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Un grande fotografo racconta la disabilità
6/giugno 2012 Redazione: Piazza Cavour 17 - 00193 Roma • Poste Italiane spa – Spedizione in abbonamento postale 70% - Roma M ZIN A G A E Gianni Berengo Gardin Un grande fotografo racconta la disabilità L’INCHIESTA/Sud del mondo La vita in comunità, risorsa vincente TEMPO LIBERO In barca, a vele spiegate EDITORIALE di Mario Carletti Direttore Centrale Riabilitazione e Protesi, Inail Ma che bella “Reatech”, la fiera delle opportunità (accessibili) C he cosa mi ha colpito maggiormente di Reatech, la fiera di Milano riservata alla disabilità e da poco conclusa? Due cose su tutte: gli spazi e le potenzialità. Iniziamo dagli spazi. Mi è capitato di vedere diverse altre fiere di settore e non, nello specifico anche quella di Shanghai, dove i cinesi hanno deciso per la prima volta nella storia dell’Expo di riservare un padiglione alla disabilità. Nessuna come quella di Milano può vantare spazi così ampi, facilità di accesso per le automobili, servizi pubblici di collegamento senza barriere, vicinanza con grandi scali aeroportuali. Posizione quindi geografica, territoriale e logistica – se non unica – difficilmente eguagliabile. Le potenzialità, perché la sensazione è che – a parte qualsiasi altro format esistente del settore – ci sia la necessità di un momento condiviso per dare l’opportunità al cittadino disabile consumatore di venire a conoscenza di tutto ciò che il mercato può offrire. Quindi non solo ausili e protesi, non solo auto-moto-bici e vari modelli di locomozione adattati, ma anche luoghi di vacanza, opportunità culturali e comunicative, offerte per il tempo libero e lo sport, ecc. Sommando i due temi spazio/potenzialità, la miriade di attività sportive che venivano offerte a Reatech (dal cavallo al basket, dalle immersioni al tennistavolo) rappresentano una straordinaria opportunità per coinvolgere le scuole, mettendo loro a disposizione un’occasione di integrazione, oltre che di crescita civica, unica. Vorrei quindi coinvolgere i nostri lettori per farci segnalare tutto ciò che vorrebbero vedere nella prossima edizione di Reatech 2013: dai progetti innovativi ai momenti culturali, sportivi, comunicativi. Insomma, tutto ciò che possa aiutare gli organizzatori a creare un prodotto migliore e ad attirare un numero elevato di persone. Proviamo a costruirla insieme, da subito, semplicemente facendo capire cosa vorreste vedere, trovare a disposizione, capire o condividere. Noi ci faremo carico di inviare le vostre indicazioni a chi dovrà individuare i contenuti della prossima edizione, vista la concreta opportunità che ci hanno offerto di collaborare. 3 I tanti volti della disabilità Cosa significa avere una disabilità e vivere in un Paese del Sud del mondo? Spesso vuol dire essere inseriti in programmi di riabilitazione comunitaria, un metodo e una strategia che risultano vincenti nell’inclusione. Ne parla l’inchiesta di questo numero, raccontando anche l’esperienza positiva dell’agricoltura sociale e della wheelchair dance, la danza su sedia a ruote in cui Linda Galeotti è protagonista. Ma ci sono anche i viaggi in barca a vela e il racconto fotografico di Gianni Berengo Gardin, reporter di fama internazionale. Che spiazza per la sua semplicità disarmante e uno sguardo che sa andare all’essenziale. NUMERO SEI Giugno 2012 EDITORIALE CRONACHE ITALIANE MEDIA 3 Ma che bella “Reatech”, la fiera 20 Zappando s’impara delle opportunità (accessibili) di Mario Carletti ACCADE CHE... 5 “Reatech”: spazio ad aziende e 7 associazioni virtuose Arriva “La fucina dei talenti”, agenzia per l’inserimento lavorativo L’INCHIESTA 8 L’altra faccia del Sud di Chiara Ludovisi INSUPERABILI E PORTfOLIO SOTTO LA LENTE 22 La danza di Linda di Alessandra Brandoni SPORT Direttore: Mario Carletti 41 il futuro in una vasca di Stefano Caredda TEMPO LIBERO 26 Navigare per socializzare di Giovanni Augello In redazione: Antonella Patete, Laura Badaracchi, Eleonora Camilli e Diego Marsicano Editore: Istituto Nazionale Direttore responsabile: Stefano Trasatti Redazione: Superabile Magazine c/o agenzia di stampa Redattore Sociale Piazza Cavour 17 - 00193 Roma E-mail: [email protected] Hanno collaborato: Giovanni Augello, Alessandra Brandoni, Stefano Caredda, Carla Chiaramoni, Chiara Ludovisi, Ludovica Scaletti di Redattore Sociale; Rosanna Giovèdi, Daniela Orlandi, Alessandra Torreggiani e Giovanni Sansone del Consorzio sociale Coin Progetto grafico: Giulio Sansonetti Il rintocco di Carla Chiaramoni Una casa domotica per Luca, dall’Afghanistan a Pavia Le parole per dirlo Non autosufficiente di Franco Bomprezzi Stanze con vista sull’umanità che scala le classifiche di L.B. 35 A Cannes vince la parabola della sofferenza DULCIS IN fUNDO di L.B. 42 Strissie - I pupassi RUBRICHE di Adriana Farina 36 Inail... per saperne di più e Massimiliano Filadoro Alle Paralimpiadi con Mario: l’impegno dell’Inail nello sport 37 Lavoro Disabilità psichica e occupazione: un percorso a ostacoli 38 Senza barriere Ascensore o servo scala? Dipende dalle circostanze 39 L’esperto risponde Mobilità, Ausili 24 Fabrizio Sottile, le tante storie di gente normale Intervista a Gianni Berengo Gardin di Antonella Patete Anno I - numero sei, giugno 2012 CULTURA 31 Un viaggio iniziatico 14 La professoressa in carrozzina. E Superabile Magazine 40 Il pranzo della domenica del cinema sordo in salsa internazionale di Laura Badaracchi di Eleonora Camilli PINZILLACCHERE 30 Non solo Lis: i Festival per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro Stampa: Tipografia Inail Via Boncompagni 41 - 20139 Milano Autorizzazione del Tribunale di Roma numero 45 del 13/2/2012 4 Un ringraziamento, per l’uso delle foto, a Unione vela solidale (pag. 3), Fiera Milano (pag. 5), Morguefile. com (pag. 6), Maurosanna.com e Rarediseasedayaustralia.com.au (pag. 7), G. Berengo Gardin e Contrasto (pagg. 14-19), Linda Galeotti (pagg. 22-23), Comitato italiano paralimpico (pag. 24), Matti per la vela (pag. 27), Vela Insieme (pagg. 28-29), Paolo Genovesi (pag. 25), Associazione nazionale alpini (pag. 40), Fondazione Mario Tobino (pag. 41). In copertina, uno scatto di Gianni Berengo Gardin. ACCADE CHE... fIERA PER TUTTI mento incredibile per confrontarsi sull’impor“Reatech”: spazio ad aziende tanza dell’accessibilità e associazioni virtuose per tutti», commenome tanti altri ragaz- incontrate per confron- ta Elena Brusa Pasqué, zi, Yuri ama il mare tarsi su accessibilità, in- architetto e coautrice, e ha preso il brevetclusione e autonomia insieme a docenti e stuto da sub, anche se le delle persone disabili. denti del Politecnico di sue gambe sono paraUn’occasione per Milano, di “Life for all” lizzate. Si muove in car- provare tecnologie (Lifeforall-blog.com), rozzina, ma quando è avanzate, come la casa blog dedicato alla prosott’acqua le differen- “intelligente” complegettazione accessibize scompaiono. Insietamente automatizzale. Nato appositamente me ad altri disabili ha ta, poltrone e sdraio per la fiera «come piatprovato l’immersione per chi ha differenti di- taforma del pensiero subacquea a “Reatech sabilità motorie. E soinclusivo, per discutere Italia”, l’evento dedica- prattutto per fare tanto di miglioramento della to a disabilità e innova- sport, sperimentanvita di tutti», spiega Pazione, che si è tenuto do 18 discipline diverse: squé, auspicando: «Ogdal 24 al 27 maggio aldall’handbike (la bicigetti come quelli visti la fiera di Rho (Milacletta che si guida con a Reatech dovrebbeno). Quattro giorni in le braccia) a basket e ro essere al Salone del cui 165 aziende, decine hockey in carrozzina, fi- Mobile, non solo a una di associazioni e centi- no all’arrampicata per fiera specializzata». naia di persone si sono non vedenti. «Un mo[Ludovica Scaletti] C Le prossime edizioni. Appuntamento con Reatech, fiera-evento internazionale sulla disabilità a 360 gradi, nel 2013. Prima tappa: Singapore, dal 27 febbraio al 1° marzo, mentre dal 18 al 21 aprile sarà il turno della metropoli brasiliana di San Paolo. SENZA BARRIERE Domotica sociale per abitare meglio D alla pugliese Conversano è sbarcato a Reatech “Domos”, progetto di eccellenza nel campo dell’utilizzo di tecnologie domotiche applicate al sociale. Le immagini, qui a fianco, illustrano la campagna di informazione sugli ausili, realizzata esclusivamente per le scuole. «Alcuni kit domotici sperimentali sono stati installati gratuitamente presso le case di 20 beneficiari, per migliorare la qualità della vita e l’autonomia delle persone con disabilità o anziane», riferiscono Alessandro De Robertis Giochi speciali. Dai muretti con strumenti musicali e alfabeto, alla casetta a forma di igloo in cui sentirsi protetti, fino ai pannelli tattili. Tutti in materiali riciclati e riciclabili, pensati per i bambini con disabilità. Li produce Giochi Sport, azienda che crea aree-gioco accessibili anche ai ciechi: il primo parco è stato inaugurato nel 2011 al Porto Antico di Genova. 5 e Annalisa Lacalandra, responsabili del progetto. Positivi, dunque, i risultati di oltre un anno di lavoro svolto sul territorio del Sud-Est barese (Conversano, Monopoli e Polignano a Mare), coinvolgendo anche le province di Brindisi e Taranto. «Domos vuole essere un organismo intermediario in grado di rispondere al più ampio numero di persone sui servizi alle famiglie con disabilità che vogliono migliorare la propria quotidianità», spiega Lacalandra. Per ulteriori informazioni e dettagli, Domoticasociale.it. ACCADE CHE... Trasportare e aiutare i cittadini in condizione di fragilità: è l’obiettivo del progetto “Punto pass”, realizzato dalla Consulta per le persone in difficoltà in collaborazione con Tailai srl e in convenzione con la Città di Torino. L’iniziativa, in attuazione della legge 328, prevede l’assegnazione di automezzi attrezzati e non, in comodato d’uso gratuito per quattro anni, a Comuni, aziende di servizi alla persona o associazioni aderenti. La sordità congenita? Colpisce un bambino su mille sotto i tre anni, due bambini su mille tra i 4 e 12 anni. Ma l’incidenza può aumentare fino a dieci volte nel caso di nati prematuri e sottoposti a terapie intensive. I dati sono stati diffusi dal Cabss (Centro assistenza per bambini sordi e sordociechi onlus). Oltre alla prevenzione, alla diagnosi e alle terapie precoci, è cruciale il supporto psicologico ai genitori. Nel 90% dei casi, infatti, i bimbi sordi hanno mamme e papà udenti. SALUTE Ricette per stare meglio S anacucina.it propone ricette ad hoc per chi ha la distrofia muscolare, ma anche patologie cardiache, gastroenteriche e respiratorie. Il sito è stato realizzato dalla sezione bolognese della Uildm, insieme a un’équipe di operatori, neuropsichiatri, dietologi e nutrizionisti dell’Ospedale Maggiore di Bologna, biologi molecolari di Lipinutragen (uno spin-off del Cnr) e i programmatori della software-house Dm. Il motore di ricerca permette di selezionare antipasti, primi, secondi e dessert a seconda delle proprie condizioni di salute e dei gusti personali. Utile anche un servizio per preparare piatti con gli ingredienti disponibili in casa, pensato per chi è colpito da gravi e gravissime disabilità, con difficoltà di movimento: in cantiere, la possibilità di consegna della spesa e l’arrivo di un cuoco a domicilio. Disponibile, infine, un form per entrare in contatto con un medico nutrizionista a cui chiedere chiarimenti e suggerimenti. NATURA A Roma roseto tattile e in braille O spita una collezione visita gratuita, guidata permanente di dagli esperti del 1.200 esemplari di roseto, prenotandola al rose provenienti da numero 06/5746810. tutto il mondo, in Disposto ad anfiteaun’area di circa 10mila tro sulle pendici dell’Ametri quadrati. Ma il ventino, l’attuale roseto roseto comunale di divenne nel 1645 “Orto Roma ha deciso di degli ebrei”, ospitando il abbellirsi ulteriormente, inaugurando un viale tattile, circolare e con un corrimano in legno, dedicato ai non vedenti. Nel percorso sono presenti 54 varietà di rose particolarmente cimitero della comunità. profumate, pannelli in Per questo ancora oggi i braille con la storia del vialetti del parco hanno giardino e la descrizione lo schema della menodelle tipologie di fiori. rah, candelabro a sette Fino al 24 giugno si braccia simbolo dell’epuò usufruire di una braismo. 6 DATI Istat: i Comuni spendono 2.700 euro all’anno per ogni disabile S econdo il Rapporto annuale 2012 sulla situazione del Paese, redatto dall’Istat, i Comuni italiani spendono in media 2.700 euro l’anno per ogni disabile. Ma per quelli residenti al Sud la cifra è di circa otto volte inferiore a quella del Nord-Est: 667 euro l’anno contro 5.438. Inoltre, nel 2009 la cifra complessiva per interventi e servizi sociali ammontava a 7,2 miliardi di euro (lo 0,46% del Pil nazionale), in aumento del 5,1% rispetto al 2008. Tuttavia nel Mezzogiorno la spesa sociale è diminuita dell’1,5%, mentre cresce del 6% al NordEst, del 4,2 al Nord-Ovest e del 5% al Centro. Figura 4.25 Indicatori sintetici della qualità dei servizi sanitari per dimensione della qualità e regione (anni 2009, 2010) Appropriatezza ospedaliera Alta Media Bassa ORISTANO TORINO Arriva “La fucina dei talenti”, Aperta “Bibliò”: agenzia per l’inserimento lavorativo libri per tutti i gusti R ientra in un’azione prevista dalla Fondazione per il Sud, che la finanzia con 280mila euro: la “Fucina dei talenti” è un progetto dedicato alle persone disabili. Verrà realizzato a Oristano dalla cooperativa sociale DigitAbile onlus, in collaborazione con altre sei associazioni e cooperative sociali. Obiettivo? L’inserimento sociale e lavorativo, tramite percorsi formativi in un centro propedeutico al lavoro, uno socio-occupazionale e uno per attività laboratoriali e produttive. Inoltre è previsto un servizio di counselling, rivolto anche alle famiglie, e uno di orientamento formativo e professionale. Per informazioni, Digitabile.org. I naugurata il 31 maggio “Bibliò”, la nuova biblioteca multimediale dell’associazione Egò: nasce con l’obiettivo di sostenere la motivazione alla lettura di bambini e ragazzi con Disturbo specifico di apprendimento (Dsa). Offre, infatti, la possibilità di consultare volumi di narrativa, audiolibri, libri pop-up e multimediali, graphic novel, fiabe, edizioni ad alta leggibilità. Inoltre sarà messo a disposizione un iPad per la lettura di e-book o edizioni Kindle. “Bibliò” si trova a Torino, in via Vittorio Amedeo II 21, presso la sede di Egò, che promuove progetti di supporto allo studio per bambini e ragazzi con Dsa, tramite percorsi individuali e attività di gruppo. Integrando la conoscenza di strumenti informatici e multimediali con un metodo di studio efficace. La Fondazione Paideia collabora con Egò in progetti