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Un grande fotografo racconta la disabilità

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Un grande fotografo racconta la disabilità
6/giugno 2012
Redazione: Piazza Cavour 17 - 00193 Roma • Poste Italiane spa – Spedizione in abbonamento postale 70% - Roma
M
ZIN
A
G
A
E
Gianni Berengo Gardin
Un grande fotografo
racconta la disabilità
L’INCHIESTA/Sud del mondo
La vita in comunità,
risorsa vincente
TEMPO LIBERO
In barca,
a vele spiegate
EDITORIALE
di Mario Carletti
Direttore Centrale Riabilitazione e Protesi, Inail
Ma che bella “Reatech”, la fiera
delle opportunità (accessibili)
C
he cosa mi ha colpito maggiormente di Reatech, la fiera di Milano riservata alla disabilità e da poco conclusa? Due cose su tutte: gli spazi e le potenzialità.
Iniziamo dagli spazi. Mi è capitato di vedere diverse altre fiere di settore e
non, nello specifico anche quella di Shanghai, dove i cinesi hanno deciso per
la prima volta nella storia dell’Expo di riservare un padiglione alla disabilità.
Nessuna come quella di Milano può vantare spazi così ampi, facilità di accesso per le automobili, servizi pubblici di collegamento senza barriere, vicinanza
con grandi scali aeroportuali.
Posizione quindi geografica, territoriale e logistica – se non unica – difficilmente eguagliabile.
Le potenzialità, perché la sensazione è che – a parte qualsiasi altro format esistente del settore – ci sia la necessità di un momento condiviso per dare
l’opportunità al cittadino disabile consumatore di venire a conoscenza di tutto
ciò che il mercato può offrire.
Quindi non solo ausili e protesi, non solo auto-moto-bici e vari modelli di locomozione adattati, ma anche luoghi di vacanza, opportunità culturali e comunicative, offerte per il tempo libero e lo sport, ecc.
Sommando i due temi spazio/potenzialità, la miriade di attività
sportive che venivano offerte a Reatech (dal cavallo al basket, dalle immersioni al tennistavolo) rappresentano una straordinaria
opportunità per coinvolgere le scuole, mettendo loro a disposizione un’occasione di integrazione, oltre che di crescita civica, unica.
Vorrei quindi coinvolgere i nostri lettori per farci segnalare tutto ciò che
vorrebbero vedere nella prossima edizione di Reatech 2013: dai progetti innovativi ai momenti culturali, sportivi, comunicativi. Insomma, tutto ciò che possa
aiutare gli organizzatori a creare un prodotto migliore e ad attirare un numero elevato di persone.
Proviamo a costruirla insieme, da subito, semplicemente facendo capire cosa vorreste vedere, trovare a disposizione, capire o condividere.
Noi ci faremo carico di inviare le vostre indicazioni a chi dovrà individuare
i contenuti della prossima edizione, vista la concreta opportunità che ci hanno
offerto di collaborare.
3
I tanti volti della disabilità
Cosa significa avere una disabilità
e vivere in un Paese del Sud del
mondo? Spesso vuol dire essere inseriti
in programmi di riabilitazione
comunitaria, un metodo e una
strategia che risultano vincenti
nell’inclusione. Ne parla l’inchiesta di
questo numero, raccontando anche
l’esperienza positiva dell’agricoltura
sociale e della
wheelchair dance, la
danza su sedia a ruote
in cui Linda Galeotti
è protagonista. Ma ci
sono anche i viaggi
in barca a vela e il
racconto fotografico
di Gianni Berengo Gardin, reporter
di fama internazionale. Che spiazza
per la sua semplicità disarmante e uno
sguardo che sa andare all’essenziale.
NUMERO SEI Giugno 2012
EDITORIALE
CRONACHE ITALIANE
MEDIA
3 Ma che bella “Reatech”, la fiera 20 Zappando s’impara
delle opportunità (accessibili)
di Mario Carletti
ACCADE CHE...
5 “Reatech”: spazio ad aziende e
7
associazioni virtuose
Arriva “La fucina dei talenti”,
agenzia per l’inserimento
lavorativo
L’INCHIESTA
8 L’altra faccia del Sud
di Chiara Ludovisi
INSUPERABILI E PORTfOLIO
SOTTO LA LENTE
22 La danza di Linda
di Alessandra Brandoni
SPORT
Direttore: Mario Carletti
41
il futuro in una vasca
di Stefano Caredda
TEMPO LIBERO
26 Navigare per socializzare
di Giovanni Augello
In redazione: Antonella Patete, Laura
Badaracchi, Eleonora Camilli e Diego
Marsicano
Editore: Istituto Nazionale
Direttore responsabile: Stefano Trasatti
Redazione: Superabile Magazine
c/o agenzia di stampa Redattore Sociale
Piazza Cavour 17 - 00193 Roma
E-mail: [email protected]
Hanno collaborato: Giovanni Augello,
Alessandra Brandoni, Stefano Caredda,
Carla Chiaramoni, Chiara Ludovisi,
Ludovica Scaletti di Redattore Sociale;
Rosanna Giovèdi, Daniela Orlandi,
Alessandra Torreggiani e Giovanni
Sansone del Consorzio sociale Coin
Progetto grafico: Giulio Sansonetti
Il rintocco
di Carla Chiaramoni
Una casa domotica per Luca,
dall’Afghanistan a Pavia
Le parole per dirlo
Non autosufficiente
di Franco Bomprezzi
Stanze con vista
sull’umanità
che scala le classifiche
di L.B.
35 A Cannes vince la parabola della
sofferenza
DULCIS IN fUNDO
di L.B.
42
Strissie - I pupassi
RUBRICHE
di Adriana Farina
36 Inail... per saperne di più
e Massimiliano Filadoro
Alle Paralimpiadi con Mario:
l’impegno dell’Inail nello sport
37 Lavoro
Disabilità psichica e occupazione:
un percorso a ostacoli
38 Senza barriere
Ascensore o servo scala?
Dipende dalle circostanze
39 L’esperto risponde
Mobilità, Ausili
24 Fabrizio Sottile,
le tante storie di gente normale
Intervista a Gianni Berengo
Gardin
di Antonella Patete
Anno I - numero sei, giugno 2012
CULTURA
31 Un viaggio iniziatico
14 La professoressa in carrozzina. E
Superabile Magazine
40 Il pranzo della domenica
del cinema sordo
in salsa internazionale
di Laura Badaracchi
di Eleonora Camilli
PINZILLACCHERE
30 Non solo Lis: i Festival
per l’Assicurazione contro gli Infortuni
sul Lavoro
Stampa: Tipografia Inail
Via Boncompagni 41 - 20139 Milano
Autorizzazione del Tribunale di Roma
numero 45 del 13/2/2012
4
Un ringraziamento, per l’uso delle
foto, a Unione vela solidale (pag. 3),
Fiera Milano (pag. 5), Morguefile.
com (pag. 6), Maurosanna.com e
Rarediseasedayaustralia.com.au (pag.
7), G. Berengo Gardin e Contrasto (pagg.
14-19), Linda Galeotti (pagg. 22-23),
Comitato italiano paralimpico (pag. 24),
Matti per la vela (pag. 27), Vela Insieme
(pagg. 28-29), Paolo Genovesi (pag. 25),
Associazione nazionale alpini (pag. 40),
Fondazione Mario Tobino (pag. 41).
In copertina, uno scatto di Gianni
Berengo Gardin.
ACCADE CHE...
fIERA PER TUTTI
mento incredibile per
confrontarsi
sull’impor“Reatech”: spazio ad aziende
tanza
dell’accessibilità
e associazioni virtuose
per tutti», commenome tanti altri ragaz- incontrate per confron- ta Elena Brusa Pasqué,
zi, Yuri ama il mare
tarsi su accessibilità, in- architetto e coautrice,
e ha preso il brevetclusione e autonomia
insieme a docenti e stuto da sub, anche se le
delle persone disabili.
denti del Politecnico di
sue gambe sono paraUn’occasione per
Milano, di “Life for all”
lizzate. Si muove in car- provare tecnologie
(Lifeforall-blog.com),
rozzina, ma quando è
avanzate, come la casa blog dedicato alla prosott’acqua le differen- “intelligente” complegettazione accessibize scompaiono. Insietamente automatizzale. Nato appositamente
me ad altri disabili ha
ta, poltrone e sdraio
per la fiera «come piatprovato l’immersione
per chi ha differenti di- taforma del pensiero
subacquea a “Reatech
sabilità motorie. E soinclusivo, per discutere
Italia”, l’evento dedica- prattutto per fare tanto di miglioramento della
to a disabilità e innova- sport, sperimentanvita di tutti», spiega Pazione, che si è tenuto
do 18 discipline diverse: squé, auspicando: «Ogdal 24 al 27 maggio aldall’handbike (la bicigetti come quelli visti
la fiera di Rho (Milacletta che si guida con a Reatech dovrebbeno). Quattro giorni in
le braccia) a basket e
ro essere al Salone del
cui 165 aziende, decine hockey in carrozzina, fi- Mobile, non solo a una
di associazioni e centi- no all’arrampicata per
fiera specializzata».
naia di persone si sono non vedenti. «Un mo[Ludovica Scaletti]
C
Le prossime edizioni.
Appuntamento con Reatech,
fiera-evento internazionale
sulla disabilità a 360 gradi,
nel 2013. Prima tappa:
Singapore, dal 27 febbraio
al 1° marzo, mentre dal 18 al
21 aprile sarà il turno della
metropoli brasiliana di San
Paolo.
SENZA BARRIERE
Domotica sociale per abitare meglio
D
alla pugliese Conversano è sbarcato a
Reatech “Domos”, progetto di eccellenza nel
campo dell’utilizzo di
tecnologie domotiche
applicate al sociale. Le
immagini, qui a fianco,
illustrano la campagna
di informazione sugli
ausili, realizzata esclusivamente per le scuole.
«Alcuni kit domotici
sperimentali sono stati installati gratuitamente presso le case di 20
beneficiari, per migliorare la qualità della vita e l’autonomia delle
persone con disabilità
o anziane», riferiscono
Alessandro De Robertis
Giochi speciali. Dai muretti
con strumenti musicali e
alfabeto, alla casetta a
forma di igloo in cui sentirsi
protetti, fino ai pannelli
tattili. Tutti in materiali
riciclati e riciclabili, pensati
per i bambini con disabilità.
Li produce Giochi Sport,
azienda che crea aree-gioco
accessibili anche ai ciechi:
il primo parco è stato
inaugurato nel 2011 al Porto
Antico di Genova.
5
e Annalisa Lacalandra,
responsabili del progetto. Positivi, dunque, i risultati di oltre un anno
di lavoro svolto sul territorio del Sud-Est barese
(Conversano, Monopoli e Polignano a Mare),
coinvolgendo anche le
province di Brindisi e
Taranto. «Domos vuole
essere un organismo intermediario in grado di
rispondere al più ampio
numero di persone sui
servizi alle famiglie con
disabilità che vogliono migliorare la propria
quotidianità», spiega
Lacalandra. Per ulteriori
informazioni e dettagli,
Domoticasociale.it.
ACCADE CHE...
Trasportare e aiutare
i cittadini in condizione
di fragilità: è l’obiettivo
del progetto “Punto pass”,
realizzato dalla Consulta
per le persone in difficoltà
in collaborazione con
Tailai srl e in convenzione
con la Città di Torino.
L’iniziativa, in attuazione
della legge 328, prevede
l’assegnazione di
automezzi attrezzati e
non, in comodato d’uso
gratuito per quattro
anni, a Comuni, aziende
di servizi alla persona o
associazioni aderenti.
La sordità congenita?
Colpisce un bambino su
mille sotto i tre anni, due
bambini su mille tra i 4
e 12 anni. Ma l’incidenza
può aumentare fino a
dieci volte nel caso di nati
prematuri e sottoposti a
terapie intensive. I dati
sono stati diffusi dal
Cabss (Centro assistenza
per bambini sordi e
sordociechi onlus). Oltre
alla prevenzione, alla
diagnosi e alle terapie
precoci, è cruciale il
supporto psicologico ai
genitori. Nel 90% dei casi,
infatti, i bimbi sordi hanno
mamme e papà udenti.
SALUTE
Ricette per stare meglio
S
anacucina.it propone ricette ad hoc per chi
ha la distrofia muscolare, ma anche patologie
cardiache, gastroenteriche e respiratorie. Il
sito è stato realizzato dalla sezione bolognese
della Uildm, insieme a un’équipe di operatori,
neuropsichiatri, dietologi e nutrizionisti
dell’Ospedale Maggiore di Bologna, biologi
molecolari di Lipinutragen (uno spin-off del Cnr) e
i programmatori della software-house Dm.
Il motore di ricerca permette di selezionare antipasti, primi, secondi e dessert a seconda delle
proprie condizioni di salute e dei gusti personali. Utile anche un servizio per preparare piatti con
gli ingredienti disponibili in casa, pensato per chi
è colpito da gravi e gravissime disabilità, con difficoltà di movimento: in cantiere, la possibilità di
consegna della spesa e l’arrivo di un cuoco a domicilio. Disponibile, infine, un form per entrare in
contatto con un medico nutrizionista a cui chiedere chiarimenti e suggerimenti.
NATURA
A Roma roseto tattile e in braille
O
spita una collezione visita gratuita, guidata
permanente di
dagli esperti del
1.200 esemplari di
roseto, prenotandola al
rose provenienti da
numero 06/5746810.
tutto il mondo, in
Disposto ad anfiteaun’area di circa 10mila tro sulle pendici dell’Ametri quadrati. Ma il
ventino, l’attuale roseto
roseto comunale di
divenne nel 1645 “Orto
Roma ha deciso di
degli ebrei”, ospitando il
abbellirsi ulteriormente,
inaugurando un viale
tattile, circolare e con
un corrimano in legno,
dedicato ai non vedenti.
Nel percorso sono
presenti 54 varietà di
rose particolarmente
cimitero della comunità.
profumate, pannelli in Per questo ancora oggi i
braille con la storia del vialetti del parco hanno
giardino e la descrizione lo schema della menodelle tipologie di fiori. rah, candelabro a sette
Fino al 24 giugno si
braccia simbolo dell’epuò usufruire di una
braismo.
6
DATI
Istat: i Comuni spendono 2.700
euro all’anno per ogni disabile
S
econdo il Rapporto annuale 2012 sulla situazione
del Paese, redatto dall’Istat, i Comuni italiani
spendono in media 2.700 euro l’anno per ogni
disabile. Ma per quelli residenti al Sud la cifra è
di circa otto volte inferiore a quella del Nord-Est:
667 euro l’anno contro 5.438. Inoltre, nel 2009 la
cifra complessiva per interventi e servizi sociali
ammontava a 7,2 miliardi di euro (lo 0,46% del
Pil nazionale),
in aumento del
5,1% rispetto
al 2008.
Tuttavia nel
Mezzogiorno
la spesa sociale
è diminuita
dell’1,5%,
mentre cresce
del 6% al NordEst, del 4,2 al
Nord-Ovest e
del 5% al Centro.
Figura 4.25
Indicatori sintetici della
qualità dei servizi sanitari
per dimensione
della qualità e regione
(anni 2009, 2010)
Appropriatezza ospedaliera
Alta
Media
Bassa
ORISTANO
TORINO
Arriva “La fucina dei talenti”,
Aperta “Bibliò”:
agenzia per l’inserimento lavorativo libri per tutti i gusti
R
ientra in un’azione
prevista dalla Fondazione per il Sud, che
la finanzia con 280mila euro: la “Fucina dei
talenti” è un progetto
dedicato alle persone
disabili. Verrà realizzato a Oristano dalla
cooperativa sociale DigitAbile onlus, in collaborazione con altre sei
associazioni e cooperative sociali.
Obiettivo? L’inserimento sociale e lavorativo, tramite percorsi
formativi in un centro
propedeutico al lavoro,
uno socio-occupazionale e uno per attività
laboratoriali e produttive. Inoltre è previsto
un servizio di counselling, rivolto anche alle famiglie, e uno di
orientamento formativo e professionale.
