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Sognare di correre nel deserto

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Sognare di correre nel deserto
Regione Toscana
Diritti Valori Innovazione Sostenibilità
www.regione.toscana.it
Sognare di correre nel deserto...
Sognare di correre nel deserto...
Odissea degli extracomunitari nelle
carceri italiane: tra disadattamento
e patologie emergenti
Sognare di correre nel deserto...
Odissea degli extracomunitari
nelle carceri italiane: tra
disadattamento e patologie
emergenti
Regione Toscana
Diritti Valori Innovazione Sostenibilità
Sognare di correre nel deserto...
Odissea degli extracomunitarinelle carceri italiane:
tra disadattamento e patologie emergenti
Regione Toscana Giunta Regionale
Direzione Generale del Diritto alla Salute
e delle Politiche di solidarietà
Centro regionale per la salute in carcere
Stampa Centro stampa Giunta Regione Toscana
Indice
5
Presentazione
Enrico Rossi
7
Prefazione
Adriano Sofri
11
L’immigrazione in carcere: uno specchio illuminante
Franco Corleone
19
Odissea degli extracomunitari in carcere
Francesco Ceraudo
33
Psichiatria transculturale e carcere
Simona Elmi
39
Oltre il confine, la memoria. Gli immigrati, il carcere
e l’intervento psicologico
Eleonora Ragazzo
47
Il mediatore culturale nell’ambiente carcerario
Fatena Ahmad
50
Detenuti stranieri distribuiti per nazionalità
65
Testimonianze
83
Bibliografia
3
4
Presentazione
Enrico Rossi
Assessore al diritto alla salute della Regione Toscana
La tutela del diritto di Salute dei detenuti ed internati negli istituti di pena costituisce un obiettivo prioritario delle nostre politiche regionali. Ormai è trascorso un
anno dalla firma del decreto sul transito delle competenze della salute in carcere al
Servizio Sanitario Nazionale e dall’avvio della relativa presa in carico da parte delle
Regioni e delle Aziende Sanitarie di questo complesso e delicato compito, a cui la
Commissione Salute delle Regioni e Province Autonome ha prestato e presta grande
attenzione.
Anche il Gruppo Tecnico Interregionale per la Salute in Carcere ha lavorato intensamente, gomito a gomito con i Ministeri coinvolti (Giustizia e Salute), analizzando
necessità, promuovendo interazioni indispensabili ed approntando documenti condivisi che ora sono oggetto di discussione da parte dei due Tavoli Interistituzionali,
Sanità Penitenziaria ed OPG.
Ad essi è affidato il compito di definire e monitorare la corretta attuazione di
quanto programmato nelle Linee di Indirizzo allegate al decreto. In questa sede in
novembre è stato poi definito il Protocollo di Collaborazione Interistituzionale (Art. 7
del DPCM) che rimanda a cascata a Protocolli regionali nell’ambito degli Osservatori
Interistituzionali previsti tra Regione, PRAP e CGM ed a Protocolli locali tra singola
Azienda Sanitaria e singolo Istituto Penitenziario o Servizio Minorile. Di recente sono
stati approvati gli schemi di Convenzione necessari in modo da proseguire nel delicato percorso interattivo tra l’Amministrazione Penitenziaria adulti e minori, titolare della sicurezza e del trattamento, e la Regione che è titolare della tutela della salute. E’
anche in corso una serrata elaborazione interistituzionale sul tema del superamento
degli OPG. Ovviamente quello che stiamo percorrendo è un sentiero complesso sotto
il profilo finanziario, funzionale e contrattuale, e non privo di ostacoli che le Regioni
stanno cercando di superare valutando soluzioni sostenibili e adeguate. L’importante è che ci siamo rimboccati le maniche perché vogliamo fortemente mettere in
pratica un decreto che abbiamo atteso per anni, a garanzia del diritto di salute dei
detenuti ed internati. Anche e soprattutto dei detenuti migranti, sempre più numerosi
nelle nostre strutture di detenzione e più di altri esposti alle conseguenze della discriminazione, dell’abbandono e della malattia.
5
Prefazione
Adriano Sofri
Possiamo forse fare a meno degli immigrati, o sbarrare loro le porte come sta
succedendo in questi giorni con i respingimenti?
No, naturalmente.
Possiamo guadagnarli alla nostra causa?
E’ difficile:ma è impossibile se non ce lo proponiamo.
Doppio è l’impulso che li spinge fino alle nostre coste.
Vengono a rifarsi, a presentare un conto risentito;e vengono perché la nostra
libertà li attrae.
Il grosso degli immigrati viene a cercare una vita decente, un benessere per la
propria famiglia, una promozione per i propri figli:
quello che sempre gli emigrati hanno cercato ai quattro venti.
La mancanza di attenzione all’accoglienza pubblica abbandona una larga parte
dell’immigrazione al controllo della criminalità.
La galera, che con questi clienti,batte ogni giorno il record di presenze,li fissa
per sempre all’esistenza illegale.
Diventano ergastolani intermittenti delle prigioni italiane.
Qualcuno ha osservato che il nome di sovraffollamento è rivelatore, nel suo tentativo di designare il superlativo di un superlativo. Affollamento vuol dire già che c’è
tanta gente, troppa. Sovraffollamento vuol dire un affollamento affollato.
Dal punto di vista sanitario, questo conduce immediatamente a indicare una probabilità di contagio di malattie infettive incomparabile con qualunque altra situazione,
che non sia quella di un autobus nell’ora di punta, ma protratto per mesi e anni.
I Medici che operano negli istituti penitenziari con una percentuale maggiore di
detenuti stranieri, come San Vittore (8 su 10!) segnalano che, sia che portino una
patologia dal paese d’origine (la tbc, per esempio, dall’Est europeo) sia che la contraggano in Italia, i detenuti stranieri sono di norma i primi pazienti colpiti da malattie
infettive.
Secondo una fonte lombarda, “con la presenza di stranieri, sono riemerse malattie quasi scomparse, come scabbia e pediculosi”.
La percentuale di detenuti affetti da malattie infettive, abbiamo visto, è spaventosa. Risulta sieropositivo “solo” il 2 per cento: ma il dato è inficiato dal fatto che il
solo test obbligatorio è quello sulla sifilide.
Sui detenuti che si sottopongono volontariamente al test dell’HIV, la percentuale
sale al 7,5. Secondo altre fonti, in tutta Italia il 17 per cento dei reclusi è affetto da
malattie virali croniche, come l’epatite C. Per altri versi, il 21% dei detenuti è tossicodipendente, il 15% ha problemi di masticazione, il 16% soffre di disturbo dell’umore
o di altri disturbi psichiatrici, il 13% di malattie osteoarticolari, l’11% di malattie del
fegato, il 9% di malattie gastrointestinali.
“Secondo uno studio di Vincenzo De Donatis,Responsabile del Presidio Sani7
tario della Casa Circondariale di Modena, un detenuto ha una probabilità 30 volte
superiore alla media di contrarre la TBC, nonostante i frequenti controlli negli ambulatori degli istituti di pena. Fra i problemi che portano alla diffusione di virus e batteri
c’è anche quello della scarsa igiene. Nelle celle il water è vicino al lavandino dove si
lavano frutta, verdura e stoviglie”.
Naturalmente le malattie, e anche la mera aspettativa circa la probabilità di contrarle, si traducono in forme di disagio mentale, nella spinta all’autolesionismo, fino
ai tentati suicidi –e a quelli riusciti. Se la proporzione dei suicidi in carcere è molte
volte superiore a quella del mondo esterno, la quota che occupano i tentati e riusciti
suicidi di detenuti stranieri è a sua volta sproporzionata.
Per le stesse considerazioni, a Roma si è definita una collaborazione fra il garante dei detenuti e il Direttore della Struttura complessa di Medicina preventiva delle
migrazioni, del turismo e di dermatologia tropicale del San Gallicano. Il San Gallicano
si è impegnato a garantire consulenza e informazione specialistica in ambito dermatologico ed infettivologico ai detenuti, soprattutto stranieri.
Il Garante dei detenuti del Lazio (44 per cento di stranieri) edita un vademecum
in sei lingue per i reclusi intitolato “Conoscere per prevenire”. (Ha quattro parti: un
“Vademecum del nuovo giunto”, le altre tre sulla “Malattia da HIV in carcere”, la
“Tubercolosi” e le Epatiti virali”.
La “Guida per i detenuti stranieri” del carcere Due Palazzi di Padova (in cinque
lingue: italiano, albanese, arabo, inglese, serbo – croato) contiene nel secondo capitolo suggerimenti ed indicazioni pratiche per tutelare la salute, oltre che per gestire
nel modo migliore i rapporti con gli operatori e le strutture sociosanitarie. Trascriviamo, a mo’ di esempio, il brano riservato ai “Rapporti con il servizio sanitario”:
“All’ingresso nel carcere viene sottoposto a vari esami e il Medico le chiede
anche se vuole fare il test dell’H.I.V.: il modo migliore per difendere la sua salute è
di accettare.
Il Medico le chiede anche se è tossicodipendente o alcooldipendente; se lo è,
lo dichiari: otterrà l’assistenza degli operatori del Ser.T. o del Centro Alcoologico. Se
non ha dichiarato questa sua condizione alla visita di primo ingresso lo faccia il prima
possibile (segnalandosi a visita medica), così potrà ricevere le cure del caso.
I dati sulla sua salute sono riservati e i Medici sono vincolati dal segreto professionale: se ha una qualsiasi malattia ne parli con loro senza timore.
Il servizio sanitario penitenziario non fornisce soltanto i farmaci, ma visite specialistiche (es. dentista, oculista, cardiologo, etc.) esami clinici, cure presso i Centri
Clinici: se ne ha bisogno, chieda e otterrà queste prestazioni.
Per essere visitato dal Medico deve prenotarsi la sera, lasciando il suo cognome
all’Agente in servizio nella sezione: vedrà il Medico il giorno successivo. Se ha un
malore improvviso, informi l’Agente in servizio nella sezione (che chiamerà subito il
Medico): otterrà una visita urgente.
L’infermiere non può modificare la terapia prescritta quindi, se ha qualche problema al riguardo, deve prenotarsi per la visita medica e farlo presente al dottore.
La terapia deve assumerla subito, quando le viene consegnata dall’infermiere:
è vietato accumulare i farmaci (anche soltanto la dose somministrata in un giorno) e
cederli ad altri detenuti.
Può anche essere visitato da un Medico esterno, a sue spese: deve chiedere al
Direttore che ne autorizzi l’ingresso, specificando il motivo della visita”.
8
L’opuscolo sul Regime penitenziario dei detenuti stranieri curato nel 2005 dalla
dott.ssa Maria Martone e dal dott. De Pascalis, mette in rilievo la circostanza per
cui :
“il carcere rappresenta in molti casi una prima occasione di cura per gli stranieri che, a differenza degli irregolari liberi, sono sottoposti sin dal primo ingresso
in istituto a costante sorveglianza sanitaria, e ad interventi di recupero e riduzione
del rischio di numerose patologie quali TBC,HIV, epatite. Infatti la legge penitenziaria
prevede che alcuni controlli medici siano effettuati indipendentemente dalla richiesta
del detenuto straniero: la visita di primo ingresso e la visita medica periodica...”.
Purtroppo, però, osserva la dottoressa Donatella Zoia (Milano, San Vittore)
“questo stesso meccanismo fa sì che, all’uscita dal carcere, difficilmente sia
possibile effettuare una seria e adeguata continuità terapeutica rispetto a quanto
intrapreso durante il periodo di detenzione... Il carcere, dunque, da una parte rappresenta, molto spesso, una prima occasione di “cura” per chi, come gli stranieri
irregolari, non ne ha avute all’esterno. Allo stesso tempo, però, neppure il carcere
garantisce una “presa in carico” sanitaria delle persone che sono detenute, ma si
limita ad affrontare e a tentare di risolvere quelle situazioni emergenti o “a rischio”
per la salute di tutti (es.: malattie infettive).
L’assoluta carenza di collegamento tra carcere e territorio (che riguarda anche
le strutture pubbliche sociali e sanitarie) rende quasi impossibile il passaggio di documentazione tra interno ed esterno.
Nello stesso tempo, iniziare cure e terapie all’interno del carcere, senza sapere
se queste terapie potranno essere poi continuate al momento dell’uscita (es.: epatite, infezione da HIV) fa si che tali terapie non possano di fatto essere prescritte
neppure se ci sarebbero le indicazioni per farlo”.
9
10
L’immigrazione in carcere: uno specchio illuminante.
Franco Corleone
Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze
Alla vigilia del terzo anno dall’indulto, il carcere è tornato ad una condizione di
invivibilità insopportabile e l’ombra del sovraffollamento si allunga verso cifre esplosive. Purtroppo la campagna di falsificazione e di criminalizzazione di una misura
giusta e doverosa per interrompere la catena di illegalità in cui si trovavano le carceri
italiane con la costante violazione delle norme previste dall’Ordinamento penitenziario, ha impedito di utilizzare l’occasione dello svuotamento degli Istituti penitenziari
per cambiare le leggi criminogene e per attuare i necessari lavori di ristrutturazione
per adeguarli alle previsioni del Regolamento del 2000.
Le galere viaggiano verso le settanta/ottantamila presenze giornaliere e il Governo si illude di contenere il disastro immaginando un piano di aumento dei posti letto
in carcere attraverso la costruzione di padiglioni prefabbricati che si dovrebbero affiancare agli edifici esistenti. La stessa logica dell’aumento della cubatura delle villette immaginata da Berlusconi per aumentare la qualità del paesaggio del Bel Paese!
Queste misure tampone confermano che si pensa al carcere essenzialmente
come un luogo di deposito di corpi per una detenzione sociale senza senso e contro
la Costituzione, come di recente ha riconosciuto perfino l’attuale Ministro della Giustizia.
Io ho parlato in molte occasioni, ormai, di carcere malato; un’espressione che
mi pare renda bene l’idea di un istituto che dovrebbe essere deputato a contenere
i responsabili di gravi reati e che invece si è tramutato in un nucleo di detenzione
sociale e di detenzione generazionale.
Le cifre denunciano anche un altro aspetto che dovrebbe suscitare grande preoccupazione, la realtà cioè di una detenzione etnica.
La morte del welfare e il razzismo assumono nel carcere questo volto: poveri e
stranieri ammassati nell’istituzione totale per non turbare le anime belle e la pretesa
della sicurezza dei cittadini “onesti” e di coloro che vogliono essere “padroni a casa
propria”.
Le statistiche sulla dimensione della presenza degli stranieri sono illuminanti
per chi voglia capire. La percentuale degli stranieri si aggira in Italia intorno al 40% e
questo dato è confermato anche in Toscana, ma con una punta del 60% nel carcere
di Sollicciano a Firenze. La caratteristica più clamorosa è data dalle pene brevi e
dal ricorso massiccio alla custodia cautelare. Alessio Scandurra nello studio sulla
detenzione degli stranieri pubblicato nel volume “Ordine e disordine”a cura della
Fondazione Michelucci osserva che in moltissimi casi “si tratta di persone che, se
fossero state italiane, non sarebbero nemmeno passate dal carcere!”
Infatti il carcere contiene persone che non dovrebbero né entrarci, né starci.
E’ una realtà confermata da numeri impressionanti, dai dati ufficiali del Ministero
della Giustizia secondo cui in un giorno dell’anno, prima dell’indulto, si era ormai
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superata la cifra di 62 mila detenuti. Anche la capacità tollerabile era stata sfondata
ampiamente: tra i miracoli linguistici del carcere vi è perfino l’utilizzo della tolleranza,
una parola storicamente importante e simbolicamente significativa, per rendere accettabile la violazione sistematica delle regole sullo spazio vitale nelle celle. Così la
capienza regolamentare si trasforma in quella tollerabile (da chi?) per poi impennarsi
in quella reale che è al di là di ogni fantasia. Sessantaduemila presenze in un giorno
qualunque dell’anno si trasformano tra entrate e uscite nel corso dei dodici mesi in
un numero almeno doppio.
Nel 2005 erano entrate in carcere 89 mila persone. Di queste, 26 mila per
violazione delle norme sulla legge sugli stupefacenti e 13 mila per violazione delle
norme sull’immigrazione. Di queste ultime ben 9.619 erano state ristrette per violazione sulle norme sull’espulsione, senza altro reato. Siamo dunque di fronte ad una
incarcerazione ingiustificata.
La somma delle incarcerazioni provocate da queste due sole leggi sulle 50.000
leggi esistenti nell’ordinamento italiano, costituisce la metà degli ingressi in carcere.
Un paradosso che spiega la crisi della giustizia, a monte nei tribunali e a valle nei
penitenziari.
Vale la pena ricordare anche che uno studio del Ministero dell’Interno pubblicato
nel dicembre 2007, “Analisi dei mutamenti del consumo tra le persone segnalate
ai prefetti per detenzione per uso personale di sostanze stupefacenti dal 1991 al
2006”, fotografa una vera e propria persecuzione di massa; infatti in questo lasso di
tempo tra la legge Jervolino-Vassalli e la revisione ultrapunitiva del governo Berlusconi, sono state segnalate, in forza dell’art. 75 del DPR 309/90, ben 516.427 persone
subendo odiose sanzioni amministrative!
La bomba carcere fu disinnescata nel luglio 2006 con l’approvazione da parte
del Parlamento dell’indulto dopo quindici anni dall’ultimo provvedimento di clemenza.
Uscirono dal carcere 27.000 detenuti e l’eccezionale sfollamento portò le presenze
al livello positivo e fisiologico di 38.000.
Il provvedimento fu approvato con la maggioranza qualificata dei due terzi delle
Camere ma fu immediatamente criminalizzato da una violenta campagna mediatica
e additato come origine e causa dell’aumento della criminalità e del diffondersi del
clima di insicurezza collettiva. Si è assistito a un vero e proprio linciaggio spesso
basato sulla falsificazione dei dati. La cosiddetta percezione ha travolto l’oggettività
e molti si sono pentiti di una scelta di giustizia e umanità e i pochi che hanno resistito sono stati costretti sulla difensiva. Così un clima giustizialista ha impedito che
fossero inserite nell’agenda politica le misure indispensabili per evitare il riproporsi
della drammatica realtà del sovraffollamento nelle carceri determinato dalla presenza di leggi che affrontano in termini puramente repressivi fenomeni sociali come la
tossicodipendenza e l’immigrazione.
L’indulto avrebbe potuto e dovuto rappresentare il volano per un programma
di riforme strutturali della giustizia e del sistema penale. Invece dopo ottanta anni
di vita, il Codice Rocco continua ad essere il regolatore della vita sociale secondo i
principi dello stato etico e autoritario propri del fascismo.
La Commissione Pisapia ha purtroppo subito lo stesso destino di altre commissioni presiedute da illustri giuristi come Pagliaro, Grosso, Nordio, e il suo lavoro
è finito in un cassetto e l’idea di un patto di convivenza fondato sui principi del garantismo, del diritto penale minimo e mite è stata archiviata. La sfida di ridefinire la
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scala dei delitti secondo la reale gravità, pare rinviata all’infinito. Il processo penale e
quindi il carcere dovrebbe essere riservato alle lesioni contro la persona, l’ambiente,
ai crimini delle organizzazioni mafiose, alle azioni della criminalità economica e finanziaria, alle malversazioni dei colletti bianchi e dei camici bianchi, alle speculazioni
di immobiliaristi e palazzinari, ai reati informatici e contro la privacy. Una profonda
depenalizzazione, comprendente il consumo di sostanze stupefacenti, dovrebbe prevedere per i comportamenti di disturbo sociale un sistema di sanzioni alternative
di riparazione sociale (efficaci, credibili, immediate), che attraverso un percorso di
mediazione e di riconciliazione restituisca fiducia alla vittima e renda consapevole e
responsabile il reo.
Purtroppo si è perduta anche l’occasione unica e irripetibile di scrivere un progetto di ridefinizione della funzione dell’istituzione penitenziaria in modo da renderla
aderente al dettato costituzionale. Occorreva un piano concreto di ristrutturazione
per far aderire gli edifici allo spirito e alla lettera del Regolamento del 2000, che dovrebbe garantire diritti e vivibilità e che rimane colpevolmente lettera morta.
In questo quadro desolante di promesse mancate, dalla introduzione del reato
di tortura nel codice penale alla abrogazione delle leggi criminogene, dalla istituzione
della figura del garante dei diritti dei detenuti alla previsione dell’affettività in carcere, una riforma si è realizzata ed è quella sulla tutela della salute in carcere con il
passaggio della competenza al servizio sanitario pubblico. Si tratta di una rilevante
affermazione dell’uguaglianza dei cittadini, liberi o privati della libertà. La realizzazione di questo principio va nel senso di sottrarre il carcere alla autoreferenzialità e di
aumentare il tasso di trasparenza. L’applicazione di questa riforma richiederà risorse
adeguate per raggiungere l’obiettivo di migliorare le prestazioni sanitarie e per non
limitarsi ad una operazione di facciata e di cambio di burocrazia.
I reati contestati ai detenuti stranieri vanno dal piccolo spaccio al furto, dalla
rissa alla resistenza a pubblico ufficiale e spesso alla mera violazione delle norme
sull’espulsione. Insomma emerge un quadro di condotte di “disturbo” punite esemplarmente per accreditare nell’immaginario collettivo l’equazione straniero=criminale.
Una presenza così massiccia di uomini e donne di tanti paesi con culture e
lingue assai diverse mette a dura prova la capacità di una struttura che vive sulla
semplificazione. L’istanza, del tutto irrealistica e dettata dalla retorica della propaganda, dell’espulsione dei detenuti stranieri spinge a considerare queste persone in
una sorta di parcheggio, senza diritti e senza speranza.
Una condizione di vita nettamente diversa da quella dei detenuti italiani che
seppure tra restrizioni legali e di fatto, godono almeno di un minimo di misure, spesso illusorie, che fanno tollerare la perdita della libertà e la vita soffocante: colloqui,
telefonate, permessi, misure alternative e liberazione anticipata.
La mancanza di fondi addirittura ha eliminato nel carcere di Firenze anche la
presenza dei mediatori, una figura essenziale per i detenuti stranieri, per capire i
loro bisogni e far comprendere le regole, assicurando così un livello di convivenza
accettabile.
Chi può dunque stupirsi che l’autolesionismo sia così diffuso proprio tra i detenuti stranieri e che il sangue sia il segno caratteristico della loro disperazione?
Una pena corporale che confina con la tortura spinge chi è senza parola a un
linguaggio elementare, quello del corpo
Per anni e anni abbiamo invocato la necessità di una svolta.
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Oggi viviamo il momento del disincanto.
Si è costruito un senso comune per cui l’autore di uno scippo è più colpevole di
chi ha provocato gravi crisi economiche a danno dei risparmiatori come quelle della
Cirio o della Parmalat, dei bond argentini o dei fondi spazzatura.
Si è diffusa la convinzione per cui deve stare in carcere chi ha compiuto un reato
amministrativo come l’ingresso in Italia dopo un’espulsione, rispetto a chi fa delle
truffe informatiche.