per minori con difficoltà scolastiche e Dsa. È nato l’Irdirc, International Rare Diseases Research Consortium, organismo internazionale che ha l’obiettivo di arrivare, entro il 2020, a duecento nuove terapie per le malattie rare. Rendendo fruibili i test diagnostici per la maggioranza delle oltre 7mila patologie note. DOPO DI NOI Una casa per sperimentare l’autonomia R enderli autonomi per un futuro indipendente, quando la famiglia non ci sarà più: è l’obiettivo del progetto annuale “Dopo di noi. Mamma, vado a vivere da solo”, al via da settembre nel Municipio XII di Roma in collaborazione con la Consulta municipale alla disabilità e l’Asl Roma C. Attraverso l’inserimento graduale in un appartamento di 230 metri quadri nel quartiere di Vitinia, messo a disposizione dal Municipio, a turno 48 adulti disabili dai 18 ai 55 anni potranno sviluppare la loro autonomia. Imparando, in piccoli gruppi, a gestire la casa, fare la spesa, andare alla posta. (foto: Anffas) TECNOLOGIE Lokomat, robot per la riabilitazione U n robot per la riabilitazione delle persone con lesione al midollo spinale prevalentemente incompleta, cioè con una perdita solo parziale del movimento. Si chiama Lokomat ed è un ausilio meccanico complesso e avveniristico, prodotto dalla ditta svizzera Hocoma e acquistato dall’ospedale Niguarda di Milano per 390mila euro. «La disponibilità di questo apparecchio, resa possibile dalla generosità di molti so- stenitori, facilita la programmazione delle attività rivolte alla riabilitazione della stazione eretta e del cammino in pazienti con motilità residua», dice Tiziana Redaelli, direttore dell’Unità spinale del nosocomio lombardo. Lokomat 7 può essere regolato sulle esigenze del singolo paziente, per impostare il più possibile un trattamento di recupero personalizzato. Il robot viene anche collegato a un monitor, che riproduce la realtà virtuale in cui la persona si muove. l’inchiesta Visti da lontano L’altra faccia del Sud Meno assistenza e più coinvolgimento, valorizzando le risorse della comunità. La ricetta viene da lontano, dove le tecnologie scarseggiano e i pregiudizi faticano a morire. Ma comincia ad affacciarsi una nuova filosofia. Tutta da scoprire Chiara Ludovisi T utto a partire dalla comunità: «Only through community». C’è qualcosa che il Sud del mondo, povero di risorse, di strutture e di tecnologie, può esportare verso i Paesi più ricchi. È una “filosofia della disabilità”, un approccio alle difficoltà, un modo di rispondere ai problemi e alle carenze: al centro non c’è l’assistenza né i servizi e neppure la tanto sbandierata rivendicazione dei diritti. Si punta tutto sulla comunità, con le sue risorse spesso seppellite e le sue potenzialità inespresse: scommettere su queste capacità e potenziarle può rappresentare la strategia più efficace per far fronte alla disabilità, in una parte del mondo in cui i mezzi sono scarsi. Ma anche nei Paesi più ricchi, dove gli strumenti sono certamente maggiori, tuttavia non sempre sufficienti a rispondere ai bisogni. L’indicazione di puntare sulla comunità arriva dal Kenya, dalla zona ru- 8 rale di Nyahururu, a pochi chilometri dall’Equatore, dove è nata e continua a crescere l’esperienza di St. Martin. Esiste però anche una “versione” più ufficiale dell’Only through community: si chiama, tecnicamente, Riabilitazione su base comunitaria (Rbc), ed è stata formulata, per la prima volta, nel 1994, all’interno del Joint Position Paper, un documento firmato congiuntamente da Organizzazione mondiale della sanità, Unesco e Organizzazione internazionale del lavoro. Nella pratica, si traduce in una strategia che vuole garantire l’uguaglianza delle opportunità e l’integrazione sociale delle persone disabili, attraverso la partecipazione attiva dei diretti interessati, delle loro famiglie e delle loro comunità. Tra le numerose organizzazioni che oggi fanno riferimento a questo modello nella realizzazione dei propri progetti di cooperazione, c’è l’Organismo di volontariato e cooperazione internazionale Hamdan, il cielo in una stanza. Ma solo per un po’ f ino all’età di dodici anni Hamdan Jewei non era mai uscito di casa. Viveva recluso nella sua stanza nel campo profughi di Deja, a Betlemme. Segregato dalla sua famiglia, che non voleva mostrare ai vicini quel figlio gravemente disabile. Oggi Hamdan parla tre lingue, è iscritto a undici associazioni locali “La nostra famiglia” (Ovci), che realizza progetti di cooperazione allo sviluppo a favore di persone in situazione di disagio sociale e disabilità in Sud Sudan, Sudan, Brasile, Ecuador, Cina e Marocco. Spiega Cristina Paro, responsabile tecnico dei progetti dell’Ovci: «La vera novità della riabilitazione su base comunitaria è operare a livello locale, per garantire che la persona disabile possa avere accesso a tutti i servizi di cui ha bisogno nella sua comunità. E quando questo non è possibile, creare il contatto con servizi specialistici, che generalmente si trovano nelle grandi città». Operare a livello locale significa, innanzitutto, sensibilizzare la famiglia e la comunità di appartenenza. «Se non si crea la capacità di accogliere la persona disabile, non si potrà mai raggiungere l’obiettivo della sua inclusione nella società – prosegue Paro –. È il nucleo familiare a essere il fulcro del processo di cambiamento e inclusione: se la famiglia Hamdan Jewei, qualche settimana fa durante un soggiorno a Roma –. Temono che la condizione del proprio figlio disabile possa pregiudicare il futuro matrimonio dei suoi fratelli. Esiste la paura che vengano generati bambini disabili o anche – semplicemente – che bisognerà mantenere a vita lo sventurato parente». persone disabili, ampliando a poco a poco i confini del suo mondo angusto e diventando lui stesso volontario e militante a favore di altri disabili. Nei territori palestinesi le persone con disabilità rappresentano il 5,5% del totale della popolazione, una delle percentuali più alte del mondo, ricorda il documentario. E di queste ben il 30% è divenuto disabile non per cause congenite, ma come conseguenza dell’occupazione militare israeliana e della seconda Intifada, scoppiata a Gerusalemme a fine settembre del 2000. Eppure, accanto a storie di isolamento e di esclusione, ne esistono altre che testimoniano grande capacità di accoglienza e solidarietà. È il caso di e internazionali, girando il Ma Hamdan aveva troppa Azmi, ventenne di Hebron mondo come promotore dei voglia di vivere per restare che ha perduto l’uso delle diritti dei cittadini disabili nascosto nella sua stanza. gambe e avrebbe bisogno e del popolo palestinese. «La situazione era talmente di una sedia a rotelle Proprio a quest’uomo e insostenibile che un giorno elettrica, ma non può alla sua vicenda, si ispira il non ce l’ho fatta proprio permettersela. Disoccupato documentario La stanza di più – ha raccontato –. e impossibilitato a trovare Hamdan, girato dal regista Ho fatto quello che un un lavoro a causa della sua Abdullah Al Atrash, nato figlio non farebbe mai: ho condizione, il giovane non in Italia da padre siriano letteralmente aggredito riesce neppure ad assicurarsi e madre marchigiana: mia madre e sono fuggito le cure necessarie sia per 19 minuti di interviste in strada. Lì ho incontrato via dei costi, sia a causa per raccontare la realtà uno dei nostri vicini, che della presenza dell’esercito delle persone disabili in mi ha portato a casa sua. E israeliano che rende Palestina, un luogo dove le quando gli ho raccontato difficili gli spostamenti. difficoltà della situazione la mia storia, ho capito che Per fortuna Azmi non è politica e militare si non era neppure al corrente solo: ha una moglie che nel sposano tristemente della mia esistenza». documentario non esita a con lo stigma legato alla A partire da quel giorno definire «straordinaria», condizione di disabilità. la vita di Hamdan è tanti fratelli minori che si «I pregiudizi della cambiata radicalmente: ha prendono cura di lui, una società civile palestinese cominciato a studiare e a comunità che lo circonda cominciano all’interno della frequentare un’associazione e lo accoglie con la propria famiglia – ha raccontato che operava a favore delle solidarietà. [A.P.] Nella foto in alto (by High-Res), un pozzo in Etiopia per prevenire il tracoma, costruito da Iapb (International Agency for the prevention of blindness). Qui sopra, una scena del documentario La stanza di Hamdan 9 l’inchiesta Visti da lontano non ne capisce l’importanza, è passiva o addirittura contraria, allora la persona con disabilità è molto più sola nell’affrontare tutte le tappe che normalmente affronta qualsiasi persona, ma che per lei sono ogni volta da conquistare». Irlanda o la speranza ritrovata. Figura centrale in questo modello di intervento è il promotore di Rbc: una figura interna alla comunità, che ha il compito di accompagnare la persona disabile e la sua famiglia nel raggiungimento dell’obiettivo fissato. Alcuni dei promotori hanno figli o familiari con disabilità, altri sono essi stessi disabili. Come Irlanda Ayovi Castro, una delle promotrici dell’Ovci. A raccontare la sua storia è Enny Marin, capo progetto Rbc e fisioterapista a Esmeraldas, in Ecuador: «Questa donna disabile di 48 anni, con la sua tipica camminata lenta, è ben nota in questi quartieri, dove vive e lotta ogni giorno perché i bambini e le persone con disabilità ricevano i servizi necessari per una buona qualità della vita». Irlanda è divenuta disabile a 44 anni, a causa di una violenza domestica che le comportò l’amputazione del braccio destro e della gamba sinistra. Aveva sei figli. Decise allora di trasferirsi a Esmeraldas, dove c’erano migliori opportunità di lavoro. Ma la sua vita non era più quella di prima: non poteva lavorare, non voleva uscire, non si sentiva bene con se stessa, così che ri- manere sdraiata a letto divenne la sua attività principale per più di un anno e mezzo. Un giorno, dopo aver dormito per più di dodici ore consecutive, sentì dentro di sé una voce che diceva: «Cosa stai facendo? Hai intenzione di lasciarti morire così? Ora alzati, mettiti a fare qualcosa». Quello stesso giorno si alzò dal letto e cominciò a cucinare. I suoi bambini non credevano ai loro occhi: la madre era tornata a essere quella di prima. A poco a poco, riprese le faccende domestiche, lasciò la sedia a ruote per utilizzare protesi, fino a diventare indipendente e utile. «Oggi Irlanda cammina per le strade aiutando le persone che, come lei, hanno una disabilità ma che non possono fermarsi – prosegue Marin –. Visita, coordina e ottiene assistenza per chi ha bisogno di qualche servizio riabilitativo. Per Irlanda l’importante non è quello che ha fatto, ma ciò che resta da fare. Così continuerà a 10 Sudan: un progetto di riabilitazione comunitaria in un laboratorio di ceramica. L’iniziativa è promossa dalla ong Ovci (Organismo di volontariato e cooperazione internazionale), braccio dell’associazione “La nostra famiglia” che realizza progetti a favore di persone disagiate e disabili. Opera anche in Sud Sudan, Brasile, Ecuador, Cina e Marocco. rappresentare le persone con disabilità all’Assemblea legislativa del suo Paese». Quel bambino non era un castigo di Dio. Mariana Delgado è la mam- ma di un ragazzo disabile ed è anche lei promotrice del programma Rbc per l’Ovci: «Quando aveva un anno, il mio bambino ebbe una febbre molto alta, accompagnata da strani attacchi – racconta –. Così lo portai in ospedale, dove gli diedero l’ossigeno per tre ore. Gli attacchi però continuarono e io non sapevo cosa fare. Chiedevo e cercavo risposte, ma la gente mi diceva che mio figlio era matto. Lo portai alla scuola materna, ma i compagni lo deridevano e l’insegnante mi chiese di tenerlo a casa. Abbracciai il bambino, piansi con lui e ritornai nella nostra abitazione. Nessuno mi spiegava qual era la causa dei suoi attacchi». Quando suo figlio compì 19 anni, Marianna lo accompagnò al dispensario del Cottolengo e spiegò al medico che aveva attacchi ogni giorno. «Gli chiesi di aiutarmi – continua –, perché non potevo più vederlo in quello stato. Il dottore mi disse che si trattava di epilessia e che non esistevano cure per questa malattia, ma che con una pastiglia era possibile calmare le convulsioni». Quando il ragazzo aveva 20 anni, alla porta di Marianna bussò un promotore Rbc: «Ringraziai Dio per avermelo mandato: mi riempiva di gioia vedere i volontari dell’Ovci prendersi cura di lui». Fu così che anche Marianna diventò una promotrice. «C’erano molte mamme come me, insieme ai loro figli. Fui contenta di vedere che esistevano altri bambini con problemi e capii che la malattia di mio figlio non era un castigo di Dio. All’età di 23 anni perse l’uso dell’occhio destro e cinque mesi dopo morì, lasciando un vuoto incolmabile. Ogni volta che incontro bambini “speciali”, rivedo mio figlio: è lui che mi ha insegnato ad amare le persone e a rispettarle». Un piccolo miracolo a St Martin. È il 1997 quando don Gabriele Pipinato, sacerdote veneto in missione in Kenya, si reca presso le famiglie della sua diocesi, Nyahururu, per impartire la rituale benedizione. Una donna gli apre la porta e gli chiede di benedire un po’ tutto: persone, animali, ambienti. D’un tratto, don Gabriele sente un rumore proveni- 11 re da un angolo della casa. Riverso su un pavimento sporco di escrementi, c’è un ragazzo disabile, cerebroleso. «E lui chi è?», chiede il sacerdote alla donna. «È mio figlio». «Ma come – replica sorpreso il prete –, non mi chiedi di benedire anche lui?». «Perché, si può fare?», domanda incredula la donna. Nasce in quel momento, nella testa di don Gabriele, l’idea di St. Martin: un’esperienza sociale, spirituale e culturale, che si pone subito l’obiettivo di rafforzare le comunità locali e la loro consapevolezza rispetto alla malattia e alle disabilità. Luca Ramigni ha trascorso cinque anni presso St. Martin, lavorando come fisioterapista all’interno del programma dedicato alle persone disabili. «Dopo l’incontro con quella donna – ricorda –, don Gabriele radunò undici volontari e si pose, come primo obiettivo, quello di contare quante persone con handicap ci fossero nel territorio: su una popolazione di circa 500mila abitanti, ne trovarono oltre 2mila. Vivevano tutti nascosti in casa, occultati dalle loro famiglie, che li consideravano una maledizione. Sono arrivato a Nyahururu sette anni dopo, e posso assicurare che disabili nascosti non ne ho più trovati: neppure uno». Un miracolo? No, il frutto di un lavoro molto complesso e articolato, che si basa su un concetto fondamentale, quasi il motto dell’associazione: «Only through community». È la comunità, infatti, il cuore pulsante dei cinque programmi, dedicati rispettivamente ad Aids-dro- L’INCHIESTA Visti da lontano ga-alcol, non violenza, microcredito, ragazzi