da
questa, e portare così l’organismo a uno stato di salute ancora più forte di quello iniziale dal quale la prima
malattia è scoppiata. La via del Buddha, pertanto, non esclude il Male (“malattia”, in termini medici), ma
implica un Male contrario a quello generato da Satana, che va a riparare i danni provocati da quello. In
termini concreti, ciò significa che se sulla via di Satana c’è stato un “troppo”, sulla via di Buddha ci sarà un
“troppo poco”, e viceversa. La fine della via di Buddha, che necessariamente segue la via di Satana, è
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l’equilibrio o armonia di Dio, in cui tutte le “parti” sono composte in un tutto unico privo di divisioni
(divisioni, che producono carenze ed eccessi).
Questa lezione di Buddha – la lezione del distacco dal mondo del saṃsāra – è sostanzialmente accolta, a
suo modo, nella medicina omeopatica, il cui principio fondamentale sancisce che la medicina adeguata a
curare una certa malattia è della medesima natura della malattia stessa: similia similibus curantur (“il simile
è curato dal simile”). Nei termini di questo discorso: la negazione è “curata” dalla negazione.
E ancora, che la lezione di Buddha sia la soluzione della situazione problematica in cui l’autocoscienza
divina si è posta tramite la scelta satanica di negare la propria verità, è riconosciuto, quanto meno in
termini potenziali, da quella corrente filosofica che va sotto il nome di esistenzialismo e che ha come suo
capostipite, nella prima metà dell’800, il pensatore danese Søren Kierkegaard. Questa corrente filosofica
pone infatti al centro della sua riflessione il nulla – ovvero, la negazione assoluta di tutto ciò che è. E’ il
nulla, con il quale l’uomo (ovvero, un frammento dell’unità dell’autocoscienza divina, frantumata dalla
negazione satanica) deve confrontarsi, per giungere all’estremo fondo di se stesso (“tout au fond de son
coeur”, direbbe Sartre), e comprendere così se c’è per lui salvezza dall’inferno in cui vive, oppure se la sua
esistenza è per sempre dannata a scorrere priva di senso in tale inferno.
Dell’inferno – ovvero, del mondo di Satana – Sartre ha dato, forse senza volerlo, quella che si può
considerare la migliore definizione, ai fini del presente discorso. Nel suo celebre dramma, intitolato Huis
clos (“A porte chiuse”), è riportata questa celeberrima affermazione: l’enfer, c’est les autres (“l’inferno, è gli
altri”). Un’interpretazione non filologicamente rigorosa di questa frase, provocata dal considerare la copula
«c’est» (“è”) come equivalente a «sont» (“sono”) – talché essa diventa, in italiano, “l’inferno, sono gli altri”
– ha dato luogo a un sostanziale fraintendimento del suo significato profondo (significato, che forse
sfuggiva alle stesse intenzioni di Sartre): non sono gli altri, in quanto entità individuali, le componenti
concrete dell’inferno; questo, invece, è dato dalla (possibilità di) esistenza degli altri. In altre parole,
l’inferno è la condizione in cui l’autocoscienza è capace di percepire se stessa come l’esistenza di “me” e di
“esseri completamente separati da me” – così, da meritare appunto l’appellativo di “altri” (vale a dire,
“esseri che NON sono me”). Nella celebre definizione che ne dà Sartre, l’inferno non è altro, dunque, che la
frantumazione dell’“io” in un “me” circondato da infiniti altri “sé”, completamente separati dal “me” nel
quale l’“io” frantumato si identifica (per effetto – si potrebbe dire – dell’allucinazione prodotta dalla
negazione satanica dell’identità dell’“io”).
Posta di fronte a questa strabiliante situazione, la coscienza umana (vale a dire, un aspetto
dell’autocoscienza frantumata di Dio), deve valutare se ciò che a lei si manifesta è davvero «ciò che è»,
oppure non sia soltanto un’apparenza (un’“immagine virtuale”, si potrebbe dire con linguaggio moderno)
di «ciò che NON è» – vale a dire, l’evanescente immagine prodotta dalla negazione satanica. Evanescente,
di necessità, poiché, come ho già avuto modo di precisare, la negazione trova esclusivo fondamento, e
fonte, nell’affermazione: questa, pertanto, costituisce il costante substrato di quella; la “precede”, e la
“segue”.
Quest’ultima considerazione mi induce, infine, a svolgere un’ulteriore riflessione: da quanto finora detto
potrebbe sembrare che Dio, negando Se Stesso tramite il Suo potere satanico di negare Se Stesso, “perda”
la Sua “pura autocoscienza”, sostituendo completamente questa con l’“autocoscienza pervertita” prodotta
dall’autonegazione satanica. Tuttavia, proprio la considerazione svolta alla fine del capoverso precedente
sembrerebbe indicare che Dio mantiene la Sua pura autocoscienza, anche nella satanica negazione di Se
Stesso. La negazione, infatti, si regge su una contestuale affermazione: venisse meno questa, la negazione
perderebbe il suo oggetto, e, di conseguenza, svanirebbe essa stessa. In altre parole, la negazione deve
essere assolutamente contemporanea all’affermazione: Dio, cioè, può negare Se Stesso, soltanto se, “nel
medesimo istante”, afferma Se Stesso.
Ciò potrebbe significare che l’autocoscienza infinita che Dio è, si trova costantemente nella duplice
modalità dell’affermazione (pura autocoscienza della propria verità) e della negazione (“autocoscienza
pervertita”, che percepisce se stessa come infimo “punto” immerso in un universo di enti irrimediabilmente
“altri”).
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Tale conclusione appare oltremodo plausibile dal punto di vista razionale, poiché è coerente con il
prerequisito essenziale della conoscenza, il quale esige che la coscienza sia contemporaneamente cosciente
del vero e del falso, per poter distinguere tra i due: la mancanza di uno dei due termini, infatti, preclude la
conoscenza.
Inoltre, tale conclusione pare combaciare con la scoperta essenziale della meccanica quantistica, secondo la
quale una stessa entità (denominata “quanto” di energia) può indifferentemente apparire come “onda” e
come “corpuscolo”. Tutto dipende – si potrebbe arguire – dalla sintonizzazione dell’(auto)coscienza: se si
sintonizza sulla “bassa frequenza” di Satana, ovvero sull’Altissima frequenza di Dio. L’elevazione di
frequenza – a quanto si è detto – è la via del Buddha.
Aloha, Miei Carissimi Cuori Amici
virginio
HOMO HOMINI AGNUS
Milano, 27 novembre – 13 dicembre 2013
Eleemosunai 10 – Buddha e Satana
Versione 13/12/2013 16:44:57
virginio schiavetti
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