Nel momento in cui fra non molto tempo i giovani non sapranno più chi sono stati
Falcone e Borsellino ma soprattutto non sapranno più perché sono morti (già oggi
d’altronde la maggioranza dei giovani intervistati alla domanda di un sondaggio sulla
responsabilità della strage di Piazza Fontana la attribuiscono alle Brigate Rosse!), e
invece si rafforzerà il fantasma per cui il nemico della società è il tossicodipendente
e l’immigrato, noi costruiremo un carcere non più con 60 mila ospiti, ma probabilmente con 80 mila. Inoltre la legge sulla recidiva farà sì che queste persone non
escano più dal carcere, applicando il modello statunitense per cui chi ripete lo stesso
reato per tre volte non esce più. E’ un ergastolo dato senza timore nè vergogna, con
un cinismo che insulta etica e giustizia.
Se il destino è questo, vorrà dire che il carcere non sarà più il prodotto di una
giustizia che funziona e che utilizza il processo penale con misura e con cautela, ma
il prodotto dell’ipertrofia panpenalistica giustificata dall’illusione securitaria.
Questo scenario si sta realizzando a tappe forzate: un futuro apocalittico non
troppo lontano.
Nella repubblica italiana prima del 1990 si erano fatte molte, troppe amnistie
e indulti, (perché era il modo in cui si governavano i rubinetti del flusso di entrata e
uscita delle carceri e delle carte processuali senza altre riforme), è anche vero però
che dal ‘90 non se ne era più fatta una. Ora proprio in presenza di un sovraffollamento come quello che tutti denunciavano con preoccupazione, non si potevano avanzare
obiezioni di principio in nome di un astratto rispetto della legalità.
Le ragioni di umanità e di giustizia, prevalsero con l’obiettivo, come ho già detto,
di togliere il carcere dalle condizioni di illegalità in cui si trovava, per interrompere la
violazione delle sue leggi, in particolare dell’ordinamento penitenziario. Il Regolamento del 2000, dopo nove anni rimane di colpevole non applicazione si rivela un miraggio, perché non sono state fatte le ristrutturazioni per godere di avere servizi igienici
adeguati, per utilizzare cucine decenti, per usare servizi di illuminazione accettabili,
per disporre di acqua calda e di tutto quanto è previsto in quel testo di riforma opera
di Alessandro Margara e che vide la luce anche grazie al mio sostegno forte e alla
determinazione decisa a superare ostacoli corporativi tenaci.
Pur con i limiti che sono stati ampiamente denunciati, l’indulto fu approvato,
mentre per gli equilibri tra le forze politiche l’amnistia venne rinviata ad un secondo
momento. Abbiamo così avuto un provvedimento di clemenza monco che non ha
liberato i tribunali da troppe carte.
Un’obiezione ripetuta fino alla nausea è quella secondo cui l’indulto sarebbe inutile perché i suoi effetti benefici si esaurirebbero in breve tempo a causa della recidiva quasi automatica: i beneficiari tornano a delinquere e quindi rientrano in carcere.
Era evidente che quel provvedimento da solo non era sufficiente, il che però non
poteva voler dire che non si dovesse fare.
Venendo all’oggi, si assiste alla rincorsa per dichiarare che l’effetto indulto è
14
esaurito e che le carceri stanno precipitando verso il collasso. Nessun giornale ha
fatto una campagna sollecitando le riforme per eliminare le cause del sovraffollamento. L’oscar dell’ipocrisia va al Sole-24 Ore che il 7 aprile del 2008 ha intitolato un
servizio di una intera pagina così: “L’indulto riempie le carceri”!
E’ vero che migliaia di detenuti usciti con l’indulto ne sono rientrati (7.460
nell’aprile 2008), con un tasso di recidiva inferiore al 30%; bisognerebbe però ricordare che coloro che scontano la pena senza sconti hanno un tasso di recidiva
che tocca il 68%. Ed è anche vero che nelle carceri italiane si è arrivati alla cifra
di 62.000 presenze, ma la denuncia non si può limitare ai dati quantitativi e si
dovrebbero approfondire i tipi di reato degli “indultati” rientrati in carcere e quelli
delle 97.000 persone entrate in carcere nel 2007. Adriano Sofri ha recentemente
ricordato la definizione del carcere come discarica sociale e deplorando la colpevole
criminalizzazione dell’indulto, ha sarcasticamente vaticinato un decreto per un’amnistia per la monnezza e un inceneritore per i detenuti.
Durante i cinque anni di attività come Garante dei diritti dei detenuti ho avuto
occasione di vivere vicende umane, spesso tragiche, di tanti, troppi detenuti. In questa occasione mi limito a ricordarne tre convinto come sono che le storie siano più
eloquenti delle aride cifre.
Fathi Amdouni, cittadino tunisino, arrestato con l’accusa di aver fatto da palo a
uno spacciatore, per protesta contro una accusa ritenuta falsa, iniziò uno sciopero
della fame e anche si cucì la bocca con il filo. Ricordo con emozione l’incontro con
una figura spettrale. Riuscii a convincerlo a interrompere lo sciopero della sete,
garantendogli l’intervento del Ser.T presso cui era in cura e una attenzione alla situazione giudiziaria. E’ un caso emblematico dell’incomprensione per i metodi e i
provvedimenti della giustizia e del rifiuto dei tempi lunghi per il giudizio e dell’insopportabilità per il rifiuto di misure alternative (in questo caso gli arresti domiciliari) per
l’inadeguatezza della struttura individuata.
Chakir Mounir a 24 anni è colpito da un destino crudele. Detenuto a Sollicciano,
straniero senza identità, in una sera di mezza estate dopo aver mangiato con i suoi
compagni di sventura, si sdraia sul terrazzino della sua cella per dormire, apparentemente. Ma è un sonno che lo porta lontano, per sempre. Il giorno dopo le scarne
cronache dei giornali parlano di un detenuto iracheno. Solo dopo si saprà che il giovane proveniva dal Marocco. Chiesi subito che fosse effettuata l’autopsia e tutti gli
esami indispensabili per confermare o smentire la risposta immediata del carcere
che attribuiva il decesso a un fatto naturale, improvviso e irreparabile.
I tempi dell’indagine si protrassero per mesi e mesi e intanto la salma restava
nella cella frigorifera dell’obitorio. Quando finalmente arrivò l’autorizzazione per il
ritorno in patria, sorse il problema delle spese per l’ultimo viaggio. La comunità
islamica e gli amici lanciarono una colletta per rispettare il desiderio della madre
di dare sepoltura al figlio. Questa triste vicenda consentì di porre all’attenzione del
Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria la necessità di avere nel bilancio
una voce specifica perché lo Stato possa compiere un atto di umanità e di civiltà che
corrisponde anche a un preciso dovere.
Souad M., una donna marocchina, malata di Aids, viene fermata dai carabinieri
e condotta in carcere per un residuo pena relativo a una condanna, di sei anni prima, di sessanta giorni! Il Tribunale di Sorveglianza per decidere la scarcerazione a
causa dello stato di incompatibilità determinata dalla grave malattia necessita di una
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relazione dei medici del carcere. Il fatto che fossimo in estate non giustificava un
ritardo burocratico che metteva a rischio la vita di una persona. In quella occasione
denunciai l’ennesimo caso di violenza verso i detenuti più deboli, ma di quanti non
si sa nulla?
I detenuti non sono numeri e ognuno meriterebbe che la sua storia, la sua vita
fossero conosciute per capire il senso della pena.
Lo sforzo che va fatto quotidianamente è che il carcere accetti la logica della
trasparenza e non eserciti la pratica di nascondere ciò che accade nell’universo concentrazionario.
La cappa di silenzio che cala sulle notti lunghe e orrende della galera è davvero
inesorabile. Il compito di sedare l’insofferenza è dunque affidato alla televisione che
diffonde nei prigionieri una nefasta omologazione del senso comune, annullando anche quelle forme di sub cultura che si esprimevano nell’istituzione totale attraverso
un proprio linguaggio e un preciso codice di comportamento. E se la televisione non
basta ad annullare le coscienze, soccorrono la terapia e l’autolesionismo. Le tre T,
le iniziali di Tv, terapia e tagli rendono eloquente il clangore che caratterizza le celle.
Invece di tante lacrime di coccodrillo occorrerebbe individuare un modello di
carcere in cui ci possa essere una forma di impegno per la reintegrazione sociale
dei detenuti.
Se noi non affrontiamo questo tema, il carcere si conferma un puro contenitore
di corpi. Noi dobbiamo pensare a un carcere che anche in assenza di un quadro
normativo rinnovato come quello elaborato da Sandro Margara e presentato nella
quindicesima legislatura alla Camera dei Deputati da Marco Boato e altri parlamentari, sperimenti forme di risocializzazione reintegrazione sociale attraverso forme di
detenzione che non siano di pura contenzione. Da questo punto di vista è incredibile
che in Toscana gli Istituti a custodia attenuata siano pressoché vuoti o comunque
sottoutilizzati.
Davvero ci si deve domandare come mai le prigioni siano ancora un luogo tranquillo, in cui non c’è alcun rischio di rivolta o sommossa. Una delle ragioni è dovuta
alla composizione sociale dei detenuti, caratterizzata da soggetti deboli che sono disposti a subire qualunque angheria. Tranne qualche detenuto così sano di mente che
può apparire pazzo perché chi si ribella a questa situazione. Proprio per questo vi è
una maggiore responsabilità per gli operatori, per i volontari, per chi fa informazione,
per non assistere inermi e inerti all’incipiente catastrofe.
Anche perché atti che segnalano una pericolosa conflittualità tra detenuti e polizia penitenziaria e tra detenuti stessi si stanno diffondendo. Scontri etnici e risse tra
gruppi di potere non sono più episodi sporadici.
Una ultima riflessione di attualità e che guarda al futuro. La riforma del carcere non
può attendere un provvedimento dall’alto; deve nascere dai territori, con una idea di convivenza che vinca sull’esclusione sociale. Da questo punto di vista la Toscana potrebbe
avere l’ambizione di un ruolo di egemonia, nell’indicare una strada di profonda riforma. Valorizzando le esperienze e le buone prassi, si potrebbe realizzare il superamento dell’OPG,
istituire la figura del garante regionale dei diritti delle persona private della libertà, ipotizzare forme di affettività per le donne e gli uomini in carcere.
E’ utopia? Ma perché il federalismo deve essere sinonimo di egoismo e non di
libertà e di liberazione?
La galera ha bisogno di aria e di luce. La riforma della sanità, se sarà perseguita
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con intelligenza e passione e se vedrà un impegno di risorse adeguate, potrà non
solo promuovere la salute delle detenute e dei detenuti, ma costituire la leva per
cambiare le cose e garantire anche l’apertura alla società.
La paura del diverso, lo straniero lo è per antonomasia, non aumenta la sicurezza.
I muri, almeno quelli del pregiudizio, vanno abbattuti.
Le catene, almeno metaforicamente, vanno spezzate.
Siamo già in ritardo.
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Gli extracomunitari in carcere: tra forme di disadattamento
e patologie emergenti.
Prof. Francesco Ceraudo
Direttore del Centro Regionale per la salute in carcere della Regione Toscana
Diceva un giorno un detenuto africano:”Ho vissuto per tanti anni i ritmi rarefatti
delle pianure africane ed al mio impatto con il carcere, non mi sono trovato disorientato perché anche qui tutto si svolge lentamente, inesorabilmente, secondo precisi
schemi prefissati. Solo dopo diversi mesi sono riuscito a decifrare i piccoli segni sui
volti e nei gesti delle persone. La calma che vi regna non è però dello stesso tipo
di quella africana, anzi quella del carcere è una calma solo apparente, è piuttosto
qualcosa di molto simile alla rassegnazione.”
Il fenomeno dell’immigrazione è una storia antica come il mondo.
I movimenti migratori da paesi in via di sviluppo verso paesi industrializzati assumono dimensioni sempre maggiori.
Si calcola che soltanto nell’ultimo secolo, quasi 200 milioni di persone abbiano
abbandonato la propria terra di origine alla volta di nuovi paesi, alla volta di nuove
prospettive di vita e di lavoro.
Gli spostamenti di masse di popolazioni da un paese all’altro e da un continente
all’altro non sono però privi di effetti sul piano sanitario per la possibilità di introduzione nel nostro paese di nuove patologie e per l’acuirsi di quelle pre-esistenti come
la tubercolosi, l’epatite B e altre malattie sessualmente trasmesse.
Il nostro paese circondato da popolazioni povere e giovani (i paesi dell’Est e del
Maghreb, sulle cui coste si riversano anche i migranti dell’Africa subsahariana) è
soggetto strutturalmente a flussi di immigrazione.
Alla fine di ottobre 2008, sono quasi 4 milioni gli immigrati regolari in Italia, con
un’incidenza del 6,7% sul totale della popolazione, leggermente sopra della media
europea.
E’ la stima fatta dal credibile dossier annuale della Caritas italiana e della Fondazione Migrantes.
I cittadini stranieri oscillano tra i 3.800.000 e i 4 milioni, precisa il dossier,
sottolineando che il dato non è in contrasto con le cifre precedenti dell’Istat (quasi 3
milioni e mezzo di presenze) in quanto tiene conto anche delle presenze regolari che,
a causa delle procedure molto lunghe, ancora non erano state registrate in anagrafe.
Nel solo anno precedente la popolazione straniera è aumentata di circa mezzo
milione.
Il 62,5 degli immigrati si trova al Nord (oltre 2 milioni), il 25% al centro (poco
meno di un milione) e circa il 10% nel mezzogiorno (quasi mezzo milione).
Gli immigrati regolari sono uno ogni 15 residenti in Italia e uno ogni 15 studenti a
scuola, ma quasi uno ogni 10 lavoratori occupati; inoltre, in un decimo dei matrimoni
celebrati in Italia è coinvolto un partner straniero, così come un decimo delle nuove
nascite va attribuito a entrambi i genitori stranieri.
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La comunità romena, raddoppiata nel giro di soli 2 anni, conta 625 residenti e,
secondo le stime del dossier, quasi un milione di presenze regolari.
Al secondo posto gli albanesi con 402 mila presenze e subito dopo i marocchini
a quota 366 mila.
Mentre intorno alle 150 mila unità si collocano le collettività cinese e ucraina.
In termini percentuali gli europei rappresentano il 52% del totale degli stranieri
residenti in Italia, gli africani il 23,2%, gli asiatici il 16,1% e gli americani l’8,6%.
Secondo le stime del dossier la regione con il maggior numero di stranieri regolari è la Lombardia (953.600 presenze pari al 23,9 5 del totale), seguita dal Lazio
(480.700 pari al 12,1 del totale) e dal Veneto (473.800 pari all’11,9% del totale).
Se si aggiunge al dato relativo agli immigrati regolari quello presunto degli irregolari si ottiene una percentuale decisamente superiore alla media europea, e
allineata a quella dei paesi a più antica tradizione di immigrazione straniera, come la
Germania e la Francia.
Bisogna osservare che questo allineamento è avvenuto però in un lasso di tempo enormemente più breve che non in altri paesi europei, sottoponendo dunque la
società italiana a una scossa più forte, con i contraccolpi vistosi che si registrano
così nella politica come nella vita pubblica e nella quotidiana convivenza civile.
Il carcere costituisce il punto in cui più crudamente si scaricano queste nuove
tensioni.
Le statistiche sono significative a condizione di essere valutate nel loro contesto.
Per esempio, la percentuale di reati sulla popolazione straniera regolare è pressoché coincidente con quella dei reati commessi da cittadini di origine italiana.
E’ comprensibilmente maggiore per gli stranieri irregolari.
Bisogna considerare inoltre che la fascia d’età in cui è più densa la commissione di reati è percentualmente maggiore per gli stranieri.
Il dato relativo alla presenza di stranieri è destinato inevitabilmente ad aumentare: l’inarrestabile flusso migratorio, le difficoltà di ingresso ed inserimento nel paese
di arrivo, i meccanismi di repressione sempre più marcati (da ultimo la legge BossiFini), la precarietà socio-economica che sottende tutto ciò.
Cambiano i tempi, ma gli immigrati non si fermano.
Continuano ad arrivare per terra e soprattutto per mare.
Con ogni mezzo. Soprattutto su carrette del mare, stipati come animali.
Partono in tanti, quasi ogni giorno.
E in molti non arrivano.
Gli sbarchi proseguono senza sosta.
Da gennaio ad oggi: oltre 6.000.
Dietro alle spalle storie terribili.
In fuga da persecuzioni, da conflitti etnici, dalla fame.
Disposti a tutto.
Ad ogni costo.
Dal mese di Maggio 2009 il Governo italiano ha messo in atto i respingimenti
degli immigrati. Tuttavia respingendo centinaia di clandestini verso la Libia, si viola un principio essenziale della Comunità internazionale, un principio di solidarietà
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consacrato nell’Art. 33 della Convenzione sui rifugiati del 1951: che impone ad ogni
Stato contraente di non espellere o respingere un rifugiato verso territori in cui la sua
vita e la sua libertà possono essere minacciate a causa della sua razza, religione,
nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale o opinione politica.
Dopo il 1951 questo principio è esteso a tutti gli immigranti, anche a coloro che
non hanno lo status di rifugiato, ma intendono acquisirlo o chiedere asilo politico.
L’iniziativa italiana facendo prevalere gli interessi di sicurezza nazionali sullo
obbligo internazionale di rispettare i diritti umani, si è posta in aperto conflitto con
quei diritti.
Molte organizzazioni umanitarie hanno manifestato la loro vibrata protesta.
Con l’entrata in vigore della legge Bossi-Fini molti extracomunitari continueranno ad
approdare in carcere per il solo fatto di non avere il permesso di soggiorno, senza aver
commesso alcun reato, neppure il più modesto, per avere magari tentato con tenacia di
affermare il proprio diritto ad una esistenza libera dal bisogno e dall’oppressione.
E questo avviene nel momento in cui ogni primato nel numero dei detenuti è
stato eclissato, e viene superato giorno dopo giorno.
All’inizio di Luglio 2009, è stato oltrepassato il numero di 63.500 detenuti, senza precedenti nella storia italiana.
L’indulto, votato ma subito rinnegato e mutilato delle misure complementari,
compresa l’amnistia che cancellasse un enorme numero di procedimenti giudiziari
ormai inutili, non è stato usato come uno sgombero provvisorio per ristrutturare gli
ambienti materiali.
Affollamento e composizione del popolo delle prigioni, con l’altissima quota stranieri - stranieri agli italiani, e stranieri gli uni agli altri - riempiono di dolore e di rabbia
le carceri.
E sempre più dannato è il popolo che si aggira in quei cerchi di malattia, di droga, di sesso brutale, di pestaggi, di ricatti, di suicidi annunciati e consumati.
Sono loro gli avanzi d’Italia.
Una mole di rifiuti altrettanto ingombrante e tanto più angosciosa - perché qui
non sono rifiuti di umani, ma rifiuti umani - di quella che invadeva le strade di Napoli,
con una differenza: che i muri delle galere li sottraggono alla vista pubblica, li rendono invisibili.
E’ affar loro, e di chi nelle carceri presta variamente la propria opera, e conosce
insieme l’allarme e la frustrazione.
San Vittore, Marassi, Rebibbia, Regina Coeli, Ucciardone, Poggioreale, Secondigliano, Pagliarelli, Sollicciano contengono questi nuovi giunti in sezioni, in bunker,
in reparti speciali.
Li mettono uno accanto all’altro, uno sopra all’altro.
L’arida contabilità dei numeri dice che per le violazioni della legge Bossi-Fini
entrano in carcere ogni anno circa 12.000 extracomunitari.
Le espulsioni dal carcere sono pochissime anche quando servirebbero ad attenuare il sovraffollamento.
Tra gli stranieri detenuti per condanne definitive circa 5.000 hanno meno di 2
anni da trascorrere dietro le sbarre.
Per legge potrebbero essere rimpatriati, ma il meccanismo previsto dalla procedura e i costi da sostenere producono un numero di provvedimenti eseguiti molto
inferiore: 282 nel 2007.
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La decisione, così spesso avventurosa fino alla temerarietà, di abbandonare il
proprio Paese di origine, può corrispondere ad una considerazione di carattere positivo, la volontà di cercare una vita migliore in altri luoghi lontani e, più spesso, alla
naturale conseguenza di condizioni di miseria, di fame, di persecuzioni, di guerre, di
mancanza di lavoro.
Le spinte migratorie sicuramente assolvono le originarie situazioni di disagio
socio-politico, nonché economico, delle geografie interessate.
Fattori che spingono a fuggire dal proprio posto si combinano con fattori che
attraggono verso un mondo che si promette ricco di benessere e, si spera, aperto
all’accoglienza, alla protezione e soprattutto a dignità e lavoro.
Il più delle volte questo sogno a lungo cullato e troppo spesso spezzato lungo
la strada – nei deserti, nel mare (quante carrette del mare giacciono nei fondali del
Mediterraneo?) - si va a frantumare contro una dura realtà fatta di esclusione, di
diffidenza e rifiuto, di intolleranza e sempre più spesso di razzismo.
Lo sradicamento e la marginalità costituiscono prepotenti fattori di rischio.
In questi termini, in simili circostanze il tunnel del carcere si delinea sempre più
al momento attuale come un percorso inevitabile, quasi obbligato.
Il carcere diventa per tantissimi uno dei luoghi obbligati di transito nel lungo
tentativo di inserirsi in un nuovo paese.
Per tanti, l’inserimento comincia e finisce nel carcere, di cui diventano avventori
stabili o saltuari, ma comunque predestinati.
Le stesse ricerche epidemiologiche hanno evidenziato come i cosiddetti fattori
espulsivi, quali appunto mancanza di lavoro o studio o motivi politici, ricerca di maggior guadagno, diventano determinanti nell’opzione migratoria. Tali fattori da soli non
bastano a spiegare la scelta dell’Italia come luogo di immigrazione se non coniugati
con altri elementi che affidano al nostro paese una decisiva posizione di preferenze,
quali, ad esempio, facilità di ingresso, la presenza già in Italia di amici e parenti,
l’immagine dell’Italia di nazione ricca e benestante, la possibilità di trovare un lavoro
stabile.
L’immigrato è un individuo sospeso tra il passato e il futuro.
L’epidemiologia contemporanea conosce la crucialità delle patologie globali,
come ha appena confermato l’allarme sulla cosiddetta febbre suina.
Per le condizioni di origine e per le modalità degli spostamenti le carceri sono
un vero deposito e laboratorio sperimentale delle malattie globali, un tempo arginate
dentro specializzazioni come le patologie tropicali.
Ma l’itinerario è spesso inverso rispetto a quello paventato, secondo cui gli immigrati portano le malattie.
In realtà, l’elemento più rivelatore, emerso da più ricerche effettuate nel corso
degli ultimi anni, è che gli immigrati hanno un patrimonio di salute pressoché integro
al loro arrivo in Italia.
Gli studiosi di Medicina delle migrazioni sono concordi nel sostenere che sono
più le malattie che i migranti prendono nel paese di immigrazione (per una serie di
fattori legati alla precarietà delle condizioni di vita nella prima fase di inserimento)
che quelle che portano con sé dal paese di emigrazione.
Se c’è dunque un pericolo per la salute pubblica nel paese di immigrazione, è
quando la mancanza di una adeguata politica dell’accoglienza da una parte espone l’immigrato al rischio di malattia anche grave e infettiva (come la tubercolosi) e
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dall’altra gli nega o gli rende difficile l’accesso ai servizi sanitari di prevenzione e
cura prima di mettere a repentaglio la propria vita e quella degli altri.