di strada e disabilità. L’idea, tutt’altro che facile da percorrere, è che non si debba offrire assistenza al vulnerabile, ma rafforzare l’abile. Nel caso della persona disabile, quindi, la priorità non è risponde- re ai suoi bisogni, ma creare intorno a lei una comunità consapevole e capace di accoglierla. Certo, il cambiamento culturale è difficoltoso e mai definitivo: «Certe credenze sono difficili da sradicare – spiega Ramigni –. D’altra parte, anche in Italia alcune famiglie considerano la disabilità del proprio figlio una sorta di punizione. A Nyahururu è avvenuta una grande trasformazione che sta contagiando, lentamente, anche le zone limitrofe». St. Martin nasce ufficialmente nel 1999 e in questi 13 anni è cresciuta fino a diventare una realtà molto importante nel territorio: una “I fiori del Mali” piantati da Ada Nardin Il progetto, avviato nel Paese africano con Blindsight Project, è promosso dall’Associazione disabili visivi. L’obiettivo: promuovere l’autonomia delle persone cieche T rentottenne, una formazione linguistica, occhi che vedono luci, ombre e, in alcune condizioni, sanno distinguere i colori: Ada Nardin si è appassionata alla cooperazione alcuni anni fa, quasi per caso, e ora dedica buona parte della sua vita a seminare “I fiori del Mali”. Così si chiama il progetto avviato nel Paese africano con Blindsight Project e portato avanti con l’Associazione disabili visivi: l’obiettivo è coltivare l’autonomia nelle persone cieche maliane. A Gao, precisamente nella scuola integrata per studenti ciechi e vedenti, nel 2007 è iniziata l’attività indirizzata innanzitutto alla formazione degli insegnanti. «Esisteva già una sensibilità, quando sono arrivata. La scuola funzionava bene, gli insegnanti erano preparati, l’integrazione era un obiettivo condiviso da governo e docenti, che si impegnavano anche nel reclutamento di nuovi studen- 12 ti ciechi nei villaggi più piccoli e distanti – racconta Ada –. Non ho trovato quella disabilità emarginata e stigmatizzata di cui tanto si parla riferendosi ai Paesi africani». Anzi, i ragazzi non vedenti erano abituati a spostarsi in autonomia, frequentavano regolarmente la scuola ed erano ben inseriti nel tessuto sociale. «Non manifestavano quei “ciechismi”, cioè quelle stereotipie tipiche delle persone cieche non integrate – sottolinea –. Credo che il merito sia soprattutto del buon lavoro svolto dall’Associazione maliana dei ciechi, anche se la cultura del Paese è ancora impregnata di fatalismo. D’altra parte, ci sono tanti giovani pieni di idee, che però non riescono a concretizzare in azioni reali per mancanza di strumentazioni». In questo contesto si è inserito “I fiori del Mali”, che si propone anzitutto di portare nel Paese tecnologie e strumenti didattici per facilitare e incrementare zona rurale del Kenya, a due chilometri dall’Equatore, abitata per l’80% da contadini. Gli undici volontari iniziali sono diventati più di mille, tutti kenyani. «Consideriamo quasi conclusa la prima fase del lavoro, dedicata alla consapevolezza – dice il fisioterapista –. Il secondo stadio si pone un obiettivo ancora più alto: l’advocacy, cioè la rivendicazione dei diritti e la partecipazione attiva alla vita politica e sociale della comunità da parte delle persone disabili». Accanto a questo lavoro, si continua naturalmente a fornire assistenza e supporto a chi ne ha bisogno: ogni anno vengono seguite circa 600 persone con disabilità. «Ma il centro resta sempre la comunità, che è chiamata ad attivare tutte le sue risorse. Vedendo un bambino povero, nudo e affamato, sarebbe spontaneo offrirgli soldi, vestiti e cibo. Tuttavia è molto più importante creare intorno a lui una comunità capace di accoglierlo e di provvedere ai suoi bisogni». È questo il motivo per cui, a St. Martin, non lavora più nessun europeo. Persino gli ausili, oggi, li costruisce con le sue mani Timoty, un giovane di Nyahururu che, dopo un percorso formativo a Mombasa, ha frequentato nei mesi scorsi un iter di ulteriore perfezionamento tenuto da una delegazione inglese: d’ora in poi, farà ausili. Ausili di cartone. Ma questa è un’altra storia. Ed è appena cominciata. competenti e capaci di risolvere da soli i problemi». In generale, comunque, la situazione in Mali non è affatto critica. «Diversa, sicuramente, da quella che ho incontrato in Sri Lanka – precisa Ada –, dove la scuola per ciechi era isolata in mezzo alla foresta. Diversa anche dal Congo, dove ho riscontrato maggiore pietismo e minore integrazione rispetto al Mali, senza tuttavia imbattermi in casi di emarginazione». Anzi, proprio dall’Africa qualcosa Ada l’ha riportato in Italia, nella speranza che “fiori del Mali” possano germogliare anche qui: «Una maggiore leggerezza burocratica: dovremmo impararla dagli africani. Hanno accettato tranquillamente il mio aiuto, mi hanno lasciata entrare in scuole e uffici senza chiedermi che titoli avessi. E poi la giovinezza del pensiero: l’Africa è il nostro passato, ma è anche il continente più giovane, con una grande voglia di fare e una storia in evoluzione. Ogni volta che torno, riscontro che sono stati fatti passi in avanti. Anche questo desiderio di migliorare e di guardare al futuro dovremmo farlo nostro». Col passare degli anni, il progetto ha dato i suoi frutti: contemporaneamente, però, è cresciuta nel Paese la tensione politico-militare e si è aggravata la minaccia del terrorismo islamico. Nel 2011, per raggiungere Gao dalla capitale Bamako, Ada e il suo compagno – l’ingegnere informatico Michelangelo Rodriguez, cieco assoluto – hanno dovuto percorrere 1.200 chilometri nel deserto a bordo di un fuoristrada, perfettamente consapevoli del pericolo che stavano correndo. “I fiori del Mali”, però, hanno ancora bisogno del loro aiuto per crescere. «Il mio sogno è diventare inutile, potermi un giorno tirare indietro, sapendo che quei fiori, anche senza di me, non appassiranno». [C.L.] Una donna disabile a causa della lebbra in Guinea Bissau, piccolo Paese dell’Africa occidentale (foto di Federica Donà). Viene curata e assistita presso l’ospedale di Cumura grazie a un progetto finanziato dall’Aifo (Associazione italiana amici di Raoul Follereau), che promuove anche il reinserimento nei villaggi di origine. l’autonomia delle persone non vedenti. «I ragazzi ciechi studiavano solo le materie umanistiche orali, visto che la scuola non disponeva degli strumenti necessari per accedere anche a quelle scientifiche – ricorda Nardin –. Abbiamo portato una strumentazione specialistica, installato una stamperia e formato insegnanti e trascrittrici che potessero tradurre i testi in Braille, in nero ingrandito o in formato audio digitale». Il problema più grande è stata la manutenzione: «Poco dopo la nostra partenza, molti strumenti hanno smesso di funzionare, a causa del cattivo uso da parte dei tecnici – riferisce –. E nessuno era in grado di ripararli. È l’ostacolo che ancora ci troviamo davanti: superare la dipendenza nei confronti di noi occidentali e assicurare la piena autonomia, grazie a operatori locali 13 INSUPERABILI Intervista a Gianni Berengo La professoressa in carrozzina. E le tante storie di gente normale Antonella Patete I mmagini dove la drammaticità dell’esistenza non esplode in spettacolo o in tragedia, ma piuttosto composizioni in cui i corpi si inseriscono con armonioso equilibrio nell’ambiente che li accoglie e ne racconta la storia. Nella sua lunga carriera, il maestro Gianni Berengo Gardin, tra i più noti e riconosciuti fotoreporter italiani, ha incontrato anche la disabilità. Negli anni Sessanta attraverso un lavoro di documentazione e denuncia sui manicomi italiani, più tardi grazie all’incontro con organizzazioni come l’Aism (Associazione italiana sclerosi multipla) e la Casa del Sole di Mantova, che gli hanno permesso di immortalare storie e realtà per molti versi ancora sconosciute. me si è avvicinato a questa tematica? È un tema che non ho affrontato in senso vero e proprio, ma solo di riflesso. Intendo dire che non ho portato avanti un lavoro specifico sui matti, pur avendoli incontrati in varie occasioni. Alla fine degli anni Sessanta ho realizzato un lavoro sui manicomi, collaborando con Franco Basaglia. Con la fotografa Carla Cerati eravamo andati a fare un reportage nel manicomio di Gorizia, da cui successivamente è nata l’idea di pubblicare un libro. Così nel 1969 è uscito Morire di classe per Einaudi, un volume che all’epoca ha ottenuto un enorme successo ed è stato stampato in sei edizioni. faceva il capostazione, era andato in pensione in anticipo proprio per aiutarla a svolgere i lavori di casa: apparecchiava la tavola, preparava da mangiare, l’accompagnava in giro a fare spese e, soprattutto, la portava a scuola e poi andava a riprenderla. Quali sorprese ha incontrato affrontando questo tema? Sono rimasto colpito dall’affetto smisurato che quest’uomo provava per sua moglie. Ma anche dal fatto che questa donna facesse una vita normale, malgrado il suo handicap. Una volta, per esempio, siamo andati a fare una gita in montagna, con un gruppo di amici anNel 1994 ha realizzato un lavoro con l’Ai- che loro disabili. Insomma, il fatto che, sm. Che cosa ricorda di quell’esperienza? malgrado tutto, si potesse vivere una viRicordo soprattutto la storia di una ta normale per me è stata una bella sorBerengo Gardin, non tutti conoscono il suo professoressa in carrozzina che inse- presa. Come è nato il lavoro con la Casa del Sole? lavoro sulla disabilità fisica e psichica. Co- gnava in un liceo sardo. Il marito, che 14 Gardin Dalla fine degli anni Sessanta a oggi, Gianni Berengo Gardin ha fotografato la disabilità in varie occasioni: prima denunciando la violenza dei manicomi, poi raccontando la vita quotidiana di molte persone. Senza mai cedere alla tentazione di una rappresentazione tragica o spettacolare sta il meno fotografato dei mondi sociali. Secondo lei, perché è un argomento poco interessante? Forse c’è un certo ritegno da parte dei fotografi che non vogliono mettere in imbarazzo i malati. Io, invece, non provo nessun imbarazzo perché penso che il mio lavoro può aiutarli un po’ a migliorare le loro condizioni di vita. In che modo? Ho assistito alla soddisfazione dei malati pischici a farsi fotografare. Certo, qualcuno si rifiuta, ma si tratta di una minoranza. Anche a Novara abbiamo fotografato le persone mentre giocano a basket, curano i cani, cantano nel coro, insomma fanno delle attività quasi normali. Faremo un libro proprio per mettere in evidenza la differenza tra come venivano trattati i malati una volta e come vengono trattati adesso. La fotografia ha ancora il potere di denunciare e, denunciando, di cambiare le cose? Secondo me sì. Certo oggi, rispetto a una volta, si sanno molte più cose. Prima si conosceva molto poco di quello che succedeva nei manicomi, perciò nel ’69 il nostro libro ha destato un grande scalpore. Adesso la gente è più preparata, c’è più conoscenza, più assistenza. Quello sui manicomi è stato un lavoro di Per questo oggi la fotografia ha un imgrande eco e una grande testimonianza patto meno violento rispetto a una volta. Nel 2007, mentre ero a Mantova, ho conosciuto i responsabili di questa struttura che si occupa di ragazzi con cerebropatie. Ho lavorato per più di una settimana con i bambini disabili, seguendo le attività in piscina, in giardino e con i cavalli. Da questo lavoro sono scaturite alcune mostre, ma purtroppo non siamo riusciti a fare un libro perché non abbiamo trovato lo sponsor. In realtà non ce ne sono state. Di solito i genitori dei bambini disabili non vogliono che i figli vengano fotografati, ma in questo caso c’è stata una grande collaborazione da parte di tutti. Nessuno ha posto alcun tipo di veto. Alla Casa del Sole c’erano circa 150 ragazzi: la mattina andavano a prenderli con i pullman dei vari Comuni e li portavano in questa struttura, dove rimanevano fino alle 16-17 del pomeriggio, e poi li riportavano a casa per non interrompere il rapporto con i genitori. Mi ricordo alcune famiglie pugliesi e calabresi, che si erano trasferite a Mantova proprio per poter fare assistere i figli da questa organizzazione. do avanti un lavoro sui malati psichici a Novara. Si tratta di una situazione completamente diversa da quella di fine anni Sessanta. In quel periodo i malati venivano rinchiusi in dei veri e propri lager, mentre ora sono trattati molto bene e vivono in gruppi-appartamento. Anche quelli ricoverati in ospedale sono più liberi, soprattutto di uscire, e svolgono varie attività. Una volta, invece, venivano legati e non facevano nulla. storica. È diverso raccontare oggi la disabilità? Attualmente, insieme alla fotografa Quale realtà ha avuto modo di conoscere milanese Donatella Pollini, sto portana Mantova? Quali sono state le difficoltà? In qualche occasione ha detto di vantarsi più delle foto che non ha fatto che di quelle che ha fatto. Che intendeva dire? Ho cercato di fare molto lavoro sociale, in tutti i campi. Di solito per lavoro sociale si intende fotografare i “morti di fame”, mentre per me sociale vuol dire tutto, anche ritrarre i principi Torlonia. Ma ho sempre rifiutato di fotografare il gossip, non mi sono mai occupato di veline e non ho mai fotografato donne nude, anche quando andavano di moda i calendari. Sono stato sempre convinto che questo tipo di foto togliesse dignità non solo alle dirette La disabilità, soprattutto quella fisica, re- interessate, ma a tutte le donne. 15 PORTFOLIO Il mondo visto da Berengo Gardin Per l’Aism (Associazione italiana sclerosi multipla), Berengo Gardin ha fotografato gite collettive (come quella in montagna, qui sopra) e la giornata di Maria Luigia, professoressa sarda su sedia a ruote, che insegna mentre il marito si occupa della casa. Il lavoro è stato pubblicato nel volume La vita, nonostante: sclerosi multipla, diario per immagini (Aism, Genova 1997). 16 È uno dei più noti fotografi italiani. Nato a Santa Margherita Ligure (Genova) il 10 ottobre 1930, Gianni Berengo Gardin comincia a occuparsi di fotografia nel 1954. Ma la sua carriera di fotoreporter inizia nel 1965: lavora prima per Il Mondo di Mario Pannunzio e poi nelle maggiori testate nazionali e internazionali: Domus, Epoca, Le Figaro, L’Espresso, Time, Stern. I suoi scatti sono stati esposti in tutto il pianeta: dal Museum of Modern Art di New York alla Biblioteca nazionale di Parigi. Ha firmato 210 libri fotografici. Oggi vive a Milano e dal ‘90 è membro dell’agenzia fotografica Contrasto. 17 PORTFOLIO Il mondo visto da Berengo Gardin Nel dicembre 2007, in occasione del Lucca Digital Photo Festival, Berengo Gardin ha esposto a Lucca il suo lavoro “Aiutiamo la Casa del Sole”, che comprende anche la foto della pagina precedente (ripresa in copertina). In provincia di Mantova e di Verona, l’associazione “La Casa del Sole” onlus accoglie persone con cerebropatie. In cinque centri usufruiscono di servizi educativi e riabilitativi personalizzati, oltre a terapie in piscina, con i cavalli e altro ancora. 