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[Scheda Pestalozzi]

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[Scheda Pestalozzi]
Pestalozzi
Una scheda per la «Pocket Gadda Encyclopaedia»
of The Edinburgh Journal of Gadda Studies
Emilio Manzotti
(Università di Ginevra)
Personaggio degli ultimi capitoli del Pasticciaccio: il carabiniere (brigadiere o vicebrigadiere) motociclista
piemontese Guerrino Pestalozzi della Stazione dei carabinieri di Marino Laziale – «’o motociclista», secondo l’antonomasia del Commissario Capo dottor Fumi; «il superbrigadiere-centauro» «piovuto dai colli saluberrimi», come accade al Narratore di descriverlo 1. Un personaggio minore, che tuttavia alla fine del
giallo, nei capitoli aggiunti per l’edizione garzantiana in volume del ’57, acquista singolare rilievo narrativo, e il cui nome, di reputato castigamatti, è significativamente evocato dal commissario Ingravallo proprio
nelle battute estreme del romanzo (cap. X, RR II 276):
«Fuori il nome!» urlò don Ciccio. […] «Anche troppo lo sai, bugiarda,» urlò Ingravallo di
nuovo, grugno a grugno. […] Sputa ’o nome, chillo ca tieni cà: o t’ ’o farà sputare ’o brigadiere, in caserma, a Marino: ’o brigadiere Pestalozzi»
dove l’altro nome, che la bugiarda, l’Assunta-Tina, forse conosce e s’ostina a nascondere, è quello
dell’assassino di Liliana Balducci.
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La prima emergenza narrativa del Pestalozzi è a dire il vero nelle puntate di «Letteratura», per quanto, in
esse, un po’ in extremis, all’inizio di quel quinto e ultimo capitolo che poi confluirà tutto, seppure con
numerose varianti, nella redazione garzantiana in volume. Preceduto (il pomeriggio) da una telefonata 2 ad
annunciare il ritrovamento da parte dei carabinieri di Marino della famigerata ‘sciarpa verde’ e la probabile
identificazione del rapinatore della Menegazzi, nella tarda sera del martedì 22 marzo (1927) sbarca in motocicletta al Commissariato romano di Santo Stefano del Cacco un messo del responsabile ad interim della
Stazione di Marino Laziale dei Regi Carabinieri. Questo centauro-portaparola è appunto il Pestalozzi, che
qui, come sempre in «Letteratura» e una volta ancora per dimenticanza nel volume (RR II 186), è vicebrigadiere:
A notte fatta arrivò a Santo Stefano in motocicletta il vicebrigadiere Pestalozzi, o Pesta-l’-
Rispettivamente a p. 178 (per Fumi) e a p. 160 (per il Narratore) di RR II. I rimandi al testo di questa ristampa,
che riproduce per l’essenziale la terza edizione del Pasticciaccio garzantiano in volume, sono qui siglati con P; con PL si
rimanda invece alla redazione 1946 del Pasticciaccio in «Letteratura», anch’essa citata per comodità da RR II.
1
Da parte, verrebbe voglia d’ipotizzare, dello stesso Pestalozzi. Ma l’accento, nella telefonata, è sulle esilaranti interferenze e distorsioni di rete («trenta quintali di parmigiano!... brondi chi barla?», ecc.).
2
ossi che fosse, latore di un rapporto scritto e di più di un messaggio verbale della Tenenza,
cioè del maresciallo Santarella, che in vacanza del titolare Tenente la impersonava. Era tardi,
omai, l’ora dello stomaco e dei denti: era buio: il Balducci era già stato licenziato. La nausea
delle cartoffie del Cacco stava per vincere i più resistenti... Ma quel nome ossolano e carabinieresco li elettrizzò. Il Pestalozzi, che s’era particolarmente addato a braccare la sciarpa, fu
subito ricevuto al numero quattro, da Fumi: presenti Ingràvola, Di Pietrantonio, Paolillo, e
lo Sgrinfia. [P L , cap. V, RR II 442] 3.