Questo esordio vantaggioso – il loro vero gruzzolo iniziale, la gioventù, la robustezza - viene via via dissipato per una serie di fattori di rischio:
• malessere psicologico,
• mancanza di lavoro e reddito,
• occupazione in attività rischiose e non tutelate,
• lavori pesanti con i turni massacranti che gli italiani non accettano più,
• degrado abitativo,
• assenza del supporto familiare,
• cambiamento del clima,
• abitudini alimentari diverse.
Si delinea uno stile di vita che non appartiene a loro.
Il rischio di ammalarsi, anche per un soggetto assolutamente sano, aumenta
proprio dopo l’arrivo nel paese ospite per l’esposizione ai fattori di rischio tipici della
povertà:
• insalubrità dell’abitazione
• raffreddamento
• alimentazione incongrua
• scarsa assistenza sanitaria
• incapacità di molti stranieri a riconoscere e comprendere i percorsi della medicina
occidentale
• impossibilità a ricorrere a quelli tipici della tradizione
• assenza del supporto familiare e solitudine
E’ inevitabile mettere a confronto queste evidenze con l’intenzione di investire i
Medici della delazione sugli immigrati non in regola che si rivolgano alle loro cure, le
cui conseguenze, anche solo per l’effetto dell’annuncio, sono inevitabilmente disastrose, per gli stranieri intimiditi e per la stessa salute dei cittadini italiani.
Al momento attuale circa il 40% della popolazione detenuta pari a circa 24.000
è rappresentato da stranieri.
Nel 1992 i detenuti stranieri erano poco più di 5.000, per un 15% del totale.
L’incremento è spettacoloso.
Nel 2007 su 94.000 nuovi ingressi più di 45.000 erano di stranieri, provenienti
da 140 paesi diversi.
In Europa noi veniamo dopo l’Olanda e la Francia per numero di detenuti stranieri.
La netta maggioranza dei detenuti stranieri è di sesso maschile con un rapporto
di 9 a 1.
Il maggior numero di detenuti stranieri è di provenienza africana e in particolare
si tratta di Africa Mediterranea (Algeria, Tunisia, Marocco, Egitto).
Negli ultimi anni si sta amplificando la presenza di detenuti provenienti dall’Europa Orientale, con particolare riferimento all’Albania, all’ex-Jugoslavia, alla Polonia
e alla Romania. Discreta è inoltre la presenza di detenuti sudamericani, soprattutto
colombiani, cileni e venezuelani.
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Se nel meridione i detenuti sono quasi tutti locali, al Nord gli stranieri hanno da
tempo superato la maggioranza, raggiungendo punte che arrivano al 70%, ma anche
all’85% , come è accaduto a Milano dove i non italiani rappresentano ormai la quasi
totalità dei nuovi ingressi.
La geografia della popolazione carceraria dipinge dunque un Paese diviso in due:
maggioranza di stranieri al Nord e di italiani al Sud.
Nell’ambito della stessa Giustizia minorile sono ormai prevalenti gli stranieri
con particolare riferimento a ragazzi provenienti dal Nord-Africa (Marocco, Tunisia e
Algeria), dall’Albania e dalla Romania. Molti sono di etnia rom.
La presenza rilevante di stranieri in carcere costituisce un problema nel problema del sovraffollamento.
Perché sono un fenomeno nuovo e perché mettono in rischio la funzione stessa
della detenzione e della pena.
Si deve ammettere che per queste persone sia inevitabile delinquere e che il reato commesso non dipenda da consapevoli scelte delinquenziali, però risulta evidente
come un elevato numero di persone che appartengono a queste categorie arrivino a
delinquere oppure ricadano nella recidiva proprio perché l’attenzione sociale nei loro
confronti è praticamente assente, e addirittura, quando è presente, può manifestarsi
come un atteggiamento di intolleranza, se non addirittura di rifiuto.
Registriamo arresti sempre più frequenti per piccoli reati, spesso giudicati per
direttissima con pene basse che provocano scarcerazioni quasi immediate.
Ne consegue un continuo turn-over che mette in seria difficoltà il sistema penitenziario.
Dai dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sulla posizione giuridica risulta che il 40% ha una condanna definitiva, mentre il 60% è in attesa
di giudizio.
Gli Istituti più affollati di detenuti stranieri sono: Roma Regina Coeli, Milano,
Napoli, Torino, Genova, Firenze, Pisa, Prato, Monza, Verona, Bologna, Modena, Rimini, Bari, Palermo e Catania.
A Pisa sono presenti 281 detenuti stranieri su una popolazione di 402, pari al
70%.
Molti studiosi hanno ricondotto l’incremento della popolazione detenuta alla crisi
dello stato sociale e alla corrispondente opzione a favore di una risposta penale per
tutti quei fenomeni che vengono messi in relazione alla questione della sicurezza ed
in particolare della sicurezza urbana.
Come mostrano chiaramente le statistiche, a fare le spese di questo inusitato
ricorso alla risposta penale sono sempre più spesso i soggetti deboli, cioè quelle
categorie di persone che incontrano maggiori difficoltà nell’accesso ai diritti e alle
garanzie (sempre più ridotte) offerte dai sistemi sociali.
L’aumento della presenza straniera, che per il nostro paese rappresenta un
cambiamento radicale nella situazione penale e carceraria, rispecchia in realtà una
tendenza diffusa in tutto il mondo occidentale.
Gli stranieri, le persone di colore, ossia le categorie più vulnerabili sul mercato
del lavoro e meno tutelate dal settore assistenziale dello Stato, sono decisamente
sovrarappresentate in seno alla popolazione carceraria, in maniera per certi versi
paragonabile alla sproporzione che colpisce i neri degli Stati Uniti.
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Il dato attuale sugli stranieri in carcere riflette quindi un fenomeno nuovo per il
sistema penale e penitenziario italiano, ma anche un fenomeno che è destinato ad
aumentare nel prossimo futuro, se, come sembra, non interverranno radicali cambiamenti di rotta nelle politiche di gestione dell’ordine pubblico e soprattutto nelle
politiche nei confronti dell’immigrazione.
L’extracomunitario che entra in carcere è un soggetto debole, che vive in condizioni precarie, di emarginazione e di sbandamento, vittima molto spesso di un
percorso di esclusione iniziato prima della carcerazione.
Nella maggior parte dei casi non è in possesso del permesso di soggiorno, non
ha un lavoro regolare, vive quindi di espedienti, conosce pochissimo la lingua italiana
e molto spesso vive con conoscenti occasionali, lontano dalla propria famiglia.
Non disponendo quindi, nella maggior parte dei casi, di punti di riferimento familiari o lavorativi, ad esso viene applicato molto più frequentemente l’istituto della
custodia cautelare e, una volta recluso, accede difficilmente ai percorsi alternativi
alla detenzione (semilibertà, detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi
sociali).
Ma la cosa più drammatica è che il detenuto straniero vive una sorta di esclusione sostanziale anche all’interno del carcere: raramente partecipa alle attività formative, ha contatti sporadici con il mondo esterno e molto spesso è vittima, in percentuali maggiori rispetto ai cittadini italiani, di atti di autolesionismo.
Se nel passato la popolazione detenuta era composta principalmente da giovani
maschi provenienti dal Sud d’Italia, la tendenza attuale sembra essere quella di andare verso un’istituzione carceraria composta principalmente da stranieri.
L’extracomunitario in carcere risulta penalizzato soprattutto dalla solitudine, una
solitudine che occupa sempre più spazio, sempre più tempo.
Prevaricano in carcere le restrizioni.
Non comprende la lingua, non comprende le leggi, non comprende i regolamenti,
i codici di valore, i segnali, i gesti, gli equilibri, le contrapposizioni.
La situazione è meno evidente nelle grandi carceri metropolitane, dove il numero
rilevante dei detenuti extracomunitari è in condizione di limitare almeno in parte gli
effetti negativi dell’isolamento linguistico e culturale, dove più ampie sono le possibilità di organizzare corsi di lingua italiana.
Nei piccoli istituti invece la privazione della libertà si accompagna inevitabilmente all’isolamento culturale e linguistico.
Per il detenuto extracomunitario, privo di colloqui e di assistenza familiare, la
stessa parola ciao può significare veramente tutto.
In queste condizioni, i contatti con i compagni e con gli stessi Operatori Penitenziari avvengono talora esclusivamente per gesti.
La lontananza dei familiari rende di fatto impossibile i colloqui, venendo a mancare così i reali e più diretti rapporti con i propri affetti.
Si ritrovano così a vedere crescere i propri figli in fotografia.
Tra gli interventi, quelli di mediazione linguistica culturale sono tra i primi ad
essere attivati (Il regolamento di esecuzione – DPR 230 del 30 Giugno 2000 - ha
introdotto con l’Art. 35 la figura dei mediatori culturali, prevedendo anche apposite
convenzioni con Enti Locali ed organizzazioni di volontariato), essendo la comunicazione intesa in senso ampio sia come possibilità di scambio linguistico sia come
comprensione dei contesti culturali, presupposto indispensabile per adeguarsi al
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contesto penitenziario nei suoi aspetti di vita quotidiana e per fruire concretamente
dei servizi offerti e delle stesse opportunità trattamentali.
In questo senso, particolarmente significative sono alcune esperienze attivate
ad esempio negli Istituti dell’Emilia Romagna e della Toscana, con la partecipazione
ed il contributo finanziario della Regione, mediante l’apertura di - sportelli informativi
-veri e propri punti di informazione con la presenza programmata di operatori interni
ed esterni, che forniscono informazioni ed aiuto concreto nel disbrigo di pratiche
burocratiche quali iscrizioni all’ufficio di collocamento, rinnovo dei permessi di soggiorno.
Per quanto riguarda la tipologia dei reati, rivestono un ruolo assolutamente prioritario quelli legati agli stupefacenti, ai furti e alle rapine.
La vita del detenuto extracomunitario in carcere è sicuramente un inferno sulla
terra.
Manca il supporto dei propri familiari e degli amici.
Si porta dietro anche in carcere la debolezza economica e sociale che troppo
spesso lo caratterizza e lo perseguita.
La lontananza dei familiari rende di fatto impossibile i colloqui, venendo a mancare così i reali e più diretti rapporti con i propri affetti.
In relazione all’assistenza sanitaria ai detenuti stranieri, l’Art.1 del decreto legislativo
230/99 detta una specifica disposizione al fine di equipararli ai detenuti di
nazionalità italiana.Infatti, è testualmente stabilito non solo che tutti i detenuti, compresi gli stranieri, anche irregolari, limitatamente al periodo in cui sono ristretti, mantengono l’iscrizione al Servizio Sanitario Nazionale, ma che sono esclusi dal sistema
di compartecipazione delle spese per le prestazioni sanitarie.
Per i detenuti extracomunitari il lavoro acquisisce una valenza fondamentale.
Elemento fondamentale del trattamento intramurario è sicuramente il lavoro, sia
perché consente ai detenuti di occupare il tempo in termini costruttivi e sia perché
permette loro di garantirsi un minimo di indipendenza economica.
Per gli stranieri questo aspetto diventa ancora più rilevante, spesso si trovano
soli ad affrontare la carcerazione ed in tal senso necessitano di una sia pur limitata
occupazione lavorativa capace di potergli fruttare un minimo di reddito, necessario
per la loro sussistenza in carcere e per affrontare spese legali e di giustizia.
La normativa vigente detta i criteri per l’ammissione all’attività lavorativa intramurale: occorre assicurare tale possibilità prima ai condannati e agli internati, poi
ai ricorrenti e agli appellanti ed infine agli imputati sottoposti a custodia cautelare
in carcere. Vi è una sorta di graduatoria che tiene conto della posizione giuridica del
detenuto nonché del periodo di pena da scontare e, considerato che i tempi di attesa
sono molto lunghi e gli stranieri, nella maggior parte dei casi, hanno pene piuttosto
brevi, risulta alquanto difficile assicurare loro un’attività lavorativa.
Gli extracomunitari sono più favoriti in percentuale nell’assunzione al lavoro
all’interno dell’istituto per una serie di ragioni, tra le quali non ultimo il bisogno e la
migliore adesione alle regole della disciplina lavorativa.
Tra le attività più frequenti troviamo:
• il piantone,
• il portavitto,
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• l’addetto ai rifiuti,
• l’addetto alla cucina,
• l’addetto alla lavanderia,
occupazioni che molto spesso gli stessi italiani rifiutano.
Per quanto riguarda la formazione necessaria per un percorso riabilitativo e di
reinserimento sia sociale che lavorativo, sono prospettati ed organizzati corsi di formazione professionale inerenti mestieri facilmente spendibili sul nostro territorio.
Anche in questo caso si evidenzia una penalizzazione degli stranieri che potrebbero essere coinvolti e maggiormente interessati a formazioni di altro genere e spessore, ad esempio al miglior sfruttamento delle risorse naturali dei loro paesi o ad
altri tipi di attività artigianali collegate in qualche modo ai bisogni dei luoghi d’origine.
Problemi notevoli di disadattamento al carcere vengono creati poi dall’alimentazione e dalla religione.
Per quanto riguarda la religione, il 50% si dichiara musulmano, il 20% cattolico, mentre minori sono i gruppi di buddisti e induisti.
Per i musulmani risulta difficile l’osservanza dei precetti religiosi, come anche
il digiuno nel mese di Ramadan e questo provoca un notevole disagio psicologico,
come se alla fine il carcere li avesse traviati.
L’individuazione del trattamento rieducativo si avvale anche della libertà riconosciuta ai detenuti stranieri di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa
e di praticarne il culto.
Il principio di uguaglianza, inteso come parità di trattamento, viene compromesso laddove quella libertà, garantita certamente per la religione cattolica attraverso la
presenza del cappellano all’interno del carcere, non è in ugual misura garantita per
le altre fedi religiose.
Per i detenuti musulmani i ministri del loro culto, gli Imam, vanno in carcere (almeno in quelli più importanti) tutte le settimane e almeno due volte l’anno celebrano
la funzione religiosa: per la fine del periodo del Ramadan e per la Pasqua araba, che
si svolge due mesi e dieci giorni dopo la fine del Ramadan.
Tra i detenuti di fede musulmana si avverte la necessità inderogabile di una
guida spirituale che li segua in particolar modo nel periodo più importante per il credente, il Ramadan.
Seri problemi di disadattamento sono dovuti all’alimentazione per 2 motivi:
• il primo è di tipo fisiologico: essere sottoposti ad un regime alimentare del tutto
diverso da quello abituale può produrre scompensi in grado di compromettere
anche seriamente la digestione.
• il secondo motivo è invece psicologico: la maggior parte dei detenuti stranieri si
alimenta con cibo fornito dall’amministrazione, in quanto pochi hanno la possibilità economica di alimentarsi a proprie spese.
Il mangiar male difficilmente può essere considerato come una spiacevole parentesi nella quotidianità carceraria, più probabilmente, più efficacemente si carica
invece di severi significati di abbandono e di punitività.
Soprattutto i detenuti musulmani lamentano una dieta non confacente ai loro
dettami religiosi.
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Per non mangiare la carne di maiale, per esempio, chiedono al Medico Penitenziario un vitto a base di verdure e latte che spesso risulta però insufficiente.
L’Art.11 del nuovo regolamento penitenziario prevede chiaramente: ”nella formulazione delle tabelle vittuarie si deve tener conto delle prescrizioni proprie delle
diverse fedi religiose”.
Questa importante affermazione di principio nella pratica quotidiana trova non
pochi problemi di realizzazione.
Nel periodo del Ramadan all’interno degli istituti penitenziari si viene a creare
una vera e propria emergenza dovuta allo stravolgimento delle abitudini alimentari,
sia per i generi alimentari consentiti dalla religione, sia riguardo agli orari in cui sono
consentiti i pasti, orari decisamente inconciliabili con una prassi quotidiana radicata
nell’amministrazione.
Incide in simili frangenti la stessa lontananza dalla famiglia, dal reticolo sociale
che aiuta tutti, perché tutti fanno il digiuno.
La risoluzione del Consiglio d’Europa del 1981 evidenzia ed incoraggia legittimamente la professione del Culto come un fattore idoneo ad alleviare la condizione del
detenuto in quanto straniero, al fine di scongiurare che costui possa andare incontro
ad ulteriori privazioni e contraccolpi di rilevanza psicologica e sociologica.
La Religione, oltre ad essere una modalità trattamentale, rappresenta la possibilità di soddisfare un’esigenza spirituale molto sentita in una condizione di grande
deprivazione, come provocato non solo dalla detenzione, ma anche dal fatto di essere in un paese diverso e lontano da quello di origine.
La presenza così rilevante di detenuti stranieri ha introdotto nuovi elementi nel
panorama sanitario penitenziario, la comparsa di nuove patologie, per lo più malattie
parassitarie, il pericolo di diffusione di malattie contagiose, in particolare la Tubercolosi e le malattie sessualmente trasmesse.
Il 30 % dei detenuti extracomunitari è tossicodipendente.
Circa 800 sono i sieropositivi per HIV.
Malattie da degrado
Sono da degrado le patologie da raffreddamento (con continue ricadute) e
da cattiva alimentazione, le malattie traumatiche (da aggressioni o accidentali),
i disturbi acuti genito-urinari e quelli delle vie aeree, dell’apparato digerente, del
sistema osteo-articolare.
Malattie della povertà
Comprendono in primo luogo la tubercolosi, la scabbia, affezioni da funghi e
affezioni veneree.
Il vivere sentendosi rifiutati dalle altre persone per vari motivi, la mancata integrazione, l’emarginazione e la ghettizzazione producono un cocktail di instabilità,
ansia, depressione, frustrazione, angoscia, irritabilità.
Gli extracomunitari in carcere rappresentano un abisso di necessità.
Bisogna a questo punto creare le premesse che dietro le sbarre non vengano
etichettati come i nuovi ultimi.
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Il personale del Presidio Sanitario si trova a fare i conti con le mancanze strutturali, ma anche con le difficoltà comunicative, relazionali e di comprensione dei mondi
culturali che esprimono gli immigrati.
Oltre a trasmettere un proprio modo di essere, l’immigrato incarna anche un
modello di rapporto sia con la struttura penitenziaria che con il modello di relazione
con la salute, la malattia e la cura appreso nel paese di origine.
Il detenuto immigrato deve reinterpretare tutto e arriva in carcere con una sua
idea di carcere e si rapporta con le questioni sanitarie con il suo modello di sanità.
Lo sforzo da compiere è quello di cercare di individuare e comprendere come
il paziente vive e considera la propria malattia, le cause e le conseguenze, ma pure
quali sono le implicazioni psicologiche e le reazioni emotive.
Uno dei problemi che più facilmente si presentano è sicuramente quello della compliance da parte del paziente, che generalmente è molto bassa e questo costituisce
un atteggiamento di estraneità culturale nei confronti della medicina.
Molti sono i casi di autolesionismo che si registrano tra gli stranieri.
Risultano essere il doppio rispetto agli atti commessi da detenuti italiani, il che
testimonia un maggior disagio del detenuto straniero, molto spesso affetto da patologie legate alla tossicodipendenza e all’alcolismo.
Perché un detenuto straniero si taglia?
Io lo facevo quando mi sentivo disperato. Non riuscivo più a stare lì dentro. Mi
tagliavo, sentivo il dolore e mi calmavo.
A volte lo facevo per sentire che esistevo.
Quando ti senti come se non esistessi, il dolore fisico ti fa sentire di nuovo una
persona viva.
Anche se potrà sembrare strano, tagliarsi è un modo per continuare ad esistere.
Qualche volta l’ho fatto per reazione. Un gesto di protesta dopo essere stato
umiliato o picchiato.
Sembrerà strano, ma è un modo per sentirti viva.
Il dolore, il sangue, le urla, l’infermeria, per un po’ ti ritrovi al centro dell’attenzione.
Per disperazione, perché non reggi più questa vita declassata.
Tanti i motivi di questi gesti. In primis l’assenza nella maggior parte dei casi di
una famiglia o di amici che possano assistere il detenuto sia dal punto di vista affettivo che da quello materiale.
Altrettanto ovvia e rilevante è la maggior difficoltà rispetto agli italiani, per motivi
linguistici, di comprendere e adeguarsi a meccanismi rigidi del carcere.
Si è ben lontani da un effetto recupero della pena che dovrebbe tendere a rieducare il colpevole alla vita sociale.
Gli atti di autolesionismo in carcere hanno spesso la forma di gesti plateali, in
quanto le modalità di esecuzione consentono di escludere la reale determinazione di
porre fine alla propria vita.
Le motivazioni messe in evidenza sono varie: esasperazione, disagio, malessere
(che si acuiscono in condizioni di sovraffollamento), impatto con la natura estremamente dura e spesso violenta del carcere, insofferenza per le lentezze burocratiche,
convinzione che i propri diritti non siano rispettati.
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Chi è il deviante extracomunitario?
L’immagine che abbiamo riportata sino ad oggi è stata quella piuttosto rassicurante perché in fondo innocua del tunisino pulivetro ai semafori o del venditore
ambulante, il cosiddetto vù cumprà che tenta il furto nella casa di un possibile cliente
o del cameriere marocchino finito dentro per ubriachezza molesta.
La fisionomia del deviante è ben più complessa ed articolata.
La tipologia dei reati commessi dagli stranieri si colloca, generalmente, all’interno di un profilo criminale tendenzialmente basso.
Solitamente anche nei casi di reati di una certa entità, come i fatti di sangue,
non ci troviamo di fronte ad un progetto criminale volutamente pianificato.
Numerosi sono ad esempio i casi di risse finite con l’assumere contorni delittuosi di maggiore entità.
Generalmente lo stesso discorso vale per i reati contro il patrimonio.
Le numerose rapine, di cui gli stranieri sono imputati, in origine sono semplici
furti o scippi che, per imprevisti e più spesso per incapacità, si trasformano in un
reato,giuridicamente, molto più grave.
Più della metà dei detenuti stranieri risulta avere a suo carico reati previsti dalla
legge sugli stupefacenti. Si rileva come il mercato della droga in Italia individua come
protagonisti un numero assai elevato di stranieri che contribuiscono a potenziare la
centrale dello spaccio di sostanze stupefacenti.
Il problema più rilevante nel trattamento degli stranieri è sicuramente rappresentato dalla concessione delle misure alternative alla detenzione: vuoi perché rappresentano la concreta attuazione di un trattamento finalizzato alla rieducazione e al
reinserimento sociale, vuoi perché questo aspetto del trattamento è il più sentito dai
detenuti stranieri come l’aspetto maggiormente discriminante.
A tal proposito occorre sottolineare l’importanza della posizione di regolarità o
meno dello straniero detenuto.
Esiste infatti una notevole differenza nella concessione dei benefici penitenziari
tra il detenuto straniero che gode di una posizione di regolarità e il detenuto straniero
che risulta clandestino o irregolare e quindi manca di qualsiasi elemento di supporto,
necessario per ottenere il beneficio.
A parità di pene riportate si può dimostrare che l’accesso ai benefici delle misure alternative alla pena detentiva sono fruiti nei fatti in ragione diretta del grado di
risorse economiche, culturali e sociali godute dal condannato.
Si può dimostrare che, salvo pochissime eccezioni lo straniero immigrato con
scarsa conoscenza della nostra lingua, senza un lavoro stabile, senza un’abitazione
non riesce di fatto a godere di misure alternative in fase esecutiva, anche se astrattamente si trova nelle condizioni legali per goderne.