18 19 CRONACHE ITALIANE Natura amica Zappando s’impara Eleonora Camilli L a passione di Simona sono le marmellate, e quella di arance che prepara lei, assicura, «è davvero buonissima». A Marco, invece, piace stare a contatto con gli animali: in particolare con gli asini, che accudisce fin da piccoli. C’è poi chi, come Carmelina, preferisce prendersi cura dell’orto: seminare, zappare e innaffiare le verdure, destinate poi alla vendita, è per lei un’attività divertentissima. Tutti e tre hanno una disabilità mentale e fanno parte di laboratori di inserimento sociale e lavorativo di tre diverse cooperative romane, che lavorano sull’approccio terapeutico di un’attività semplice e secolare come l’agricoltura. Alla base c’è la convinzione che il contatto con la natura riesca a stimolare nelle persone con deficit psichico capacità emotive e comportamentali. Non solo: la cura della terra può anche diventare una risorsa per un futuro Coltivare orti, veder crescere piante e frutti? Una terapia che dà risultati positivi anche fra le persone con disabilità. Seminando autostima e inclusione lavorativo in autonomia. Una filosofia tutta racchiusa nel nome del progetto avviato all’Istituto tecnico agrario Giuseppe Garibaldi di Roma – “La terra che cura, la cura della terra: l’orto dei semplici” – che per il responsabile Gianluca Zuppardi è una sorta di “Tao”: un cerchio che si chiude, dove il lavoro e la fatica che i ragazzi riservano alla terra ritorna loro come miglioramento della qualità della vita, non solo a livello individuale ma anche relazionale. 20 Specializzato nell’avviamento al lavoro dei ragazzi disabili, l’Istituto promuove diversi laboratori: dalla cura dell’orto alla preparazione dei mercatini. Ma l’obiettivo finale è dar vita a un vero e proprio agriturismo gestito dai ragazzi stessi, dove poter mettere in pratica quanto appreso frequentando la scuola. «Lavorare la terra per molti di loro significa lasciare fuori le stereotipie e avere un compito da portare avanti. Per quelli ad alto funzionamento vuol dire anche avere una responsabilità – sottolinea Zuppardi –. E capita spesso che i ragazzi si aiutino tra di loro: quelli che stanno meglio fanno da tutor a quelli con patologie più gravi». L’approccio al lavoro è pensato in base ai diversi tipi di disabilità. Per facilitare chi ha disturbi dello spettro autistico, si fa ricorso al cosiddetto “orto strutturato”: le zolle di terra sono ben delimitate, come in una sorta di scacchiera, per consentire ai ragazzi autistici Sotto e nella pagina a fianco, due momenti della vendemmia all’Agricoltura Capodarco, a Grottaferrata (Roma) di capire qual è la parte di terreno su cui sono loro a dover intervenire. «È un modello semplice e replicabile – aggiunge il responsabile del progetto –, dove possono lavorare in piena autonomia». Un aspetto importante del lavoro agricolo è la sua concretezza: permette cioè di toccare con mano il risultato di tanta fatica. «Quello che colpisce coloro che partecipano ai nostri progetti è il ritorno di quello che si fa. Quando piantano un seme, lo curano e poi vedono il prodotto finito, tangibile, del loro lavoro: si rendono conto di quello che hanno realizzato e di quanto sia importante. E quella produttività che appartiene a loro è fondamentale per una piena inclusione sociale», spiega Tiziano Cardini, operatore della cooperativa sociale “L’orto magico”, che ha due fattorie sociali nella Capitale: una nella zona della Bufalotta, alle porte di Roma, e l’altra in provincia, a Nazzano. In tutto, 25 i giovani con disturbi cognitivi impiegati nelle attività di coltivazione e trasformazione dei prodotti: oltre all’orto, infatti, si producono dolci, conserve e diverse creme, come il pesto di rucola o di radicchio. Anche qui a essere seguiti nei laboratori sono soprattutto ragazzi in età scolare; le richieste di in- serimento nei progetti arrivano, infatti, non solo dalle famiglie ma anche attraverso le scuole. Hanno invece dai 18 anni in su le persone inserite nei progetti di “Terra d’orto onlus”, che porta avanti tre iniziative nell’ambito dell’ agricoltura sociale: la fattoria, l’orto comunitario e il centro estivo. «Lavoriamo molto sul gruppo – spiega l’educatrice Emanuela Canessa –. Facciamo in modo che ci sia molta collaborazione tra le persone che seguiamo, così chi ha la tendenza a isolarsi si sente parte di un insieme». Tra le realtà che si occupano da tempo di agricoltura sociale, nel Lazio c’è la cooperativa “Agricoltura Capodarco”, che vanta un’esperienza trentennale sul campo. Situata a Grottaferrata, nel cuore dei Castelli romani, gestisce la coltivazione, produzione e vendita di prodotti orticoli, rigorosamente biologici. Ma tra le attività figurano anche l’allevamento di pollame e la produzione di miele, olio d’oliva e vino. Tra i progetti destinati alle persone disabili, il “Viva-io”, un laboratorio sociale in cui i ragazzi con deficit psichico si prendono cura di fiori e piante. L’assunto di base è che aiutare un altro organismo vivente a svilupparsi può 21 costituire un valido aiuto nella crescita dell’autostima e nel rapporto con gli altri. «Questo progetto floro-vivaistico include disabili mentali e soggetti psichiatrici, dai 18 ai 30 anni – spiega Sara Nigri, responsabile dell’iniziativa –. Tutto parte come un gioco, ma pian piano le persone seguono ogni fase dello sviluppo della pianta, dalla semina in poi. Un percorso graduale che dà risultati di miglioramento: uno dei nostri ragazzi con disturbo psichiatrico da tre anni – cioè da quando lavora al vivaio – non è più stato ricoverato». Sulle capacità di recupero tramite attività all’aria aperta non ha dubbi neppure Annalaura Rosati, fra i responsabili dei progetti promossi dalla cooperativa “San Michele onlus”: agricoltura sociale, giardinaggio, onoterapia (pet therapy con gli asini), fino a produrre colori naturali da edera, melograno e camomilla. «Vivere a contatto con la terra fa bene a tutti. La coltivazione permette l’avvicinamento ai cicli della vita; i ragazzi con deficit cognitivo imparano a star bene con se stessi – racconta Annalaura –. Ed è importante an anche nell’onoterapia: con l’asino si sviluppa un rapporto che aiuta a gestire anche il proprio corpo e le proprie emozioni». SOTTO LA LENTE In punta di ruote La danza di Linda Campionessa mondiale di wheelchair dance, la diciassettene di Cecina con spina bifida coltiva la sua passione per il ballo, con un sogno nel cassetto: «Vivere in Olanda, il Paese più attrezzato per la mia disciplina» Alessandra Brandoni A 17 anni è già campionessa del mondo in carica di wheelchair dance, danza sportiva su sedia a rotelle. Ed è arrivata fino in Cina grazie alla sua passione, sognata fin da piccola e poi vissuta, nonostante la spina bifida. Complici un carattere testardo e una famiglia che non l’ha mai ostacolata, anzi l’ha sostenuta nel realizzare la sua ambizione. Linda Galeotti, di Cecina (Livorno), racconta la sua storia di giovane atleta con semplicità e grazia, rivelando i suoi desideri per il futuro: diventare insegnante di danza e andare a vivere in Olanda, «il Paese più attrezzato per la mia disciplina». Il penultimo campionato al quale Linda ha preso parte è stato quello regionale di Prato. L’ultimo appuntamento, per lei che è abituata a stare sempre in movimento, senza fermarsi neanche per un attimo, è il campionato italiano disputato il 27 maggio a Rimini. Si ci- 22 menta nelle danze standard – che includono valzer, valzer viennese, tango, foxtrot lento, quick step – e in quelle latinoamericane, che comprendono samba, cha-cha-cha, rumba, paso doble e jive: le sue preferite. La sua prima lezione di ballo? Nel settembre 2006. L’anno dopo, a Bologna, ha vinto il primo campionato italiano su sedia a rotelle della Fids (Federazione italiana danza sportiva). Poi ci sono stati i tornei in Europa e le Olimpiadi in Cina. La conquista del titolo mondiale è arrivata invece nel 2010, in Olanda. «In quel momento mi sono sentita felice, perché tutti i miei sacrifici e il mio impegno sono stati ripagati». Il motto di Linda è: «Tutti possono ballare». E la sua vita ne è la testimonianza. La quotidianità è quella di un’adolescente come tante altre: di mattina la scuola, di pomeriggio gli allenamenti con i suoi compagni di ballo, la sera le Nella foto grande, Linda con il suo partner durante una gara. A destra, con un’amica e compagna di classe. La wheelchair dance è praticata in circa 22 Paesi, ma non fa ancora parte del programma delle Paralimpiadi. In Italia la prima scuola è nata a Firenze. uscite con le amiche e il fidanzato. Ma con una particolarità: un sogno da inseguire, fatto di esibizioni e continue sfide, partenze, gare, abiti scintillanti, piste, saggi. E una personalità forte, da campionessa, di quelle che di fronte agli ostacoli tirano fuori le unghie invece di arrendersi, credendo fermamente che nulla sia impossibile: «Sono testarda: se voglio fare una cosa, la faccio e basta e la devo ottenere per forza», conferma. Tutto questo vissuto con estrema naturalez- za, e con la freschezza dei 17 anni. Ma in un orizzonte grande quanto il mondo. «La danza mi è sempre piaciuta, fin da piccola. Un giorno mia madre mi ha fatto una sorpresa e mi ha portato in una scuola di ballo, così ho deciso di iniziare. Avevo 12 anni – racconta –. Da allora non ho mai smesso di ballare, mi alleno tre volte a settimana, quando ci sono le gare anche tutti i giorni». Prima di ballare, Linda ha fatto nuoto e tennis, «ma è stata la danza a cambiarmi la vita, permettendomi di viaggiare, conoscere nuovi posti e culture, imparare a muovermi meglio». Ma la situazione della wheelchair dance in Italia non è proprio rosea: «Siamo indietro rispetto ad altri Paesi, nel senso che ci sono meno coppie, meno competizione. All’estero, invece, la wheelchair dance è considerata una vera e propria disciplina, seguita da molti disabili e anche molto apprezzata dal pubblico. In ogni caso, non ho avuto nessuna difficoltà a praticarla in Italia». Il ruolo della famiglia Galeotti è stato cruciale in questo percorso: «I miei genitori mi hanno spinto a non arrendermi, a realizzare il mio sogno; hanno sempre fatto sacrifici per aiutarmi e accompagnarmi alle gare. Senza il loro supporto non sarei arrivata fin qui», assicura Linda. Grazie a loro e al fidanzato, «non c’è niente che considero un ostacolo. Spesso vedo persone come me che si chiudono in se stesse, che si isolano. Io però non lo faccio mai, perché sono circondata da persone che mi aiutano». E ora non riuscirebbe a immaginare la sua vita senza la danza: «Per me è la cosa più importante». Tanto che, tra i suoi obiet- 23 tivi futuri, c’è quello di iniziare a insegnare proprio ballo in sedia a ruote. Intanto su Youtube si possono visionare i video delle sue gare. Far capire a tutti l’importanza per i ragazzi disabili di socializzare attraverso lo sport: è un pallino di Linda e lo scopo dell’associazione “Wind Dancers”, nata nel 2008, presente su Facebook e Twitter. «Teniamo corsi di ballo grazie all’aiuto di molti volontari. Attualmente siamo dieci ballerini, non tutti fanno le gare, ma si limitano ad allenarsi – riferisce –. Invece a me è venuto naturale fare danza a livello agonistico». E a scuola? Patrizia Pellegrini insegna da 15 anni e da tre è la docente di sostegno di Linda, che frequenta la terza classe (indirizzo turistico) dell’Istituto “Polo-Cattaneo” di Cecina. La studentessa non ha un programma speciale, ma lo stesso della sua classe, con alcune semplificazioni previste dal suo piano individualizzato. Per l’insegnante, l’impegno nello sport di Linda è una ricchezza: «Come tutti i ragazzi che fanno sport a livello agonistico, conosce l’importanza dell’impegno, delle regole, dell’applicazione». E la scuola va incontro alle sue esigenze «quando deve allontanarsi per le gare – prosegue Patrizia –. Il suo profitto nello studio è buono ed è ben inserita, oltre a essere fidanzata con un ragazzo che frequenta l’istituto». Ballare, per Linda, «significa sentirsi senza nessuna differenza. Ha un carattere vivace e determinato e spesso ci dimentichiamo che sia in carrozzina. Io ne sono fiera e credo che sia un ottimo esempio per gli altri». SPORT Verso le Paralimpiadi fabrizio Sottile, il futuro in una vasca È ipovedente, ma in acqua ci vede benissimo: il campione varesino, promessa del nuoto paralimpico, in due anni ha conquistato primati e un bronzo europeo. Stile libero, naturalmente Stefano Caredda I n acqua, quando nuota, c’è un solo colore: l’azzurro. E il suo occhio sinistro (l’altro «ormai è andato») è ancora capace di riconoscere quella riga blu sul fondo della vasca che avvisa il nuotatore dell’imminente necessità di prepararsi alla virata. Fuori dall’acqua, invece, «solo luci e colori che mi disturbano» e che rendono la vita all’asciutto assai più difficile di quella in vasca. Fabrizio Sottile è il futuro del nuoto paralimpico: da due anni – oggi ne ha 19 – combatte con una grave neuropatia ottica, dovuta a una mutazione genetica trasmessa per via ereditaria. Si chiama malattia di Leber e, secondo i freddi rapporti medici sulla frequenza della patologia fra la popolazione, colpisce una persona ogni 50mila. Lui è quel caso. La malattia è degenerativa e, per mantenere quanto più possibile stabile la pur limitata percezione ottica che Fabrizio ancora conserva, ci vuole un far- 24 maco che rallenta lo spegnimento dei nervi ottici: è ancora sperimentale, si chiama idebenone. «Ne prendo 21 pastiglie al giorno, quando il foglietto illustrativo ne prescrive al massimo sei», racconta, assicurando comunque che quello «è il dosaggio giusto per me». La sua determinazione – e ne ha davvero parecchia – Fabrizio l’ha portata subito in vasca, insieme alle sue indubbie doti elastiche e a una velocità portentosa: dal punto di vista sportivo, oggi fiamme paralimpiche si fa un gran parlare di lui come grande promessa del nuoto paralimpico. Del resto, con il suo bronzo europeo vinto sui 400 stile libero a Berlino nel 2011, ha già dimostrato – per essere poco più che adolescente – una personalità già ben definita e una sicurezza invidiabile. Agli europei del 2011 non solo è salito sul podio, ma si è tolto anche lo “sfizio” di stabilire i nuovi primati italiani sui 400 stile – la sua gara – e poi nei 50 e nei 100 stile, nei 200 misti e nei 100 farfalla. L’acqua, del resto, è sempre stato il suo elemento. La mamma lo buttò in piscina che lui aveva appena tre mesi: esercizi di acquaticità, naturalmente, e si sa che per i neonati quello è un ambiente familiare, visto che le nuotate nel