Per informazioni,
Digitabile.org.
I
naugurata il 31 maggio “Bibliò”, la nuova biblioteca
multimediale dell’associazione Egò: nasce con l’obiettivo
di sostenere la motivazione
alla lettura di bambini e ragazzi con Disturbo specifico
di apprendimento (Dsa). Offre, infatti, la possibilità di consultare volumi di narrativa, audiolibri,
libri pop-up e multimediali, graphic novel, fiabe, edizioni ad alta leggibilità. Inoltre sarà messo a disposizione un iPad per la lettura di e-book
o edizioni Kindle. “Bibliò” si trova a Torino, in via
Vittorio Amedeo II 21, presso la sede di Egò, che
promuove progetti di supporto allo studio per
bambini e ragazzi con Dsa, tramite percorsi individuali e attività di gruppo. Integrando la conoscenza di strumenti informatici e multimediali
con un metodo di studio efficace. La Fondazione
Paideia collabora con Egò in progetti per minori
con difficoltà scolastiche e Dsa.
È nato l’Irdirc,
International Rare Diseases
Research Consortium,
organismo internazionale
che ha l’obiettivo di
arrivare, entro il 2020,
a duecento nuove
terapie per le malattie
rare. Rendendo fruibili
i test diagnostici per la
maggioranza delle oltre
7mila patologie note.
DOPO DI NOI
Una casa per sperimentare l’autonomia
R
enderli autonomi
per un futuro indipendente, quando
la famiglia non ci sarà più: è l’obiettivo del
progetto annuale “Dopo di noi. Mamma, vado a vivere da solo”, al
via da settembre nel
Municipio XII di Roma
in collaborazione con
la Consulta municipale
alla disabilità e l’Asl Roma C. Attraverso l’inserimento graduale in un
appartamento di 230
metri quadri nel quartiere di Vitinia, messo a
disposizione dal Municipio, a turno 48 adulti
disabili dai 18 ai 55 anni
potranno sviluppare la
loro autonomia. Imparando, in piccoli gruppi, a gestire la casa,
fare la spesa, andare alla posta. (foto: Anffas)
TECNOLOGIE
Lokomat, robot per la riabilitazione
U
n robot per la riabilitazione delle persone con lesione al
midollo spinale prevalentemente incompleta, cioè con una perdita
solo parziale del movimento. Si chiama Lokomat ed è un ausilio
meccanico complesso
e avveniristico, prodotto dalla ditta svizzera Hocoma e acquistato
dall’ospedale Niguarda di Milano per 390mila euro.
«La disponibilità di questo apparecchio, resa possibile dalla
generosità di molti so-
stenitori, facilita la programmazione delle
attività rivolte alla riabilitazione della stazione eretta e del cammino
in pazienti con motilità residua», dice Tiziana
Redaelli, direttore dell’Unità spinale del nosocomio lombardo. Lokomat
7
può essere regolato sulle esigenze del singolo
paziente, per impostare il più possibile un trattamento di recupero
personalizzato. Il robot
viene anche collegato a
un monitor, che riproduce la realtà virtuale in cui
la persona si muove.
l’inchiesta Visti da lontano
L’altra faccia del Sud
Meno assistenza
e più coinvolgimento,
valorizzando le risorse
della comunità.
La ricetta viene
da lontano, dove
le tecnologie scarseggiano
e i pregiudizi faticano
a morire. Ma comincia
ad affacciarsi
una nuova filosofia.
Tutta da scoprire
Chiara Ludovisi
T
utto a partire dalla comunità: «Only
through community». C’è qualcosa
che il Sud del mondo, povero di risorse, di strutture e di tecnologie, può
esportare verso i Paesi più ricchi. È una
“filosofia della disabilità”, un approccio alle difficoltà, un modo di rispondere ai problemi e alle carenze: al centro
non c’è l’assistenza né i servizi e neppure la tanto sbandierata rivendicazione
dei diritti. Si punta tutto sulla comunità, con le sue risorse spesso seppellite e
le sue potenzialità inespresse: scommettere su queste capacità e potenziarle può
rappresentare la strategia più efficace
per far fronte alla disabilità, in una parte del mondo in cui i mezzi sono scarsi. Ma anche nei Paesi più ricchi, dove
gli strumenti sono certamente maggiori, tuttavia non sempre sufficienti a rispondere ai bisogni.
L’indicazione di puntare sulla comunità arriva dal Kenya, dalla zona ru-
8
rale di Nyahururu, a pochi chilometri
dall’Equatore, dove è nata e continua a
crescere l’esperienza di St. Martin. Esiste però anche una “versione” più ufficiale dell’Only through community: si
chiama, tecnicamente, Riabilitazione
su base comunitaria (Rbc), ed è stata
formulata, per la prima volta, nel 1994,
all’interno del Joint Position Paper, un
documento firmato congiuntamente da
Organizzazione mondiale della sanità,
Unesco e Organizzazione internazionale del lavoro. Nella pratica, si traduce in una strategia che vuole garantire
l’uguaglianza delle opportunità e l’integrazione sociale delle persone disabili, attraverso la partecipazione attiva dei
diretti interessati, delle loro famiglie e
delle loro comunità.
Tra le numerose organizzazioni che
oggi fanno riferimento a questo modello nella realizzazione dei propri progetti
di cooperazione, c’è l’Organismo di volontariato e cooperazione internazionale
Hamdan, il cielo in una stanza. Ma solo per un po’
f
ino all’età di dodici anni
Hamdan Jewei non era
mai uscito di casa. Viveva
recluso nella sua stanza nel
campo profughi di Deja,
a Betlemme. Segregato
dalla sua famiglia, che non
voleva mostrare ai vicini
quel figlio gravemente
disabile. Oggi Hamdan
parla tre lingue, è iscritto
a undici associazioni locali
“La nostra famiglia” (Ovci), che realizza
progetti di cooperazione allo sviluppo a
favore di persone in situazione di disagio
sociale e disabilità in Sud Sudan, Sudan,
Brasile, Ecuador, Cina e Marocco. Spiega
Cristina Paro, responsabile tecnico dei
progetti dell’Ovci: «La vera novità della riabilitazione su base comunitaria è
operare a livello locale, per garantire che
la persona disabile possa avere accesso a
tutti i servizi di cui ha bisogno nella sua
comunità. E quando questo non è possibile, creare il contatto con servizi specialistici, che generalmente si trovano nelle
grandi città».
Operare a livello locale significa, innanzitutto, sensibilizzare la famiglia e
la comunità di appartenenza. «Se non
si crea la capacità di accogliere la persona disabile, non si potrà mai raggiungere
l’obiettivo della sua inclusione nella società – prosegue Paro –. È il nucleo familiare a essere il fulcro del processo di
cambiamento e inclusione: se la famiglia
Hamdan Jewei, qualche
settimana fa durante
un soggiorno a Roma –.
Temono che la condizione
del proprio figlio disabile
possa pregiudicare il futuro
matrimonio dei suoi fratelli.
Esiste la paura che vengano
generati bambini disabili o
anche – semplicemente –
che bisognerà mantenere a
vita lo sventurato parente».
persone disabili, ampliando
a poco a poco i confini
del suo mondo angusto
e diventando lui stesso
volontario e militante a
favore di altri disabili.
Nei territori palestinesi
le persone con disabilità
rappresentano il 5,5% del
totale della popolazione,
una delle percentuali
più alte del mondo,
ricorda il documentario.
E di queste ben il 30% è
divenuto disabile non
per cause congenite,
ma come conseguenza
dell’occupazione militare
israeliana e della seconda
Intifada, scoppiata a
Gerusalemme a fine
settembre del 2000.
Eppure, accanto a storie di
isolamento e di esclusione,
ne esistono altre che
testimoniano grande
capacità di accoglienza
e solidarietà. È il caso di
e internazionali, girando il Ma Hamdan aveva troppa
Azmi, ventenne di Hebron
mondo come promotore dei voglia di vivere per restare che ha perduto l’uso delle
diritti dei cittadini disabili nascosto nella sua stanza. gambe e avrebbe bisogno
e del popolo palestinese.
«La situazione era talmente di una sedia a rotelle
Proprio a quest’uomo e
insostenibile che un giorno elettrica, ma non può
alla sua vicenda, si ispira il non ce l’ho fatta proprio
permettersela. Disoccupato
documentario La stanza di più – ha raccontato –.
e impossibilitato a trovare
Hamdan, girato dal regista Ho fatto quello che un
un lavoro a causa della sua
Abdullah Al Atrash, nato
figlio non farebbe mai: ho condizione, il giovane non
in Italia da padre siriano
letteralmente aggredito
riesce neppure ad assicurarsi
e madre marchigiana:
mia madre e sono fuggito
le cure necessarie sia per
19 minuti di interviste
in strada. Lì ho incontrato
via dei costi, sia a causa
per raccontare la realtà
uno dei nostri vicini, che
della presenza dell’esercito
delle persone disabili in
mi ha portato a casa sua. E israeliano che rende
Palestina, un luogo dove le quando gli ho raccontato
difficili gli spostamenti.
difficoltà della situazione
la mia storia, ho capito che Per fortuna Azmi non è
politica e militare si
non era neppure al corrente solo: ha una moglie che nel
sposano tristemente
della mia esistenza».
documentario non esita a
con lo stigma legato alla
A partire da quel giorno
definire «straordinaria»,
condizione di disabilità.
la vita di Hamdan è
tanti fratelli minori che si
«I pregiudizi della
cambiata radicalmente: ha prendono cura di lui, una
società civile palestinese
cominciato a studiare e a
comunità che lo circonda
cominciano all’interno della frequentare un’associazione e lo accoglie con la propria
famiglia – ha raccontato
che operava a favore delle solidarietà. [A.P.]
Nella foto in alto (by High-Res), un pozzo in Etiopia per prevenire il tracoma, costruito
da Iapb (International Agency for the prevention of blindness). Qui sopra, una scena
del documentario La stanza di Hamdan
9
l’inchiesta Visti da lontano
non ne capisce l’importanza, è passiva o
addirittura contraria, allora la persona
con disabilità è molto più sola nell’affrontare tutte le tappe che normalmente
affronta qualsiasi persona, ma che per lei
sono ogni volta da conquistare».
Irlanda o la speranza ritrovata.
Figura centrale in questo modello di intervento è il promotore di Rbc: una figura interna alla comunità, che ha il
compito di accompagnare la persona
disabile e la sua famiglia nel raggiungimento dell’obiettivo fissato. Alcuni dei
promotori hanno figli o familiari con
disabilità, altri sono essi stessi disabili. Come Irlanda Ayovi Castro, una delle promotrici dell’Ovci. A raccontare la
sua storia è Enny Marin, capo progetto Rbc e fisioterapista a Esmeraldas, in
Ecuador: «Questa donna disabile di 48
anni, con la sua tipica camminata lenta, è ben nota in questi quartieri, dove
vive e lotta ogni giorno perché i bambini e le persone con disabilità ricevano i
servizi necessari per una buona qualità della vita».
Irlanda è divenuta disabile a 44 anni, a causa di una violenza domestica che le comportò l’amputazione del
braccio destro e della gamba sinistra.
Aveva sei figli. Decise allora di trasferirsi a Esmeraldas, dove c’erano migliori opportunità di lavoro. Ma la sua vita
non era più quella di prima: non poteva lavorare, non voleva uscire, non si
sentiva bene con se stessa, così che ri-
manere sdraiata a letto divenne la sua
attività principale per più di un anno e
mezzo. Un giorno, dopo aver dormito
per più di dodici ore consecutive, sentì
dentro di sé una voce che diceva: «Cosa
stai facendo? Hai intenzione di lasciarti morire così? Ora alzati, mettiti a fare qualcosa».
Quello stesso giorno si alzò dal letto
e cominciò a cucinare. I suoi bambini
non credevano ai loro occhi: la madre era tornata a essere quella di prima. A poco a poco, riprese le faccende
domestiche, lasciò la sedia a ruote per
utilizzare protesi, fino a diventare indipendente e utile. «Oggi Irlanda cammina per le strade aiutando le persone
che, come lei, hanno una disabilità ma
che non possono fermarsi – prosegue
Marin –. Visita, coordina e ottiene assistenza per chi ha bisogno di qualche
servizio riabilitativo. Per Irlanda l’importante non è quello che ha fatto, ma
ciò che resta da fare. Così continuerà a
10
Sudan: un progetto di riabilitazione
comunitaria in un laboratorio di ceramica.
L’iniziativa è promossa dalla ong Ovci
(Organismo di volontariato e cooperazione
internazionale), braccio dell’associazione
“La nostra famiglia” che realizza progetti
a favore di persone disagiate e disabili.
Opera anche in Sud Sudan, Brasile,
Ecuador, Cina e Marocco.
rappresentare le persone con disabilità
all’Assemblea legislativa del suo Paese».
Quel bambino non era un castigo di Dio. Mariana Delgado è la mam-
ma di un ragazzo disabile ed è anche
lei promotrice del programma Rbc per
l’Ovci: «Quando aveva un anno, il mio
bambino ebbe una febbre molto alta,
accompagnata da strani attacchi – racconta –. Così lo portai in ospedale, dove gli diedero l’ossigeno per tre ore. Gli
attacchi però continuarono e io non sapevo cosa fare. Chiedevo e cercavo risposte, ma la gente mi diceva che mio
figlio era matto. Lo portai alla scuola
materna, ma i compagni lo deridevano
e l’insegnante mi chiese di tenerlo a casa. Abbracciai il bambino, piansi con lui
e ritornai nella nostra abitazione. Nessuno mi spiegava qual era la causa dei
suoi attacchi».
Quando suo figlio compì 19 anni,
Marianna lo accompagnò al dispensario del Cottolengo e spiegò al medico che aveva attacchi ogni giorno. «Gli
chiesi di aiutarmi – continua –, perché
non potevo più vederlo in quello stato.
Il dottore mi disse che si trattava di epilessia e che non esistevano cure per questa malattia, ma che con una pastiglia
era possibile calmare le convulsioni».
Quando il ragazzo aveva 20 anni, alla porta di Marianna bussò un promotore Rbc: «Ringraziai Dio per avermelo
mandato: mi riempiva di gioia vedere
i volontari dell’Ovci prendersi cura di
lui». Fu così che anche Marianna diventò una promotrice.
«C’erano molte mamme come me,
insieme ai loro figli. Fui contenta di vedere che esistevano altri bambini con
problemi e capii che la malattia di mio
figlio non era un castigo di Dio. All’età di 23 anni perse l’uso dell’occhio destro e cinque mesi dopo morì, lasciando
un vuoto incolmabile. Ogni volta che
incontro bambini “speciali”, rivedo mio
figlio: è lui che mi ha insegnato ad amare le persone e a rispettarle».
Un piccolo miracolo a St Martin.
È il 1997 quando don Gabriele Pipinato,
sacerdote veneto in missione in Kenya,
si reca presso le famiglie della sua diocesi, Nyahururu, per impartire la rituale
benedizione. Una donna gli apre la porta e gli chiede di benedire un po’ tutto:
persone, animali, ambienti. D’un tratto,
don Gabriele sente un rumore proveni-
11
re da un angolo della casa. Riverso su
un pavimento sporco di escrementi, c’è
un ragazzo disabile, cerebroleso. «E lui
chi è?», chiede il sacerdote alla donna.
«È mio figlio». «Ma come – replica sorpreso il prete –, non mi chiedi di benedire anche lui?». «Perché, si può fare?»,
domanda incredula la donna. Nasce in
quel momento, nella testa di don Gabriele, l’idea di St. Martin: un’esperienza sociale, spirituale e culturale, che si
pone subito l’obiettivo di rafforzare le
comunità locali e la loro consapevolezza rispetto alla malattia e alle disabilità.