Spesso anche da parte della magistratura di sorveglianza si riscontra un atteggiamento di maggiore chiusura nei confronti degli stranieri, che rende meno fruibile il
ricorso a percorsi penali alternativi al carcere.
Di fatto gli stranieri non sono in possesso dei requisiti richiesti per l’applicazione
dei vari benefici: non hanno un lavoro, requisito fondamentale per la semilibertà
quanto per l’affidamento; non hanno un’abitazione per poter godere della misura
della detenzione domiciliare.
Si viene di fatto a creare un diritto diversificato per gli stranieri, un doppio binario, anche in fase di esecuzione: a parità di pena da espiare rispetto al cittadino
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italiano, vi è un surplus di sofferenza legale.
Surplus aggravato dal fatto che i periodi di detenzione per questi ultimi sono più
lunghi, vuoi per mancanza di un’adeguata difesa; per ragioni economiche non possono quasi mai permettersi un difensore di fiducia, vuoi perché spesso i magistrati
basano il giudizio di pericolosità sociale sulla condizione di clandestino, senza documenti e senza lavoro e senza fissa dimora.
Oggi gli immigrati extracomunitari, sicuramente rappresentano, perché privi
di casa, privo di affetti, privi del loro stesso territorio geografico e antropologico i
nostri ultimi per i quali non possiamo non raccogliere la sfida di una nuova e provocante solidarietà.
Questo è l’impegno umano e professionale che noi Medici Penitenziari intendiamo assumere e promuovere.
Dall’incontro con l’emarginazione, può nascere un rapporto non facile, di fronte
al continuo variare dei bisogni e delle domande.
Quasi sempre poi si cerca di coprire con generosità i bisogni scoperti senza tener conto di quelli silenziosi, di quelli nascosti, troppo spesso impercettibili.
Non vogliamo apparire migliori di quelli che siamo, ma l’impegno sul tema
dell’emarginazione lo sentiamo come un dovere verso quelle persone che direttamente o indirettamente vivono questo dramma e ci rendiamo conto che dopo tante
parole, occorre un’analisi molto precisa e documentata sulle coordinate che definiscono il rapporto con la società.
Esiste la disuguaglianza sociale, esiste l’emarginazione, purtroppo.
Deve formarsi una cultura impegnata, dobbiamo essere in grado di individuare
e di cogliere le emergenze del quotidiano, attraverso una rinnovata capacità di attenzione e di immagine.
Le diversità culturali e le difficoltà linguistiche, l’assenza di riferimenti positivi
presso la società libera, la distanza dalla famiglia, contribuiscono ad accentuare
l’afflittività della pena per i soggetti stranieri, rendendo più difficile per gli operatori
penitenziari la realizzazione di interventi di reinserimento realmente perseguibili.
Comprendere le tappe del percorso di integrazione, di inserimento di un extracomunitario deve rappresentare l’opportunità per tutti noi legittima, per delineare
anche un programma per la prevenzione.
Si parla tanto e si codifica altrettanto di uguaglianza tra gli uomini, bisogna però
avere il coraggio di ammettere che qualcuno ancora oggi, al giorno di oggi, è meno
uguale di altri.
Il gesto di beneficenza, l’atto stesso di elemosina non sono sufficienti, non
bastano più.
Il punto importante è proprio questo.
Non possiamo, non dobbiamo dare qualcosa delle nostre cose, per mettere
apposto magari la nostra coscienza, ma dobbiamo dare qualcosa di noi stessi e fare
spazio nella nostra vita, nel nostro tempo,nella nostra cultura con chi rappresenta
nell’immaginario collettivo la differenza.
Del nostro tempo, soprattutto.
E’ il tesoro di cui siamo più gelosi, è il dono più prezioso che possiamo fare
agli altri.
Vi sono aspetti sostanziali della politica migratoria, imperniati sul rispetto della
persona umana e sul dovere dell’accoglienza, che devono essere da tutti condivisi.
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Ci dobbiamo porre questi obiettivi per essere in grado di fornire risposte qualificate, dove le politiche sociali, lo sviluppo economico e i valori morali, si devono
integrare in una prospettiva di sicura convivenza.
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Psichiatria transculturale e carcere
Dr.ssa Simona ELMI
Psichiatra Centro Clinico Casa Circondariale di PISA
Clinica Psichiatrica Università degli Studi di PISA
Spetta a Kraepelin nel 1904, la nascita di una nuova disciplina, la psichiatria
comparata, focalizzata sugli aspetti culturali ed etnici della salute e della patologia
mentali.
Successivamente negli anni 50, psichiatri ed antropologi ripresero le ricerche di
psicopatologia comparata, iniziate da Kraepelin, confrontando tra loro culture occidentali e non, gettando le basi per la costituzione della “Psichiatria Transculturale”,
designata anche con il termine di “Etnopsichiatria”.
Oggi la psichiatria nella sua branca transculturale ha codificato il suo campo di
interesse nel rapporto tra i disturbi psicopatologici e i fenomeni culturali.
Uno dei metodi che consentono di analizzare gli elementi culturali di una popolazione è costituito dallo studio di manifestazioni psicopatologiche individuali e collettive.
Il termine cultura indica in etnologia l’insieme delle manifestazioni tradizionali
della vita mentale, sociale e spirituale di un popolo, quale che sia il grado o la ricchezza di essa. Il “fattore culturale” interviene fin da quando il bambino apprende
attraverso la madre il suo rapporto oggettuale, o quando impara le leggi del gruppo a
cui appartiene e quando viene condizionato nell’ assumere precisi ruoli, quali quello
legato al sesso, alla classe sociale, all’appartenenza religiosa ecc.
Ecco che, per questi motivi, molte alterazioni ritenute peculiari a singoli individui
sono spesso legate alla cultura.
L’incontro tra diversi tipi di cultura porta quasi sempre ad incomprensioni che
possono sfociare nei fenomeni di emarginazione, di razzismo ed anche di errata diagnosi psichiatrica, perché non si conosce o non si è in grado di valutare con cognizione gli elementi culturali che possono condizionare l’ espressività clinica.
La Psichiatria Transculturale ha il ruolo di mettere in luce, identificare, verificare
e spiegare i legami tra il disturbo mentale e le vaste caratteristiche psicosociali che
differenziano nazioni, popoli e culture.
I fattori socioculturali influenzano ogni aspetto dei disturbi mentali, quantunque
variazioni culturali siano di maggiore rilevanza in condizioni reattive piuttosto che nel
campo delle psicosi maggiori.
La nostra osservazione della psichiatria comparata prende origine nelle strutture carcerarie italiane, e prevalentemente dal carcere di Pisa.
Il carcere produce malattia, anche di carattere mentale. Circa il 15-20% dei
detenuti che manifestano la presenza di una forma di disagio psichico l’aveva già in
corso, prima della carcerazione.
Possiamo definire il carcere come “psicopatogeno”.
La stragrande maggioranza dei detenuti sono cittadini extracomunitari, infatti gli
istituti penitenziari in Italia parlano sempre di più i dialetti del sud del mondo.
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Ecco che la psicopatologia prende forma dai fattori socioculturali del soggetto,
influenzati dalla separazione, dalla perdita del sostegno della propria cultura e della
famiglia di origine, dall’ isolamento sociale, dalla marginalizzazione, dalle relazioni
che divengono impersonali e dal cambiamento di ruolo. La scelta della separazione
rispetto al contesto familiare, affettivo, sociale e culturale originario, provoca una
rottura dell’equilibrio presente nella vita della persona che decide di “emigrare”.
L’ extracomunitario è di fronte alla sfida di dover ridefinire il proprio progetto di
vita, di delinearne le coordinate nello spazio e nel tempo. Deve elaborare il lutto della
separazione dal gruppo originario, dai legami costruiti durante l’infanzia e interiorizzati nella sua costruzione psico-affettiva.
L’ extracomunitario vive la solitudine, l’indifferenza, il sospetto o peggio il disprezzo e l’odio. La sua condizione di inferiorità sociale e di minoranza culturale lo
mette all’angolo; si sente osservato, giudicato, si sente spesso di troppo.
Solitudine, esclusione sociale, assenza di una rete familiare di supporto possono creare un vuoto affettivo che finisce per rendere il soggetto straniero a se stesso.
Questo processo psico-sociale diventa un processo alienante che crea tensione,
sofferenza e anche patologia.
La differenza nell’espressione sintomatologica nasce, inoltre, dall’influenza della nostra cultura sui soggetti appartenenti a culture del tutto diverse dalle moderne
società occidentali.
Perciò la differenza cruciale, rilevante per decorso e esiti delle malattie mentali, non passa tra società più o meno sviluppate e industrializzate, ma tra moderne
società capaci di preservare importanti elementi della loro cultura tradizionale. Le
situazioni di modificazioni sociali in cui stresses acculturativi esercitano dimostrabili
effetti patogenetici, che causano la malattia, producono specifici tipi di patologia in
una popolazione in cui non esistevano precedentemente.
Le modalità espressive dell’ uomo, compresa quella rappresentata dai sintomi
psichiatrici, sono quindi strettamente legate alle esperienze precedentemente vissute e risentono in particolar modo delle influenze ambientali e culturali.
Secondo un’eziologia tradizionale la malattia è suscitata da esseri soprannaturali che si impadroniscono del corpo e del funzionamento psichico della persona, allo
scopo di ottenere qualcosa dagli esseri umani: un’ offerta, un sacrificio, un atto di
devozione e di rispetto verso un antenato dimenticato. Tutto questo è invece denominato e modellizzato diversamente nella cultura occidentale, secondo le categorie
nosografiche della psichiatria.
Fu Yap nel 1962 ad usare il termine di “Culture-Bound Syndrome” per indicare
alcune sindromi specifiche di alcune popolazioni, descrivendole come entità psicopatologiche a sè stanti.
Oggi sappiamo che queste sindromi non sono altro che un modo particolare,
specifico della cultura in cui si evidenziano, per esprimere una condizione di disagio
psichico che le nostre basi scientifiche ci consentono di inserire in quadri nosografici
ben precisi e definiti, mentre nei luoghi in cui esse si realizzano vengono spesso
accettate come fatti non necessariamente patologici.
Infatti, da alcuni studi effettuati da ricercatori africani emerge che i contenuti
deliranti più comuni degli Africani e Afro-Caraibici con psicosi, sono di natura persecutoria, seguiti da temi religiosi, il che secondo gli autori è in conformità con i tratti
di cultura indigena.
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Negli Africani le reazioni psicotiche transitorie sono particolarmente frequenti e
risultano di particolare interesse per la psichiatria trasculturale, essendo basate su
credenze culturali nella magia e nella stregoneria.
Questi quadri clinici dall’ esordio improvviso e di breve durata insorgono in relazione ad esperienze di paure, culturalmente validate, di persecuzione magica e stati
di possessione. Sono caratterizzate da stato confusionale, elevazione della quota
ansiosa e da acting-out dimostrativi.
Le sindromi culturalmente caratterizzate che spesso riscontriamo negli extracomunitari, nel nostro paese sono le seguenti:
1) Ode-ori. E’ una sindrome ben conosciuta in Nigeria, che presenta soprattutto
manifestazioni somatiche che vengono descritte come sensazioni di brulichio in
testa determinata da un “verme” interno, il cui movimento provoca questo ed
altri sintomi, tra cui ronzio alle orecchie, palpitazioni, offuscamento della vista.
I sintomi somatici sono in genere accompagnati da ansia e depressione. Coloro
che ne sono affetti, ritengono che tali sintomi siano determinati dall’infestazione
voluta da persone nemiche.
2) Bouffèè delirante. Si tratta di un termine francese utilizzato nelle aree di influenza
francese che indica improvvise manifestazioni di agitazione psicomotoria, confusione mentale a volte accompagnata da allucinazioni, osservata nell’Africa occidentale.
3) Brain fag. E’ un’espressione, usata prevalentemente in Africa occidentale, per
indicare la “stanchezza del cervello”. I soggetti lamentano dolore, senso di peso,
caldo alla testa e al collo determinati dall’idea che il cervello è “affaticato”.
4) Zar. Si tratta di un termine usato nell’Africa del Nord e anche nel Medio Oriente
per indicare la possessione da parte di uno spirito che si manifesta con grida,
agitazione, riso o pianto oppure con uno stato di chiusura ed apatia.
5) Attacco di nervi. In Messico e in America del Sud si chiama ataque de nervios.
Esistono dei corrispondenti anche in altre culture (Egitto, Iran e Cina). E’ comunque diffuso nel mediterraneo e sta ad indicare un insieme di sintomi e comportamenti generalmente conseguenti ad eventi stressanti di perdita o di conflitto. Si
tratta di una condizione di vulnerabilità agli eventi letali ma anche una sindrome
causata dalle spesso gravi difficoltà della vita quotidiana. I soggetti presentano
crisi di pianto improvviso, aggressività verbale e fisica, tremori, vertigini, senso di
calore, accompagnati da paura di perdere il controllo.
6) Locura. Più che di una sindrome, si tratterebbe di un termine utilizzato in America Latina per indicare soggetti che presentano stati di imprevedibile agitazione
a volte violenta, allucinazioni uditive e visive, incapacità di integrazione sociale,
attribuiti sia a fattori ereditari che ad esperienze traumatiche di vita.
7) Malattia del partigiano. La guerra è la tipica situazione che genera stati isterici,
sia per il pericolo costante di morire sia per la richiesta che viene fatta ad ogni
singolo soldato di essere valoroso e coraggioso. La nevrosi di guerra è risultata
particolarmente frequente in tutte le etnie della ex-Jugoslavia, ad eccezione di
quella slava, probabilmente perché residente nella zona facente parte della cultura mitteleuropea. Tra le nevrosi di guerra la più ricordata è la malattia del partigiano, suscitata da avvenimenti quali la morte di un compagno e caratterizzata da
inquietudine, tensione, cadute a terra, grida e perdita di coscienza.
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8) Transessualismo. Alcune culture hanno sempre considerato normale che un individuo possa avere una identificazione sessuale diversa da quella somaticamente
espressa. I Berdaches della tribù indiane dell’America del Nord erano transessuali non solo accettati come tali, ma avevano precisi ed importanti ruoli da svolgere.
I Sekatras sono uomini appartenenti ai Sakalaves del Madagascar del Nord che
da bambini per la loro gracilità sono stati educati ad abbigliarsi e comportarsi da
bambine e così hanno finito per identificarsi nel ruolo di donne. I Sakalaves non
criticano questi soggetti perché pensano che un atteggiamento derisorio possa
portare sfortuna.
Non possiamo non considerare i Disturbi Affettivi e le loro diverse espressioni
culturali. L’analisi della non equivalenza delle reazioni depressive fra Occidente e resto del mondo ha portato ad una revisione di quella teoresi euro-centrica che riteneva le categorie diagnostiche quali entità libere dalle influenze culturali, sollecitando
nuovi approcci metodologici tesi a valutare l’ universalità psicopatologica all’interno
di macro-contesti. Alcuni autori ipotizzano che i popoli non occidentali non differenziano la sfera affettiva da quella somatica, nonostante possiedano un lessico particolarmente ricco riguardo agli stati emotivi.
Esaminando il continente africano, notiamo come nella fascia settentrionale,
prevalgano la depressione mascherata e la depressione delirante rispetto alla sindrome depressiva classica, tenuto conto della riluttanza degli arabi a verbalizzare
l’umore depresso giacché l’espressione pubblica dei propri stati affettivi viene percepita come infamante.
Nella cultura araba la diffidenza è la manifestazione più elevata di saggezza, per
cui si ammette che la sintomatologia, in realtà, costituisca l’ esagerazione di una
tendenza naturale, piuttosto che uno specifico target di malattia mentale. Significativa risulta anche la quasi totale assenza di eventuali deficit dell’ autostima e dei
sentimenti di colpa.
Ciò che colpisce, comparando la depressione nel mondo occidentale con la cultura africana, consiste nel fatto che da noi prevale la visione del male interna alla
persona, mentre in Africa la causa del male si colloca all’ esterno del soggetto.
Possiamo affermare che, se, da un lato, la depressione certamente esiste in
tutte le culture, dall’ altro, proprio per eterogeneità culturale, la parte della complessa articolazione dei micro-contesti intraetnici finisce col determinare una sintomatologia talmente variegata del disturbo che spesso la depressione, assumendo nomi
diversi, tende ad essere interpretata come “culture-bound syndrome” piuttosto che
come universale evenienza clinica.
Riportiamo di seguito, come esempio, i criteri principali per la diagnosi di Episodio Depressivo Maggiore secondo un’ ipotesi nosografica per la cultura dell’ Africa
Nera (modificata da Bertschy et.al. 1992).
Almeno 5 dei seguenti sintomi sono stati presenti ciascuno ogni giorno per un
periodo di almeno due settimane:
1) Umore disforico (depresso, triste, mesto, disperato, ridotto, irritabile).
2) Scarso appetito, o significativa perdita di peso, o aumentato appetito, o significativo aumento ponderale.
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3) Insonnia o Ipersonnia.
4) Agitazione o rallentamento psicomotorio (ma non sentimenti soggettivi di irrequietezza o rallentamento).
5) Perdita di interessi o di piacere in attività abituali, o ridotta iniziativa sessuale.
6) Perdita di energia, stanchezza.
7) Sentimenti di indegnità, di autobiasimo, di colpa eccessiva o inappropriatezza
(possono essere deliranti).
8) Idee persecutorie (possono essere deliranti).
9) Lamenti o evidenza di diminuita capacità di pensare o di concentrarsi, pensiero
rallentato o indecisione.
10) Dolori persistenti o sensazioni fisiche di affaticamento (sensazioni di calore, di
punture o vermicolari) diffuse o localizzate (alla testa).
11) Ricorrenti pensieri di morte, ideazione suicidiaria, voglia di essere morto o precedente tentativo di suicidio.
In ultima analisi, prendiamo in esame l’intervento terapeutico in ambito etnopsichiatrico. Ricordiamo che una persona affetta di qualsiasi malattia è, anzitutto, un
essere umano che ha diritto al rispetto e alla dignità.
Nel carcere di Pisa il 75% dei detenuti sono extracomunitari, ed il 30-40% presenta un disagio di evidente natura psicologico-psichiatrica e sono pertanto meritevoli di una presa in carico continuativa.
Spesso il programma terapeutico farmacologico non è interrotto, o seguito discontinuamente o utilizzato “al bisogno”, vissuto in sostanza come soluzione estemporanea dell’acuirsi del disagio.
Lo psichiatra per migliorare l’aderenza al programma dovrà fondare la pratica
terapeutica sull’accoglienza e l’ascolto; definire un gruppo di lavoro di tipo interdisciplinare caratterizzato dalla contemporanea presenza di più operatori (psichiatra,
psicologo, medico, educatore, assistente sociale e mediatore culturale).
L’ intervento etnopsichiatrico ha come finalità quella di arrivare ad una comprensione interdisciplinare ed eterogenea del problema portato dal paziente.
Tale processo passa necessariamente attraverso molteplici modelli epistemiologici ed ipotesi eziologiche che hanno la funzione di esaminare il caso da più punti
d’osservazione.
Emergono così percorsi terapeutici di vario genere verso cui s’indirizza il paziente. Il fine ultimo è quello di attivare una rete di sostegno e di supporto al difficile percorso terapeutico che il paziente dovrà intraprendere, consentendo una condivisione
del problema e una migliore risposta alla questione considerata.
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Oltre il Confine, la Memoria
Gli immigrati, il carcere e l’intervento psicologico.
Dott.ssa Eleonora Ragazzo
Esperta Psicologa CC Don Bosco, Pisa
Nella poesia “In memoria” del 1916 Giuseppe Ungaretti rivive la breve e triste
vicenda di un giovane amico:
“Si chiamava Moammed Sceab. Discendente di emiri di nomadi suicida perché
non aveva più Patria. Amò la Francia e mutò nome. Fu Marcel ma non era francese e
non sapeva più vivere nella tenda dei suoi dove si ascolta la cantilena del Corano gustando un caffè. E non sapeva sciogliere il canto del suo abbandono. L’ho accompagnato insieme alla padrona dell’albergo dove abitavamo a Parigi dal numero 5 della
rue des Carmes appassito vicolo in discesa. Riposa nel camposanto d’Ivry sobborgo
che pare sempre in una giornata di una decomposta fiera. E forse io solo so ancora
che visse” (Locvizza, il 30 settembre 1916).
I versi che compongono questa emblematica lirica sono incentrati su un fatto
riguardante la sfera personale dell’artista: la poesia rievoca la sfortunata vita di
Moammed Sceab, suicida nel 1913, con cui il poeta aveva condiviso la residenza di
Parigi in rue des Carmes. L’uomo (Moammed Sceab) si toglie la vita perché si sente
senza radici (dal francese: déraciné). Esule in Francia e nel proprio paese, subisce
una crisi di identità. Rimane come sospeso tra la tradizione, che ha lasciato alle spalle, e il nuovo orizzonte culturale, non sufficientemente interiorizzato. La condizione di
dericinè di Moammed rispecchia molto da vicino quella del poeta che, pur di origine
italiana, era nato in Egitto, da dove era successivamente emigrato in Francia. Anche
Ungaretti si era sentito “senza patria” in rue des Carmes.
Un individuo che decide di lasciare il proprio paese ha quasi sempre a che fare
con la scelta della separazione dal contesto familiare, affettivo, sociale e culturale di
origine, rompendo così un equilibrio. Anzieu nel 1989 parla di abbandono dell’”involucro protettivo”1 dei luoghi, dei suoni, dei colori, degli odori: la persona che parte e si
avventura in un paese sconosciuto rimane sospesa tra due culture, spesso totalmente
differenti. E ancora Massetti2, nel 1996, usa l’immagine dell’emigrato che strappa le
proprie radici dalla terra di origine e cerca un modo per reimpiantarsi nella nuova terra.
La decisione di lasciare il paese nativo rappresenta quindi un momento di rottura che è in sé contraddittorio. E’ pieno di sofferenza e altrettanto pieno di aspettative. La costruzione del progetto di emigrazione è spesso coltivata, nel luogo di
partenza, fin dall’infanzia ed è condivisa da tutto il contesto familiare e sociale di
appartenenza. Le speranze e le attese legate all’immaginario migratorio sono spesso
associate a fantasie di facili successi e di rapide emancipazioni sociali, i cui esiti
positivi gioveranno al destino di tutta la famiglia.
Si tratta di storie di vita e di disegni di espatrio che nascono e si evolvono all’interno di un’emigrazione programmata forzata (per motivi socioeconomici) che sono
in contrapposizione alla cosiddetta emigrazione non programmata forzata di rifugiati
politici o di profughi ambientali.
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Frequentemente è presente un conflitto tra la necessità di non rinunciare a se
stessi, alla propria identità e alla propria cultura e il bisogno di riconoscersi nel paese che lo accoglie, vivendo una situazione iniziale di solitudine e di chiusura in sé
stesso.
Parlare di immigrati significa spesso parlare di disagio e di sofferenza psichica.
Il migrante corre dei rischi dal punto di vista della sua salute psichica nella misura
in cui la separazione, la partenza, il viaggio, l’arrivo, quasi sempre in clandestinità,
creano situazioni di grande dolore.