liquido amniotico sono ancora esperienza recente. Fabrizio Sottile nuota da sempre, insomma, e non sorprende certo sapere che già a otto anni l’attività agonistica entra a far parte della sua vita. A distanza di oltre dieci anni, e dopo essere passato sul versante paralimpico, le ore passate ogni giorno in piscina sono diventate almeno tre, dalle due alle cinque del pomeriggio, per l’allenamento in acqua. Tre volte a settimana, poi, la preparazione continua in palestra. Risultato: «Tempo libero, niente», dice, ma del resto non si diventa dei grandi atleti senza sacrifici. E se le specialità in cui Fabrizio sa dare il meglio di sé sono i 50, i 100 e i 400 stile libero (agli Europei 2011 è arrivato rispettivamente al quinto, quarto e terzo posto), «per non disperdere troppe energie» a Londra porta solo i 100 e i 400. Ovviamente, senza i costumi al poliuretano, banditi dalla Federazione internazionale: «Era doping tecnologico – afferma Sottile – perché l’atleta muscoloso, anche se più pesante degli altri, per effetto di quel costume galleggiava sull’acqua. Ora invece siamo tutti allo stesso punto di partenza e ognuno si A sinistra, fabrizio Sottile. In basso, francesca Porcellato in uno scatto di Paolo Genovesi, tratto dal libro Liberi di sognare, scritto da Marco Tarozzi (Minerva edizioni) gioca le sue carte in base alle sue caratteristiche». Che le caratteristiche di Fabrizio Sottile siano quelle di un atleta di primo piano lo sanno bene alla Polha Varese, la celebre società di sport per persone disabili della città lombarda: Fabrizio ha indossato la loro casacca fino a pochi mesi fa, quando una telefonata improvvisa lo ha informato che il suo nome era stato scelto dal Comando generale della Guardia di Finanza per entrare a far parte del loro glorioso sodalizio sportivo, le Fiamme Gialle. «Quando il presidente della federazione nuoto, Roberto Valori, me lo ha detto, mi è preso un colpo e mi sono messo a urlare: mi dava due giorni di tempo per pensarci, ma non c’era proprio nulla a cui pensare. Era un sì, subito». Un’occasione così non capita tutti i giorni e la risposta era davvero obbligata: da sempre le Fiamme Gialle sui campioni scelti investono energie, denaro, ambizioni, quanto di meglio un atleta possa sperare. Non a caso, pur con dispiacere, anche alla Polha hanno dovuto riconoscere che opportunità come queste capitano una sola volta e bisogna coglierle al balzo. «Non sono impaurito, ma responsabilizzato e orgoglioso per questa scelta», commenta oggi Fabrizio. Pronto, con i suoi 19 anni, a volare fino a Londra per la sua prima Paralimpiade. 25 In principio erano solo le Fiamme Azzurre, il sodalizio sportivo della Polizia Penitenziaria: il primo, fra i grandi gruppi sportivi collegati ai Corpi delle Forze dell’ordine, a garantire l’ingresso degli atleti paralimpici. Negli ultimi mesi, l’avvicinamento alle Paralimpiadi di Londra ha portato grandi novità: prima le Fiamme Gialle, il gruppo sportivo della Guardia di Finanza, e poi le Fiamme Oro, il sodalizio della Polizia di Stato, hanno spalancato le porte agli atleti con disabilità. La crescita del movimento paralimpico si nota anche da questi passi: certo, gli atleti scelti rappresentano l’eccellenza, si contano sulle dite di due mani o poco più, ma la loro esperienza è un segno evidente dell’importanza che lo sport per disabili sta lentamente acquisendo nel nostro Paese. Già nel 2007 la Polizia Penitenziaria, d’intesa con il Comitato paralimpico, accolse fra le sue fila Gian Maria Dal Maistro e Tommaso Balasso, assi dello sci alpino, Fabio Triboli, campione di ciclismo, e Stefano Lippi, stella di diamante dell’atletica leggera nostrana. Due anni dopo, l’apertura a Marco Vitale (arco), Paolo Viganò (ciclismo) e Walter Endrizzi (atletica leggera), poi ancora i fratelli Pizzi (Luca e Ivano, campioni nelle due ruote sul tandem). In questi cinque anni, pioggia di medaglie fra campionati italiani, europei, mondiali e Paralimpiadi. Quelle che sperano di ottenere anche i colleghi entrati a far parte (tra febbraio e marzo 2012) degli altri due circuiti, siglando due diversi protocolli d’intesa con il Comitato italiano paralimpico. Ad allenarsi e gareggiare con i colori della Guardia di Finanza nelle Fiamme Gialle sono stati chiamati Francesca Porcellato – un passato nell’atletica (11 medaglie paralimpiche) e un presente nello sci nordico – e due giovani promesse: con il nuotatore Sottile, la velocista 22enne Martina Caironi, una protesi alla gamba sinistra, in gara sia nei 100 metri che nel salto in lungo. Infine, sono entrati nelle Fiamme Oro della Polizia di Stato Alessio Sarri e Andrea Macrì, certezze della scherma in carrozzina, ed Enzo Masiello, veterano dello sci nordico. [S.C.] TEMPO LIBERO A vele spiegate Navigare per socializzare Chi lo ha detto che le vacanze al mare fanno rima col restarsene sotto l’ombrellone? Sono sempre più le organizzazioni che propongono viaggi e gite in barca. Un piacere per chi ama la vita all’aria aperta e un modo per riscoprire il rapporto con la natura Giovanni Augello È il ritmo, il segreto fondamentale della barca a vela. Non conta solo conoscere a memoria il variegato vocabolario nautico. La randa, la scotta, il winch, la boma e tante altre esotiche parole. Non basta saper riconoscere i venti. Quel che insegna la vela è il rispetto dei tempi e del ritmo della vita, nel suo senso più ampio. Ne è convinto Bruno Brunone, presidente dell’associazione “Vela Insieme”, una “scuola di mare” accessibile a tutti con base nautica in provincia di Grosseto, a Marina di Scarlino. Che da anni affronta l’integrazione tra disabili e normodotati sui pochi metri quadri di un’imbarcazione, scivolando sulle onde del mare. «Nella vita ci sono dei ritmi. Quello del motore si avvicina di più al tran tran del quotidiano. La dimensione della vela è un cosmo diverso: i tempi sono dettati dalla natura. Si naviga in silenzio, senza consumare un grammo di gasolio e condividendo uno spazio limitato con le persone a bordo. Quei pochi metri sono una cartina di tornasole: difetti e pregi vengono messi in chiaro in poche ore». Dalla formazione degli skipper alla velaterapia, sono diverse le attività svolte dall’associazione in questi anni, ma è il superamento delle barriere fisiche e mentali la vera vocazione di “Vela Insieme”. «La barca è un microcosmo – racconta Brunone –. Stare a bordo ha una forte valenza educativa per tutti i giovani». A tenere il timone dell’associazione, ci sono anche circa 25 skipper volontari, che mettono a disposizione la propria professionalità per realizzare i programmi. Grazie a loro è possibile organizzare le uscite in mare, che ogni anno coinvolgono circa 300 ragazzi. Nonostante il clima mite del litorale toscano, è l’estate l’alta stagio- progetto di velaterapia. Un modo per ne per corsi e attività. La navigazione si svolge a bordo di tre imbarcazioni a vela dai 12 ai 14 metri: un Oceanis 390 e due Bavaria 44, in grado di ospitare equipaggi composti da otto persone per crociere estive di una settimana nei parchi marini protetti di Elba, Capraia e Pianosa, Giglio e Giannutri, grazie anche al contributo della Regione Toscana. Attività che dallo scorso anno vengono seguite anche a livello scientifico, con il 26 valutare non solo “a pelle” gli effetti positivi riscontrati in questi anni. I primi risultati confermano la bontà delle esperienze. «Abbiamo coinvolto ragazzi con diversa disabilità, sia psichica che motoria, monitorandone alcuni valori emozionali e della pressione sanguigna. Se nell’ippoterapia il primo impatto col cavallo porta a parametri pressori differenti ed emotività marcata, con la vela abbiamo avuto ottimi ri- sultati». Lo scorso anno il progetto di velaterapia è stato finanziato dalla Regione Toscana, in collaborazione con la Asl 9 di Grosseto e con il contributo dei Rotary Club della Provincia. L’esperienza ha coinvolto 120 ragazzi, di cui 40 con disabilità cognitiva, 20 accompagnatori e 60 giovani delle medie superiori del territorio. Ne è scaturito uno studio seguito da Paolo Balestri, direttore della clinica pediatrica dell’Università di Siena, e Giulia Balboni, del dipartimento di psichiatria dell’Università di Pisa. «Abbiamo potuto documentare come aumentano le competenze rispetto alla vita di tutti i giorni e le autonomie personali per quanto riguarda le persone disabili – spiega Francesco Toninelli, responsabile scientifico del progetto –. Inoltre cambiano gli atteggiamenti tra disabili e normodotati: migliorano la comunicazione e l’integrazione, si riducono gli stereotipi». 27 L’esperienza verrà ripetuta anche quest’anno, sempre con il sostegno della Regione. Dal mese di giugno fino a settembre, “Vela Insieme” metterà a disposizione per 40 ragazzi e ragazze con difficoltà cognitive e per altrettanti giovani normodotati di età compresa tra i 14 e i 30 anni due imbarcazioni, per effettuare viaggi itineranti di cinque giorni nelle isole dell’arcipelago toscano. Ma l’esperienza di “Vela Insieme” non è l’unica in Italia e, soprattutto, TEMPO LIBERO A vele spiegate Barca sì, ma accessibile non è un’esperienza isolata. Esiste, infatti, una rete di associazioni, l’Unione vela solidale, che finora raccoglie le adesioni di 27 realtà in dieci regioni italiane dal Nord al Sud. «Uno dei nostri principali obiettivi, oltre al confronto, è fare rete – spiega Enzo Pastore, presidente dell’Unione vela solidale –. Da quest’anno stiamo lavorando a una progettualità comune per presentare iniziative a livello nazionale». Una rete voluta anche per sensibilizzare governi e amministrazioni sull’accessibilità dei porti. «Da tre anni abbiamo avviato una campagna per ottenere agevolazioni – dice Pastore –. Abbiamo realizzato un manifesto della nautica solidale e stiamo raccogliendo consenso da parte dei politici per un’interpellanza parlamentare sull’abbattimento dell’Iva relativa alle attività delle nostre associazioni». A pesare sui bilanci, anche lo stazionamento delle imbarcazioni nei porti. «Con l’autorità portuale del nord della Sardegna abbiamo fatto un accordo per cui vengono assegnati un certo numero di posti barca al sociale. Iniziativa che abbiamo portato anche a Civitavecchia, dove l’autorità portuale ha concesso dei posti, e stiamo trattando anche con Bari e Ravenna». Con diverse città si lavora contemporaneamente alla predisposizione di porti accessibili. «Ci stiamo battendo affinché vengano installati impianti di sollevamento pubblici per far salire a bordo i disabili. A Civitavecchia è stato fatto. Ora speriamo anche altrove». Ma la formazione resta uno dei nodi critici da affrontare. «Uno dei problemi più importanti è avere personale qualificato – aggiunge Pastore –. Essere volontari è molto, ma non basta. Occorre anche una certa professionalità. Abbiamo cercato negli anni di redigere una sorta di manuale dello skipper sensibile, con ottimi risultati». Ne è convinto anche Brunone: «Il problema non è avere più barche. Come tutte le imprese, il successo è solo degli uomini, non dei mezzi. Per questo cerchiamo volontari che possano donare tempo e esperienza: il fattore umano è fondamentale». Nonostante le difficoltà, a Brunone non manca certo il vento. A fine maggio, infatti, “Vela Insieme” ha presentato a Milano un nuovo ambizioso progetto: “Tutti a bordo” coinvolgerà 50 ragazzi normodotati e disabili provenienti da tutta Italia, per dar vita a cinque crociere in altrettanti anni nelle riserve marine più ambite d’Italia, dalla Toscana a Napoli, dalla Sicilia alle isole Tremiti, con gli sponsor che decideranno di supportare l’iniziativa. Tra le idee per finanziare il progetto, concerti di beneficenza e anche un format televisivo che veda artisti sensibili partecipare attivamente, mettendo concretamente mano al timone e ai nodi scorsoi. 28 È il destino della vela quello di essere governata da pionieri. Come dimostrano alcune esperienze di vela accessibile: non barche riadattate, ma nate così fin dallo stampo iniziale. Si tratta, però, di casi isolati, spiega Enzo Pastore, presidente dell’Unione vela solidale: «Eppure si tratta di un possibile mercato. Stiamo cercando di far capire ai cantieri che si possono rendere le barche accessibili con piccole modifiche nei progetti». A oggi, però, ci sono soltanto prototipi. Barche che spesso «rischiano di finire ormeggiate e abbandonate». Ad averci creduto, invece, è Luigi Zambon, proprietario del cantiere navale “Sabaudia Etica”, sul litorale laziale. Nel 2001, grazie al contributo della Regione Lazio, ha creato una barca a vela d’altura di 12 metri, totalmente accessibile: la Sabaudia Prima. Per Zambon, perché una barca sia accessibile, bisogna farla ex novo. «Riadattata costa molto di più – spiega –: bisogna fare modifiche strutturali alla barca». I costi complessivi sono un po’ più elevati in tutti i casi: «Non esiste uno stampo già pronto e non tutti hanno le stesse necessità. Sono barche fatte a mano; il grosso della spesa non è tanto lo scafo o la coperta: per le barche d’altura sono gli arredamenti interni, il materiale adoperato e la manodopera». Alla barca si aggiunge un’altalena che scende in acqua, permettendo alla persona su sedia a ruote di fare il bagno e tornare a bordo. Ma la vela non convince ancora gli acquirenti, al contrario delle barche a motore, per le quali il cantiere ha ricevuto circa 260 richieste. «Quando si è piccoli imprenditori, fare barche non è un buon business. Ci vorrebbero spalle più grosse delle mie per investire in questo progetto. Ma per quello che costa un posto barca, bisogna anche permetterselo – commenta Zambon –. Ora stiamo cercando uno sponsor per fare uno stampo nuovo per quella a motore». Per informazioni, Velaetica.it. [G.A.] In queste pagine: in barca con “Vela Insieme”. Nella pagina precedente, un momento del Giro d’Italia promosso fino al 2006 dall’associazione “Matti per la vela” Gomene e funi, passione preziosa P er quanto bella, la vela resta un’esperienza costosa. Il mantenimento delle imbarcazioni, il posto barca e tutto quel che gravita intorno alla nautica ha prezzi non proprio accessibili, anche se si parla di vela solidale. E le difficoltà possono portare progetti riusciti a gettare la spugna. È il caso di “Matti per la vela”, un’esperienza nata a Genova col sostegno dello Yacht Club italiano per realizzare iniziative rivolte al disagio giovanile e alla disabilità. Come il Giro d’Italia, svoltosi fino al 2006, che ha visto alternarsi a bordo un’ottantina di pazienti psichiatrici tra i 24 e i 45 anni. «Non è stato semplice, ma ci siamo riusciti – spiega Paolo Vianson, uno dei fondatori del progetto –. Utilizzavamo tutta la parte dell’anno per allenare i vari gruppi. Poi contattavamo i diparti- menti di salute mentale dei luoghi dove attraccavamo, per far conoscere e condividere il progetto. Abbiamo