Luca Ramigni ha trascorso cinque
anni presso St. Martin, lavorando come
fisioterapista all’interno del programma dedicato alle persone disabili. «Dopo l’incontro con quella donna – ricorda
–, don Gabriele radunò undici volontari e si pose, come primo obiettivo, quello
di contare quante persone con handicap
ci fossero nel territorio: su una popolazione di circa 500mila abitanti, ne trovarono oltre 2mila. Vivevano tutti nascosti
in casa, occultati dalle loro famiglie, che
li consideravano una maledizione. Sono
arrivato a Nyahururu sette anni dopo,
e posso assicurare che disabili nascosti
non ne ho più trovati: neppure uno».
Un miracolo? No, il frutto di un lavoro molto complesso e articolato, che si
basa su un concetto fondamentale, quasi
il motto dell’associazione: «Only through community». È la comunità, infatti, il
cuore pulsante dei cinque programmi,
dedicati rispettivamente ad Aids-dro-
L’INCHIESTA Visti da lontano
ga-alcol, non violenza, microcredito,
ragazzi di strada e disabilità. L’idea,
tutt’altro che facile da percorrere, è
che non si debba offrire assistenza al
vulnerabile, ma rafforzare l’abile.
Nel caso della persona disabile, quindi, la priorità non è risponde-
re ai suoi bisogni, ma creare intorno
a lei una comunità consapevole e capace di accoglierla. Certo, il cambiamento culturale è difficoltoso e mai
definitivo: «Certe credenze sono difficili da sradicare – spiega Ramigni
–. D’altra parte, anche in Italia alcune
famiglie considerano la disabilità del
proprio figlio una sorta di punizione.
A Nyahururu è avvenuta una grande
trasformazione che sta contagiando,
lentamente, anche le zone limitrofe».
St. Martin nasce ufficialmente nel 1999 e in questi 13 anni è cresciuta fino a diventare una realtà
molto importante nel territorio: una
“I fiori del Mali”
piantati
da Ada Nardin
Il progetto, avviato
nel Paese africano
con Blindsight
Project, è promosso
dall’Associazione disabili
visivi. L’obiettivo:
promuovere l’autonomia
delle persone cieche
T
rentottenne, una formazione linguistica, occhi che vedono luci, ombre e, in alcune condizioni, sanno
distinguere i colori: Ada Nardin si è appassionata alla cooperazione alcuni anni fa, quasi per caso, e ora dedica buona
parte della sua vita a seminare “I fiori
del Mali”. Così si chiama il progetto avviato nel Paese africano con Blindsight
Project e portato avanti con l’Associazione disabili visivi: l’obiettivo è coltivare l’autonomia nelle persone cieche
maliane. A Gao, precisamente nella
scuola integrata per studenti ciechi e
vedenti, nel 2007 è iniziata l’attività indirizzata innanzitutto alla formazione
degli insegnanti.
«Esisteva già una sensibilità, quando
sono arrivata. La scuola funzionava bene, gli insegnanti erano preparati, l’integrazione era un obiettivo condiviso da
governo e docenti, che si impegnavano
anche nel reclutamento di nuovi studen-
12
ti ciechi nei villaggi più piccoli e distanti
– racconta Ada –. Non ho trovato quella disabilità emarginata e stigmatizzata
di cui tanto si parla riferendosi ai Paesi africani». Anzi, i ragazzi non vedenti
erano abituati a spostarsi in autonomia,
frequentavano regolarmente la scuola
ed erano ben inseriti nel tessuto sociale.
«Non manifestavano quei “ciechismi”,
cioè quelle stereotipie tipiche delle persone cieche non integrate – sottolinea –.
Credo che il merito sia soprattutto del
buon lavoro svolto dall’Associazione
maliana dei ciechi, anche se la cultura
del Paese è ancora impregnata di fatalismo. D’altra parte, ci sono tanti giovani pieni di idee, che però non riescono
a concretizzare in azioni reali per mancanza di strumentazioni».
In questo contesto si è inserito “I fiori del Mali”, che si propone anzitutto di
portare nel Paese tecnologie e strumenti didattici per facilitare e incrementare
zona rurale del Kenya, a due chilometri
dall’Equatore, abitata per l’80% da contadini. Gli undici volontari iniziali sono diventati più di mille, tutti kenyani.
«Consideriamo quasi conclusa la prima
fase del lavoro, dedicata alla consapevolezza – dice il fisioterapista –. Il secondo
stadio si pone un obiettivo ancora più
alto: l’advocacy, cioè la rivendicazione
dei diritti e la partecipazione attiva alla
vita politica e sociale della comunità da
parte delle persone disabili».
Accanto a questo lavoro, si continua naturalmente a fornire assistenza e
supporto a chi ne ha bisogno: ogni anno vengono seguite circa 600 persone
con disabilità. «Ma il centro resta sempre la comunità, che è chiamata ad attivare tutte le sue risorse. Vedendo un
bambino povero, nudo e affamato, sarebbe spontaneo offrirgli soldi, vestiti
e cibo. Tuttavia è molto più importante
creare intorno a lui una comunità capace di accoglierlo e di provvedere ai suoi
bisogni».
È questo il motivo per cui, a St. Martin, non lavora più nessun europeo. Persino gli ausili, oggi, li costruisce con le
sue mani Timoty, un giovane di Nyahururu che, dopo un percorso formativo a
Mombasa, ha frequentato nei mesi scorsi un iter di ulteriore perfezionamento
tenuto da una delegazione inglese: d’ora in poi, farà ausili. Ausili di cartone.
Ma questa è un’altra storia. Ed è appena cominciata.
competenti e capaci di risolvere da soli i problemi».
In generale, comunque, la situazione in Mali non è affatto critica. «Diversa, sicuramente, da quella che ho
incontrato in Sri Lanka – precisa Ada –,
dove la scuola per ciechi era isolata in
mezzo alla foresta. Diversa anche dal
Congo, dove ho riscontrato maggiore
pietismo e minore integrazione rispetto al Mali, senza tuttavia imbattermi in
casi di emarginazione». Anzi, proprio
dall’Africa qualcosa Ada l’ha riportato in Italia, nella speranza che “fiori del
Mali” possano germogliare anche qui:
«Una maggiore leggerezza burocratica: dovremmo impararla dagli africani. Hanno accettato tranquillamente il
mio aiuto, mi hanno lasciata entrare in
scuole e uffici senza chiedermi che titoli
avessi. E poi la giovinezza del pensiero:
l’Africa è il nostro passato, ma è anche il
continente più giovane, con una grande
voglia di fare e una storia in evoluzione.
Ogni volta che torno, riscontro che sono
stati fatti passi in avanti. Anche questo
desiderio di migliorare e di guardare al
futuro dovremmo farlo nostro».
Col passare degli anni, il progetto ha
dato i suoi frutti: contemporaneamente, però, è cresciuta nel Paese la tensione politico-militare e si è aggravata la
minaccia del terrorismo islamico. Nel
2011, per raggiungere Gao dalla capitale
Bamako, Ada e il suo compagno – l’ingegnere informatico Michelangelo Rodriguez, cieco assoluto – hanno dovuto
percorrere 1.200 chilometri nel deserto
a bordo di un fuoristrada, perfettamente consapevoli del pericolo che stavano
correndo. “I fiori del Mali”, però, hanno
ancora bisogno del loro aiuto per crescere. «Il mio sogno è diventare inutile, potermi un giorno tirare indietro, sapendo
che quei fiori, anche senza di me, non
appassiranno». [C.L.]
Una donna disabile a causa della lebbra
in Guinea Bissau, piccolo Paese dell’Africa
occidentale (foto di Federica Donà).
Viene curata e assistita presso l’ospedale
di Cumura grazie a un progetto finanziato
dall’Aifo (Associazione italiana amici
di Raoul Follereau), che promuove anche
il reinserimento nei villaggi di origine.
l’autonomia delle persone non vedenti. «I ragazzi ciechi studiavano solo le
materie umanistiche orali, visto che la
scuola non disponeva degli strumenti necessari per accedere anche a quelle
scientifiche – ricorda Nardin –. Abbiamo portato una strumentazione specialistica, installato una stamperia e
formato insegnanti e trascrittrici che
potessero tradurre i testi in Braille, in
nero ingrandito o in formato audio digitale».
Il problema più grande è stata la
manutenzione: «Poco dopo la nostra
partenza, molti strumenti hanno smesso di funzionare, a causa del cattivo uso
da parte dei tecnici – riferisce –. E nessuno era in grado di ripararli. È l’ostacolo che ancora ci troviamo davanti:
superare la dipendenza nei confronti di noi occidentali e assicurare la piena autonomia, grazie a operatori locali
13
INSUPERABILI
Intervista a Gianni Berengo
La professoressa in carrozzina.
E le tante storie di gente normale
Antonella Patete
I
mmagini dove la drammaticità
dell’esistenza non esplode in spettacolo o in tragedia, ma piuttosto composizioni in cui i corpi si inseriscono
con armonioso equilibrio nell’ambiente che li accoglie e ne racconta la storia. Nella sua lunga carriera, il maestro
Gianni Berengo Gardin, tra i più noti e
riconosciuti fotoreporter italiani, ha incontrato anche la disabilità. Negli anni
Sessanta attraverso un lavoro di documentazione e denuncia sui manicomi
italiani, più tardi grazie all’incontro
con organizzazioni come l’Aism (Associazione italiana sclerosi multipla) e la
Casa del Sole di Mantova, che gli hanno permesso di immortalare storie e realtà per molti versi ancora sconosciute.
me si è avvicinato a questa tematica?
È un tema che non ho affrontato in
senso vero e proprio, ma solo di riflesso.
Intendo dire che non ho portato avanti
un lavoro specifico sui matti, pur avendoli incontrati in varie occasioni. Alla
fine degli anni Sessanta ho realizzato un
lavoro sui manicomi, collaborando con
Franco Basaglia. Con la fotografa Carla
Cerati eravamo andati a fare un reportage nel manicomio di Gorizia, da cui
successivamente è nata l’idea di pubblicare un libro. Così nel 1969 è uscito Morire di classe per Einaudi, un volume che
all’epoca ha ottenuto un enorme successo ed è stato stampato in sei edizioni.
faceva il capostazione, era andato in
pensione in anticipo proprio per aiutarla a svolgere i lavori di casa: apparecchiava la tavola, preparava da mangiare,
l’accompagnava in giro a fare spese e,
soprattutto, la portava a scuola e poi andava a riprenderla.
Quali sorprese ha incontrato affrontando
questo tema?
Sono rimasto colpito dall’affetto smisurato che quest’uomo provava per sua
moglie. Ma anche dal fatto che questa
donna facesse una vita normale, malgrado il suo handicap. Una volta, per
esempio, siamo andati a fare una gita in
montagna, con un gruppo di amici anNel 1994 ha realizzato un lavoro con l’Ai- che loro disabili. Insomma, il fatto che,
sm. Che cosa ricorda di quell’esperienza? malgrado tutto, si potesse vivere una viRicordo soprattutto la storia di una ta normale per me è stata una bella sorBerengo Gardin, non tutti conoscono il suo professoressa in carrozzina che inse- presa.
Come è nato il lavoro con la Casa del Sole?
lavoro sulla disabilità fisica e psichica. Co- gnava in un liceo sardo. Il marito, che
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Gardin
Dalla fine degli anni
Sessanta a oggi,
Gianni Berengo Gardin
ha fotografato la disabilità
in varie occasioni:
prima denunciando la
violenza dei manicomi,
poi raccontando la vita
quotidiana di molte
persone. Senza mai
cedere alla tentazione
di una rappresentazione
tragica o spettacolare
sta il meno fotografato dei mondi sociali.
Secondo lei, perché è un argomento poco
interessante?
Forse c’è un certo ritegno da parte
dei fotografi che non vogliono mettere
in imbarazzo i malati. Io, invece, non
provo nessun imbarazzo perché penso
che il mio lavoro può aiutarli un po’ a
migliorare le loro condizioni di vita.
In che modo?
Ho assistito alla soddisfazione dei
malati pischici a farsi fotografare. Certo, qualcuno si rifiuta, ma si tratta di
una minoranza. Anche a Novara abbiamo fotografato le persone mentre giocano a basket, curano i cani, cantano
nel coro, insomma fanno delle attività
quasi normali. Faremo un libro proprio
per mettere in evidenza la differenza
tra come venivano trattati i malati una
volta e come vengono trattati adesso.
La fotografia ha ancora il potere di denunciare e, denunciando, di cambiare le
cose?
Secondo me sì. Certo oggi, rispetto a
una volta, si sanno molte più cose. Prima si conosceva molto poco di quello
che succedeva nei manicomi, perciò nel
’69 il nostro libro ha destato un grande
scalpore. Adesso la gente è più preparata, c’è più conoscenza, più assistenza.
Quello sui manicomi è stato un lavoro di Per questo oggi la fotografia ha un imgrande eco e una grande testimonianza patto meno violento rispetto a una volta.
Nel 2007, mentre ero a Mantova,
ho conosciuto i responsabili di questa
struttura che si occupa di ragazzi con
cerebropatie. Ho lavorato per più di una
settimana con i bambini disabili, seguendo le attività in piscina, in giardino e con i cavalli. Da questo lavoro sono
scaturite alcune mostre, ma purtroppo
non siamo riusciti a fare un libro perché
non abbiamo trovato lo sponsor.
In realtà non ce ne sono state. Di solito i genitori dei bambini disabili non
vogliono che i figli vengano fotografati,
ma in questo caso c’è stata una grande
collaborazione da parte di tutti. Nessuno ha posto alcun tipo di veto.
Alla Casa del Sole c’erano circa 150
ragazzi: la mattina andavano a prenderli
con i pullman dei vari Comuni e li portavano in questa struttura, dove rimanevano fino alle 16-17 del pomeriggio, e
poi li riportavano a casa per non interrompere il rapporto con i genitori. Mi
ricordo alcune famiglie pugliesi e calabresi, che si erano trasferite a Mantova
proprio per poter fare assistere i figli da
questa organizzazione.
do avanti un lavoro sui malati psichici a Novara. Si tratta di una situazione
completamente diversa da quella di fine
anni Sessanta. In quel periodo i malati venivano rinchiusi in dei veri e propri lager, mentre ora sono trattati molto
bene e vivono in gruppi-appartamento. Anche quelli ricoverati in ospedale
sono più liberi, soprattutto di uscire, e
svolgono varie attività. Una volta, invece, venivano legati e non facevano nulla.
storica. È diverso raccontare oggi la disabilità?
Attualmente, insieme alla fotografa
Quale realtà ha avuto modo di conoscere
milanese Donatella Pollini, sto portana Mantova?
Quali sono state le difficoltà?
In qualche occasione ha detto di vantarsi
più delle foto che non ha fatto che di quelle che ha fatto. Che intendeva dire?
Ho cercato di fare molto lavoro sociale, in tutti i campi. Di solito per lavoro sociale si intende fotografare i
“morti di fame”, mentre per me sociale vuol dire tutto, anche ritrarre i principi Torlonia. Ma ho sempre rifiutato di
fotografare il gossip, non mi sono mai
occupato di veline e non ho mai fotografato donne nude, anche quando andavano di moda i calendari. Sono stato
sempre convinto che questo tipo di foto togliesse dignità non solo alle dirette
La disabilità, soprattutto quella fisica, re- interessate, ma a tutte le donne.
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PORTFOLIO Il mondo visto da Berengo Gardin
Per l’Aism (Associazione italiana sclerosi
multipla), Berengo Gardin ha fotografato
gite collettive (come quella in montagna,
qui sopra) e la giornata di Maria Luigia,
professoressa sarda su sedia a ruote,
che insegna mentre il marito si occupa della
casa. Il lavoro è stato pubblicato nel volume
La vita, nonostante: sclerosi multipla, diario per
immagini (Aism, Genova 1997).
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È uno dei più noti fotografi italiani. Nato a Santa
Margherita Ligure (Genova) il 10 ottobre 1930, Gianni
Berengo Gardin comincia a occuparsi di fotografia nel
1954. Ma la sua carriera di fotoreporter inizia nel 1965:
lavora prima per Il Mondo di Mario Pannunzio e poi nelle
maggiori testate nazionali e internazionali: Domus,
Epoca, Le Figaro, L’Espresso, Time, Stern. I suoi scatti sono
stati esposti in tutto il pianeta: dal Museum of Modern
Art di New York alla Biblioteca nazionale di Parigi.