Ogni immigrato porta con sé una storia unica ed irripetibile, una storia a sé, e
al tempo stesso esistono aspetti comuni a tante storie. Nel nuovo paese diventa
quasi una sfida il dovere di ridefinire il proprio progetto di vita, elaborare il lutto della
separazione dagli affetti, dal momento che non si conoscono né la lingua, né i codici
culturali e comportamentali, né tanto meno le dinamiche interne.
La gestione degli stress legati ai processi di adattamento e acculturazione, tipici
dei processi migratori risulta difficile, a volte impossibile, e ostacola pesantemente
la possibilità di un eventuale ritorno a casa. L’abbandono della propria terra, così
carico di valenze emotive e di significati, diventa spesso un percorso obbligatorio di
“solo andata”, il cui fallimento, reale o immaginario, prefigura il rifiuto e l’esclusione,
sia nel paese di arrivo che quello di provenienza.
Da un punto di vista sociologico, lo studioso William Thomas (1863-1947), nella
sua opera “Gli immigrati e l’America”3, pubblicata nel 1921 introduce la teoria de
“l’uomo marginale”. L’uomo marginale, infatti, è colui che sperimenta un’incongruenza tra il sistema culturale della comunità da cui proviene e quello della società in
arrivo, vivendola come una duplice perdita: di status, ossia di riconoscimento del
gruppo, e di senso del proprio sé, ossia del riconoscimento del ruolo all’interno del
gruppo. Thomas descrive la crisi che sopraggiunge quando il modello culturale con
cui l’immigrato interpretava il mondo non funziona più come un sistema indiscusso
di orientamento. Nel nuovo contesto sociale egli deve mettere in questione tutto ciò
che per gli altri è invece dato per scontato. E’ già in questo contesto che comincia
a farsi strada l’idea che preservare le radici e la memoria, attraverso il ruolo delle
associazioni e della stampa, possa essere un modo positivo di far fronte ai problemi
di inserimento degli immigrati e di influire sui processi di riorganizzazione sociale
(Rauty, 20004).
Da un punto di vista psicologico, d’altro canto, al processo migratorio si aggiungono alcune caratteristiche specifiche individuali che possono rappresentare sia
fattori di rischio che di protezione. Parlo degli aspetti di vulnerabilità psichica, delle
aspettative individuali e del nucleo di riferimento e del progetto migratorio stesso.
In una fase iniziale, in mancanza di una rete sociale di riferimento, si possono
determinare quindi rotture psicologiche profonde e fallimenti, anche definitivi.
Il “radicamento” nella propria tradizione comunitaria comporta l’assunzione dei
modelli culturali in essa dominanti. Poiché la persona ha appreso a guardare al mondo dall’interno di tali modelli cognitivi, l’individuo riesce ad orientarsi in esso senza
problemi, dando per scontato il senso di quello che fa e ciò che sa.
La differenza percepita dal gruppo e dallo straniero si riferisce appunto alla mancanza di un passato comune, di un sistema di riferimenti cognitivi e morali che perde
la sua validità nella nuova situazione: quella dell’incontro con la diversità.
Nell’ottica del gruppo, lo straniero è “senza storia”: egli infatti è “un nuovo arri40
vato”. Ad unire lo straniero al gruppo non è di certo il passato, una storia comune,
ma il presente. Al di là delle volontà individuali, questa diversità genera l’estraneità
reciproca. Quest’ultima può presentarsi sotto forma di tensione fra orientamenti culturali, ma anche come tensione pratica e, quindi, assumere gli aspetti del conflitto.
Non è difficile pensare a situazioni in cui si generano incomprensione ed ostilità
verso atteggiamenti di persone straniere che ci appaiono a volte inappropriati, sconvenienti e incivili.
Alcuni dati sulla permanenza in Italia degli immigrati sembrano sostenere l’ipotesi che il migrante sottoposto a condizioni di grave svantaggio sociale spesso fallisce
il progetto migratorio e si ritrova facilmente coinvolto nel mondo della microcriminalità: da qui ad arrivare al carcere il passo è molto breve.
In Italia, in vari campi, si è sviluppata, già da tempo, un’ampia letteratura sugli
approcci culturalmente differenziati ai soggetti stranieri. Basti pensare all’antropologia, all’etnopsichiatria alla sociologia, e così via. Per quanto riguarda l’ambito degli
immigrati nella realtà penitenziaria, la produzione scientifica continua ad essere, ad
oggi, molto frammentaria e ridotta.
Alcuni aspetti di sofferenza, di disadattamento, di deprivazione sociale e psicologica e di emarginazione, caratteristici di una persona che lascia il proprio paese si
amplificano all’interno di un carcere.
E’ da tempo noto come il carcere, inteso come una microsocietà, diventa, nella
stragrande maggioranza dei casi, nuova “cultura”, una università della devianza, un
luogo di diffusione di modelli comportamentali patologici, e poi, per rifarci a quella
triade di Clemmer5, della cosiddetta prisonizzazione, una dimensione di continua
esposizione a espressioni contaminanti.
La mancanza di intimità, la presenza pervasiva della autorità, un tempo livellato
e un livellamento comportamentale si traduce in quella sindrome di spersonalizzazione che il concetto di prisonizzazione di Clemmer riprende con forza e che è la cotè
carceraria della istituzione totale di Goffman6.
Goffman è stato il primo a parlare di “istituzioni totali”7, istituzione di tipo coattivo, dove in genere non si entra per libera scelta, come per l’appunto il carcere
Secondo le parole dell’autore, “un’istituzione totale può essere definita come il luogo
di residenza e di lavoro di gruppi di persone che, tagliate fuori dalla società per un
considerevole periodo di tempo, si trovano a dividere una situazione comune, trascorrendo parte della loro vita in un regime chiuso e formalmente amministrato”. Ed
ancora: “Uno degli assetti sociali fondamentali nella società moderna è che l’uomo
tende a dormire, a divertirsi e a lavorare in luoghi diversi, con compagni diversi, sotto
diverse autorità....Caratteristica principale delle istituzioni totali può essere appunto
ritenuta la rottura delle barriere che abitualmente separano queste tre sfere di vita.
Primo, tutti gli aspetti della vita si svolgono nello stesso luogo e sotto la stessa, unica autorità. Secondo, ogni fase delle attività giornaliere si svolge a stretto contatto
di un enorme gruppo di persone, trattate tutte allo stesso modo e tutte obbligate a
fare le medesime cose. Terzo, le diverse fasi delle attività giornaliere sono rigorosamente schedate secondo un ritmo prestabilito…Per ultimo, le varie attività forzate
sono organizzate secondo un unico piano razionale, appositamente designato al fine
di adempiere allo scopo ufficiale dell’istituzione”. Assistiamo quindi al dannoso fenomeno della depersonalizzazione e alla violazione della individualità, della capacità
di scelta e di autodeterminazione.
41
Foucault nella sua opera “Sorvegliare e punire”8 ribadisce che il carcere produce
una “tecnologia di controllo sul corpo e l’anima del detenuto. La negazione dell’individuo: religiosa e culturale porta all’integralismo con tutto ciò che ne consegue, di
per sé il carcere, quale istituzione totale, contiene devianza e criminalità e al tempo
stesso la alimenta e la produce”.
In carcere il livello di rischio per la salute fisica e psichica dell’individuo aumenta. Le persone che sono maggiormente in difficoltà sono quelle già vulnerabili, o
perché portatori di patologie psichiche e/o fisiche, o dipendenti da sostanze o molto
giovani e alla prima carcerazione o immigrati, spesso clandestini. Alcune persone
lasciano il proprio paese in cerca di fortuna, altri perché già isolati ed emarginati,
alcoldipendenti o tossicodipendenti, altri ancora già devianti.
Questi aspetti si possono anche riunire in un’unica persona, che nella maggior
parte dei casi vive la situazione detentiva in un profondo isolamento e disperazione,
indipendentemente dalla tipologia delle manifestazioni comportamentali che gli operatori osservano frequentemente.
Il mio lavoro di Psicologa all’interno degli Istituti penitenziari, in questi ultimi anni,
mi ha permesso di contattare un numero sempre più crescente di immigrati detenuti
provenienti dall’Algeria, dal Marocco, dalla Tunisia, dall’Albania, dalla Romania,dalla
ex Yugoslavia e, in misura minore, da altri Paesi.
Gli aspetti sopra descritti legati al processo migratorio e a situazioni detentive
nelle quali gli immigrati detenuti si vengono a trovare determinano una condizione di
profonda solitudine ed un ripiegamento su sé stessi.
Se già di per sé il carcere rappresenta una rottura con il resto della società e
con la propria vita, per un immigrato lo è ancora di più. Spesso non conosce la lingua
e i codici comportamentali e culturali, non ha legami affettivi all’esterno, non ha
speranze o prospettive future, sopratutto chi vive una situazione di clandestinità e di
emarginazione sociale. Per la gran parte delle persone private della libertà i ritmi del
carcere rigidamente strutturati vengono “interrotti” dalle visite di familiari e amici, dai
contatti epistolari e telefonici, dai contatti con l’avvocato, la speranza di una misura
alternativa. Possiamo dire che tutta la quotidianità è polarizzata su questi aspetti che
scandiscono i “ritmi interni” dei detenuti ai quali si aggiunge l’importanza delle risorse economiche che permettono di ricoprire un certo ruolo nella gerarchia detentiva.
Il detenuto immigrato spesso non ha nessuno che fuori aspetta, la famiglia di origine
è lontana e può non essere a conoscenza della detenzione, non hanno contatti telefonici o epistolari, i rapporti con gli avvocati sono difficili per la scarsa conoscenza
della lingua e del sistema carcerario e giuridico, non hanno denaro nè vestiti. I loro
ritmi interni sono scanditi dalla solitudine, dalla paura, dalla disperazione, dalla rabbia. E’ difficile che abbiamo prospettive future, difficilmente hanno accesso a misura
alternative.
Il tempo della detenzione diventa il tempo della vita, scandito dal ritmo imposto
dal sistema, dalle regole, dalla difficoltà di capirne il funzionamento e la complessità,
dalla difficoltà nei rapporti con gli altri detenuti italiani o di altre nazionalità, nei rapporti con la polizia penitenziaria. Il carcere è un mondo nel mondo, che é a sua volta
un mosaico di piccoli mondi separati. Questo genera conflitto, tensioni e aumentano
il profondo senso di solitudine e di angoscia. Alle problematiche della detenzione,
per gli stranieri, si aggiunge la sofferenza psicopatologica connessa al disagio della
migrazione che da espatrio può essere vissuto come allontanamento dalla patria. Il
42
tempo della detenzione diventa luogo di bilancio e riflessione dolorosa sul progetto
migratorio ed i suoi risultati, la nostalgia verso il passato e il legame con la famiglia
riaffiora in modo acuto e straziante.
Sono questi i detenuti più problematici in quanto presentano in maniera ricorrente comportamenti dismetrici, gesti auto ed eterolesivi, appetibilità verso i farmaci
e difficoltà di adattamento all’ambiente ed alla convivenza con gli altri detenuti, soprattutto italiani. Con frequenza a volta ciclica vengono ogni giorno compiuti agiti auto
lesivi (ingestione di corpi estranei, tagli, e tentativi di suicidio).
Lo Psicologo che lavora in carcere si confronta ripetutamente con atteggiamenti
caratteristici della popolazione detenuta: impulsività, tendenze antisociali, tendenza
alla compulsione e alla collera e l’incapacità di pianificare e di prendere decisioni
sui diversi aspetti della vita, bassa tolleranza alle frustrazioni. Questa situazione
determina il compimento di gesti auto ed eterolesivi più o meno gravi che impegnano
quotidianamente i vari operatori.
Con i detenuti stranieri gli operatori possono non riuscire a dare risposte efficaci
e si possono sentire inadeguati e bloccati dall’impossibilità di utilizzare per gli stessi
le risorse e i metodi che vengono adottati con i detenuti italiani.
Sappiamo bene come lo strumento clinico per eccellenza sia rappresentato dal
colloquio. Gran parte del nostro lavoro viene espresso attraverso il linguaggio. Antonio Semi9 individua essenzialmente tre regole del colloquio clinico. La prima è quella
del linguaggio, segue quella della frustrazione ed infine la regola della reciprocità.
Secondo l’autore un buon clinico deve osservarle tutte e tre. In questa sede mi limiterò ad illustrare i caratteri della regola del linguaggio.
Di norma il linguaggio che utilizziamo durante un incontro deve essere quello del
paziente. Nella conduzione di un colloquio in una lingua estranea alla vita quotidiana ed emotiva del paziente si deve tener conto che certamente questa interazione
avverrà all’insegna del distanziamento. Pensiamo quindi alla poca vicinanza che ci
può essere durante un colloquio con un emigrato, che magari conosce pochissimo la
nostra lingua. Alcuni istituti penitenziari ormai da tempo si avvalgono della figura del
mediatore culturale. Spesso gli operatori utilizzano tali figure professionali anche per
la traduzione durante i colloqui. Non dimentichiamo, però, che nonostante la traduzione possa permetterci di capire di più, non è detto che possa ridurre il distanziamento
determinato dalla diversa lingua madre, dagli aspetti culturali, dai codici comunicativi
e comportamentali, e così via.
Obiettivo prioritario di ogni colloquio clinico è quello di creare una relazione tra
le persone coinvolte. Ciò deve tenere conto anche della specificità e delle caratteristiche del contesto all’interno del quale queste due persone si incontrano. Essenziale è anche la finalità del colloquio stesso che deve essere chiara ed esplicita fin
dall’inizio. Il concetto di colloquio è legato a quello di ascolto. Occorre porre ascolto
alla presentazione che la persona fa di sé, al suo particolare ed unico modo di usare
la propria mente. Dato che si tratta di un incontro tra due persone all’interno di un
contesto che stabiliscono una relazione è importante trasmettere il sentimento del
nostro profondo rispetto per lui e per ciò che vive al di fuori della stanza del colloquio.
Sarà pure possibile mentire all’uomo su qualsiasi argomento che riguardi la realtà
esterna, ma non è possibile mentire sulla propria realtà psichica.
L’analisi psicologica con gli immigrati ha la funzione di valutare il complesso
intreccio fra le variabili di tipo culturale e la storia personale del soggetto conside43
rando l’evoluzione dei legami d’attaccamento e le abilità di autoregolazione emotiva
sviluppate dal soggetto nel corso della vita. Il processo terapeutico ha l’obiettivo di
sviluppare e migliorare queste competenze rilanciando un progetto esistenziale più
fattibile e coerente. Si deve trattare la dimensione culturale come veicolo di riappropriazione di legami di appartenenza negati da tempo. Bisogna rivedere l’abbandono
della famiglia e della terra di origine. L’obiettivo clinico prioritario diviene quello di
aiutarli a sviluppare strategie autoregolative mediante il controllo e il monitoraggio
metacognitivo.
L’intervento dovrà servire da stimolo, orientamento e supporto ad un processo di cambiamento, necessariamente lungo, che procede in modo non lineare, e
permettere l’acquisizione della capacità di riflettere sui propri pensieri, cosiddetta
mentalizzazione.
Alcune situazioni richiedono una presa in carico strutturata che, a mio avviso,
è possibile realizzare utilizzando un modello di intervento differenziato (I e II Livello)
in grado di rispondere alla specificità del singolo detenuto immigrato e del contesto
istituzionale nel quale si presta la propria attività ovvero il carcere.
Per quanto attiene agli interventi di I Livello, in considerazione delle caratteristiche della popolazione immigrata detenuta, è necessario mettere a punto azioni
di contenimento delle emergenze soggettive (gesti auto e/o eterolesivi) attraverso
colloqui tempestivi e frequenti al fine di ridurre ulteriori rischi ed intervenire efficacemente nelle situazioni di acuzie. Sono attività a carattere prevalentemente di
sostegno psicologico finalizzato ad una prima rielaborazione di ciò che è accaduto
e all’esplorazione degli stati emotivi che hanno alimentato e hanno avuto un ruolo
cruciale nell’esordio del comportamento impulsivo. In questa fase risulta di fondamentale importanza il raccordo e la collaborazione con gli altri operatori, sanitari e
non, al fine di individuare e condividere strategie a breve termine efficaci.
Gli Interventi di II Livello sono misure terapeutiche, più sistematizzate che comportano una vera e propria presa in carico protratta nel tempo finalizzata al controllo
dell’aggressività mediante l’analisi dei conflitti di base intorno ai quali la persona ha
organizzato i suoi comportamenti sintomatici.
Hinshelwood10 sostiene che il fattore terapeutico atto a neutralizzare gli agiti
drammatizzati, a cui le persone in una particolare situazione inevitabilmente danno
vita, sia la verbalizzazione. Come prevede tale approccio, bisogna cercare, superando laddove possibile l’ostacolo della lingua, di valorizzare la “pensabilità degli eventi”. Il disagio manifestato da alcuni detenuti stranieri attraverso agiti abbastanza
tipici (tagli, ingestione corpi estranei, sciopero della fame, ecc), deve essere letto
come un’impasse del pensiero nei confronti di qualcosa di non assimilabile e quindi
non suscettibile di trasformazione. L’azione risulta essere quindi l’unico linguaggio
che essi hanno a disposizione. Alcuni detenuti stranieri si sentono talmente oppressi dall’intensità dei loro stati affettivi che gli agiti rappresentano l’unica via per
ottenere un sollievo. Tale modalità risulta egosintonica, nel senso che essi sono
frequentemente inconsapevoli del fatto che i loro comportamenti siano motivati
dai sentimenti. La loro esperienza consapevole è che gli impulsi semplicemente
emergono “dal nulla”. Pertanto è necessario indagare gli stati affettivi precipitanti
e connetterli con il comportamento agito.
Il racconto del percorso migratorio, dal progetto di viaggio, dal contesto di appartenenza fino ad arrivare, in alcuni casi, alla raccolta della storia individuale e
44
familiare, diventa il recupero di una dimensione personale a partire dall’incontro con
l’operatore che evidenzia i punti in comune in luogo delle differenze e difficoltà.
Si attiva così la presa in carico del dolore della lontananza, della delusione
dell’abbandono, con l’obiettivo di guidare la persona verso un orizzonte di riappacificazione con la realtà lasciata e con la propria storia di migrazione, ripercorrendo anche le tappe dell’incontro con la microcriminalità, le sostanze e le condotte devianti.
Uno degli strumenti importanti di ogni intervento terapeutico, indipendentemente dal modello teorico di riferimento, è la relazione che si stabilisce tra terapeuta e
paziente all’interno della quale è possibile creare esperienze emotivamente correttive supportando la persona ad affrontare gradualmente i conflitti di base intorno
ai quali egli ha organizzato i suoi meccanismi difensivi e le condotte dismetriche.
L’obiettivo è quello di favorire:
• il contatto con la realtà interna, con le emozioni, in particolare con il dolore psichico;
• il contatto con la realtà esterna ovvero la possibilità di integrarla con i dati
dell’esperienza interna per attivare un processo di pensiero e di verbalizzazione;
• la possibilità di stabilire una relazione positiva e di fiducia;
• la possibilità di elaborare sul piano mentale (simbolico e verbale) i contenuti
emotivi.
Ritengo che, anche all’interno della realtà carceraria, quanto più uno straniero
sia in grado di riconoscere e comprendere le pulsioni o le fantasie distruttive che
frequentemente attiva all’interno della relazione, tanto più aumenta la possibilità
che egli sia in grado di utilizzare meccanismi difensivi più “maturi ed evoluti”che gli
consentano di controllare emozioni ed impulsi e tollerare la frustrazione senza dover
ricorrere a comportamenti sintomatici.
45
Il Mediatore culturale all’interno del carcere
Dott.ssa Fatena Ahmad
Mediatore culturale Casa Circondariale di Pisa
Il 18 luglio 2009 il Prof. Ceraudo, Direttore del Presidio Sanitario all’interno della
Casa Circondariale di Pisa, mi ha invitata nel suo Ufficio e ha cominciato a parlare
con me dell’importanza e del ruolo del mediatore culturale all’interno dell‘istituto
specialmente all’interno dell’Area Sanitaria, dove le esigenze dei detenuti extracomunitari sono maggiori, in quanto sono malati e mi ha chiesto di descrivere la mia
esperienza .
Sono la Mediatrice Culturale di lingua araba presso la Casa Circondariale di
Pisa: laureata in Farmacia alla Facoltà degli Studi di Pisa, ho fatto il Dottorato di Ricerca sempre nella stessa Facoltà e nello stesso campo, e ho fatto delle esperienze
come mediatrice culturale nelle scuole e in altre varie occasioni.
Ho tradotto anche dei testi dall’arabo in italiano e viceversa: oltre che conoscere
l’arabo classico conosco anche un po’ di dialetto maghrebino, il che mi rende più
facile il lavoro.
Il mediatore culturale dal mio punto di vista è una figura importante che fa da
ponte tra il paese d’origine nei suoi vari aspetti (lingua, cultura, costumi e consuetudini ecc...) e il paese di accoglienza, dopo aver fatto un percorso non facile di
integrazione (imparando la lingua del paese ospite, comprendendone la cultura, adeguandosi al costume, comprendendo le consuetudini).
La presenza in questo tipo d’istituto gli conferisce un peso e una responsabilità in quanto deve entrare a fondo nel suo ruolo di mediatore, essere all’altezza di
soddisfare le richieste dell’amministrazione e i beneficiari di questo servizio creato
apposta per loro, compito non facile a mio avviso in un ambiente così particolare che
richiede molto impegno ed attenzione.
Poiché il mediatore, come ho già detto, aveva fatto in prima persona il percorso e l’esperienza dell’ immigrato con tutte le difficoltà e i disagi, nessuno meglio
di lui potrà capire una persona che parla male la lingua del posto, e che si trova in
difficoltà per questo motivo e per una serie di problemi da affrontare (il permesso di
soggiorno, la casa, il lavoro, la salute ecc).
Le leggi che regolano la permanenza sul territorio nazionale sono molto complesse e richiedono il possesso di un regolare permesso di soggiorno per trovare
un lavoro, il che non è facile e a volte può indurre gli immigrati alla ricerca di fonti
economiche altrove (ad esempio nel mondo della droga), motivo per cui molti di loro
sono detenuti .
Vorrei cominciare dalla sezione femminile in quanto sono donna e posso capire
meglio certi disagi e preoccupazioni, in primo luogo per la famiglia, e poi per lo stato
d’animo di queste donne che all’uscita dal carcere dovranno affrontare la reazione
e i pregiudizi della loro comunità, che renderà loro molto difficile un reinserimento
nella normalità.
47
Un mediatore all’ interno del carcere e nell’Area Sanitaria in particolare, deve
cercare di capire la situazione precisa del detenuto, in particolare dal punto di vista
psicologico, tenendo presente il percorso difficile e rischioso che ha dovuto affrontare per poi finire li: ci sono molti ad esempio che sono arrivati in modo irregolare per
cercare un avvenire migliore, spesso via mare, legati sotto il camion, con le navi di
merci. Hanno deciso di lasciare tutto e rischiare la vita per cercare un lavoro che è
risultato un traguardo quasi impossibile.
Uno degli aspetti negativi che mi ha colpito è il tentativo di farsi del male, in
rare situazioni per fortuna, tagliandosi con le lamette, oppure ingoiandole, un modo
secondo loro per attirare l’attenzione, oppure minacciando di impiccarsi e farla finita.