Nelle rimanenti pagine del quinto capitolo di PL, la scena della «stanza n. 4» non muta, se non per il
fatto che ai cinque poliziotti – Fumi, Ingràvola, Di Pietrantonio, Paolillo, Sgrinfia – ed al carabiniere Pestalozzi si aggiunge (a partire dalla p. 446 di RR II) la povera figliola Ines Cionini, il cui protratto interrogatorio in presenza di tanti inquisitori si rivelerà decisivo per l’inchiesta. Durante questo interrogatorio il
ruolo del Pestalozzi – che comunica qualche informazione e risponde a domande ma che soprattutto ascolta e registra – è tutto sommato, e malgrado gli sviluppi sull’«amor proprio del segugio», sul suo «orgoglio
del partecipare le indagini per il gran dilitto», e sulla rivalità tra questura e carabinieri, ancora quello di un
comprimario. Come conferma implicitamente il chiudersi del capitolo su di un ampio portrait non del Pestalozzi, ma dell’altro «centauro della Tenenza albana» (PL, RR II 445), il suo superiore diretto maresciallo
Santarella – il che sembrerebbe preannunciare per questi (come invece non sarà in P) un compito narrativo
di qualche rilievo.
Non diverso è lo statuto narrativo del personaggio, a ridosso 4 di PL, nel Palazzo degli ori (= PdO), il
‘trattamento’ cinematografico entro la cui complessa (e conclusa) trama la presenza del Pestalozzi, rispetto
in particolare al Santarella, permane ancora subordinata (lo rivela del resto già l’alternativa di p. 960: «Ingravallo […] conferma per telefono ai carabinieri di Marino la sua imminente andata colà: parla con Pestalozzi o altro [corsivo mio], il Maresciallo Santarella essendo uscito di prim’ora»). Se sarà proprio Pestalozzi,
secondato da un milite innominato (il futuro Cocullo?) ad arrestare la Tina a Tor di Gheppio nella scena
29a, l’episodio viene però rapidamente liquidato: «Spavento del padre malato: ciambella di gomma regalata
da Liliana Balducci: la Tina stava a gonfiarla. Fuori, e nei paesi attraversati, piccola folla curiosa. Lampo
con accenno a un interrogatorio della Tina da parte del Maresciallo Santarella». Anche nella scena che precede il vicebrigadiere partecipa certo all’inseguimento e alla cattura-uccisione del Retalli, ma lo fa in subordine al superiore – che del resto è il solo a far uso del moschetto, rispondendo al fuoco e ferendo mor-
3
Notevoli le varianti del passo nel cap. VI di P (RR II 140): fatta] pressoché discesa
||
vicebrigadiere] brigadie-
re || Pesta-l’-ossi] Pestalossi || licenziato. ] licenziato, il commendator Angeloni coi più cari saluti salutato, liquidato. A quell’ora doveva essere di certo a letto, e col naso più goccioloso che mai, berretto a calza tirato giù fin sul collo e sugli
occhi: impolpato dentro il letto de la nonna sotto pingue strapunto e su polputa ma deserta coltrice, la più adatta, e la più
ambita da un polpettone di quel calibro. La voce di Fumi: «Entri pure il Pestalozzi» || ricevuto] ricevuto e sentito ||
Ingràvola] Ingravallo || Sgrinfia] Sgranfia. Si noterà in particolare come l’ingresso in scena del personaggio venga
sottolineato da una didascalia di sapore (per Gadda) shakespeariano: un «Enter Pestalozzi».
Come aveva argomento A. Andreini sulla scorta di una testimonianza di Giorgio Zampa: v. ad es. la Nota che
chiude l’edizione einaudiana di PdO, pp. 104-5; ma decisiva per la datazione del trattamento è una lettera dell’otto
ottobre ’48 al cugino Piero: v. P. Gadda Conti, Le confessioni di Carlo Emilio Gadda, Milano, Pan editrice, 1974, p.