Ha firmato 210 libri fotografici. Oggi vive a Milano
e dal ‘90 è membro dell’agenzia fotografica Contrasto.
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PORTFOLIO Il mondo visto da Berengo Gardin
Nel dicembre 2007, in occasione del Lucca Digital Photo
Festival, Berengo Gardin ha esposto a Lucca il suo
lavoro “Aiutiamo la Casa del Sole”, che comprende
anche la foto della pagina precedente (ripresa in
copertina).
In provincia di Mantova e di Verona, l’associazione
“La Casa del Sole” onlus accoglie persone
con cerebropatie. In cinque centri usufruiscono di
servizi educativi e riabilitativi personalizzati, oltre a
terapie in piscina, con i cavalli e altro ancora.
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CRONACHE ITALIANE Natura amica
Zappando s’impara
Eleonora Camilli
L
a passione di Simona sono le marmellate, e quella di arance che
prepara lei, assicura, «è davvero
buonissima». A Marco, invece, piace
stare a contatto con gli animali: in particolare con gli asini, che accudisce fin
da piccoli. C’è poi chi, come Carmelina,
preferisce prendersi cura dell’orto: seminare, zappare e innaffiare le verdure,
destinate poi alla vendita, è per lei un’attività divertentissima.
Tutti e tre hanno una disabilità mentale e fanno parte di laboratori di inserimento sociale e lavorativo di tre
diverse cooperative romane, che lavorano sull’approccio terapeutico di
un’attività semplice e secolare come l’agricoltura. Alla base c’è la convinzione
che il contatto con la natura riesca a stimolare nelle persone con deficit psichico capacità emotive e comportamentali.
Non solo: la cura della terra può anche diventare una risorsa per un futuro
Coltivare orti, veder
crescere piante e frutti?
Una terapia che dà
risultati positivi anche fra
le persone con disabilità.
Seminando autostima
e inclusione
lavorativo in autonomia. Una filosofia
tutta racchiusa nel nome del progetto
avviato all’Istituto tecnico agrario Giuseppe Garibaldi di Roma – “La terra che
cura, la cura della terra: l’orto dei semplici” – che per il responsabile Gianluca Zuppardi è una sorta di “Tao”: un
cerchio che si chiude, dove il lavoro e la
fatica che i ragazzi riservano alla terra
ritorna loro come miglioramento della
qualità della vita, non solo a livello individuale ma anche relazionale.
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Specializzato nell’avviamento al lavoro dei ragazzi disabili, l’Istituto promuove diversi laboratori: dalla cura
dell’orto alla preparazione dei mercatini. Ma l’obiettivo finale è dar vita a
un vero e proprio agriturismo gestito
dai ragazzi stessi, dove poter mettere in
pratica quanto appreso frequentando la
scuola. «Lavorare la terra per molti di
loro significa lasciare fuori le stereotipie e avere un compito da portare avanti. Per quelli ad alto funzionamento vuol
dire anche avere una responsabilità –
sottolinea Zuppardi –. E capita spesso
che i ragazzi si aiutino tra di loro: quelli che stanno meglio fanno da tutor a
quelli con patologie più gravi».
L’approccio al lavoro è pensato in base ai diversi tipi di disabilità. Per facilitare chi ha disturbi dello spettro
autistico, si fa ricorso al cosiddetto “orto strutturato”: le zolle di terra sono ben
delimitate, come in una sorta di scacchiera, per consentire ai ragazzi autistici
Sotto e nella pagina a fianco, due momenti
della vendemmia all’Agricoltura Capodarco,
a Grottaferrata (Roma)
di capire qual è la parte di terreno su cui
sono loro a dover intervenire. «È un modello semplice e replicabile – aggiunge il
responsabile del progetto –, dove possono lavorare in piena autonomia».
Un aspetto importante del lavoro agricolo è la sua concretezza:
permette cioè di toccare con mano il risultato di tanta fatica. «Quello che colpisce coloro che partecipano ai nostri
progetti è il ritorno di quello che si fa.
Quando piantano un seme, lo curano e
poi vedono il prodotto finito, tangibile, del loro lavoro: si rendono conto di
quello che hanno realizzato e di quanto sia importante. E quella produttività che appartiene a loro è fondamentale
per una piena inclusione sociale», spiega Tiziano Cardini, operatore della cooperativa sociale “L’orto magico”, che ha
due fattorie sociali nella Capitale: una
nella zona della Bufalotta, alle porte di
Roma, e l’altra in provincia, a Nazzano.
In tutto, 25 i giovani con disturbi cognitivi impiegati nelle attività di coltivazione e trasformazione dei prodotti: oltre
all’orto, infatti, si producono dolci, conserve e diverse creme, come il pesto di
rucola o di radicchio. Anche qui a essere
seguiti nei laboratori sono soprattutto
ragazzi in età scolare; le richieste di in-
serimento nei progetti arrivano, infatti,
non solo dalle famiglie ma anche attraverso le scuole. Hanno invece dai 18 anni in su le persone inserite nei progetti
di “Terra d’orto onlus”, che porta avanti
tre iniziative nell’ambito dell’ agricoltura sociale: la fattoria, l’orto comunitario
e il centro estivo. «Lavoriamo molto sul
gruppo – spiega l’educatrice Emanuela
Canessa –. Facciamo in modo che ci sia
molta collaborazione tra le persone che
seguiamo, così chi ha la tendenza a isolarsi si sente parte di un insieme».
Tra le realtà che si occupano da
tempo di agricoltura sociale, nel
Lazio c’è la cooperativa “Agricoltura
Capodarco”, che vanta un’esperienza
trentennale sul campo. Situata a Grottaferrata, nel cuore dei Castelli romani, gestisce la coltivazione, produzione
e vendita di prodotti orticoli, rigorosamente biologici. Ma tra le attività figurano anche l’allevamento di pollame e
la produzione di miele, olio d’oliva e vino. Tra i progetti destinati alle persone
disabili, il “Viva-io”, un laboratorio sociale in cui i ragazzi con deficit psichico si prendono cura di fiori e piante.
L’assunto di base è che aiutare un altro organismo
vivente a svilupparsi può
21
costituire un valido aiuto nella crescita dell’autostima e nel rapporto con gli
altri. «Questo progetto floro-vivaistico
include disabili mentali e soggetti psichiatrici, dai 18 ai 30 anni – spiega Sara Nigri, responsabile dell’iniziativa –.
Tutto parte come un gioco, ma pian
piano le persone seguono ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina
in poi. Un percorso graduale che dà risultati di miglioramento: uno dei nostri
ragazzi con disturbo psichiatrico da tre
anni – cioè da quando lavora al vivaio –
non è più stato ricoverato».
Sulle capacità di recupero tramite attività all’aria aperta non ha dubbi
neppure Annalaura Rosati, fra i responsabili dei progetti promossi dalla cooperativa “San Michele onlus”: agricoltura
sociale, giardinaggio, onoterapia (pet
therapy con gli asini), fino a produrre colori naturali da edera, melograno
e camomilla. «Vivere a contatto con la
terra fa bene a tutti. La coltivazione permette l’avvicinamento ai cicli della vita;
i ragazzi con deficit cognitivo imparano a star bene con se stessi – racconta
Annalaura –. Ed è importante an
anche nell’onoterapia: con l’asino si
sviluppa un rapporto che aiuta a gestire anche il proprio corpo e le proprie
emozioni».
SOTTO LA LENTE In punta di ruote
La danza di Linda
Campionessa mondiale
di wheelchair dance,
la diciassettene di Cecina
con spina bifida coltiva la
sua passione
per il ballo, con un sogno
nel cassetto: «Vivere
in Olanda, il Paese
più attrezzato
per la mia disciplina»
Alessandra Brandoni
A
17 anni è già campionessa del mondo in carica di wheelchair dance,
danza sportiva su sedia a rotelle. Ed è arrivata fino in Cina grazie alla sua passione, sognata fin da piccola e
poi vissuta, nonostante la spina bifida.
Complici un carattere testardo e una famiglia che non l’ha mai ostacolata, anzi
l’ha sostenuta nel realizzare la sua ambizione. Linda Galeotti, di Cecina (Livorno), racconta la sua storia di giovane
atleta con semplicità e grazia, rivelando i suoi desideri per il futuro: diventare insegnante di danza e andare a vivere
in Olanda, «il Paese più attrezzato per la
mia disciplina».
Il penultimo campionato al quale
Linda ha preso parte è stato quello regionale di Prato. L’ultimo appuntamento, per lei che è abituata a stare sempre
in movimento, senza fermarsi neanche
per un attimo, è il campionato italiano
disputato il 27 maggio a Rimini. Si ci-
22
menta nelle danze standard – che includono valzer, valzer viennese, tango,
foxtrot lento, quick step – e in quelle latinoamericane, che comprendono samba,
cha-cha-cha, rumba, paso doble e jive: le
sue preferite.
La sua prima lezione di ballo? Nel
settembre 2006. L’anno dopo, a Bologna,
ha vinto il primo campionato italiano
su sedia a rotelle della Fids (Federazione italiana danza sportiva). Poi ci sono
stati i tornei in Europa e le Olimpiadi in
Cina. La conquista del titolo mondiale è arrivata invece nel 2010, in Olanda.
«In quel momento mi sono sentita felice, perché tutti i miei sacrifici e il mio
impegno sono stati ripagati».
Il motto di Linda è: «Tutti possono
ballare». E la sua vita ne è la testimonianza. La quotidianità è quella di un’adolescente come tante altre: di mattina
la scuola, di pomeriggio gli allenamenti con i suoi compagni di ballo, la sera le
Nella foto grande, Linda con il suo
partner durante una gara. A destra,
con un’amica e compagna di classe.
La wheelchair dance è praticata
in circa 22 Paesi, ma non fa ancora parte
del programma delle Paralimpiadi.
In Italia la prima scuola è nata a Firenze.
uscite con le amiche e il fidanzato. Ma
con una particolarità: un sogno da inseguire, fatto di esibizioni e continue
sfide, partenze, gare, abiti scintillanti,
piste, saggi. E una personalità forte, da
campionessa, di quelle che di fronte agli
ostacoli tirano fuori le unghie invece di
arrendersi, credendo fermamente che
nulla sia impossibile: «Sono testarda: se
voglio fare una cosa, la faccio e basta e la
devo ottenere per forza», conferma. Tutto questo vissuto con estrema naturalez-
za, e con la freschezza dei 17 anni. Ma in
un orizzonte grande quanto il mondo.
«La danza mi è sempre piaciuta, fin
da piccola. Un giorno mia madre mi ha
fatto una sorpresa e mi ha portato in
una scuola di ballo, così ho deciso di
iniziare. Avevo 12 anni – racconta –. Da
allora non ho mai smesso di ballare, mi
alleno tre volte a settimana, quando ci
sono le gare anche tutti i giorni». Prima
di ballare, Linda ha fatto nuoto e tennis, «ma è stata la danza a cambiarmi
la vita, permettendomi di viaggiare, conoscere nuovi posti e culture, imparare
a muovermi meglio».
Ma la situazione della wheelchair
dance in Italia non è proprio rosea: «Siamo indietro rispetto ad altri Paesi, nel
senso che ci sono meno coppie, meno
competizione. All’estero, invece, la wheelchair dance è considerata una vera e
propria disciplina, seguita da molti disabili e anche molto apprezzata dal pubblico. In ogni caso, non ho avuto nessuna
difficoltà a praticarla in Italia».
Il ruolo della famiglia
Galeotti è stato cruciale in questo percorso: «I miei genitori
mi hanno spinto a
non arrendermi, a realizzare il
mio sogno; hanno sempre fatto
sacrifici per aiutarmi e accompagnarmi alle gare.
Senza il loro supporto non sarei arrivata fin
qui», assicura Linda. Grazie a loro e al fidanzato, «non c’è
niente che considero un ostacolo. Spesso vedo persone come me che si chiudono in se stesse, che si isolano. Io però
non lo faccio mai, perché sono circondata da persone che mi aiutano». E ora
non riuscirebbe a immaginare la sua vita senza la danza: «Per me è la cosa più
importante». Tanto che, tra i suoi obiet-
23
tivi futuri, c’è quello di iniziare a insegnare proprio ballo in sedia a ruote.
Intanto su Youtube si possono visionare i video delle sue gare.
Far capire a tutti l’importanza per i
ragazzi disabili di socializzare attraverso lo sport: è un pallino di Linda e lo
scopo dell’associazione “Wind Dancers”,
nata nel 2008, presente su Facebook e
Twitter. «Teniamo corsi di ballo grazie
all’aiuto di molti volontari. Attualmente siamo dieci ballerini, non tutti fanno
le gare, ma si limitano ad allenarsi – riferisce –. Invece a me è venuto naturale
fare danza a livello agonistico».
E a scuola? Patrizia Pellegrini insegna da 15 anni e da tre è la docente di sostegno di Linda, che frequenta la terza
classe (indirizzo turistico) dell’Istituto
“Polo-Cattaneo” di Cecina. La studentessa non ha un programma speciale,
ma lo stesso della sua classe, con alcune semplificazioni previste dal suo piano individualizzato. Per l’insegnante,
l’impegno nello sport di Linda è una ricchezza: «Come tutti i ragazzi che
fanno sport a livello agonistico,
conosce l’importanza dell’impegno, delle regole,
dell’applicazione».
E la scuola va
incontro alle sue
esigenze «quando deve allontanarsi per le
gare – prosegue Patrizia –.
Il suo profitto nello studio è buono ed è ben inserita, oltre a essere fidanzata con un ragazzo che frequenta
l’istituto». Ballare, per Linda, «significa sentirsi senza nessuna differenza.
Ha un carattere vivace e determinato e
spesso ci dimentichiamo che sia in carrozzina. Io ne sono fiera e credo che sia
un ottimo esempio per gli altri».
SPORT Verso le Paralimpiadi
fabrizio
Sottile,
il futuro
in una
vasca
È ipovedente, ma
in acqua ci vede
benissimo: il campione
varesino, promessa
del nuoto paralimpico,
in due anni ha conquistato
primati e un bronzo
europeo. Stile libero,
naturalmente
Stefano Caredda
I
n acqua, quando nuota, c’è un solo colore: l’azzurro. E il suo occhio sinistro
(l’altro «ormai è andato») è ancora
capace di riconoscere quella riga blu sul
fondo della vasca che avvisa il nuotatore
dell’imminente necessità di prepararsi
alla virata. Fuori dall’acqua, invece, «solo luci e colori che mi disturbano» e che
rendono la vita all’asciutto assai più difficile di quella in vasca. Fabrizio Sottile è il futuro del nuoto paralimpico: da
due anni – oggi ne ha 19 – combatte con
una grave neuropatia ottica, dovuta a
una mutazione genetica trasmessa per
via ereditaria. Si chiama malattia di Leber e, secondo i freddi rapporti medici sulla frequenza della patologia fra la
popolazione, colpisce una persona ogni
50mila. Lui è quel caso.
La malattia è degenerativa e, per
mantenere quanto più possibile stabile
la pur limitata percezione ottica che Fabrizio ancora conserva, ci vuole un far-
24
maco che rallenta lo spegnimento dei
nervi ottici: è ancora sperimentale, si
chiama idebenone. «Ne prendo 21 pastiglie al giorno, quando il foglietto illustrativo ne prescrive al massimo sei»,
racconta, assicurando comunque che
quello «è il dosaggio giusto per me».
La sua determinazione – e ne ha davvero parecchia – Fabrizio l’ha portata
subito in vasca, insieme alle sue indubbie doti elastiche e a una velocità portentosa: dal punto di vista sportivo, oggi
fiamme paralimpiche
si fa un gran parlare di lui come grande promessa del nuoto paralimpico. Del
resto, con il suo bronzo europeo vinto
sui 400 stile libero a Berlino nel 2011,
ha già dimostrato – per essere poco più
che adolescente – una personalità già
ben definita e una sicurezza invidiabile. Agli europei del 2011 non solo è salito
sul podio, ma si è tolto anche lo “sfizio”
di stabilire i nuovi primati italiani sui
400 stile – la sua gara – e poi nei 50 e nei
100 stile, nei 200 misti e nei 100 farfalla.