Questo avviene o perché sentono di aver subito un’ingiustizia o per il mancato arrivo
di un documento giuridico, oppure perché hanno delle malattie serie che sono difficili
da curare nel paese d’origine per il costo dei medicinali: in questo caso sono senza
permesso di soggiorno e quindi hanno bisogno di un rapporto medico che dichiara
la loro situazione di salute di tale gravità da chiedere un permesso di soggiorno per
cure mediche.
Alcuni si sentono ancora più emarginati in quanto sono detenuti e malati e in più
lontani dai familiari, e sentono ancora di più il disagio per la mancanza di colloqui.
La difficoltà più nota è l’aspetto economico in quanto si trovano senza soldi, e
senza parenti che possono provvedere alle loro esigenze per loro importanti come
vestiti, sigarette, ecc.
Un mediatore di lingua araba all’interno del carcere si trova in una situazione
particolare: nella maggior parte dei casi le persone di lingua araba sono di religione Islamica, e questo comporta una serie di usanze, abitudini alimentari e modi di
fare che il mediatore deve capire e di cui deve farsi portatore davanti al personale
dell’istituzione.
Sotto questo aspetto posso citare la questione del cibo (es. la carne halal che
deve essere preparata secondo il rito islamico): io l’ho fatto presente al commissario
e mi ha detto che lo prenderà in considerazione e cercherà di esaudire questa richiesta. E’ importante anche l’orario della preghiera, che varia ogni mese perché cambia
secondo la luna.
Durante il Ramadan, il mese sacro per i musulmani, sono aumentate le richieste
di avere il Corano: abbiamo chiesto l’autorizzazione ed è stato messo in biblioteca
dell’istituto a disposizione dei detenuti.
Molti hanno chiesto dei libri nella lingua d’origine in quanti si trovano in difficoltà
con la lingua italiana e la lettura per loro è un altro modo per passare il tempo.
Un numero discreto di detenuti arriva da paesi abbastanza poveri o in particolare
da famiglie povere, e quindi non ha ricevuto un‘ adeguata istruzione, e questo allarga
ancora di più la distanza anche con il mediatore che si trova in difficoltà di comunicare con loro, e deve cercare con pazienza di fargli capire certe questioni.
Anche se la mia esperienza personale è di breve durata, posso dire che mi piace
lavorare nel sociale e trovo interessante rendersi utile alla società chi mi ha accolto,
cercando di fare da ponte per avvicinare i punti da vista.
Una esperienza tutta da fare, da vivere, da imparare, da approfondire e su cui
riflettere in quanto si tratta di aiutare delle persone in difficoltà.
Posso dire che mi sono trovata bene con tutto il gruppo dell’Istituto a cui va il
mio ringraziamento (Dirigenti, commissario, ispettori, gli educatori con i quali il mio
48
lavoro si incrocia direttamente): mi hanno fatto sentire a mio agio, mi hanno dato
un ampio spazio dandomi la carica e lo stimolo per svolgere ancora del mio meglio
questo ruolo.
Finisco come ho iniziato citando la figura del Prof. Ceraudo, chi mi chiesto di
portare la mia testimonianza e colgo l’occasione per ringraziarlo, per aver percepito
il mio modesto ruolo all’interno della struttura.
49
Detenuti stranieri presenti distribuiti per nazionalità situazione al 31/01/2009
NAZIONE
Donne
uomini
totale
AFGHANISTAN
0
5
5
AFRICA del SUD
2
10
12
ALBANIA
34
2582
2616
ALGERIA
2
1105
1107
ANGOLA
0
3
3
ANTIGUA e BARBUDA
0
1
1
ANTILLE OLANDESI
0
2
2
ARABIA SAUDITA
0
2
2
ARGENTINA
8
55
63
ARMENIA
1
4
5
AUSTRALIA
0
4
4
AUSTRIA
5
4
9
PALESTINA
0
137
137
AZERBAIJAN
0
4
4
BAHAMAS
0
2
2
BANGLADESH
0
32
32
BELGIO
7
31
38
BENIN
2
6
8
BERMUDA
0
1
1
BIELORUSSIA
0
5
5
BOLIVIA
7
40
47
BOSNIA
56
162
218
BRASILE
23
137
160
BRUNEI
0
1
1
BULGARIA
19
151
170
BURKINA FASO
0
17
17
BURUNDI
0
11
11
CAMERUN
2
10
12
CANADA
0
6
6
CAPO VERDE
0
7
7
CECA REPUBBLICA
1
15
16
CECOSLOVACCHIA
0
4
4
CIAD
0
1
1
CILE
8
112
120
CINA
35
306
341
CIPRO
0
1
1
COLOMBIA
23
117
140
50
CONGO
3
20
23
COREA
0
1
1
COSTA D’AVORIO
5
67
72
COSTARICA
0
3
3
CROAZIA
17
109
126
CUBA
3
15
18
DANIMARCA
0
1
1
DOMINICA.
1
4
5
DOMINICANA REP.
33
157
190
ECUADOR
6
114
120
EGITTO
0
379
379
EL SALVADOR
3
10
13
ERITREA
0
28
28
ESTONIA
0
14
14
ETIOPIA
0
14
14
FILIPPINE
7
50
57
FRANCIA
16
122
138
NAZIONE
Donne
uomini
totale
GABON
0
122
122
GAMBIA
1
180
181
GEORGIA
2
53
55
GERMANIA
10
107
117
GHANA
12
137
149
GIAMAICA
1
3
4
GIAPPONE
1
3
4
GIORDANIA
0
8
8
GRAN BRETAGNA
2
20
22
GRECIA
9
46
55
GUATEMALA
1
4
5
GUINEA
0
41
41
GUINEA BISSAU
1
6
7
GUINEA EQUATORIALE
0
1
1
HONDURAS
1
2
3
HONG KONG
0
7
7
INDIA
0
88
88
INDONESIA
0
1
1
IRAN
0
23
23
IRAQ
0
96
96
IRLANDA
0
3
3
ISRAELE
1
12
13
51
KAZAKHISTAN
1
1
2
KENIA
2
6
8
LAOS
0
1
1
LETTONIA
1
0
1
LIBANO
1
32
33
LIBERIA
3
88
91
LIBIA
0
30
30
LITUANIA
3
59
62
LUSSEMBURGO
0
2
2
MACEDONIA
4
106
110
MAGADASCAR
0
1
1
MALDIVE
0
1
1
MALESIA
2
11
13
MALI
0
20
20
MALTA
1
2
3
MAROCCO
49
4791
4840
MAURITANIA
0
30
30
MAURITIUS
0
1
1
MESSICO
3
13
16
MOLDOVA
10
207
217
MONGOLIA
5
2
7
MOZAMBICO
0
1
1
NIGER
2
11
13
NIGERIA
190
790
980
NORVEGIA
0
1
1
NUOVA ZELANDA
0
1
1
OLANDA
6
46
52
PAKISTAN
0
120
120
PANAMA
0
2
2
PARAGUAY
5
13
18
PERU
30
152
182
POLONIA
19
194
213
PORTOGALLO
1
13
14
ROMANIA
204
2485
2689
NAZIONE
Donne
uomini
totale
RUANDA
0
14
14
RUSSIA
10
57
67
SAHARA OCC.
0
1
1
SENEGAL
6
366
372
SEYCHELLES
0
2
2
52
SIERRA LEONE
4
47
51
SIRIA
0
15
15
SLOVACCHIA
2
18
20
SLOVENIA
5
44
49
SOMALIA
4
33
37
SPAGNA
7
91
98
SRI LANKA
0
42
42
STATI UNITI
8
18
26
SUDAN
1
61
62
SURINAME
1
2
3
SVEZIA
0
4
4
SVIZZERA
3
29
32
TAILANDIA
5
1
6
TANZANIA
2
29
31
TIMOR OR.
0
1
1
TOGO
0
10
10
TRINIDAD
0
1
1
TUNISIA
15
2618
2633
UCRAINA
15
52
67
UGANDA
0
1
1
UNGHERIA
4
41
45
URSS
0
2
2
URUGUAY
11
41
52
UZBEKISTAN
0
1
1
VENEZUELA
3
54
57
VIETNAM
0
2
2
YEMEN
0
1
1
YUGOSLAVIA
61
523
584
ZAIRE
0
3
3
ZAMBIA
0
1
1
ZIMBABWE
0
1
1
Non rilevato
2
10
12
1082
20634
21716
53
54
DETENUTI STRANIERI: INGRESSI PER ANNO E PRESENTI IN CARCERE AL 31 DICEMBRE, DAL 1991 AL 2007*
,
75.786
93.328
98.119
98.245
88
88.415
415
87.649
88.305
87.134
87.862
81.397
78.649
81.185
81.790
82.275
89.887
90.714
*91.620
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
*2007
13.142
15.719
20.723
24.715
23
23.723
723
24.652
26.976
28.731
29.361
28.621
28.114
30.150
31.852
32.249
40.606
43.288
*43.849
Ingressi stranieri
17,34
16,84
21,12
25,16
26
26,83
83
28,13
30,55
32,97
33,42
35,16
35,75
37,14
38,94
39,21
45,17
47,72
47,86
% ingressi stranieri
35.469
47.316
50.348
51.165
46
46.908
908
47.709
48.495
47.811
51.814
53.165
55.275
55.670
54.237
56.068
59.523
39.005
*48.809
Totale presenti
5.365
7.237
7.892
8.481
8
8.334
334
9.373
10.825
11.973
14.057
15.582
16.294
16.788
17.007
17.819
19.836
13.152
*18.073
Presenti stranieri
15,13
15,30
15,67
16,58
17
17,77
77
19,65
22,32
25,04
27,13
29,31
29,48
30,16
31,36
31,78
33,32
33,72
37,03
% presenti stranieri
(Indulto; L. 241/2006)
(Legge "Bossi ‐ Fini")
(Legge "Martelli")
Legislazione vigente
* Proiezioni basate sui dati del I° semestre (45 810 ingressi di cui 23 822 italiani e 21 888 stranieri; 43 957 presenti di cui 27 681 italiani e 16 276 stranieri
* Proiezioni basate sui dati del I° semestre (45.810 ingressi, di cui 23.822 italiani e 21.888 stranieri; 43.957 presenti, di cui 27.681 italiani e 16.276 stranieri. Totale ingressi
Anni
Elaborazione del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia
Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria
Ingressi in carcere di detenuti stranieri dal 1991 al 2007 (valori percentuali rispetto al totale degli ingressi)
60
50
47,72
45,17
47,86
38,94
40
39,21
37,14
35,16
32,97
28,13
30
30,55
35,75
33,42
25,16
26,83
21,12
20
17,34
16,84
10
0
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
*2007
2007
* Proiezione basata sui dati del primo semestre (45.810 ingressi, di cui 23.822 italiani e 21.888 stranieri)
Presenze in carcere di detenuti stranieri dal 1991 al 2007 (al 31 dicembre) (valori percentuali rispetto al totale delle presenze)
40,00
37,03
35,00
33,32
31,36
30,16
29 31
29,31
30,00
25,04
25,00
31 78
31,78
33,72
29,48
27,13
22,32
19,65
20,00
16,58
15,67
15 00
15,00
15,13
17,77
15,30
10,00
5,00
0,00
,
1991
1992
1993
1994
1995
1996
1997
1998
1999
2000
2001
2002
2003
2004
2005
2006
*2007
* Proiezione basata sui dati del primo semestre (43.957 presenti, di cui 27.681 italiani e 16.276 stranieri). 55
DETENUTI STRANIERI: INGRESSI IN CARCERE PER REATI DI CUI AL T.U. IMMIGRAZIONE ED ESPULSIONI COME MISURA ALTERNATIVA
Elaborazione del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia
Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria
Anni
Espulsioni come misura alternativa
2002
2003
2004
2005
2006
Detenuti solo per reati di cui al T.U. Immigr.
Detenuti solo per reati connessi a espulsione
1.137
2.896
3.295
13.654
14.855
14 8
293
1.659
2.029
4.808
6.597
6 9
449
1.161
1.038
1.242
1.012
1 012
1.012
2006
6 597
6.597
1.242
2005
1.038
2004
2.029
14.855
4.808
13.654
Espulsioni come misura alternativa
Detenuti solo per reati connessi a espulsione
3.295
Detenuti solo per reati di cui al T.U. Immigr.
1.161
1.659
2003
449
293
2002
0
56
2.896
1.137
2.000
4.000
6.000
8.000
10.000
12.000
14.000
16.000
57
DETENUTI STRANIERI CON SENTENZE DEFINITIVE: REATI ASCRITTI DAL 2002 AL 2007
* Dati riferiti al primo semestre
Totale reati
Totale reati
Contro il patrimonio
T.U. Stupefacenti
Contro la persona
Fede pubblica
Fede pubblica
Contro la P.A.
Legge armi
T.U. Immigrazione Prostituzione
O di
Ordine pubblico
bbli
Libro terzo delle contravvenzioni
Contro l'amm.ne della giustizia
Altri reati
233 789
233.789
64.442
60.423
42.395
13.323
12.109
11.135
9.792
5.783
3.859
3 859
2.966
2.743
4.819
Totale 5 anni
Totale 5 anni
100 00
100,00
27,56%
25,85%
18,13%
5,70%
5,18%
4,76%
4,19%
2,47%
1,65%
1 65%
1,27%
1,17%
2,06%
% (media 5 anni)
% (media 5 anni)
39 427
39.427
10.803
11.029
6.406
2.436
1.996
2.099
1.141
1.143
678
537
410
749
2002
40 319
40.319
11.103
10.905
7.028
2.427
2.077
2.063
1.216
1.119
644
516
471
750
2003
42 734
42.734
12.100
11.340
7.686
2.626
2.318
1.923
1.060
1.124
653
556
538
810
2004
48 146
48.146
12.989
11.663
8.480
3.144
2.531
2.137
3.218
1.078
734
654
668
850
2005
Elaborazione del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia
Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria
29 596
29.596
7.850
7.107
6.197
1.381
1.408
1.389
1.628
630
566
328
305
807
2006
33 567
33.567
9.597
8.379
6.598
1.309
1.779
1.524
1.529
689
584
375
351
853
2007*
REATI ASCRITTI AI DETENUTI STRANIERI DAL 2002 AL 2007
Altri reati
Altri reati
4.819
4 819
Contro l'amm.ne della giustizia
2.743
Libro terzo delle contravvenzioni
2.966
Ordine pubblico
3.859
Prostituzione
5.783
T.U. Immigrazione 9.792
Legge armi
11.135
Contro la P.A.
12.109
Fede pubblica
13.323
Contro la persona
Contro la persona
42.395
42 395
T.U. Stupefacenti
60.423
Contro il patrimonio
64.442
0
58
10.000
20.000
30.000
40.000
50.000
60.000
70.000
59
61.720
n.d. n.d. n.d. n.d. 44.121
2.846
5.007
2.858
n.d. n.d. n.d. n.d. nd
n.d. 1998
64.444
11.399
12.556
12.036
520
40.489
2.571
8.847
3.902
n.d. n.d. n.d. n.d. nd
n.d. 1999
88.570
8.438
15.398
15.002
396
64.734
3.206
9.768
3.134
n.d. n.d. n.d. n.d. nd
n.d. 2000
92.561
12.751
21.639
21.266
373
58.171
2.251
14.993
4.437
n.d. n.d. n.d. n.d. nd
n.d. 2001
105.988
17.019
25.226
24.799
427
53.125
2.273
17.469
6.372
13.094
667
12.427
605
169
2002
77.583
9.901
19.729
18.844
885
9.378
7.535
13.863
7.021
36.810
2.009
34.801
3.330
1 216
1.216
2003
77.517
7.996
17.200
16.270
930
9.524
6.945
16.465
8.939
40.399
2.147
38.252
4.778
1 532
1.532
2004
[A] Totale soggetti arrestati o denunciati successivamente a un ordine del Questore ancora attivo (per qualsiasi reato)
[B] Totale soggetti arrestati o denunciati successivamente a un ordine del Questore ancora attivo per violazioni di una norma relativa alle leggi sull'immigrazione
Rintracciati al netto dei respinti alla frontiera
Riammessi da paesi coi quali vigono accordi Espulsi con accompagnamento alla frontiera di cui espulsioni su provved.to Aut. Di P.S. di cui espulsioni su conforme provv.to dell'A.G. Intimati d'espulsione di cui ottemperanti Transitati nei CPT di cui espulsi di cui espulsi
Destinatari di un ordine del Questore
di cui ottemperanti di cui non ottemperanti
di cui non ottemperanti e arrestati [A]
di cui non ottemperanti e arrestati [B]
di cui non ottemperanti e arrestati [B]
Anni IMMIGRATI IMMIGRATI "IRREGOLARI"
IRREGOLARI RINTRACCIATI E DESTINATARI DI PROVVEDIMENTI DI ESPULSIONE
RINTRACCIATI E DESTINATARI DI PROVVEDIMENTI DI ESPULSIONE
Elaborazione del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero dell'Interno
Dipartimento della pubblica sicurezza ‐ Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere
96.045
10.295
16.690
15.644
1.046
5.514
2.585
16.055
11.081
59.059
2.741
56.318
7.117
2 762
2.762
2005
101.704
8.293
13.397
12.562
835
4.065
214
12.842
7.350
73.497
2.182
71.315
10.453
3 736
3.736
2006
Detenuti presenti al 4 maggio 2009
Detenuti presenti al 4 maggio 2009
Serie storica detenuti presenti, dall'indulto ad oggi
Elaborazioni del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia ‐ Dap
0
30‐lug‐06
60.710
10.000
31‐dic‐06
39.005
20.000
30‐giu‐07
43.957
30.000
31‐dic‐07
48.693
40.000
30‐giu‐08
55.057
50.000
31‐dic‐08
58.127
28‐apr‐09
62.057
60.000
30‐lug‐06
70.000
60.710 (indulto)
31‐dic‐06
39.005
30‐giu‐07
43.957
31‐dic‐07
48.693
30‐giu‐08
55.057
31‐dic‐08
58.127
4-mag-09
62.057
Detenuti presenti al 4 maggio 2009 ‐ Affollamento per Regione
Affollamento per Regione
Detenuti presenti al 4 maggio 2009 Elaborazioni del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia ‐ Dap
Regioni
Abruzzo Basilicata Calabria Campania Emilia Romagna Friuli V.G.
Lazio Liguria Lombardia Marche Molise Piemonte Puglia Sardegna Sardegna
Sicilia Toscana Trentino A.A. Umbria Valle D'Aosta Veneto Totale 60
Capienza regolamentare
1.475
439
1.778
5.348
2.308
548
4.449
1.140
5.423
755
356
3.355
2.510
1.957
1 957
4.820
3.076
256
1.086
181
1.917
43.177
Capienza Detenuti presenti al "tollerabile"
tollerabile
4 maggio 2009
4 maggio 2009
2.247
1.606
671
638
2.977
2.580
7.051
7.425
3.796
4.436
841
849
6.486
5.588
1.594
1.549
8.304
8.382
1.040
1.095
510
398
5.278
4.806
3.917
4.064
2.643
2 643
2.128
2 128
7.156
7.601
4.245
4.140
294
359
1.483
1.085
188
221
2.902
3.107
63.623
62.057
Tasso di sovraffollamento
109%
145%
145%
139%
192%
155%
126%
136%
155%
145%
112%
143%
162%
109%
158%
135%
140%
100%
122%
162%
144%
Detenuti presenti al 4 maggio 2009 ‐ Affollamento per tasso
Affollamento per tasso
Detenuti presenti al 4 maggio 2009 Elaborazioni del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia ‐ Dap
Regioni
g
Emilia Romagna Veneto Puglia Sicilia Friuli V.G.
Lombardia Basilicata Calabria Marche
Marche Piemonte Trentino A.A. Campania Liguria Toscana Toscana
Lazio Valle D'Aosta Molise Abruzzo Sardegna Umbria Totale Capienza regolamentare
l
t
2.308
1.917
2.510
4.820
548
5.423
439
1.778
755
3.355
256
5.348
1.140
3.076
3 076
4.449
181
356
1.475
1.957
1.086
43.177
Capienza Detenuti presenti al "tollerabile"
"t
ll bil "
4
4 maggio 2009
i 2009
3.796
4.436
2.902
3.107
3.917
4.064
7.156
7.601
841
849
8.304
8.382
671
638
2.977
2.580
1.040
1.095
5.278
4.806
294
359
7.051
7.425
1.594
1.549
4.245
4 245
4.140
4 140
6.486
5.588
188
221
510
398
2.247
1.606
2.643
2.128
1.483
1.085
63.623
62.057
Tasso di sovraffollamento
ff ll
t
192%
162%
162%
158%
155%
155%
145%
145%
145%
143%
140%
139%
136%
135%
126%
122%
112%
109%
109%
100%
144%
61
Detenuti presenti al 4 maggio 2009
Differenza tra capienza regolamentare e detenuti presenti
ff
p
g
p
Elaborazioni del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia ‐ Dap
Regioni
Abruzzo Abruzzo
Basilicata Calabria Campania Emilia Romagna Friuli V.G.
Lazio Liguria Lombardia Marche Molise Piemonte Puglia Sardegna Sicilia Sicilia
Toscana Trentino A.A. Umbria Valle D'Aosta Veneto Totale 62
Capienza regolamentare
1 475
1.475
439
1.778
5.348
2.308
548
4.449
1.140
5.423
755
356
3.355
2.510
1.957
4.820
4 820
3.076
256
1.086
181
1.917
43.177
Detenuti presenti al 4 maggio 2009
1 606
1.606
638
2.580
7.425
4.436
849
5.588
1.549
8.382
1.095
398
4.806
4.064
2.128
7.601
7 601
4.140
359
1.085
221
3.107
62.057
Differenza
131
199
802
2.077
2.128
301
1.139
409
2.959
340
42
1.451
1.554
171
2.781
2 781
1.064
103
‐1
40
1.190
18.880
Detenuti presenti al 4 maggio 2009
Detenuti presenti al 4 maggio 2009
Confronto con dati del 28 aprile 2009 (6 giorni prima)
Elaborazioni del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia ‐ Dap
Regioni
Abruzzo Basilicata Calabria Campania Emilia Romagna Friuli V.G.
Lazio Liguria Lombardia
Lombardia Marche Molise Piemonte Puglia Sardegna S d
Sicilia Toscana Trentino A.A. Umbria Valle D'Aosta Veneto Totale Detenuti presenti al Detenuti presenti al 28 aprile 2009
4 maggio 2009
1.610
1.606
640
638
2.603
2.580
7.280
7.425
4.427
4.436
855
849
5.570
5.588
1.554
1.549
8 305
8 382
8.305
8.382
1.080
1.095
402
398
4.789
4.806
3.976
4.064
2.123
2.128
2 123
2 128
7.581
7.601
4.085
4.140
365
359
1.067
1.085
233
221
3.121
3.107
61.666
62.057
Differenza
‐4
‐2
‐23
145
9
‐6
18
‐5
77
15
‐4
17
88
5
20
55
‐6
18
‐12
‐14
391
63
Detenuti presenti al 4 maggio 2009
Detenuti presenti al 4 maggio 2009
Differenza tra capienza "tollerabile" e detenuti presenti
Elaborazioni del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia ‐ Dap
Regioni
Abruzzo Basilicata Calabria Campania Emilia Romagna Friuli V.G.