74 (e prima, p. 69).
4
2
talmente il Retalli 5. Soprattutto, è il commissario Ingravallo, non davvero il Pestalozzi, a perquisire nella
scena 29a il Casello ferroviario al Ponte del Divino Amore scoprendo i gioielli della Menegazzi. Insomma,
all’altezza di PdO il personaggio ‘Pestalozzi’ è ancora per gran parte in mente Dei.
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Di statura e statuto narrativo ben superiori è il Pestalozzi del Pasticciaccio-Garzanti. Già nel primo nuovo capitolo di P (il settimo), in cui prosegue in notturna, dalle 22 sin quasi alle 23, e sempre nella stessa
stanzaccia del commissariato, l’interrogatorio della Ines, si manifestano le avvisaglie d’un mutamento sostanziale – così, ad esempio, l’attenzione sulla cenetta consumata di «buon appetito» dal brigadiere al «tavolino de marmo» del Maccheronaro (la pausa era stata anzi suggerita dallo stesso Pestalozzi) in marcato
contrasto con la malavoglia alimentare di un Ingravallo affidato alle cure dell’affittacamere, scontento, irritato contro tutto e tutti, carabinieri alla Pestalozzi in prima linea («Sti lanternoni d’ ’o tteate ’e Pulcinella»). Ma decisamente significativo è il passaggio di testimone, da Ingravallo al Pestalozzi, che interviene
proprio alla fine del capitolo (sempre il settimo), in una rapida sequenza in cui sono allineati quattro nomi
– gli essenziali? – del romanzo, due maschili e due femminili:
Al Pestalozzi venne deferita copia d’un elenco, dattiloscritto, di turchesi e di topazzi […]: le
gioie della domicilioaggredita e detopaziata Menecazzi […]. Il foglio dell’elenco Menecazzi
ebbe giunta (Ingravallo, porgendo al vicebrigadiere Pestalozzi il secondo foglio, vi lasciò cadere gli occhi) d’un altro elenco, più cupamente orrido e splendido: di quegli altri gioielli,
tenuti già dentro il cofanetto di ferro nel primo cassettone del comò, della signora Liliana.
[P, RR II 185-86],
più, nel secondo degli omissis – «Così accade […] che il recupero di un Carlo Emilio da un precedente Paolo Maria […] sia risarcito da un Gadòla: cui vien fatto, pertanto, di rifulgere nella esecrazione civica al
posto di un Gadda» – addirittura quello dell’Autore.
A partire da questi presupposti l’ascesa narrativa del Pestalozzi potrà realizzarsi appieno nei due capitoli
centrali (l’ottavo e il nono) dei quattro aggiunti in P. In questi due capitoli, che sono anche quelli dei fasti
del topazio (= di inseguitore e di inseguito, dunque), il brigadiere relega sullo sfondo o addirittura fuori
campo – col procedimento gaddiano di concentrazione temporanea sopra un personaggio, un oggetto, una
scena, ecc., a prescindere dal loro peso strutturale – l’investigatore principale, che ricomparirà solo nel corso del cap. X, e che, come si è visto, si rifà in chiusa proprio alla auctoritas di un ominoso Pestalozzi.