contattato associazioni che oggi fanno quel che facciamo noi, dando inizio a qualcosa di nazionale». In giro su di una barca a vela di 20 metri, messa a disposizione da un armatore milanese, “Matti per la vela” ha il merito di aver dato una spinta significativa a tante realtà impegnate oggi in questo campo. Il Giro d’Italia finiva con la Barcolana, storica regata di Trieste. «Poi ci siamo dovuti fermare per mancanza di fondi. Siamo in crisi anche noi». Attualmente l’associazione è impegnata in un progetto di supporto agli enti che hanno in carico minori in condizioni di disagio familiare e sociale, ma Vianson non nasconde il de- 29 siderio di far ripartire il Giro. «Sarebbe bello poterlo rifare, ma per far andare la barca servono fondi». A risentire degli effetti della crisi sono un po’ tutte le associazioni, spiega Enzo Pastore, presidente dell’Unione vela solidale. «Nelle realtà di volontariato, spesso le attrezzature sono dei soci, quindi il problema è poco sentito, mentre per gli altri si tratta di una grande difficoltà. Ci stiamo strutturando per presentare progetti a livello nazionale, con più probabilità di essere finanziati». Per fare il punto sulla situazione, le associazioni si sono incontrate a Portoferraio, sull’isola d’Elba, a fine maggio, per la manifestazione “Mare Libera”. «Un’iniziativa – sottolinea Pastore – quest’anno totalmente senza sponsor, tutta nostre a spese». [G.A.] EVENTI Non solo Lis: i festival del cinema sordo in salsa internazionale La regista Elisabetta Sgarbi con Pino Roveredo e Antonio Stagnoli, durante le riprese del film-documentario Sono rimasto senza parole C inedeaf, il primo Festival del cinema sordo, è stato un evento inedito e insolito per la capitale, agli inizi di maggio. Organizzato dall’Istituto statale per sordi di Roma, è stato realizzato grazie al contributo della Provincia e con il patrocinio del ministero per i Beni culturali, dell’Ente nazionale sordi, del Segretariato sociale Rai e dell’Assessorato alla cultura regionale. Ma ormai da tempo, in tutto il mondo, vengono promosse rassegne del genere, con un obiettivo identico: «Aprire le porte al Deaf cinema e diffondere la cultura sorda e la lingua dei segni». Forse è azzardato definire il fenomeno come una costola dell’orgoglio Lis, però i fatti dimostrano che anche le pellicole e i concorsi cinematografici possono rappresentare un mezzo di inclusione, di sensibilizzazione e informazione. Tra i principali Festival del cinema sordo nel pianeta, il Deaffest, svoltosi dal 25 al 27 maggio presso la Light House a Wolverhampton, nel Regno Unito, che ha messo in evidenza registi e artisti sordi provenienti da tutto il globo. Invece a Melbourne, presso l’Arts Access Victoria, a settembre si svolgerà The other film festival, con un’intera sezione dedicata alla sordità; tra gli ospiti, registi australiani e inter- 30 nazionali. A novembre, nei Paesi baschi, l’associazione delle persone sorde di Tolosa-Goierri promuoverà per una settimana al Leidor Cinema di Tolosa il Gainditzen Festival, terza edizione internazionale di film in lingua dei segni; da quest’anno ai cortometraggi in Lis si affiancheranno i lungometraggi, compresi i documentari. Altra novità? Il contest Silent art, insieme ad altre due sezioni in gara: Feature film contest e Short film contest. Insomma, il fenomeno sta crescendo ed è sicuramente da monitorare per valutarne la caratura artistica, oltre che il valore sociale. Nella metropoli romana un assaggio lo ha dato la pellicola di Elisabetta Sgarbi, Sono rimasto senza parole, prodotta da Studio d’arte Zanetti e Betty Wrong (pseudonimo della regista, che ha esordito nel 1999 in questo ruolo ed è anche direttore editoriale della casa editrice Bompiani). Il protagonista assoluto è il pittore sordomuto Antonio Stagnoli – classe 1922, vissuto in collegio fino a 37 anni – che disegna animali dal volto umano e si racconta allo scrittore triestino Pino Roveredo, premio Campiello per Mandami a dire, figlio di sordomuti. Una narrazione che si snoda in gesti, parole e anche suoni per gli spettatori udenti: alle musiche originali di Matteo Ramon Arevalos si affiancano brani di Verdi, Bach, fino a Franco Battiato. Set principale del film-documentario, sottotitolato per i non udenti, lo studio di Stagnoli a Bagolino, nel Bresciano, dove entrambi snocciolano ricordi e la grande passione – condivisa – per l’arte, pittorica o letteraria che sia. [Laura Badaracchi] CULTURA IL CASO Un viaggio iniziatico che scala le classifiche Fulvio Ervas Se ti abbraccio non aver paura Marcos y Marcos 2012 pagine 320, euro 17,00 È stato per settimane ai primi posti della classifica dei libri più venduti. E potrebbe essere anche trasformato in un film il volume Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas, edito da Marcos y Marcos, che racconta il viaggio panamericano compiuto in moto, nell’estate del 2010, dall’imprenditore veneto Franco Antonello insieme al figlio (allora) diciottenne Andrea, autistico. Secondo indiscrezioni dell’autore, il libro potrebbe essere tradotto in cinque lingue straniere. Qual è il segreto di questo successo? Gli ingredienti dosati fra le pagine lo accennano: il rapporto intenso tra padre e figlio nel passaggio all’età adulta, la metafora del viaggio come parabola esistenziale, il fascino americano dell’on the road, l’impatto della storia vera (seppur romanzata), il registro di una narrazione autentica che oscilla sapientemente tra l’ironico e il drammatico. Un esempio? «C’è chi dice che vivere con un figlio autistico significa sottostare a una specie di tirannia. Mi viene da ridere al pensiero di cosa accadrebbe al mondo se cadesse sotto il controllo di Andrea. Per prima cosa le settimane avrebbero un colore». Prima della partenza, l’itinerario viene sconsigliato dai medici a Franco, convinti che potrebbe destabilizzare Andrea; ma l’esperienza si rivela vincente, forse unica nel suo genere. Intuito dettato dall’amore paterno, a tratti graffiante e struggente al tempo stesso? Dal racconto emerge che il viaggio ha fatto bene alla relazione fra i due: lo evidenziano anche le frasi (trascritte integralmente) digitate al pc da Andrea, che riesce a esprimere le sue emozioni in frasi sintetiche, lapidarie quasi e che arrivano dritte al punto. Denotando una sensibilità fuori dal comune, tutta da sondare con canoni differenti da quelli consueti: «Andrea è un viaggio nella vita. Ci ha iscritti alle olimpiadi di salto in lungo dal problema alla soluzione. Non abbiamo vinto molte medaglie, ma perlomeno non ci siamo fatti corrodere dalla tristezza, dalla rassegnazione, schiacciare dal peso delle difficoltà. Muoversi, anche quando può sembrare un’illusione». Ma la chiave della popolarità e diffu- 31 sione di questo romanzo tutt’altro che “leggero” sta forse nel suo approccio mediatico al lettore: trailer del viaggio su YouTube, profilo facebook di Andrea, sito Andreaantonello.it in cui si trovano immagini dell’avventura americana e della sua vita. Poi il coinvolgimento degli allievi della “Piccola scuola di arti narrative Marcos y Marcos”, edizione 2012, che hanno contribuito all’editing, e gli studenti del liceo classico romano “Giulio Cesare”. A marzo, infatti, l’editore ha lanciato Book generator, progetto-laboratorio che ha coinvolto i ragazzi fuori dall’orario scolastico per svelare come nasce un libro. Ultimo, ma non ultimo: Franco Antonello impiegherà la quota a lui spettante delle vendite per contribuire alla costruzione di una casa per Jorge, ragazzo autistico che vive in una baracca nella foresta del Costarica. [L.B.] CULTURA manzo popolare: il malinteso, il colpo di scena, la bontà, la perfidia, il pericolo e naturalmente l’amore. È soprattutto il racconto di una crescita e di un’emancipazione – quella dal suo stesso modo di vedersi e considerare i propri limiti –, lette con la maturità di chi è riuscito a elaborare il dolore e la frustrazione, ma anche i piccoli e grandi successi personali. Il volume è disponibile anche nelle versioni e-book e audiolibro. LIBRI A colpi d’ala verso l’inclusione D al borgo di provincia in cui devi essere «crocifisso nel tuo ruolo», fino alla presa di coscienza delle proprie capacità, questa autobiografia romanzata racconta la storia di un’emancipazione dai luoghi e dal modo di Ecco il primo Manuale di Lingua vedersi e considerarsi. Infatti soitaliana per sordi stranieri. no due i modi in cui, di solito, si Curato da Simona Bonanno, parla di disabilità: nel primo si Francesca Delliri, Enrico Dolza descrive «il disabile come vittima ed Enrica Maglione, ha esordito di un mondo ostile, ingabbiato da al 25° Salone internazionale del Libro di Torino per barriere architettoniche e vessato Cartman Edizioni. da barriere culturali e pregiudizi». «Sordi e stranieri: Nel secondo, si «tenta di nascondue condizioni dere la diversità affermando che è che incidono la normalità a non esistere». Sensulla competenza linguistica e che, za capire che «negare la diversisecondo la nostra tà è un po’ come emarginarla due esperienza, hanno volte». molti punti di Scritto dallo psicoterapeuta contatto per quanto riguarda Enrico Amurri, Il gabbiano dalle la didattica dell’insegnamento dell’italiano come L2», rilevano ali ferite cerca invece di «parlare gli autori, che hanno cercato di di disabilità dal punto di vista di «aiutare lo studente a immergersi chi la vive in prima persona». Nanella lingua italiana e nei suoi to nel 1954 a Moregnano, minucontesti d’uso». Il volume costa scola frazione di un paesino delle 25 euro ed è disponibile anche presso l’Istituto dei Sordi di Torino Marche (Petritoli), l’autore – affet(Istitutosorditorino.org). [L.B.] to da una forma lieve di tetraparesi spastica – scrive: «Mi facevo talmente schifo da non sputarmi in faccia solo per non sporcare lo specchio su cui ero riflesso». E sullo sguardo degli altri, avvertito su di sé, Amurri commenta: «Il pietismo spesso maschera un inconfessabile rifiuto del diverso e lascia emergere la vera essenza crudele che certe persone, legate a schemi arcaici, mostrano nei confronti di un handicappato». Oltre al registro autobiografico, il libro propone volutamente alcuni elementi classici del ro- 32 [Stefano Trasatti] LIBRI Enrico Amurri Il gabbiano dalle ali ferite Albatros-Il filo 2012 pagine 108, euro 13,50 Arno Geiger Il vecchio re nel suo esilio Bompiani 2012 pagine 165, euro 16,00 Padri e figli: l’intimità ritrovata L a narrazione della vecchiaia e delle sue degenerazioni sta diventando quasi un genere letterario. Una memorialistica che coinvolge (nella realtà o nella finzione) figli, consorti e in qualche caso diretti interessati che “approfittano” della malattia per guardare – a seconda dei casi – la propria vita o quella dei propri cari con occhi nuovi e diversi. Su questa scia si inserisce l’ultimo romanzo di Arno Geiger, Il vecchio re nel suo esilio, uscito per Bompiani. Con commozione e ironia lo scrittore austriaco racconta la malattia del padre, a partire dall’inizio. Dai quei primi segnali di cambiamento, che i figli non riescono a decodificare e scambiano per perdita di interesse verso il mondo circostante. «Oggi in cuor mio mi arrabbio per l’accanito perdurare di quell’equivoco, perché sgridavamo la persona e ignoravamo la RAGAZZI Senza paura di essere diversa Q uando arriva un nuovo bimbo, è sempre festa in una casa. Non così quando nasce un bambino disabile che, con la sua “diversità”, va a minare anche i più saldi equilibri all’interno di illustrazione di Svjetlan Junakovic malattia – scrive Geiger –. “Non lasciarti andare così!”, dicevamo centinaia di volte, e nostro padre lo sopportava con pazienza e secondo il principio che la cosa più facile sia rassegnarsi per tempo». Perdonare ai propri genitori quelle debolezze che a poco a poco diventano evidenti risulta, infatti, una delle prove più difficili per un figlio. Eppure, dalle pagine del libro emerge anche il sollievo di un’affinità ritrovata proprio grazie al dirompere della malattia. Diluita ormai ogni conflittualità nelle pieghe di un passato ormai dimenticato, padre e figlio riescono a ritrovarsi con una naturalezza e una spontaneità impensabili ai tempi del giudizio. Un giorno, camminando lungo le strade della città natale Wolfurt, il padre che vive ancora lì si rivolge al figlio: «“Sei venuto spesso a passeggiare qui? – mi chiese –. Molti vengono qui solo per godersi il panorama”. Mi parve strano e dissi: “Io non vengo qui per il panorama: io sono cresciuto qui”. Questo sembrò sorprenderlo, fece una smorfia e disse: “Ah, ecco”. Allora gli chiesi: “Papà, ma tu sai chi sono?”. La domanda lo mise in imbarazzo, si voltò verso Katharina e disse scherzoso, agitando la mano verso di me: “Come se fosse così interessante”». [A.P.] una famiglia. Di questo argomento così delicato parla Mia sorella è un quadrifoglio, un albo pubblicato dalla casa editrice Carthusia e presentato alla Fiera del Libro di Torino, consigliato ai lettori dai cinque anni in poi. Scritto da Beatrice Masini e illustrato da Svjetlan Junakovic, il volume fa parte della collana “Ho bisogno di una storia”. E non di una storia qualsiasi, verrebbe da dire, vista la vicenda della piccola Mimosa che, con il suo cuore grande e la sua ingenuità disarmante, conquista a poco a poco tutta la famiglia. La voce narrante è quella della sorella maggiore Viola. Bambina anche lei, racconta con incantevole lucidità l’arrivo a casa di quella neonata «bruttissima, ma anche carina», come tutti i bebè. Col tempo Mimosa si trasforma 33 Beatrice Masini Mia sorella è un quadrifoglio (illustrazioni di Svjetlan Junakovic) Carthusia 2012 pagine 32, euro 15,90 in una bambina con le guanciotte da criceto e gli occhi che le spariscono nelle pieghe delle guance quando ride. Un essere che sembra piovuto da un altro pianeta: da un luogo strano «dove tutti fanno le cose piano, sorridono e si abbracciano, proprio come fa lei». Mimosa è affetta da sindrome di Down, ma non viene mai detto espressamente. La storia lo lascia appena intuire, per via di quella straordinaria grazia che la rende irresistibile agli occhi della sorella Viola e di tutti quelli che vengono in contatto con lei. Rara come un quadrifoglio, Mimosa riesce infine a farsi apprezzare proprio per la sua diversità. Il libro è stato scritto con la collaborazione della Fondazione Paideia e del Cepim (Centro persone down) di Torino. [A.P.] CULTURA CINEMA Così vicino da non far paura Nemo in 3D. Il coraggioso pesciolino con la pinnetta atrofica arriva nelle sale italiane, dal prossimo 26 ottobre, arricchito dal Disney Digital 3D; l’iperprotettivo papà Marlin viene doppiato da Luca Zingaretti. A giugno, intanto, torna sul grande schermo un altro classico Disney: La bella e la bestia 3D. Vincitore dell’Academy Award come miglior lungometraggio di animazione e di un Golden Globe come miglior film commedia o musicale, Alla ricerca di Nemo è stato inserito nel 2008 dall’American Film Institute nella classifica dei 10 migliori film mai realizzati. [L.B.] A ssociazioni e blog che si occupano di una forma particolare di autismo, la sindrome di Asperger, giudicano positivamente il film Molto forte, incredibilmente vicino, nelle sale italiane dal 23 maggio, tratto dall’omonimo romanzo di Jonathan Safran Foer; pubblicato in Italia da Guanda nel 2005, è un caso letterario a livello mondiale. Protagonista, un bambino aspie di nove anni, Oskar (interpretato magistralmente da Thomas Horn), che ha appena perso suo padre (Tom Hanks) nel crollo delle Torri Gemelle. Da quel giorno, passa il tempo fra letture e invenzioni, frutto della sua genialità. Con una straordinaria memoria visiva (che lo accomuna a Rain man) e il linguaggio enciclopedico a fargli compagnia, insieme alle paure, alla difficoltà nelle relazioni e a elaborare le emozioni: sintomi della sindrome autistica, solo velata e supposta nel libro. 