Lazio Liguria Lombardia
Lombardia Marche Molise Piemonte Puglia Sardegna S d
Sicilia Toscana Trentino A.A. Umbria Valle D'Aosta Veneto Totale 64
Capienza "tollerabile"
2.247
671
2.977
7.051
3.796
841
6.486
1.594
8 304
8.304
1.040
510
5.278
3.917
2.643
2 643
7.156
4.245
294
1.483
188
2.902
63.623
Detenuti presenti al 4 maggio 2009
1.606
638
2.580
7.425
4.436
849
5.588
1.549
8 382
8.382
1.095
398
4.806
4.064
2.128
2 128
7.601
4.140
359
1.085
221
3.107
62.057
Differenza
‐641
‐33
‐397
374
640
8
‐898
‐45
78
55
‐112
‐472
147
‐515
515
445
‐105
65
‐398
33
205
‐1.566
TESTIMONIANZE
Con la collaborazione
del Centro Studi di Ristretti Orizzonti
L’Italia …..”il sogno di un paese d’oro”
“No, in Algeria non ci voglio tornare”. Ha ancora un anno e mezzo da scontare,
ha solo 25 anni, ma ha un futuro molto difficile. Perché una volta terminata la pena,
uscito dal carcere, non avrà la possibilità di mettersi in regola. Niente permesso di
soggiorno, niente casa, niente lavoro e allora? In patria non vuole tornare, non vuole
mostrare ai suoi parenti a amici che ha fallito. La storia di T. è uguale a quella di
tanti altri, e lascia poche speranze di recupero. Il denaro come valore, il successo si
misura in guadagni, bella macchina, simboli di riuscita sociale. E non si può mostrare
di essere andati e tornati senza niente.
Quando T. decise di lasciare l’Algeria era poco più di un ragazzo, aveva 17 anni
e lo fece senza dirlo ai genitori: “Volevo cambiare paese, da noi vedevo gente tornata
dall’Europa e dagli Stati Uniti con auto lussuose, ragazze belle e soldi”. E’ da 5 anni
in Italia, da 2 in galera. E’ venuto nel nostro paese da solo, e non aveva niente da
fare, quindi è stato coinvolto in affari poco puliti, spaccio. E’ arrivato per nave, in Spagna, poi in Francia e da lì in Italia, dopo una settimana di viaggio. “Il sogno era l’Italia,
paese di oro”. Adesso lavora per la Cooperativa Argonauti, l’officina meccanica che
con la GTT ripara pezzi di autobus, ed ha imparato un mestiere.
Vorrei anch’io riuscire a parlare con i miei cari.
Mi sento di scrivere questa testimonianza perché, come tutte le persone detenute, anch’io ho bisogno dia vere la possibilità di parlare con i miei cari, ma siamo
in tanti in galera i cui parenti non hanno un telefono fisso in casa, e di conseguenza
non ci è consentito avere nessun contatto con loro, perché le nostre famiglie hanno
solo il telefono cellulare, con le regole attuali non è permesso chiamarle.
A dire la verità, per noi è difficile perché ci rendono la vita difficile con questi
divieti, mentre ci sono un sacco di Paesi, dalla Francia agli Stati Uniti, nei quali i detenuti possono telefonare serenamente ai propri familiari, e anche ad amici, a persone
care, senza tutte queste limitazioni.
Le lettere destinate a un Paese lontano come il mio, la Moldavia, arrivano una
volta su dieci, quindi le notizie da casa sono pochissime, io sono cinque anni che
non ho un colloquio telefonico con i miei cari perché così sono le regole, e sono regole difficili da accettare. Ma per quale ragione telefonare a un cellulare deve essere
vietato, considerato il fatto che i telefoni mobili si possono controllare quasi meglio
di quelli fissi?
E comunque oggi la tecnologia tende sempre più ad eliminare i telefoni fissi in
favore di quelli mobili, quindi credo che a questo punto si dovrebbe prenderne atto
e autorizzare le telefonate anche sui telefoni mobili, così possiamo anche noi riallacciare i rapporti con i nostri cari e ricostruire finalmente i nostri legami importanti.
65
Certo viviamo in un periodo in cui i detenuti stranieri il vostro Paese preferirebbe
cacciarli in fretta, ma intanto cambiare le norme che riguardano le telefonate dei
detenuti, che di fatto impediscono a molti di noi di avere contatto con le proprie famiglie, non costa nulla e credo non presenti nessun rischio. La possibilità di telefonare
è spesso l’unico modo che abbiamo per mantenere un legame con la vita esterna:
scontare la pena non penso debba voler dire essere privati della speranza di sentire
almeno le voci dei nostri cari.
66
La stragrande maggioranza degli extracomunitari viene
in Italia per assicurare un futuro a sè e alla propria famiglia
Gentian Allaj
Non un futuro migliore, ma un futuro. La nuova legge sull’immigrazione, la
Bossi-Fini, commentata da chi, oltre a essere straniero, si trova in carcere in Italia
e non vede speranza per il suo domani.
Io sono un marocchino immigrato in Italia, e quindi è evidente che la nuova legge
non può piacermi, ma credo di capire che la legge in questione non piaccia neppure
a parecchi italiani.
Ho letto sui giornali che molte persone appartenenti al mondo della cultura
l’hanno criticata. L’hanno fatto le Associazioni civili ed umanitarie, lo hanno fatto i
parroci perché sostengono che la coscienza cristiana si ribella. Dicono che mai sia
avvenuta nella storia della Repubblica italiana una tale presa di posizione contro un
provvedimento dello Stato. Anche i vescovi esprimono giudizi contro questa legge.
Ho letto, per esempio, quello che ha detto Monsignor Simone Statizzi, vescovo di Pistoia: “Mentre mi permetto di avanzare seri dubbi sulla validità, anche sociale, della
legge varata dal parlamento, debbo dichiarare con chiarezza che quella legge non è
conforme allo spirito del vangelo. Ho il timore fondato che essa fissi nell’animo dei
cittadini il senso pericoloso del razzismo”.
La critica di Monsignor Statizzi è anche un invito alle autorità civili a non perdere
il senso delle relazioni umane.
Quello che posso dire io è che sia io, che molti altri stranieri stiamo vivendo
questo momento come una pagina molto buia della nostra vita nel vostro paese, in
cui sembra che la voglia di capire si sia persa del tutto. C’è una criminalizzazione
dell’immigrazione che noi viviamo direttamente sulla nostra pelle, eppure la stragrande maggioranza degli extracomunitari che entrano in Italia viene a lavorare, per assicurare un futuro a sé ed alla propria famiglia. Non un futuro migliore, ma un futuro.
Perché spesso chi approda in Italia ed in Europa fugge da condizioni di vita tragiche.
Le possibilità di costruirsi una vita decente in Italia ora vengono largamente limitate, se non escluse del tutto. Il risultato immediato sarà certamente un aumento
dei clandestini, e di quelle persone che saranno rese tali. Non potendo entrare regolarmente in Italia, chi fugge, per motivi politici, religiosi, culturali, economici, entrerà
da clandestino. Con tutte le conseguenze che ne derivano. Non si può fermare per
legge la speranza.
Il permesso di soggiorno diventa una chimera, per noi stranieri.
La richiesta di lavoro si tramuta in una forte arma di ricatto nelle mani dei padroni. Già tutto il discorso relativo alle badanti in pratica è andato in quella direzione,
dal momento che se la persona “badante” che lavora in casa, viene licenziata, automaticamente perde il diritto a restare in Italia. Ha a disposizione sei mesi dopo la
scadenza del permesso di soggiorno, per trovare un nuovo lavoro, se il permesso è
scaduto, oppure sino alla scadenza dello stesso. Le persone che lavorano non hanno
67
così nessuna tutela, devono sottostare sempre e comunque al padrone (dico padrone perché ora di questo si tratta), il rischio è quello di una eccessiva sottomissione
di chi lavora ed ha legato il suo destino e la sua stessa vita a quel contratto di lavoro.
E’ vero, ora io sono in galera, ma non sono venuto in Italia per diventare delinquente.
Sono in carcere, forse era il mio destino. Ma sono una persona, e come tutti
posso sbagliare. Sono in Italia da 14 anni e ho sempre lavorato, in varie zone e città
del nord. Ho lavorato in molti settori, dall’acciaieria all’agricoltura. I primi anni iniziai
commerciando piccole partite di vestiti e borse, insomma ho fatto quello che da noi
in Marocco chiamiamo “commerciante ambulante”, ma qui in Italia chiamano “vù
cumprà” se riferito ad un maghrebino. Prima di questo arresto ero incensurato, avevo
alle spalle solo tutti questi 14 anni di lavoro onesto.
Ora speravo di poter avere un’altra opportunità, poter rifarmi una vita arricchito
anche da questa esperienza carceraria, che nonostante tutto non è stata totalmente negativa. Ho potuto frequentare dei corsi scolastici, approfondire la conoscenza
del Paese che mi ospita, ho trovato degli amici italiani. Fuori questo non era stato
possibile.
Ho potuto comprendere la mentalità italiana, anche questo fuori mi era difficile,
perché nel mondo “fuori” non ci sono veri contatti umani tra italiani e immigrati. In
carcere però le maschere cadono, mostrando le persone con il loro vero volto, e forse
questo è un bene. E’ stata un’esperienza che conterà molto per il mio futuro. Certo
rimpiango gli anni di libertà che ho perso in carcere, ma non rimpiango le speranze e
le illusioni, che ti hanno dato la forza di sopportare le difficoltà iniziali.
A questo punto, spinto da necessità “vitali” non più rinviabili, provi a prendere
qualche “scorciatoia”, con la convinzione di poterla usare solo per il tempo strettamente necessario. Poi, pian piano, ti accorgi che quando hai molti soldi,la gente ti
tratta diversamente, con rispetto e gentilezza, mentre non ti rendi affatto conto dei
rischi ai quali ti esponi per averli.
Cominci a fare una vita molto migliore, rispetto a quella che hai lasciato nel tuo
paese…finchè arriva lo “stop”, improvviso, che ti fa perdere di colpo tutto quello che
avevi raggiunto: spesso è proprio la mancanza di un corretto “orientamento” nella
società italiana che ti porta a fare gli errori più grossi.
I soldi, che tu li abbia guadagnati in modo legale o in modo illegale, se ne vanno
con le parcelle degli avvocati e nelle necessità personali di mantenimento in carcere;
inoltre ti trovi a dover superare un vero blocco emotivo, per riuscire a dare la brutta
notizia dell’arresto ai familiari.
Questa notizia orribile da comunicare ha portato tanta sofferenza a me, ed alla
mia famiglia, che si è meravigliata quando ha saputo che mi trovavo in carcere. Quello che mi manca di più oggi è quell’incitamento, e quell’affetto che mia madre mi dava ogni giorno.
La vita e il successo di “facciata”, che mi ero costruito, sono caduti di colpo, e
così mi sono trovato costretto a chiedere aiuto materiale e sostegno affettivo alla
mia famiglia, e non è stato facile.
Ora servirebbero almeno visti d’ingresso facilitati per i familiari residenti all’estero, per consentire ogni tanto dei colloqui. Ma venirmi a trovare costa tantissimo e i
miei non se lo possono permettere. Inoltre il consolato difficilmente concede un visto
per motivi legati alla visita di un familiare detenuto. Lo scandalo dei visti venduti a
68
caro prezzo, successo in Albania, penso che lo ricordino tutti, immaginarsi se qualcuno lì si preoccupa dei visti per i parenti di una persona in carcere.
I rapporti affettivi rappresentano uno degli elementi più importanti nella vita di
ogni persona. Purtroppo, con l’ingresso in carcere, avvenimento già traumatico di
per sé, questi vengono bruscamente interrotti. Dopo i primi mesi di carcere, vissuti
nell’illusione che il problema si risolva in fretta, le sentenze diventano definitive e ti
trovi di fronte ad una pesante realtà. Di solito, dopo un paio di anni di detenzione,
i rapporti affettivi si allentano fino a rompersi del tutto. Del resto non si possono
costringere le mogli, le fidanzate e i figli a subire le inevitabili ricadute dei guai nei
quali ti sei cacciato, e tanto meno si può farlo se i tuoi parenti hanno già per conto
loro una vita dura e senza grandi aspettative.
69
Il miraggio di essere un uomo libero
Abdelhadi El Jyad
Poi il fallimento di un progetto migratorio pieno di illusioni, il carcere, gli affetti
che per uno straniero cessano di esistere.
Quando decisi di lasciare la mia famiglia in Albania per venire in Italia, avevo le
idee chiare e tanto entusiasmo, era quello il mio piccolo bagaglio. Una realtà piena
di tanti desideri e molti sogni. Non pesavano niente ed erano facili da trasportare,
stavano tutti nella mia testa: un lavoro, sistemarmi in Italia, aiutare in seguito i miei
familiari, erano questi i miei sogni.
Ho lasciato la dolcezza di mia madre, sempre premurosa con me, l’unico figlio,
amato alla follia da una donna che ha sempre lavorato onestamente per non farmi
mancare mai nulla, e l’ho lasciata per un sogno, per un futuro incerto.
Solo ora comprendo quanto siano importanti gli affetti dei miei familiari. Ora
capisco perché sono stati necessari quei rimproveri che mia madre, arrabbiandosi,
ogni giorno mi faceva. Ho nostalgia di quando mi ripeteva: “Ma come te lo devo dire
che prima di pensare a giocare a pallone devi pensare allo studio?”.
Io giocavo a calcio in una squadra della mia città, Kavaja al centro dell’Albania e
appena potevo, anche per strada, con gli amici del quartiere organizzavamo partitelle
cinque contro cinque. Si giocava spesso fino a tarda sera. Mia madre, anche se era
felice di vedermi così spensierato, voleva per me un futuro migliore. Erano i miei nonni che badavano a me quando lei andava a lavorare in una fabbrica di dolciumi. Da
quel punto di vista ero viziato. Mia madre ogni giorno portava a casa torte e biscotti
di tutti i tipi, che in quel tempo in Albania erano considerati un vero lusso.
Il mio secondo padre, un uomo dal carattere burbero e autoritario, aveva sempre
l’ultima parola quando chiedevo di andare con i miei amici a giocare. Con fatica, alla
fine comunque l’avevo sempre vinta io. Riuscivo a fare tutto quello che volevo, anche
se sapevo che avrei poi preso un pò di ceffoni.
Per me partire, venire in Italia era molto difficile. Avevo poco più di 18 anni,
ma devo dire che poi mia madre, a malincuore naturalmente, mi ha incoraggiato in
questo mio desiderio, per il mio bene, con la speranza che io potessi avere un futuro
libero e fortunato.
Tante sere alla televisione riuscivo a vedere i canali italiani, le partite di calcio
del campionato di serie A e quelle mondiali. Nei telegiornali e in alcuni programmi
vedevo la vita felice che si svolgeva nelle grandi città italiane.
Spettacolo e shopping, vetrine illuminate e tanta bella gente felice, tanto sport
e tanta democrazia, quella che al nostro paese mancava. Tutto questo mi rendeva
curioso di provare a raggiungere questo paese così ordinato. E poi mi attirava quello che sentivo dire da altri miei connazionali che vivevano già in Italia, lavoravano
onestamente, avevano automobili nuove ed erano ben vestiti, avevano la loro casa,
anche se l’affitto era considerato molto caro.
Arrivai in Italia nel ’92 su un gommone, ed ho trovato moltissime difficoltà, an70
che perché non avevo nessuno che mi poteva aiutare, ho rivisto tante persone che
conoscevo in Albania, ma nessuno di loro mi ha chiesto se avevo bisogno d’aiuto.
In Albania eravamo tutti uniti, non c’era differenza tra di noi, ma qui in Italia quasi
fingevano di non conoscerti.
Allora capii che in Italia mi dovevo arrangiare da solo.
Ognuno pensava per se stesso.
Ho lavorato per due anni in una ditta di calzature nel bresciano, prendevo un
milione e duecentomila al mese. Ma se per un italiano ad esempio l’affitto di due
camere era di cinque-seicentomilalire, per noi stranieri spesso era il doppio, il triplo,
e dovevi dire grazie quando riuscivi a trovare un alloggio, qualsiasi fossero le sue
condizioni e il suo prezzo. Ebbi alcune difficoltà. Dal quel momento quella che doveva
essere un’avventura si è trasformata in una disavventura, un disastro, ed oggi mi
trovo qui a raccontare da dentro un carcere.
La vita in Italia, il carcere,la lontananza,la perdita degli affetti.
Il fatto è che, arrivando in un paese di cui non conosci le leggi, né la lingua, gli
usi e le abitudini, ti trovi facilmente in balia di quelle istituzioni che, dal tuo punto
di vista, hanno prassi e criteri di valutazione “misteriosi”. Per fare qualsiasi cosa ci
vogliono permessi, certificati, carte sopra carte sotto... quando tu al tuo paese eri
abituato a farla e basta. Così l’esperienza umana che ho fatto, molto più ricca rispetto a quello che avevo vissuto “fuori” nel vostro paese.
Purtroppo ho in sentenza l’espulsione ed anche se il mio percorso carcerario è
dei migliori, ed ho fatto grandi progressi dal punto di vista scolastico e di comprensione del paese in cui mi trovo, dovrò essere espulso. Questo non lo ritengo giusto,
perché tutti gli uomini possono commettere degli errori e dovrebbero avere un’altra
possibilità. Già ora stanno diradandosi i benefici carcerari e penso che in futuro sarà
sempre più difficile ottenerli, e questa è un’altra discriminazione di fatto, un disagio
che si aggiunge a tutti gli altri.
Se penso a tutti gli anni di lavoro onesto, con regolare permesso di soggiorno,
che sono andati così vanificati, mi sento male.
Ora gli extracomunitari detenuti con una pena residua inferiore ai due anni saranno prelevati dal carcere ed espulsi verso i paesi d’origine. Molti di noi vedono questa
come un’opportunità per uscire prima dal carcere, ma forse non tutti sono coscienti
di cosa li attende al paese al loro ritorno. Tornare così per noi è un fallimento, una
sconfitta.
Ho forti dubbi che un sistema così duro possa funzionare, d’altronde si è già
visto in Spagna come la linea dura applicata da Josè Maria Aznar, che chiude le
frontiere per i ricongiungimenti familiari, rendendo il visto d’ingresso più difficile, ha
avuto come effetto quello di dare più lavoro ai trafficanti di uomini.
Altro punto molto dolente della legge sono le impronte digitali prese obbligatoriamente a tutti gli extracomunitari che entreranno in Italia. Quando si parla di schedature di massa è sempre pericoloso.
In Marocco esiste da più di 30 anni, non solo però nei confronti degli immigrati
ma di tutti, marocchini altolocati compresi. Appena compi 18 anni e fai la prima carta
d’identità, con i tuoi dati anagrafici vengono rilevate anche le impronte digitali. Non
sto a dire se sia giusto o no, semplicemente che se viene fatto solo ed esclusivamente per gli extracomunitari è una discriminazione. Come lo è quando una categoria
71
di persone viene sottoposta ad un particolare trattamento restrittivo, come lo era
segnare gli ebrei con una stella di David al polso. Ora qualcuno sta proponendo di
prendere le impronte anche a tutti gli italiani, vedremo che succede.
Anche nel mondo dello sport, e del calcio in particolare, si stanno facendo sentire gli effetti della legge. Prima ancora di costringere i calciatori extracomunitari del
nostro campionato a farsi prendere le impronte digitali, è stato sancito il blocco del
tesseramento per i giocatori non comunitari. Così ha deciso il Consiglio federale della
Federazione Italiana Gioco Calcio, sino al 31 Agosto le società di serie A e B hanno
potuto mettere sotto contratto un nuovo giocatore extracomunitario, oltre quelli già
presenti. Dopo quella data il blocco è totale. Le frontiere saranno chiuse. Il Coni, tra
l’altro, deciderà anno per anno il tetto massimo di atleti extracomunitari, e questo è
riferito a tutti gli sport, che si “adeguano” così alla Bossi-Fini.
Non credo che l’Italia possa pensare però davvero di fare a meno dell’apporto
lavorativo degli stranieri, e di rendere quelli che già sono sul territorio delle “macchine” per lavorare e basta. Il futuro dell’umanità è multicentrico e multiculturale, non è
chiudendosi che si riuscirà a risolvere i problemi.
72
Navi della speranza o navi delle illusioni?
Gentian Allaj
Gli amici mi chiamano Genti, sono arrivato in Italia nove anni fa,avevo 17 anni
e tanta voglia di vivere una nuova vita,che potesse darmi tante soddisfazioni:un
lavoro,delle amicizie,l’amore.
L’intenzione era di costruire una famiglia vera sposandomi una ragazza italiana.
Il mio paese natale è molto povero,popolato da persone semplici che si accontentano di poco,che sanno offrire il loro calore e la loro amicizia davanti ad un piatto
caldo di polenta e ad un buon bicchiere di vino rosso.
Nelle lunghe sere d’inverno, gli anziani del paese raccontavano le loro
storie,facendoci immergere nel passato con il tono dolce della cadenza delle loro
parole.
Le rughe profonde sul loro volto rivelavano come il tempo è davvero l’unico testimone di una vita piena di sacrifici.
Proprio questa estrema povertà ha fatto scattare dentro di me la voglia di scoprire cosa si nascondesse dietro le colline della mia terra.
Vivendo in un paese povero erano sogni di luci e di colori.
Le poche immagini che la televisione mi offriva del mondo facevano crescere la
mia voglia di conoscere tutte quelle città piene di luci,di vetrine
e di persone.
Sono figlio unico,non ho potuto studiare,perché lavoravo per cercare di aiutare
la mia famiglia,ma il desiderio di inseguire il successo in Italia mi ha fatto scegliere
di partire con altri mille conterranei su una nave ribattezzata dai telegiornali come la
nave della speranza.
La fortuna mi ha aiutato, molto presto ho trovato un lavoro,e finalmente sono
stato in grado di spedire parte dello stipendio a mia madre che riuscì in poco tempo a
comprare la lavatrice,il televisore,le pentole nuove,un maglione di lana per mio padre
e uno scialle per la nonna.
I primi anni li ho trascorsi lavorando molto e soprattutto con la responsabilità
di continuare ad aiutare la mia famiglia, lasciando da parte le serate in discoteca.
Per una questione di lingua, frequentavo soprattutto i miei paesani.
No tutti lavoravano,alcuni vivevano di espedienti commettendo furti ed altri piccoli reati.
Pian piano mi venni a trovare in quel giro.
Non potevo immaginare che improvvisamente la mia vita e la mia storia sarebbero finite nei tribunali e che mi sarebbe toccato il tormentato destino di vivere per
alcuni anni in carcere.
Oggi a causa dei miei errori anche la mia famiglia soffre molto.
Il carcere mi ha insegnato che non esiste nulla per cui valga la pena perdere la
libertà,tanto meno i soldi facili.
La possibilità di potersi innamorare, di camminare tra la gente,di poter aiutare e
73
rendere felici le persone che più amo, non ha prezzo.
Ora posso solo sognare di poterlo fare ancora quando finalmente uscirò.
Adesso ho smesso di fantasticare come facevo prima.
Desidero con tutte le mie forze poter lavorare onestamente ed aiutare così la
mia famiglia.
Non sogno più solo una ragazza italiana per le mie avventure amorose,ma voglio
scoprire se sono abbastanza maturato come uomo,da poter incontrare una donna
che possa capire il mio animo ,e che condivida con me i sacrifici per costruire un
giorno la nostra famiglia.