Sono due capitoli molto raccolti temporalmente, in una mattinata senza soluzioni di continuità:
dall’alba fino ad avanti mezzogiorno (RR II 233). In apertura di VIII, all’alba (malgrado il rientro ad ora
notturna), Pestalozzi esce in missione dalla caserma di Marino laziale verso la località detta «I Due Santi»
dell’Appia, accompagnato sul sellino posteriore della motocicletta da un subalterno, il tombolotto abruzzese di Cocullo o Fara Filiorum Petri (= il Cocullo, il Farafilio). Si arresta due minuti al primo tornante (la
«Il maresciallo Santarella con un milite e il Pestalozzi con un altro milite perlùstrano la campagna, risultando
loro che il delinquente [= il Retalli] si è diretto verso l’agro pontino, verso Pràtica di Mare […]. I carabinieri, e cioè il
maresciallo e gli altri, raggiungono il fuggitivo in località deserta […]. Oppure scena tragica di avvistamento da lungi
e di inseguimento in aperta campagna […]. Egli spara, ferendo un carabiniere. Santarella imbraccia il moschetto del
carabiniere e spara a sua volta. Il Retalli cade gravemente ferito. È raggiunto e afferrato, a terra. Il suo stato appare
gravissimo. Gli tolgono la rivoltella, o la raccattano da terra. Ecc.».
5
3
prima curva della strada), a strologare il mattino, e prosegue, ammirando (col narratore – e con l’Autore!) il
paesaggio della campagna e più lontano dell’Urbe, e riflettendo sulle chances della propria desiderata ascesa
professionale nell’Arma. Gli torna in mente il conturbante sogno notturno 6, di fuga e inseguimento e metamorfosi (a forte connotazione erotica) del topazio: un’ipostasi della refurtiva-Menegazzi ma anche di tutti
gli ‘irregolari’ e incoercibili fuori-legge, sogno entro il quale tornano gli accadimenti del giorno precedente
e sono adombrati gli svolgimenti futuri. È fuor di dubbio uno dei grandi sogni della letteratura europea: e
titolare ne è proprio il modesto brigadiere, non l’investigatore principale.
Giunto ai Due Santi, il Pestalozzi, da scrupoloso motociclista, si china sulla macchina a medicarne un
problema meccanico: RR II 198: «aveva preso ad aggeggiare sulla macchina, chino e intento», e sotto (RR
II 199), più diffusamente:
Il brigadiere, intanto, s’era incaponito contro ogni predisposto gioco a voler medicare subito
la macchina, chino sul di lei oleoso viscerame. Durava a titillarle caparbio non si vedeva bene che caporello ardente o che pippolo, ritraendone i diti subito, ogni volta, con un «cribbio!» con un «porco giuda!» a mezza voce, e schioccandoli ogni volta in aria, come a sgrullarli dal brucio.
– del che il narratore e con lui a suo modo il Cocullo-Farafilio profittano per ‘leggere’ con mirabile ecphrasis dissacrante la vecchia pittura dell’edicola, in cui sono raffigurati «Due Santi» viandanti: un’altra coppia
di ‘pellegrini’ come i nostri, a ben guardare, con Pietro a guida di un subalterno Paolo.
Entrati i due, e con loro la moto (che vi resterà nascosta 7), nell’antro della Zamira, nella prima scena
d’interno è il Pestalozzi, da vero demiurgo, a prendere risolutamente in mano le cose. Sistemato l’incauto
Cocullo, cui comanda di sparire, di mimetizzarsi («Te tirati pure indietro dalla finestra […] nasconditi
là»), egli interroga a lungo e ruvidamente la maga – previamente senza complimenti calcata su una seggiola
– riguardo alle lavoranti di cui aveva potuto raccogliere il nome nel corso dell’interrogatorio di Ines Cionini, ed alle loro eventuali assenze (la Zamira si vendica indirettamente tramite l’oltraggio – ‘alla scarpa’, ‘al
piede’ – della gallina-demonio: la «torva e a metà spennata gallina, priva di un occhio»). La seconda scena
d’interno di cui sempre è titolare il Pestalozzi è incentrata sulla scoperta al dito della sopraggiunta Lavinia
del topazio (mentre nella scena 18a di PdO il maresciallo Santarella non se ne rendeva affatto conto 8): un
anello di fidanzamento (RR II 246) proveniente con tutta probabilità dal tesoretto sottratto alla Menegazzi 9. Segue un ulteriore sagace interrogatorio della ragazza e della Zamira, dal quale emerge, forse per vendetta, il nome della rivale in amore di Lavinia: una cugina alla lontana, anch’essa lavorante dalla Zamira:
quella Camilla che avrebbe riggalato o prestato per du giorni (RR II 211) il risfolgorante topazio, quela pietra
6
Libero e scoperto vi è il gioco delle pulsioni profonde.