L’acqua, del resto, è sempre stato il
suo elemento. La mamma lo buttò in
piscina che lui aveva appena tre mesi: esercizi di acquaticità, naturalmente, e si sa che per i neonati quello è un
ambiente familiare, visto che le nuotate nel liquido amniotico sono ancora esperienza recente. Fabrizio Sottile
nuota da sempre, insomma, e non sorprende certo sapere che già a otto anni
l’attività agonistica entra a far parte della sua vita.
A distanza di oltre dieci anni, e
dopo essere passato sul versante paralimpico, le ore passate ogni giorno in
piscina sono diventate almeno tre, dalle due alle cinque del pomeriggio, per
l’allenamento in acqua. Tre volte a settimana, poi, la preparazione continua in
palestra. Risultato: «Tempo libero, niente», dice, ma del resto non si diventa dei
grandi atleti senza sacrifici.
E se le specialità in cui Fabrizio sa dare il meglio di sé sono i 50, i 100 e i 400
stile libero (agli Europei 2011 è arrivato rispettivamente al quinto, quarto e
terzo posto), «per non disperdere troppe energie» a Londra porta solo i 100 e i
400. Ovviamente, senza i costumi al poliuretano, banditi dalla Federazione internazionale: «Era doping tecnologico
– afferma Sottile – perché l’atleta muscoloso, anche se più pesante degli altri,
per effetto di quel costume galleggiava sull’acqua. Ora invece siamo tutti allo stesso punto di partenza e ognuno si
A sinistra, fabrizio Sottile.
In basso, francesca Porcellato in
uno scatto di Paolo Genovesi, tratto
dal libro Liberi di sognare, scritto da
Marco Tarozzi (Minerva edizioni)
gioca le sue carte in base alle sue caratteristiche».
Che le caratteristiche di Fabrizio Sottile siano quelle di un atleta di
primo piano lo sanno bene alla Polha
Varese, la celebre società di sport per
persone disabili della città lombarda:
Fabrizio ha indossato la loro casacca fino a pochi mesi fa, quando una telefonata improvvisa lo ha informato che il
suo nome era stato scelto dal Comando
generale della Guardia di Finanza per
entrare a far parte del loro glorioso sodalizio sportivo, le Fiamme Gialle.
«Quando il presidente della federazione nuoto, Roberto Valori, me lo ha
detto, mi è preso un colpo e mi sono
messo a urlare: mi dava due giorni di
tempo per pensarci, ma non c’era proprio nulla a cui pensare. Era un sì, subito».
Un’occasione così non capita tutti i
giorni e la risposta era davvero obbligata: da sempre le Fiamme Gialle sui
campioni scelti investono energie, denaro, ambizioni, quanto di meglio un
atleta possa sperare. Non a caso, pur
con dispiacere, anche alla Polha hanno
dovuto riconoscere che opportunità come queste capitano una sola volta e bisogna coglierle al balzo.
«Non sono impaurito, ma responsabilizzato e orgoglioso per questa scelta», commenta oggi Fabrizio. Pronto,
con i suoi 19 anni, a volare fino a Londra per la sua prima Paralimpiade.
25
In principio erano solo le Fiamme Azzurre, il
sodalizio sportivo della Polizia Penitenziaria:
il primo, fra i grandi gruppi sportivi collegati
ai Corpi delle Forze dell’ordine, a garantire
l’ingresso degli atleti paralimpici. Negli ultimi
mesi, l’avvicinamento alle Paralimpiadi
di Londra ha portato grandi novità: prima
le Fiamme Gialle, il gruppo sportivo della
Guardia di Finanza, e poi le Fiamme Oro,
il sodalizio della Polizia di Stato, hanno
spalancato le porte agli atleti con disabilità.
La crescita del movimento paralimpico
si nota anche da questi passi: certo, gli
atleti scelti rappresentano l’eccellenza, si
contano sulle dite di due mani o poco più,
ma la loro esperienza è un segno evidente
dell’importanza che lo sport per disabili sta
lentamente acquisendo nel nostro Paese. Già
nel 2007 la Polizia Penitenziaria, d’intesa con
il Comitato paralimpico, accolse fra le sue fila
Gian Maria Dal Maistro e Tommaso Balasso,
assi dello sci alpino, Fabio Triboli, campione
di ciclismo, e Stefano Lippi, stella di diamante
dell’atletica leggera nostrana. Due anni
dopo, l’apertura a Marco Vitale (arco), Paolo
Viganò (ciclismo) e Walter Endrizzi (atletica
leggera), poi ancora i fratelli Pizzi (Luca e
Ivano, campioni nelle due ruote sul tandem).
In questi cinque anni, pioggia di medaglie
fra campionati italiani, europei, mondiali e
Paralimpiadi. Quelle che sperano di ottenere
anche i colleghi entrati a far parte (tra
febbraio e marzo 2012) degli altri due circuiti,
siglando due diversi protocolli d’intesa con il
Comitato italiano paralimpico. Ad allenarsi
e gareggiare con i colori della Guardia di
Finanza nelle Fiamme Gialle sono stati
chiamati Francesca Porcellato – un passato
nell’atletica (11 medaglie paralimpiche) e un
presente nello sci nordico – e due giovani
promesse: con il nuotatore Sottile, la velocista
22enne Martina Caironi, una protesi alla
gamba sinistra, in gara sia nei 100 metri che
nel salto in lungo. Infine, sono entrati nelle
Fiamme Oro della Polizia di Stato Alessio Sarri
e Andrea Macrì, certezze della scherma in
carrozzina, ed Enzo Masiello, veterano dello
sci nordico. [S.C.]
TEMPO LIBERO A vele spiegate
Navigare per
socializzare
Chi lo ha detto che le vacanze al mare fanno rima
col restarsene sotto l’ombrellone? Sono sempre più le
organizzazioni che propongono viaggi e gite in barca.
Un piacere per chi ama la vita all’aria aperta
e un modo per riscoprire il rapporto con la natura
Giovanni Augello
È
il ritmo, il segreto fondamentale della barca a vela. Non conta solo conoscere a memoria il variegato
vocabolario nautico. La randa, la scotta, il winch, la boma e tante altre esotiche parole. Non basta saper riconoscere
i venti. Quel che insegna la vela è il rispetto dei tempi e del ritmo della vita,
nel suo senso più ampio. Ne è convinto Bruno Brunone, presidente dell’associazione “Vela Insieme”, una “scuola di
mare” accessibile a tutti con base nautica in provincia di Grosseto, a Marina
di Scarlino. Che da anni affronta l’integrazione tra disabili e normodotati sui
pochi metri quadri di un’imbarcazione,
scivolando sulle onde del mare.
«Nella vita ci sono dei ritmi. Quello
del motore si avvicina di più al tran tran
del quotidiano. La dimensione della vela
è un cosmo diverso: i tempi sono dettati
dalla natura. Si naviga in silenzio, senza consumare un grammo di gasolio e
condividendo uno spazio limitato con le
persone a bordo. Quei pochi metri sono
una cartina di tornasole: difetti e pregi
vengono messi in chiaro in poche ore».
Dalla formazione degli skipper alla
velaterapia, sono diverse le attività svolte dall’associazione in questi anni, ma
è il superamento delle barriere fisiche e
mentali la vera vocazione di “Vela Insieme”. «La barca è un microcosmo – racconta Brunone –. Stare a bordo ha una
forte valenza educativa per tutti i giovani». A tenere il timone dell’associazione, ci sono anche circa 25 skipper
volontari, che mettono a disposizione la
propria professionalità per realizzare i
programmi. Grazie a loro è possibile organizzare le uscite in mare, che ogni anno coinvolgono circa 300 ragazzi.
Nonostante il clima mite del litorale toscano, è l’estate l’alta stagio- progetto di velaterapia. Un modo per
ne per corsi e attività. La navigazione si
svolge a bordo di tre imbarcazioni a vela
dai 12 ai 14 metri: un Oceanis 390 e due
Bavaria 44, in grado di ospitare equipaggi composti da otto persone per crociere estive di una settimana nei parchi
marini protetti di Elba, Capraia e Pianosa, Giglio e Giannutri, grazie anche al
contributo della Regione Toscana. Attività che dallo scorso anno vengono seguite anche a livello scientifico, con il
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valutare non solo “a pelle” gli effetti positivi riscontrati in questi anni.
I primi risultati confermano la bontà delle esperienze. «Abbiamo coinvolto
ragazzi con diversa disabilità, sia psichica che motoria, monitorandone alcuni valori emozionali e della pressione
sanguigna. Se nell’ippoterapia il primo
impatto col cavallo porta a parametri
pressori differenti ed emotività marcata, con la vela abbiamo avuto ottimi ri-
sultati». Lo scorso anno il progetto di
velaterapia è stato finanziato dalla Regione Toscana, in collaborazione con
la Asl 9 di Grosseto e con il contributo
dei Rotary Club della Provincia. L’esperienza ha coinvolto 120 ragazzi, di cui
40 con disabilità cognitiva, 20 accompagnatori e 60 giovani delle medie superiori del territorio.
Ne è scaturito uno studio seguito da
Paolo Balestri, direttore della clinica pediatrica dell’Università di Siena, e Giulia
Balboni, del dipartimento di psichiatria dell’Università di Pisa. «Abbiamo
potuto documentare come aumentano le competenze rispetto alla vita di
tutti i giorni e le autonomie personali
per quanto riguarda le persone disabili – spiega Francesco Toninelli, responsabile scientifico del progetto –. Inoltre
cambiano gli atteggiamenti tra disabili e normodotati: migliorano la comunicazione e l’integrazione, si riducono gli
stereotipi».
27
L’esperienza verrà ripetuta anche quest’anno, sempre con il sostegno
della Regione. Dal mese di giugno fino a
settembre, “Vela Insieme” metterà a disposizione per 40 ragazzi e ragazze con
difficoltà cognitive e per altrettanti giovani normodotati di età compresa tra i
14 e i 30 anni due imbarcazioni, per effettuare viaggi itineranti di cinque giorni nelle isole dell’arcipelago toscano.
Ma l’esperienza di “Vela Insieme”
non è l’unica in Italia e, soprattutto,
TEMPO LIBERO A vele spiegate
Barca sì, ma accessibile
non è un’esperienza isolata. Esiste, infatti, una rete di associazioni, l’Unione
vela solidale, che finora raccoglie le adesioni di 27 realtà in dieci regioni italiane
dal Nord al Sud. «Uno dei nostri principali obiettivi, oltre al confronto, è fare rete – spiega Enzo Pastore, presidente
dell’Unione vela solidale –. Da quest’anno stiamo lavorando a una progettualità
comune per presentare iniziative a livello nazionale».
Una rete voluta anche per sensibilizzare governi e amministrazioni
sull’accessibilità dei porti. «Da tre anni abbiamo avviato una campagna per
ottenere agevolazioni – dice Pastore –.
Abbiamo realizzato un manifesto della
nautica solidale e stiamo raccogliendo
consenso da parte dei politici per un’interpellanza parlamentare sull’abbattimento dell’Iva relativa alle attività delle
nostre associazioni».
A pesare sui bilanci, anche lo stazionamento delle imbarcazioni nei porti.
«Con l’autorità portuale del nord della
Sardegna abbiamo fatto un accordo per
cui vengono assegnati un certo numero
di posti barca al sociale. Iniziativa che
abbiamo portato anche a Civitavecchia,
dove l’autorità portuale ha concesso dei
posti, e stiamo trattando anche con Bari e Ravenna».
Con diverse città si lavora contemporaneamente alla predisposizione di
porti accessibili. «Ci stiamo battendo
affinché vengano installati impianti di
sollevamento pubblici per far salire a
bordo i disabili. A Civitavecchia è stato
fatto. Ora speriamo anche altrove».
Ma la formazione resta uno dei
nodi critici da affrontare. «Uno dei
problemi più importanti è avere personale qualificato – aggiunge Pastore –.
Essere volontari è molto, ma non basta.
Occorre anche una certa professionalità.
Abbiamo cercato negli anni di redigere
una sorta di manuale dello skipper sensibile, con ottimi risultati». Ne è convinto anche Brunone: «Il problema non è
avere più barche. Come tutte le imprese,
il successo è solo degli uomini, non dei
mezzi. Per questo cerchiamo volontari
che possano donare tempo e esperienza:
il fattore umano è fondamentale».
Nonostante le difficoltà, a Brunone
non manca certo il vento. A fine maggio, infatti, “Vela Insieme” ha presentato
a Milano un nuovo ambizioso progetto:
“Tutti a bordo” coinvolgerà 50 ragazzi
normodotati e disabili provenienti da
tutta Italia, per dar vita a cinque crociere in altrettanti anni nelle riserve marine più ambite d’Italia, dalla Toscana
a Napoli, dalla Sicilia alle isole Tremiti, con gli sponsor che decideranno di
supportare l’iniziativa. Tra le idee per
finanziare il progetto, concerti di beneficenza e anche un format televisivo che
veda artisti sensibili partecipare attivamente, mettendo concretamente mano
al timone e ai nodi scorsoi.
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È il destino della vela quello di essere
governata da pionieri. Come dimostrano
alcune esperienze di vela accessibile: non
barche riadattate, ma nate così fin dallo
stampo iniziale. Si tratta, però, di casi isolati,
spiega Enzo Pastore, presidente dell’Unione
vela solidale: «Eppure si tratta di un possibile
mercato. Stiamo cercando di far capire ai
cantieri che si possono rendere le barche
accessibili con piccole modifiche nei progetti».
A oggi, però, ci sono soltanto prototipi. Barche
che spesso «rischiano di finire ormeggiate e
abbandonate». Ad averci creduto, invece, è
Luigi Zambon, proprietario del cantiere navale
“Sabaudia Etica”, sul litorale laziale. Nel 2001,
grazie al contributo della Regione Lazio, ha
creato una barca a vela d’altura di 12 metri,
totalmente accessibile: la Sabaudia Prima.
Per Zambon, perché una barca sia accessibile,
bisogna farla ex novo. «Riadattata costa molto
di più – spiega –: bisogna fare modifiche
strutturali alla barca». I costi complessivi sono
un po’ più elevati in tutti i casi: «Non esiste
uno stampo già pronto e non tutti hanno le
stesse necessità. Sono barche fatte a mano;
il grosso della spesa non è tanto lo scafo o
la coperta: per le barche d’altura sono gli
arredamenti interni, il materiale adoperato
e la manodopera». Alla barca si aggiunge
un’altalena che scende in acqua, permettendo
alla persona su sedia a ruote di fare il bagno e
tornare a bordo.
Ma la vela non convince ancora gli acquirenti,
al contrario delle barche a motore, per le
quali il cantiere ha ricevuto circa 260 richieste.
«Quando si è piccoli imprenditori, fare barche
non è un buon business. Ci vorrebbero spalle
più grosse delle mie per investire in questo
progetto. Ma per quello che costa un posto
barca, bisogna anche permetterselo –
commenta Zambon –. Ora stiamo cercando uno
sponsor per fare uno stampo nuovo per quella
a motore». Per informazioni, Velaetica.it. [G.A.]
In queste pagine: in barca con
“Vela Insieme”. Nella pagina
precedente, un momento
del Giro d’Italia promosso fino
al 2006 dall’associazione
“Matti per la vela”
Gomene e funi, passione preziosa
P
er quanto bella, la vela resta un’esperienza costosa. Il mantenimento delle imbarcazioni, il posto
barca e tutto quel che gravita intorno alla nautica ha prezzi non proprio accessibili, anche se si parla di vela solidale.
