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Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo

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Consulta il testo - Il Diritto Amministrativo
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Conferimento di appalti alle società in house: profili di responsabilità e di giurisdizione
A cura di ALESSANDRA PULITANO
Lo scenario normativo e giurisprudenziale della materia degli appalti pubblici e delle
concessioni che si pone agli occhi degli operatori, risulta piuttosto variegato a seguito degli
innumerevoli interventi che si sono succeduti anche alla luce del contributo apportato dal legislatore
comunitario.
Una delle novità di maggior rilievo, introdotte dalla recente riforma in materia di servizi
pubblici locali, è il recepimento da parte del legislatore nazionale della nozione di appalto “in
house”.
Con tale espressione si vuole indicare l’ipotesi in cui l’appalto venga affidato a soggetti che
siano parte dell’amministrazione stessa.
In particolare, l’in house è una modalità di affidamento alternativa ai due schemi giuridicicontrattuali del contratto e della concessione, con cui la PA procede all’esternalizzazione.
Una modalità in forza della quale una P.A. si avvale, nel reperire beni e servizi di cui ha
bisogno o nell’erogare prestazioni di servizio pubblico per la collettività, di soggetti formalmente
distinti dalla stessa, ma tuttavia sottoposti al suo penetrante controllo1.
Trattasi, dunque, di una distinzione che rileva sul piano formale, ma non su quello sostanziale.
Con la conseguenza che difetta nel soggetto affidatario quella terzietà, quella alterità
soggettiva, rispetto all’amministrazione appaltante che è il necessario presupposto per la
conclusione di un contratto d’appalto2.
Il sistema degli affidamenti in house è utilizzabile anche al di fuori del settore dei servizi
pubblici.
Esso consente di non rispettare i principi costitutivi del Trattato (principio di non
discriminazione, parità di trattamento, trasparenza, pubblicità e proporzionalità) e le direttive sugli
appalti3.
Pertanto, in quanto derogatorio rispetto al metodo di scelta mediante gara pubblica si pone,
tuttavia, in contrasto anche con l’ordinamento nazionale in tema di imparzialità e trasparenza.
R. Garofoli – Manuale di diritto amministrativo 2009, cap.III Le nuove frontiere della nozione di pubblica
amministrazione.
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M.Corradino, I Servizi pubblici, compendio di diritto amministrativo 2013.
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B. Mameli, Archivio selezionato- fasc. 10,2010: L’in house tra regola ed eccezione.
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Per queste ragioni dapprima la Corte di Giustizia e successivamente il legislatore nazionale
hanno definito i contorni all’interno dei quali l’affidamento può ritenersi ammissibili.
Ebbene, la Corte di Giustizia, con la sentenza Teckal del 99, n.107/98, ha ritenuto legittimo
l’affidamento in house senza il ricorso alla gara qualora: a) l’ente affidante eserciti, sul soggetto
affidatario, in “controllo analogo” a quello che esercita sui propri servizi; b) quest’ultimo svolga la
parte essenziale della propria attività insieme con l’ente affidante o con gli enti che lo controllano.
La dottrina e la giurisprudenza successiva a Teckal, si è soffermata sul requisito del controllo
analogo per chiarire quando questo primo requisito dell’in house può dirsi sussistente.
Non sono mancate numerose e ripetute pronunce “che hanno affermato la sussistenza del
controllo analogo solamente quando l’ente pubblico detenga la titolarità prevalente non esclusiva
del pacchetto azionario, anche a fronte di società a capitale misto”.
A questo esito interpretativo la giurisprudenza comunitaria interviene nuovamente sempre nel
tentativo di delimitare la nozione di “controllo” analogo.
Nelle decisione, del gennaio 2005, resa nel caso Priking Brixen, la Corte di Giustizia ha
contribuito a restringere l’ambito di operatività dell’istituto4.
E nel delimitare tale ambito ha statuito che il controllo analogo non è desumibile dal mero
riscontro della natura totalitaria del controllo azionario, ma è necessario che il soggetto pubblico
socio al 100% abbia in concreto, sulla base di una valutazione attenta a tutte le circostanze
pertinenti, la possibilità di incidere sull’assunzione delle decisioni strategiche del soggetto
societario e sugli obiettivi fondamentali di esso.