RR II 200: «Il duro brigadiere volle introdurre la motocicletta, troppo nota a ciascuno per lasciarla fuori sulla
strada. Quando l’ebbe indotta a scendere con tutt’e due le ruote come un cavallo poco persuaso il gradino, la piazzò a
fatica presso la magliatrice».
8
SVeP, p. 959 «Allo scorgere il Maresciallo la Mattonari Camilla [i nomi delle due cugine, Lavinia e Camilla, verranno poi invertiti] ha un sussulto: si rigira sul dito, non vista da lui, un anello: in modo da nasconderne entro il
palmo la grossa gemma, un topazio».
7
Questa, sulla scorta di una soffiata (v. RR II 244-46), l’ipotesi-viatico fornita al Pestalozzi dal superiore la sera
precedente.
9
4
tutta luce (RR II 207 e 243). Così il brigadiere, lasciata la Zamira (e la motocicletta) si rimetterà di nuovo
in via, con Cocullo e con Lavinia: il trio diretto (a piedi all’inizio, ma poi Pestalozzi su una requisita vecchia bicicletta e gli altri due sopra un calesse sopraggiunto) verso il casello ferroviario di Casal Bruciato,
dove appunto la cugina ‘brutta’ di Lavinia, la Camilla. Nel casello, si sa, avrà luogo in un’altra elaboratissima scena d’interno a tre il fortunato rinvenimento, grazie ancora all’intuito del Pestalozzi, cui non fugge
il particolare dello stipo o comodino provveduto d’una serratura, del grosso dei gioielli della Menegazzi: gli
ori della contessa bionda. Quell’idealizzata Teresina veneziana, anch’essa (per via di consorte) a doppia -z-,
che il Pestalozzi farà oggetto di fantasie sentimental-matrimoniali:
nei successivi lampi d’una imagine sognata (non vista) il brigadiere sospirò […] fantasticando già di apparirle innanzi con galloni marescialli, in veste di recuperatore-salvatore [RR II
234].
Del resto del capitolo e dell’itinerario di ritorno verso Marino (le cugine in calesse, il brigadiere di scorta bicicletta, e il povero Cocullo a piedi a purgare le sue involontarie colpe), si riterrà soprattutto il molto
riflettere e ragionare e almanaccare del Pestalozzi (in RR II 246-47, esplicitamente: «Vediamo. Ragioniamo») – che da vero investigatore (e meglio d’un Ingravallo troppo assorto nel suo dolore), sulla scorta dei
dati di cui dispone, dei nuovi dati appena emersi, e dei frammenti del litigio tra le ragazze che gli pervengono, soppesa, ipotizza, valuta, muta ipotesi, giunge a conclusioni provvisorie, perché
lo spirito, o il demonio, della «ricostruzione dei fatti» gli martellava nelle tempie [RR II
248].
Ma pure di grande rilievo è il fatto che, se pur rimugina fra sé, gli occhi a terra, dimenticando le due quaglie (RR II 246), il Pestalozzi continua ad essere estremamente sensibile, come già nell’apertura del capitolo
ottavo, e come del resto altri personaggi gaddiani e in prima persona l’Autore stesso, al fascino del paesaggio, della campagna romana:
L’immagine di quella campagna così desolata nel marzo, che con il ristare di scirocco e delle
raminghe sue piove, dal lido, ora, approdava in una chiarìa tersa ai Castelli, a le case degli
umani, lo fascinò ad un tratto come apparita di magia: i cubi e i diedri delle case la coronavano al sommo, i cenobi, le torri. Una landa per i miraggi della solitudine, un attimo.