34 Glissando su retorica americana, tono talvolta enfatico e melodrammatico, la lunga pellicola (129 minuti) riprende quota raccontando il ritrovamento, da parte del bambino, di una chiave misteriosa di suo padre che potrebbe aprire qualcosa di speciale: metafora, insieme al viaggio compiuto dal ragazzino nella pancia di New York e fra i mille volti delle diversità emarginate, di una svolta positiva nella sua vita. Il “Virgilio” che lo accompagna in questa discesa agli inferi e nella successiva (reciproca) redenzione? Un anziano, diventato muto dopo aver visto morire i suoi affetti. Candidato a due premi Oscar (tra cui miglior film), diretto da Stephen Daldry (The Reader - A voce alta, Billy Elliot, The Hours), il lungometraggio vanta la sceneggiatura di Eric Roth, artefice anche di quella del celebre Forrest Gump, che pure in questa pellicola riesce a far passare un messaggio: vista come caricatura da qualcuno, la disabilità diventa invece sinonimo di unicità, di una potenzialità particolare. [L.B.] fESTIvAL A Cannes vince la parabola della sofferenza A nnunciato tra i favoriti, Amour di Michael Haneke si è aggiudicato la Palma d’Oro al 65° Festival di Cannes, il 27 maggio scorso, conquistando la critica internazionale. E da fine ottobre il film sarà nelle sale italiane, distribuito da Teodora. Una pellicola, quella del regista austriaco (autore anche della sceneggiatura, già vincitore del Festival nel 2009 con Il nastro bianco) che mette sul tappeto temi cruciali e complessi, come la vecchiaia, la malattia, la disabilità e il finevita. Con un coraggio anticonformista, sfidando gli stereotipi dell’eterna giovinezza e della bellezza scevra dai segni del tempo, Haneke sceglie come protagonisti due sposi ottantenni, professori di musica in pensione: Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), interpreti applauditissimi sulla Croisette. La routine dell’anziana coppia viene bruscamente interrotta da un ictus che colpisce Anne, con una parziale paralisi. Intanto la figlia Eva (Isabelle Huppert), anche lei musicista, vive all’estero con la sua famiglia. L’evento mette a dura prova l’amore che unisce i coniugi, quando si ritrovano di fronte a una condizione di limite, alla parabola della sofferenza. Rimasto a bocca asciutta, Jacques Audiard, ritenuto uno dei più grandi registi francesi attuali. Il suo De rouille et d’os affronta la disabilità da un’altra angolatura, centrando però sempre il rapporto affettivo e la corporeità. Tratto da un racconto breve che dà il titolo al volume omonimo del canadese Craig Davidson (Ruggine e ossa, tradotto e pubblicato nel 2008 da Einaudi), il film è stato etichettato come melo. L’attrice Marion Cotillard (premio Oscar per La vie en rose) veste i panni di Stephanie, addestratrice di orche che ha perso le gambe in un incidente, durante uno spettacolo nell’acquario di Antibes; si lega ad Ali, che vive tirando di boxe in incontri clandestini organizzati per strada. Tra suspence e love-story, il film uscirà in Italia a settembre. [L.B.] A sinistra, una scena del film Amour. Sopra, i protagonisti di De rouille et d’os 35 RUBRICHE Inail... per saperne di più Rosanna Giovèdi Alle Paralimpiadi con Mario: l’impegno dell’Inail nello sport Dalla storia di Mario, 33 anni, disabile per un infortunio sul lavoro, alla scoperta del ruolo dell’Inail nella pratica sportiva. Un percorso che porta fino a Londra, dove, ad agosto, avranno inizio le Paralimpiadi I disegni di questa sezione del Magazine sono di Saul Steinberg «M i chiamo Mario e ho 33 anni. Quattro anni fa, a causa di un incidente sul lavoro, ho subito l’amputazione della gamba sinistra sotto il ginocchio; l’unica attività possibile per me sembrava rimanere a casa a guardare la televisione. È stato così che ho scoperto le Paralimpiadi, guardandole mi sono entusiasmato e mi sono detto: perché non provarci?». Inizia così la lettera inviata a noi, esperti Inail, che ogni giorno cerchiamo di venire incontro alle esigenze di riabilitazione, reinserimento sociale e lavorativo bale e integrata» che tiene conto delle delle persone infortunate sul lavoro. lesioni funzionali dell’infortunato o «Come devo muovermi per parteci- tecnopatico e delle sue esigenze ai fini pare a questo grande evento mondia- del superamento degli ostacoli e delle, trasformando la mia “sfortuna” in le barriere che ne limitano l’azione e un’opportunità? – scrive Mario –. Io la partecipazione all’ambiente di vita. ho sempre sciato e mi piacerebbe con- Tale metodologia interviene non solo tinuare a farlo, perciò vi sarei grato se con azioni di adattamento della perpoteste fornirmi le informazioni che sona all’ambiente, mediante l’erogazione dei dispositivi tecnici, ma anche mi occorrono». con interventi diretti a rimuovere gli Informazione, orientamento, ostacoli nel contesto familiare e sociosupporto tecnico: anche questo è ambientale che impediscono l’autonoInail. Dopo tanti anni di servizio a Superabile, finalmente una lettera piena di entusiasmo e speranza: il reinserimento dell’Inail verso i propri assistiti passa anche attraverso lo sport. Per coloro che vogliono praticare attività sportiva a livello agonistico e non, il Centro protesi di Vigorso di Budrio offre un servizio di informazione e orientamento. Il punto informativo è affidato a un tecnico Cip (Comitato italiano paralimpico), laureato in scienze motorie e specializzato in sport per persone disabili. La metodologia di intervento, basata su una visione complessiva della persona, è la «tutela glo- 36 mia della persona nello svolgimento delle attività di vita quotidiana e nelle relazioni. Tornando a Mario, gli infortunati da lavoro che intendono inserirsi o continuare attività sportiva possono presentare formale richiesta scritta presso la propria sede Inail. Si consiglia pertanto di contattare l’assistente sociale per ricevere informazioni e indicazioni dettagliate sui documenti necessari per ottenere la concessione. Successivamente, la consulenza del Centro protesi Inail individua gli strumenti più appropriati in relazione a quanto stabilito nel progetto terapeutico-riabilitativo: vengono così forniti gli ausili/protesi ritenuti più idonei considerando esigenze e abilità dell’assistito, secondo quanto previsto dall’art. 36 (“Dispositivi e ausili per la pratica di attività sportive e motorie”) e dall’art. 45 (“Interventi per la promozione dell’attività sportiva”) del Regolamento per l’erogazione agli invalidi del lavoro di dispositivi tecnici e di interventi di sostegno per il reinserimento nella vita di relazione. Inoltre, per agevolare e promuovere l’attività sportiva degli assistiti Inail, è in corso una convenzione quadro con il Cip che, attraverso le strutture territoriali, effettua attività di orientamento in collaborazione con le équipe multidisciplinari e garantisce ai disabili assistiti dall’Inail che ne facciano richiesta, ove non siano già iscritti al Cip, il tesseramento comprensivo di benefici e vantaggi conseguenti. La convenzione offre anche accoglienza e idonei supporti tecnico-organizzativi ai tesserati Inail, attraverso i propri organi territoriali e le associazioni sportive affiliate. Curando la formazione dei disabili da lavoro: sono previsti corsi ad hoc per chi ha particolare propensione allo sport. RUBRICHE Lavoro Alessandra Torreggiani Disabilità psichica e occupazione: un percorso a ostacoli La legge 68 ha fornito ai datori di lavoro strumenti più flessibili per l’assunzione delle persone disabili. Ma non garantisce gli stessi diritti a chi soffre un disagio psichico. Che trova lavoro solo all’interno di un terzo settore sempre più povero di risorse T ra le varie categorie svantaggiate nel mondo del lavoro, ce n’è una ancora più penalizzata, colpita da una doppia discriminazione: quella dei disabili psichici, che devono dimostrare più degli altri di essere produttivi e utili alle aziende, ma difficilmente riescono a trovare un posto di lavoro. Alcuni restano nel limbo della formazione, portando avanti tirocini anche per dieci anni consecutivi. Infatti la legge 68/99 parte dal pre- zione con tempi e modalità adeguati supposto che tutte le persone disabi- alle esigenze dell’impresa; l’assunzioli possano lavorare e che non debba ne con contratti di lavoro flessibili esserci un’aprioristica esclusione dal (apprendistato, inserimento, tempo mercato del lavoro, perché non sempre determinato, part-time, periodi di proa una particolare tipologia o grado di va più lunghi e altro ancora); le agedisabilità corrisponde una diminuzio- volazioni per il calcolo della quota di ne delle capacità lavorative. La scuola, riserva finalizzate a diminuire la perla formazione e i servizi socio-sanitari, centuale di assunzioni obbligatorie; insieme all’azione delle famiglie, han- l’esteso utilizzo di esoneri, esclusioni, no promosso instancabilmente ini- esenzioni. Nonostante questo, quasi ziative propedeutiche all’inserimento la metà dei datori di lavoro pubblici e lavorativo: un paziente impegno che privati risultano inadempienti agli obha determinato l’affacciarsi, nel mer- blighi normativi. Non bastano le norcato del lavoro, delle nuove categorie me e la flessibilità. della disabilità psichica. La legge 68 ha acquisito la metodoCosa manca, allora? Negli ultimi logia del «collocamento mirato» per anni molti strumenti innovativi della inserire la persona disabile nel posto legge sono stati depotenziati, le risordi lavoro più adatto. Tale approccio, se per i servizi e per gli incentivi alle volto a perseguire l’incontro tra com- imprese sono fortemente diminuite, i petenze della persona disabile ed esi- controlli non sono stati eseguiti. Forse genze delle imprese, si sostituiva così a alcuni aspetti della normativa devono una modalità rigida e burocratica ca- essere rivisti, ristabilendo la priorità ratteristica della vecchia legge 482/68. del diritto. Tuttavia la legge 68 si propone di aiutare le persone che presenI datori di lavoro possono di- tano maggiori difficoltà di accesso sporre di strumenti ancora più flessi- al mercato del lavoro attraverso una bili, quali l’ampia possibilità di ricorso molteplicità di strumenti e percoralla chiamata nominativa; l’opportu- si di sostegno. Eppure questo princinità di definire i programmi di assun- pio è disatteso dall’art. 9 (comma 4) 37 dove, per i disabili psichici, è prevista un’unica ed esclusiva via di accesso al mercato del lavoro: la chiamata nominativa e la stipula di una convenzione. Ciò preclude di fatto altre possibili modalità di avvio al lavoro, come la chiamata numerica o con avviso pubblico. Questo aspetto, finora trascurato, suscita dubbi di incostituzionalità e rischia di rappresentare un ritorno indietro anche rispetto alla sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 2/2/1990, che sancisce il diritto al collocamento obbligatorio anche per «gli affetti da minorazione psichica, i quali abbiano una capacità lavorativa che ne consente il proficuo impiego in mansioni compatibili». Oggi soltanto le cooperative sociali integrate rappresentano una sede privilegiata per la sperimentazione di percorsi destinati a persone con particolari difficoltà di adattamento al lavoro. Le azioni mirate a promuovere e incrementare l’occupazione dovrebbero prevedere un consolidamento di queste opportunità con misure di sostegno al terzo settore colpito dalla crisi, superando quindi il dualismo tra mercato del lavoro “normale” e “protetto”. RUBRICHE Senza barriere Daniela Orlandi Ascensore o servo scala? Dipende dalle circostanze Quali sono i requisiti progettuali e le caratteristiche tecniche di piattaforme elevatrici e servo scala? Qualche delucidazione su normative e regolamenti per l’acquisto e l’installazione: dal 1989 a oggi, tutto quello che c’è da sapere L a piattaforma elevatrice e il servoscala vengono introdotti a livello normativo in Italia con il regolamento di attuazione della legge 13/89, il decreto ministeriale 236/89: Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche. Tali apparecchiature permettono, in alternativa a un ascensore o a una rampa inclinata, il superamento di un dislivello; sono consentite in alternativa agli ascensori negli interventi di adeguamento o per superare differenze di quota contenute. Tra gli aspetti progettuali e gestionali legati a queste apparecchiature, occorre menzionare non solo le nuove disposizioni normative «per apparecchi da sollevamento», ma anche le verifiche da fare e la manutenzione da garantire. Il servo scala, nello specifico, è un apparecchio di sollevamento che scorre su guide ancorate a supporti verticali, fissati a loro volta ai gradini o al parapetto, lungo un lato della scala. Questo sistema è costituito da una piattaforma ribaltabile, sulla quale sale il disabile con la sedia a ruote, o da una poltroncina, su cui sale la sola persona. Se la scala non è sufficientemente ampia, non potrà ospitare ta- le meccanismo di salita e discesa. Lento e ingombrante, il servo scala ha un ulteriore limite: è consigliato solo se il numero di rampe è limitato. Nella scelta del modello, poi, è fondamentale considerare, oltre alle dimensioni minime della scala da percorrere, anche l’ingombro della sedia a ruote e le dimensioni della piattaforma, che devono essere sufficienti a consentirne l’imbarco. Nei luoghi aperti al pubblico, prima di installarlo, va attentamente considerato l’uso, perché è facile aspettarsi un’utenza caratterizzata da più persone su sedia a ruote. In ambito residenziale, invece, l’installazione di un servo scala non richiede nessun tipo di autorizzazione, neanche quella del condominio, purché siano fatti i passi formali necessari presso l’amministrazione condominiale, secondo le disposizioni della legge 13/89. 