Il che non si verifica nelle ipotesi in cui le previsioni statutarie dello statuto della società
riconoscano al consiglio di amministrazione la possibilità di assumere decisioni cruciali per la
società senza passare per il preventivo vaglio del socio pubblico, ancorchè socio unico5.
Il quadro ricostruttivo così delineatosi trova conferma nella sentenza dell’Adunanza Plenaria
del 3 marzo 2008 secondo cui: “se una società ha un socio privato, o prevede nello statuto
l’apertura al capitale privato, la presenza di una componente privatistica comporterà una
deviazione dell’attività dell’ente dai suoi fini, meramente pubblici, inquinando il requisito
teleologico che solo giustifica il fenomeno dell’affidamento in house”.
L’eventuale ingresso di azioni private durante il periodo di validità dell’appalto affidato in
house comporterebbe unicamente l’obbligo per l’amministrazione affidante di adottare un
F. Caringella, Compendio di diritto amministrativo 2008, I servizi pubblici – Un approccio
organico, assai rigoroso e restrittivo, al requisito del controllo analogo e più in generale ai
lineamenti dell’istituto dell’affidamento in house, è effettuato dalla decisione 4 settembre 2007, n.
719 del Consiglio di Giustizia amministrativa per il requisito della prevalenza.
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R. Garofoli,manuale di diritto amministrativo 2009,l’affidamento diretto a società in house.
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provvedimento di decadenza dell’appalto e la necessità di indire un’apposita gara per l’affidamento
dello stesso.
Tutto ciò sulla base del presupposto per cui il giudizio di legittimità di un affidamento in
house deve rimanere strettamente ancorato allo status quo; eventuali modifiche dell’assetto
societario (operate attraverso una modifica dell’oggetto sociale oppure dei rapporti tra organi
societari ed ente pubblico di riferimento) o l’effettivo subentro di soci privati nel capitale della
società pubblica, comportando la sostituzione del soggetto affidatario, possono far venir meno le
condizioni necessarie per il mantenimento dell’affidamento diretto e, quindi, determinare
l’immediata decadenza della dello stesso6.
Nel diritto comunitario non paiono sussistere ostacoli ad ammettere la figura dell’in house
frantumato, a patto che le autorità pubbliche proprietarie del capitale societario esercitino su tale
società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società in parola svolga la
parte essenziale della sua attività con dette autorità pubbliche7.
Nell’ipotesi in cui il capitale sociale dell’impresa pubblica affidataria non appartenga ad un
solo ente pubblico ma sia di proprietà di più enti pubblici, la Corte di Giustizia ha ritenuto
soddisfatto il requisito del controllo analogo se svolto congiuntamente da tutte le autorità pubbliche
socie e il requisito della prevalenza se l’attività è svolta per la parte più importante nei confronti di
tutti gli enti proprietari complessivamente considerati8.
I principi affermati dalla Corte di Giustizia sono stati attuati dal Consiglio di Stato, secondo
cui:
non è necessaria la partecipazione di un solo ente pubblico al capitale della società
affidataria in house ed è irrilevante la esiguità della quota partecipativa di uno degli enti al
capitale della stessa società, se il capitale sociale è interamente pubblico e ricorrono le altre
condizioni che impongono agli stessi enti titolari del capitale sociale di esercitare sulla società un
controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi9.
Il controllo analogo, si configura, quindi secondo la Corte di Giustizia, come una sorta di
rapporto di subordinazione gerarchica, tra la società e la pubblica amministrazione, tale da
incidere sul regime di responsabilità configurabile in capo agli amministratori delle società in
house.
Le peculiarità del regime giuridico cui è assoggettata l’attività della società in mano pubblica
sono state valorizzate, peraltro, dalle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione che – con
6
Corte di Giust.Ce, 19 giugno2008, in causa 454/07- anche il Tar Puglia, Lecce, sez. II n.
432/2008.
7
C. di Giust..Ce,13 novembre 2008, in causa 324/07 Coditel Brabant SA.
8
C. di Giust. Sent. 2009, in C. 573/07.
9
Cons. di Stato 2009 n.5082 – Cons. di Stato 2011 n. 1447 ).