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Una caratteristica particolarmente significativa del personaggio Pestalozzi, perché in grado di spiegare
molte delle sue singolarità, è il suo entrare in plurime sintomatiche relazioni di somiglianza, di ‘doppio’.
Prossimo per un verso al suo superiore diretto, il maresciallo Santarella, come lui carabiniere e motociclista, e come lui implicato, un po’ a gara, nelle indagini per la rapina alla Menegazzi (e solo lateralmente per
l’omicidio di Liliana Balducci), il Pestalozzi è per altro verso una copia in piccolo del commissario Ingravallo 10. Entrambi, Pestalozzi e Ingravallo, sono «discesi dai monti» (RR II 201), dell’Ossolano o del Molisano che sia, entrambi sono dilettanti, con maggiore o minore successo, di discipline esoteriche per il loro
Pur nutrendo nei suoi confronti diffidenze da moralista ‘celta’ (v. ad es. in RR II 233 la maligna ipotesi sulla
lucentezza del parruccone: «il commissario Ingravallo, quel testone che invece della brillantina adoperava il catrame»,
smentita poi – ma dal narratore – in RR II 259: «il parruccone di pel d’agnello: nero, piceo, riccioluto e compatto:
che a ririsplendere nella nova luce, checché ne opinasse il Pestalozzi, non domandava brillantina»).
10
5
ambiente e lavoro: filosofia e psicologia, l’uno, sociologia, magari paretiana, l’altro (RR II 246); entrambi,
ancora, sono gelosi dei fortunati in amore e dei tutori-babbei della «ricolma bellezza d’un seno» domestico
(RR II 231).
Ma per altro verso ancora, ed anche se in modo meno evidente (per quanto più profondo) di Ingravallo, il nordico, militaresco, esemplarmente disciplinato, quasi cataro Pestalozzi, insofferente delle allusioni
fisiologiche della Zamira e della fisicità incontrollata del suo sottoposto, ma anche così sensibile (lo s’è visto) alla muta bellezza della campagna, appare una proiezione dell’Autore stesso, di cui impersona bene in
particolare il côté austro-ungarico materno, di rigido custode del decoro e della morale, di giustiziere e vendicatore di torti alla maniera del manzoniano padre Cristoforo – vista la parodia con cui il cap. VIII di P si
apre –, o dell’inesorabile antenato governatore Pirobutirro di Gonzalo. E non a caso gli stessi atti sono a
volte prestati nella Cognizione all’alter ego dell’Autore: «Egli allora si riscosse» (RR I 704) – da un suo assorto fantasticare, e nel Pasticciaccio (RR II 234) al Pestalozzi: «il brigadiere si riscosse» – da un assorto meditare. Nell’abbinamento Pestalozzi-Cocullo sembra davvero di vedere, a momenti, una reincarnazione della
coppia militare del tenente C.E. Gadda e del suo attendente-tipo nel Giornale, e – come potrebbe essere
altrimenti? – della loro interazione anche linguistica (v. ad es. RR II 229 «“Coglione! rovescialo sul letto!”
fece, durissimo, il brigadiere. Il manovratore ubbidì»).
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Un indugio meritano ancora il nome o i nomi del personaggio, la loro ratio. Del prenome, Guerrino
(v. ad es. RR II 246 «È il momento di passar l’esame, Guerrino: in gamba, Guerrino»), una variante di
Guarino, è presto detto. Etimologicamente, Guerrino è “colui che difende, che protegge”, e che per paraetimologia lo fa se necessario anche manu militari; né è da escludere qualche più sottile legame, tramite il
titolo del molto frequentato giornale satirico «Guerin Meschino» (di cui diffusamente si parla
nell’Adalgisa), allo stesso eroe «Guerrino detto il Meschino» del romanzo quattrocentesco, povero, modesto
(= meschino) raddrizzatore di torti e correttore del male.