E le difficoltà possono portare progetti riusciti a gettare la spugna. È il caso
di “Matti per la vela”, un’esperienza nata
a Genova col sostegno dello Yacht Club
italiano per realizzare iniziative rivolte
al disagio giovanile e alla disabilità. Come il Giro d’Italia, svoltosi fino al 2006,
che ha visto alternarsi a bordo un’ottantina di pazienti psichiatrici tra i 24 e i 45
anni. «Non è stato semplice, ma ci siamo riusciti – spiega Paolo Vianson, uno
dei fondatori del progetto –. Utilizzavamo tutta la parte dell’anno per allenare i
vari gruppi. Poi contattavamo i diparti-
menti di salute mentale dei luoghi dove
attraccavamo, per far conoscere e condividere il progetto. Abbiamo contattato associazioni che oggi fanno quel che
facciamo noi, dando inizio a qualcosa di
nazionale».
In giro su di una barca a vela di 20
metri, messa a disposizione da un armatore milanese, “Matti per la vela” ha
il merito di aver dato una spinta significativa a tante realtà impegnate oggi
in questo campo. Il Giro d’Italia finiva con la Barcolana, storica regata di
Trieste. «Poi ci siamo dovuti fermare
per mancanza di fondi. Siamo in crisi
anche noi». Attualmente l’associazione
è impegnata in un progetto di supporto agli enti che hanno in carico minori
in condizioni di disagio familiare e sociale, ma Vianson non nasconde il de-
29
siderio di far ripartire il Giro. «Sarebbe
bello poterlo rifare, ma per far andare
la barca servono fondi».
A risentire degli effetti della crisi sono un po’ tutte le associazioni, spiega
Enzo Pastore, presidente dell’Unione
vela solidale. «Nelle realtà di volontariato, spesso le attrezzature sono dei
soci, quindi il problema è poco sentito, mentre per gli altri si tratta di una
grande difficoltà. Ci stiamo strutturando per presentare progetti a livello nazionale, con più probabilità di essere
finanziati». Per fare il punto sulla situazione, le associazioni si sono incontrate
a Portoferraio, sull’isola d’Elba, a fine maggio, per la manifestazione “Mare Libera”. «Un’iniziativa – sottolinea
Pastore – quest’anno totalmente senza sponsor, tutta nostre a spese». [G.A.]
EVENTI
Non solo Lis:
i festival
del cinema
sordo in salsa
internazionale
La regista Elisabetta Sgarbi con Pino
Roveredo e Antonio Stagnoli, durante
le riprese del film-documentario
Sono rimasto senza parole
C
inedeaf, il primo Festival
del cinema sordo, è stato un
evento inedito e insolito per
la capitale, agli inizi di maggio.
Organizzato dall’Istituto statale per sordi di Roma, è stato realizzato grazie al contributo della
Provincia e con il patrocinio del
ministero per i Beni culturali,
dell’Ente nazionale sordi, del Segretariato sociale Rai e dell’Assessorato alla cultura regionale.
Ma ormai da
tempo, in tutto
il mondo, vengono promosse rassegne del
genere, con un
obiettivo identico: «Aprire le
porte al Deaf cinema e diffondere la cultura
sorda e la lingua
dei segni». Forse è azzardato
definire il fenomeno come una
costola dell’orgoglio Lis, però i
fatti dimostrano
che anche le pellicole e i concorsi cinematografici
possono rappresentare un mezzo
di inclusione, di sensibilizzazione
e informazione.
Tra i principali Festival del cinema sordo nel pianeta, il Deaffest, svoltosi dal 25 al 27 maggio
presso la Light House a Wolverhampton, nel Regno Unito,
che ha messo in evidenza registi e artisti sordi provenienti da
tutto il globo. Invece a Melbourne, presso l’Arts Access Victoria,
a settembre si svolgerà The other
film festival, con un’intera sezione dedicata alla sordità; tra gli
ospiti, registi australiani e inter-
30
nazionali. A novembre, nei Paesi
baschi, l’associazione delle persone sorde di Tolosa-Goierri promuoverà per una settimana al
Leidor Cinema di Tolosa il Gainditzen Festival, terza edizione internazionale di film in lingua dei
segni; da quest’anno ai cortometraggi in Lis si affiancheranno i
lungometraggi, compresi i documentari. Altra novità? Il contest
Silent art, insieme ad altre due sezioni in gara: Feature film contest
e Short film contest.
Insomma, il fenomeno sta crescendo ed è sicuramente da monitorare per valutarne la caratura
artistica, oltre che il valore sociale. Nella metropoli romana un
assaggio lo ha dato la pellicola
di Elisabetta Sgarbi, Sono rimasto senza parole, prodotta da Studio d’arte Zanetti e Betty Wrong
(pseudonimo della regista, che ha
esordito nel 1999 in questo ruolo ed è anche direttore editoriale
della casa editrice Bompiani).
Il protagonista assoluto è il pittore sordomuto Antonio Stagnoli – classe 1922, vissuto in collegio
fino a 37 anni – che disegna animali dal volto umano e si racconta allo scrittore triestino Pino
Roveredo, premio Campiello per
Mandami a dire, figlio di sordomuti. Una narrazione che si snoda
in gesti, parole e anche suoni per
gli spettatori udenti: alle musiche
originali di Matteo Ramon Arevalos si affiancano brani di Verdi,
Bach, fino a Franco Battiato.
Set principale del film-documentario, sottotitolato per i non
udenti, lo studio di Stagnoli a Bagolino, nel Bresciano, dove entrambi snocciolano ricordi e la
grande passione – condivisa – per
l’arte, pittorica o letteraria che sia.
[Laura Badaracchi]
CULTURA
IL CASO
Un viaggio
iniziatico
che scala
le classifiche
Fulvio Ervas
Se ti abbraccio
non aver paura
Marcos y Marcos 2012
pagine 320, euro 17,00
È
stato per settimane ai primi
posti della classifica dei libri
più venduti. E potrebbe essere anche trasformato in un film
il volume Se ti abbraccio non aver
paura di Fulvio Ervas, edito da
Marcos y Marcos, che racconta il
viaggio panamericano compiuto in moto, nell’estate del 2010,
dall’imprenditore veneto Franco
Antonello insieme al figlio (allora) diciottenne Andrea, autistico.
Secondo indiscrezioni dell’autore, il libro potrebbe essere tradotto in cinque lingue straniere.
Qual è il segreto di questo successo? Gli ingredienti dosati fra
le pagine lo accennano: il rapporto intenso tra padre e figlio nel
passaggio all’età adulta, la metafora del viaggio come parabola
esistenziale, il fascino americano
dell’on the road, l’impatto della
storia vera (seppur romanzata),
il registro di una narrazione autentica che oscilla sapientemente tra l’ironico e il drammatico.
Un esempio? «C’è chi dice che
vivere con un figlio autistico significa sottostare a una specie
di tirannia. Mi viene da ridere
al pensiero di cosa accadrebbe al
mondo se cadesse sotto il controllo di Andrea. Per prima cosa le
settimane avrebbero un colore».
Prima della partenza, l’itinerario viene sconsigliato dai medici a Franco, convinti che potrebbe
destabilizzare Andrea; ma l’esperienza si rivela vincente, forse
unica nel suo genere. Intuito dettato dall’amore paterno, a tratti
graffiante e struggente al tempo
stesso? Dal racconto emerge che il
viaggio ha fatto bene alla relazione fra i due: lo evidenziano anche
le frasi (trascritte integralmente)
digitate al pc da Andrea, che riesce a esprimere le sue emozioni
in frasi sintetiche, lapidarie quasi e che arrivano dritte al punto.
Denotando una sensibilità fuori
dal comune, tutta da sondare con
canoni differenti da quelli consueti: «Andrea è un viaggio nella
vita. Ci ha iscritti alle olimpiadi
di salto in lungo dal problema alla soluzione. Non abbiamo vinto
molte medaglie, ma perlomeno
non ci siamo fatti corrodere dalla tristezza, dalla rassegnazione,
schiacciare dal peso delle difficoltà. Muoversi, anche quando
può sembrare un’illusione». Ma
la chiave della popolarità e diffu-
31
sione di questo romanzo tutt’altro che “leggero” sta forse nel
suo approccio mediatico al lettore: trailer del viaggio su YouTube, profilo facebook di Andrea,
sito Andreaantonello.it in cui si
trovano immagini dell’avventura
americana e della sua vita. Poi il
coinvolgimento degli allievi della “Piccola scuola di arti narrative
Marcos y Marcos”, edizione 2012,
che hanno contribuito all’editing,
e gli studenti del liceo classico romano “Giulio Cesare”. A marzo,
infatti, l’editore ha lanciato Book
generator, progetto-laboratorio
che ha coinvolto i ragazzi fuori
dall’orario scolastico per svelare
come nasce un libro.
Ultimo, ma non ultimo: Franco Antonello impiegherà la quota
a lui spettante delle vendite per
contribuire alla costruzione di
una casa per Jorge, ragazzo autistico che vive in una baracca nella foresta del Costarica. [L.B.]
CULTURA
manzo popolare: il malinteso, il
colpo di scena, la bontà, la perfidia, il pericolo e naturalmente l’amore. È soprattutto il racconto di
una crescita e di un’emancipazione – quella dal suo stesso modo
di vedersi e considerare i propri
limiti –, lette con la maturità di
chi è riuscito a elaborare il dolore
e la frustrazione, ma anche i piccoli e grandi successi personali. Il
volume è disponibile anche nelle versioni e-book e audiolibro.
LIBRI
A colpi d’ala
verso l’inclusione
D
al borgo di provincia in cui
devi essere «crocifisso nel
tuo ruolo», fino alla presa di
coscienza delle proprie capacità,
questa autobiografia romanzata
racconta la storia di un’emancipazione dai luoghi e dal modo di
Ecco il primo Manuale di Lingua
vedersi e considerarsi. Infatti soitaliana per sordi stranieri.
no due i modi in cui, di solito, si
Curato da Simona Bonanno,
parla di disabilità: nel primo si
Francesca Delliri, Enrico Dolza
descrive «il disabile come vittima
ed Enrica Maglione, ha esordito
di un mondo ostile, ingabbiato da
al 25° Salone internazionale del
Libro di Torino per
barriere architettoniche e vessato
Cartman Edizioni.
da barriere culturali e pregiudizi».
«Sordi e stranieri:
Nel secondo, si «tenta di nascondue condizioni
dere la diversità affermando che è
che incidono
la normalità a non esistere». Sensulla competenza
linguistica e che,
za capire che «negare la diversisecondo la nostra
tà è un po’ come emarginarla due
esperienza, hanno
volte».
molti punti di
Scritto dallo psicoterapeuta
contatto per quanto riguarda
Enrico
Amurri, Il gabbiano dalle
la didattica dell’insegnamento
dell’italiano come L2», rilevano
ali ferite cerca invece di «parlare
gli autori, che hanno cercato di
di disabilità dal punto di vista di
«aiutare lo studente a immergersi
chi la vive in prima persona». Nanella lingua italiana e nei suoi
to nel 1954 a Moregnano, minucontesti d’uso». Il volume costa
scola frazione di un paesino delle
25 euro ed è disponibile anche
presso l’Istituto dei Sordi di Torino Marche (Petritoli), l’autore – affet(Istitutosorditorino.org). [L.B.]
to da una forma lieve di tetraparesi spastica – scrive: «Mi facevo
talmente schifo da non sputarmi
in faccia solo per non sporcare lo
specchio su cui ero riflesso».
E sullo sguardo degli altri, avvertito su di sé, Amurri commenta: «Il pietismo spesso maschera
un inconfessabile rifiuto del diverso e lascia emergere la vera essenza crudele che certe persone,
legate a schemi arcaici, mostrano
nei confronti di un handicappato». Oltre al registro autobiografico, il libro propone volutamente
alcuni elementi classici del ro-
32
[Stefano Trasatti]
LIBRI
Enrico Amurri
Il gabbiano
dalle ali ferite
Albatros-Il filo 2012
pagine 108, euro 13,50
Arno Geiger
Il vecchio re
nel suo esilio
Bompiani 2012
pagine 165, euro 16,00
Padri e figli:
l’intimità
ritrovata
L
a narrazione della vecchiaia e delle sue degenerazioni
sta diventando quasi un genere letterario. Una memorialistica che coinvolge (nella realtà
o nella finzione) figli, consorti e
in qualche caso diretti interessati che “approfittano” della malattia per guardare – a seconda dei
casi – la propria vita o quella dei
propri cari con occhi nuovi e diversi. Su questa scia si inserisce
l’ultimo romanzo di Arno Geiger,
Il vecchio re nel suo esilio, uscito
per Bompiani.
Con commozione e ironia
lo scrittore austriaco racconta
la malattia del padre, a partire
dall’inizio. Dai quei primi segnali di cambiamento, che i figli non
riescono a decodificare e scambiano per perdita di interesse verso il mondo circostante.
«Oggi in cuor mio mi arrabbio per l’accanito perdurare di
quell’equivoco, perché sgridavamo la persona e ignoravamo la
RAGAZZI
Senza paura
di essere diversa
Q
uando arriva un nuovo bimbo, è sempre festa in una casa. Non così quando nasce
un bambino disabile che, con la
sua “diversità”, va a minare anche
i più saldi equilibri all’interno di
illustrazione di Svjetlan Junakovic
malattia – scrive Geiger –. “Non
lasciarti andare così!”, dicevamo
centinaia di volte, e nostro padre
lo sopportava con pazienza e secondo il principio che la cosa più
facile sia rassegnarsi per tempo».
Perdonare ai propri genitori
quelle debolezze che a poco a poco diventano evidenti risulta, infatti, una delle prove più difficili
per un figlio. Eppure, dalle pagine del libro emerge anche il sollievo di un’affinità ritrovata proprio
grazie al dirompere della malattia. Diluita ormai ogni conflittualità nelle pieghe di un passato
ormai dimenticato, padre e figlio
riescono a ritrovarsi con una naturalezza e una spontaneità impensabili ai tempi del giudizio.
Un giorno, camminando lungo le strade della città natale Wolfurt, il padre che vive ancora lì si
rivolge al figlio: «“Sei venuto spesso a passeggiare qui? – mi chiese
–. Molti vengono qui solo per godersi il panorama”. Mi parve strano e dissi: “Io non vengo qui per il
panorama: io sono cresciuto qui”.
Questo sembrò sorprenderlo, fece una smorfia e disse: “Ah, ecco”.
Allora gli chiesi: “Papà, ma tu sai
chi sono?”. La domanda lo mise in
imbarazzo, si voltò verso Katharina e disse scherzoso, agitando la
mano verso di me: “Come se fosse
così interessante”». [A.P.]
una famiglia. Di questo argomento così delicato parla Mia sorella
è un quadrifoglio, un albo pubblicato dalla casa editrice Carthusia
e presentato alla Fiera del Libro di
Torino, consigliato ai lettori dai
cinque anni in poi. Scritto da Beatrice Masini e illustrato da Svjetlan Junakovic, il volume fa parte
della collana “Ho bisogno di una
storia”. E non di una storia qualsiasi, verrebbe da dire, vista la vicenda della piccola Mimosa che,
con il suo cuore grande e la sua
ingenuità disarmante, conquista
a poco a poco tutta la famiglia.
La voce narrante è quella della
sorella maggiore Viola. Bambina
anche lei, racconta con incantevole lucidità l’arrivo a casa di
quella neonata «bruttissima, ma
anche carina», come tutti i bebè.
Col tempo Mimosa si trasforma
33
Beatrice Masini
Mia sorella
è un quadrifoglio
(illustrazioni di Svjetlan
Junakovic)
Carthusia 2012
pagine 32, euro 15,90
in una bambina con le guanciotte da criceto e gli occhi che le spariscono nelle pieghe delle guance
quando ride. Un essere che sembra piovuto da un altro pianeta: da un luogo strano «dove tutti
fanno le cose piano, sorridono e si
abbracciano, proprio come fa lei».
Mimosa è affetta da sindrome
di Down, ma non viene mai detto
espressamente. La storia lo lascia
appena intuire, per via di quella
straordinaria grazia che la rende
irresistibile agli occhi della sorella
Viola e di tutti quelli che vengono
in contatto con lei. Rara come un
quadrifoglio, Mimosa riesce infine a farsi apprezzare proprio per
la sua diversità.