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sentenza n. 26283/2013 – hanno risolto il problema della giurisdizione per i giudizi di responsabilità
amministrativa a carico di amministratori di società in mano pubblica.
La responsabilità amministrativa è quella, di tipo patrimoniale, in cui incorre il soggetto che,
legato da un rapporto di pubblico impiego ovvero di servizio con un ente pubblico, e avendo
violato gli obblighi derivanti da detto rapporto con dolo o colpa grave, abbia cagionato alla P.A.
pregiudizio che è quindi obbligato a risarcire (l’istituto è noto anche come responsabilità “per danno
erariale”)10.
In particolare, alcuni ritengono trattarsi di una responsabilità di natura risarcitoria, altri invece
sostengono che tale forma di responsabilità abbia natura sanzionatoria.
A tale proposito, si precisa che, ai fini dell’imputabilità del soggetto agente, occorre avere
riguardo agli elementi del dolo e della colpa grave. Proprio l’importanza assegnata all’entità della
colpa ai fini dell’addebito, piuttosto che alla gravità del danno, ha fatto sì che quest’ultima tesi
risultasse la più condivisa11.
Con riferimento all’orientamento giurisprudenziale in tema di responsabilità per danno
erariale, a partire dal 2006, la Cass. civ. con sentenza n. 4511/2006, ha sostenuto che “il criterio per
discriminare la giurisdizione ordinaria da quella contabile in materia di azione di responsabilità per
danno erariale si è spostato dalla qualità del soggetto ( che può ben essere un privato od un ente
pubblico non economico) alla natura del denaro e degli scopi perseguiti.
Il presupposto per addebito di responsabilità a detto titolo è configurabile anche quando il
soggetto, benché estraneo alla P.A. venga investito, anche di fatto dello svolgimento in modo
continuativo, di una determinata attività in favore della P.A., con inserimento nell’organizzazione
della medesima e con particolari vincoli ed obblighi diretti ad assicurare la rispondenza dell’attività
stessa alle esigenze generali cui è preordinata”.
Riguardo alla competenza giurisdizionale a decidere sulla responsabilità degli amministratori
di società a partecipazione pubblica, la giurisprudenza si è espressa, soprattutto negli ultimi anni, da
quando ha cominciato ad avere grande diffusione il fenomeno dell’uso dello strumento societario.
Le SS.UU. della Corte di Cassazione con sentenza n. 26283/2013 (e poi nel 2014 con
sentenza n.5491), sono nuovamente chiamate a stabilire se sussista, ed eventualmente entro quali
limiti, la giurisdizione della Corte dei Conti nei confronti di soggetti che abbiano svolto funzioni
amministrative o di controllo in società di capitali (nella specie una società per azioni) costituite e
partecipate da enti pubblici, quando a quei soggetti vengano imputati atti contrari ai loro doveri
d’ufficio con conseguenti danni per la società.
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F. Caringella, compendio di diritto amministrativo 2008, La responsabilità nei confronti della P.A.
G. Montedoro, società in house.
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Su tale questione affermano che la società partecipata danneggiata dalla mala gestio degli
amministratori è una società in house: è, infatti, ad integrale partecipazione pubblica, opera
prevalentemente a favore dei soci ed è sottoposta ad un controllo corrispondente a quello esercitato
dagli enti pubblici sui propri uffici.
Ne consegue che gli organi di tali società, assoggettati come sono a vincoli gerarchici facenti
capo alla pubblica amministrazione, neppure possono essere considerati, a differenza di quanto
accade per gli amministratori delle altre società a partecipazione pubblica, come investiti di un vero
munus privato, inerente ad un rapporto di natura negoziale instaurato con la medesima società.
Il controllo da parte dell’ente pubblico titolare della partecipazione sociale, infatti, si
configura in queste ipotesi in termini così pregnanti ed incisivi da annullare, di fatto, ogni potere
decisionale della società.
I suoi gestori – si dice nella sentenza – sono subordinati all’ente pubblico partecipante «nel
quadro di un rapporto gerarchico che non lascia spazio a possibili aree di autonomia e di
eventuale motivato dissenso».