38 Diverso il caso delle piattaforme elevatrici. Il decreto ministeriale 236/89, all’art. 8.1.13, definisce un limite di corsa «di norma» pari a quattro metri. Il termine «di norma» andrebbe tuttavia inteso come generalmente, non come obbligatoriamente. Inoltre al punto 4.1.13 dello stesso decreto si legge: «Fino all’emanazione di una normativa specifica, le apparecchiature stesse devono essere rispondenti alle specifiche di cui al punto 8.1.13». La normativa specifica è la nuova direttiva relativa alle automobili, che ha svincolato questo apparecchio dal problema del limite di corsa. Nei casi di adeguamento e per superare differenze di quote, che possono arrivare anche sino a quattro piani, può comunque essere utile installare una piattaforma elevatrice in alternativa agli altri sistemi usati per superare i dislivelli. Nel decidere tra una piattaforma elevatrice e un ascensore, infine, bisogna valutare attentamente alcuni parametri. In primo luogo la piattaforma non ha necessità di grandi opere murarie e ha caratteristiche di estrema flessibilità in termini di materiali, finiture estetiche, facilità di installazione. Le criticità, invece, possono essere legate al tempo di percorrenza: per superare il dislivello di un piano medio tale meccanismo impiega dai 20 ai 30 secondi. Ci sono poi i costi: superato un certo limite può divenire più conveniente installare un ascensore. Vi sono, infine, le spese di manutenzione e le verifiche richieste, che hanno cadenze prestabilite per legge. L’ESPERTO RISPONDE a cura del Consorzio sociale Coin Mobilità Sono uno spastico. Devo partire per Lourdes con l’aereo e la mia autonomia è rappresentata dalla carrozzina di transito. So che la legge consente di trasportare questo mezzo, ma per me sarebbe indispensabile saperne di più. A l momento della prenotazione, il passeggero a mobilità ridotta deve segnalare la propria condizione all’agenzia o alla compagnia aerea presso la quale acquista il biglietto. I codici utilizzati in ambito internazionale per chi ha problemi esclusivamente nella deambulazione sono i seguenti: • wchr(wheelchair-ramp), passeggero che può salire e scendere le scale dell’aereo, ma necessita della sedia a ruote o di altro mezzo di movimentazione per spostarsi all’interno dell’aeroporto; • wchs(wheelchair-steps), passeggero che può camminare autonomamente all’interno della cabina, anche se con difficoltà, ma non può scendere o salire le scale dell’aereo; • wchc(whelchair-cabin), passeggero che necessita della sedia a ruote in tutte le fasi dell’imbarco, dello sbarco e per muoversi all’interno dell’aereo. Inoltre si deve specificare se si viaggia con una sedia a ruote personale di tipo manuale o elettrico, pieghevole o no. In genere, la compagnia richiede informazioni su peso e dimensioni della sedia utilizzata (lun- ghezza, larghezza, altezza). Per le sedie a ruote elettriche, occorre indicare anche il tipo di batterie, secche o con liquido, queste ultime soggette a regole imposte da ragioni di sicurezza. La sedia a ruote del passeggero è trasportata gratuitamente, come bagaglio registrato. Con l’entrata in vigore della nuova direttiva europea, tutte le compagnie aeree devono erogare i servizi di assistenza senza oneri aggiuntivi per il cliente. È consuetudine che la sedia a ruote personale venga imbarcata per ultima, consentendone l’uso fino all’entrata dell’aereo; per accedere e muoversi all’interno, è utilizzata una sedia speciale di ridotte dimensioni. Allo sbarco, talvolta la sedia a ruote (in particolare quella elettrica) viene inviata al nastro di arrivo dei bagagli; al passeggero con problemi di deambulazione ne viene fornita una manuale, di proprietà dell’aeroporto. Qualora la persona necessiti di trovare la propria sedia a ruote personale (non altre) fuori dall’aereo, è opportuno farlo presente al check-in e ricordare agli assistenti di volo, in prossimità dell’arrivo, di farla portare sottobordo. Ausili Sono la figlia di una ipovedente, alla quale era stato assegnato come ausilio un videoingranditore, che purtroppo si è rotto. Ora la mamma è morta, ma già da tempo avevamo gettato l’ausilio. Come mi devo comportare con la Asl? U n ausilio erogato tramite il Servizio sanitario nazionale, non più utilizzato, andrebbe in ogni caso riconsegnato alla Asl che lo ha fornito. Qualora questo fosse rotto, potrebbe essere riparabile e andrebbe quindi, anche in questo caso, restituito alla Asl, affinché possa essere eventualmente riparato e riutilizzato da altri utenti. Circa la proprietà degli ausili, dal Decreto ministeriale si evince che i dispositivi previsti nel primo e nel secondo elenco del nomenclatore tariffario, ovvero quelli adattati e quelli di serie, vengono ceduti in proprietà all’assistito. Le Regioni hanno comunque facoltà di disciplinare modalità di cessione in comodato dei dispositivi, per i quali sia possibile 39 il riutilizzo (art. 4, comma 12). I dispositivi compresi nel terzo elenco, invece, restano di proprietà della Asl, che li concede in uso alle persone che ne facciano richiesta. In ogni caso, si rimanda alla Asl l’obbligo di provvedere alla manutenzione e ad assicurare sicurezza e funzionalità dei dispositivi protesici. In particolare, per quelli contenuti nel terzo elenco, è prevista negli stessi contratti dei fornitori la tempestiva riparazione per tutto il periodo di assegnazione in uso all’assistito. Il costo e le condizioni che regolano le riparazioni sono specificati negli accordi tra le Asl e le ditte fornitrici dei dispositivi stessi. PINZILLACCHERE IL PRANZO DELLA DOMENICA di Carla Chiaramoni Il rintocco Località San Zeno, 1/a 52100 Arezzo 0575.99500 In cucina Lucia, Rossella, Samuele e i ragazzi di “Il Rintocco”; i pizzaioli Mauro e Pomi; Nedo al bar Chiusura a cena (escluso venerdì e sabato), dal 6 al 19 agosto. Su prenotazione per gruppi di minimo 40 persone Coperti 70 (all’aperto 50) Locale accessibile Prezzo 12 euro P assando a visitare la bella città di Arezzo, fate una sosta a “Il rintocco”. A circa sette chilometri dalla città, questo ristorantepizzeria, immerso nel verde, è perfetto per un pranzo gustoso e veloce. Gestito dalla cooperativa sociale “Il Cenacolo”, è nato grazie alla collaborazione con l’Istituto privato di riabilitazione “Madre della Divina Provvidenza” di Agazzi, nella provincia aretina. In sala e in cucina si alternano dieci ragazzi con disabilità psicosensoriale, soci lavoratori della cooperativa o in inserimento socio-sanitario, che hanno avviato un percorso di autonomia. Il locale è disposto su due livelli e diviso in due sale, oltre allo spazio all’aperto per i mesi più caldi. Ambiente gradevole e allegro; apparecchiatura informale con tovagliette di carta paia. Il servizio è molto veloce e puntuale: vi sentirete accuditi. Cucina casalinga e semplice, che si potrebbe definire la cucina della mamma. Il menù cambia quotidia- namente e privilegia prodotti di stagione: mercoledì pasta fresca; martedì e venerdì pesce; pizza anche a pranzo lunedì e giovedì (grazie alle mani esperte di Mauro), cotta rigorosamente nel forno a legna. Tra i piatti del territorio: salsiccia e fagioli, ribollita, panzanella e baccalà con le cipolle. Molto gustosa e abbondante la “ciaccia” (focaccia bianca) con salumi e formaggio; non manca mai in menù la grigliata di carne mista. Buona la scelta dei dolci, tutti fatti in casa: la classica panna cotta (ma morbida al punto giusto e non gommosa!), la crema catalana, fino alle più tradizionali crostate e torta della nonna. Non potete lasciare “Il Rintocco” senza prendere il caffè: Nedo, al bar, saprà stupirvi e accontentarvi. hi-tech Una casa domotica per Luca, dall’Afghanistan a Pavia D a quel giorno maledetto è trascorso circa un anno e mezzo. Era il 18 gennaio 2011 quando il caporale 22enne Luca Barisonzi, alpino dell’ottavo reggimento, venne ferito gravemente a Bala Murghab, in Afghanistan, durante l’attentato in cui viene ucciso il commilitone Luca Sanna. Barisonzi si salva, ma riporta una lesione alla spina dorsale, che gli causa una paralisi dal collo in giù. Ma accetta l’accaduto, raccontando la sua esperienza nel libro La patria chiamò, curato da Paola Chiesa e pubblicato da Mursia. «Oggi combatto per recuperare abbastanza e diventare un buon padre e un buon marito, per aiutare mia madre in casa. Combatto per piccole cose», scrive Barisonzi. L’Associazione nazionale alpini si mobilita per dargli una mano: inizia una raccolta fondi dallo slogan “Una casa per Luca”, pensando di regalare al ragazzo uno strumento concreto d’inclusione. Realizzato in poco più di un anno e inaugurato lo scorso 19 maggio, a tempo di record. La villetta domotica è stata costruita su un terzo di un terreno complessivo di circa mille metri quadrati, in via degli Alpini, a Gravellona Lomellina (Pavia). Dotata di completa autosufficienza termica ed energetica grazie a un impianto fotovoltaico, la casa ha a disposizione le più moderne apparecchiature tecnologiche, tra cui una sala adibita a palestra e provvista di vasca terapeutica per la riabilitazione motoria. Luca potrà muoversi e vivere il più possibile in autonomia, grazie a strumenti che rispondono ai suoi comandi, attivabili anche solo con un dito. [L.B.] 40 LE PAROLE PER DIRLO passato prossimo di Franco Bomprezzi Stanze con vista sull’umanità Non autosufficiente B ene. Non sono autosufficiente. Che peccato. Chi l’avrebbe detto? Pensavo di cavarmela da solo, in tante cose della vita quotidiana. Almeno ci provavo. Insomma, sì, è vero: vivo in sedia a rotelle da sempre, almeno da quando ho ricordi vividi nella memoria. Ma non mi ero mai soffermato su questa definizione, che mi è utilissima, stando alle leggi vigenti. Altrimenti potrei essere perfino considerato un “falso invalido”, locuzione della quale ho già parlato abbastanza. No, è chiaro che sono effettivamente una “persona con disabilità”. Ma essendo “certificato” al “cento per cento”, significa che sono “non autosufficiente”. Cioè sono un vero disastro. Incapace di compiere gli atti della vita quotidiana. Potrei autodenunciarmi. Negare questa etichetta un po’ umiliante. Ma poi penso che come me, per la legge, sono non autosufficienti, più o meno, anche i campioni dello sport paralimpico, tetraplegici o paraplegici, o non vedenti. È solo una questione di parole. Alle parole però corrispondono gli interventi di assistenza, i “benefici”. Senza le definizioni non si va da nessuna parte. Certo, “non autosufficiente” è un termine davvero bruttino. Tanto più che non c’è una definizione precisa, neppure nella legge quadro 328 (come documenta in modo eccezionale e rigoroso Carlo Giacobini su Handylexpress). Perché sempre sottolineare il “non”? Perché la disabilità è una selva di non possumus? Sembra di leggere Montale: «Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». “Non autosufficiente”, certo: non mi basta un’auto, ne voglio due. E un camper. Questo è l’unico modo per me di interpretare una micidiale schedatura, che sta portando le famiglie, in Italia, a cercare sempre e comunque di dimostrare che i propri figli sono davvero incapaci, inabili, inadatti a vivere in modo indipendente. Che tristezza. Ambienti dell’ex ospedale psichiatrico di Maggiano [foto di Giorgio Andreuccetti] L e corsie maschile e femminile, la sala radiologica e quella dell’arteterapia, gli strumenti medici, le grandi vasche e le cucine con gli ampi soffitti in vetro: dopo un restauro conservativo, il mondo ritratto nelle opere dello psichiatra e scrittore Mario Tobino si apre al pubblico snodandosi in un percorso museale nell’ex manicomio di Maggiano, in provincia di Lucca. Fra i sette ex ospedali psichiatrici toscani, è l’unico visitabile grazie alla 41 Fondazione Mario Tobino – che vi risiede – e all’Azienda Usl2 di Lucca. Che registrano una costante attenzione verso la struttura, anche da parte di persone provenienti da altri Paesi. Per chi vuole visitarla, oltre al giovedì pomeriggio e al venerdì mattina su prenotazione obbligatoria, l’ingresso sarà libero il 23-24 giugno e il 28-29 luglio, dalle ore 15 alle 18. Ulteriori informazioni su Fondazionemariotobino. it, tel. 0583/327243. [L.B.] dulcis in fundo 42 ››› Scegli qui ‹‹‹ il tuo manifesto delle campagne INAIL SUL LAVORO, SE TIENI VIVA L’ATTENZIONE, TIENI VIVO IL TUO MONDO. SUL LAVORO, SE TIENI VIVA L’ATTENZIONE, TIENI VIVO IL TUO MONDO. Quando sei al lavoro se proteggi te stesso proteggi i tuoi colleghi ATTENZIONE. QUELLA PAROLA CHE INIZIA PER A E FINISCE PER SALVARTI LA VITA. L’attenzione come valore comune per i lavoratori e per i datori di lavoro. L’attenzione al funzionamento delle macchine, delle attrezzature e delle dotazioni di sicurezza. L’attenzione a valutare e prevenire comportamenti a rischio. L’attenzione all’addestramento e al rispetto delle procedure. L’attenzione alla formazione e all’informazione. L’attenzione alle norme, ai regolamenti e alle misure organizzative. Nei cantieri, nelle fabbriche, negli uffici, nelle case, nelle campagne, nelle scuole di tutto il paese, ogni volta che cade l’attenzione c’è qualcuno che rischia di non rialzarsi più. Teniamo alta l’attenzione perché teniamo alla vita e alla salute di chi lavora. L’attenzione come valore comune per i lavoratori e per i datori di lavoro. L’attenzione al funzionamento delle L’attenzione come valore comune per i lavoratori e per i datori di lavoro. L’attenzione al funzionamento delle macchine, delle attrezzature e delle dotazioni di sicurezza. L’attenzione a valutare e prevenire comportamenti a rischio. macchine, delle attrezzature e delle dotazioni di sicurezza. L’attenzione a valutare e prevenire comportamenti a rischio. L’attenzione all’addestramento e al rispetto delle procedure. L’attenzione alla formazione e all’informazione. L’attenzione all’addestramento e al rispetto delle procedure. 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B:CIG:A6KDG>!EGDI:<<>I># PR EVEN ZION E SICU R EZZA A SSI CUR A ZI ON E P R OTE ZI ON E Risparmiare tempo sul lavoro vuol dire soprattutto guadagnarlo fuori. SERVIZI IN RETE INAIL. ON-LINE 24 ORE SU 24. VAI NELL’AREA PUNTO CLIENTE DEL SITO WWW.INAIL.IT E SCOPRI QUANTO È COMODO E SICURO ACCEDERE AI SERVIZI INAIL DIRETTAMENTE ON-LINE, DOVE E QUANDO VUOI TU. PR EVEN ZION E SICU R EZZA Visita il sito www.inail.it o chiama il numero gratuito 803.164 A SSI CUR A ZI ON E P R OTE ZI ON E R IA B IL ITA ZION E R EIN SER IMEN TO R IA B IL ITA ZION E R EIN SER IMEN TO B:CIG:A6KDG>!EGDI:<<>I># FINANZIAMENTI INAIL PER UNA SCUOLA PIÙ SICURA. ANCHE QUEST’ANNO INAIL FINANZIA I MIGLIORI PROGETTI DEGLI ENTI LOCALI PER RENDERE LE SCUOLE PUBBLICHE MEDIE E SUPERIORI PIÙ SICURE, E SENZA BARRIERE ARCHITETTONICHE. IL BANDO È SU INAIL.IT E C’È TEMPO FINO AL 20 MARZO 2009. 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