Il libro è stato scritto con la collaborazione della Fondazione Paideia e del Cepim (Centro persone
down) di Torino. [A.P.]
CULTURA
CINEMA
Così vicino da
non far paura
Nemo in 3D. Il coraggioso pesciolino
con la pinnetta atrofica arriva nelle
sale italiane, dal prossimo 26 ottobre,
arricchito dal Disney Digital 3D;
l’iperprotettivo papà Marlin viene
doppiato da Luca Zingaretti. A giugno,
intanto, torna sul grande schermo un
altro classico
Disney: La bella
e la bestia 3D.
Vincitore
dell’Academy
Award come
miglior
lungometraggio
di animazione
e di un Golden
Globe come miglior film commedia o
musicale, Alla ricerca di Nemo è stato
inserito nel 2008 dall’American Film
Institute nella classifica dei 10 migliori
film mai realizzati. [L.B.]
A
ssociazioni e blog che si occupano di una forma particolare di autismo, la
sindrome di Asperger, giudicano
positivamente il film Molto forte, incredibilmente vicino, nelle
sale italiane dal 23 maggio, tratto dall’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer; pubblicato
in Italia da Guanda nel 2005, è un
caso letterario a livello mondiale.
Protagonista, un bambino
aspie di nove anni, Oskar (interpretato magistralmente da Thomas Horn), che ha appena perso
suo padre (Tom Hanks) nel crollo
delle Torri Gemelle. Da quel giorno, passa il tempo fra letture e
invenzioni, frutto della sua genialità. Con una straordinaria memoria visiva (che lo accomuna a
Rain man) e il linguaggio enciclopedico a fargli compagnia, insieme alle paure, alla difficoltà nelle
relazioni e a elaborare le emozioni: sintomi della sindrome autistica, solo velata e supposta nel libro.
34
Glissando su retorica americana, tono talvolta enfatico e
melodrammatico, la lunga pellicola (129 minuti) riprende quota
raccontando il ritrovamento, da
parte del bambino, di una chiave misteriosa di suo padre che
potrebbe aprire qualcosa di speciale: metafora, insieme al viaggio compiuto dal ragazzino nella
pancia di New York e fra i mille volti delle diversità emarginate, di una svolta positiva nella sua
vita. Il “Virgilio” che lo accompagna in questa discesa agli inferi
e nella successiva (reciproca) redenzione? Un anziano, diventato muto dopo aver visto morire i
suoi affetti.
Candidato a due premi Oscar
(tra cui miglior film), diretto da
Stephen Daldry (The Reader - A
voce alta, Billy Elliot, The Hours),
il lungometraggio vanta la sceneggiatura di Eric Roth, artefice
anche di quella del celebre Forrest
Gump, che pure in questa pellicola riesce a far passare un messaggio: vista come caricatura da
qualcuno, la disabilità diventa invece sinonimo di unicità, di una
potenzialità particolare. [L.B.]
fESTIvAL
A Cannes vince
la parabola
della sofferenza
A
nnunciato tra i favoriti,
Amour di Michael Haneke si
è aggiudicato la Palma d’Oro al 65° Festival di Cannes, il 27
maggio scorso, conquistando la
critica internazionale. E da fine
ottobre il film sarà nelle sale italiane, distribuito da Teodora.
Una pellicola, quella del regista
austriaco (autore anche della sceneggiatura, già vincitore del Festival nel 2009 con Il nastro bianco)
che mette sul tappeto temi cruciali e complessi, come la vecchiaia,
la malattia, la disabilità e il finevita. Con un coraggio anticonformista, sfidando gli stereotipi
dell’eterna giovinezza e della bellezza scevra dai segni del tempo,
Haneke sceglie come protagonisti due sposi ottantenni, professori di musica in pensione: Georges
(Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), interpreti applauditissimi sulla Croisette.
La routine dell’anziana coppia viene bruscamente interrotta da un ictus che colpisce Anne,
con una parziale paralisi. Intanto la figlia Eva (Isabelle Huppert),
anche lei musicista, vive all’estero
con la sua famiglia. L’evento mette a dura prova l’amore che unisce i coniugi, quando si ritrovano
di fronte a una condizione di limite, alla parabola della sofferenza.
Rimasto a bocca asciutta, Jacques Audiard, ritenuto uno dei
più grandi registi francesi attuali.
Il suo De rouille et d’os affronta la
disabilità da un’altra angolatura,
centrando però sempre il rapporto affettivo e la corporeità. Tratto da un racconto breve che dà il
titolo al volume omonimo del canadese Craig Davidson (Ruggine e ossa, tradotto e pubblicato
nel 2008 da Einaudi), il film è stato etichettato come melo. L’attrice
Marion Cotillard (premio Oscar
per La vie en rose) veste i panni
di Stephanie, addestratrice di orche che ha perso le gambe in un
incidente, durante uno spettacolo nell’acquario di Antibes; si lega ad Ali, che vive tirando di boxe
in incontri clandestini organizzati per strada. Tra suspence e love-story, il film uscirà in Italia a
settembre. [L.B.]
A sinistra, una scena del film Amour.
Sopra, i protagonisti di De rouille et d’os
35
RUBRICHE Inail... per saperne di più
Rosanna Giovèdi
Alle Paralimpiadi con Mario:
l’impegno dell’Inail nello sport
Dalla storia di Mario, 33 anni, disabile per un infortunio
sul lavoro, alla scoperta del ruolo dell’Inail nella pratica
sportiva. Un percorso che porta fino a Londra, dove,
ad agosto, avranno inizio le Paralimpiadi
I disegni di questa sezione del Magazine sono di Saul Steinberg
«M
i chiamo Mario e ho 33 anni. Quattro anni fa, a causa di un incidente sul lavoro, ho subito l’amputazione della gamba sinistra sotto il
ginocchio; l’unica attività possibile per me sembrava rimanere a casa a guardare la televisione. È stato così che ho scoperto le Paralimpiadi, guardandole mi sono entusiasmato e mi sono detto: perché non provarci?». Inizia
così la lettera inviata a noi, esperti Inail, che ogni giorno cerchiamo di venire
incontro alle esigenze di riabilitazione, reinserimento sociale e lavorativo bale e integrata» che tiene conto delle
delle persone infortunate sul lavoro. lesioni funzionali dell’infortunato o
«Come devo muovermi per parteci- tecnopatico e delle sue esigenze ai fini
pare a questo grande evento mondia- del superamento degli ostacoli e delle, trasformando la mia “sfortuna” in le barriere che ne limitano l’azione e
un’opportunità? – scrive Mario –. Io la partecipazione all’ambiente di vita.
ho sempre sciato e mi piacerebbe con- Tale metodologia interviene non solo
tinuare a farlo, perciò vi sarei grato se con azioni di adattamento della perpoteste fornirmi le informazioni che sona all’ambiente, mediante l’erogazione dei dispositivi tecnici, ma anche
mi occorrono».
con interventi diretti a rimuovere gli
Informazione, orientamento, ostacoli nel contesto familiare e sociosupporto tecnico: anche questo è ambientale che impediscono l’autonoInail. Dopo tanti anni di servizio a
Superabile, finalmente una lettera piena di entusiasmo e speranza:
il reinserimento dell’Inail verso i propri assistiti passa anche attraverso lo
sport. Per coloro che vogliono praticare attività sportiva a livello agonistico e non, il Centro protesi di
Vigorso di Budrio offre un servizio di informazione e orientamento. Il punto informativo è affidato
a un tecnico Cip (Comitato italiano paralimpico), laureato in scienze
motorie e specializzato in sport per
persone disabili. La metodologia di
intervento, basata su una visione complessiva della persona, è la «tutela glo-
36
mia della persona nello svolgimento
delle attività di vita quotidiana e nelle relazioni.
Tornando a Mario, gli infortunati da lavoro che intendono inserirsi o
continuare attività sportiva possono
presentare formale richiesta scritta
presso la propria sede Inail. Si consiglia pertanto di contattare l’assistente sociale per ricevere informazioni e
indicazioni dettagliate sui documenti necessari per ottenere la concessione. Successivamente, la consulenza
del Centro protesi Inail individua gli
strumenti più appropriati in relazione a quanto stabilito nel progetto terapeutico-riabilitativo: vengono così
forniti gli ausili/protesi ritenuti più
idonei considerando esigenze e abilità
dell’assistito, secondo quanto previsto
dall’art. 36 (“Dispositivi e ausili per la
pratica di attività sportive e motorie”)
e dall’art. 45 (“Interventi per la promozione dell’attività sportiva”) del Regolamento per l’erogazione agli invalidi
del lavoro di dispositivi tecnici e di interventi di sostegno per il reinserimento nella vita di relazione.
Inoltre, per agevolare e promuovere
l’attività sportiva degli assistiti Inail, è
in corso una convenzione quadro con
il Cip che, attraverso le strutture territoriali, effettua attività di orientamento in collaborazione con le
équipe multidisciplinari e garantisce ai disabili assistiti dall’Inail che
ne facciano richiesta, ove non siano già iscritti al Cip, il tesseramento
comprensivo di benefici e vantaggi
conseguenti. La convenzione offre anche accoglienza e idonei supporti tecnico-organizzativi ai tesserati Inail,
attraverso i propri organi territoriali
e le associazioni sportive affiliate. Curando la formazione dei disabili da lavoro: sono previsti corsi ad hoc per chi
ha particolare propensione allo sport.
RUBRICHE Lavoro
Alessandra Torreggiani
Disabilità psichica e occupazione:
un percorso a ostacoli
La legge 68 ha fornito ai datori di lavoro strumenti più flessibili
per l’assunzione delle persone disabili. Ma non garantisce
gli stessi diritti a chi soffre un disagio psichico. Che trova lavoro
solo all’interno di un terzo settore sempre più povero di risorse
T
ra le varie categorie svantaggiate nel mondo del lavoro, ce n’è una ancora
più penalizzata, colpita da una doppia discriminazione: quella dei disabili psichici, che devono dimostrare più degli altri di essere produttivi e utili
alle aziende, ma difficilmente riescono a trovare un posto di lavoro. Alcuni restano nel limbo della formazione, portando avanti tirocini anche per dieci anni consecutivi.
Infatti la legge 68/99 parte dal pre- zione con tempi e modalità adeguati
supposto che tutte le persone disabi- alle esigenze dell’impresa; l’assunzioli possano lavorare e che non debba ne con contratti di lavoro flessibili
esserci un’aprioristica esclusione dal (apprendistato, inserimento, tempo
mercato del lavoro, perché non sempre determinato, part-time, periodi di proa una particolare tipologia o grado di va più lunghi e altro ancora); le agedisabilità corrisponde una diminuzio- volazioni per il calcolo della quota di
ne delle capacità lavorative. La scuola, riserva finalizzate a diminuire la perla formazione e i servizi socio-sanitari, centuale di assunzioni obbligatorie;
insieme all’azione delle famiglie, han- l’esteso utilizzo di esoneri, esclusioni,
no promosso instancabilmente ini- esenzioni. Nonostante questo, quasi
ziative propedeutiche all’inserimento la metà dei datori di lavoro pubblici e
lavorativo: un paziente impegno che privati risultano inadempienti agli obha determinato l’affacciarsi, nel mer- blighi normativi. Non bastano le norcato del lavoro, delle nuove categorie me e la flessibilità.
della disabilità psichica.
La legge 68 ha acquisito la metodoCosa manca, allora? Negli ultimi
logia del «collocamento mirato» per anni molti strumenti innovativi della
inserire la persona disabile nel posto legge sono stati depotenziati, le risordi lavoro più adatto. Tale approccio, se per i servizi e per gli incentivi alle
volto a perseguire l’incontro tra com- imprese sono fortemente diminuite, i
petenze della persona disabile ed esi- controlli non sono stati eseguiti. Forse
genze delle imprese, si sostituiva così a alcuni aspetti della normativa devono
una modalità rigida e burocratica ca- essere rivisti, ristabilendo la priorità
ratteristica della vecchia legge 482/68. del diritto. Tuttavia la legge 68 si propone di aiutare le persone che presenI datori di lavoro possono di- tano maggiori difficoltà di accesso
sporre di strumenti ancora più flessi- al mercato del lavoro attraverso una
bili, quali l’ampia possibilità di ricorso molteplicità di strumenti e percoralla chiamata nominativa; l’opportu- si di sostegno. Eppure questo princinità di definire i programmi di assun- pio è disatteso dall’art. 9 (comma 4)
37
dove, per i disabili psichici, è prevista
un’unica ed esclusiva via di accesso al
mercato del lavoro: la chiamata nominativa e la stipula di una convenzione.
Ciò preclude di fatto altre possibili modalità di avvio al lavoro, come la
chiamata numerica o con avviso pubblico. Questo aspetto, finora trascurato, suscita dubbi di incostituzionalità
e rischia di rappresentare un ritorno
indietro anche rispetto alla sentenza della Corte costituzionale n. 50 del
2/2/1990, che sancisce il diritto al collocamento obbligatorio anche per «gli
affetti da minorazione psichica, i quali
abbiano una capacità lavorativa che ne
consente il proficuo impiego in mansioni compatibili».
Oggi soltanto le cooperative sociali integrate rappresentano una sede
privilegiata per la sperimentazione di
percorsi destinati a persone con particolari difficoltà di adattamento al lavoro. Le azioni mirate a promuovere
e incrementare l’occupazione dovrebbero prevedere un consolidamento
di queste opportunità con misure di
sostegno al terzo settore colpito dalla crisi, superando quindi il dualismo
tra mercato del lavoro “normale” e
“protetto”.
RUBRICHE Senza barriere
Daniela Orlandi
Ascensore o servo scala?
Dipende dalle circostanze
Quali sono i requisiti progettuali e le caratteristiche tecniche
di piattaforme elevatrici e servo scala?
Qualche delucidazione su normative e regolamenti
per l’acquisto e l’installazione: dal 1989 a oggi,
tutto quello che c’è da sapere
L
a piattaforma elevatrice e il servoscala vengono introdotti a livello
normativo in Italia con il regolamento di attuazione della legge 13/89,
il decreto ministeriale 236/89: Prescrizioni tecniche necessarie a garantire
l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia
residenziale pubblica sovvenzionata
e agevolata, ai fini del superamento e
dell’eliminazione delle barriere architettoniche.
Tali apparecchiature permettono,
in alternativa a un ascensore o a una
rampa inclinata, il superamento di un
dislivello; sono consentite in alternativa agli ascensori negli interventi di
adeguamento o per superare differenze di quota contenute.
Tra gli aspetti progettuali e gestionali legati a queste apparecchiature,
occorre menzionare non solo le nuove disposizioni normative «per apparecchi da sollevamento», ma anche le
verifiche da fare e la manutenzione da
garantire. Il servo scala, nello specifico, è un apparecchio di sollevamento
che scorre su guide ancorate a supporti verticali, fissati a loro volta ai gradini o al parapetto, lungo un lato della
scala. Questo sistema è costituito da
una piattaforma ribaltabile, sulla quale sale il disabile con la sedia a ruote, o
da una poltroncina, su cui sale la sola
persona. Se la scala non è sufficientemente ampia, non potrà ospitare ta-
le meccanismo
di salita e discesa.
Lento e ingombrante,
il servo scala ha un ulteriore limite: è consigliato solo se il numero di rampe
è limitato.
Nella scelta del modello, poi,
è fondamentale considerare, oltre alle dimensioni minime della scala da
percorrere, anche l’ingombro della sedia a ruote e le dimensioni della piattaforma, che devono essere sufficienti
a consentirne l’imbarco. Nei luoghi
aperti al pubblico, prima di installarlo, va attentamente considerato l’uso,
perché è facile aspettarsi un’utenza caratterizzata da più persone su sedia a
ruote. In ambito residenziale, invece,
l’installazione di un servo scala non
richiede nessun tipo di autorizzazione, neanche quella del condominio,
purché siano fatti i passi formali necessari presso l’amministrazione condominiale, secondo le disposizioni
della legge 13/89.