Tecnicamente parlando, l’ente in house non è dunque una vera società di capitali (anche se
quello è il paradigma organizzativo), ma uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa.
Essere società di capitali, significa, soprattutto, che i soci non rispondono, con il proprio
patrimonio, dei debiti della società.
Se, però, quella in house non è una vera società di capitali, se tra essa ed ente pubblico
controllante non c’è alterità soggettiva, a rigore neppure dovrebbe esserci autonomia patrimoniale
perfetta: l’ente dovrebbe rispondere dei debiti della società con il proprio patrimonio.
Ed allora, se non risulta possibile configurare un rapporto di alterità tra l’ente pubblico
partecipante e la società in house che ad esso fa capo,è giocoforza concludere che anche la
distinzione tra il patrimonio dell’ente e quello della società si può porre in termini di separazione
patrimoniale, ma non di distinta titolarità.
Dal che discende che, in questo caso, il danno eventualmente inferto al patrimonio della
società da atti illegittimi degli amministratori, cui possa aver contribuito un colpevole difetto di
vigilanza imputabile agli organi di controllo, è arrecato ad un patrimonio (separato, ma pur sempre)
riconducibile all’ente pubblico: è quindi un danno erariale che giustifica l’attribuzione alla Corte dei
Conti della giurisdizione sulla relativa azione.
La ricognizione del supremo Consesso, avvalora una ricostruzione del fenomeno societario in
campo pubblico, che recepisce un organigramma a geometrie variabili.
Le Sezioni Unite della Cassazione hanno seguito di fatto una impostazione sostanzialmente
diversa che abbandona l’aspetto formale della distinzione tra personalità giuridica della società di
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capitali e quella dei singoli soci e la piena autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri, per
privilegiare l’aspetto sostanziale. Si è così affermato che il problema del riparto di giurisdizione va
risolto esaminando caso per caso, se la società per azione sia un soggetto non solo “formalmente”
ma anche “sostanzialmente” privato, ovvero se essa sia un mero modello organizzativo del quale si
avvale la P.A. al fine di perseguire le proprie finalità. Dunque, ai fini della sussistenza del danno
erariale e della giurisdizione della Corte dei Conti, occorre indagare case by case, se il danno sia
arrecato ad un soggetto che svolge un servizio pubblico e che possa, però, avere le caratteristiche
sostanziali di ente pubblico.
La grande novità consiste proprio nel superamento del criterio formale ed astratto,
sponsorizzato dalla stessa Corte dei Conti, così caro al Legislatore italiano, basato tutto sulla
distinzione tra personalità giuridica della società di capitali e quella dei singoli soci e la piena
autonomia patrimoniale dell’una rispetto agli altri deve ritenersi superato, perché non tiene conto
della peculiarità delle singole fattispecie e della eventualità che la veste societaria di diritto privato
possa celare, dietro l’apparenza ed in presenza di obiettivi indici pubblicistici, la natura sostanziale
pubblica dell’ente.
Tali argomenti hanno permesso alla Corte dei Conti di applicare un principio proprio del
diritto penale, la c.d. frode delle etichette. L’esistenza del paravento societario, non è più
qualificante ab origine del tipo di regime e conseguente responsabilità, occorrono una serie di
indizi: l’ente pubblico sia stato direttamente danneggiato dall’azione illegittima dell’amministratore
o dell’organo di controllo della società a partecipazione pubblica; quando la società per azioni
intrattenga con la P.A. un rapporto di servizio funzionale al perseguimento degli scopi della P.A.
(potendosi, comunque, configurare, nei confronti degli amministratori
degli enti partecipati
l’azione di responsabilità amministrativa in caso di danno all’immagine dell’ente pubblico ai sensi
dell’art 17, comma 30-ter del D.L. n. 78/2009); in caso di perdita del valore della partecipazione per
il mancato esercizio da parte del rappresentante del socio pubblico dell’azione civilistica di
responsabilità nei confronti degli amministratori della società.
Rimane, tuttavia, un vivace dibattito su tutta una serie di sfumature che afferiscono alle
società partecipate e giurisdizione contabile, su cui il difetto di giurisdizione non è così scontato.
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