Mi aspetta un futuro certo pieno di sacrifici ed è un cammino di rinunce alle cose
superflue alle quali mi ero abituato in precedenza ,ma sono determinato a percorrerlo con coraggio e volontà.
In carcere ho avuto anche la fortuna di avvicinarmi alla fede cristiana e ai suoi
insegnamenti.
Certo sono consapevole che non riuscirò a metterli tutti in pratica, ma credo che
facendomi guidare dai suoi principi morali,forse potrò diventare un uomo saggio e capace di non commettere più errori stupidi come quelli che mi hanno fatto conoscere
l’amarezza e l’umiliazione della vita da detenuto.
Ora capisco ancora meglio il significato dei consigli e delle storie raccontate
dagli uomini anziani,dai vecchi del mio piccolo paese d’Albania ,che cosa veramente
esprimono tutte quelle rughe che scavano il volto di uomini e donne ,rendendoli forse
meno piacevoli nell’aspetto esteriore,ma belli e grandi nella loro dignità,nel rispetto
ed amore per la vita dedicata al lavoro onesto. Anche se questo lavoro gli rendeva
solo 50 mila lire al mese.
74
La paura di tornare a casa a mani vuote.
Karim Ajili
Mi chiamo Karim Ajili,sono tunisino.
Ho abitato a Tunisi con la mia famiglia sino all’età di venti anni.
Ho deciso di venire in Italia nel 1996 per cercare di migliorare la mia condizione
di vita.
Dalla morte di mio padre,anche se ero molto giovane,sentivo la responsabilità
di tutta la famiglia.
Volevo fare qualche cosa.
Ero il figlio maschio più grande della famiglia ,toccava a me occuparmi delle mie
sorelle,di mia madre.
Avevo aperto un negozio in cui vendevo cassette video,ma non bastava per farci
vivere,quello che guadagnavo non era sufficiente per tutta la famiglia,anche se ero
stato costretto ad abbandonare gli studi di scuola superiore per lavorare.
Così decisi di partire per l’Italia.
Non sempre però quello che si trova, assomiglia a ciò che si pensava di trovare.
E’ facile capire che molti degli immigrati extracomunitari arrivano in Italia nella
speranza di migliorare le loro condizioni sociali,economiche e di stile di vita in generale.
Per raggiungere questo obiettivo ,ci vuole molta fatica.
La speranza è quella di trovare la strada giusta che ti offre un futuro.
Moltissimi di noi che poi siamo finiti in carcere,volevamo solo lavorare per poter
tornare alle nostre case ,alle nostre famiglie con qualcosa in mano.
All’inizio si spera sempre di incontrare qualcuno che ti possa aiutare.
A me avevano raccontato che in Italia ci sono molte possibilità di lavorare e di
guadagnare bene.
Le uniche persone che conoscevo però erano clandestini,qualcuno lavorava in
nero,altri semplicemente si arrangiavano come potevano ,e qualcuno era già arrivato
a spacciare.
Non si può avere sempre quel che si desidera,e quando sei in un paese di cui
non conosci niente,nemmeno la lingua,la situazione diventa molto difficile,a volte
insostenibile.
Se non hai parenti o amici la vita si complica e la strada diventa più stretta
Ed è molto diversa da quello che tu pensavi.
In quel momento ti senti terribilmente solo,senza nessuno che ti possa dare
una mano.
La forza la trovi nel fatto che sei ancora legato alla famiglia e quel ritmo di vita
che non c’è più,agli affetti lasciati .
Il distacco dalla famiglia ti crea nuovi problemi che non sei abituato ad affrontare
senza il suo aiuto,anche nelle piccole cose.
Ti accorgi subito di molte cose a cui tu prima non davi importanza.
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Per esempio prima c’era qualcuno che ti preparava da mangiare,ti lavava i
vestiti,si preoccupava per te quando facevi tardi.
La presenza di una madre è molto preziosa, non si può cambiarla con nessuna
cosa al mondo.
Ognuno di noi spera di affrontare l’esperienza dell’immigrazione con meno problemi possibile, e questo dipende certo anche dalla fortuna,ma soprattutto dalle
persone che incontri.
A me personalmente è rimasta una foto davanti ai miei occhi: quella della mia
famiglia.
L’unica certezza che ho è la presenza di Dio,nelle difficoltà spesso mi sono
rivolto a Lui con la preghiera.
Passano i primi mesi e ti rendi conto di avere imparato la lingua,magari non
perfettamente ,ma quello che sai ti aiuta a comunicare con le persone,e non solo
con i tuoi paesani.
E’ essenziale per essere autonomi e sapere cosa pensano di noi,decidere da
solo dove mettere i piedi e dove andare.
Per molti tornare poveri come quando si è partiti è una vergogna.
Le decisioni che prendi nel primo periodo sono importantissime,perché determinano tutto il resto.
Tu sai che ci sono 2 strade.
C’è una strada corta, ma fuori dalla legge,che ti fa guadagnare molti soldi e una
vita comoda,ma per molti finisce male e li porta dietro le sbarre a scontare anni e
anni di carcere.
La notizia che sei finito in carcere ferisce le famiglie lontane e fa pensare che il
ritorno da loro si allontana sempre più.
Diventa difficile realizzare il sogno che avevi, e in quel momento la tua vita cambia, i pensieri prendono solo una via, devi affrontare de difficoltà della scelta che hai
fatto e sono difficoltà immense.
Per quelli che hanno scelto una strada normale dentro i limiti della legge,la vita è
certamente faticosa ,con uno stipendio non altissimo come credevamo ,ma appena
sufficiente per vivere una vita serena.
Se pensi di mettere da parte una somma di denaro ,ti ci vuole molto tempo,ma
sicuramente sei certo di godere della libertà.
Questo non è poco per costruire un futuro,sapere di non far soffrire le persone
che ti amano,poterle aiutare anche se limitatamente.
Noi stranieri in generale abbiamo il problema che,se superiamo il primo anno di
permanenza lontano dal paese d’origine ,poi troviamo sempre più difficile pensare
di tornare di nuovo senza aver realizzato qualcosa ma che ci permetta di dedicarci
ad un progetto in patria,non per forza milionario,ma che dia la possibilità di andare
avanti con dignità r non chiedere aiuto a nessuno.
Per molti rientrare al proprio paese con le mani vuote è un fallimento,una vergogna. Il sogno di presentarsi con macchine di lusso e tasche piene di soldi svanisce
ben presto.
Tutto ciò prefigura una trappola.
Non si può accettare la delusione e la rabbia di essere additati in patria come
degli sconfitti, dei falliti.
In questo caso si pensa solo a recuperare in fretta il tempo perso,e a scegliere
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un modo, per forza illegale, con cui facilmente riguadagnare dei soldi.
Questo è quello che pensiamo noi all’idea di tornare nel nostro paese a mani
vuote,mentre invece per la nostra famiglia è che torniamo a casa e basta.
Alla fine sono tanti gli stranieri che finiscono inevitabilmente in carcere, e molti
anche con una pena lunga.
Capita spesso di perdere nel frattempo le persone più care senza poterle vedere
più, e questa è una grande tristezza,ferisce nel profondo e ti fa pensare che la vita
non ti dà tanto spesso quel che desideri,a volte anzi può anche ingannarti e toglierti
il gusto di continuare a vivere.
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Carcere d’esportazione
Danko Vukomanovic
Va bene mandarci a casa a scontare la pena,ma non si deve dimenticare che
le condizioni in cui si trovano le carceri in Albania aggiungono sofferenza a sofferenza.
E’ da un paio d’anni che si parla di possibilità che l’Italia costruisca un carcere in
Albania per accogliere tutti i cittadini albanesi detenuti in Italia. Ne ha parlato anche il
Ministro della Giustizia in visita a Tirana. Sembra però che questa opportunità sollevi
alcune difficoltà da parte delle autorità albanesi. Personalmente, come albanese, mi
trovo d’accordo ed anche molti miei paesani la pensano come me. Tornare a casa
mia, vicino ai miei familiari, e finalmente poterli riabbracciare dopo molti anni non
può che farmi piacere.
Ma il problema primario è rappresentato dalla povertà che tuttora, affligge il mio
paese, quindi non si esaurisce tutto rimandandoci a casa a scontare la pena.
Quello che noi vorremmo è che le autorità italiane e quelle albanesi si sedessero
intorno ad un tavolo e, oltre che a parlare del problema della sicurezza, certamente
importante, iniziassero anche a parlare di lavoro, e di come portare in Albania dei
corsi di formazione professionale. L’Albania, se aiutata, certamente saprà nel giro
di qualche decennio entrare a pieno titolo in Europa, e questo lo desideriamo veramente.
Quindi, se per parecchi di noi va bene la soluzione di tornare a casa a scontare
la propria pena, non si deve dimenticare che il motivo che ci ha spinti a lasciare la
nostra terra è la miseria, il desiderio di una vita dignitosa. Se riuscissimo ad avere
un’opportunità a casa nostra, noi saremo i primi ad esserne felici e a non ritentare
la strada dell’emigrazione.
Attualmente però, a fronte di parecchi albanesi che chiedono di poter scontare
la pena in patria, la procedura oltre ad essere complicata è molto lunga, e raramente
tale richiesta viene accolta.
Non ci volete ritrovare di nuovo in Italia coma clandestini?
Aiutateci!
Secondo me è una cosa molto importante, quando si è in carcere, trovarsi in un
luogo dove si parla la nostra stessa lingua, dove ci sono le stesse abitudini e tradizioni. Potrebbe aiutarci a soffrire di meno, anche perché essere vicino ai tuoi familiari
ti porta a sentire di meno il peso della situazione in cui ti trovi.
Bisogna però tener presenti alcune cose:
Le condizioni di vita nelle carceri albanesi sono pessime.
Mancano del tutto le attività trattamentali
Non esiste alcun percorso di rieducazione
Le condizioni in cui si trovano le carceri in Albania aggiungono sofferenze alle
sofferenze. Ti sembra di trovarti in gabbie di animali: sporche e senza servizi igienici.
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Per quanto riguarda la rieducazione, non se ne parla proprio: non c’è dialogo tra
agenti e detenuti, gli assistenti sociali e gli educatori non esistono, e non si riceve
nessun aiuto, anche semplicemente morale, che ti conduca a riflettere sul reato che
hai commesso.
Ma se non sussistono questi presupposti minimi di “dignità” nelle carceri, la soluzione di scontare la pena in patria potrebbe essere inutile. Non si sarebbe raggiunto altro risultato che quello di portare temporaneamente fuori dal territorio italiano
persone che si sono mosse sulla spinta di un disagio o per non aver avuto possibilità
di scelta, e che difficilmente accetterebbero di restare a vita nel disagio dal quale
sono fuggite.
Il carcere può essere un male necessario, ma per lo meno deve servire a qualcosa e non essere solo tempo passato “in branda”. Per esempio a Padova, dove sono
ora, sono stati istituiti corsi scolastici di alfabetizzazione, scuole elementari, medie
inferiori e superiori, corsi professionali che dovrebbero servire come “trampolino di
lancio” per il reinserimento nel mondo del lavoro. Sono stati aperti anche dei capannoni, dove alcuni detenuti svolgono delle attività di assemblaggio, saldature, piccole
costruzioni meccaniche. Tutto questo non esiste nelle carceri albanesi. Per questo
io penso che sia necessario lavorare per coinvolgere la società esterna, sia italiana
che albanese, a farsi carico del fatto che bisogna reintegrare nella collettività anche
chi esce dal carcere in Albania.
Tutto quello che abbiamo imparato qui altrimenti sarebbe inutile, perché nelle
carceri in Albania in quelle condizioni non avremmo certo l’opportunità di imparare un
lavoro o di mettere a frutto quello che abbiamo imparato in Italia. Si tornerebbe come
negli anni passati, la storia riprenderebbe dal principio e voi italiani ci ritrovereste di
nuovo in Italia come clandestini senza lavoro, quindi con pochissime alternative al
delinquere.
Quando vedremo che si sta cercando di porre rimedio alla drammatica situazione del reinserimento sociale e del lavoro nelle carceri dell’Albania, allora si sarà
compiuto il primo passo nella direzione giusta. Non basta costruire carceri per risolvere problemi sociali.
Un delinquente fuori dal comune :storia di Muhamed.
Durante numerosi trasferimenti per giustizia ho conosciuto moltissimi miei paesani
provenienti da tutte le parti della ex “Jugoslavia”. Il volto che non dimenticherò mai è di
un uomo di nome Muhamed. Veniva da Mostar, città tristemente nota per la distruzione
del ponte, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità, che aveva dato il nome alla
città stessa, perché in lingua slava la parola “mostar” significa guardiano del ponte.
Passeggiava da solo, era magrissimo, aveva lo sguardo perduto ed impaurito,
diffidente. Gli altri ogni tanto gli rivolgevano qualche parola ironizzando, prendendolo
in giro. Aveva una cinquantina di anni, ma le rughe e la barba bianca erano di un
settantenne. Qualcosa mi diceva che dovevo avvicinarlo e cercare di sfondare la
sua fortezza, costruita per difendersi dagli altri, ma che contemporaneamente era la
sua personale prigione. Appena mi accostai sentii che aveva un altro sistema difensivo, era l’odore insopportabile di un uomo che non si lavava da settimane. Il primo
scambio di parole mi fece capire che non era un delinquente, aveva un linguaggio di
una persona colta e non amava vantare imprese malavitose di soldi fatti in fretta, di
macchine e gioielli e donne.
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Mi disse che era insegnante in un istituto tecnico superiore a Mostar, e che
all’inizio della guerra aveva portato in un posto sicuro sua moglie e i suoi due figli.
Lui era rimasto ancora un paio di mesi a Mostar, poi chissà come e perché si era
ritrovato a Trieste senza una lira in tasca, senza conoscere una parola d’italiano.
Disse che aveva girovagato per giorni, sporco, affamato, sbandato, finché era stato
avvicinato da un paesano che gli aveva fatto la proposta di andare con lui a prendere
lo stereo della macchina parcheggiata lì vicino alla stazione e venderlo per aver “soldi
da mangiare”. Lui, nella sua ingenuità, era convinto che la macchina e lo stereo fossero del suo “nuovo amico” che voleva aiutarlo. L’ “amico” di Muhamed era invece
convinto di aver trovato uno che gli facesse da “palo” mentre lui rubava. Il doppio errore di valutazione ebbe conseguenze catastrofiche per Muhamed. Durante la prima
azione scatto l’antifurto, e il suo “amico” si mise a correre via e sparì in gran fretta.
Muhamed, non capendo nulla, rimase fermo, ma, quando il guardiano del parcheggio
l’afferrò cercando di trattenerlo, nel tentativo di svincolarsi gli diede una spinta e il
guardiano, scivolando sull’asfalto bagnato, si procurò una distorsione della caviglia.
Nel frattempo arrivò la polizia e Muhamed, ex insegnante della ex Jugoslavia, finì in
carcere. Con il solito “avvocato” d’ufficio, non avendo nessuna esperienza giuridica,
con l’interprete che traduceva solo le domande rivoltegli dal giudice, fu condannato
alla pena di anni quattro mesi sei di reclusione per concorso in rapina, lesioni personali e resistenza a pubblico ufficiale”. Se avesse saputo e potuto raccontare ai
giudici tutta la storia, probabilmente sarebbe stato rilasciato con sospensione condizionale.
Dopo aver sentito che la sua fortezza si era aperta, ho deciso di rivolgergli la
domanda che riguardava il suo odore. La risposta è stata forse più imbarazzante
della sua vicenda giuridica. Mi disse di non aver fatto la doccia da quando era entrato in carcere (un paio di mesi prima) poiché temeva di essere sodomizzato, cioè
gli altri vedendo un uomo perduto l’avevano convinto, per scherzo (bello scherzo),
che il “sesso di gruppo” rappresentasse una specie di “battesimo carcerario”. E lui,
richiamando alla memoria le scene viste nei film americani girati ad Alcatraz, si era
convinto della storia. Il giorno dopo partii per Milano e lui rimase a Trieste. Quando
sono ritornato ho saputo che l’hanno trasferito a Torino: non ho potuto verificare se
sono riuscito a convincerlo a farsi la doccia.
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Per non perdere l’amore e la speranza
Gentian Allaj
Conquistare l’affetto di una ragazza italiana non è facile per un albanese ma se
poi lui finisce in carcere salvare il rapporto è quasi impossibile.
In questo momento mi viene in mente un ricordo molto triste: la separazione da
Lisa, la mia ragazza. Il motivo per cui ci separammo fu il mio arresto.
Il giorno che ci siamo conosciuti, ero andato in un paesino vicino a Vicenza a
incontrare un amico. Girando con lui, ci trovammo davanti a due ragazze che erano
ferme con la loro macchina in un parcheggio. Ci fermammo davanti a loro, cominciammo a scherzare insieme.
Alla fine decidemmo di scambiarci i numeri di telefono, riproponendoci di incontrarci di nuovo ed uscire insieme a divertirci. La sera stessa telefonai a una delle due
per invitarla fuori, e lei accettò.
Già dal primo momento non mi sembrava come le altre volte che incontravo una
ragazza. Di solito finiva tutto quasi subito, questa volta sentivo che per me sarebbe
stata una storia molto importante.
Da quel giorno cominciammo a incontrarci frequentemente, io due volte alla settimana partivo da Brescia e andavo a trovarla a Noventa Vicentina, lei era accompagnata sempre da suo fratello, perché i suoi genitori, anche se non era una ragazzina,
non la facevano uscire con me da sola.
La nostra infatti è stata anche una storia molto difficile, da quando la sua famiglia ha saputo che lei si era innamorata di un albanese.
A Lisa per fortuna questa cosa non interessava, era disposta a fare tutto per
me. Ogni settimana telefonavamo insieme a casa mia per parlare con la mia mamma, anche lei era molto felice per me, perché avevo trovato la ragazza della mia vita.
Abbiamo passato giorni belli insieme, però mi rendevo conto che avrei rovinato
tutto prima o dopo con il “lavoro” che facevo, vivevo infatti di espedienti e lei non ne
sapeva niente, le avevo detto che ero impiegato in un calzaturificio. Due anni dopo
l’inizio della nostra storia, fui arrestato.
Da quel momento tutto è cambiato, io sono finito in carcere a Gorizia, e Lisa è
andata a stare a casa di una sua amica a Padova, perché i suoi non le permettevano
di venirmi a trovare. Lei invece a Gorizia veniva tutte le settimane, perché eravamo
ancora molto innamorati.
Tutto andava ancora abbastanza bene, ogni volta che lei veniva si parlava sempre del nostro futuro, anche se eravamo così separati dal carcere, e questo futuro lo
vedevamo sempre più difficile.
Per sei mesi venne a trovarmi in carcere. Poi un giorno mi disse che voleva tornare a casa, nella sua città, dai genitori, e che non sarebbe più venuta a colloquio….A
quel punto mi venne un tuffo al cuore. Non capivo niente di ciò che mi diceva, ho
chiuso gli occhi, volevo piangere, urlare. Ma non ci riuscivo.
Il pensiero correva, andava lontano, mi venivano in mente i ricordi della nostra
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storia che durava da tanto tempo, ripensavo a quando scorgerla da lontano mi faceva
sentire felice.
Felice come lo può essere un uomo, straniero, lontano dal suo paese, che fatica
un sacco per conquistare la donna che ama. Non mi rendevo conto che stavo per
perdere tutto. Non sarebbe più venuta a trovarmi. Non riuscivo più a parlare, avevo
un nodo in gola e mi sentivo soffocare.
Avevo sempre saputo che prima o poi sarei finito in carcere e avrei perso Lisa.
L’ascoltavo mentre lei, con tanti giri di parole, cercava di dare una ragione logica
alla nostra futura separazione. Percepivo il suo stato d’animo, quel malcontento che
non voleva rivelare con le parole, ma anche il tremolio delle sue labbra e il desiderio
di un bacio, sempre represso per il luogo in cui ci trovavamo: la sala di colloquio in
carcere.
Capivo perfettamente il suo stato d’animo, perché negli ultimi tempi prima
dell’arresto già sapevo che alla fine si sarebbe rovinato tutto, mi rendevo conto che,
con quello che facevo, prima o dopo sarei finito in carcere e avrei perso Lisa e il suo
tenero amore. Se già era stato difficile per lei affrontare l’ostilità dei suoi nei miei
confronti, immaginarsi come avrebbe potuto far accettare il fatto che ero finito in
galera.
Non poteva aspettare così tanto tempo, perché Lisa ha la sua vita da vivere. E’
giusto che non debba patire lei per le mie colpe.
Continuavo a guardarla in silenzio, desideravo fermare il tempo.
Quello che accadeva era crudele per il mio cuore. Non riuscivo a trovare le parole
giuste per dire addio alla donna alla quale volevo bene da tanto, ma che non avevo
saputo tenere con me.
Ancora oggi, Dio solo sa quanto desideri per un solo attimo sfiorare le sue mani
e entrare nei suoi pensieri.
Come ho potuto non capire allora che era lei che m’interessava, come ho potuto non capire che tutto il resto non aveva senso senza di lei? Ora devo accettare
il supplizio del silenzio per rispettare la sua libertà, le scelte che lei ha fatto. Si è
allontanata da me. Con quale diritto potevo del resto invadere e stravolgere la vita di
Lisa, dopo che avevo tradito la sua fiducia?
Quando smise di venire a trovarmi, sentii molto la sua assenza. Non volevo
sapere se avesse trovato un altro uomo, tutto ciò non riguardava più me. lei forse
avrebbe potuto anche non abbandonarmi, ma purtroppo era andata così.
Ora vorrei aprire le finestre della mia vita per respirare un’aria nuova, è da molto
tempo che non lo faccio, non posso farlo perché le quattro mura intorno a me non me
lo permettono. Vorrei anche riuscire a dimenticarla ma non ci riesco, il mio amore per
lei resiste ancora oggi nonostante tutto, nonostante il carcere, ma certo non posso
consolarmi con i ricordi o tenendo “imprigionata” nella mia mente la sua voce.
Adesso sono qui in carcere, penso che tra un paio d’anni potrò uscire e chissà
se la vita mi riserva come sorpresa il dono che per me sarebbe il più grande: riabbracciare Lisa. Con Lisa ci siamo detti addio, ma mi piacerebbe tanto che quell’addio
diventasse un arrivederci.
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Bibliografia
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2 Massetti (1996) P., ATTI IX CONSENSUS CONFERENCE SULLA IMMIGRAZIONE - VII
CONGRESSO NAZIONALE SIMM, Palermo, 27 – 29 aprile 2006
3 Thomas W., Gli immigrati e l’America. Tra il vecchio mondo e il nuovo (1921), ed.it.
a cura di Raffaele Rauty (2000), Roma, Donzelli
4 Thomas W., cit.
5 Clemmer D., The Prison Community, Christopher House, Boston
6 Goffman E. La vita quotidiana come rappresentazione, 1969, Il Mulino, Bologna
7 Goffman E. (2001), Asylums. “Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e
della violenza, Torino, Edizioni di Comunità” (ed. or. 1961)
8 M. Foucault, Sorvegliare e punire: la nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976
9 Semi A., Tecnica del colloquio,Cortina Raffaello, 1985
10Hinshelwood R., Cosa accade nei gruppi, Cortina, Milano, 1989
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