Più complesso il discorso sul cognome, Pestalozzi, un cognome definito (RR II 140) «ossolano e carabinieresco», e di cui l’Autore moltiplica le occorrenze (ben sessantuno!), quasi a proiettarne, ad assaporarne
le armoniche. E realmente di un piccolo capolavoro d’armoniche onomastiche si tratta. Osserverei, per
cominciare, che non è vero a rigore che il cognome, a differenza da Pestalozza, sia originario dell’Ossola (la
subregio del nord del Piemonte, tra il Lago d’Orta, il Lago Maggiore e il confine svizzero, corrispondente al
bacino idrografico del Toce – la cui “valle” costituisce la Val d’Ossola in senso stretto): i “Pestalozzi” con -i
finale (cognome ora fattosi raro in Italia, almeno a tenersi alla guida del telefono), sembrano venire 11 da
Gravedona, sul lago di Como, «dove sono documentati all’inizio del Duecento», e da dove si trasferirono
«già nel 1299» a Chiavenna, nell’attuale provincia di Sondrio. A Chiavenna (patria di Giovanni Bertacchi,
l’aedo secondo Gadda (ma non secondo verità) del TCI), del resto, in Piazza Rodolfo Pestalozzi, v’è
tutt’ora il Palazzo Pestalozzi, con ritratti di famiglia e grande albero genealogico, appartenuto agli avi, emigrati poi a Zurigo, del grande pedagogista e riformatore svizzero citato da Gadda nella Meditazione milanese e nell’Adalgisa.
11
Secondo le indagini di http:/appuntatao/www.vaol.it/home.jsp?idrub=2498
6
Tuttavia in P (e in PL) il «Pestalozzi o Pestalossi» è ossolano – e quindi, o guarda caso, compaesano di
Gianfranco Contini (un clin d’oeil all’amico filologo di Domo, quindi) – soprattutto per le ragioni di contiguità fonetica che dominano tutto il capitolo ottavo (con culmine nelle metamorfosi onomastiche del topazio), e che qui si fondano sulla versione ri-etimologizzata (v. sotto) con doppia -s- del cognome. Dal canto suo il Pestalozzi sembra in un luogo rivendicare un’origine piuttosto di frontiera sud con l’Ossola, vale a
dire Orta, su lago omonimo (RR II 246: «Gerace… Marina […]. Da Orta è in po’ più lontana di Marino»). Considerato comunque che altrove (RR II 201) la durezza «piuttosto dura» del Pestalozzi è proprio
d’uno che è «disceso dai monti», converrà pensarlo per davvero originario dell’Alta Ossola, riducendo Orta
a limitrofo point de repère turistico.
Sia come sia il brigadiere motorizzato Pestalozzi è nordico di cognome e piemontese di fatto (cosa che
Lavinia – RR II 244 «sto piemontese der diavolo» – riesce chissà come a divinare) ed erede in quanto tale
della tradizione risorgimentale di virtù e disciplina militari evocate in vari luoghi gaddiani 12. E anche se
non il solo settentrionale del romanzo, egli è il solo vero ‘celta’, visto che l’altra nordica, l’impagabile Teresina (Menegazzi), è folkloristicamente veneta, anzi veneziana (e sottilmente affine, quindi, per geografia
oltre che per folklore, al superiore di Ingravallo, il napoletano dottor Fumi, che era stato anni addietro
«commissario ai Frari»). Dal punto di vista linguistico le origini del Pestalozzi, che si sforza di attenersi ad
un molto decoroso italiano, sono lo stesso tradíte (nello scritto) da sfumature regionali, gallo-italiche, o
specificamente lombarde (dato che tali sono i dialetti dell’Ossola); così i pronomi di RR II 201 «“Te tirati
pure indietro dalla finestra”, comandò al Cocullo, “nasconditi là”» e di RR II 210 «Te, i soldi per comperarlo te, non ce li hai», le negazioni di RR II 202 «bisogna rispondere, cara la mia madama: no pensarci un
secolo» e RR II 205 «Mese scorso una madonna», le imprecazioni ben lombarde di RR II 199 «ritraendone
i diti subito, ogni volta, con un “cribbio!”, con un “porco giuda!” a mezza voce»; sino al commento metalinguistico, analogo a quello di CdD, RR I 614 «La cadenza di quel discorso ecc.», di RR II 249-50:
«Olà, ragazze,» fece il Pestalozzi […] «che vi piglia ora? Litigherete in caserma. Il maresciallo
sarà incantato di sentirvi cantare tutt’e due insieme […]. Una volta in pollaio avrete voglia a
beccarvi. Adesso basta. Piantatela,» Dalle parti sue dicono difatti adesso, adess, in luogo di
ora. E altrettanto a Roma.