38
Diverso il caso delle piattaforme elevatrici. Il decreto ministeriale
236/89, all’art. 8.1.13, definisce un limite di corsa «di norma» pari a quattro
metri. Il termine «di norma» andrebbe tuttavia inteso come generalmente,
non come obbligatoriamente. Inoltre al punto 4.1.13 dello stesso decreto
si legge: «Fino all’emanazione di una
normativa specifica, le apparecchiature stesse devono essere rispondenti alle specifiche di cui al punto 8.1.13». La
normativa specifica è la nuova direttiva relativa alle automobili, che
ha svincolato questo apparecchio dal
problema del limite di corsa. Nei
casi di adeguamento e per superare differenze di quote, che possono arrivare
anche sino a quattro
piani, può comunque essere utile installare
una piattaforma
elevatrice in alternativa agli altri sistemi
usati per superare i dislivelli.
Nel decidere tra una piattaforma elevatrice e un ascensore, infine,
bisogna valutare attentamente alcuni
parametri. In primo luogo la piattaforma non ha necessità di grandi opere
murarie e ha caratteristiche di estrema flessibilità in termini di materiali,
finiture estetiche, facilità di installazione.
Le criticità, invece, possono essere
legate al tempo di percorrenza: per superare il dislivello di un piano medio
tale meccanismo impiega dai 20 ai 30
secondi. Ci sono poi i costi: superato
un certo limite può divenire più conveniente installare un ascensore. Vi
sono, infine, le spese di manutenzione
e le verifiche richieste, che hanno cadenze prestabilite per legge.
L’ESPERTO RISPONDE
a cura del Consorzio sociale Coin
Mobilità
Sono uno spastico. Devo partire
per Lourdes con l’aereo e la mia
autonomia è rappresentata dalla
carrozzina di transito. So che la
legge consente di trasportare
questo mezzo, ma per me sarebbe
indispensabile saperne di più.
A
l momento della prenotazione, il passeggero a mobilità ridotta deve segnalare la propria condizione all’agenzia o alla
compagnia aerea presso la quale acquista
il biglietto. I codici utilizzati in ambito internazionale per chi ha problemi esclusivamente nella deambulazione sono i seguenti:
• wchr(wheelchair-ramp), passeggero che
può salire e scendere le scale dell’aereo,
ma necessita della sedia a ruote o di altro
mezzo di movimentazione per spostarsi
all’interno dell’aeroporto;
• wchs(wheelchair-steps), passeggero che
può camminare autonomamente all’interno della cabina, anche se con difficoltà, ma non può scendere o salire le scale
dell’aereo;
• wchc(whelchair-cabin), passeggero che
necessita della sedia a ruote in tutte le fasi dell’imbarco, dello sbarco e per muoversi all’interno dell’aereo.
Inoltre si deve specificare se si viaggia
con una sedia a ruote personale di tipo manuale o elettrico, pieghevole o no. In genere,
la compagnia richiede informazioni su peso e dimensioni della sedia utilizzata (lun-
ghezza, larghezza, altezza). Per le sedie a
ruote elettriche, occorre indicare anche il
tipo di batterie, secche o con liquido, queste
ultime soggette a regole imposte da ragioni
di sicurezza. La sedia a ruote del passeggero è trasportata gratuitamente, come bagaglio registrato. Con l’entrata in vigore della
nuova direttiva europea, tutte le compagnie
aeree devono erogare i servizi di assistenza
senza oneri aggiuntivi per il cliente.
È consuetudine che la sedia a ruote personale venga imbarcata per ultima, consentendone l’uso fino all’entrata dell’aereo; per
accedere e muoversi all’interno, è utilizzata una sedia speciale di ridotte dimensioni.
Allo sbarco, talvolta la sedia a ruote (in particolare quella elettrica) viene inviata al nastro di arrivo dei bagagli; al passeggero con
problemi di deambulazione ne viene fornita una manuale, di proprietà dell’aeroporto.
Qualora la persona necessiti di trovare la
propria sedia a ruote personale (non altre)
fuori dall’aereo, è opportuno farlo presente
al check-in e ricordare agli assistenti di volo, in prossimità dell’arrivo, di farla portare sottobordo.
Ausili
Sono la figlia di una
ipovedente, alla quale era
stato assegnato come ausilio
un videoingranditore, che
purtroppo si è rotto.
Ora la mamma è morta,
ma già da tempo avevamo
gettato l’ausilio. Come mi devo
comportare con la Asl?
U
n ausilio erogato tramite il
Servizio sanitario nazionale, non più utilizzato, andrebbe in
ogni caso riconsegnato alla Asl che
lo ha fornito. Qualora questo fosse
rotto, potrebbe essere riparabile e
andrebbe quindi, anche in questo
caso, restituito alla Asl, affinché
possa essere eventualmente riparato e riutilizzato da altri utenti.
Circa la proprietà degli ausili,
dal Decreto ministeriale si evince che i dispositivi previsti nel primo e nel
secondo elenco del nomenclatore tariffario, ovvero quelli adattati e quelli di serie,
vengono ceduti in proprietà all’assistito. Le
Regioni hanno comunque facoltà di disciplinare modalità di cessione in comodato dei dispositivi, per i quali sia possibile
39
il riutilizzo (art. 4, comma 12).
I dispositivi compresi nel terzo
elenco, invece, restano di proprietà della Asl, che li concede
in uso alle persone che ne facciano richiesta.
In ogni caso, si rimanda alla
Asl l’obbligo di provvedere alla manutenzione e ad assicurare sicurezza e funzionalità dei
dispositivi protesici. In particolare, per quelli contenuti nel
terzo elenco, è prevista negli stessi contratti dei fornitori la tempestiva riparazione per tutto il periodo di assegnazione in
uso all’assistito. Il costo e le condizioni che
regolano le riparazioni sono specificati negli accordi tra le Asl e le ditte fornitrici dei
dispositivi stessi.
PINZILLACCHERE
IL PRANZO DELLA DOMENICA
di Carla Chiaramoni
Il rintocco
Località San Zeno, 1/a
52100 Arezzo
 0575.99500
In cucina Lucia, Rossella, Samuele
e i ragazzi di “Il Rintocco”;
i pizzaioli Mauro e Pomi; Nedo al bar
Chiusura a cena (escluso
venerdì e sabato), dal 6 al 19
agosto. Su prenotazione per
gruppi di minimo 40 persone
Coperti 70 (all’aperto 50)
Locale accessibile
Prezzo 12 euro
P
assando a visitare la bella città
di Arezzo, fate una sosta a “Il
rintocco”. A circa sette chilometri
dalla città, questo ristorantepizzeria, immerso nel verde, è
perfetto per un pranzo gustoso e
veloce. Gestito dalla cooperativa
sociale “Il Cenacolo”, è nato grazie
alla collaborazione con l’Istituto
privato di riabilitazione “Madre
della Divina Provvidenza” di
Agazzi, nella provincia aretina.
In sala e in cucina si alternano
dieci ragazzi con disabilità psicosensoriale, soci lavoratori della
cooperativa o in inserimento
socio-sanitario, che hanno avviato un percorso di autonomia.
Il locale è disposto su due livelli e
diviso in due sale, oltre allo spazio
all’aperto per i mesi più caldi.
Ambiente gradevole e allegro;
apparecchiatura informale con
tovagliette di carta paia. Il servizio
è molto veloce e puntuale: vi
sentirete accuditi. Cucina casalinga e semplice, che si potrebbe
definire la cucina della mamma.
Il menù cambia quotidia-
namente e privilegia prodotti
di stagione: mercoledì pasta
fresca; martedì e venerdì pesce;
pizza anche a pranzo lunedì
e giovedì (grazie alle mani
esperte di Mauro), cotta rigorosamente nel forno a legna.
Tra i piatti del territorio: salsiccia e fagioli, ribollita, panzanella
e baccalà con le cipolle. Molto
gustosa e abbondante la “ciaccia”
(focaccia bianca) con salumi e
formaggio; non manca mai in
menù la grigliata di carne mista.
Buona la scelta dei dolci, tutti
fatti in casa: la classica panna
cotta (ma morbida al punto giusto e non gommosa!), la crema
catalana, fino alle più tradizionali
crostate e torta della nonna. Non
potete lasciare “Il Rintocco” senza
prendere il caffè: Nedo, al bar,
saprà stupirvi e accontentarvi.
hi-tech
Una casa domotica per Luca, dall’Afghanistan a Pavia
D
a quel giorno maledetto è trascorso
circa un anno e mezzo. Era il 18 gennaio 2011 quando il caporale 22enne Luca
Barisonzi, alpino dell’ottavo reggimento,
venne ferito gravemente a Bala Murghab,
in Afghanistan, durante l’attentato in cui
viene ucciso il commilitone Luca Sanna.
Barisonzi si salva, ma riporta una lesione
alla spina dorsale, che gli causa una paralisi
dal collo in giù. Ma accetta l’accaduto, raccontando la sua esperienza nel libro La patria
chiamò, curato da Paola Chiesa e pubblicato
da Mursia. «Oggi combatto per recuperare
abbastanza e diventare un buon padre e un
buon marito, per aiutare mia madre in casa.
Combatto per piccole cose», scrive Barisonzi.
L’Associazione nazionale alpini si
mobilita per dargli una mano: inizia una
raccolta fondi dallo slogan “Una casa per
Luca”, pensando di regalare al ragazzo uno
strumento concreto d’inclusione. Realizzato in poco più di un anno e inaugurato
lo scorso 19 maggio, a tempo di record.
La villetta domotica è stata costruita
su un terzo di un terreno complessivo
di circa mille metri quadrati, in via degli
Alpini, a Gravellona Lomellina (Pavia).
Dotata di completa autosufficienza
termica ed energetica grazie a un impianto fotovoltaico, la casa ha a disposizione le più moderne apparecchiature
tecnologiche, tra cui una sala adibita a
palestra e provvista di vasca terapeutica per la riabilitazione motoria.
Luca potrà muoversi e vivere il più
possibile in autonomia, grazie a strumenti che rispondono ai suoi comandi,
attivabili anche solo con un dito. [L.B.]
40
LE PAROLE PER DIRLO
passato prossimo
di Franco Bomprezzi
Stanze con vista sull’umanità
Non autosufficiente
B
ene. Non sono autosufficiente. Che peccato. Chi
l’avrebbe detto? Pensavo di
cavarmela da solo, in tante
cose della vita quotidiana. Almeno ci provavo.
Insomma, sì, è vero: vivo in sedia a rotelle
da sempre, almeno da quando ho ricordi vividi
nella memoria. Ma non mi ero mai soffermato
su questa definizione, che mi è utilissima,
stando alle leggi vigenti. Altrimenti potrei essere
perfino considerato un “falso invalido”, locuzione della quale ho già parlato abbastanza.
No, è chiaro che sono effettivamente una
“persona con disabilità”. Ma essendo “certificato”
al “cento per cento”, significa che sono “non
autosufficiente”. Cioè sono un vero disastro. Incapace di compiere gli atti della vita quotidiana.
Potrei autodenunciarmi. Negare questa etichetta un po’ umiliante. Ma poi penso che come
me, per la legge, sono non autosufficienti, più o
meno, anche i campioni dello sport paralimpico,
tetraplegici o paraplegici, o non vedenti. È solo
una questione di parole. Alle parole però corrispondono gli interventi di assistenza, i “benefici”.
Senza le definizioni non si va da nessuna
parte. Certo, “non autosufficiente” è un termine
davvero bruttino. Tanto più che non c’è una
definizione precisa, neppure nella legge quadro
328 (come documenta in modo eccezionale
e rigoroso Carlo Giacobini su Handylexpress).
Perché sempre sottolineare il “non”?
Perché la disabilità è una selva di non possumus? Sembra di leggere Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che
non siamo, ciò che non vogliamo».
“Non autosufficiente”, certo: non mi basta
un’auto, ne voglio due. E un camper. Questo è l’unico modo per me di interpretare
una micidiale schedatura, che sta portando
le famiglie, in Italia, a cercare sempre e comunque di dimostrare che i propri figli sono
davvero incapaci, inabili, inadatti a vivere
in modo indipendente. Che tristezza.
Ambienti dell’ex ospedale psichiatrico
di Maggiano
[foto di Giorgio Andreuccetti]
L
e corsie maschile e femminile, la sala
radiologica e quella dell’arteterapia,
gli strumenti medici, le grandi vasche e
le cucine con gli ampi soffitti in vetro:
dopo un restauro conservativo, il mondo
ritratto nelle opere dello psichiatra e
scrittore Mario Tobino si apre al pubblico
snodandosi in un percorso museale nell’ex
manicomio di Maggiano, in provincia di
Lucca. Fra i sette ex ospedali psichiatrici
toscani, è l’unico visitabile grazie alla
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Fondazione Mario Tobino – che vi risiede –
e all’Azienda Usl2 di Lucca. Che registrano
una costante attenzione verso la struttura,
anche da parte di persone provenienti
da altri Paesi. Per chi vuole visitarla,
oltre al giovedì pomeriggio e al venerdì
mattina su prenotazione obbligatoria,
l’ingresso sarà libero il 23-24 giugno e il
28-29 luglio, dalle ore 15 alle 18. Ulteriori
informazioni su Fondazionemariotobino.
it, tel. 0583/327243. [L.B.]
dulcis in fundo
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il tuo manifesto
delle campagne INAIL
SUL LAVORO,
SE TIENI VIVA L’ATTENZIONE,
TIENI VIVO IL TUO MONDO.
SUL LAVORO,
SE TIENI VIVA L’ATTENZIONE,
TIENI VIVO IL TUO MONDO.
Quando sei
al lavoro
se proteggi
te stesso
proteggi
i tuoi
colleghi
ATTENZIONE.
QUELLA PAROLA CHE INIZIA PER
A
E FINISCE PER SALVARTI LA VITA.
L’attenzione come valore comune per i lavoratori e per i datori di lavoro.
L’attenzione al funzionamento delle macchine, delle attrezzature e delle
dotazioni di sicurezza. L’attenzione a valutare e prevenire comportamenti
a rischio. L’attenzione all’addestramento e al rispetto delle procedure.
L’attenzione alla formazione e all’informazione. L’attenzione alle norme,
ai regolamenti e alle misure organizzative. Nei cantieri, nelle fabbriche,
negli uffici, nelle case, nelle campagne, nelle scuole di tutto il paese, ogni
volta che cade l’attenzione c’è qualcuno che rischia di non rialzarsi più.
Teniamo alta l’attenzione perché teniamo alla vita e alla salute di chi lavora.
L’attenzione come valore comune per i lavoratori e per i datori di lavoro. L’attenzione al funzionamento delle
L’attenzione come valore comune per i lavoratori e per i datori di lavoro. L’attenzione al funzionamento delle
macchine, delle attrezzature e delle dotazioni di sicurezza. L’attenzione a valutare e prevenire comportamenti a rischio.
macchine, delle attrezzature e delle dotazioni di sicurezza. L’attenzione a valutare e prevenire comportamenti a rischio.
L’attenzione all’addestramento e al rispetto delle procedure. L’attenzione alla formazione e all’informazione.
L’attenzione all’addestramento e al rispetto delle procedure. L’attenzione alla formazione e all’informazione.
L’attenzione alle norme, ai regolamenti e alle misure organizzative. Nei cantieri, nelle fabbriche, negli uffici, nelle case,
L’attenzione alle norme, ai regolamenti e alle misure organizzative. Nei cantieri, nelle fabbriche, negli uffici, nelle case,
nelle campagne, nelle scuole di tutto il paese, ogni volta che cade l’attenzione c’è qualcuno che rischia di non rialzarsi più.
nelle campagne, nelle scuole di tutto il paese, ogni volta che cade l’attenzione c’è qualcuno che rischia di non rialzarsi più.
Tieni viva l’attenzione perché così tieni vivo molto di più.
Tieni viva l’attenzione perché così tieni vivo molto di più.
Quando sei
al lavoro
se proteggi
te stesso
proteggi
la tua
famiglia
A te che per fare
la pausa caffè
devi farlo tu, il caffè.
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INFORTUNI DOMESTICI.
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