Etimologicamente, poi, “Pestalozzi” è composto da “pestare” e dalla voce di area settentrionale lozzo o
lozza “fango”, un “calca-fango”, insomma; ma maliziosamente Gadda sembra accreditare, sin dalla prima
entrata del personaggio (RR II 140 «A notte pressoché discesa arrivò a Santo Stefano in motocicletta il brigadiere Pestalozzi, o Pestalossi che fosse» e senza ambiguità in PL , RR II 442 già citato sopra: «Pestalozzi, o
Pesta-l’ossi che fosse») anche altra più popolare etimologia, meglio consona al carattere sbrigativo e un po’
manesco, da montanaro dell’Ossola, del «duro brigadiere» (RR II 200): vale a dire “pesta-l’-ossi”, con pesta
“picchiare” e non più “calcare”. Così la doppia etimologia dichiara d’emblée il Pestalozzi come un vendicatore del male sceso dagli aspri monti dell’Ossola, un malleus maleficarum che non esita «contro la gran piaga della reticenza» a ricorrere ad «argomenti […] piuttosto suasivi»: «Di Pietrantonio correva già, col pen-
Si vedano ad esempio AG, RR II 804 «la vecchia disciplina piemontese, milanese…», MdF, RR I 56 «indegni
della gioventù piemontese», CU, RR I 257 «Vecchio Piemonte…», M, RR II 483, dove gli «studenti di Torino» e i
«battaglioni del Re Carlo».
12
7
siero, alla cinghia dei pantaloni» (RR II 143). Né del resto il Pestalozzi, la cui durezza (secondo il passo di
RR II 201 cit. sopra) non era stata mitigata dalla Scuola Allievi Sottufficiali, ed era anzi un necessario portato del dovere (ibid.), userà «eccessive finezze» a quella che titola mentalmente (in una sua silloge «alquanto ozzolana, per vero») di «vecchia ex-vacca sdentata» (RR II 178), l’insinuante Zamira: RR II 201 «Torchiò bizza dai denti, il Pestalozzi [è tratto autobiografico che Gadda attribuisce ad esempio nella Cognizione a Gonzalo]: la ritenne subito p’un braccio. Na strizzatina! che quella s’arivortò di botto […]: e la rimorchiò ad una seggiola, ve la calcò: «ecco là”».
Fatto sta che Pestalozzi, nella versione con doppia affricata -zz- , è cognome energetico, “elettrizzante”
(RR II 442 «Ma quel nome […] li elettrizzò), prossimo foneticamente e un po’ anche geograficamente a
quello di un altro efficace ‘agente’ (per quanto non proprio di «pubblica sicurezza»): il «Besozzi Achille di
anni 33» salvatore, nell’«Incendio di via Keplero», della bambina Flora Procopio nonché di qualche altro
bene molto mobile. Per quanto poi a Milano sia Pestalozzi che Besozzi suonino come il cognome di altro
provvidenziale attore dell’«Incendio», il «bravo garzone muratore e avanguardista» Ermenegildo Balossi.

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